“O frati”, dissi “che per cento milia
perigli siete giunti a l’occidente…”
Per quale motivo Dante colloca l’invettiva contro Firenze all’inizio del Canto XXVI dell’Inferno, qual è il suo rapporto con la parte dedicata ad Ulisse? Considerata l’attenzione di Dante per questi particolari, pensiamo solo alla teoria politica dei due soli posta esattamente al centro della Commedia (Pur. XVI), non può essere casuale che la più dura invettiva contro Firenze sia collocata all’inizio del «canto di Ulisse». Partiremo con questo interrogativo, che mi è servito da orientamento nella labirintica creazione dantesca in cui, tra le figure memorabili della Commedia, si staglia quella di Ulisse, cercando di capire meglio il significato dell’invettiva:
Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,
che per mare e per terra batti l’ali,
e per lo ’nferno tuo nome si spande!
Com’è noto, i versi richiamano la targa del Palazzo del Capitano del Popolo (Bargello), fatto costruire nel 1255 dal «Governo del primo popolo», in seguito alla sconfitta dei cavalieri ghibelllini. Un passo dell’iscrizione ricalcava quasi alla lettera i versi della Pharsalia di Lucano riguardanti la potenza romana: «que mare, que terras, que totum possidet orbem».
Dante, appartenente all’Arte dei medici e degli speziali (fra le Arti maggiori) fu uno dei sei priori, la massima carica nel governo detto del Secondo popolo di Giano della Bella, che istituì gli Ordinamenti di giustizia che escludevano dal governo della città i “magnati” appartenenti alle grandi famiglie. Gli anni che vanno dal Governo del primo popolo fino alla fine del secolo furono di grandi trasformazioni, videro il rapido ingrandimento della città e il sorgere di una proto-borghesia composta soprattutto da grandi mercanti e imprenditori appartenenti alle Arti maggiori, e artigiani appartenenti alle Arti minori, la «gente nova» dai «subiti guadagni».
Firenze era diventata una delle più potenti città europee, se non la più popolosa (seconda solo a Parigi), sicuramente la più «dinamica» sul piano economico, come si direbbe oggi. Il «maladetto fiore» stava per diventare in quegli anni la moneta dominante nell’Europa del tempo. Scriveva Francesco Buti, commentatore della Commedia del 1300: «erano allora i Fiorentini sparti molto fuor di Fiorenza per diverse parti del mondo, ed erano in mare e in terra, di che forse li fiorentini se ne gloriavano». Forse ispirata da Brunetto Latini, il maestro di Dante (che ritroverà nell’Inferno), la targa esternava la volontà di potenza dei fiorentini.
Secondo Elisa Brilli, Dante in prima persona, quale voce narrante e non personaggio della Commedia «parodiando la retorica romaneggiante dell’iscrizione ufficiale, attacca non la Firenze contemporanea o del recente passato, bensì quella del Primo Popolo e le sue velleità imperialiste, qui capovolte nell’impero ernale» 1. Il lavoro della Brilli su Dante e Firenze è di grande interesse, però a me pare un’eccessiva sottigliezza circoscrivere il sarcasmo dell’invettiva alla Firenze del Primo Popolo, esso è diretto alla nuova Firenze nel suo complesso sorta nella seconda metà del XIII secolo. Lo spirito dell’iscrizione del Bargello è risibile poiché Firenze si atteggiava a nuova Roma, perché aveva affari dappertutto, ma nella corruzione che manifestava, nella brama di ricchezza, nella cupidigia che la muoveva per il mondo, non era possibile riscontrare nessuna manifestazione della virtù romana.
Dante verrà poi esiliato da Firenze dopo la sconfitta dei guelfi bianchi, a cui apparteneva, da parte dei guelfi neri, in seguito alle trame di Bonifacio VIII che portarono all’ingresso in Firenze delle truppe di Carlo di Valois. Probabilmente in gioventù avrà guardato con altri occhi alla targa del Bargello, nel Convivio scriveva: «Poi che fu piacere de li cittadini de la bellissima e famosissima figlia di Roma, Fiorenza, di gittarmi fuori del suo dolce seno» (Convivio, I, 3). La nota amaramente ironica di queste parole nell’invettiva si trasformava in sarcasmo già di per sé esaustivo riguardo al paragonarsi di Firenze a Roma, che diventerà piuttosto un’anti-Roma. Dante rovescerà il giudizio di Agostino su Roma, la cui «sementa santa», (Inferno XV, 76) sembrava del tutto scomparsa a Firenze che infine diventerà l’agostiniana civitas diaboli, la mala pianta di Lucifero (Paradiso, IX, 129).
Nella contrapposizione tra Roma e Firenze vi è una premonizione della differenza tra l’imperialismo che poi sarà proprio di tutte le nazioni europee e la civiltà romana, che, come tutte le civiltà che nella storia hanno acquisito una forma stabile, non si muove disordinatamente, non sbatte di qua e di là le ali per il mondo al fine di accrescere la propria ricchezza, identificandola illusoriamente con la potenza, ma si muove, come l’Aquila imperiale, in modo rettilineo, acquisendo contiguamente e sussumendo nel proprio sistema i territori conquistati. L’espansionismo fiorentino è spinto invece dalla cupidigia di ricchezze (capitalismo), una definizione che precorre quella marxista di imperialismo.
L’invettiva profetizza la fine di Firenze:
Ma se presso al mattin del ver si sogna,
tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.
E se già fosse, non saria per tempo.
Così foss’ ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com’ più m’attempo.
Pur non avendo trovato nessun commento che lo rilevi, a me pare proprio che Dante nel profetizzare la distruzione di Firenze da parte delle città vicine, se non dalla stessa Prato, abbia in mente quel passo di Tito Livio secondo cui Roma crebbe sulla distruzione di Alba2. È da Livio che è tratta (Purgatorio, VI) la descrizione del passaggio dell’Aquila da Alba, dove aveva dimorato per trecento anni, a Roma. Corsi e ricorsi storici. Come avvenne tra le due antiche città, Firenze sarà distrutta da una delle città vicine, che alla prima occasione metterà fine al suo «volo», già dimostratosi privo del favore della Provvidenza. Con la venuta di Arrigo VII e il ritorno dell’ordine imperiale, Prato, che aveva già dimostrato la sua insofferenza verso Firenze con la cacciata dei neri nell’Aprile del 1309, potrebbe prendersi la sua rivincita. Avendo ciò presente, tale profezia, ancor oggi considerata in parte oscura3, acquisirebbe un significato più preciso, comunque nel senso intelligibile della stessa se ne deduce che Firenze sarà portata alla rovina dalle città vicine, se non dalla piccola Prato, da qualche altra città più grande. Firenze non è Roma. In analogia, con quanto era avvenuto tra Alba e Roma, Firenze, patria di ladroni, ormai con-dannata, andrà incontro alla sua fine. Se la Provvidenza vuole che ciò accada che accada presto. Così la storia potrà indirizzarsi su un cammino più virtuoso, come avvenne con Roma. Arrigo VII morì invece nel 1313 durante la sua discesa in Italia prima di attaccare Firenze e senza riportare «l’ordine imperiale».
L’Aquila, che per lungo tempo si posò su Roma, si muove secondo un disegno provvidenziale, magari non intellegibile a tutti ma presente (Paradiso, VI), il volatile fiorentino spinto dalla cupidigia di ricchezze svolazza disordinatamente per il mondo, per mare e per terra, assomiglia al «folle volo» di Ulisse.
Com’è noto, l’Ulisse dantesco con l’Ulisse omerico non ha un rapporto diretto. Dante non conosceva l’Odissea, le sue fonti sono quelle classiche romane e latine, in primo luogo Virgilio, nonché Cicerone, Orazio, Ovidio, Agostino, Orosio. Ulisse si trova condannato nell’Inferno nel girone dei consiglieri fraudolenti in qualità di «scelerum inventor» e «fandi fictor» , inventore di scelleratezze e dai falsi discorsi, per il celebre inganno del cavallo di Troia, e per il furto della statua di Pallade protrettrice di Troia (Virgilio, Eneide), per l’inganno ai danni di Deidamia (in questo caso la fonte è l’Achilleide di Stazio) che ancora si duole nel Limbo per Achille.
Si ispirò invece alla letteratura medievale su Alessandro Magno nella parte in cui Ulisse narra di se stesso e delle vicende dopo la sconfitta di Troia e la dipartita da Circe che lo portarono a peregrinare per il mediterraneo, fino alla vicenda conclusiva. Nessuno crea nulla dal nulla, queste vesti classiche hanno un loro significato, come vedremo, ma Ulisse è una creazione dantesca ed è una figura che sentiamo come la più moderna dell’intero poema, anzi taluni ci vedono un archetipo dell’uomo moderno.
L’Ulisse di Dante è stato interpretato nel corso dei secoli in molteplici e opposti modi. Nel dopoguerra la «letteratura dantesca», con la crescita delle università, ha raggiunto dimensioni vertiginose. Impossibile tener conto dell’insieme di essa, mi sono limitato quindi ai testi con cui ho ritenuto aver raggiunto un’immagine coerente del personaggio dantesco, seguendo delle mie tracce di lettura. Credo scherzi fino ad un certo punto il «filologo complottista» Francesco Benozzo quando fissa4 un limite al 5 per mille degli interi scritti su Dante che un singolo individuo può arrivare a consultare. Preciso che quanto segue non è un lavoro di carattere filologico, ma estetico-filosofico. Non voglio proclamare l’inutilità della filologia, che mi è stata di molto aiuto nel tentativo di avvicinarmi al personaggio dantesco, né credo che ciò intenda Benozzi da filologo, tuttavia non si può non rilevare, che tutta questa «letteratura» pur essendo sovente utile per questioni specifiche, lascia nel complesso insoddisfatti, essendo davvero pochi coloro, almeno nel «campione» da me consultato, che non si occupino solo di «pezzi di Dante», che non trattino solo della questione specifica, ed è difficile quindi non pensare che la «critica dantesca» sia una sorta di vivisezione, per dirla con Benozzo, oppure la dissezione di un cadavere. Pare che Dante abbia oggi poco da dirci, e che, ora, il suo cadavere intellettuale sia pertinenza esclusiva degli «specialisti», oppure possa essere oggetto solo di vuote e stanche celebrazioni.
Cominciamo da Ulisse quale navigatore. Francesco De Sanctis intravvedeva in Ulisse il moderno navigatore, una premonizione dei viaggi che di lì a qualche secolo avrebbero cambiato radicalmente la conoscenza e il rapporto che abbiamo con la Terra. A tale intuizione Bruno Nardi aggiunse la notizia dei fratelli Vivaldi, salpati da Genova nel maggio del 1291 con l’intenzione di raggiungere le Indie via mare, poi scomparsi in luogo ignoto delle coste africane. Recentemente la tesi è stata ripresa e sviluppata da Sergio Cristaldi: «Se ha convocato l’eroe greco è anche per affrontare, in maniera trasposta, un enigma recente e fosco; a costo di manipolare il mito, di avvicinarlo il più possibile alla propria moderna condizione, alle ambizioni e alle sconfitte che la segnavano»5 . L’enigma è quello della morte dei fratelli Vivaldi. Come scrive Cristaldi, è molto probabile che Dante conoscesse la vicenda dei due fratelli che aveva suscitato clamore tanto a Genova, e che doveva aver fatto notizia anche a Firenze, che allora mirava ad un’alleanza con Genova, in opposizione a Pisa, concorrendo a creare nella mente dantesca la figura, in modo più o meno consapevole, non lo possiamo sapere, è probabile, visto l’interrogativo sulla morte di Ulisse, che potrebbe rispecchiare un analogo interrogativo diffuso allora tra Genova e Firenze.
Ulisse quale simbolico precursore delle grandi navigazioni, già iniziate in quegli anni è lettura suggestiva, ma diventa riduttiva se volesse esaurire la poliedrica figura. Infatti, «perché Ulisse e non direttamente i fratelli Vivaldi? Le risposte a disposizione indicano la convenienza dell’aggancio a un personaggio fittizio semanticamente denso, già implicato in una serie di opposizioni esemplari – Ulisse-Enea, greco-troiano, folle-savio, callidus-pius –, e rilevano ancora la disponibilità di un simile profilo a ricevere significati ulteriori, legati all’attualità di Dante»6. Queste «significazioni ulteriori» non possono essere tralasciate, se vogliamo avvicinarci al personaggio dantesco.
Di grande interesse la ricerca di D’Arco Silvio Avalle, il quale rimanda alla letteratura medievale intorno alla figura di Alessandro Magno, per quanto riguarda l’oltrepassamento delle Colonne d’Ercole e morte di Ulisse (ciò che differenzia il personaggio dantesco dall’Ulisse omerico), adducendo numerosi riscontri tra il testo dantesco e i testi letterari medievali7, in particolare con l’Alessandreide di Gualtiero di Châtillon e El libro de Alexandre, quest’ultimo, secondo Avalle, quasi sicuramente non conosciuto da Dante, ma rispetto al quale vi sono sorprendenti coincidenze verbali. Oltre alla ripresa l’antico topos narrativo del superamento delle Colonne D’Ercole, vi sono altre rilevanti analogie nella descrizione della dismisura di Alessandro, che come vedremo, è intrinseca al personaggio dantesco. Al di là degli aspetti filologico-letterari, indubbiamente interessanti, il lato alessandrino di Ulisse, per così dire, ha significato ulteriore se collocato nella teologia della storia dantesca, se riferito a quel passo della Monarchia in cui si afferma la non provvidenzialità del tentativo alessandrino di conquistare il mondo che aveva dovuto cedere il passo ai romani. Non solo i viaggi marittimi, e in generale la rinascita e l’espansione dei commerci nel Mediterraneo, stavano avendo un profondo impatto sulla cultura cristiana medievale. Non è da sottovalutare l’impatto sul piano culturale della riscoperta della cultura greca. Per questo, la grecità di Ulisse ha un suo significato.
Ulisse modernissimo precursore dei viaggi marittimi oppure Ulisse sosia di Alessandro Magno? Già l’eroe omerico è politropo, e in diversi e contrastanti modi l’avevano interpretato Virgilio, Orazio, Cicerone, Stazio. Dai classici Dante avrà tratto l’abilità ingannatrice di Ulisse nell’assumere diversi volti, intanto è da sottolineare la compresenza in esso di nuovo e antico.
Se per Orazio Ulisse è «simbolo di ciò che possono virtù e saggezza»8, più articolato è il giudizio di Cicerone9: dell’ardore di conoscenza, dote naturale dell’essere umano, fu espressione Ulisse, ma in lui tale passione fu superiore all’amore per la patria, per cui il desiderio di conoscere ogni cosa, e non ciò che davvero conta, diventava mera curiositas. Giorgio Padoan nel suo saggio Il saggio Enea e l’empio Ulisse osserva che per la contrapposizione fra Enea e Ulisse nel complesso la cultura romana considerava negativamente l’eroe greco, e parimenti Dante riprende nel Canto tale contrapposizione: il viaggio del primo si conclude nella fondazione di una patria, il secondo nel naufragio. Padoan, ritrova nell’Achilleide di Stazio maggiormente che nell’Eneide, la descrizione delle capacità retoriche, l’abilità ingannatrice attraverso il discorso di Ulisse: «Anche questa volta, come sempre, Ulisse ha detto le verità più sacrosante e solenni per indurre ad un’azione non giusta»10. Però in questo caso Ulisse, oltre a ingannare i compagni, avrebbe ingannato se stesso, quindi in qualche modo sarebbe un inganno non consapevole, quindi non un vero e proprio inganno. Ma non v’è dubbio sulla condanna di Dante, nonostante che la «lettura prometeica» abbia voluto rovesciare il giudizio dantesco. Il prometeismo di De Sanctis e Croce, in Bruno Nardi, il più grande studioso di Dante, diventava decadentismo luciferino, a detta del suo avversario teorico Mario Fubini, con allusione alle convinzioni filosofiche-politiche di Nardi. Fubini era pur tra coloro che intendevano assolvere Ulisse, ma più pacatamente, «senza porlo in contrasto con l’orizzonte etico-religioso della Commedia»11. Costanzo Preve con le parole di Bobby Solo sunteggiava un certo heideggerismo quale ideologia della depressione europea, oggi che «non c’è più niente da fare, è stato bello sognare», non c’è più spazio per gli slanci prometeici dopo la fine della centralità europea, dopo guerre mondiali, bombe atomiche, crollo della «fede nel progresso», fallimento delle principali ideologie. Del prometeismo otto-noventesco è rimasta solo l’immagine generica e senza precisi contorni di un «Ulisse eroe della scienza», diventata quasi luogo comune, che è esattamente il contrario di quanto voleva dirci Dante con il suo Ulisse.
Certo, la lettura prometeica faceva violenza al personaggio dantesco, ma Dante gli aveva pur messo in bocca le sue più profonde convinzioni. Essa ha avuto se non altro il merito di promuovere una lettura più complessa rispetto all’attestazione della pura e semplice condanna da parte di Dante (come per altri personaggi, ad es. De Sanctis si interessò maggiormente a Francesca). Lo stesso Padoan riconosce che si tratta di uno dei personaggi «particolari» dell’Inferno, ovvero quei personaggi come Francesca o Farinata verso i quali Dante mostra un’affezione particolare, nonostante la condanna.
Per quanto riguarda Ulisse quale incarnazione della curiositas, che da Cicerone passava per la squalifica cristiana della conoscenza meramente terrena, essa è pur presente nel Canto come indicato dalla forte curiosità espressa da Dante personaggio della Commedia nel voler sapere di Ulisse. Tuttavia è piuttosto riduttivo liquidare Ulisse quale incarnazione della sola curiositas, exemplum negativo rispetto a chi come Enea aveva in mente solo Dio, Patria, Famiglia. Dante condanna la curiositas quando è fine a sé stessa, ma di per sé la curiosità fa parte del desiderio naturale di conoscenza, che non condanna affatto, che anzi in quanto dotazione naturale ha una sua ragion d’essere («la natura non fa nulla invano», ripete nel Convivio, con Aristotele). La curiosità, o il desiderio naturale di conoscere fa parte dell’essere umano, ma può avere effetti diversi e opposti, secondo come viene indirizzata.
Il desiderio naturale di sapere ci conduce al tema centrale del Canto: la conoscenza. Ulisse ha il doppio volto della vita attiva e della vita contemplativa. La prima, in quanto incarna il navigatore, scopritore e conquistatore, la seconda in quanto incarna il desiderio naturale che può trasformarsi in cupidigia di conoscenza. Due volti di un’unica prassi umana, in quanto si contempla in vista dell’agire (Monarchia I, 3, 4). Il principio vale anche per Ulisse, nonostante trapasserà il segno, sia nell’azione che nella conoscenza.
Dicevamo, Ulisse è allo stesso tempo moderno e antico, e in quanto tale è espressione di quella cultura greca, la cui riscoperta a partire dalla prime traduzioni dei testi di Aristotele stava avendo un impatto profondo sulla cultura a lui contemporanea e a Dante stesso, ma vista, allo stesso tempo, con gli occhi di Virgilio, il quale nel noto passo del’Eneide (VI, 847-850), pur lodando le capacità artistiche e l’arte oratoria dei Greci, ricorda che il talento dei romani dovrà essere quello del governo dei popoli. Ciò rispecchia il giudizio ambivalente dei romani nei confronti dei greci, della cui civiltà furono allo stesso tempo vincitori e realizzatori (Graecia capta ferum victorem cepit), dato il disfacimento prematuro della civiltà greca, seguito all’imperial overstretch di Alessandro Magno. Solo con le arti dello spergiuro e ingannatore Sinone i Greci riuscirono a vincere Troia (Eneide, II). A sua volta condannato da Dante tra i falsari di parola (erno, XXX) «Secondo il τόπος letterario diffusissimo sin dalla latinità: i Greci sono gente superba, crudele e nefanda (cfr. Inferno, XXVIII, 84)»12.
Ricordiamo, ci deve essere rapporto tra l’invettiva contro Firenze e il resto del canto. Firenze che «per mare e per terra batte l’ali» ci rimanda al folle vole di Ulisse, contrapposti al volo dell’Aquila descritto nel paradiso. Per Dante la storia è stata segnata dal peccato di Adamo, risanato dalla morte di Cristo, e per questo fu provvidenziale l’Impero romano, la cui affermazione, nella ordalia dei popoli per il dominio mondiale, fu espressione del volere divino, in quanto lì doveva nascere Gesù e lì essere ucciso per rimediare al peccato originale. O, diremmo, metterci una pezza (se il termine non suonasse irrispettoso), poiché il sacrificio di Cristo, a causa della natura umana che restava corrotta, fu presto infirmato involontariamente da Costantino che con la sua donazione riportò il disordine nel mondo, dando il potere temporale alla Chiesa, provocando una confusione tra potere temporale e potere religioso che fu l’origine dei mali successivi.
Dante cerca di comprendere il suo tempo attraverso categorie teologiche e mitologiche (anch’esse sono una forma di sapere), ad es. la lettura dell’Eneide come storia vera, comune ai suoi tempi. Nonostante l’allora limitata conoscenza dell’antichità, Dante aveva un robusto senso della storia. Avvertiva (e a ragione, con il senno di poi) di vivere un’epoca nuova e cercava di decifrarla all’interno di una idea complessiva della storia, con le categorie che aveva a disposizione. È significativa l’associazione tra Firenze e Ulisse (quale simbolo della cultura greca, la grecità di Ulisse è rimarcata da Virgilio). Essa implicava che Firenze, e l’Italia comunale, fosse segnata dal disfavore della Provvidenza come la Grecia di Alessandro, il qual era stato ad un passo dalla conquista della monarchia universale ma aveva dovuto cedere il passo a Roma (Monarchia, II, 8). La non provvidenzialità di Firenze e dei comuni italiani era attestata dal prevalere della cupida avidità di ricchezze che avevano distrutto l’armonia sociale della Firenze dell’avo Cacciaguida. Il giudizio si estendeva all’intera civiltà comunale italiana. e ai suoi ferocissimi e incomponibili odi tra città e fazioni all’interno delle città, di cui il Conte Ugolino è indimenticabile rappresentazione, fino alle lotte di potere tra papato e impero, dovute alla cupidigia dei papi . Dante riserva a Firenze le migliori invettive, ma non scherzano neanche quelle rivolte alle altre città. Firenze era con-dannata e con lei l’intera civiltà comunale.
Vi deve essere un rapporto tra la condanna di Ulisse e la condanna di Firenze. L’orazion picciola di Ulisse è solo un utilizzo fraudolentemente retorico di un ideale sacrosanto, come sostiene Padoan? «Alle parole di un greco non è da prestar fiducia (“timeo Danaos et dona ferentis… ”): presteremo fiducia a quelle di Ulisse, quando sappiamo che dietro il suo discorso può celarsi il sorriso dolcissimo di Gerione?»13. Greco era anche Aristotele, e l’orazion picciola, chiama in causa lo stesso Aristotele, come vedremo tra un po’, ma basti per ora ricordare l’inizio del Convivio che richiama l’inizio della Metafisica: «Sì come dice lo Filosofo nel principio de la Prima Filosofia, tutti li uomini naturalmente desiderano di sapere».
Come sappiamo la ragione senza la fede non è un viatico sufficiente per il cammino verso la salvezza, per questo Aristotele è nel sommo del Limbo e per questo Virgilio deve cedere il passo a Beatrice. L’insufficienza della ragione aristotelica però non implica una condanna (una negazione, in termini filosofici) come vorrebbe la sua associazione con Ulisse.
In che misura il discorso di Ulisse riguarda lo stesso Aristotele?
Poiché tale questione nella critica dantesca è pochissimo affrontata, per quanto io ne so, ho dovuto tentare personalmente una risposta. Solo Maria Corti affronta incidentalmente il problema, e Massimo Cacciari vi accenna in una conferenza, sostenendo che Ulisse incarna l’Aristotele physicus, senza l’Etica e la Politica, cioè l’averroismo.
Con Ulisse Dante prende le distanze dalla filosofia del Convivio. Secondo Cicerone le sirene attraevano i viaggiatori con la promessa di conoscenza14. Una «serena» di queste aveva già svelato in sogno a Dante in tutta la sua laidezza (Purgatorio, XIX). Beatrice al loro (re)incontro (Purgatorio, XXX e XXXI) muove a Dante, con dure parole, il rimprovero di non aver resistito in gioventù al canto delle sirene. Nella reprimenda iniziata nel canto precedente, non rivolgendosi di persona a Dante, Beatrice gli riconosce la grazia divina dell’ingegno che ha avuto in dono da Dio, ma è sprecato se virtù nol guida, si finisce per seguire false immagini di bene (Pur. XXX). Ben a ragione Dante doveva quindi «raffrenar l’ingegno» prima di incontrare Ulisse. Infine, Beatrice fa molto cristianamente sentire in colpa Dante, ricordando che lei si è recata fino all’inferno per poterlo salvare (ma si direbbe quasi che sia morta proprio per poi effettuare questo salvataggio), ma lui invece non appena morta, si diede altrui, ovvero alla donna gentile della Vita nuova, la Filosofia.
Se teniamo presente, in base a quanto sopra, che consapevolmente Dante rappresenta in Ulisse una parte di se stesso, possiamo apprezzare la sublime ironia con cui Dante insiste sulla sua stessa curiosità nei confronti di Ulisse. È la stessa ironia a cui tutti siamo inclini verso i comportamenti giovanili da scavezzacollo (per la curiosità Dante si protende verso le figure fiammeggianti giù nella valle e rischia di cascare giù dal costone di roccia dove è giunto con Virgilio), rafforzata dall’insistenza fanciullesca nel voler parlare ad Ulisse, ed espressa fanciullescamente nei confronti di Virgilio (Maestro, assai ten priego/. E ripriego, che il priego vaglia mille»). E curiosi sono soprattutto i fanciulli per Cicerone15. Pericolo filosofico quello in cui incorre(va) Dante, ma con rischi non meno gravi del rompersi l’osso del collo, poiché, quando si intraprende un viaggio di conoscenza, il rischio è di smarrirsi (nella selva), finire nella follia, e incorrere nella rovina individuale. O, per dirlo con metafora nautica, perdere la rotta e affondare, come Ulisse. È un’ironia che possiamo permetterci solo quando siamo certi di esser usciti fuor dal pelago a la riva.
Di preciso cosa Dante del Convivio riteneva fosse frutto degli «errori di gioventù»?
Maria Corti, con l’espressione «felicità mentale» indicava la riscoperta dell’ideale dell’eudemonismo intellettuale aristotelico, la conoscenza quale ideale di vita che nella contemplazione raggiungeva il suo compimento e felicità ultima. In seguito alla diffusione della filosofia araba, alla riscoperta e traduzione dei testi aristotelici nel XIII secolo, e alla nascita delle prime università a Parigi, Bologna e Oxford, nasceva una cultura «laica» (cioè esterna all’ambito delle istituzioni religiose) centrata sulla ripresa dell’eudemonismo intellettuale aristotelico. Questa filosofia fu frequentata in gioventù da Dante, insieme al suo «primo amico». Un’indicazione di questi rapporti veniva dalla scoperta della dedica a Cavalcanti in una delle copie della Quaestio de Felicitate di Giacomo da Pistoia.
L’ideale della «vita contemplativa» è condiviso da Dante nel Convivio (esordio):
«la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade, tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti».
Cavalcanti, o la sua ombra, turba la coscienza di Dante, ritorna in tutta la Commedia, come scrisse Gianfranco Contini e come ha scritto più recentemente Enrico Malato. Come Ulisse, aggiungerei. Se è vero che Donna me prega è una raffinata «polemica non dichiarata»16 nei confronti di Dante, quando Guido si dichiara «fuor d’ogni fraude», possiamo immaginare a chi alludesse. Solo nel discorso di Ulisse nella Commedia troviamo il termine «canoscenza»17, utilizzato, a sua volta, da Cavalcanti nella canzone suddetta. Se questo solo termine può sembrare indizio insufficiente per scorgere ora in Ulisse il volto di Cavalcanti, si tenga presente che un analogo calco dei versi cavalcantiani è in Purgatorio XXV riguardo il «possibile intelletto», concetto strettamente connesso al contenuto dell’orazion picciola. La condanna per frode di Ulisse vuol dire ritorcere all’accusante l’accusa di frode18. Dunque l’orazion picciola sarebbe frode? La questione è complessa.
L’interpretazione di Nardi ascriveva la canzone Donna me prega a quell’averroismo radicale non dissimile all’epicureismo di coloro che «l’anima col corpo morta fanno». Boccaccio narrava nel Decamerone che Guido «alquanto tenea dell’oppinione degli epicuri, si diceva tra la gente volgare che queste sue speculazioni erano solo in cercare se trovar si potesse che Iddio non fosse »,. Per epicureismo, di cui è condannato Cavalcante padre, era da intendersi più che altro la negazione del dogma dell’immortalità dell’anima, in quanto « la dottrina averroistica coincideva in pratica coll’opinione d’Epicuro esso è per logica conseguenza una sostanza separata e unica per tutti gli uomini, non è più possibile parlare di sopravvivenza dell’anima individuale; individuale è certamente l’anima sensitiva, che sola è forma e perfezione del corpo; ma essa muore col corpo»19. La canzone è volutamente enigmatica, alcuni versi non sono chiarissimi tuttora neanche agli specialisti, tuttavia ciò che conta per noi è ciò che ne pensava Dante, non per la comprensione della poesia cavalcantiana, ma per la comprensione di Cavalcanti quale personaggio ombra nella Commedia, che non deve necessariamente coincidere con il personaggio reale. Cavalcanti padre è condannato nel girone degli epicurei e degli eretici, ed è abbastanza ovvio che ci sia in vece del figlio, in ogni caso, alla sua domanda perché suo figlio Guido, pari a lui per ingegno, non fosse con lui, Dante risponde «qui mi mena/forse cui Guido vostro ebbe a disdegno», cioè Beatrice20, ovvero la patrocinatrice del viaggio salvifico e simbolo della fede.
L’analisi del canto di Ulisse è uno snodo centrale nell’indagine della Corti, poiché proprio Ulisse veniva ad incarnare nei famosi versi l’ideale della «felicità mentale», in tal modo Ulisse veniva associato con l’averroismo di Cavalcanti, soprattutto per la canzone Donna me prega, ma insieme ad esso i magistri artium bolognesi, con la scoperta della dedica a Cavalcanti della Quaestio de felicitate di Giacomo da Pistoia, e con Boezio di Dacia, esponente di primo piagno dell’averroismo e aristotelismo parigino. «Cosí Dante, nel condannare una certa posizione di pensiero, ne immortala l’esistenza e il messaggio, trasformando gli intellettuali stessi in auctoritates parlanti per bocca di Ulisse»21. Ma in che misura la condanna riguardava lo stesso Aristotele?
Sorprendente è il modo in cui la Corti espone la sua interpretazione dei famosi versi:
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza
«Ma questo è Aristotele bell’e buono nell’Etica Nicomachea: il paragone con l’animal brutum, il suggerimento della operatio boni e della cognitio veri.» Nella pagina successiva, tuttavia, ci chiarisce che abbiamo capito male, no, non è Aristotele, bensì è «con gli enunciati dell’aristotelismo radicale che Ulisse arringa i suoi, non con il puro Aristotele»22. In merito rimanda alla Questio 5 dei Modi significandi di Boezio da Dacia, esponente di rilievo dell’aristotelismo radicale. Ma lo stesso concetto enunciato con le stesse parole ritorna nel De summo bono, che ugualmente Dante conosceva secondo la Corti. Secondo Tullio Gregory «la delineazione della vita philosophi nel De summo bono di Boezio di Dacia rappresenta in modo esemplare la ripresa dell’antico ideale del βίος θεωρητικός»23. E allora, forse, ci dobbiamo ricredere di nuovo, l’orazion picciola potrebbe riguardare lo stesso Aristotele, cosa oltremodo sorprendente, e difficile da credere, poiché, come scrive la Corti, Aristotele è l’autore più lodato da Dante.
L’analisi della Corti ruota intorno al raffronto tra Dante e Cavalcanti, che partiva dall’analisi di Nardi relativa all’averroismo del primo amico, estendendosi poi all’aristotelismo radicale, che veniva a confondersi con l’averroismo dei magistri parigini e bolognesi. Indagini più recenti, quali quelle raccolte nel volume Le felicità nel medioevo, hanno distinto tra l’averroismo e la filosofia dei magistri più prossima all’aristotelismo.
Gianfranco Fioravanti nel volume Le felicità nel medioevo riconosce la fecondità del concetto di «felicità mentale», «un’intuizione geniale (per paradosso tanto più geniale in quanto non sempre sostenuta da analisi e raffronti testuali pienamente convincenti)»24, che aveva poi suscitato tutto un filone di studi successivi. Fioravanti apporta però alcune distinzioni tra la filosofia dei magistri artium e l’averroismo, soprattutto per quanto riguarda la «congiunzione con le sostanze separate, ossia come piena attuazione dell’intelletto possibile da parte dell’intelletto agente, secondo la tesi attribuita ad Averroè dai suoi lettori latini del XIII secolo»25. Fioravanti osserva, «è proprio vero che il progetto dei philosophi parigini è indissolubilmente legato alla dottrina, o alla favola, della copulatio con le intelligenze separate? Il De summo bono, ad esempio non vi fa il minimo accenno; l’unica conoscenza delle cause più alte di cui si parla è una conoscenza che procede dagli enti naturali, cioè, come afferma chiaramente il testo, dagli effetti». Quanto a Sigieri, «il filosofo brabantino riconosce i limiti della conoscenza umana quando essa, a partire dalla esperienza degli enti finiti, vuole estendere le sue affermazioni alla natura ed al modo di agire del Principio Primo»26. Luca Bianchi, in un saggio contenuto nel suddetto volume, mentre ritiene vi sia una maggiore vicinanza di Sigieri ad Averroè, ritiene invece assente l’averroismo di Boezio di Dacia, dato finora per scontato. Sempre nello stesso volume, per Irene Zavattero la Quaestio de Felicitate di Giacomo da Pistoia «per la formulazione della teoria della “suprema felicità umana”, attinge soprattutto al pensiero etico aristotelico» 27. In breve, ai tempi di Dante esistevano varie forme di «felicità mentali» e vi era una differenza significativa tra l’averroismo e la filosofia dei philosophi più prossima all’aristotelismo.
Questioni a cui fa riferimento Paolo Falzone nel suo lavoro dedicato principalmente al Convivio28, e in particolare al «forte dubitare» di Dante riguardo la «scienza che qui avere si può». Può essa rendere felici visto che non può attingere ad una conoscenza diretta di Dio? Per quale motivo la natura ci avrebbe dotati di questo desiderio di conoscere se ine non possiamo conoscere Dio attraverso le nostre capacità naturali?
Secondo Falzone la soluzione di Dante, non è un’uscita «inattesa» dal problema (come ebbe a dire Étienne Gilson in Dante e la filosofia), piuttosto frutto di un ragionamento svolto con rigorosa conseguenza logica e che essa non fosse solo di Dante, ma diffusa tra i philosophi, a riprova di ciò apporta la descrizione che ne faceva Enrico di Gand che in un passo «tratteggia e riassume la tesi dei philosophi»:
«Philosophi vero ponentes finem humanae cognitionis ex puns naturalibus haberi et in vita ista ex cognitione scientiarum speculativarum et primorum principiorum quantum homini possibile est, et quod in modica cognitione divinorum consistit eius summa perfectio et delectatio, licet non possit attingere ad quidditates substantiarum separatarum et eorum quae apud illas sunt, dicerent quod homo nullum appetitum haberet sciendi illa, ex quo ex suis naturalibus ad ea pervenire non posset, ne ille appetitus esset frustra»29.
L’assenza di brama verso la conoscenza quidditativa della sostanze separate può indurre in errore nella somiglianza con l’argomentazione di Dante, ma c’è un punto decisivo che distingue Dante dai philosophi (secondo la descrizione di quest’ultimi di Enrico de Gand), la soluzione di Dante esclude anche una modica cognitione divinorum in ambito filosofico:
Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio, e di certe altre cose, quello esso è, non sia possibile alla nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere. E per questo è la dubitazione soluta.
Le tesi dei philosophi (con «philosophi, ossia, dobbiamo supporre, ai magistri della Facultas artium»30) sono solo in parte simili a quelle di Dante, il quale si differenzia anche dai filosofi più strettamente aristotelici, escludendo dalla filosofia anche una limitata conoscenza di Dio, luogo di un sapere esclusivamente terreno. È quanto rende effettivamente «radicale» la «soluzione» dantesca. Concordo con la definizione di Falzone, solo che è una posizione propria di Dante, diversa da quella dei philosophi.
Sostenendo che l’essere umano non può accontentarsi di «un po’ di Dio» in questa vita, Tommaso fonda la subordinazione della filosofia alla fede, in quanto esisterebbe un desiderio naturale, insito all’essere umano, di andare sempre oltre nella conoscenza che ci spinge verso l’infinito a conoscere Dio, ma tale desiderio può compiersi solo nell’altra vita e per mezzo della fede. Per Dante invece esso non fa parte della sfera naturale dell’essere umano, ma di quella soprannaturale, porlo nella sfera della conoscenza naturale vuol dire assimilare la conoscenza a quella dell’avaro che mira al «numero impossibile a giugnere». Sebbene non citato da Dante nel passo in questione, come osserva Nardi di fatto la concezione di Tommaso viene ad essere simile a quella dell’avaro descritta nel Convivio31. Ritorneremo sulla questione, importante per la definizione del concetto dantesco di cupidigia, ci basti questo per ora intendere perché in ambito filosofico è esclusa anche una conoscenza limitata di Dio, posizione che poi porterà alla netta separazione tra filosofia e fede della Monarchia.
La suddetta «soluzione» dantesca, secondo Falzone, è un «radicale naturalismo», una filosofia «assai più temibile per la fede cristiana di quanto non lo sia quella di Averroè»32. In effetti, il modo in cui Dante esce dall’impasse relativo all’inconoscibilità razionale di Dio poteva esitare in qualcosa di simile all’ateismo, ma era una strada che Dante non intendeva certo percorrere, anzi, oserei dire, a lui mentalmente preclusa. Non è da escludere che l’aver collocato Cavalcante padre, ed è ovvio che il giudizio si estendeva al figlio, poteva anche essere una netta presa di distanza, per evitare che si estendessero a Dante stesso le dicerie su Cavalcanti, riportate da Boccaccio, il quale si presume non se le fosse inventate di sana pianta, ma che fossero ancora diffuse ai tempi del Decamerone. Dante intendeva restare all’interno del cristianesimo (ma profondamente rinnovato dal suo viaggio profetico). Inoltre, l’ideale della vita contemplativa filosofica sfociava spesso un impolitico elitarismo, al limite del classismo, nel senso di una differenza ontologica tra filosofi autenticamente uomini in mezzo ai «bruti»33. Invece, nel cristianesimo tale frattura ontologica era assente. Un riflesso della preoccupazione di evitare le derive elitarie dell’eudemonismo intellettuale potrebbe essere il preciso elenco all’inizio del Convivio dei diversi ostacoli materiali alla formazione intellettuale.
Sebbene per il Dante del Convivio la «donna gentile» sia un’unione di fede e filosofia, e per quanto non metta ancora in discussione la preminenza della vita contemplativa, già si fa viva l’imprescindibile esigenza politica di Dante della fine del potere temporale dei papi, e della separazione tra potere temporale e potere spirituale, che porterà alla separazione tra fede e filosofia.
Anche Ulisse deve la sua ri-nascita ai dubbi in cui si dibatteva Dante, non meno radicale è il suo significato, come vedremo, ma in un senso più complesso di un diretto ateismo che lo conduceva fuori dal cristianesimo e dalla cultura del suo tempo.
Il trapassar del segno di Ulisse è oltrepassamento dei limiti della conoscenza umana, che invece doveva limitarsi in filosofia ad un ambito terreno (almeno nel tentativo di uscire dalle difficoltà in cui era incorso, per il resto nel Convivio vige l’unione di filosofia e fede). Il naturalismo del Convivio lo ritroviamo nella narrazione della vicenda di Ulisse. Come ben scrive Gennaro Sasso: «”Volta” la “poppa nel mattino”, dato ai remi l’impulso necessario al “folle volo”, protagonista assoluta fu, nella sua nuova e indecifrabile oggettività, la natura. Fu la forza che spinse la nave verso sinistra, nella direzione di sud-ovest. Furono le stelle rivelate dall’emergere dell’altro polo, mentre il nostro si inabissava tanto “che non sorgea fuor del marin suolo” (v. 129). Fu la luna che, accesasi cinque volte nel cielo, e altrettante spentasi, scandì, con i suoi tempi, le fasi della fatale navigazione. Fu la montagna “bruna” che, con il “turbo” che all’improvviso ne nacque, provocò, come “altrui piacque”, il tragico naufragio»34.
Una stretta identificazione di Ulisse con Boezio di Dacia, o con Cavalcanti, è restrittiva per una figura di portata universale come Ulisse. Infine è sempre Bruno Nardi che ci restituisce l’ampiezza della visione dantesca, nel suo magnifico saggio Dante e la filosofia35. La conoscenza umana secondo Aristotele è partecipazione alla Divina Sapienza, attraverso di essa l’essere umano si avvicina a Dio, nei limiti delle sue possibilità. Un concetto che risale a Platone36 ma comune anche alla cultura biblica, compresa quella araba e cristiana, fino ad Agostino e Tommaso. In merito, cultura pagana e cultura cristiana non erano in contrapposizione. Grazie a questo «misticismo» (Nardi) che accomuna Platone e Aristotele ad Agostino e Tommaso era sempre possibile subordinare la filosofia alla fede.
E Ulisse è l’uomo che dimentico dei propri limiti umani «trapassa il segno» e vuole assimilarsi a Dio, qualificandosi come continuatore del «primo parente».
Il canto di Ulisse è il momento della negazione, è il momento del rifiuto di un’intera cultura nella quale Dante si era formato in gioventù. Come osserva Enrico Fenzi37, nell’incontro con Brunetto Latini Dante sancisce il fallimento del maestro nella formazione intellettuale di una nuova classe dirigente a Firenze. Nel Canto di Ulisse, che inizia con l’invettiva ultima e lapidaria contro Firenze, abbiamo la rottura finale con una cultura condivisa da Dante stesso, pur già con molte differenziazioni, ai tempi del Convivio.
La radicalità con cui Dante condannava la civiltà del suo tempo, ricordiamo che è un canto in cui si preconizza la distruzione di Firenze, trapassa nella radicalità della critica della cultura del suo tempo. Ulisse è figura della perdita del senso del limite umano, e dell’illusione di un completo padroneggiamento dell’uomo sul mondo attraverso il suo indiarsi.
Tuttavia Ulisse è una figura di passaggio, appartiene al momento della negazione. La condanna di Ulisse-Aristotele è un passaggio verso la separazione tra la filosofia e fede. La prima è fondamento del potere temporale, mentre la secondo riguarda l’ambito della salvezza individuale. Tale separazione assumerà forma definitiva nella Monarchia, ma il punto di partenza è nel Convivio. Alla conoscenza di Dio non si arrivava attraverso la ragione, ma attraverso la fede, mentre la ragione ha un ambito suo proprio e serve da fondamento alla felicità terrena, al cui ordinamento è preposto l’imperatore, per questo l’ideale della vita contemplativa viene condannato (negato) da Dante, in quanto commistione di fede e ragione che devono andare separate.
Sulla datazione della Monarchia, di stretta pertinenza della filologia, non posso che esprimere un’opinione, attenendomi alle questioni relative alla figura di Ulisse, è più coerente una datazione della Monarchia contemporanea o successiva alla composizione del Paradiso38. La Commedia è sembrata a tanti commentatori un ritorno ad un cristianesimo più ortodosso rispetto al Convivio perché , soprattutto l’Inferno, e in particolare il «canto di Ulisse», sono il momento della negazione. Più coerente pare l’evoluzione del pensiero dantesco se la guardiamo attraverso il modello tesi-antitesi-sintesi. Abbiamo una tesi: priorità della vita contemplativa in cui si compendiava la rinascente cultura filosofica del suo tempo. Essa viene negata attraverso la figura di Ulisse. Dopo la negazione abbiamo un movimento verso la sintesi nel Paradiso, con l’«enigmatica» presenza di Sigieri tra i Sapienti del Cielo del Sole, in vece di Averroè (sarebbe stato un po’ troppo collocarci direttamente il filosofo arabo) La lode di Sigieri fatta pronunciare da Tommaso che fu suo avversario in vita significa la conciliazione immaginaria tra contrari, ovvero intelletto possibile congiunto all’anima individuale, senza quindi negazione dell’immortalità dell’anima. Alla negazione seguirà la sintesi compiuta nella Monarchia, dove la teoria averroistica è il fondamento dell’autonomia del potere imperiale che deve realizzare la felicità terrena, creando le condizioni per il massimo dispiegamento dell’intelletto possibile, la realizzazione dell’umanità dell’essere umano. La filosofia (i philosophica documenta) è il fondamento della felicità su questa terra pertinenza del potere temporale autonomo dal potere religioso. Non a caso la Monarchia è stata opera messa all’indice dalla Chiesa Cattolica fino alla fine dell’Ottocento.
Nella Monarchia la teoria aristotelica viene recuperata, attraverso la decisiva chiarificazione del «gran commento» di Averroè, quale fondamento del potere temporale che nell’unità del genere umano deve realizzare la massima potenzialità dell’intelletto possibile. La realizzazione dell’umanità dell’uomo è un compito collettivo. Ciò riguarda la stessa teoria aristotelica, in quanto se ciò che è specifico dell’uomo è l’intelletto possibile, categoria irriducibilmente collettiva, l’essere umano può realizzare la sua umanità soltanto collettivamente, mentre l’ideale della vita contemplativa è un ideale individuale.
La Monarchia, frutto di un intero percorso, segna la storia del pensiero politico. Come scrive Giorgio Agamben, «Per questo la filosofia politica moderna non comincia col pensiero classico, che aveva fatto della contemplazione, del bios theoreticos, un’attività separata e solitaria (“esilio di un solo presso un solo”), ma solo con l’averroismo, cioè col pensiero dell’unico intelletto possibile comune a tutti gli uomini, e, segnatamente, nel punto in cui Dante, nel De monarchia, afferma l’inerire di una multitudo alla stessa potenza del pensiero»39.
La Monarchia presenta un’interessante e ancora attuale dialettica tra contemplazione e azione. Si contempla in vista dell’agire40. Teoria e azione sono solo momenti di un’unica prassi umana. Qualsiasi azione deve avere una cognizione dell’oggetto su cui vuole applicarsi. La contraddizione irrisolta in Aristotele tra vita contemplativa e vita attiva, riguarda, inoltre la contraddizione tra individuo e società, propria della condizione umana, che quando si trasforma in polarizzazione denota sempre un grave problema. Ulisse è espressione della polarizzazione individuale in cui può esitare l’esigenza insopprimibile di un’esistenza pienamente umana. Quando diventa impresa esclusivamente individuale, proprio in virtù della sua forza porta l’individuo in contrapposizione con i suoi doveri di essere umano appartenente alla società e quindi alla perdizione e alla dannazione.
Fatti non foste a vivere come bruti, d’accordo, ma come, nella sua vita, possiamo realizzare la nostra umanità, e non piuttosto ricadere in una forma di vita più simile quella delle bestie? La frode non è nell’esortazione a vivere da esseri umani, ma piuttosto nell’incapacità della filosofia di Ulisse di conseguire questo obiettivo, principalmente per il fatto che lo intende come un obiettivo personale. Considerato in termini non religiosi, il tema della salvezza investe l’essenza stessa dell’essere uomini, come può l’essere umano non smarrirsi nella vita? Realizzando la sua umanità, realizzando ciò che specificamente lo rende uomo, distinguendosi dall’animal brutum. Ma la conoscenza, capacità specifica dell’essere umano, è un’impresa collettiva, grande o piccolo che sia il contributo individuale, esso è sempre subordinato alla conoscenza collettiva che sopravvive all’individuo, basti pensare alla lingua attraverso cui accediamo al sapere collettivo che sopravvive all’individuo («intelletto possibile»). Ulisse ha smarrito la finalità terrena e umana del conoscere, che è un’impresa collettiva dell’essere umano in quanto essere sociale. A differenza di Enea egli non è alla ricerca di una terra in cui insediarsi e farne la sua patria, egli persegue un fine puramente personale («misi me per l’alto mare aperto e i suoi compagni sono strumento per questo suo fine, diventano tutt’uno con i remi fatti ali al folle volo41.
Molto interessante, dal punto di vista della storia del pensiero politico, è la tesi di Nardi42, secondo cui nella Monarchia attraverso il concetto averroistico di intelletto possibile abbiamo il recuperò della concezione comunitaria aristotelica (l’uomo come zoon politikon) in una società segnata dal peccato originale. Mi permetto di intrepretare in termini di sociologia storica. La comunità della polis, non ancora attraversata, almeno tra coloro che erano cittadini, da uno strutturale conflitto interno, poteva ancora postulare l’unità naturale tra i suoi componenti (l’uomo come zoon politikon, ma si dimentica sempre che tale uomo era il cittadino della polis). È rotta, invece, tale unità naturale, in una società più complessa, più articolata, differenziata e attraversata dai conflitti interni come era quella romana, anche nella fase conclusiva in cui visse Agostino. Il peccato originale agostiniano, e connessa necessità dello Stato, corrisponde maggiormente a questo secondo tipo di società, supper in termini mitico-religiosi. In fondo, cosa indica il mito del peccato originale, l’inevitabilità del male, cioè del conflitto tra gli uomini. La necessità della Monarchia, con a capo il monarca in cui si spengono tutti i conflitti interni, per Dante deriva dalla presenza della cupidigia, che, come vedremo, è una sorta di riedizione del peccato originale. La realizzazione della massima potenzialità dell’«intelletto possibile» è il recupero di un fine unitario nella «società di classe», se volessimo dirlo in termini moderni.
La Monarchia testimonia che Dante non abbandonerà l’ideale di una felicità terrena, di una vita pienamente umana espresso dai famosi versi, né dirà con Tommaso che è possibile realizzarlo solo nell’al di là. Certo, nell’ottica di tutto uno sviluppo del pensiero politico successivo potremmo dire che la Monarchia è segnata da un universalismo utopico, che è un’uscita utopica dalla strada senza uscita in cui si era cacciata la civiltà comunale italiana, e volendo possiamo considerare il passaggio dall’individualismo del bios therotikos all’universalismo della monarchia universale come segnato dalla furia del dileguare hegeliano nel suo capovolgimento dell’individualismo in universalismo. Tuttavia è epocale il contributo di Dante all’adeguamento e allo sviluppo del pensiero politico classico aristotelico ad una società complessa. Il fine di una vita pienamente umana viene recuperato come fine collettivo, e a ragione, poiché in quanto fine esclusivamente individuale esso non può che condurre allo scacco individuale, simboleggiato dal destino di Ulisse.
È sempre e solo questo il fine: realizzare una vita degna dell’essere umano, tanto sul piano individuale che collettivo. Bisogna ricordarlo, proprio oggi che pare smarrita ogni finalità autenticamente politica, ognuno perso nella sua «bolla individuale» scientemente gonfiata da chi manovra i «social», quando sembra una lontana illusione ogni idea di una vita autenticamente umana, ogni idea di riacquisire un controllo sull’immenso Apparato creato pur sempre dall’attività umana, quando lo smarrimento collettivo è sinistro preludio a qualche nuova tragedia che ci riserva l’Inferno del Capitale,
Già quanto detto può dare un’idea della radicalità del simbolo dantesco, che riguarda le radici della nostra cultura, ma ne potremo mostrare tutta l’ampiezza estendendo, nella prossima parte, il discorso al rapporto dell’Ulisse dantesco con la cupidigia, che la fa da padrone nell’inferno del capitale (Non a caso Marx fu un grande estimatore della Commedia).
La figura di Ulisse era stata ri-evocata da tutta una serie di questioni che ruotavano intorno all’esigenza di una filosofia terrena, fondamento della felicità terrena, fondamento dell’autonomia del potere temporale dal potere religioso, principale soluzione dei gravi disordini della società comunale. Ma Ulisse, ritornato per inabissarsi nell’oceano, continuerà ad avere vita propria quale memento al lungo e non ancora concluso oblio dell’essere umano (occidentale) dei propri limiti umani, ovvero l’auto-equiparazione dell’essere umano a Dio, ovvero l’illusione di un completo controllo sulla natura, e in quanto tale riguarda Aristotele, quanto l’aristotelismo medievale, riguarda il cristianesimo, riguarda lo stesso Dante, riguarda la scienza moderna, che si crede in opposizione alla religione ma si basa sugli stessi presupposti. Riguarda l’intera cultura europea-occidentale.
La figura da lui stesso creata turba la coscienza e i sogni di Dante. L’ombra di Ulisse lo accompagna dal primo Canto in cui viene evocata la figura del naufrago, fino all’inizio del Purgatorio dove Dante scrittore rassicura il Dante personaggio della Commedia della grazia del dono poetico-profetico, per cui «com’altrui piacque» (Purgatorio, I) ha potuto raggiungere la spiaggia del Purgatorio, a differenza di Ulisse che «com’altrui piacque» (Inferno, XXVI) giace in fondo al mare. Nel Paradiso (XXVII) Dante, prima di ascendere all’empireo con Beatrice, vede dall’alto il «varco folle Ulisse», dopo che nel canto precedente Adamo gli ha detto di essere stato cacciato dall’Eden per il «trapassar del segno» (notare: canti XXVI e XXVII), cioè voler essere come Dio. Ormai il timore che il suo stesso viaggio fosse destinato a naufragare, perché non sotto il segno della grazia, è un lontano ricordo. Ma il suo Ulisse figuralmente immortalato nell’Inferno resta lì a ricordarci che non si può trasumanar senza trapassar del segno. «Così Ulisse muore, ancora e ancora, per i peccati di Dante».43
Ulisse «eroe della conoscenza» infine riguarda la scienza moderna nata dalla stessa volontà di potenza di cui sono espressione la filosofia e la religione44. La civiltà europea-occidentale è malata alla radice. Dante l’aveva intuito, prima della filosofia contemporanea.
Emanuele Severino appartiene ai grandi della filosofia per aver dedicato l’intero suo lavoro a farci acquisire la cognizione dei gravi problemi di fondo dalla nostra civiltà, che avrebbero origine in Platone che per primo cominciò a far «uscire ed entrare le cose dal nulla»45. Purtroppo, la hegeliana marcia trionfale verso la libertà che culminava con la Germania, si rovesciava in Severino in una lunga storia di follia ed errore. Karl Löwith, grande studioso ma non della stessa portata filosofica di Severino e Heidegger, egualmente reso edotto dalla Seconda guerra mondiale dei gravi problemi di fondo della cultura europea-occidentale, rispetto ai quali auspicava «ritorno alla physis», aveva un indirizzo più ragionevole rispetto alla condanna dell’intera cultura occidentale: massimamente riteneva il naturalismo di Spinoza in contro-tendenza, e quindi Goethe quale suo grande lettore. Diversi altri hanno pensato in contro-tendenza rispetto alla volontà di potenza dominante, o in contro-tendenza con diversi indirizzi del loro stesso pensiero. Cominciando da Aristotele che, nonostante il predominio del finalismo nell’intero suo sistema, ripristina ine la priorità della physis, concetto cardine della cultura greca, espresso da Eraclito: il mondo eterno e non creato dagli dèi46. Aggiungerei Machiavelli, Marx, ma credo che in diversi altri autori ci siano elementi per rifondare su basi diverse il pensiero occidentale, ripristinando la cognizione dell’inevitabile subordinazione dell’essere umano alla Natura che lo ha generato. Tuttavia, ha ragione Cacciari, è impossibile oggi, ripristinare il senso naturale degli antichi di dipendenza dalla Natura. Va ripristinato su basi nuove. Se il passato è solo errore, impossibile diventa un diverso futuro, a cui non possiamo giungere dal nulla, ma riprendendo i «sentieri interrotti» nel passato (credo che ciò intenda Agamben scorgendo un significato filosofico nella boutade di Flaiano: faccio solo progetti per il passato). Chi più eloquentemente dell’Ulisse di Dante ci avvisa dal passato che la nostra rotta va in collisione con la Natura?
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NOTE
1Elisa Brilli, Firenze e il profeta, Carocci, 2012, p. 107
2«Frattanto Roma si ingrandisce sulle rovine di Alba». Tito Livio, Storia di Roma. I,30 (UTET, 1974)
3Inferno, Introduzione, cronologia, bibliografia, commento a cura di Anna Maria Chiavacci Leonardi, Mondadori, 1991. Vedi commento in merito della Chiavacci.
4Appello all’Unesco per liberare Dante dai dantisti, Edizioni dell’Orso, 2003
5Sergio Cristaldi, Il richiamo del lontano, in Lecturae Dantis. Dante oggi e letture dell’ Inferno, a cura di Sergio Cristaldi, Rivista “Le forme e la storia” n.s. IX, Rubettino 2016, p. 269
6ivi, p. 293
7D’Arco Silvio Avalle, L’ultimo viaggio di Ulisse, in Modelli semiologici nella Commedia di Dante, Bompiani, 1975
Numerose e sistematiche analogie vi sono tra l’Ulisse di Dante e i romanzi medievali «come risulta dalla frequenza dei rinvii, con l’Alexandreis di Gautier de Chatillon. Significative non solo in rapporto alla struttura delle due narrazioni, ma anche per talune coincidenze verbali che sarebbe in ogni modo malagevole spiegare come un prodotto del caso.» (p. 47) Mentre Curzio Rufo, a cui si fa L’Alessandreide, contiene già un riferimento alla «sete di conoscenza (“esuries mentis”) di Alessandro, “rex cognosendi plura cupidine accensus [re acceso dal desiderio di conoscere tutte le cose]. Tuttavia nei versi di Gautier essi si trovano per la prima volta strettamente uniti e per di più ben rilevati in posizione esordiale,
– Tua, regum maxime, virtus
-inquit – et esuries mentis […]
alla pari insomma, nonostante la diversa collocazione sintattica, di quanto avviene nel verso dantesco:
ma per seguir virtute e canoscenza »
Nell’Alessandreide c’è il tema dell’oltrepassamento delle colonne d’Ercole, ripreso da Rufo, e Alessandro viene definito. Al che Gautier si chiede quale sara il termine della fame di conquista e della sete di conoscenza di Alessandro, definendolo poi folle, «demens» (p. 53).
«Anagologie davvero soprendenti» presenta El libro de Alexandre, uno dei maggiori derivati dell’Alessandreide, che «quasi sicuramente Dante non ha conosciuto», in particolare, per l’appello ai compagni che da dieci anni hanno lasciato le proprie famiglie per seguirlo e la «cupidigia luciferina», di quel «folle che non conosce misura» quale Alessandro. Ma la «coincidenza verbale più straordinaria» è il passo in cui Dio dice « yol tornaré el gozo todo en amargura [io gli tornerò la gioia tutta in amarezza]» che richiama «tosto tornò la gioia in pianto» (p. 62).
8Epistole, I,2
9De finibus bonorum et malorum, V, 18
10Giorgio Padoan, l pio Enea, l’empio Ulisse. Tradizione classica e intendimento medievale, Longo Angelo, 1973, p. 196
11Simone Invernizzi, Dante e il nuovo mito di Ulisse, Academia.edu (pagina personale dell’autore)
12Padoan, op. cit., p. 191
13Ivi, p. 195
14De finibus bonorum et malorum, V, 18
15Idem
16Enrico Malato, Introduzione alla Divina Commedia, Salerno editrice, 2020, p. 30
17Enciclopedia dantesca Treccani, voce Canoscenza, https://www.treccani.it/enciclopedia/conoscenza_%28Enciclopedia-Dantesca%29/
18«…un uomo “che sia vile” non può “servire” una donna che si trovi nella corte d’Amore: così Guido aveva ammonito Dante nel sonetto Se vedi amore (XXI). Questa concezione eroica dell’amore, comune alla poesia cortese del Duecento, è stata rinnegata da Dante nella Vita nuova con il passaggio alla poesia della lode, paga di se stessa, perché sottratta alla sanguinosa dialettica del rapporto con la donna: questa è, per Guido, più ancora che una vigliaccheria, una frode intellettuale.[…] E non ci può sfuggire che, come in un’acre rivalsa postuma, proprio nel girone dei consiglieri fraudolenti (Inferno, XXVI) Dante condanna, con Ulisse, tutti i cattivi maestri che ingannarono altri uomini con la folle superbia di una conoscenza non illuminata dalla fede, trascinandoli con sé nella dannazione eterna.» Noemi Ghetti, L’ombra di Cavalcanti e Dante, L’Asino d’oro, 2011, p. 146-147
19Dante e la cultura medievale, Laterza, 1983, p. 106
20«Il cui è riferito, ormai da tutti, a Beatrice – non a Virgilio, come molti intesero, interpretazione che
non dà senso convincente in questo contesto – che rappresenta la sapienza e la grazia divina.[…]Il significato complessivo della frase, su cui si è molto discusso, appare in ogni caso ormai certo: Guido ebbe a disdegno quella via di fede e di grazia – vale a dire, sul piano intellettuale, l’accettazione di una realtà trascendente e di una verità rivelata, e, sul piano spirituale, della propria insufficienza all’assoluto – che Dante invece, a un certo punto della sua vita, decisamente scelse. Qui passò la rottura fra i due amici, e di qui cambiò strada la poesia e lo stile del secondo». A. M. Chiavacci, nota integrativa al Canto X dell’Inferno, op. cit.
21Maria Corti, Scritti su Cavalcanti e Dante. La felicità mentale – Percorsi dell’invenzione e altri saggi, Einaudi, 2003, p. 364
22Ivi, p. 278
23Mundana sapientia: forme di conoscenza nella cultura medievale, Storia e Letteratura, 1992, p. 25
24Le felicità nel Mediovevo, a cura di Maria Bettetini e Francesco 0. Paparella, LOUVAIN-LA-NEUVE, 2005, p. 5
25Ivi, p. IX
26ivi, p. 10-11
27ivi. p. 369
28Desiderio della scienza e desiderio di Dio nel Convivio di Dante, Il Mulino, 2011.
29ivi, p. 234
30Ivi, p. 215
31Bruno Nardi, Dal convivio alla commedia (Sei saggi danteschi), Istituto storico italiano per il Medio Evo. 1992p. 74. Il passo di Tommaso in questione è nella Summa contra gentiles, III, 50
32Falzone, op. cit. pp. 217 e 219
33Su rischio che le differenza tra uomini comuni e filosofi sfociassero in differenze ontologiche nella dottrina averroista e nell’averrosismo vedi Luca Bianchi, Filosofi uomini e bruti, Rinascimento, s.s. 32, 1992
34Ulisse e il desiderio: Il canto XXVI dell’Inferno, Edizioni Viella, 2011 pp. 39-40
35Il saggio è contenuto nel volume Nel mondo di Dante, Edizioni “Storia e letteratura”, 1944
36Ecco perché anche ci conviene adoprarci di fuggire di qui al più [b] presto per andare lassù. E questo fuggire è un assomigliarsi a Dio per quel che uomo può; e assomigliarsi a Dio è acquistare giustizia e santità, e insieme sapienza.Teeteto, C. 25,176b (Opere complete, Laterza, 2013)
Questo bisogna pensare dell’uomo giusto, anche se vive in povertà o colpito da malattie o afflitto da qualche altro di quelli che sembrano mali: che tutto questo si risolverà per lui in un bene in vita o anche in morte. Mai gli dèi trascureranno chi si sforzi di diventare giusto e coltivare la virtù per farsi simile a un dio nei limiti delle possibilità umane. Repubblica., X. 613 a-b Opere complete, Laterza, 2013)
37Dante ghibellino, La Scuola di Pitagora, 2019, p. 38-39
38Enrico Fenzi, Ancora sulla datazione della Monarchia, Academia.edu (pagina personale dell’autore)
39L’uso dei corpi, Homo sacer, IV, 2 Neri Pozza Editore. 2014, p. 269
40«Si è pertanto dichiarato a sufficienza che il compito proprio del genere umano preso nella sua totalità è di attuare sempre e completamente la potenza dell’intelletto possibile, in primo luogo per speculare e secondariamente, per estensione, per operare di conseguenza. » Dante, Monarchia, I, 4 (Mondadori 2015)
41: «His men, his “brothers,” now show their real relationship to Ulysses: it is an instrumental one. They are his oars». R. Hollander (Ed.), Dante Alighieri, Inferno, New York, 2002, p. 493
42Il concetto dell’Impero nello svolgimento del pensiero dantesco, in Saggi di filosofia dantesca, La Nuova Italia, Firenze, 1967
43Teodolinda Barolini, The undivine Comedy. Detheologizing Dante, Princeton University Press, 1992, pp. 54 e 58.
44“La volontà di dominio che caratterizza la scienza moderna è resa possibile dall’apertura del senso greco del divenire. Solo se l’ente che si mostra nell’esperienza è inteso come un uscire dal nulla e un ritornarvi (e appunto questo è l’intendimento del pensiero greco), solo allora può sorgere quella forma radicale di volontà di potenza che decide di strappare gli enti dal nulla e di risospingerveli, conformemente al progetto che l’uomo vuol far diventare realtà.” E. Severino, La filosofia dai greci al nostro tempo, BUR 2004
45Ma cosa era questo “far uscire ed entrare le cose dal nulla” se non l’affermarsi del creazionismo? La discussione del problema ci porterebbe troppo fuori tema, per una discussione più ampia del pensiero di Severino vedi il mio lavoro Per un nuovo socialismo. Per l’orgine greca del creazionismo vedi David Sedley, Creazionismo. Il dibattito antico da Anassagora a Galeno.
46Questo ordinamento del mondo, il medesimo per tutti gli uomini, nessuno degli dèi o degli uomini lo ha fatto, ma è sempre stato, è, e sempre sarà: un fuoco sempre-vivo, che di misura si accende e di misura si spegne. 51 (30 DK; 20 B) (Bompiani, 2007)
Il folle volo in Occidente. La tragicommedia di Ulisse (II parte)
L’Ulisse dantesco è una figura della cupidigia, quindi è necessario un esame del significato della cupidigia nella Commedia.
L’intero cammino, dall’Inferno, dall’iniziale incontro con le Tre Fiere fino al Paradiso, fino alla confessione a Beatrice della propria cupidigia, è un percorso verso la liberazione di Dante, e, con lui, dell’intera umanità, dalla cupidigia.
All’uscita dalla selva, il primo incontro sono le Tre Fiere. Nel corso dei secoli si è scritto tantissimo sull’identificazione di queste tre allegorie, qui ci limiteremo a quanto è necessario. Esse sono una parodia della trinità come Lucifero e altre figure dell’Inferno1, sono una e trine, ma trine nel senso di molteplice, l’insieme dei vizi sono rappresentati dalle fiere. La principale è la lupa, la cui identificazione con la cupidigia è abbastanza fuori discussione.
Il mistero della Trinità, pur nella sua parodia infernale, si trasforma in una dialettica tra l’uno e i molti, in quanto se la radice del peccato è una, molteplici sono le sue manifestazioni. Le fiere rappresentano un diverso modo di intendere i vizi capitali (espressione anche questa della natura profetica della Commedia), ma per il solo Inferno, nel Purgatorio si torna ad una visione più canonica.
Giovanni Pascoli, tra i commentatori da me consultati, è uno dei pochi che aiuta a districarsi in questa complessa allegoria dantesca: «Se la lupa è l’avarizia divenuta malizia, quest’avarizia maliziosa è raffigurata anche nel leone; e dunque il leone è la lupa. Così può dire alcuno. E rispondo: sì: in vero assomigliano. Famelico il leone, famelica la lupa; terribile in vista il leone, terribile dalla vista la lupa. E rispondo: sì: in vero il leone è dentro la lupa»2. La lupa dovrà essere cacciata dal veltro, ovvero il programma della Monarchia secondo cui l’imperatore dovrà porre fine alla cupidigia di potere. Il leone è la lupa, se è vero che il leone rappresenta la superbia e quindi la brama di potere, ma essendo senza limiti, il leone viene a sovrapporsi alla lupa. Una sola fiera non rappresenta un vizio specifico, ma più di uno.
La lupa è la brama senza fine, è la cupidigia in quanto tale («di tutte brame parea carca») ma che può manifestarsi in diversi ambiti, nella brama delle ricchezze, del potere, della conoscenza e in generale di tutte le cose terrene.
Tuttavia la lupa ha una relazione speciale con l’avarizia (intesa come desiderio smisurato di accumulare ricchezze). Dopo aver incontrato la lupa, Dante ricorre ad una similitudine con l’avaro («E qual è quei che volentieri acquista»), poiché l’analisi aristotelica della crematistica rappresenta un elemento centrale nella delineazione della cupidigia (Teniamo presente che nell’italiano di Dante l’avaro non è solo il tirchio, ma principalmente colui che è bramoso di denaro)3. Giustamente Leonid Batkin vide nella cupidigia una rappresentazione della accumulazione capitalistica, proprio dall’osservazione del nascente capitalismo nasce la centralità della cupidigia, ma un’analisi strettamente «economica» non ci restituisce tutta la portata della visione dantesca.
La filosofia aristotelica serve a Dante per decifrare la nuova società che vedeva nascere sotto agli occhi, per la quale era necessaria una nuova dottrina politica che potesse arginare la cupidigia sul piano politico (esposta principalmente nella Monarchia). E, al tempo stesso, era necessario un rinnovamento profetico culturale e religioso del cristianesimo che avesse al centro il superamento della cupidigia (Divina Commedia).
Le Tre Fiere sono una creazione dantesca molto complessa e raffinata, tanto sul piano figurativo, una triade con al vertice la lupa, con le connotazioni di ogni fiera che si sovrappongono e si intersecano su ogni altra, fino a formare un insieme i cui significati sono molteplici e unitari allo stesso tempo, tanto sul piano psicologico, infatti Virgilio fa ben intendere che sono una proiezione della cattiva coscienza di Dante personaggio della Commedia4.
La lupa ha a sua volta qualcosa della lonza, della lussuria. È stata una sirena a distogliere Ulisse dal suo cammino, che nel sogno di Dante in Purg. XIX si presenta inizialmente con le sembianze della lussuria, per poi rivelarsi essere l’«antica lupa».
I vizi capitali riguardano l’anima, mentre le condanne sono dovute ad atti specifici, giudicati secondo l’Etica aristotelica, e secondo la concezione romana del diritto (la distinzione del dolo in base alla violenza o alla frode riprende il De officis di Cicerone).
I condannati sono giudicati per gradi, per il rinnegamento della natura dell’uomo quale essere razionale, e per l’infrazione del vincolo d’amore a cui siamo tenuti in quanto creature frutto dell’amore di Dio.
La cupidigia, la lupa, si associa agli altri vizi («molti son li animali a cui s’ammoglia») per dar luogo a una scala di gravità che va dagli incontinenti dei primi gironi, a Giuda che tradì Cristo per i trenta denari, a Cassio e Bruto che tradirono Cesare per cupidigia di potere. Tutti e tre sono maciullati nelle tre bocche di Lucifero, fonte originaria della cupidigia nel suo voler essere come Dio. Al massimo grado la cupidigia contiene in sé, si confonde con la superbia, da ciò l’apparente assenza della superbia dai cerchi infernali (vecchio problema dell’esegesi dantesca)5, che in realtà non è assente, non viene assegnata a dei peccatori terreni ma ai giganti del Canto XXXI, che precedono Lucifero, nel quale cupidigia e superbia coincidono6. In Inf. I la lupa viene indicata quale emanazione dell’invidia di Lucifero, risvolto inevitabile della sua superbia che non potendo paragonarsi a Dio si trasforma in invidia.
«La lupa, infatti, non è solo avarizia, accumulazione di beni puramente materiali, smania di possesso; tutto questo culmina nella smania di dominio, cioè nella volontà di potenza. È questo, forse, il peccato di Lucifero ed esso o essa, la volontà di potenza, si incorpora la superbia quale noi abitanti del terzo millennio la intendiamo oggi. »7 Illuminante commento di Maria Gabriella Riccobono, proprio della volontà di potenza si tratta, come vedremo, ma dobbiamo procedere per gradi.
Le Tre Fiere vengono quindi da Lucifero, e la maggiore è la cupidigia che ridefinisce tutti gli altri vizi, nel complesso si tratta una una nuova manifestazione, diciamo un peccato originale 2.0 (Dio mi perdoni!) dopo che il peccato dei «primi parenti» è stato sanato dalla morte di Gesù Cristo (perciò Adamo si trova in Paradiso). La causa di questo ritorno del peccato originale è stata la Donazione di Costantino che ha destato la cupidigia dei beni temporali nella Chiesa, e da essa il disordine si è diffuso all’intera società. La cupidigia ha un’origine religiosa, da cui il messaggio profetico della Commedia, tuttavia nella definizione della cupidigia è fondamentale l’analisi aristotelica della dismisura nella crematistica. Possiamo dire che la cupidigia ha un doppio piano, religioso ed economico, è una figura teologico-economica.
Nella teologia medievale l’avarizia aveva assunto un nuovo ruolo finendo per soppiantare la superbia quale vizio capitale8. La centralità e l’estensione del concetto di avarizia nella teologia morale cristiana venivano incontro all’indirizzo complessivo della filosofia dantesca di integrare il cristianesimo con la filosofia aristotelica, in particolare, in tal modo, crea una sua peculiare concezione dell’avarizia/cupidigia. Conformemente alla visione cristiana che estendeva il concetto di avarizia, la progressione all’infinito che si verifica nella cattiva crematistica viene estesa all’ambito politico e all’ambito della conoscenza e in quest’ultimo Ulisse ne è il simbolo.
Ha ragione Teodolinda Barolini a definire la cupidigia un «meta-vizio»9, tuttavia essa non riguarda solo all’ambito della incontinenza, poiché il malizioso Ulisse è una figura della cupidigia. Le tre categorie, incontinenza, malizia e matta bestialitade, secondo cui è strutturato l’Inferno non sono degli ulteriori vizi che si sommano a quelli capitali, ma servono a definire la gravità della colpa a cui possono portare i vizi capitali.
«Se si resta fermi al concetto aristotelico di bestialità (e alla sua continuazione medievale), si vede bene, in effetti, che per il filosofo la bestialità non è un vizio a sé, ma piuttosto una particolare (ed estremamente difficile) tonalità del vizio. Ciò significa che ogni vizio è in teoria suscettibile di assumere una connotazione bestiale»10.
Secondo Paolo Falzone, «incontinenza, malizia e matta bestialitade», i tre termini derivati dall’Etica aristotelica menzionati da Virgilio in Inf. XI, in cui vengono esposti i criteri secondo cui sono comminate le condanne, vanno intesi come una gradazione della bestialità. Tuttavia, se è certo a quali cerchi e quali peccatori vanno classificati secondo il criterio dell’incontinenza e della malizia, incerto è invece cosa intendere per matta bestialità. Per Aristotele e Tommaso, osserva Falzone, sarebbero comportamenti aberranti da ascrivere alla patologia (in quest’ultimo sarebbero per questo motivo suscettibili di una pena minore).
Il termine non definisce, appunto, un comportamento specifico, ma la massima degradazione umana. Se gli incontinenti hanno perseguito il male perché non vi è stato controllo della ragione sugli affetti, i maliziosi invece lo hanno fatto con cognizione di causa, hanno usato l’intelligenza per danneggiare il prossimo. Tuttavia, ciò che distingue la malizia dalla matta bestialitade è la presenza nella malizia di una parte d’incontinenza. Ad es., Ulisse ha perseguito il male spinto dal desiderio di conoscenza che di per sé è naturale per l’uomo, ma in lui traviato dalla cupidigia. Invece, nella matta bestialitade vi è quella completa perversione dell’uomo che è l’adesione al male per il male. La concezione dantesca non è del tutto congruente con quella aristotelica, ma in gran parte lo è, perché interviene il concetto cristiano di libero arbitrio .
I peccati infernali sono rappresentati nella forma di fiere perché causano l’imbestiamento dell’essere umano. E il cammino nell’Inferno segue un progressivo imbestiamento fino alla massima bestialità di Lucifero, che ne possiede i connotati più mostruosi e disgustosi.
Bestialità non è mera degradazione dell’umano. Tra i riferimenti di Dante bisogna avere presente non solo la «tua Etica» (Virgilio) ma quel passo centrale della Politica in cui Aristotele, contestualmente alla definizione dell’uomo come «animale politico», definisce l’essere umano tanto la migliore quanto la peggiore delle creature proprio in virtù della sua intelligenza. Per questo il tradimento è la peggiore delle colpe in quanto provoca la distruzione del vincolo comunitario, da cui derivano i più grandi mali.
Secondo il commento della Barolini ai versi di Paradiso XV, l’Inferno è il regno della cupidigia:
«”La volontà retta è un amore buono, la volontà perversa un amore cattivo” – “recta itaque voluntas est bonus amor et voluntas perversa malus amor” – scrive Agostino, fornendo un modello fondamentale per il trattamento dell’amore nella Commedia. Il bonus amor agostiniano, opposto al malus amor, è sotteso alla caratterizzazione data da Dante dell’entrata del purgatorio come «la porta / che ’l mal amor de l’anime disusa» (Purg. X). Il poeta poi si avvicina molto a una parafrasi diretta di Agostino all’inizio di Paradiso XV, quando egli associa la volontà retta (“benigna volontade”) all’amore ben diretto (“amor che drittamente spira”) e la volontà malvagia (“la iniqua [volontade]”) all’amore mal diretto, ovvero alla “cupidità”: “Benigna volontade in che si liqua / sempre l’amor che drittamente spira, / come cupidità fa ne la iniqua”» (Par. XV)»11.
Su questi principi sono stati edificati l’Inferno e il Paradiso (e il Purgatorio in cui il pentimento dimostra la non cattiva volontà delle anime traviate sulla strada terrena). La cupidigia anche sul piano terreno è pura volontà, può quindi essere soppressa dall’Imperatore.
In definitiva, è la buona o la cattiva volontà che conduce all’inferno o al paradiso. È un concetto di volontà che deriva dal creazionismo cristiano che determina una frattura tra essere (in senso ontologico) e agire, che ha determinato l’ineffettualità dell’etica cristiana, in quanto incapace di tenere conto delle necessità naturali dell’uomo, delle costrizioni sociali, della realtà del conflitto che pervade le relazioni umane. L’etica antica, non intendeva espungere il male dal mondo, a differenza dell’etica cristiana che invece paradossalmente ne sancisce il dominio, in quanto nel mondo terreno domina il maligno, mentre invece il bene è riservato al mondo ultraterreno. Machiavelli recupera lo spirito dell’etica antica ripristinando la cognizione della realtà del conflitto (polemos è padre di tutte le cose) e indica di «non partirsi dal bene potendo, a saper entrare nel male necessitati». Il Principe deve avere come fine il bene della Stato, ma deve essere capace di usare il male (la violenza), se necessario, per difenderlo. Il discorso di Machiavelli, tutt’altro che estraneo all’etica, si oppone alla morale cristiana che rende imbelli e così favorisce «i più scellerati». Il superamento della antinomia tra bene e male della morale cristiana trova il suo compimento Goethe:
FAUST
Insomma, tu chi sei?
MEFISTOFELE
Parte di quella forza
che vuole sempre il male e produce sempre il bene
Se il libero arbitrio è l’idea dell’essere umano artefice del proprio destino, tale idea della libertà umana si presenta nel cristianesimo con una frattura verso il mondo reale. Una filosofia della libertà come quella hegeliana superava tale frattura: «La libertà è coscienza della necessità».
Ritornando alla Commedia, insieme alla filosofia cristiana concorre alla creazione della concezione dantesca della cupidigia la filosofia aristotelica. Il concetto di dismisura, l’inversione di mezzo e scopo che causa la progressione all’infinito, della «cattiva» crematistica, viene estesa alla sfera del potere (temporale e religioso) e, sul piano individuale, alla sfera della conoscenza.
Carlos López Cortezo scrive che è la lonza, non la lupa, a rappresentare l’avarizia, ciò è plausibile, data l’intercambiabilità delle Fiere, non dobbiamo attenerci ad una stretta identificazione. La lupa è la brama insaziabile, non rappresenta solo l’avarizia, ma la cupidigia in quanto tale, tuttavia nella lonza, sempre sulla base del metodo interpretativo di Carducci, possiamo vederci sia la lussuria che il desiderio smodato di ricchezza. Ciò trova riscontro nella canzone Doglia mi reca, la cui cifra è il parallelo tra avarizia e rapporto sessuale basato sul solo desiderio carnale, secondo il commento della Barolini12. È in errore Cortezo, invece, quando ritiene che la lussuria non abbia niente a che fare con la cupidigia. Nella suddetta canzone il puro desiderio carnale viene indicato come fonte di dismisura, così il vento che sballotta senza sosta le anime di Paolo e Francesca è una rappresentazione della dismisura13.
La dismisura appare già nel primo canto nella brama senza fine della Lupa, il suo rapporto con l’analisi aristotelica della crematistica ce lo ricorda il paragone con l’avaro nell’incontro con la Lupa. Che fosse una reazione al proto-capitalismo della Firenze ai tempi di Dante appare nella prima invettiva contro Firenze14.
La gente nuova e i sùbiti guadagni
orgoglio e dismisura han generata
Nella Commedia la cupidigia assume la figura di un pervertimento complessivo del comportamento umano. La canzone Doglia mi reca testimonia che la cupidigia, oltre alle connotazioni religiose, ha origine dall’esperienza diretta di Dante nella Firenze del suo tempo. Veniamo quindi alle connotazioni economiche della cupidigia
L’acuta cognizione dantesca delle trasformazioni economiche intervenute nel suo tempo, e in particolare del processo di accumulazione capitalistica, è stata ben descritta da Enrico Fenzi nel commento a suddetta canzone. La figura dell’«avaro» (tesaurizzatore), già ben nota alla cultura filosofica e religiosa, antica e contemporanea a Dante, da eccezione sociale si trasformava in una normalità sociale a cui era difficile sfuggire. Alcuni versi della canzone sono un importante documento storico, il processo di accumulazione del nascente capitalismo viene identificato ed analizzato con notevole precisione.
Come con dismisura si rauna,
così con dismisura si ristrigne;
e questo è quel che pigne
molti in servaggio, e s’alcun si difende,
non è sanza gran briga.
Il denaro viene accumulato e tesaurizzato con dismisura. Ciò conduce molti alla servitù e se qualcuno riesce a sottrarsi a questo processo non è senza gran fatica .
Nella canzone abbiamo un’esposizione più dettagliata della realtà sociale che da origine alla cupidigia, soprattutto per quanto riguarda la dimensione della dismisura, che nella Commedia prende il rilievo di una categoria generale, nella suddetta invettiva contro Firenze vi è lo stesso contenuto, ma espresso in termini più incisivi e allo stesso tempo più generici.
Come osserva Fenzi15, l’avaro non è più eccezione sociale, e non basta più che a lui segua lo scialacquatore, consueto redistributore della ricchezza, in quanto tale fenomeno sociale ha raggiunto un livello tale che trasforma qualitativamente la società. Nel proto-capitalismo fiorentino il denaro principiava ad avere un ruolo quantitativamente e qualitativamente diverso rispetto alle società precedenti. Ciò che oggi chiamiamo capitalismo.
Ciò credo sufficiente per stabilire quanto conti l’osservazione del nascente capitalismo nella genesi della concezione dantesca della cupidigia.
Il concetto di dismisura proviene dall’analisi della cattiva crematistica di Aristotele, ed è l’inversione di mezzo e scopo che si verifica quando il denaro diventa scopo e non mezzo, per cui l’azione spostandosi sul mezzo che è potenzialmente illimitato sul piano quantitativo (denaro) si riproduce su stessa all’infinito. Uno degli aspetti più interessanti e più attuali, detto senza retorica, del pensiero di Dante, è l’applicazione di questo modello analitico al potere religioso e temporale, alla conoscenza.
Fenzi riconduce alla comune radice aristotelica la centralità in Dante e Marx della dismisura:
«La circolazione semplice delle merci -la vendita per la compera- serve di mezzo per un fine ultimo che sta fuori della sfera della circolazione, cioè per lʼappropriazione di valori dʼuso, per la soddisfazione di bisogni. Invece, la circolazione del denaro come capitale è fine a se stessa, poiché la valorizzazione del valore esiste soltanto entro tale movimento sempre rinnovato. Quindi il movimento del capitale è senza misura»16.
Il movimento senza fine del capitale, la brama senza fine della lupa.
Non è la sola significativa convergenza. In una genealogia del sapere, Dante è tra i progenitori di Marx, una parentela che si palesa ancora in Inf. XI, dove l’usura è condannata come contro natura, perché la natura è imitazione di Dio e il lavoro a sua volta è imitazione della natura, ed essendo che la ricchezza può venire solo dal lavoro, l’«usuriere che altra via tiene» commette un sopruso contro Dio e la natura. Se è dichiarata l’ispirazione aristotelica della condanna dell’usura , vi è allo tesso tempo una concezione del lavoro come unico creatore della ricchezza che non è aristotelica, ed è un’anticipazione della concezione marxiana.
Una volta definita, nei suoi tratti essenziali, la visione dantesca della cupidigia, possiamo tornare alla figura di Ulisse quale incarnazione della cupidigia intellettuale.
Ciò è opportunamente chiarito dallo stesso Dante. In Purg. XIX sogna una «dolce serena», che poi nel sogno si trasforma in un orrendo mostro. Lei che aveva distolto Ulisse dal suo cammino, secondo Virgilio è «quell’antica strega/che sola sovr’ a noi omai si piagne», ovvero la cupidigia/avarizia che viene punita nella IV cornice dove si trovano. Il Canto successivo chiarisce ulteriormente che era l’ «antica lupa».
In Purg. XIX vi è un’invettiva contro la lupa che ne fa un quadro più preciso rispetto ad Inf. I:
Maladetta sie tu, antica lupa,
che più che tutte l’altre bestie hai preda
per la tua fame sanza fine cupa!
Secondo il commento di Anna Maria Chiavacci Leonardi, «questa lupa è infatti il primo nemico di Dante, e degli uomini, in tutta la Commedia. È quella che impedisce la salvezza nel I dell’Inferno, e che a più riprese è denunciata e condannata nelle sue manifestazioni più gravi – cioè nei potenti, e soprattutto nei papi – lungo il poema che infine per questo è stato scritto. Di qui la forza racchiusa in queste due terzine, la prima di condanna, la seconda di sospiro e invocazione verso lo sperato intervento divino. L’invettiva è posta non casualmente tra l’incontro con Adriano V – un pontefice – e quello con Ugo Capeto – un re – che impersonano i due poteri della terra, ambedue corrotti e viziati da questo terribile tra tutti i mali.»
Papa Adriano V narra di essersi volto alla vita eterna soltanto quando, diventato papa, « vidi che lì non s’acquetava il core,/né più salir potiesi in quella vita». La sua quindi è un’avarizia di tipo particolare. «Citando Gregorio Magno, ecco che cosa insegna nella Summa Tommaso d’Aquino […] : «avaritia – insegna – est non solum pecuniae (avarizia non è solo avidità di denaro), sed etiam scientiae et altitudinis, cum supra modo sublimitas ambitur (ma è anche avidità di sapere e di eccellere, qualora il primato sia perseguito smodatamente)»17.
L’estensione da parte di Tommaso del significato del termine avaritia era iniziata con Agostino che intendeva in questo modo conciliare l’antico e il nuovo testamento. Per il primo l’inizio di tutti i mali è la superbia, «A superbia initium sumpsit omnis perditio» (Dalla superbia prende inizio ogni perdizione, Tobia, 4, 13), per il secondo la radice di tutti i mali è la cupidigia, «Radix omnium malorum est cupiditas» (La cupidigia è la radice di ogni male, San Paolo) 18. Dante segue tale indirizzo, in Purg. XIX sono presenti tutte le «avarizie», quella in senso ordinario, l’avarizia di potere (papi e regnanti), e l’«avarizia» di conoscenza. In quest’ultimo caso, attraverso la sirena che richiama la figura di Ulisse.
Se quella di Adriano V è indubbiamente avaritia altitudinis, quella di Ulisse è avaritia scientiae (deduzione di Vittorio Sermonti). Dante ci vuole a caccia della verità, secondo la bella immagine della fera in lustra di Par. IV, la fiera che dopo la caccia si gode nella sua tana la sua preda-verità. Il Canto, che inizia con il sogno della «dolce serena» ci fornisce molti indizi per decifrare la figura di Ulisse e insieme della concezione dantesca della cupidigia, in merito alla quale Dante personaggio non ha ancora del tutto la coscienza a posto, visto che la nuova incarnazione del mostro viene a turbargli i sogni. La liberazione interiore finale avverrà con la confessione a Beatrice della propria cupidigia.
Il Convivio ha tra i suoi temi centrali l’avaritia scientiae, cioè il naturale desiderio di conoscenza pervertito dalla cupidigia. Ma è utile partire dai versi di Doglia mi reca che hanno una precisa corrispondenza lessicale e concettuale con il Convivio:
Corre l’avaro, ma più fugge pace:
oh mente cieca, che non può vedere
lo suo folle volere
che ‘l numero, ch’ognora a passar bada,
che ‘nfinito vaneggia.
Secondo il commento di Fenzi «un numero nel quale s’è consumata sino in fondo ogni idea di concreta ricchezza di cose, di valori d’uso, e dove per contro trionfa l’idea opposta di una forma di ricchezza astratta, puramente contabile e finanziaria, tendente all’infinito e proprio per questo inseguita dall’avaro sedotto precisamente dal miraggio di una tale infinita realizzazione di sé nell’infinita realizzazione del suo denaro come capitale»19.
Nel Convivio ritorna l’avaro che rincorre l’infinito, ma come paragone con chi attraverso la conoscenza razionale vuole raggiungere la conoscenza diretta di Dio.
Per Dante esiste un desiderio di conoscenza naturale che dirige la conoscenza verso l’oggetto, e di questo la coscienza è temporaneamente soddisfatta, mentre esiste un desiderio di conoscenza non naturale, in cui interviene quel pervertimento dell’ordine morale, tanto individuale che collettivo, costituito dalla cupidigia che devia da un’intenctio recta verso l’oggetto (trovo appropriate le categorie di Nicolai Hartmann) in direzione di un’intenctio obligua che devia la conoscenza dall’oggetto verso il soggetto del conoscere.
Smarrite le sue finalità concrete, la conoscenza diventa un fine per se stessa, e per se stessi, diventa il proprio fine ultimo. In questa deviazione il desiderio non può che crescere su stesso perennemente lasciando perennemente insoddisfatti.
La similitudine tra alimentazione e conoscenza è dei primi passi del Convivio. Il desiderio naturale di conoscenza trova un suo compimento nella relazione con l’oggetto, recando soddisfazione, a somiglianza dell’alimentazione, il più elementare rapporto umano con la natura. Invece la lupa, la cupidigia, «dopo ‘l pasto ha più fame che pria», non consegue quella soddisfazione temporanea accessibile all’essere umano, seppure il desiderio di conoscenza, come nel caso dell’alimentazione, essendo un rapporto processuale con la natura, naturalmente si rinnova.
Il naturale desiderio umano di conoscenza «è misurato in questa vita a quella scienza che qui avere si può, e quello punto non passa se non per errore, lo quale è fuori di naturale intenzione» e l’errore è quello dell’«avaro maladetto». Non è naturale, invece, la cupidigia di conoscenza simile al comportamento dell’avaro, essa è piuttosto il pervertimento del desiderio naturale.
Qual è il fine della conoscenza? Veniamo quindi al seguente passo (III xv 6-10), molto importante, del Convivio dove l’oggetto della critica dantesca è la conoscenza di Dio come concepita da Tommaso. È un confronto di grande interesse, siamo nel pieno di quella «teologia economica» dalla cui secolarizzazione sorge l’ideologia del capitalismo moderno.
Dov’è da sapere che in alcuno modo queste cose nostro intelletto abbagliano, in quanto certe cose [si] affermano essere che lo intelletto nostro guardare non può, cioè Dio e la etternitate e la prima materia; che certissimamente si veggiono, e con tutta fede si credono essere, e per quello che sono intendere noi non potemo; [e nullo] se non cose negando si può appressare a la sua conoscenza, e non altrimenti. Veramente può qui alcuno forte dubitare come ciò sia, che la sapienza possa fare l’uomo beato, non potendo a lui perfettamente certe cose mostrare; con ciò sia cosa che ‘l naturale desiderio sia a l’uomo di sapere, e sanza compiere lo desiderio beato essere non possa. A ciò si può chiaramente rispondere che lo desiderio naturale in ciascuna cosa è misurato secondo la possibilitade de la cosa desiderante: altrimenti andrebbe in contrario di se medesimo, che impossibile è; e la Natura l’avrebbe fatto indarno, che è anche impossibile. In contrario andrebbe: chè, desiderando la sua perfezione, desiderrebbe la sua imperfezione; imperò che desiderrebbe sè sempre desiderare e non compiere mai suo desiderio (e in questo errore cade l’avaro maladetto, e non s’accorge che desidera sè sempre desiderare, andando dietro al numero impossibile a giugnere). Avrebbelo anco la Natura fatto indarno, però che non sarebbe ad alcuno fine ordinato. E però l’umano desiderio è misurato in questa vita a quella scienza che qui avere si può, e quello punto non passa se non per errore, lo quale è di fuori di naturale intenzione […] Onde, con ciò sia cosa che conoscere di Dio e di certe altre cose quello esse sono non sia possibile a la nostra natura, quello da noi naturalmente non è desiderato di sapere. E per questo è la dubitazione soluta .
Soluzione temporanea, considerando che la Commedia si dirigerà verso una conoscenza diretta di Dio. Ma riceve un provvisorio punto fermo. Di Dio, dell’eternità, della prima materia arriviamo con la ragione ad averne cognizione, ma non desideriamo conoscerli direttamente. La natura, come dice il Filosofo (Aristotele) nihil facit frusta , nulla fa invano, ci ha fornito di organi naturali per la conoscenza limitata che in quanto esseri limitati possiamo raggiungere, e nell’esercizio di queste nostre capacità siamo soddisfatti. L’errore dei desideri non naturali non sta nel limite della conoscenza, ma piuttosto, al contrario, nella sua mancanza.
L’avaro che mira al numero impossibile da raggiungere rimanda a un preciso passo della Metafisica in cui Aristotele respinge l’operatività del concetto di infinito, poiché gli esseri umani nel processo conoscitivo operano sempre con il finito, altrimenti non sarebbe possibile la conoscenza. Da notare che ammette la divisibilità all’infinito di una retta, che tuttavia «non può essere pensata, se non si arresta la divisione». L’ammissione nel regno della conoscibilità dell’infinito avrebbe delle conseguenze sul piano etico, in quanto annullerebbe la causa finale, senza cui gli esseri umani perderebbero lo scopo dalla loro azione, poiché non avrebbe un termine, termine che è anche fine20.
L’osservazione che la cupidigia di conoscenza condivide con l’avaro il falso scopo di mirare al numero impossibile da raggiungere, cioè il cattivo infinito della dismisura, se volessimo dirlo con terminologia hegeliana, stabilisce un collegamento tra la dismisura analizzata nella Politica e il passo suddetto della Metafisica. È una lettura originale del testo aristotelico.
La conoscenza dantesca di Aristotele passa sicuramente attraverso Tommaso D’Aquino, ma tale questione segna tra loro una netta divergenza. Bruno Nardi osserva come Tommaso volesse introdurre in modo piuttosto surrettizio, con «dissimulata ingenuità», l’idea che per Aristotele il desiderio naturale di conoscenza conduce al desiderio di conoscere Dio, e in modo affatto contrario anche alla lettera del testo aristotelico, fa l’esempio della retta o della serie numerica a cui possiamo fare aggiunte all’infinito, finendo per ragionare proprio come l’«avaro maladetto»21.
È in questo passo l’osservazione aristotelica relativa alle infinite divisioni della linea. Tommaso22 e Dante menzionano la linea e i numeri, ma il senso è lo stesso. Mentre per Aristotele attraverso queste operazioni mentali non è possibile giungere all’infinito, al contrario per Tommaso tale operazione geometrica ci fornisce un esempio non solo della pensabilità dell’infinito, cioè di Dio, ma dimostra che gli esseri umani mirano in ultima istanza alla conoscenza diretta di Dio, che possono conseguire solo parzialmente in questa vita, e interamente nella vita dopo la morte.
Significativo quindi il parallelo dantesco tra l’avaro che persegue un’accumulazione virtualmente infinita, moneta per moneta, e la conoscenza di Dio a cui possiamo arrivare allo stesso modo in cui possiamo prolungare la retta, o la serie dei numeri, fino all’infinito. Ma è un numero «impossibile a giugnere», per quanto possiamo prolungare la retta avremo sempre una retta finita. Aggiungo un’interpretazione, che a me pare piuttosto evidente, ma implicita in Dante, altrimenti avrebbe dovuto accusare apertamente Tommaso. Per prolungare la retta all’infinito dovremmo immaginarci immortali, e quindi assimilarci a Dio, cadendo quindi nel peccato originale. Nella cupidigia di Ulisse Dante condanna il desiderio di essere simili a Dio tramite la conoscenza.
Come l’avaro, Ulisse è accumulatore di conoscenza, vuole «arricchirsi culturalmente», per dirlo con un’abusata espressione comune. Per quanto possa sembrare inappropriato il paragone tra il comportamento eroico di Ulisse e la superficialità dell’uomo-turista odierno (l’Europa trasformata in un grande parco per turisti è uno dei temi dell’ultimo Houellebecq), anche se nel 1300 la figura del turista non esisteva ancora, non è molto lontano dal vero dire che Ulisse per Dante è, per certi aspetti, come quei ricchi turisti che «ammazzano il tempo» nel vagabondare da una meta turistica all’altra.
Il vagabondare di Ulisse è dovuto alla mancanza uno scopo autentico. Nessuna terra può soddisfare la sua cupidigia di conoscenza, perché il suo fine non è l’oggetto della conoscenza, ma accrescere la sua potenza tramite la conoscenza. Ulisse ha smarrito la finalità concreta e sociale del conoscere, non è alla ricerca di una terra in cui insediarsi per farne la sua patria con i suoi compagni, egli persegue un fine puramente individuale ( «misi me per l’alto mare aperto») e i suoi compagni sono strumento sono suoi strumenti insieme ai remi fatti ali al «folle volo» 23. Anche la conoscenza può essere veicolo di alienazione nella misura in cui diventa «fine ultimo ed unico» (Marx).
Mirare al «numero impossibile da raggiungere» comporta un appiattimento della conoscenza sulla dimensione puramente quantitativa (anche questa analisi di notevole attualità). Mentre l’accumulazione di ricchezza cresce in modo puramente quantitativo, posso aumentare il patrimonio di 100 fiorini, ma questi 100 sono uguali ai 100 che avevo in precedenza, la conoscenza cresce in modo qualitativo, passando attraverso diversi livelli, ognuno compiuto e avente in sé la sua perfezione. Lasciamo la parola a Dante (Convivio, IV, 13):
« … quello che propriamente cresce sempe è uno; lo desiderio della scienza non è sempre uno ma è molti, e, finito l’uno, viene l’altro: sì che, propiamente parlando, non è crescere lo suo dilatare, ma successione di picciola cosa in grande cosa. Ché se io desidero di sapere li pricipii delle cose naturali, incontanente che io so questi, è compiuto e terminato questo desiderio. E se poi io desidero di sapere che cosa e com’è ciascuno di questi principii, questo è un altro desiderio nuovo, né per l’avenimento di questo non mi si toglie la perfezione alla quale mi condusse l’altro; e questo cotale dilatare non è cagione d’imperfezione, ma di perfezione maggiore. Quello veramente della ricchezza è propiamente crescere, che è sempre pur uno, sì che nulla successione quivi si vede, e per nullo termine e per nulla perfezione.»
La conoscenza di Ulisse pervertita dalla cupidigia è una conoscenza puramente quantitativa, appena conosciuta una terra passa alla successiva, perché intende solo accrescere il numero delle terre conosciute. Potremmo dire che Ulisse ha conosciuto tante terre, ma non ne ha conosciuta veramente nessuna.
La «forte dubitazione», termine che indica un affanno interiore, non era «soluta». Il forte dissidio interiore, da cui nasce Ulisse, su tali questione emerge nel passo successivo, collegato a quello appena citato, dove si parla dei diversi livelli di conoscenza secondo le fasi dell’età.
E perché la sua conoscenza prima è imperfetta per non essere esperta né dottrinata, piccioli beni le paiono grandi, e però da quelli comincia prima a desiderare. Onde vedemo li parvuli desiderare massimamente un pomo; e poi, più procedendo, desiderare uno augellino; e poi, più oltre, desiderare bel vestimento; e poi lo cavallo; e poi una donna; e poi ricchezza non grande, e poi grande, e poi più. E questo incontra perché in nulla di queste cose truova quella che va cercando, e credela trovare più oltre.
Questo passo segue maggiormente la filosofia tomasiana, anche se il desiderio naturale piuttosto che condurre alla conoscenza di Dio, porta sotto il dominio della lupa, ma per la filosofia di Agostino il desiderio può condurre al bonus o malus amor, secondo Tommaso che segue Agostino, ««la conversione, o adesione disordinata al bene transitorio» (“inordinata conversio ad commutabile bono”)»24, l’adesione affettiva ai beni terreni.
All’inizio vi è la crescita qualitativa della conoscenza. Il bambino gode del pomo, dell’augellino, che simboleggiano diversi livelli di conoscenza ma questi godimenti si esauriscono con il loro compiersi e spingono ad acquisire un diverso oggetto, un diverso livello di conoscenza. Ma tutto poi si conclude in una crescita puramente quantitativa, «ricchezza, e poi grande, e poi più», per cui lo stesso Dante ragiona come l’avaro e come Ulisse che deve andare sempre più oltre. Qui emerge pienamente il dissidio interno al pensiero di Dante. Nella Commedia vi sarà una maggiore vicinanza a Tommaso, già rilevato da altri, tra cui Nardi25 e Falzone26, ma le premesse ci sono già nel Convivio. Per andare fino in fondo nella critica alla filosofia tomasiana, Dante avrebbe dovuto indirizzarsi verso un naturalismo a lui precluso, per vari motivi (come abbiamo già visto nella prima parte di questo lavoro).
Dal dissidio sulla questione della conoscenza nasce la figura di Ulisse, alter ego di Dante.
Il riavvicinamento alla visione cristiana più ortodossa, non attenua la potente critica alla volontà di potenza rappresentata dalla figura di Ulisse, che è autocritica di Dante stesso, come osservavo nella prima parte di questo lavoro. Vi è in gioco non solo la questione della subordinazione della ragione alla fede, anzi è proprio essa che consente la critica della volontà di potenza. È il desiderio di assimilarsi a Dio attraverso la conoscenza che comporta la perdita del senso del limite.
Ulisse ha le sembianze dell’eroe perché segue coerentemente il suo principio interiore, sempre più oltre, finché non incontra il suo destino. Tuttavia ciò che lo spinge è la cupidigia di conoscenza, non il desiderio di conoscenza come vuole Gennaro Sasso, che è tra quanti vogliono assolvere Ulisse27.
In mezzo alle contraddizioni, e al dissidio interiore, prende corpo un’analisi originale di Dante che vede un disordine esiziale, simile al comportamento dell’avaro, che si estende a tutti gli ambiti della società. Una perdita del fine delle azioni umane che non giungono al loro termine, si perdono in una progressione all’infinito che causa disordine, caos sociale, violenza, distruzione. La monarchia universale servirebbe proprio a fermare questa progressione della cupidigia di potere, poiché il monarca dantesco giunto al sommo, non potendo ambire a maggiore potere, ferma questa progressione. Un’osservazione incidentale di Marx spiega bene questa estensione del comportamento dell’ «avaro» (tesaurizzatore) all’ambito del potere. «Questa contraddizione tra il limite quantitativo e l’illimitatezza qualitativa del denaro risospinge sempre il tesaurizzatore al lavoro di Sisifo dell’accumulazione. Al tesaurizzatore succede come al conquistatore del mondo: la conquista di un nuovo paese è solo la conquista di un nuovo confine.»28 Il mito di Sisifo viene ripreso da Dante per il contrappasso degli avari in purgatorio.
Troppo bene si è rispecchiata in Ulisse la coscienza occidentale perché non facesse di lui un «eroe della conoscenza», ignorando la condanna dantesca. Ma perseguendo la conoscenza per se stessa, e per se stessi, Ulisse non incontra lo stesso scacco che incontra Faust alla conclusione-nuovo inizio della sua vita, quando ritiene di aver sprecato la sua vita e che «nulla si può conoscere?».
Ulisse per conoscere il mondo non ha paura di sfidare l’ignoto. Il destino vorrà la sua morte, ma altri dopo di lui avranno successo. Così è nato il mondo moderno. Ma, considerati gli esiti, era il viaggio di Ulisse necessario? Enormi problemi ed enormi rischi derivano dalla progressione all’infinito, il paradigma su cui viene a fondarsi la civiltà occidentale che rischia di devastare la Terra e di innescare uno scontro con le altre civiltà che oggi costituiscono il limite oggettivo di Ulisse, l’uomo occidentale. La Natura e l’Altro sono oggi il limite di Ulisse, il termine contro il quale si infrange la progressione all’infinito. Negare l’intero percorso della nostra civiltà, come dettato dalla sola follia, non ha utilità e non ha senso. Il percorso fallimentare di Ulisse ci indica la necessità di ritrovare i «sentieri interrotti» nel passato.
Ulisse è un prodigioso simbolo che intuisce uno sviluppo che allora era ancora in germe. La conoscenza tecnico-scientifica (incluse la tecnica di governo e la tecnica militare), insieme alla conoscenza della Terra seguita alle scoperte geografiche, permetterà alla civiltà europea un balzo in avanti rispetto alle altre civiltà. C’è da osservare, però, che è uno sviluppo dell’intera umanità, che verrà raccolto in modo casuale dalla civiltà europea, perché allora era in formazione. Basti ricordare che i numeri, la carta, la polvere da sparo non sono invenzione europea, ma strumenti di cui essa si appropria.
Massimo Cacciari in un’intervista si chiedeva retoricamente: la civiltà europea ha seguito la strada di Enea o quella di Ulisse? Dante veder in anticipo il fallimento di civiltà insito nel dominio della cupidigia, lo vede nell’esplosione degli odi inconciliabili tra fazioni e tra città, che aveva causato il fallimento della civiltà cumunale, con-dannata interamente all’Inferno. Dopo la società comunale, il testimone storico, nella civiltà europea in formazione, passava ai regni (già con-dannati da Dante per la medesima cupidigia), mentre lo «maladetto fiore» , ovvero l’accumulazione capitalistica fiorentina e delle altre città italiane, finanzierà la prima delle guerre secolari tra Francia e Inghilterra, che accompagneranno il lungo parto abortito dell’Europa moderna. I Bardi e i Peruzzi, principali bancheri fiorentini, nel 1340 perderanno il capitale prestato al re d’Inghilterra, causando il fallimento a catena delle attività a loro collegate, e una grave crisi economica a Firenze (la prima crisi economica in senso moderno). Il capitale originario delle città italiane, si trasferirà, accumulandosi da egemone ad egemone. All’egemonia del fiorino subentrerà quella di altre monete, ma il simbolo del dollaro conserva ancora oggi la volontà di superare le Colonne d’Ercole. La derivazione indicata come più probabile della $ (il simbolo originale aveva due stanghette) deriva dalle due colonne avvolte da un nastro con la scritta «Plus ultra» raffigurati nel cosiddetto dollaro spagnolo. Secoli di conflitti egemonici nell’ambito del mondo europeo-occidentale, che hanno causato continue rivoluzioni nell’ambito dell’organizzazione del lavoro, dello Stato, e della Tecnica, senza che nessuno Stato sia stato in grado da funzionare da principio ordinatore, fino all’esplosione finale della civiltà europea in due guerre mondiali. Il tutto all’interno di una progressiva accelerazione della storia che assomiglia alla caduta di un peso.
Ulisse è simbolo della progressione all’infinito, che comporta il continuo superamento dei limiti, ovvero il paradigma su cui viene a fondarsi la civiltà europea-occidentale. Devo rimandare alla I parte per il complesso rapporto tra grecità e romanità che si gioca intorno alla dismisura di Alessandro Magno, quale uno dei volti di Ulisse. Non è senza motivo che Dante scelga proprio un eroe greco per affermare, in negativo, quel principio della misura quale valore che maggiormente caratterizza il pensiero di Aristotele, e la cultura greca29.
Cos’è il senso del limite? Il ceppo posto dalla divinità davanti all’uomo per provocarne il superamento? Nel caso di Ulisse non è tanto il superamento delle Colonne d’Ercole, ma questo ulteriore viaggio, quando lui e i suoi compagni sono oramai vecchi e tardi, per vedere «il mondo sanza gente». Più che una sfida alla divinità, sembra il gesto folle, senza senso, di chi ha perso il senso della misura e della finitudine umana.
Ulisse non può che protrarre fino alle fine la stessa operazione, la scoperta di una nuova terra, da addizionare alla precedente. Avendo smarrito il fine terreno, che per Aristotele è anche un termine, non può che proseguire all’infinito, finché la sua finitudine di essere umano non metta la parola fine. Erano davvero per Dante, cristiano, le colonne un limite posto da Dio? Ai suoi tempi erano già state superate, come scriveva il suo maestro Brunetto Latini30. Le Colonne d’Ercole, mito pagano, non potevano avere per Dante un significato religioso, sono piuttosto un simbolo della necessità che le azioni umane abbiano uno scopo concreto, che costituisce anche un termine per l’azione stessa (Aristotele). L’agire di Ulisse non ha questo termine, il termine è il termine stesso, il continuo superamento, una terra, poi un’altra e un’altra ancora, finché incontra il limite, nella natura esterna, oppure nella nostra natura di esseri umani mortali, per questo Dante mette ben in chiaro che Ulisse è vecchio quasi decrepito. Andando sempre più oltre infine inevitabilmente ci si scontra con il limite. Il «trapassare del limite» (simbolico delle Colonne d’Ercole) ha il significato della perdita del senso della finitudine umana.
Smarrito il fine concreto in cui l’azione umana deve andare a concludersi, e spostandosi la finalità sul mezzo, l’azione effettua, in un loop infinito, la ripetizione della stessa azione.
Ulisse è come Don Giovanni del libretto di Lorenzo Da Ponte. A Don Giovanni non interessa che la nuova conquista sia alta o bassa, bruna o bionda, ricca o povera, basta che faccia numero, da annoverare nel catalogo tenuto da Leporello, a testimonianza della sua smisurata potenza sessuale. Come quella di Don Giovanni, quella di Ulisse è una tragicommedia. Don Giovanni non ha paura, non si tira indietro quando la statua del Commendatore lo invita a cena, contrappuntata dai commenti comici di Leporello. Provando a liberarci delle stratificazioni culturali createsi intorno alla figura di Ulisse, questo vegliardo ormai agli ultimi anni della vita che si mette in mare e incita i compagni ad andare a visitare la «terra senza gente», ci ricorda il vecchio che vorrebbe comportarsi come se avesse il vigore sessuale della gioventù. Come detto nel canto successivo, Ulisse era nell’età in cui bisogna «tirare i remi in barca». Se non proprio ilarità il comportamento di Ulisse suscita l’idea di un comportamento insensato, e tale è per Dante il suo «folle volo».
A causa della mitizzazione (l’«eroe della conoscenza»), non si è voluta vedere la comicità nel «canto di Ulisse». Necessariamente Virgilio opera un inganno ai suoi danni, se si fosse presentato nei suoi veri panni, l’eroe greco, che come tutti i dannati conoscono quanto è accaduto dopo di loro (l’aveva spiegato Farinata), si sarebbe rifiutato di parlare con chi aveva espresso pessimi giudizi su lui nell’Eneide. Quindi Virgilio, l’unico a conoscere il greco, parla ad Ulisse, fingendosi qualcun altro, un greco, forse Omero, come deduceva il Tasso qualche secolo fa. È legittimo ingannare l’ingannatore, è un altro contrappasso, e senza inganno sarebbe fallito l’obiettivo di farsi dire com’era morto, Dante personaggio ne è curiosissimo. Se non basta questa deduzione, pur necessaria, allora sentiamo come Virgilio liquida Ulisse (vien detto nel canto successivo), dismettendo il tono aulico e rivolgendosi a lui in mantovano: «Istra t’en va più non d’adizzo». Ora vai, non voglio più aizzarti. Ma forse per rendere il tono dovremmo usare un’espressione volgare (alle quali il Poeta non era estraneo): vai ora, e non rompere più il c… Secondo Francesco de Sanctis, il comico di Dante non fa ridere, ma in questo caso, se abbiamo presente l’inganno di cui è vittima Ulisse, dobbiamo ammettere che un certo grado di comicità non manca.
Come non manca il tragico, Ulisse è un eroe che persegue coerentemente il suo principio interiore, va fino in fondo al suo destino, fino al limite ultimo. Ma allo stesso tempo il suo è un comportamento insensato, il suo è un «folle volo». Per questo al tragico si deve aggiungere il comico. Ulisse è la prima figura di ereo tragicomico, nel senso della coesistenza di comico e tragico.
Il desiderio di conoscenza per l’uomo non si estingue mai, questa è una convinzione che fa parte non solo di Dante e della cultura alta. Tra i centinaia di detti ereditati da mia madre della cultura contadina vi è quello secondo cui «la vecchia a cent’anni diceva che aveva ancora da imparare». Vi è però anche un’età in cui mettere a frutto l’esperienza, in particolare Ulisse è nell’età senile in cui l’uomo «alluma non pur sé ma gli altri», o meglio, dovrebbe, secondo il comportamento consono alle diverse età descritto nel Convivio (IV, 27), invece prevale il personale desiderio di conoscenza, di cui continua a bruciare, quindi dovrà bruciare in eterno all’Inferno31.
Con l’estensione dell’analisi aristotelica della cattiva crematistica, l’analisi dantesca si avvicina, anticipandola, alla critica hedeideggeriana della volontà di potenza. Tralasciando la ricostruzione della nascita della metafisica, la volontà di potenza che culmina con Nietzsche è essenzialmente assenza di scopo, essa non ha altro scopo se non il proprio accrescimento. Scrive Heidegger: «Non è il nulla ciò di fronte a cui la volontà indietreggia spaventata, ma il non volere, l’annientamento della sua propria possibilità essenziale». Per gli stessi motivi Ulisse non può indietreggiare fronte al limite estremo, oltre il quale vi è «il mondo sanza gente». Rappresentazione molto efficace del nichilismo. Nietzsche: «Che cosa significa nichilismo? Manca il fine, manca la risposta al perché». Ulisse essenzialmente manca del fine.
La massima vicinanza è laddove Dante definisce, nel già citato passo, la cupidigia di conoscenza come desiderio di desiderio (chi mira al numero impossibile da raggiungere «desiderebbe sempre sé desiderare»). Per Nietzsche «la volontà di potenza vuole se stessa – e nient’altro», e di conseguenza il suo continuo accrescimento. Per questo, secondo Heidegger, la volontà di potenza è volontà di volontà32.
Il motivo per cui la critica della volontà di potenza di Heidegger così ben si adegua alla figura di Ulisse è più di una singolare coincidenza, considerato che il filosofo tedesco non risulta fosse un estimatore della Commedia, ma l’indicazione che entrambi hanno un trattato delle stesse questioni di fondo della cultura occidentale. La scienza, «la conoscenza in generale, sono una forma della volontà di potenza», ma «giunti ad avere nella storia dell’Occidente una potenza essenziale» 33 Nella Monarchia «la più alta facoltà dell’umanità è la facoltà o potenza intellettiva.» Per questo la perversione di questa facoltà ad opera della cupidigia è la forma più elevata di cupidigia.
La volontà di potenza nella Divina Commedia è incarnata da Dio («vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole»). La colpa di Ulisse è di voler essere come Dio. La divina volontà di potenza è ancora argine alla umana volontà di potenza. Con la «morte di Dio», inevitabilmente seguita alla sua umanizzazione, l’argine crolla.
Il cristianesimo fonda quell’identità tra volontà ed essere, e quindi l’identità tra volontà e potenza, cioè la potenza di portare ad essere quanto è nella mente del Creatore, come espresso dal celeberrimo passo appena citato.
«Quando Tommaso identifica in Dio essenza e volonta {“Est igitur voluntas Dei ipsa eius essentia”: Contra Gentiles, lib. 1, cap. 75, n. 2), egli non fa in realta che spingere all’estremo questo primato della volontà. Poiché ciò che la volonta di Dio vuole e la sua stessa essenza (“principale divinae voluntatis volitum est eius essentia”: ibid., lib. 1, cap. 74, n. 1), cio implica che la volonta di Dio vuole sempre se stessa, e sempre volontà di volontà. »
Secondo Giorgio Agamben, il concetto moderno di volontà è essenzialmente estraneo alla tradizione del pensiero greco e si forma attraverso un lento processo che coincide con quello che porta alla creazione dell’io.
Perché nasca l’oikonomia è necessario che il mondo sia frutto della Creazione e quindi determinato dalla volontà del Creatore. In generale il passaggio costituito dal cristianesimo e dalla filosofia medievale viene poco considerato da Heidegger, l’analisi di Agamben risulta quindi integrativa per il nostro discorso, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra la volontà di potenza e l’oikonomia che si afferma con il cristianesimo.
«Alla domanda “perché Dio ha fatto il cielo e la terra?”, Agostino risponde: “quia voluit”, “perché così ha voluto” (A u g ., Gen. Man., 1, 2,4). E secoli dopo, al vertice della scolastica, l’infondabilità della creazione nell’essere è chiaramente ribadita contra Gentiles da Tommaso: “Dio non agisce per necessitatem naturae, ma per arbitrium voluntatis” {Contra Gentiles, lib. 2, cap. 23, n. 1). La volontà è, cioè, il dispositivo che deve articolare insieme essere e azione, che si sono divisi in Dio. Il primato della volontà, che, secondo Heidegger, domina la storia della metafisica occidentale e giunge con Schelling e Nietzsche al suo compimento, ha la sua radice nella frattura fra essere e agire in Dio ed è, pertanto, fin dall’inizio solidale con l’oikonomia teologica»34.
Il peccato di Ulisse è voler acquisire una volontà di potenza che è propria di Dio. Ulisse di Dante, eroe cristiano nel suo essere individuo, è espressione della natura contraddittoria del cristianesimo che è stato tanto generatore della volontà di potenza, quanto suo freno. D’altronde, questa contraddizione non è nella stessa Bibbia? Per quale motivo furono condannati Adamo ed Eva per aver mangiato dall’albero della conoscenza se essi erano stati fatti ad immagine e somiglianza di Dio?
Come scrisse Marx nelle Tesi su Feuerbach finora per quanto riguarda la conoscenza il «lato attivo è stato sviluppato, in modo astratto e in contrasto col materialismo, dall’idealismo, che naturalmente ignora l’attività reale, sensibile come tale». L’uomo non si limita a conoscere la realtà, l’uomo è creatore, crea il suo mondo con la sua attività. Il platonismo, il cristianesimo, l’idealismo sono stati espressione della facoltà creativa dell’essere umano, destinato naturalmente ad un diverso rapporto con la natura, che non gli ha fornito artigli per difendersi, arti adeguati alla corsa, una pelliccia per difendersi dal freddo e dal caldo. Che questo rapporto abbia portato l’essere umano, in primis occidentale, in rotta di collisione con la natura, non significa che debba essere rinnegato in toto.
La Commedia è una delle massime espressioni poetiche della divinizzazione dell’essere umano (pensiamo a come si conclude) insita nel creazionismo, che inevitabilmente comporta la scomparsa della trascendenza. Ciò che solo trascende l’essere umano è la natura infinita ed eterna che lo ha generato, e che non è stata creata da nessun Dio (Eraclito). Ma ne è stato allo stesso tempo l’autocritica, di cui l’Ulisse è la creazione più significativa. .
Nel cristianesimo dantesco la trascendenza della natura si presenta accoppiata con la sua antropomorfizzazione («Dio, l’eternitate e la prima materia»). Questo consente a Dante di con-dannare il viaggio di Ulisse che vuole essere simile a Dio, salvo poi realizzarlo con successo egli stesso grazie alla grazia (se mi passate il gioco di parole).
In conclusione del suo viaggio Dante incontra Dio, che non è altri che noi stessi. Il cristianesimo, la religione cede il passo alla divinizzazione dell’uomo, all’umanesimo scientifico. All’uomo religioso medioevale subentra l’uomo vitruviano di Leonardo, l’effige del Dio-Uomo inscritta nel cerchio e nel quadrato, commisurazione di infinito e finito, vista in conclusione del suo viaggio da Dante. Una storia che ha condotto, nei nostri giorni all’illusione, attraverso la Tecnica, di una completa padronanza del mondo. Ma Ulisse resta nell’Inferno ad ammonirci con il ricordo dell’inevitabile naufragio a cui conduce questa rotta.
Come ha scritto Emanuele Severino, l’inversione di mezzo e scopo prima di verificarsi nel denaro si verifica in ambito teologico, Gesù invece di essere tramite a Dio, diventa esso stesso scopo, così come il denaro invece che mezzo di scambio diventa scopo stesso dello scambio35.
Gli Dei nell’antica Grecia erano un tramite alla natura non generata e infinita, ma ad un certo livello di sviluppo della conoscenza umana sorge nell’essere umano (occidentale) l’illusione di potersi ergere al di sopra della natura, di diventarne il creatore, così come si era fatto creatore del proprio mondo umano. Questo ergersi dell’essere umano al di sopra della natura crea l’inversione di mezzo e scopo. Perso il senso del limite posto dalla Natura lo si perde anche nella società, così sorge l’illusione dell’oikonomia, l’illusione di poter amministrare l’intera società come se fosse la propria casa, che non fosse necessario gestire politicamente la natura umana (come ritiene Aristotele), ma che questa fosse determinabile e plasmabile a piacere.
Oggi indichiamo con il termine «economia» ciò che per Aristotele era la crematistica, ovvero l’arte di acquisire i beni e la ricchezza. Sebbene nella Politica la distinzione non è chiara, vi è una crematistica buona (i beni sono pur sempre necessari alla polis) fondata sul valore d’uso (più vicina scrive Aristotele all’amministrazione della casa, all’economia, in quanto questa fondata sul valore d’uso, ma non a questa identica) e in una cattiva che ha come fine l’accrescimento delle ricchezze nella forma monetaria, basata sul valore di scambio (ciò che successivamente abbiamo chiamato capitalismo). L’economia, per Aristotele, riguarda l’amministrazione della casa sulla base delle decisioni prese dal suo padrone e quindi non è soggetta a deliberazione politica. La crematistica invece riguarda l’intera collettività e quindi sarebbe soggetta a deliberazione politica. Che il singolare qui pro quo non sia casuale? Che vi fosse insito dal principio l’idea dell’amministrazione del mondo come fosse una casa proprietà di un padrone? In questa frattura tra essere e prassi determinata dal creazionismo sorge l’oikonomia divina, che secolarizzata porta all’idea di una completa amministrabilità del mondo. Proprio perché il mondo è plasmabile a piacere e non vi più alcun limite nella natura, sorge l’idea di una possibile crescita all’infinito della potenza economica. In breve, l’affermarsi di una sfera dell’oikonomia (mondo amministrato) è condizione necessaria per il perseguimento dell’illimimato, in quanto comporta la caduta dei limiti naturali che in precedenza erano da ostacolo. Il denaro, da quando aveva acquisito una nuova funzione ai tempi di Dante, non ha cessato di evolversi. Marx scriveva che l’anatomia della scimmia si può comprendere solo in base all’anatomia dell’uomo, per dire che talune strutture sociali si comprendono solo quando sono giunte alla loro piena formazione. Così possiamo analizzare in prospettiva la nuova funzione del denaro che nasce in Italia circa 7 secoli fa, vista da Dante nella Firenze del suo tempo. Oggi, con la virtualizzazione della moneta è possibile un enorme controllo sulla società, con un solo click sarebbe possibile, in un futuro non tanto lontano, tagliare a chiunque i mezzi di sussistenza (anzi è già stato fatto in Canada e Germania con taluni giornalisti «dissidenti» che si sono recati nel Donbass). Così si realizza il significato effettivo del termine economia, ovvero la gestione, l’amministrazione della società come se fosse una casa di proprietà del padrone. Il capitale è dall’inizio una nuova forma di potere sulla società che, insieme alla concentrazione del potere coercitivo nello Stato, consente, tra l’altro, l’abbandono della schiavitù perché si stabilisce un nuovo potere di controllo più efficace.
Il motivo per cui Dante risulta tra i classici più citati nel Capitale non è dovuto alla sola ammirazione artistica di Marx, ma viene, ritengo, da una affinità più profonda. Così come la via d’uscita dal vicolo cieco della società comunale italiana è verso un monarchia universalista oikonomica, in cui l’imperatore dantesco sopprimendo tutte le cupidigie, trasforma il mondo in una casa di sua proprietà, dove vige solo la sua volontà. Così nel comunismo marxiano la via d’uscita dal vicolo cieco della civiltà europea dopo la sconfitta di Napoleone è verso un universalismo oikonomico chiamato comunismo, dove si estingue la famiglia, lo Stato, i principali corpi intermedi. Motivo per cui Preve applicava giustamente al comunismo il concetto hegeliano di furia del dileguare. Critica che si applica ugualmente all’universalismo dantesco. Marx pensava come Dante che si dovesse porre fine all’illimitato (nell’economia, a differenza di Dante che lo riscontrava anche nella sfera del potere e della conoscenza), e che si potesse giungere con il comunismo ad una padronanza decisiva sulla società, una convinzione molto interna all’oikonomia. Engels ebbe solo il merito dell’enunciazione esplicita della sostituzione dello Stato con «l’amministrazione delle cose»36. Sia Dante che Marx partono da Aristotele, ma finiscono per negare quell’assunto fondamentale della Politica secondo cui i rapporti tra gli esseri umani nella polis devono essere governati politicamente, non si può estendere l’amministrazione della casa (oikonomia) all’intera polis. Dante quindi deve essere inseparabile da Machiavelli nella nostra cultura, figlio di Dante non solo per il modello della romanità (fu il poeta a rovesciare il primo a rovesciare il giudizio complessivamente negativo del cristianesimo sulla romanità), ma anche nella sua opposizione a lui quale pensatore del conflitto, ineliminabile, e quindi da gestire politicamente.
A ragione, Costanzo Preve in Storia alternativa della filosofia ritiene Marx, e Heidegger per la critica della volontà di potenza, i maggiori critici della società occidentale, ma allo stesso tempo rileva che condividono entrambi un medesimo eurocentrismo che proviene da Hegel. Solo Lenin contribuì a «diminuire l’occidentalismo marxiano», per il suo antimperialismo che fu dovuto più che altro all’intuito politico di Lenin, anzi sia Marx che Engels furono complessivamente favorevoli all’imperialismo inglese.
Bisognerebbe ricostruire una teoria filosofica e politica adeguata al mondo multipolare che tenga conto della presenza di altre civiltà, che superi il radicatissimo eurocentrismo (oggi occidentalocentrismo), ma allo stesso tempo radicata nella nostra non trascurabile eredità culturale, che stiamo letteralmente buttando via.
Al suo tramonto, abbiamo della civiltà europea-occidentale due critiche radicali (nel senso marxiano, che intendono andare alla radice del problema).
La critica dell’oikonomia da parte di Marx che però resta nell’ambito dell’oikonomia (anche in questo molto affine a Dante). La sua teoria resta fondamentale per l’analisi del capitalismo, ma non ha strumenti per definire il ruolo nella storia dell’identità culturale (civiltà). Dalle civiltà storiche derivano le principali potenze che contendono l’egemonia mondiale statunitense.
La seconda, è una critica della civiltà occidentale, la critica della volontà di potenza, ovvero il paradigma su cui viene a fondarsi la civiltà occidentale che si origina dalla «metafisica» di Platone, si estende dal cristianesimo, fino alla Tecnoscienza dei nostri giorni, trovando la massima espressione in Nietzsche. Assente la questione del rapporto con le altre civiltà, tale critica riguarda la salvezza della civiltà occidentale, che per un certo periodo coincide con l’egemonia mondiale della Germania, per poi lasciare spazio al pessimismo filosofico: «Non c’è più niente da fare, solo un Dio ci può salvare»
Il giovane filosofo Diego Fusaro37, nel libro La notte del mondo, ha cercato ciò che unisce Marx e Heidegger. Ecco, io vedo, andando all’indietro, una loro congiunzione in Dante. All’alba del mondo moderno, egli vede un’unica cupidigia, di ricchezze (il comportamento dell’avaro diventato norma sociale), di conoscenza, espressione dalla volontà di potenza di Ulisse, di potere (regnanti e papi), nell’imperialismo di Firenze mosso dalla sola cupidigia di ricchezze. Sì, Dante ha una cognizione dell’imperialismo, che nel marxismo verrà dopo Marx.
La visione dantesca sa contenere in sé sia la dimensione culturale, filosofica e religiosa sia la cruciale questione del sorgere dell’oikonomia.
In conclusione, ecco perché l’invettiva contro Firenze si trova in apertura del «Canto di Ulisse». La cupidigia o volontà di potenza unisce Firenze e Ulisse, cupidigia di cui quest’ultimo è espressione intellettuale. Il viaggio di Ulisse avviene all’insegna del «maladetto fiore», la logica con cui Ulisse compie il suo viaggio è la stessa dell’«avaro maladetto» che mira al «numero impossibile a giugnere». L’imperialismo fiorentino non è guidato dalla virtù romana, ma dalla brama illimitata di denaro e di possesso.
La filosofia dantesca è universalistica, la sua Monarchia è un impero universale. Possiamo dire che tutte le religioni e filosofie imperiali sono universalistiche, mirano per loro natura ad includere «tutti gli uomini», vale per il cattolicesimo, il cristianesimo ortodosso, l’islamismo, il liberalismo e il comunismo. Fu proprio per il suo indirizzo universalistico che il comunismo potè essere una sfida globale al liberalismo. Tuttavia, l’universalismo dantesco seppe contenere al suo interno il senso del limite. Le colonne d’Ercole sono un simbolo nato dall’antico limite naturale della civiltà greco-romana, prettamente mediterranea. Limite che i Greci varcarono con Alessandro Magno (uno dei volti di Ulisse, come abbiamo visto nella parte precedente) le cui conquiste segnarono la fine della civiltà greca, la cui eredità fu raccolta e salvata dai romani, i quali invece nel complesso, fra alterne vicende, convissero seppur in modo conflittuale, con l’impero partico. Con la modernità questo limite «naturale» è scomparso, ma ne è sorto uno nuovo nella presenza di altre civiltà dotate di armi atomiche. Dobbiamo imparare a riconoscere questo limite, se vogliamo con-vivere con le altre civiltà della Terra.
Ha davvero qualcosa di prodigioso la figura di Ulisse, in cui Dante ha saputo racchiudere e presentire tutto uno sviluppo successivo, reso possibile dalle scoperte geografiche e scientifiche, dall’espansione economica e imperialistica (contrapposta alla prassi imperiale di Roma). Ora che Ulisse, l’uomo occidentale, è giunto al limite estremo, deve decidere se proseguire nella rotta che lo porta al «mondo sanza gente», oppure ritornare a Itaca per rimettere ordine nella sua patria.
1« … è vero quanto notava Gorni: “l’Inferno dantesco è popolato di personaggi che recano il segno trino di una divinità negata”, a cominciare dalle tre fiere; dal ricordato Cerbero che con le tre teste che caninamente latrano e gli altri suoi tratti è la prima impressionante ‘figura’ di Lucifero, e proprio come lui è definito «il gran vermo» (Inf. VI, 22, e XXXIV, 108); da Gerione che al corpo umano aggiunge quello di leone, serpente e scorpione… tutti animali, dunque, variamente connotati della mostruosità alla quale apertamente si riallaccia Lucifero con quella cresta da drago alla quale convergono, al sommo della testa, le sue tre facce. Quanto al loro significato, ancora oggi può ben valere quanto chiosava Pietro di Dante: “ut in Deo est potentia, sapientia, et amor summus, sic in isto per oppositum est impotentia, ignorantia, et odium summum: et haec tria in tribus ejus capitibus significantur”» Enrico Fenzi, Lucifero, Academia.edu
2Giovanni Pascoli, Sotto il velame. Saggio di un’interpretazione generale del poema sacro. e-book
3V. voce Avaro, Enciclopedia Dantesca Treccani online
4Cfr. Gianfranco Contini, Dante come personaggio-poeta della “Commedia”. In Varianti e altra linguistica, Torino: Einaudi, 1970
5V. voce Superbia e superbi, in Enciclopedia dantesca Treccani online
6Per questo non c’è contraddizione tra la confessione a Beatrice della propria cupidigia e la confessione della propria superbia in Purg 13, 136-38
7Maria Gabriella Riccobono, Portar nel tempio le cupide vele, Academia.edu
8«Sulla base della notissima sentenza paolina “radix enim omnium malorum est cupiditas” (Tim 6, 10), l’avarizia, intesa in senso generale, ovvero, con Tommaso, come ogni desiderio smodato di ottenere qualsiasi cosa: “nomen avaritiae ampliatum est ad omnem immoderatum appetitum habendi quamcumque rem” (ST II-II, q. 118, a. 2co), oppure, con Agostino, come desiderio di possesso per amore di se e della propria eccellenza: “si avaritiam generalem intellegamus, qua quisque appetit aliquid amplius quam oportet, propter excellentiam suam, et quemdam propriae rei amorem”, diviene nel medioevo il principale peccato della cristianita, arrivando ad includere, assieme all’attaccamento ai beni materiali, anche la brama di potere, di onori e di sapere, e contendendo cosi alla superbia il primato di massimo vizio del settenario, come spiega ancora Tommaso sulla scorta della stessa sentenza paolina: “sic enim ex amore rerum temporalium omne peccatum procedit” (ST I-II, q. 84, a. 1). In quanto tale, l’avarizia, che e esecrata gia nelle Scritture come una vera e propria forma di idolatria, risulta essere “il vizio di cui si e scritto di piu per tutto il Medioevo”. Che la cupidigia domini il mondo non e dunque convinzione del solo Dante, che nel vizio incarnato dalla lupa pure riconosce nel canto proemiale la principale causa di perdizione dell’umanita, e quindi lo maledice, in quanto tale, non solo nella Commedia (al “maladetto lupo” del v. 8 si aggiunga la gia ricordata invettiva di Purg. XX, 10-12: “Maladetta sie tu, antica lupa / che piu di tutte l’altre bestie hai preda / per la tua fame sanza fine cupa!”), ma con pari veemenza gia nella canzone Doglia mi reca (vv. 78-80: “Maladetta tua culla… maladetto lo tuo perduto pane…”) e nella circostanziata analisi del vizio del Convivio (Conv. IV, xv, 8-9) “e in questo errore cade l’avaro maledetto…”».
Roberto Rea, La paura della lupa e le forme dell’ira (lettura di Inferno VII, Academia.edu
9«Cupidigia is a “super-vice”: an unbridled desire that is a composite of three of the sins of incontinence; it embraces excess desire for carnal pleasure, excess desire for food, and excess desire for money, honors, and advancement.» https://digitaldante.columbia.edu/dante/divine-comedy/inferno/inferno-12/
10Paolo Falzone, Dante e il mondo animale, Academia.edu
11Teodolinda Barolini, Multiculturalismo medievale e teologia dell’inferno dantesco, Dante: Rivista internazionale di studi su Dante Alighieri, Vol. 2 (2005)
12Teodolinda Barolini, Ora parrà di Guittone, Doglia mi reca di Dante e l’anatomia del desiderio nella Commedia, Academia.edu
13«Credo sia proprio questo il significato della lonza: l’oro, la ricchezza, e non la lussuria. Anche perché l’apparizione successiva dei tre animali sta ad indicare, oltre la gerarchica già considerata, un rapporto di causalità -Gorni (1995: 23-55), le cui preziose osservazioni tengo molto presenti, a questo proposito parla di metamorfosi della “bestia”-, e non vedo la relazione tra lussuria (almeno che non sia intesa nel suo significato latino di ‘vita lussuosa’) e il significato attribuito al leone (superbia) e alla lupa (cupidigia): la lussuria non genera superbia e non ha niente a che vedere con la cupidigia. Sì invece le ricchezze, dalle quali nasce la superbia: “ex divitiis nascitur superbia” (Alain de Lille: vox dives) e la cupidigia (cfr. Pg. XXII, 40-41: “Perché non reggi tu, o sacra fame / de l’oro, l’appetito de’ mortali?”), se si considera che è “un desiderio disordinato di possedere ricchezze” (S. Theol. II-II C.118 a.2), ma -come si è visto sopra- in un senso ampio era definita pure come un desiderio smisurato, non soltanto di danaro, ma anche di scienza (ibid.)».Carlos López Cortezo, Le promesse della filosofia. Analisi del proemio della Commedia, Academia.edu
14Per una buona e dettagliata discussione del rapporto tra Dante e il proto-capitalismo fiorentino v. Francis R. Hittinger, Dante as Critic of Medieval Political Economy in Convivio and Monarchia, https://academiccommons.columbia.edu/doi/10.7916/D87P962W/download
15E. Fenzi, Tra etica del dono e accumulazione. Note di lettura a Doglia mi reca ne lo core ardire, in Id., Le canzoni di Dante. Interpretazioni e letture, Le Lettere, Firenze 2017
16 Marx, K., Il capitale, Roma, Editori Riuniti, I, 1, p. 164.
17Vittorio Sermonti, Il purgatorio di Dante, Garzanti 2021, e-book
18«Agostino nel De libero arbitrio aveva cercato, senza grande successo, di risolvere il contrasto tra Vecchio (Ecclesiastico) e Nuovo Testamento (San Paolo) in modo diretto, attraverso una dilatazione, un allargamento del concetto di avarizia. Definendo quest’ultima come desiderio smodato e disordinato di ogni cosa (non necessariamente di solo denaro), Agostino interpreta la celebre frase di San Paolo come a significare la forza del bramare, e non tanto l’oggetto del desiderio (avarus, infatti, da aveo, è l’avido – non importa di che cosa). Lucifero cade per avarizia; non però per amore del denaro, bensì del potere. È questo un punto che verrà confermato successivamente da Gregorio Magno: «L’avarizia ha a che fare non solo col denaro ma anche con le alte posizioni; giustamente si parla di avarizia quando il prestigio è ricercato oltre misura». (Si tenga presente che era stato Girolamo a tradurre con cupiditas, da cui avaritia, il termine greco philargyria, che propriamente sta per “amore del denaro”. Come vedremo, tale slittamento semantico sarà poi all’origine di non poche incomprensioni ed equivoci).
Va da sé che dilatando in tal modo la nozione di avarizia, essa finisce con il coincidere di fatto con la superbia, che è appunto la ricerca ossessiva delle «alte posizioni». È per questo che il tentativo di mediazione operato da Agostino non avrà successo: esso non accontenta pienamente nessuno e soprattutto non è funzionale alle esigenze di stabilità dell’ordine sociale dell’epoca.»
Stefano Zamagni, Avarizia. La passione dell’avere. I 7 vizi capitali, Il Mulino, 2009, p. 15
«La superbia fu l’origine di tutti i mali; l’orgoglio di Lucifero fu il principio e la causa di ogni rovina. Questa era la visione di Agostino e tale rimase la concezione dei posteri: l’orgoglio è la fonte di tutti i peccati, che crescono da esso come il tronco dalla radice. Tuttavia accanto al passo biblico, che confermava questa opinione: “A superbia initium sumpsit omnis perditio”, ve n’era un altro: “Radix omnium malorum est cupiditas”. Pertanto si poteva considerare anche l’avidità come la radice di tutti i mali, poiché per “cupiditas”, che come tale non si trova nella serie dei peccati capitali, si intendeva qui “avaritia”, come era riferito anche in un’altra lezione del testo. E sembra che, soprattutto dal XIII secolo in poi, la convinzione che sia l’avidità sfrenata a corrompere il mondo scacci l’orgoglio dal suo posto di primo e più fatale dei peccati nel giudizio delle genti. L’antico primato teologico della superbia viene scalzato dal sempre più forte coro di voci che attribuiscono tutti i guai dei tempi alla sempre crescente avidità. Come l’ha maledetta Dante: la cieca cupidigia!»
Johan Huizinga L’autunno del medioevo, Roma, Newton Compton, 1992, p. 46
19E. Fenzi, Tra etica del dono e accumulazione, cit
20 « … lo scopo costituisce il fine, il quale è tale che non è in vista di un altro scopo, ma le altre cose sono in vista di esso, sicché, se c’è un fine ultimo, non si andrà all’infinito; ma se non c’è nessun fine ultimo, non ci sarà lo scopo. Coloro i quali ammettono l’infinito non si rendono conto che eliminano anche la natura del bene: eppure nessuno tenterebbe di fare nulla, se non avesse la prospettiva di pervenire a un limite. E non esisterebbe neppure intelligenza, perché chi ha intelletto agisce sempre in vista di qualche cosa, e questo è un limite: il fine infatti è un limite.
Ma non è neppure possibile ricondurre la definizione dell’essenza sostanziale a una definizione via via più dettagliata, perché il titolo maggiore di definizione ce l’ha la prima, nella serie che si otterrebbe, e non l’ultima, e se 20 non è definizione la prima, non lo è neppure la successiva. Inoltre coloro che sostengono questa dottrina eliminano anche il sapere scientifico, perché non è possibile conoscere prima di essere arrivati ai termini indivisibili. E non sarà possibile neppure la conoscenza, perché come è possibile pensare cose infinite in questo senso? Diverso è il caso della linea, che può essere divisa indefinitamente, ma che non può essere pensata, se non si arresta la divisione (e perciò non può contare le operazioni di divisione chi le prosegue all’infinito); ma è necessario pensare anche la materia in una cosa che si muove. E non può esistere nulla d’infinito: se esistesse non sarebbe infinito l’essere dell’infinito.
E non sarebbe possibile il conoscere neppure se le specie delle cause fossero di numero infinito, perché crediamo di conoscere soltanto quando conosciamo ciò che è causa; e non è possibile percorrere in un tempo finito ciò cui si possono aggiungere parti all’infinito». Metafisica II 2, ed. Utet, 2013
21Bruno Nardi, Dal convivio alla commedia, cit. p. 74
22«Niente di finito può quietare il desiderio dell’intelletto. E lo dimostra il fatto che l’intelletto, data una qualsiasi cosa finita, escogita qualche cosa che la sorpassa: data, p. es., una qualsiasi linea finita, può concepirne una più estesa; e lo stesso si dica dei numeri. Questa è appunto la ragione dell’infinita addizionalità dei numeri e delle linee geometriche. Ora, l’altezza e la virtù di qualunque sostanza creata è finita. Quindi l’intelletto delle sostanze separate non si acquieta per il fatto che conosce delle sostanze create, per quanto eminenti, ma col desiderio naturale tende a conoscere una sostanza di dignità infinita, quale è appunto la sostanza divina». Somma contra gentili, III, 50, ed. UTET, 1997
23: «His men, his “brothers,” now show their real relationship to Ulysses: it is an instrumental one. They are his oars». R. Hollander (Ed.), Dante Alighieri, Inferno, New York, 2002, p. 493
24Teodolinda Barolini, Multiculturalismo medievale … cit.
25«Questo dissidio tra due affermazioni, una apertamente mistica, l’altra tendenzialmente razionalistica, dissidio che riflette il carattere della cultura dantista nel Convivio, formata di elementi filosofici frammisti a elementi teologici, non ancora ben fusi tra loro, anzi spesso discordanti gli uni dagli altri, ucciderà la donna gentile come simbolo unitario della Filosofia, e condurrà, nella Monarchia, a una netta separazione della filosofia umana dalla dottrina rivelata.» B. Nardi, Nel mondo di Dante, cit. p. 228
26«Nella Commedia la prospettiva di Convivio, III, 15 è dunque ribaltata. Il desiderio naturale di sapere — diceva il trattato — deve poter conseguire già in questa vita la sua completa realizzazione, altrimenti sarebbe una potenza vana; ancorché naturale, il desiderio di sapere — afferma invece la terzina del Purgatorio — è recato all’atto da un agente sovrannaturale (la grazia): o in questa vita per speciale privilegio concesso da Dio (ed è in fondo il caso che Dante immagina per sé) o nella vita futura, allorché l’uomo che avrà ben meritato sarà ammesso a godere della visione beatifica. Tanto la tesi del Convivio si discosta da quella tomasiana, quanto il senso di questi versi le è invece omogeneo, sicché non sembra improprio sostenere, con Nardi (attraverso Tommaso), che nella Commedia «mortalis ista felicitas (…) ad immortalem felicitatem ordinatur».» P. Falzone, Desiderio della scienza …, cit. p. 251
27«Non è evidente che, esemplare perfetto dell’umano desiderio di sapere, e perciò della scienza e della connessa virtù, da quello, dal desiderio che lo possedeva e lo assoggettava a sé come al suo proprio destino, il personaggio era (se l’espressione non appaia enfatica) insieme condannato e, in senso specifico, salvato? Era salvato dalla forza medesima che lo condannava e che, per la sua irresistibilità, lo rendeva innocente. Era dannato perché, in questa peculiare situazione, innocente com’era nel prestare ascolto alla voce che lo soggiogava, da questa era spinto verso il luogo della sua catastrofe dove, “perduto” , scomparve.» Gennaro Sasso, Ulisse e il desiderio: Il canto XXVI dell’Inferno, Viella, 2011, p. 64
28K. Marx, Il capitale, cit. p. 185
29«Secondo Hegel, i Greci hanno “ad un tempo animato ed onorato il finito”. Animare il finito significa ovviamente rinunciare al concetto biblico-cristiano di creazione, e riconoscere al finito la capacità potenziale di automovimento e di direzione verso la propria finalità che il finito stesso contiene in sé (dynamei on). Onorare il finito significa cercare la perfezione non in un infinito smisurato ed indeterminato (apeiron, aoriston), ma proprio nel finito stesso, che è perfetto proprio perché è finito.»
Costanzo Preve, Per una storia alternativa della filosofia, Petite Plaisance, 2013, p. 155
30«Era in anticipo sui tempi, il progetto dei Vivaldi? Ma lo stretto di Gibilterra era stato già violato, e con successo. Non alludiamo semplicemente alla rotta in direzione nord, testimoniata da Brunetto Latini in un disteso passo del Tesoretto (vv. 1043-1062), che spira la superiore serenità dell’uomo colto. È persino arguto, Brunetto: le Colonne d’Ercole, ci assicura, sono state varcate, dopo la morte del semidio, da gruppi desiderosi di nuovi stanziamenti, che sono «oltre passati, / sì che sono abitati / di là in bel paese / e ricco per le spese». Dovrebbe essere, questa fiorente contrada, la Gran Bretagna. Evidentemente, risalire l’Atlantico alla volta di spiagge settentrionali non era, nella percezione del tempo, la violazione di un tabù. Lo era invece cercare, al di là delle Colonne, le sconosciute acque meridionali, le rive misteriose dell’Africa? Neanche la direzione sud, in verità, rimaneva vergine, la marineria italiana aveva preso a sondarla. Tant’è: nel 1291, la costa atlantica del Marocco veniva stabilmente vigilata da una flotta in armi agli ordini di un ammiraglio genovese. Lo scorcio finale del XIII secolo, insomma, schiudeva possibilità piuttosto che incentivare timori: la navigazione oceanica poteva apparire praticabile in ogni senso, almeno a ridosso di masse continentali; e, se praticabile, anche lecita. »
S. Cristaldi, Il richiamo del lontano, cit. p. 269
31Cfr. Mario Trovato, Il contrapasso nell’ottava bolgia, Dante Studies, No. 94 (1976)
32«La volontà umana “ha bisogno di una meta — e preferisce volere il nulla piuttosto che non volere” [Nietzsche]. Infatti la volontà, in quanto volontà di potenza, è: potenza di potenza, o, come possiamo dire ugualmente bene, volontà di volontà, volontà di rimanere al di sopra e di poter comandare. Non è il nulla ciò di fronte a cui la volontà indietreggia spaventata, ma il non volere, l’annientamento della sua propria possibilità essenziale. L’orrore del vuoto del non volere — questo « horror vacui » — è il “fatto fondamentale della volontà umana”. E proprio da questo «fatto fondamentale » della volontà umana, cioè che essa preferisce essere volontà del nulla piuttosto che non volere, Nietzsche ricava la prova della sua tesi che la volontà è, nella sua essenza, volontà di potenza.
La volontà in quanto volontà di volontà, è volontà di potenza nel senso dell’autorizzazione alla potenza». In quanto existentia essa sarebbe rappresentata dall’eterno ritorno dell’identico: “Poiché vuole l’ultrapotenziamento di se stessa, la volontà non si acquieta a nessun livello di vita, per elevato che sia. La volontà esercita la potenza nell’oltrepassamento del suo stesso volere. Essa ritorna costantemente a se stessa come uguale a se stessa”» .
M. Heidegger, La sentenza di Nietzsche “Dio è morto”, in Sentieri interrotti, tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, p. 218
« …che cosa intende Nietzsche stesso con il termine « volontà di potenza »? Che cosa significa volontà? Che cosa significa volontà di potenza? Queste due domande sono per Nietzsche un’unica domanda; infatti per lui la volontà non è altro che volontà di potenza, e la potenza non è altro che l’essenza della volontà. La volontà di potenza è allora volontà di volontà, cioè volere è volere se stesso. »
Heidegger, Nietzsche, Adelphi, 1994, p. 49
«Per che cosa si lotti è, pensato e auspicato come fine con un contenuto particolare, sempre di importanza secondaria. Tutti i fini della lotta e le grida di battaglia sono sempre e solo strumenti di lotta. Per che cosa si lotti è già deciso in anticipo: è la potenza stessa che non ha bisogno di fini. Essa è senza-fini, così come l’insieme dell’ente privo-di-valore. Questa mancanza-di-fini fa parte dell’essenza metafisica della potenza. Se mai qui si può parlare di un fine, questo fine è la mancanza di fini dell’incondizionato dominio dell’uomo sulla terra. L’uomo di questo dominio è il super-uomo (Uber-Mensch). (Ivi, p. 638).
33Ivi, p. 409
34G. Agamben, Il regno e la gloria, cit, p. 72
35La filosofia futura, Rizzoli, 1989 p. 69
36Al posto del governo sulle persone appare l’amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi. Lo Stato non viene “abolito”: esso si estingue» (Engels, Antiduhring)
37 Riporto questo passo che maggiormente riguarda le questioni da me trattate:
«Sia che lo si chiami kapitalistische Produktionsweise, secondo la definizione di Marx metabolizzata dai suoi eterodossi allievi del Novecento, sia che lo si etichetti come Technik, in accordo con il lessico di Heidegger e dei suoi epigoni, il sistema della produzione mondializzata, nella sua anonima autoreferenzialità di un minaccioso dispositivo che signoreggia gli uomini, presenta una dinamica di sviluppo illimitata e illimitabile: marxianamente, il capitale persegue il telos del proprio incremento smisurato, proprio come, heideggerianamente, la tecnica rincorre lo scopo del proprio irrelato e insensato autopotenziamento, in una cornice di mero nichilismo antiumanistico, in cui il mercato diventa il solo valore direttivo.»
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