“Ci sono state molte discussioni sulla natura di questo governo. La storia repubblicana ha dato origine a un’infinita varietà di formule. Con il rispetto che tutti abbiamo per le istituzioni e per il buon funzionamento di una democrazia rappresentativa, un esecutivo come quello che ho l’onore di presiedere, soprattutto in una situazione drammatica come quella in cui viviamo, è semplicemente il governo. Paese. Non serve un aggettivo per definirlo. “
Mario Draghi, discorso al Senato della Repubblica, 17 febbraio 2021
Al tavolo del governo ci sono i ministri di quattro partiti. Tra loro ci sono socialisti, liberali, membri del centro destra e del centro sinistra e persino alcuni populisti di destra. Nonostante l’assenza di un patto di coalizione formale, nonostante le colossali differenze ideologiche tra le fazioni, e soprattutto nonostante la violenza delle passate elezioni, per molti l’esecutivo collegiale che riunisce i principali partiti del Paese sembra essere un bene, uno stabilizzatore necessario in uno stato eternamente diviso. In Parlamento non c’è né maggioranza né opposizione. E quasi tutti lo accettano.
Questa storia non è quella dell’Italia del nuovo governo Draghi, iniziata nel febbraio 2021. È quella della Confederazione Svizzera, e dura da più di settant’anni.
Per comprendere meglio le sfide che dovrà affrontare il nuovo governo istituzionale italiano e per cogliere le opportunità aperte da questo nuovo capitolo rispetto alle precedenti esperienze di governi “tecnici”, ma anche per capire dove può un governo Draghi Traendo la sua legittimità di azione, è utile dare uno sguardo oltre le Alpi. In realtà, inteso come governo di condivisione del potere , il nuovo governo non sembra essere un incidente della storia o un hapax derivante dalle dinamiche idiosincratiche della politica italiana contemporanea. Al contrario, la pax draghiana– le brevi consultazioni, il via libera dato dai principali partiti, l’indispensabile collaborazione delle forze politiche – potrebbero essere normali, non solo nel sistema politico svizzero, ma in qualunque sistema politico che accetti di sostituire il principio della concorrenza tra le fazioni da un principio di collaborazione o, per usare il termine tedesco, di concordanza democratica.
Quando nel 1798 il potere di Napoleone impose ai cantoni dell’ex Confederazione una Repubblica Elvetica in stile francese, installò ad Aarau un governo di tipo direttivo, simile a quello dell’effimera Prima Repubblica. Mentre a Parigi questo modello di governo, in cui il potere esecutivo e le funzioni di capo di stato erano esercitate collegialmente da un ristretto numero di magistrati, dovette essere abbandonato l’anno successivo a favore del consolato istituito da questo stesso Bonaparte., In La Svizzera, un esecutivo di sette membri con una presidenza a rotazione annuale, è sopravvissuto fino ad oggi come Consiglio federale. Dal 1948 la “formula magica”, un accordo informale tra le forze parlamentari, ne determina la composizione: due seggi per il primo, il secondo e il terzo hanno ottenuto il maggior numero di voti nelle Camere e un solo seggio per il quarto partito. Così, dal 1961, gli stessi quattro partiti – socialisti, radicali liberali, democristiani e l’ex partito agrario che è diventato la principale forza populista di destra – hanno effettivamente dominato la politica svizzera, formando un perpetuo governo di “coalizione”.
Nel caso della Svizzera, tuttavia, anche l’idea di una “grande coalizione” dei principali partiti sul modello tedesco o austriaco è inappropriata. La distribuzione del potere esecutivo tra i rappresentanti dei quattro partiti non richiede alcuna convergenza programmatica tra di loro e non appiana le loro differenze. Fuori dalle mura del Consiglio federale, i partiti lottano per le proprie idee, opponendosi in quattro votazioni annuali e numerose elezioni locali e cantonali, a volte in modo piuttosto violento. All’interno dell’istituzione, tuttavia, il principio di collegialità e lo spirito di “concordanza” che caratterizzano il sistema politico svizzero richiedono decisioni comuni. I sette consiglieri federali, praticamente inamovibili (i loro mandati sono rinnovati quasi sistematicamente dal Parlamento, chi nel frattempo non può revocarli con mozione di censura), godono di un alto grado di indipendenza e sono obbligati a collaborare. I quattro partiti rappresentati nel governo non costituiscono una “maggioranza” formata sulla base di un accordo formale di governo, e quelli che non sono rappresentati non sono l ‘”opposizione”. Al contrario, il governo, come il parlamento, sono luoghi di compromesso e di discussione.
Questo sistema di condivisione del potere può, per alcuni aspetti, sembrare poco pratico o antidemocratico a coloro che sono sempre stati abituati alla democrazia “competitiva” che è il modello dominante nelle democrazie parlamentari europee. L’esempio di quella che è stata probabilmente la crisi più grave della politica svizzera contemporanea, nel 2007, fornisce un ottimo esempio della resilienza di questo modello, ma anche del fatto che, per molti svizzeri, è proprio la concordanza a garantire la stabilità del il paese e la solidità del suo sistema democratico.
Nel dicembre 2007 Christoph Blocher, consigliere federale, uomo d’affari multimiliardario ma soprattutto rappresentante dell’ala più radicale dell’Unione Democratica di Centro (nazional-conservatrice), si candida alla sua rielezione. Sebbene gli altri partiti non abbiano contestato la partecipazione dell’UDC al governo, la figura del suo influente ex presidente Blocher, autore di numerose campagne populiste e xenofobe che hanno contribuito alla radicalizzazione del suo partito, e che, nonostante la sua carica di federale L’assessore, comportatosi in Parlamento come un leader dell’opposizione, ha suscitato grande tensione.
Questa situazione ha portato a un evento unico nella storia recente della Svizzera: poche ore prima del voto parlamentare, i socialdemocratici, i verdi, i democristiani ei liberali verdi acconsentono a impedire la sua rielezione. Al suo posto eleggono Eveline Widmer-Schlumpf, originaria dei Grigioni, anche lei membro dell’UDC, ma molto più moderata. Widmer-Schlumpf accetta l’incarico, che pochi mesi dopo porta all’esclusione dell’UDC dall’intera sezione cantonale del partito e alla creazione di una nuova formazione, il Partito Democratico Borghese, comprendente anche il secondo consigliere federale uscente dall’UDC essere un membro, e che si fonderà nel 2021 con altri partiti centristi.Widmer-Schlumpf, apprezzato per la sua competenza e la sua capacità di dialogo, sarà rieletto nel 2011 contro i voti dell’Udc di Blocher. Per circa un anno, nel 2008, l’UDC si considererà ufficialmente un “partito di opposizione”. Ma abbandonerà presto questa posizione dopo l’elezione al Consiglio federale del suo presidente Ueli Maurer, fedele amico di Blocher: l’intermezzo “competitivo” non è durato più di un anno, e nemmeno il partito populista, più diviso che mai, né il suo potente ex leader, potrebbero trarne alcun vantaggio elettorale.
L’affare Blocher illustra la forza e il primato della condivisione del potere nella cultura politica svizzera. Il “consocialismo” svizzero, come lo chiama la scienza politica contemporanea, è molto più di un habitus politico-culturale che rende possibili ampie coalizioni di governo nonostante le divisioni linguistiche, religiose e ideologiche, come teorizzato da Arend Lijphart.1. A differenza di Belgio, Paesi Bassi o Lussemburgo, anch’essi archetipi di Stati “consociativi”, nel sistema svizzero la collaborazione di tutte le forze politiche è pienamente istituzionalizzata. Non esistono coalizioni politiche e non esiste un gruppo di opposizione in Parlamento. Invece del solito sistema Konkurrenz , troviamo quello che la scienza politica di lingua tedesca chiama un Konkordanzsystem , un sistema di concordanza tra le parti2.
Lo stesso modello consociativo vale anche per i governi dei ventisei cantoni svizzeri, i cui membri, eletti a titolo personale secondo un sistema sia di maggioranza che di proporzionalità, rappresentano i principali partiti locali. Così, il Consiglio di Stato del Canton Ticino attualmente comprende un socialista, un democristiano, un liberale radicale e due membri della Lega dei Ticinesi, ideologicamente vicini all’omonimo partito italiano. Ci sono pochi altri esempi al di fuori della Svizzera e di due Stati federali austriaci (Bassa Austria e Alta Austria), ma la Commissione Europea, fatte salve alcune restrizioni (legate in particolare al meccanismo di nomina indiretta e alla sua natura di organo politico-amministrativo misto), può essere paragonato alla struttura manageriale che prevale a Berna.
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“È stato detto e scritto che questo governo è stato reso necessario dal fallimento della politica. Fammi essere in disaccordo. Nessuno fa un passo indietro rispetto alla propria identità, ma al contrario, in un perimetro di collaborazione nuovo e piuttosto inusuale, fa un passo avanti rispondendo alle esigenze del Paese […] “.
Mario Draghi, discorso al Senato della Repubblica, 17 febbraio 2021
Esaminiamo ora il nuovo governo Draghi. Otto ministri indipendenti, quattro del Movimento 5 Stelle, tre di Forza Italia, tre della Lega, tre del Pd, un rappresentante di Italia Viva – il partito di Renzi – e un esponente del partito di sinistra Articolo Uno. Tra gli indipendenti, un ex ministro del Conte II (Lamorgese), esponente del governo Letta ( Giovannini), un ex consigliere regionale dell’Emilia-Romagna (Bianchi), due alti funzionari (Cartabia, Franco), due ricercatori (Cingolani, Messa) e un imprenditore (Colao). La varietà dei profili rispecchia quella della Camera dei Deputati, fatta eccezione per la mancata partecipazione dei Fratelli d’Italia, e i veri “tecnici” senza esperienza politica sono solo cinque su venti. Il governo è sostenuto da partiti che, secondo gli ultimi sondaggi, rappresentano tra il 70 e l’80% delle intenzioni di voto. Pertanto, come hanno giustamente sottolineato Gressani e Alemanno in Terraferma,il governo Draghi, a differenza di quello guidato da Mario Monti nel 2011-2013, non può essere qualificato come governo tecnico in senso stretto. L’autorità del nuovo Presidente del Consiglio riunisce partiti che possono contare sui propri ministri per affermare le proprie posizioni politiche all’interno del governo, invece di dover sostenere dall’esterno, come hanno fatto nel 2011, un governo di tecnici senza legittimità democratica. Per tutti questi motivi, se l’esecutivo guidato dall’ex presidente della Bce può certamente essere definito “istituzionale”, non sarebbe corretto considerarlo un governo “tecnico”.
Il nuovo governo non è nemmeno un “governo di unità nazionale”. Certo, c’è la pandemia, e con essa la crisi esistenziale che, nella mitologia degli stati nazionali occidentali, giustificherebbe l’unità tra i partiti. Ma non c’è unità tra le parti. Non esiste una linea comune, nessuna causa da difendere e, inoltre, la crisi stessa non è realmente “nazionale”.
Vediamo emergere chiare somiglianze tra il governo Draghi e il sistema di concordanza svizzero. Naturalmente, la maggior parte di loro sono fortuiti. Nessuno ha mai voluto importare il modello svizzero a Roma e nessuno lo importerà lì. Tuttavia, per vari motivi, a Roma così come a Berna e Bellinzona, i principali partiti parlamentari siedono al governo e condividono le responsabilità esecutive. Lo Stato italiano non voleva certo questo nuovo modello; l’ha introdotto quasi involontariamente, ha lasciato che la bilancia penda a favore della concordanza per mancanza di altre alternative, ma in realtà è obbligato a sperimentarla. Anche la Germania non ha “voluto” le sue grandi e grandissime coalizioni. Ma la situazione italiana contemporanea, con il suo “governo di tutti i partiti”,
Avendo ora a nostra disposizione, con il consociazionismo svizzero, un modello storico-politico a cui paragonare il nuovo esecutivo italiano, possiamo analizzare le principali sfide che il nuovo presidente del Consiglio ei suoi ministri dovranno affrontare nei prossimi mesi.
Prima di tutto, ci sono le difficoltà insite nel sistema di Konkordanz : la necessità di un’intensa comunicazione interna, l’assoluta necessità di collegialità, l’indispensabile indipendenza dei ministri dalle proprie forze politiche e dai leader dei ministri. Quest’ultimo punto potrebbe essere particolarmente critico in un Paese dove un unico leader di partito è riuscito, quasi per capriccio, a far cadere un governo più o meno funzionante nel mezzo di una storica emergenza sanitaria.
Per funzionare, un governo consensuale richiede la piena solidarietà di tutti i suoi membri, se necessario anche contro la volontà del proprio partito. Tutti devono difendere le scelte dell’esecutivo, non come proprie, ma come risultato di un compromesso negoziato tra le forze in esso rappresentate. Questo è l’unico modo per il governo di intraprendere un’azione che gode di un alto livello di accettazione tra parlamentari e cittadini. Allo stesso tempo, la relativa indipendenza dei ministri consente alle decisioni del governo di essere attivamente contestate da alcuni membri degli stessi partiti da cui provengono. In Svizzera, l’UDC, rappresentato al governo da due consiglieri federali, ha appena lanciato una grande campagna pubblica contro il bloccoordinato dal governo federale; questo atteggiamento è tollerato fintanto che i due consiglieri federali continueranno, nell’ambito delle loro attività istituzionali, a difendere la linea ufficiale.
Il dibattito permanente (all’interno del governo, in parlamento come nello spazio pubblico) è quindi parte integrante della condivisione del potere, che non può consistere in un’armonizzazione al ribasso dei programmi o in un atteggiamento attendista degno di un governo di attualità. Ma i conflitti essenziali al dibattito democratico devono avvenire per la maggior parte agli occhi dei cittadini e in un dialogo permanente con loro, perché questi conflitti non possono manifestarsi così chiaramente nel gioco parlamentare. Nel caso dell’Italia, sembrerebbe del tutto irrealistico chiedere la fine degli scontri ideologico-politici tra le diverse forze politiche, in particolare le più radicali. Potrebbe essere molto più produttivo stabilire una chiara linea di condotta che, da un lato, richiede un atteggiamento costruttivo da parte dei ministri nella gestione degli affari di governo e, d’altra parte, consente esplicitamente una concorrenza illimitata tra parti esterne al governo. In questo modo, le evidenti divisioni tra le forze politiche potrebbero essere tollerate secondo gli standard di una vera democrazia deliberativa, senza dover rinunciare alla condivisione delle responsabilità governative.
Oltre alle difficoltà insite nella pratica consociativa3, il governo Draghi dovrà anche affrontare sfide più specifiche, derivanti dalla “transizione” improvvisa e temporanea del sistema politico italiano da un regime competitivo a un regime consensuale. In particolare, si possono identificare due tipi di sfide: sfide istituzionali e sfide culturali.
Istituzionalmente, è evidente che la Costituzione italiana non è stata concepita con l’obiettivo principale di facilitare la condivisione del potere tra le parti. La carica di Presidente del Consiglio, generalmente attribuita al capogruppo del partito più numeroso in maggioranza, non è quella di capo conciliatore, ruolo che più spesso spetta al Presidente della Repubblica. Secondo la Costituzione italiana, il Presidente del Consiglio non è, come il Presidente della Confederazione Svizzera, un primus inter pares ; spetta a lui “promuovere e coordinare le attività dei ministri” e “dirigere la politica generale del governo”, e non negoziare quotidianamente un difficile equilibrio tra le loro posizioni. Ma Draghi, a differenza dei suoi nuovi ministri e qualunque sia la dimensione della sua autorità morale e intellettuale, non può contare su alcuna legittimità democratica a titolo personale, non può fare affidamento su alcun accordo di governo firmato dagli altri leader del partito, e quindi non può realmente “guidare”. questo governo. Piuttosto, deve agire come un creatore di consenso all’interno del governo, nonostante il mandato costituzionale che gli garantisce la leadership; l’equilibrio sarà certamente difficile da mantenere. Anche in Parlamento, Le pratiche dovranno essere rinnovate nei mesi a venire per consentire la convivenza dei sostenitori senza eliminare alcuna possibilità di dibattito. E ovviamente ci sarà sempre la spada di Damocle, il rischio di un voto di sfiducia, inesistente nel sistema svizzero, o di una nuova crisi “alla Renzi” che potrebbe mettere a repentaglio l’unità del governo.
Ma in realtà, è probabile che le sfide maggiori siano culturali. Come confrontarsi, come parlarsi in Parlamento senza maggioranza e senza opposizione? Come creare un consenso tra vecchi nemici, tra partiti da sempre abituati a non dover mai governare insieme? Anche in questo caso, va sottolineato che in un sistema di condivisione del potere non ha senso cercare di soffocare o negare le differenze; al contrario, un sistema consensuale si basa su ” cross-cleavages” , cioè molteplici linee di conflitto tra le diverse parti, per raggiungere compromessi. Accetta questi disaccordi e li sfrutta per creare varie alleanze ad hoc.su temi diversi, in modo che nessuna parte, sentendosi esclusa dal processo decisionale, possa avere interesse ad abbandonare la ricerca del consenso. Per riuscirci, il banchiere Draghi, l’uomo che ha salvato l’euro grazie al magistrale bluff del “ qualunque cosa serva ”, dovrà usare tutte le sue capacità di persuasione e la sua lunga esperienza di negoziatore.
Concludiamo questo articolo con una brevissima discussione normativa. Nelle democrazie occidentali, i governi tecnici, e specialmente quelli formati in assenza di una coalizione politica credibile, sono ancora visti come anomalie del sistema democratico. Ma che dire di un governo composto da tutti i partiti? Potrebbe anche essere una negazione della democrazia? L’esempio svizzero ci mostra che non è così. La concordanza non è meno democratica della concorrenza, e in Svizzera è piuttosto “l’opposizione” a essere considerata antidemocratica. La difficoltà è quindi non giustificare la natura democratica del nuovo governo, come se fosse una regressione da nascondere: si tratta soprattutto di realizzare con successo la transizione pratica e culturale verso una nuova organizzazione della pratica politica che renda possibile una più ampia collaborazione tra le parti. In breve: il nuovo governo gode già di legittimità normativa; deve ancora costruire la sua legittimità culturale.
Ma potrebbe essere possibile andare oltre. Se il parlamentarismo italiano nella sua forma tradizionale – cioè competitiva – è in crisi, e se, a lungo termine, non c’è più prospettiva di un governo europeista e progressista in Italia senza un accordo molto ampio almeno tra i partiti di il centrosinistra, i Cinque Stelle e le forze moderate del centrodestra; se, insomma, la destra nazionalista ottenesse nei prossimi anni risultati tali da bloccare ogni tentativo di coalizione escludendo Lega e IDF, ma senza necessariamente dare a questi partiti la maggioranza assoluta dei voti, potrebbe essere interessante ‘prendere in considerazione la possibilità di estendere l’esperienza di un “governo multipartitico” oltre le prossime elezioni. Compresi, se necessario, con tutto il centrodestra e una figura neutrale alla presidenza. Le alternative – o nessun governo, o un governo sovranista con Salvini e Meloni a capo – non sono certo preferibili.