Lo smarrimento del sindacalismo compassionevole, di Giuseppe Germinario
Con l’avvento del Governo Meloni sarà importante tenere d’occhio il comportamento delle tre confederazioni sindacali. Saranno importanti nel determinare i destini di un governo che si dovrà barcamenare tra l’appiattimento acritico e diligente alle scelte geopolitiche dell’attuale amministrazione statunitense, al momento concentrate sul fronte orientale della NATO, l’afflato di orgoglio nazionale di cui si nutre continuamente la sua narrazione e le conseguenze sempre più evidenti di tali scelte, delle dinamiche geopolitiche più generali e degli indirizzi economici della UE sulla precaria condizione socio-economica dell’Italia.
Di queste scelte geopolitiche statunitensi, come della logica che informa l’indirizzo economico, quello ambientalista ed energetico della UE abbiamo già parlato con dovizia. Il dato più evidente della istigazione e della reazione della NATO all’intervento russo in Ucraina è stato il rapporto causale diretto delle sanzioni alla Russia con l’ulteriore drammatico dissesto dell’economia dell’intera Europa piuttosto che di singoli paesi, come avvenuto con quelle sulla Siria, l’Iran e la Libia. Anche su questo argomento proseguiremo nella discussione.
Quanto al Governo Meloni è una forzatura eccessiva presentarlo come un mero appiattimento ed una mera clonazione del precedente governo retto da un funzionario plenipotenziario. Sull’onda di una politica americana che non vede più nella UE un pilastro fondamentale della propria egemonia quanto piuttosto una mera appendice sempre più ridondante delle funzioni sempre più estese della NATO; di una politica per altro che tende a delegare ai propri alleati l’esecuzione sul posto di parti significative delle proprie strategie è probabile che il Governo Meloni, dovesse durare e riuscire ad affrontare la complessità del bailamme europeo, possa nutrire la propria narrazione nazionalista, quantomeno su alcuni temi a corollario degli interessi fondamentali dell’amministrazione statunitense. Di questo ne parleremo in futuro man mano che matureranno i tempi e si presenteranno le diverse opzioni.
Da tempo le tre confederazioni sindacali non sono più tra le protagoniste principali dello scenario politico italiano; sono però le realtà politiche più costrette in una camicia di forza dalla quale appare impossibile uscire. Una gabbia in gran parte costruita con le proprie stesse mani che rende impossibile una azione coerente ed efficace di difesa degli interessi popolari e del lavoro dipendente.
I due congressi di CISL e UIL appena tenuti e le tesi del prossimo congresso della CGIL, che si terrà a marzo 2023, con varie sfumature hanno confermato questa incapacità di uscire da una narrazione così costrittiva ed invalidante. La prima con un ostentato, totale e acritico appiattimento all’orientamento atlantista ed europeista; la seconda allineata, ma con qualche punzecchiatura puntuale, ma incoerente con il contesto adottato; la terza con un allineamento evasivo, condito da un generico pacifismo e da una superficialità di analisi disarmante. Non a caso è proprio Landini la figura più motivata a confessare apertamente e candidamente il proprio smarrimento rispetto alla complessità e drammaticità del contesto geopolitico ed economico.
Come si evincerà dall’economia del testo le ragioni di esistenza e persistenza di questa gabbia non sono solo soggettive, legate agli evidenti limiti di comprensione e di formazione politica dei gruppi dirigenti sindacali; riguardano anche la ragione d’essere stessa dei sindacati combattuta da due contraddizioni non risolvibili, quanto piuttosto da gestire in corso d’opera. Nella fattispecie la strutturazione nazionale del sindacato teso a difendere universalmente o nella modalità più estesa possibile la condizione universale del salariato o del lavoratore dipendente; l’assunzione del lavoro salariato, quindi, più o meno esplicitamente, del rapporto capitalistico di produzione come chiave di volta in grado di spiegare e determinare le dinamiche sociali e le decisioni politiche delle classi dirigenti della o delle formazioni sociali. Una assunzione, quest’ultima, che nella sua connotazione più radicale, espressa nelle tesi alternative della CGIL, non va, direi non può andare, oltre e piuttosto non fa che riproporre di fatto a suo modo, comunque, la regolazione e la riproduzione, sia pure nella forma conflittuale estrema, del rapporto capitalistico.
Con tutte le difficoltà dovute al fatto che, ormai da qualche decennio, il contesto geopolitico ed internazionale viene analizzato sempre più occasionalmente e con superficialità, il punto comune di partenza è la constatazione del processo di globalizzazione come fonte degli squilibri economici e della precarietà e impoverimento nel mondo del lavoro.
Qui è opportuna una nota a margine sul fatto che gran parte dei narratori, pur dichiarandosi paladini della generale condizione lavorativa, rimangono abbagliati dal degrado di una parte di essa, quella dei paesi occidentali, compresa l’Italia, omettendo di conseguenza i progressi di condizione che parallelamente si verificano in gran parte dei paesi emergenti. Una condizione negletta, quindi, di nuovi squilibri e riequilibri, piuttosto che di un catastrofico degrado generale.
Il dato dirimente, però, è un altro e risale ai fondamenti teorici di queste affermazioni. Il processo di globalizzazione, frutto della contrapposizione capitale/lavoro, sarebbe opera di una cupola di capitalisti cosmopoliti, in particolare soprattutto magnati della finanza pura e semplice, in grado di spostare indifferentemente i propri capitali, ormai nella loro espressione più liquida.
Da qui la necessità di contrapporre a questa sorta di Associazione degli Industriali planetaria una vasta gamma di organismi sovranazionali che spaziano secondo il livello richiesto e la fuga verso aspettative utopiche e fuorvianti. Dal Governo Mondiale alla creazione di un sindacato mondiale realmente operativo, alla attribuzione fuorviante di competenze sovrane, proprie di uno Stato, ad organismi sovranazionali di altra natura e funzione, quali il FMI, l’OCSE, l’Unione Europea.
Potrebbero sembrare considerazioni troppo astratte e distanti; ininfluenti sull’azione concreta dei soggetti politici in generale, delle dirigenze sindacali in particolare.
Non è così, almeno a parere di chi scrive.
Cercherò di chiarirlo, ma prima è necessaria qualche considerazione aggiuntiva sulle dinamiche della globalizzazione, sulla funzione esplicativa del rapporto capitale/lavoro, sul rapporto tra l’agire politico e le dinamiche economiche e all’interno di esse, sulla gerarchia tra il politico (azione politica) e l’economico.
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Sino a pochi mesi fa globalizzazione è stato il termine taumaturgico adottato per spiegare le più disparate dinamiche che attraversano l’azione umana sul pianeta; ultimamente, con il riemergere del peso delle decisioni politiche e del conflitto geopolitico aperto sembra caduto in disgrazia in una specie di ritorno al passato alimentato dalle pulsioni “sovraniste” dei centri decisori dei paesi avversi ai principi costitutivi del mondo occidentale. Nella sua definizione riferita alla condizione oggettiva, il termine indica la riduzione drastica, se non il pratico azzeramento, come nel caso delle comunicazioni e degli impulsi digitali, dei tempi una volta necessari a connettere i vari punti del globo terrestre, parte di un complesso sistema reticolare; siano essi luoghi di produzione ed economici, che commerciali, che finanziari, che di trasmissione, controllo e comunicazione. Sulla base di questa dinamica alimentata dalle economie di scala e dallo sviluppo di alcune tecnologie, ma in realtà resa possibile da una condizione politica ben determinata di cui si parlerà in seguito, si è formata una rappresentazione ideologica definibile con il termine “globalismo”, comprensivo sia della accezione positivistica-progressista che di quella populistica-movimentista. Delle due la prima ci offre una rappresentazione reticolare di connessioni puntuali di fatto prive di gerarchie che trovano il loro punto di equilibrio spontaneo e soddisfacente attraverso la compensazione dei flussi sempre più svincolati da limitazioni e sempre più intensi. Il multilateralismo può essere la traduzione politica ottimale di questa dinamica; l’equilibrio spontaneo del libero mercato il modello di riferimento di questa rappresentazione sistemica.
La seconda delle accezioni spiega all’opposto la dinamica e il funzionamento del sistema con il controllo progressivo totalitario di una cupola ristretta di veri decisori, per lo più ricondotta ai detentori del capitale, via via sintetizzata e ridotta a quella dei detentori di capitale finanziario ed ancora a quella di detentori di quel capitale finanziario liquido del tutto separato dalle attività produttive. Le figure, quindi, in grado di controllare e determinare con la loro mobilità ed immediatezza il controllo con profitto dei processi di globalizzazione sempre meno frenati da vincoli temporali e spaziali.
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Quanto alla funzione fondativa e pervasiva delle formazioni sociali e delle loro espressioni politico-istituzionali affidata al capitalismo, quindi al rapporto capitalistico di produzione ed ancora, in ultima istanza, al rapporto fondamentale tra detentori dei mezzi di produzione e salariati detentori della semplice forza lavoro, la permanenza della sua rappresentazione teorica è resa possibile, sia nella sua residua rappresentazione conflittuale che in quella prevalentemente “collaborativa”, solo dalla regressione schmitiana e ricardiana a lavoro/capitale della potente contrapposizione marxiana tra forza lavoro/detentori del capitale.
La distinzione tra lavoro e forza lavoro salariata rimane importante per individuare la particolare realizzazione del pluslavoro attraverso il plusvalore come pure per individuare la particolare dinamica di produzione di risorse che consente lo svolgimento competitivo e conflittuale del mercato capitalistico con annesso corollario, però, di una “caduta tendenziale del saggio di profitto” ormai sempre di là da venire. È una rappresentazione duale di rapporto sociale che per di più non riesce a spiegare compiutamente sia la complessità delle stratificazioni sociali attraverso l’individuazione delle due classi fondamentali antagoniste, sia il contenuto antagonistico di quelle stesse due classi, giacché sia lo “sfruttato” che lo “sfruttatore” vivono la condizione di salariato. Da qui la ricorrente tentazione di tornare alla dialettica del rapporto capitale/lavoro, laddove il capitalista assume progressivamente la veste del percettore di rendite, dello speculatore indifferente, separato, avulso dalla produzione e dal produttore.
Le implicazioni di questo particolare ritorno al passato, specie quando progressivamente intrecciato, così come si sta verificando, con le tesi globaliste, sono particolarmente notevoli nelle rappresentazioni ideologiche e nelle condotte politiche di determinati centri decisori e di specifiche élites; tra questi, in particolare i centri dirigenziali sindacali, per quanto costoro sempre meno consapevoli e coscienti del proprio bagaglio e retaggio culturale e per quanto comunque richiamati al peso della realtà più prosaica e pragmatica dal carattere “mercantilizio” del loro impegno professionale.
Il globalismo, nella sua prima accezione di cui sopra, nel suo lirismo armonico autoregolatorio impedisce e vieta di individuare le gerarchie sottese, necessarie ed indispensabili a garantire il funzionamento e la fluidità del meccanismo; tende al contrario a dissolverle. Uno strabismo che impedisce di individuare il necessario ruolo egemonico e regolatore, quindi prettamente politico, assolto in qualche maniera dalle leadership statunitensi, specie negli ultimi cinquanta anni, e che dovrà essere perseguito in futuro, tutt’al più in coabitazione cooperativa/conflittuale bipolare sbilanciata, se si vorrà mantenere e sviluppare in qualche maniera l’attuale sistema globale di relazioni e connessioni. Si tratta, in pratica, di ciò che viene definito con il termine “multilateralismo” nel sistema di relazioni internazionali. È però una accezione non particolarmente radicata negli ambienti sindacali, in particolare italiani, se non in alcune componenti, nella fattispecie della CISL, non a caso, a suo tempo negli anni ‘50, di diretta emanazione vaticana e statunitense. Una osticità comprensibile in ambienti in cui prevale la funzione contrattuale e il cui gioco conflittuale/cooperativo con le controparti assume una valenza esistenziale.
È la seconda accezione di “globalismo” ad essere più congeniale alla rappresentazione, alle funzioni e agli schemi operativi di questi centri sindacali, pur essendo molto più vasta la platea attratta e mobilitata da questi schemi.
In questo compendio la liquidità, sempre più indifferente ai limiti posti dal territorio, dallo spazio, dal tempo e dal valore d’uso, tipici della tradizionale imprenditoria, è il connotato fondamentale del capitalismo; la sempre più ristretta congrega di capitalisti finanziari, dediti al movimento vorticoso dei flussi di liquidità, diviene la figura chiave e dominante del sistema in grado di determinare le sorti dell’economia, le prerogative di fatto progressivamente decrescenti e asservite degli stati, nonché gli enormi squilibri e le abissali ineguaglianze presenti sul pianeta forieri di conflitti e disastri. Una cupola tanto determinante delle sorti politiche, quanto sterile nella sua funzione parassitaria. Ad un gradino appena inferiore agiscono, secondo la rappresentazione, le multinazionali, queste ultime più legate alla realizzazione produttiva dei profitti, alle rigidità imposte dal capitale fisso (impianti), alle caratteristiche dei mercati, ma con la possibilità di giostrare allegramente nella competizione territoriale e di allentare questi legami e accrescere enormemente le possibilità di controllo con l’avvento di nuovi ambiti operativi, quali l’acquisizione e la manipolazione dei dati.
Una rappresentazione dalla enorme capacità attrattiva, il cui fascino dipende soprattutto dalla estrema facilità di individuazione dell’artefice delle cose del mondo e dell’avversario da additare ed esorcizzare. Una rappresentazione in grado di mobilitare da oltre quaranta anni masse e gruppi contestatori peregrinanti per il mondo in una sorta di rituale defatigante, quanto sterile; di spingere i centri politici contestatori o presunti tali, anche nelle loro espressioni più pragmatiche, ad inseguire le chimere del governo mondiale, dell’attribuzione di poteri effettivi ad organizzazioni sovranazionali che sono in realtà espressioni del potere reale di particolari centri decisori annidati negli stati egemonici piuttosto che di queste cupole, sino a cercare di adeguare le proprie strutture organizzative alla dialettica di queste chimere.
Alla capacità di suggestione di questa tesi, non corrisponde una analoga profondità di analisi sufficiente a fornire strumenti adeguati all’azione politica, tutt’altro.
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Intanto bisognerebbe prendere atto che il capitalismo è ormai da tempo presente e dominante in tutte le formazioni sociali, comprese quelle definentesi ancora socialiste; continua ad essere privo di reali alternative credibili proprio per le sue capacità dinamiche e di adattamento ed anche di prospettive che riesce ancora ad offrire. Ha poco senso individuare nella contrapposizione tra formazioni capitalistiche e quelle di altra natura il motivo fondante dell’attuale conflitto politico e geopolitico; ancora meno lo si può fondare realisticamente sulla lotta di classe, sarebbe già meglio definirle di classi, quando in realtà sarebbe molto più esplicativo il conflitto e la competizione tra capitalisti e gruppi di essi gerarchicamente costituiti.
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Restringere il focus e additare i magnati della finanza come i deus ex-machina in grado di manipolare i destini del mondo in funzione del loro profitto e della preservazione del ruolo parassitario serve ancor meno a circoscrivere efficacemente il bersaglio. Non è del resto un approccio inedito. Anche se l’ambito della finanza tende comunque ad assumere un ruolo particolare nelle fasi regressive di un attore egemone, attribuire una postura autocratica e dominante a queste componenti porta ad ignorarne la complessità ed articolazione, nonché la funzione positiva e propositiva all’interno del processo di accumulazione capitalistica e nel più ampio spazio di esercizio del potere politico. Intanto il settore finanziario è molto diversificato nei compiti e nelle funzioni; anche nei suoi nuclei più speculativi, assolvono comunque ad una funzione di drenaggio verso il centro e di condizionamento e penetrazione nelle periferie dei centri egemonici consolidati e in formazione. Basterebbe dare una occhiata poco più che distratta ai flussi verso il centro egemonico statunitense e al ruolo di tramite in queste dinamiche di paesi come la Germania, ampiamente sopravvalutate per la loro potenza effettiva. Si tratta, in realtà, anche in questo caso di coaguli di potere ben radicati nei centri egemonici, con strettissimi legami simbiotici con essi, dipendenti dalla regolazione e dalle normative e in aperta competizione tra di essi. La loro conclamata onnipotenza e la loro liquidità indifferente alle limitazioni di tempo e spazio subisce ancora dei limiti fisici pesanti, pur se con dinamiche e dimensioni storicamente mutate.
Se è vero, quindi, che la natura del modo di produzione capitalistico riesce a realizzare la propria azione cooperativa, più o meno forzata, nelle imprese attraverso soprattutto la competizione ed il conflitto nel mercato, è altrettanto verosimile che questa competizione delinea la formazione di centri decisori plurimi; che più aumenta la centralizzazione e la concentrazione, più l’azione e le decisioni di questi soggetti si allontanano dalla pura logica economica o politico-economica. In realtà quelli più importanti sono integrati a pieno titolo nei centri decisori politici, influiscono ovviamente a vario titolo ed intensità, ma devono sottostare a quelle logiche ed adattare la loro azione a quei perimetri.
Il modo capitalistico, del resto, plasma nel tempo le formazioni sociali e riesce anche a modificarne la forma mentis. Deve altresì adattarsi alle caratteristiche storiche, territoriali, politiche e culturali di queste, dimostrando una flessibilità e capacità di adattamento inedite nella storia. La stessa competizione economica, diventa essa stessa una competizione ed una imposizione di modelli.
Il capitalista, l’imprenditore, il manager, il finanziere, in quanto figure sociali e professionali dotate, per altro, di poteri di comando, tendono a formarsi una propria rappresentazione e a plasmare con essa l’ambiente. Devono fare i conti con altre rappresentazioni, specie quelle prodotte da decisori di diversa emanazione e trovare con essi punti di equilibrio e di sintesi. Riescono paradossalmente ad avere maggiore influenza nelle formazioni semiperiferiche, prive o carenti di protagonismo politico o di potere o nelle fasi, rare e temporanee, di egemonia incontrastata; la loro pervasività è deleteria nelle fasi di competizione e di conflitto egemonico sino a diventare un fattore drammatico di decadenza. Questo ovviamente al netto di manipolazioni ideologiche strumentali, così ben delineate ad esempio da analisti sagaci come Mearsheimer che conoscono benissimo i protagonisti e il modus operandi dei centri decisori statunitensi.
Per concludere il modo capitalistico di produzione fa parte e si inserisce pienamente nelle dinamiche più estese di conflitto e cooperazione politica, pur se con logiche in parte proprie. La sua conformazione e dinamica di riproduzione dipendono altresì da altre logiche e dalla particolare simbiosi di esse.
A mero titolo di esempio l’affermazione del modo capitalistico statunitense come il fallimento di quello sovietico sono dipesi dalle scelte politiche e geopolitiche; la loro capacità di innovazione tecnologica è dipesa dalla capacità di integrazione della ricerca scientifica ed applicazione tecnologica, in prevalenza militare, con le piattaforme industriali capaci di operare nella società civile. Fattore che ha reso economicamente e socialmente sostenibili le ambizioni politiche e geopolitiche, ma solo laddove l’integrazione e la sinergia è riuscita. L’agenzia DARPA statunitense, come quelle sorte in Cina, sono l’esempio più evidente della dialettica esistente tra i vari ambiti e nei centri decisori politici.
Questa lunga digressione può sembrare leziosa e ridondante rispetto al merito della produzione politica, programmatica e rivendicativa dei centri dirigenti sindacali, ormai sempre più asfittica ed incoerente; soprattutto se comparata con quella ben più ambiziosa ed incisiva, spesso per altro velleitaria e fumosa, di diversi decenni fa. Un giudizio confortato dalla frequentazione e conoscenza diretta, ai più alti livelli, di quegli ambienti di allora. Le cui tracce, però, permangono tuttora.
La lettura delle tesi e l’ascolto degli interventi congressuali delle tre confederazioni, per quanto tediosi, offrono ancora diversi spunti di riflessione inseribili nel contesto su specificato.
In ordine di grandezza e generalità dei problemi:
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il tema della globalizzazione rappresenta la cornice fondamentale entro cui va inquadrata l’azione sindacale. Il paradigma adottato che il processo è determinato sia dalle dimensioni delle economie di scala, che dalle innovazioni tecnologiche legate ai flussi, che dalle dimensioni delle imprese e dei centri finanziari in una sorta di inerzia espansiva della velocità e del raggio di azione dei flussi e di capacità di intervento e governo di centri ed entità sovranazionali, per lo più mossi da interessi privati. La contromisura consisterebbe nella costruzione di entità politiche adeguate a coprire e regolare la dimensione e lo spazio dell’economia globalizzata. La dimensione ottimale ipotizzata sarebbe quella del governo mondiale cui far corrispondere organizzazioni sociali, nella fattispecie sindacali, di pari livello capaci di confrontarsi sia con le entità politiche che economiche di quella dimensione in una riedizione edulcorata e contrattualistica del vecchio internazionalismo
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Nelle more il raggio ed il livello di azione ed organizzazione dovrebbe corrispondere alla dimensione degli organismi sovranazionali esistenti o in formazione. Il presupposto implicito di queste considerazioni tocca la presunta inadeguatezza della dimensione statale ad affrontare e cogliere la dimensione dei problemi. La realtà ci rivela sempre più che la globalizzazione non rivela altro che la dimensione e la gamma allargata dei campi di azione degli stati nazionali comunque destinati a rimanere gli attori principali e gli arbitri le cui prerogative hanno bisogno, piuttosto, di essere allargate e rese più incisive. Il corollario di questa presunzione è l’attribuzione a questi organi sovranazionali di poteri e prerogative che in realtà rimangono saldamente in mano agli stati e ai centri decisori in buona parte annidati in essi in grado di manovrarli ed orientarli pesantemente. Questo vale per l’ONU, per il FMI, per tutta la pletora presente nell’agone internazionale, ma anche per l’Unione Europea.
Le conseguenze derivanti dall’adozione di questo paradigma in termini di condotta politica sono enormi sia nella postura sulle politiche nazionali sia nell’atteggiamento e nelle condotte adottate nei confronti degli organismi sovranazionali.
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Nella fattispecie della Unione Europea l’insieme del gruppo dirigente sindacale è affetto visibilmente dalla sindrome del lirismo europeista che impedisce di vedere la sua funzione precisa di subordinazione degli stati europei all’atlantismo e all’egemonismo statunitense, essendone in realtà fautori più o meno accesi ed entusiasti. Non si tratta solo di una postura di politica generale che impedisce di vedere la realtà delle politiche aggressive della NATO, di debilitazione delle politiche estere dei paesi europei, della genesi dei conflitti in particolare l’ultimo in Ucraina e il precedente contro la Serbia. Si tratta anche della particolarità delle modalità di creazione del mercato comune, della inibizione delle possibilità di sviluppo industriale ed economico dei paesi europei specie nei settori strategici, della permeabilità delle strutture finanziarie europee alle scorribande di quelle statunitensi. Ma aspettarsi da questi gruppi dirigenti una posizione appena critica ed autonoma su quest’ordine di problemi sarebbe troppo.
Colpisce, piuttosto, la mancanza di analisi seria sulla funzione dei fondi strutturali, compresi quelli inseriti nel PNRR, e sulle forme di regolazione delle politiche di ricerca scientifica e tecnologica. Argomenti più congeniali e politicamente “accessibili” dei quali abbiamo già ampiamente trattato su questo sito. Nessuna lettura delle dinamiche innescate da queste politiche; nessuna analisi sulle conseguenze dei processi di polarizzazione e squilibrio interno creati da questi nei paesi europei. Niente che non cadesse nella mera rivendicazione quantitativa di maggiori investimenti. Pieno conformismo se non in timici accenni apparsi, ad esempio, nelle pagine più interne delle tesi congressuali della UIL ma con scarso seguito nelle conseguenze da trarne.
Le critiche che vengono mosse sono, quindi, soprattutto di ordine quantitativo e di ulteriore spinta ed integrazione delle dinamiche già in atto.
È la stessa qualificazione degli effettivi poteri attribuita a queste istituzioni a sviare le energie. L’azione essenziale della dirigenza sindacale dovrebbe quindi rivolgersi verso il governo nazionale ed investire i temi della sua incisività nel determinare le politiche europee, della sua presenza adeguata e attiva negli apparati burocratici, nella capacità di pressione, di contrattazione e di codecisione; tanto più che la stessa struttura produttiva del paese, fondata su piccole e medie aziende, è ancora meno in grado di influire per proprio conto sugli indirizzi di politica europea e più prosaicamente nelle pratiche lobbiste imperanti in quegli apparati.
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La sudditanza politica ed ideologica non limita a questo gli aspetti deleteri dei comportamenti sindacali. Tutta l’impotenza e l’accondiscendenza manifestata nelle disastrose politiche di privatizzazione e cessione delle attività; tutta la sottovalutazione della necessità del mantenimento in Italia del controllo di indirizzo e gestionale delle aziende non hanno fatto che alimentare quella gestione disastrosa ed esterofila e il fenomeno, impressionante nelle dimensioni, della cessione o del trasferimento all’estero del controllo di gran parte delle stesse aziende private. Nei casi più paradossali, come quello della FIAT, con i peana di approvazione delle stesse vittime o presunte tali. La costante intangibile degli incontri rituali tra Governo e dirigenza sindacale si riduce stancamente al solito “di più” di investimenti ad integrazione dei fondi europei, piuttosto che a compensazione degli squilibri da questi creati con la conseguenza di accentuare ulteriormente le dinamiche innescate.
La conseguenza principale di questa impronta politico/ideologica è stata il decadimento progressivo ed inarrestabile della visione confederale delle politiche sindacali; probabilmente l’acquisizione più importante, pur con la sua buona dose di velleitarismo, della stagione sindacale degli anni 60/70. Il tentativo più o meno consapevole di costruire non solo la coesione politica interna al movimento operaio e sindacale, ma di legarla ad un progetto di costruzione nazionale comprensivo degli interessi e dei punti di vista di categorie diverse dal lavoro dipendente.
A questa involuzione ha fatto seguito, parallelamente e con un nesso causale stretto, il lento mutamento della postura sindacale nei suoi luoghi stessi di elezione: i posti di lavoro e le fabbriche. Da sindacato che aveva acquisito nei settori professionalizzati i propri punti di forza e di riferimento si è trasformato in sindacato dei “deboli” dalla postura vagamente tribunizia; con esso si sono impoverite le politiche salariali, sempre più orientate all’appiattimento legato al recupero del potere di acquisto dei settori più precari; è pressoché scomparsa una contrattazione seria sugli inquadramenti, mirata sulla loro corrispondenza con l’organizzazione del lavoro e sulla crescita professionale.
L’esatto presupposto per corporativizzare, laddove possibile, la difesa della propria condizione di lavoro e per ridurre la regolazione del mercato del lavoro ad una rivendicazione sterile di norme, non corroborate da politiche economiche favorevoli, ridotte sempre più a slogan impotenti.
L’elenco delle derive politiche potrebbe allungarsi a dismisura, a cominciare dall’approccio alle tematiche fiscali tutte incentrate su una visione manichea e moralistica del fenomeno dell’evasione fiscale piuttosto che del carattere vessatorio di un sistema che colpisce con diverse modalità sia il lavoro dipendente che quello autonomo.
Porterebbe però a rincorrere le tematiche ed i problemi.
Il nodo di fondo è che se i soggetti principali del confronto politico e geopolitico sono i centri decisori politici, di cui fanno parte anche gli agenti capitalisti e se gli stati sono destinati a mantenere, se non ad accrescere il loro ruolo nel confronto, anche le politiche sindacali devono essere ricondotte all’interno di un progetto serio di ricostruzione nazionale ed identitario. Quello deve essere il posto dove trovare lo spazio della difesa degli interessi popolari.
Le fughe in avanti, comprese quelle dal sapore vagamente internazionalista, per meglio dire cosmopolite, rischiano di trasformarsi drammaticamente nel loro opposto nel momenti di crisi aperta. Nella prima guerra mondiale abbiamo già conosciuto la trasformazione inopinata di quel fervore nel sostegno senza colpo ferire al bellicismo dei singoli contendenti.
La tradizione e la formazione politico-culturale di questi gruppi dirigenti, del tutto assimilabile a quella del nostro ceto politico partitico, certamente non li rende indenni da questo clamoroso trasformismo dettato dallo smarrimento rispetto agli eventi. Dal pragmatismo, attitudine notoria di questi ambienti, al bieco trasformismo il passaggio dei momenti critici è breve e repentino.
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