
Perché l’espansione della NATO ha alimentato il conflitto con la Russia
Scopri la realpolitik dietro la crescita della NATO, la reazione russa e gli errori strategici che hanno rimodellato l’equilibrio di potere in Europa (e innescato la guerra).
27 maggio |

Sintesi
- L’espansione della NATO dopo la Guerra Fredda fu una scommessa strategica (non una vittoria morale) presa senza fare i conti con la logica duratura della politica di equilibrio di potere.
- La risposta della Russia all’avanzata della NATO verso est non è stata aberrante, bensì prevedibile: una classica reazione delle grandi potenze alla riduzione delle zone cuscinetto e all’erosione della loro influenza.
- Gesti superficiali di inclusione mascheravano un’esclusione più profonda: a Mosca non è mai stato offerto un posto di vero potere all’interno dell’architettura di sicurezza occidentale.
- La tragedia geopolitica dell’Ucraina non risiede nelle sue scelte ma nella sua geografia: è fatalmente stretta tra blocchi di sicurezza rivali con imperativi incompatibili.
- I politici occidentali hanno scambiato il predominio temporaneo per ordine permanente, ignorando i vincoli geopolitici in favore dell’ambizione ideologica.
- Il ritorno del conflitto in Europa sottolinea la verità fondamentale del realismo: la pace non si preserva con la virtù, ma con l’equilibrio, la moderazione e la chiarezza strategica.
La narrazione dell’espansione della NATO dopo la Guerra Fredda, spesso celebrata come un trionfo dei valori democratici liberali e il costante progresso di un ordine internazionale basato su regole, deve essere reinterpretata con un’analisi più acuta. Non fu il culmine naturale di un arco morale che si snodava verso la pace universale, ma una calcolata manovra strategica intrapresa nel mezzo di una profonda errata interpretazione della realtà sistemica. Non fu una storia di integrazione benevola ostacolata dall’intransigenza russa, né una progressione lineare verso un futuro cooperativo interrotta da una ricaduta autoritaria. Piuttosto, fu un momento in cui gli Stati Uniti, in quanto egemone incontrastato dell’ordine post-Guerra Fredda, scambiarono una fugace finestra di vantaggio unipolare per un riallineamento permanente della politica mondiale. Confusero opportunità con inevitabilità e, così facendo, confusero le proprie preferenze ideologiche con necessità strategiche. Il risultato non fu un superamento della politica di potenza, ma la sua mutazione e il suo ritorno in forme più volatili. L’espansione della NATO non fu un fallimento morale; Si è trattato di un’azione strategica intrapresa senza la dovuta considerazione del fondamentale principio realista dell’equilibrio, che governa il comportamento in un sistema internazionale anarchico. Aggirando questa logica, l’espansione ha gettato le basi per lo stesso scontro geopolitico che intendeva prevenire.
Nel quadro del realismo politico, il potere non è un bene discrezionale, ma la moneta di scambio essenziale per la sopravvivenza. Il sistema internazionale è definito dall’assenza di un’autorità centrale in grado di far rispettare le regole in modo imparziale: anarchia in senso strutturale. Questa condizione obbliga tutti gli Stati, indipendentemente dal tipo di regime, a dare priorità all’interesse nazionale, all’integrità territoriale e alla sicurezza rispetto all’allineamento ideologico. Gli Stati devono considerare gli altri non attraverso la lente dei valori condivisi, ma come potenziali minacce alla propria autonomia. In queste condizioni, la sicurezza non può essere data; deve essere assicurata, spesso a spese di attori rivali. L’avanzata della NATO nell’Europa centrale e orientale, vista da questa prospettiva, non è stata un atto benigno di allargamento dell’alleanza, ma un riposizionamento strategico che ha ristrutturato il panorama della sicurezza europea in modi che hanno inevitabilmente minato la profondità strategica russa. Ogni nuovo Stato membro ha avvicinato progressivamente l’infrastruttura militare della NATO ai confini russi, riducendo la zona cuscinetto geografica su cui Mosca aveva storicamente fatto affidamento per la difesa e la deterrenza. Nella logica della competizione tra grandi potenze, la prossimità geografica alle capacità di proiezione di forza rivali non è una preoccupazione astratta; è una vulnerabilità tangibile.
Le interpretazioni internazionaliste liberali che puntano a gesti di inclusione, come il Partenariato per la Pace o i forum consultivi con la Russia, non riescono a cogliere gli imperativi strutturali della politica di potenza. Queste iniziative erano diplomaticamente simboliche ma strategicamente superficiali. Da una prospettiva realista, la partecipazione al dialogo senza una corrispondente influenza nelle strutture decisionali fondamentali non costituisce un’integrazione significativa. La Russia, come ogni grande potenza storicamente significativa, ha capito che la vera sicurezza e il vero status derivano non da gesti retorici, ma da un’influenza tangibile, in particolare da un posto al tavolo delle trattative e da un diritto di veto sulle decisioni che riguardano interessi vitali. L’idea che la Russia potesse essere integrata nella NATO era più un artificio retorico che un piano strategico serio, fondamentalmente in contrasto con la logica istituzionale dell’alleanza. La coesione della NATO dipende da un confine chiaramente definito tra i membri (a cui è garantita la difesa reciproca) e i non membri (a cui non è garantita). Incorporare un ex rivale delle dimensioni della Russia avrebbe eroso proprio questo confine e compromesso la coerenza operativa della NATO. Pertanto, escludere la Russia era funzionalmente inevitabile. Tuttavia, agire in questo modo senza fornire un ruolo strategico compensativo avrebbe garantito un’eventuale opposizione.

Attribuire l’assertività geopolitica della Russia esclusivamente alla sua traiettoria autoritaria interna significa confondere la forma politica di uno Stato con il suo comportamento strategico. L’autoritarismo può influenzare il modo in cui uno Stato conduce la sua politica estera (la sua tolleranza al rischio, la sua legittimazione interna dei conflitti esterni), ma non determina perché uno Stato cerchi di modificare il suo ambiente esterno. Questa logica è radicata nella geografia, nella distribuzione del potere e nella percezione della minaccia. La riaffermazione dell’influenza della Russia nei suoi confini vicini non è stata una deviazione dalle norme di comportamento internazionale; è stata un’espressione classica della politica delle grandi potenze in risposta alla percepita erosione dell’isolamento strategico. L’incapacità dei leader occidentali di prevedere tale risposta non è dovuta a informazioni errate, ma a una visione del mondo che aveva prematuramente relegato la politica di potenza al passato. Non si è trattato semplicemente di un errore di calcolo strategico, ma di un errore epistemologico: un presupposto che le norme avessero sostituito gli interessi e che la storia avesse ceduto il passo all’istituzionalismo liberale. L’illusione che ne derivava, secondo cui la Russia avrebbe accettato indefinitamente uno status marginale e marginale, ignorava la natura ciclica dell’ordine internazionale. Le grandi potenze spesso praticano la pazienza strategica, ma raramente la capitolazione strategica.
In questo contesto, l’Ucraina non era semplicemente una nazione sovrana che esercitava la propria volontà democratica; era uno Stato cardine geopolitico, il cui allineamento aveva profonde implicazioni per l’equilibrio di potere regionale. La sua tragedia risiedeva nei rigidi vincoli imposti dalla sua geografia, situata tra un Occidente militarmente dominante e un Oriente in ripresa. Per l’Ucraina, il perseguimento dell’integrazione occidentale non era una scelta astratta; era una rottura strutturale. Il passaggio all’allineamento con la NATO e l’UE ha messo in discussione la percezione di lunga data della Russia dell’Ucraina come zona cuscinetto essenziale per la propria sicurezza e influenza. Sebbene il diritto dell’Ucraina di determinare le proprie alleanze sia indiscutibile in senso giuridico, le conseguenze geopolitiche di questa scelta erano del tutto prevedibili. La Russia non poteva tollerare un’Ucraina allineata all’Occidente senza subire una grave diminuzione della sua influenza regionale e un crollo della sua profondità strategica. L’annessione militare della Crimea e la destabilizzazione dell’Ucraina orientale non erano anomalie. Erano risposte da manuale da parte di una grande potenza che cercava di riaffermare il controllo su uno spazio strategico chiave. Brutalità e illegalità a parte, il comportamento ha aderito alla logica della necessità geopolitica.

Il dibattito in corso, teso ad attribuire responsabilità morali (sia all’eccesso di potere occidentale che all’aggressione russa), oscura più di quanto riveli. Riduce complesse interazioni strategiche a questioni di colpa e legittimità, anziché concentrarsi sui meccanismi attraverso cui i dilemmi di sicurezza si aggravano. Nel realismo, la causalità è intesa in termini di struttura e comportamento, non di categorie morali. La guerra in Ucraina non è stata causata dalla malevolenza di un singolo attore, ma dall’intersezione di architetture di sicurezza incompatibili: la logica espansionistica di un ordine liberale sostenuto dalla potenza americana e la contro-mobilitazione di una grande potenza determinata a non essere messa da parte in modo permanente. Chiarire questa dinamica non assolve nessuna delle parti; consente una comprensione più precisa di come agiscono gli Stati quando sono costretti a scegliere tra adattamento e irrilevanza.
La lezione più profonda non è che la NATO avrebbe dovuto astenersi del tutto dall’espansione, ma che avrebbe dovuto farlo in un quadro che tenesse conto della perdurante rilevanza delle dinamiche di equilibrio di potere. L’inclusione strategica, la condivisione del potere o persino una sfera d’influenza negoziata avrebbero potuto preservare la coesione occidentale, disinnescando al contempo l’insicurezza russa. Invece, l’espansione è proseguita come se la sconfitta dell’Unione Sovietica avesse estinto la logica geopolitica dell’Eurasia. Questa arroganza, che scambiava il predominio per stabilità, ha fatto sì che la vecchia logica tornasse con rinnovata forza. Un sistema che marginalizza le grandi potenze non porta alla pace; genera resistenza. È stato proprio questo rifiuto di conciliare l’espansione occidentale con la necessità di un accomodamento sistemico a rendere lo scontro non solo possibile, ma probabile.
Il paradosso è chiaro. Nel suo tentativo di andare oltre i vincoli della competizione geopolitica, l’ordine internazionale liberale ha ravvivato proprio gli antagonismi che cercava di trascendere. La sua strategia di integrazione universale non è riuscita a riconoscere che potere, interessi e geografia governano ancora i termini dell’ordine. E ora, di fronte non solo a una Russia in ripresa ma anche a una Cina in sistematica ascesa, l’Occidente deve fare i conti ancora una volta con la fondamentale intuizione realista: ogni proiezione di potenza genera contropotere; ogni espansione invita a una contro-coalizione. In un sistema anarchico, la sicurezza è posizionale, non assoluta. La difesa di uno Stato è sempre la vulnerabilità di un altro. Questo non è cinismo; è consapevolezza strutturale. Il realismo non consiglia la disperazione; insiste sulla lucidità. La pace non è il prodotto della buona volontà, ma della moderazione, dell’equilibrio e dell’attenta gestione della rivalità. E quando questi elementi vengono trascurati (quando il potere viene esteso senza accomodamenti) il conflitto non è una sorpresa; è la correzione naturale del sistema.