Quando la Cina dice “ricordare la storia” della Seconda Guerra Mondiale, sta invocando vendetta?_di Fred Gao

Quando la Cina dice “ricordare la storia” della Seconda Guerra Mondiale, sta invocando vendetta?
Cosa mi hanno insegnato i musei in Giappone, Cina e America sulla psicologia della memoria di guerra
Fred Gao11 agosto |
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Domenica scorsa ho visto “Dead To Rights”, un film sul massacro di Nanchino del 1937 che mi ha spinto a riconsiderare il ruolo della memoria storica nelle relazioni sino-giapponesi. Il film racconta il massacro sistematico di civili e l’esecuzione di prigionieri di guerra dopo la presa di Nanchino da parte dell’esercito giapponese nel 1937, nonché la storia di un fotografo cinese che ha rischiato la vita per preservare le prove fotografiche di queste atrocità.
Nel complesso, si tratta di un film di qualità, soprattutto considerando i risultati complessivi al botteghino. Il regista evita due insidie comuni: non trasformare un argomento serio in una predica vuota né sfruttare la brutalità giapponese come uno spettacolo sensazionalistico. Su Douban (l’equivalente cinese di IMDb), i recensori lo hanno definito ” lo Schindler’s List cinese” – una descrizione azzeccata, dato che entrambi i film presentano la tragedia storica attraverso occhi individuali e affrontano eventi cruciali nella memoria storica delle rispettive nazioni.
Sui media mainstream cinesi, l’espressione più ricorrente per descrivere questo film sui social media cinesi è “ricordare la storia” (铭记历史), un’espressione ampiamente condivisa nella società cinese. So che molti si chiederanno: “Per cosa?”. Ci sono alcuni messaggi di protesta su internet, ma i media mainstream e i funzionari non possono certo invocare la vendetta. Il Ministero della Difesa Nazionale ha parlato del film durante la conferenza stampa di oggi e ha affermato: “Le lezioni scritte col sangue non devono essere dimenticate; non si può permettere che le tragedie storiche si ripetano”.
Alcuni critici liquidano la rinnovata attenzione al massacro di Nanchino come “sfruttamento della storia” o “educazione all’odio”. Avendo studiato in entrambi i sistemi educativi, trovo che questa etichetta sia infondata. All’epoca di Mao, la narrazione era più incentrata sull’imperialismo anti-giapponese che sul semplice nazionalismo. Come scrive, “Il popolo cinese e il popolo giapponese sono uniti; hanno un solo nemico, i militaristi giapponesi e la feccia nazionale cinese”. Durante l’era di Deng Xiaoping, le relazioni sino-giapponesi si riscaldarono e la cooperazione economica, oltre all’accoglienza degli investimenti giapponesi, divenne la narrazione dominante.
Credo che la recente rinascita del massacro di Nanchino come tema centrale derivi da due fattori principali, entrambi legati alla costruzione della memoria storica.
In primo luogo, la continua riluttanza del Giappone a riconoscere il proprio ruolo di “autore” della Seconda Guerra Mondiale nelle narrazioni ufficiali, unita a tendenze revisioniste storiche sempre più evidenti. Sebbene il Giappone non abbia più la capacità di condurre una guerra aggressiva, ciò non giustifica una dimenticanza selettiva della storia. Sebbene vi siano molte voci riflessive all’interno della società civile giapponese (anche nella famiglia reale), la posizione del governo rimane profondamente ambigua. L’inumazione di 14 criminali di guerra di Classe A al Santuario Yasukuni nel 1978, condotta segretamente dal sacerdote capo del santuario, aveva trasformato il sito da un monumento ai caduti in un simbolo di militarismo impenitente. Le successive visite di alti funzionari, tra cui primi ministri come Shinzo Abe, che vi si recò durante il suo mandato, hanno ripetutamente infiammato i rapporti sia con la Cina che con la Corea del Sud.
Questa tendenza revisionista si estende oltre lo Yasukuni, fino alle controversie sui libri di testo che minimizzano l’aggressione giapponese, agli eufemismi ufficiali come “avanzata in” anziché “invasione” della Cina, e alle periodiche dichiarazioni parlamentari che mettono in discussione la portata delle atrocità commesse in tempo di guerra. Questi episodi riflettono un più ampio schema di offuscamento storico che mina gli autentici sforzi di riconciliazione.
Da appassionato di storia, ho visitato ripetutamente musei e siti storici della Seconda Guerra Mondiale sia in Giappone che negli Stati Uniti. Durante il college, mi sono persino recato appositamente a San Diego per rendere omaggio al memoriale del Taffy 3, il terzo squadrone di cacciatorpediniere, in onore di coloro che dimostrarono uno straordinario coraggio nella battaglia di Samar.
Ho scattato quella foto nel 2016
Osservando attentamente, ho scoperto che i musei giapponesi, che si tratti del Cimitero della Marina di Sasebo o del famigerato Museo Yushukan di Tokyo, presentano la storia della Seconda guerra mondiale in modo estremamente evasivo (preferirei la parola 暧昧 in cinese).
Ho visitato il cimitero navale di Sasebo Higashiyama nel 2018
Questa ambiguità si manifesta in diversi modi: o sorvolando sulle origini della guerra o spostando l’attenzione sulle sofferenze dei civili giapponesi sotto i bombardamenti alleati, minimizzando deliberatamente il ruolo del Giappone come aggressore. La cosa più inquietante per me è il modo in cui queste mostre ufficiali utilizzano lettere e diari di piloti kamikaze per romanticizzare gli attacchi suicidi organizzati come una forma di sacrificio “tragico”. L’onnipresente esposizione di vecchie bandiere militari giapponesi, accompagnata da narrazioni del “Giappone che combatte per liberare l’Asia”, crea un disagio sempre maggiore.
Ancora più preoccupante è che, nella maggior parte dei quadri narrativi delle mostre, l’invasione su vasta scala della Cina da parte del Giappone sia relegata sullo sfondo della Guerra del Pacifico. La Cina non appare come una vera e propria “nazione nemica”, ma come uno sfondo incidentale. Questa deliberata negligenza ed emarginazione sono più inaccettabili dell’ostilità vera e propria, perché negano il ruolo storico del popolo cinese nella resistenza all’aggressione.
D’altro canto, la Guerra anti-giapponese occupa una posizione eccezionalmente speciale nella memoria storica cinese. La resistenza all’invasione giapponese fu l’evento catalizzatore che trasformò la Cina da uno stato premoderno privo di coscienza nazionale in un moderno stato-nazione, un’importanza storica paragonabile al ruolo della Guerra civile americana nel forgiare l’unità e l’identità nazionale americana.
Tuttavia, i ricordi cinesi e americani della Guerra del Pacifico presentano una differenza cruciale: la Cina non ha una memoria di vittoria sufficientemente decisiva da bilanciare la sua narrazione incentrata sulla sofferenza. Quando gli americani pensano alla Seconda Guerra Mondiale, sebbene ricordino “il giorno dell’infamia” del 1941, ricordano più facilmente la svolta di Midway del 1942, il trionfo del D-Day del 1944 e l’eroica resistenza di Bastogne. Questi ricordi di vittoria costituiscono il tema dominante della narrazione americana della Seconda Guerra Mondiale.
Al contrario, quando i cinesi pensano alla Guerra Anti-Giapponese, ciò che viene in mente è una sequenza di sconfitte e disperata resistenza piuttosto che vittorie decisive. La guerra iniziò con la perdita della Cina nord-orientale nel 1931, quando l’Armata del Nord-Est si ritirò senza opporre una resistenza significativa. Il massacro di Nanchino del 1937 seguì la caduta della capitale nazionale dopo una breve difesa. Anche i momenti di feroce resistenza sono ricordati più per il tragico eroismo che per il trionfo strategico: la lotta disperata di Changsha nel 1941 esemplifica questo schema. Ancora più doloroso, anche nel 1944, quando le forze giapponesi erano già sotto sforzo e rischiavano un’inevitabile sconfitta, gli eserciti nazionalisti subirono perdite devastanti nella campagna Henan-Hunan-Guangxi (Operazione Ichi-Go), perdendo vasti territori, inclusi aeroporti cruciali. Alla fine della guerra, il Giappone si arrese dopo i bombardamenti atomici e gli attacchi terrestri sovietici, non dopo una decisiva sconfitta terrestre da parte delle forze cinesi. L’inizio della Guerra Fredda rese poi vani i piani alleati per un’occupazione coordinata, lasciando la Cina senza nemmeno una partecipazione simbolica alla ricostruzione del Giappone. La Cina, pur essendo ufficialmente riconosciuta come potenza alleata vittoriosa, emerse con una memoria storica dominata dalle sofferenze subite.
Per la Cina, quella memoria ha alimentato una mentalità che mira a “non dimenticare mai la sofferenza”. Tang Shiping, un rinomato studioso cinese, lo ha spiegato come una sorta di “sinocentrismo” (中国中心主义) , una mentalità inconscia secondo cui la Cina dovrebbe essere intrinsecamente grande. Il divario tra questa aspettativa e la realtà storica crea una psicologia in cui la superiorità culturale coesiste con una profonda insicurezza riguardo allo status nazionale.
La mia osservazione è che è diverso dal modo in cui funzionano tipicamente le narrazioni nazionaliste occidentali. In Occidente, ricordare i torti storici spesso serve come giustificazione per azioni future, che si tratti di chiedere riparazioni, di cercare aggiustamenti territoriali o di mobilitare il sostegno pubblico per politiche di confronto. Ma l’approccio cinese alla memoria delle sofferenze storiche opera secondo una logica diversa. “Non dimenticare mai la sofferenza” non è un mezzo per raggiungere un fine, ma il fine stesso: una sorta di vigilanza collettiva piuttosto che di preparazione alla punizione. Manca un bersaglio chiaro a cui attribuire la colpa o a cui agire. Sebbene il prezzo del massacro per il popolo cinese non possa essere ignorato, il sentimento revanscista nei confronti del Giappone rimane notevolmente impopolare tra intellettuali e politici cinesi. Se chiedessi a un cinese istruito se sostiene la vendetta contro il Giappone, la sua prima reazione sarebbe probabilmente di sincero sconcerto: “Vendetta a quale scopo?” Nelle innumerevoli controversie su questioni storiche, la richiesta più frequente della Cina è stata quella di far sì che il Giappone “affrontasse la storia in modo diretto” (正视历史), chiedendo riconoscimento e riflessione piuttosto che risarcimenti materiali o concessioni politiche.
Questo aiuta a spiegare perché la retorica ufficiale cinese descriva ancora le relazioni sino-giapponesi come “一衣带水”, separate da acque strette come una cintura di vestiti. Piuttosto che enfatizzare le lamentele storiche, questa espressione inquadra la relazione in termini di naturale prossimità geografica e culturale. Il messaggio di fondo è che la cooperazione, non il confronto, rappresenta lo stato di default tra vicini. Le tensioni politiche sono descritte come deviazioni temporanee da una realtà più fondamentale di interdipendenza.
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