Massimo Morigi, Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo 2a parte

Massimo Morigi (per chi non volesse rileggere l’introduzione passare direttamente al link da pag 73)

LO STATO DELLE COSE DELL’ULTIMA RELIGIONE POLITICA ITALIANA: IL MAZZINIANESIMO

UNA RIFLESSIONE TRANSPOLITICA PER IL SUO LEGITTIMO EREDE: IL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO. PRESENTAZIONE DI TRENT’ANNI DOPO ALLA DIALETTICA OLISTICO-ESPRESSIVA-STRATEGICA-CONFLITTUALE DE ARNALDO GUERRINI. NOTE BIOGRAFICHE, DOCUMENTI E TESTIMONIANZE PER UNA STORIA DELL’ ANTIFASCISMO DEMOCRATICO ROMAGNOLO

INTRODUZIONE

Se accostiamo «Io sono una forza del Passato./Solo nella tradizione è il mio amore./Vengo dai ruderi, dalle chiese,/dalle pale d’altare, dai borghi/abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,/dove sono vissuti i fratelli.» che è la definizione della poetica e della Weltanschauung di Pier Paolo Pasolini con «Mi fanno male i capelli, gli occhi, la gola, la bocca… Dimmi se sto tremando!» criptica, surreale ma al tempo stesso lancinante e terribilmente espressiva dichiarazione del disagio del personaggio di Giuliana, interpretata da Monica Vitti, nel film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni e citazioni entrambe impiegate in questo Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo. Una riflessione transpolitica per il suo legittimo erede: il Repubblicanesimo Geopolitico. Presentazione di trent’anni dopo alla dialettica olistico-espressiva-strategica-conflittuale de Arnaldo Guerrini. Note biografiche, documenti e testimonianze per una storia dell’antifascismo democratico romagnolo, abbiamo immediatamente l’immagine del particolare metodo dialettico impiegato da Massimo Morigi e di cui si aveva avuto una prova anche nello Stato delle Cose della Geopolitica. Presentazione di Quaranta, Trenta, Vent’anni dopo a le Relazioni fra l’Italia e il Portogallo durante il periodo fascista. Nascita estetico-emotiva del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico originando dall’eterotopia poetica, culturale e politica del Portogallo, anche questo pubblicato a puntate sull’ “Italia e il Mondo”, che è, oltre ad essere un metodo dialettico che, come più occasioni ribadito da Morigi, oltre a non riconoscere alcuna validità gnoseologico-epistemologica alla suddivisione fra c.d. scienze della natura e scienze umane storico-sociali, entrambe unificate, secondo Morigi, nel paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico, proprio in ragione del suo approccio olistico, non distingue nemmeno fra dato storico-sociale e fra il suo stesso dato biografico e cercando di capire, assieme ai destinatari dei suoi messaggi, come questo dato biografico lo abbia portato alle sue odierne elaborazioni teoriche. A questo punto si potrebbe obiettare che in Morigi prevale sull’analisi teorica una sorta di deteriore biografismo, dove il momento dell’analisi viene travolto da una non richiesto lirismo. Niente di più errato. Comunque si voglia giudicare il del tutto inedito paradigma dialettico del Nostro, e noi comunque lo giudichiamo come l’unico tentativo veramente serio compiuto dalla fine del grande idealismo italiano di Gentile e Croce di far rivivere in Italia e nel resto del mondo il metodo dialettico, la manifestazione lirica cui Morigi rende conto a sé stesso prima ancora che ai lettori non sono assolutamente le sue interiori ed intime inclinazioni che giustamente egli ritiene non debbano interessare a nessuno ma si tratta del rendere conto, anche pubblicamente, del suo culturale Bildungsroman, dove nello Stato delle Cose della Geopolitica veniva focalizzato nella cultura portoghese, nella saudade di questo paese e, infine nella filmografia di Wim Wenders, in specie in quella che aveva come sfondo il Portogallo, Lo Stato delle Cose e Lisbon Story, mentre ora, Nello Stato delle Cose dell’ultima religione politica: il Mazzinianesimo si tratta della filmografia d’autore degli anni Sessanta del secolo che ci ha lasciato, cioè di quella di Federico Fellini, di Michelangelo Antonioni e di Pier Paolo Pasolini. E se è vero, come è vero, che il ricorso a questo strumento per l’interpretazione della crisi politica non solo del movimento mazziniano e del partito che tuttora vuole presentarsi come la sua attuazione politica è stata anche indotta dal fatto che sulla crisi della religione politica del mazzinianesimo e del partito che ancora vuole esprimere ed intestarsi questa ideologia non è stato, in fondo, scritto praticamente alcunché di veramente interessante e significativo (e non è questa la sede per contestare questa definizione di identità politica del PRI ed anche Morigi, anche per una sorta di rispetto verso un partito politico in cui militò in un lontano passato – e di cui, fra l’altro, dimostra in questo saggio introduttivo di essere un profondissimo conoscitore e, quindi, inevitabilmente quasi un “appassionato”–, è tutt’altro che acido rispetto a questa autodefinizione identitaria) ma anche della crisi politico-sistemica più generale che ha investito il nostro paese è, sulla scorta della sua dialettica totalizzante del tutto giustificata e conseguente, a noi lettori appare chiaro – ma anche Morigi, ne siamo sicuri ne è pienamente consapevole – che la filmografia espressamente citata in questo scritto di Morigi è anch’essa una parte importante del romanzo di formazione culturale di Morigi che, proprio in virtù della particolare dialettica totalizzante da lui elaborata può essere impiegata per dare conto sia del suo metodo dialettico che della crisi politica del sistema politico Italia, filmografia italiana che, sottintende sempre è stato quindi anche decisiva, insieme alle suggestioni portoghesi e wendersiane, per la definizione del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico.

Un’ultima notazione. Come da sottotitolo Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo è l’introduzione del saggio di Massimo Morigi, Arnaldo Guerrini. Note biografiche, documenti e testimonianze per una storia dell’antifascismo democratico romagnolo, edito nel 1989 e che oltre ad essere la biografia dell’antifascista repubblicano e mazziniano Arnaldo Guerrini, già più di trent’anni fa esprimeva, come ci dice il suo autore e come potranno vedere i lettori dell’ “Italia e il Mondo” la consapevolezza della crisi del sistema politico italiano che sarebbe esplosa con Mani pulite. Questa biografia, assieme ovviamente al suo scritto introduttivo sullo Stato delle cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo, su espresso desiderio dell’autore viene pubblicata in quattro puntate a partire da questo mese di gennaio del 2023, in una sorta di augurio di buon anno nuovo per l’acquisizione di una rinnovata consapevolezza politica per terminare con l’ultima puntata da pubblicarsi in occasione del IX Febbraio, data dell’anniversario della nascita della Repubblica Romana del 1849 e che per tutti i mazziniani, siano o no ancora facenti parte del Partito Repubblicano Italiano, è la ricorrenza più importante di tutto il calendario, ancora più importante, siano o no questi repubblicani credenti nelle varie denominazioni del cristianesimo, del Natale cristiano. Ci sarebbe così allora ancora molto da dire sulle religioni politiche e su come il Repubblicanesimo Geopolitico nel suo olismo dialettico, voglia essere, come dice espressamente Morigi, una prosecuzione ed evoluzione per i nostri tempi dei principi repubblicani di Giuseppe Mazzini…

Buona lettura

Giuseppe Germinario

Segue sul link sottostante a partire da pag 73 (per chi ha già letto la prima parte)

SECONDA PARTE DELLO STATO DELLE COSE ULTIMA RELIGIONE POLITICA

Il sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559

oppure 

PayPal.Me/italiaeilmondo

Cina: pensare alle gerarchie nel mondo moderno_di CHANTAL DELSOL

I professori dell’Istituto di Scienze Sociali della Fudan University (Shanghai) hanno organizzato un importante simposio, rinviato di due anni a causa della pandemia, su un tema importante e significativo sia nella filosofia politica che nelle relazioni internazionali: “Gerarchie e giustizia sociale nella mondo moderno”. Per lanciare e stimolare la riflessione, due dei ricercatori cinesi responsabili dell’organizzazione, Daniel A. Bell e Wang Pei, hanno scritto un’opera intitolata Just Hierarchy in English . L’argomentazione è questa: non c’è società senza gerarchie, e l’Occidente, che sostiene il contrario, naviga in mezzo a un sogno… Il libro inizia descrivendo il rito dei posti a tavola, sottinteso: in Occidente anche gli ospiti sono disposti a tavola secondo sottili gerarchie!

Per Zhang Weiwei, professore alla Fudan University e autore di The Chinese Wave , la cultura cinese promuove una meritocrazia che è l’altra faccia della democrazia, che ha senso solo per l’Occidente. Per noi qui è difficile capire come meritocrazia e democrazia sarebbero antitetiche. È perché per i cinesi la democrazia è una specie di anarchia dove tutto si fa a casaccio, con il pretesto che tutti sono capaci di fare tutto. Mentre la meritocrazia stabilisce un ordine, nella forma della gerarchia del sapere.

Gerarchia della conoscenza

Definirsi scuole dell’anarchia è però eccessivo, anche se, visto il sistema cinese di sorveglianza generalizzata, è facile esserlo. Dalla stagione rivoluzionaria, le società europee hanno sostituito le gerarchie di nascita con le gerarchie di merito. La sfiducia nei confronti delle gerarchie, che osserviamo sempre più viva nell’epoca dell’individualismo, sebbene già reale prima di esso, non si traduce necessariamente in un rifiuto delle gerarchie, di cui è ben nota la necessità, ma più da il desiderio di monitorarli e controllarli. Lo sappiamo per esperienza: è nella natura delle gerarchie correre verso l’ossificazione, perché favoriscono chi sta in alto, chi teme di perdere il posto. Il terrore di cadere dal loro piedistallo rappresenta tra le élite, ovunque e sempre, il pensiero più diffuso e più inquietante. Così fanno di tutto per stabilire la loro prerogativa e renderla inalienabile, da qui la tendenza ovunque presente al nepotismo: si cerca sempre di rendere trasmissibile la situazione gerarchica all’interno della famiglia. E più una situazione di autorità è inalienabile, più l’autorità diventa fragile e ingiusta, perché l’uomo è fatto in modo che tende ad abusare di un potere di cui non è responsabile. La lotta contro l’ossificazione delle gerarchie, che tendeva a proteggere certe famiglie, era già nel IV sec. E più una situazione di autorità è inalienabile, più l’autorità diventa fragile e ingiusta, perché l’uomo è fatto in modo che tende ad abusare di un potere di cui non è responsabile. La lotta contro l’ossificazione delle gerarchie, che tendeva a proteggere certe famiglie, era già nel IV sec. E più una situazione di autorità è inalienabile, più l’autorità diventa fragile e ingiusta, perché l’uomo è fatto in modo che tende ad abusare di un potere di cui non è responsabile. La lotta contro l’ossificazione delle gerarchie, che tendeva a proteggere certe famiglie, era già nel IV sec.X secolo cinese la preoccupazione dell’imperatore che poi stabilì il cosiddetto sistema a nove ranghi, per consentire alle famiglie di bassa estrazione di accedere ai ranghi più alti. Interesse storico permanente in tutte le civiltà. Le società occidentali hanno lavorato fin dall’inizio, con vigilanza a volte nevrotica, per controllare il potere. Per questo, ci sono diversi mezzi. Le gerarchie possono essere rese temporanee, impedendo ai beneficiari di rango superiore di abituarsi ai loro ranghi, dandoli per scontati e abusandone. Possiamo stabilire una responsabilità dei gerarchi e renderli responsabili, vale a dire indebolire il loro piedistallo. I Greci della nascente democrazia erano così diffidenti nei confronti delle gerarchie da conferire gradi e status per brevi periodi di tempo, per evitare di abituarsi alla grandezza. Hanno istituito giochi di ruolo per le magistrature, ed è anche accaduto, nei primi tempi della democrazia, che si tentasse di imporre questo principio ai comandanti militari. Il che era ovviamente una sciocchezza e il modo migliore per perdere le guerre, e non è durato, ma è comunque significativo. Inoltre, i magistrati greci erano responsabili della loro gestione, e costantemente sotto la minaccia di azioni legali e diffamazione. Il sistema del sorteggio (che inizialmente rifletteva il giudizio degli dei), utilizzato nell’antichità greca e nella Repubblica di Venezia, svolgeva un ruolo di limitazione delle gerarchie. L’instaurarsi di queste rigide limitazioni al potere dei gerarchi è un tratto permanente e originale di tutte le società occidentali, in cui le autocrazie appaiono come eccezioni e brevi parentesi (Luigi XIV, i despoti illuminati del Settecentosecolo, Napoleone, Hitler e i fascismi del Novecento ) La creazione di parlamenti ovunque traduce la volontà di attenuare la forza delle necessarie gerarchie. La meritocrazia fa parte di questa stessa preoccupazione. Inizialmente, sembra essere un sistema di controllo più equo rispetto al sistema di gioco di ruolo. Nel – 431 a.C. J.-C., lo dice già Pericle nel discorso della guerra del Peloponneso:“Il nostro regime ha preso il nome di democrazia perché il potere è nelle mani del maggior numero e non di una minoranza. Ma se, quanto alla risoluzione delle nostre particolari controversie, siamo tutti uguali davanti alla legge, è secondo il rango che ciascuno di noi occupa nella stima pubblica che scegliamo i magistrati della città, essendo i cittadini nominati in base al merito piuttosto che a rotazione . »

Tutti questi tentativi di controllo e persino di meritocrazia traducono la paura del potere di dominio delle gerarchie e, poiché sono necessarie, la costante volontà di tenerle sotto controllo.

Nascita della meritocrazia

Dopo la distruzione dei vecchi criteri gerarchici e poi la caduta delle utopie egualitarie del Novecento , si è imposta l’unica gerarchia possibile in questo periodo: la meritocrazia Va notato che il moderno modello meritocratico ci è arrivato dalla Cina, trasmesso attraverso i Gesuiti nel XVIII secolo . La Cina conosce questo sistema da secoli, è l’unico che permette ad una società di avere delle élite al di fuori delle vecchie aristocrazie feudali. In Cina, queste sono élite che dipendono interamente dal potere centrale. In Occidente, dove si è dispiegato negli ultimi due secoli, trasforma i criteri di eccellenza, ora individuati e verificati da prove e concorsi.

Tuttavia, negli ultimi cento anni, la meritocrazia è stata fortemente criticata da diversi autori occidentali. Un libro dell’inglese Michael Young aveva già, fin dal secondo dopoguerra, messo in luce le profonde falle di questo sistema dato per i soli giusti. Il suo vizio intrinseco è che rivela troppo chiaramente la naturale disuguaglianza tra gli uomini. La gerarchia del merito riporta ciascuno a ciò che vale veramente e lascia loro la certezza della loro totale responsabilità personale in ciò che spetta a loro – e soprattutto, in ciò che non spetta a loro. È l’illusione dell’uguaglianza che questo sistema abolisce, e Young lo chiarisce:“L’ingiustizia che governava l’educazione ha permesso alle persone di mantenere le proprie illusioni e la disuguaglianza di opportunità all’inizio ha favorito il mito dell’uguaglianza degli uomini [2] . »Chi si trova in fondo alla scala non può nemmeno dire a se stesso che lì sta subendo un’ingiustizia, poiché questa posizione degradante è dovuta unicamente al suo demerito. In altre parole, criticando le gerarchie di merito, è il sogno di uguaglianza che vorremmo salvare, se non riusciamo a realizzarlo… In fondo, la gerarchia di merito sarebbe troppo giusta, nel senso che metterebbe ciascuno al suo giusto posto che diventerebbe insopportabile per quelli sottostanti. Ciò che conta qui è l’autostima. Partiamo anche dal principio piuttosto convincente che giudicare un individuo in base al solo merito intellettuale è del tutto insufficiente: tante altre qualità fanno la ricchezza dell’individuo! In altre parole, l’individuo in questione rischierà di perdere l’autostima per un giudizio non falso, ma fin troppo parziale.La tirannia del merito [3] . Le sue argomentazioni fanno eco in gran parte a quelle di Michael Young. Descrive la folle pressione esercitata sui giovani nella società del merito e la desolazione dei “morti di disperazione” (Angus Deaton). Si rammarica di questa “crudele etica del successo  ” , [4] sostenendo che nella vecchia società aristocratica, le classi superiori trattavano le classi inferiori con più rispetto di quanto non facciano oggi. Gli si potrebbe obiettare che questo rispetto dei grandi per i piccoli era dovuto solo alla morale cristiana, ed è la perdita della morale cristiana molto più che l’avvento della meritocrazia che suscita oggi il disprezzo dei grandi per i piccoli.

La meritocrazia, fondata sull’intelligenza, misurata sulla concorrenza, costituisce per l’Occidente un ritorno al modello platonico, e una subdola messa in discussione delle sue scelte originarie, perché tende a tener conto solo della razionalità. Si crede che il merito intellettuale sia sufficiente per governare. Michael Young, dispiaciuto di vedere il QI impostato come il valore supremo della qualità di un individuo, si chiedeva perché non si potesse dare valore piuttosto alla gentilezza o alla sensibilità, al coraggio, ecc. Non aveva pensato che queste qualità umane trasformate in criteri di valori avrebbero poi generato società di ordine morale, tipo Savonarola. L’unico criterio accettabile in una società che vuole essere democratica non è l’intelligenza razionale, che dà origine a epistocrazie inevitabilmente antidemocratiche, questo è buon senso elogiato da Chesterton. Cristoforo Lasch[5] ha criticato la meritocrazia, prendendo in considerazione solo l’intelligenza, per il fallimento della civiltà. Emargina, diceva, le qualità umane: manca di tutto.

 Hong Kong: il potere della Cina si è risvegliato 

La gerarchia nelle relazioni internazionali

Qualche osservazione sulle gerarchie nelle relazioni internazionali. Finché l’Occidente è stato colonizzatore, ha pensato al mondo in modo paternalistico, stabilendo gerarchie di civiltà tra sé e gli altri. Le società occidentali non erano platoniche al loro interno, piuttosto svilupparono un modello di autonomia che avrebbe portato alle democrazie moderne, ma la visione della superiorità del loro modello le portò a trattare le altre culture come bambini non ancora del tutto sviluppati (seguendo in questo la modello dell’antica Grecia che guardava i Barbari con disprezzo e paternalismo). Oggi le grandi autocrazie portatrici di un modello paternalistico/platonico, che si tratti della Russia o della Cina, stabilire a livello globale le stesse gerarchie familiari che governano l’interno delle loro società. Così come considerano bambini i loro sudditi, considerano bambini gli Stati più deboli che si impegnano a conquistare (qualunque sia il tono di questa conquista: militare, ma il più delle volte economico e culturale). Alain Besançon ha mostrato chiaramente come la Russia integra o conquista territori: attraverso l’amore. Lui scrive : Alain Besançon ha mostrato chiaramente come la Russia integra o conquista territori: attraverso l’amore. Lui scrive : Alain Besançon ha mostrato chiaramente come la Russia integra o conquista territori: attraverso l’amore. Lui scrive :“La Russia non vince, unisce. Lei procede per amore. Ama la Georgia, i paesi baltici, la Finlandia, la Polonia che sono venuti da lei come si torna alla casa di famiglia. Solzhenitsyn non capiva il desiderio di emancipazione dell’Ucraina: la Russia amava maternamente l’Ucraina; quindi perché? Perché polacchi, ucraini e altri sanno nel profondo cosa significa questo amore e lo temono ancor più del dominio assoluto. La Russia vuole convertirsi a se stessa. Come la Chiesa, vuole essere amata. Attaccarlo è considerato un sacrilegio »

Qui vediamo un modo paternalistico di comportarsi con gli stati più deboli, che imita il paternalismo gerarchico stabilito all’interno della società. Ritroviamo lo stesso atteggiamento descritto tra i russi da Besançon, leggendo le descrizioni del cinese Tianxia [7]. Nelle relazioni internazionali, la Cina si comporta in modo paterno verso i Paesi più deboli, amandoli, aiutandoli e governandoli con fermezza. I Tianxia vedono il mondo come una vasta famiglia di cui la Cina sarebbe il padre e la madre, come il governo cinese per il suo popolo. Si presume che gli stati forti abbiano delle responsabilità nei confronti degli stati deboli, e la nozione di win-win qui è feudale/paterna: “Io ti servo, tu mi proteggi. In un sistema di questo tipo, gli effetti perversi dell’autorità sono controllati dall’educazione dell’autocrate (come in tutte le autocrazie nel tempo e nello spazio – da noi anche le autocrazie delle monarchie assolute erano contenute, almeno in linea di principio, dall’educazione del il principe, mentre nelle democrazie gli effetti perversi del potere sono controllati da controlli ed equilibri). Sotto il Tianxia, ​​il mondo è una famiglia unificata da un buon leader, “che porta il cuore dei più piccoli”. Il padre deve essere buono, seguire i riti, applicare per primo i propri principi per dare l’esempio. È l’eterno modello di un buon padre. Per noi, e sempre di più, il modello platonico è suscettibile di effetti perversi troppo gravi per poterlo difendere impunemente: scommette sulla moralità del leader, e ciò ci sembra ingenuo (che la recente scandali di pedofilia, sia in famiglia che nella Chiesa, rivelano con calma). Crediamo che ovunque il potere debba essere monitorato dal basso per evitare questi effetti perversi. Questo è ciò che chiamiamo democrazia.

Le gerarchie esistono ancora, ma variano tra le società. In generale, le società olistiche stabiliscono le loro gerarchie per il bene delle comunità, secondo giustificazioni estrinseche all’individuo. Mentre le società individualiste stabiliscono gerarchie secondo la loro idea di giustizia tra gli individui, in generale sono costantemente costrette a giustificarle.

Pur mutando i criteri culturali, possiamo definire un criterio universale di giusta gerarchia? Daniel Bell e Wang Pei lo dicono nel loro libro, e io li seguo su questo punto: per i moderni che siamo, le gerarchie non devono includere la violenza, e non devono essere fissate per sempre.

[1] Tucidide, Guerra del Peloponneso , II, 37.

[2] La meritocracie mai 2033 , Futuribles, 1969, p. 155.

[3] Michel Albin, 2021.

[4] pag. 355.

[5] La rivolta delle élite , Climats, 1996.

[6] Contagions , Opere complete, Les Belles Lettres, 2018, p. 1451.

[7] Zhao Tingyang, Tianxia tutto sotto lo stesso cielo , Le Cerf, 2018.

https://www.revueconflits.com/chine-penser-les-hierarchies-dans-le-monde-moderne/

Il sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure 

PayPal.Me/italiaeilmondo

IL COMPITO PRINCIPALE, di Teodoro Klitsche de la Grange

Nota

Qualche mese dopo l’insediamento del governo Berlusconi, la rivista
“Palomar” pubblicava un numero tematico su “La destra oggi”, con le
risposte di molti collaboratori, abituali e non.

Si ripropone il contributo, tenuto conto della persistenza delle simili
“sfide” al governo Meloni

IL COMPITO PRINCIPALE

  1. Tra le molte cose che il centrodestra deve realizzare la principale – e ovviamente più difficile – è ricostruire lo Stato, intendendo per tale non solo gli apparati pubblici, ridotti per lo più, ad un insieme di burocrazie quasi sempre inefficienti e spesso rissose, ma l’ “idea” (e il concetto) di quello, che va smarrendosi anche e soprattutto per l’identificazione che, nella coscienza collettiva, se ne fa con il rovinoso spettacolo offerto dalle amministrazioni pubbliche. Dato il quale, il problema che si pone è, nello specifico, individuare quale ne sia – tra i molti – l’aspetto più importante, anche al limitato fine di non fare di questo intervento un trattato, di volume proporzionale all’entità dei disastri ereditati. Questo è, senza dubbio, la separazione che il tramonto della Repubblica ha in parte subito, ma in altra, prevalente, incentivato, tra governati e governanti e di cui fanno fede la crescente disaffezione elettorale e i referendum disertati, per citare solo gli indicatori più verificabili, e forse più importanti. Ed è evidente che tale disaffezione è stata coltivata alacremente, non solo per interesse, ma anche per mentalità, dalla sinistra. Ciò per più ragioni: il leninismo, è stato, nel XX secolo, la più compiuta e coerente espressione di una mentalità oligarchica, con un partito d’illuminati destinato a guidare le masse, inconsapevoli o poco consapevoli, alla costruzione della società senza classi; peraltro a una certa tecnocrazia di sinistra è naturale credere che la soluzione dei problemi politici, sociali ed economici sia attingibile con strumenti tecnici (mentre talvolta, spesso, è così, e talaltra no: in genere più sono realmente decisivi, meno si prestano a soluzioni “tecniche”); altro errore ricorrente è ragionare in termini di potere e poteri, facendo di tutto o questioni di amministrazione (più in basso), o di governo (più in alto), quando l’importanza di questi è relativa rispetto alle categorie “essenziali” della politica, come l’autorità, la legittimità, l’integrazione: ossia quelle che fondano un potere legittimo, consentito, e proprio per questo, più facilmente obbedito. Quest’ultimo errore è stato mutuato da un liberalismo decadente, e spesso inconsapevole dei propri presupposti: in effetti ragionare di poteri, prescindendo da ciò che li fonda, equivale a vagheggiare un potere autoreferenziale, che si sostiene da sé, senza l’ausilio di principi di legittimità, teocratico o democratico che siano; e così, non sollevato dall’alto, né sostenuto dal basso, si regge come il barone di Münchausen che si afferrava il codino per non sprofondare nella palude. Ma è certo che, se quel sistema è idoneo nelle favole, nel mondo reale il tonfo è assicurato. Ed è già avvenuto il 13 maggio: l’immensa concentrazione di potere che negli anni ’96-’98 ha denotato il regime dell’Ulivo è stata prima erosa a livello locale, poi ribaltata a livello nazionale. A conferma che un potere non sostenuto dal consenso “profondo”, è “una tigre di carta” di maoista memoria: rotocalchi, RAI, quotidiani, Parlamento, Procure, enti locali e sindacati, par condicio e soprattutto la federazione di burocrazie che si riconoscono nell’Ulivo non è riuscita ad evitare il rigetto dello stesso da parte della comunità nazionale.

Il primo servizio che il centrodestra può rendere alla nazione (ed a se medesimo, avendo un consenso molto superiore alla parte avversa), è di rimettere le cose a posto, garantendo che, d’ora in poi, chi governa abbia autorità e legittimità; che la legalità non sia uno slogan e un’arma selettivamente puntata contro gli oppositori, ma concretamente, e generalmente, applicata; che i funzionari dello Stato siano dei civil servants, e non un misto tra efori spartani  e monarcomachi (ugonotti o gesuiti). Ricostruire il tessuto di uno Stato-comunità, in cui alla separazione tra governanti e governati, si sostituisca la distinzione tra chi comanda e chi obbedisce; ricondurre così ad unità (e riconciliare) i termini essenziali dell’unità politica, che come scriveva Proudhon, non possono “mai né essere assorbiti l’uno dall’altro, né escludersi”[1], è il compito principale.

  1. Agli albori del costituzionalismo moderno, dello Stato liberal-democratico borghese, era sottolineato il carattere di stabilità della legge, ed ancor di più della Costituzione; ciò rispondeva non solo all’esigenza di un diritto stabile, di applicazione prevedibile e “misurabile”, ma anche all’aspirazione ad un assetto istituzionale “ideale” e perfetto, razionale nello scopo di offrire un mezzo di soluzione ad ogni contingenza storica e ad ogni conflitto. Tale elemento, necessario, tendeva a porre in ombra l’altro aspetto – e funzione – della costituzione: di essere il “principio dinamico dell’unità politica” ovvero di dover coniugare stabilità e divenire, movimento e durata, consenso e potere, esistenza ed azione politica. Questo secondo profilo è stato evidenziato e posto in luce da pensatori politici, giuristi e filosofi, in particolare dallo scorcio del XIX secolo in poi. Renan, Hauriou, Schmitt, Smend, Gentile vi hanno contribuito: dalla definizione di Renan della Nazione come “un plebiscito di tutti i giorni”, alla concezione dell’istituzione di Hauriou[2]; dalla costituzione quale “principio del divenire dinamico dell’unità politica” di Schmitt [3], al giudizio di Gentile: “lo Stato – malgrado il suo nome – non è nulla di statico. E’ un processo. La sua volontà è una sintesi risolutrice di ogni immediatezza” [4]; fino alla tesi di Smend [5]. Ed è a Smend che dobbiamo la più approfondita e concreta teoria dell’integrazione come momento centrale dell’unità politica e della coesione comunitaria. Scriveva Smend che: “Se la realtà della vita dello Stato si presenta come la produzione continua della sua realtà in quanto unione sovrana di volontà, la sua realtà consisterà nel suo sistema di integrazione. E questo, cioè la realtà dello Stato in generale, è compreso correttamente solo se concepito come l’effetto unitario di tutti i fattori di integrazione che, conformemente alla legislatività dello spirito rispetto al valore, si congiungono sempre di nuovo e automaticamente in un effetto d’insieme unitario” [6], e in un altro passo sostiene che: “La comunità, il gruppo, lo Stato non devono essere intesi come un Io collettivo riposante su se stesso, ma come la struttura unitaria della vita individuale, come dialettica che realizza e trasforma dinamicamente l’essenza del singolo e dell’intero” [7], e quindi “Esso, cioè, non è un intero immobile emanante singole espressioni di vita, leggi, atti diplomatici, sentenze, atti amministrativi, ma piuttosto esiste come tale solo in queste singole espressioni di vita, in quanto attivazioni di una connessione spirituale complessiva, e nelle ancora più importanti innovazioni e trasformazioni che hanno come oggetto esclusivo questa stessa connessione. Lo Stato vive ed esiste solo in questo processo di rinnovamento costante, di rigenerazione continua del vissuto” [8]
  2. Nel tramonto della “prima Repubblica”, e soprattutto nella sua fase terminale, cioè il regime dell’Ulivo, è stato fatto proprio l’inverso: si è prodotto e ricercato non “l’unione spirituale di volontà” ma la distribuzione del potere tra le oligarchie organizzate.

Basta dare i poteri necessari alle persone morali e competenti ri-sintetizzano gli idola del centro-sinistra, e le cose andranno a posto. Ma tale ragionamento non sta in piedi: non solo perché – e ciò è la ragione minore – il problema diviene in tal caso quali sono i poteri necessari e chi sceglie le persone morali e competenti. E con ciò ci si avvicina al nodo essenziale: ovvero del chi decide su necessità, moralità e competenza. Se è il “popolo”, il “potere maggioritario” di Hauriou, consenso ed integrazione si accrescono: se invece è un qualche sinedrio partitocratico-istituzionale, la cui maggiore sollecitudine è di escludere e rovesciare le scelte popolari, con i vari mezzi noti, dai ribaltoni in giù, l’uno e l’altro si riducono. Ma, più ancora, un tale ragionamento è concettualmente errato: a costituite una comunità, un’unità politica, necessari sono il governo e i governati, e il rapporto che s’instaura tra l’uno e gli altri. Lo Stato, questo ente dalle tante definizioni, prima di essere Stato-apparato, è Stato-comunità, e prima ancora un’idea, che vive nel (e del) rapporto tra i cittadini e tra questi e i governanti. Il problema dei poteri è importante, ma secondario rispetto a quelli: se assetto e distribuzione di questi fossero decisivi, sarebbero sufficienti a garantire l’unità ed effettività del comando. La storia mostra che non è così: sono legittimità ed autorità a garantire che l’assetto dei poteri vigente sarà accettato dai “sudditi”, e non l’inverso, che sia un “buon” assetto di poteri  ad assicurare e sostenere un’autorità legittima.

Per il consenso popolare, così sottovalutato, si è pensato invece che bastassero articolesse, interviste al Tg, o nei casi più importanti, i dibattiti nei vari Sciuscià e simili. I governati, in tale visione, avevano la funzione dello spettatore distaccato, dell’osservatore che plaude o dissente, ma, per carità, senza agire; l’essenziale non era la partecipazione ma che non disturbassero i manovratori (e la manovra). Una rappresentazione del popolo molto politically correct. Un esempio chiaro e sintetico ce l’ha dato l’on. Rutelli, in occasione del referendum del 7 ottobre 2001 (sulla riforma federale della Costituzione, fatta dall’Ulivo sul piede di partenza del governo) disertato da circa due terzi del corpo elettorale a conferma della solenne indifferenza verso le “realizzazioni” del centro-sinistra. Diceva, tutto contento, il (soi-disant? ) capo dell’opposizione “Ottimo il risultato del referendum, una prova di maturità e serietà” (Libero 9 ottobre 2001)” (il corsivo è nostro).

In altre parole il coinvolgimento dei governati è un plus, un “optional”, irrilevante; l’essenziale è osservare le forme di procedimenti legalmente validi: con ciò si pensa all’impossibile, quanto perseguita surrogazione della legalità alla legittimità. Che il problema reale  – e decisivo –   non sia quello dell’osservanza delle forme, ma del far osservare i comandi, e che questo è tanto più facile quanto più i destinatari dei medesimi lo fanno spontaneamente e generalmente; che, come scriveva Hauriou vi sia una “sovranità di sudditanza” che si esercita non solo all’intervenire ogni tanto con rivoluzioni, sommosse e così via, ma, assai più frequentemente, col non obbedire, è cosa che non rientra nella Weltanschauung – per così dire – ulivista.

La quale, di converso, dev’essere la (prima) preoccupazione del centro destra. Non che ne manchino delle altre, d’indubbia importanza: ma questa è decisiva, ed osservarla costituisce, in se, un fatto positivo e determinante, perché realmente costitutivo dell’unità politica . Certo, avere un governo stabile e in condizione di governare; un’amministrazione efficiente, fornitrice di servizi e non consumatrice di risorse; una giustizia che non sia come la rana di Galvani, generalmente nell’immobilità della morte ma, ogni tanto agitantesi per la “scossa” del “caso sociale” (o del nemico politico), è determinante per il futuro dell’Italia: ma ricostituire l’integrazione della comunità lo è di più. Senza la quale i due “estremi” necessari e indefettibili dell’unità politica, stanno o in opposizione espressa  – con pericolo grave e pressante per la comunità – o in una evidente indifferenza, foriera di decadenza, spesso lunga, ma ancor più, priva di sbocchi.

In mezzo, tra governanti e governati, si trova l’ampia gamma dei poteri “forti”, comprese le “cupole” delle varie corporazioni, la cui reazione – aperta ed espressa, o più spesso occulta e indiretta – è, ed ancor più sarà, dura, proporzionale al ridimensionamento (se non alla “detronizzazione”) di questi che una maggiore integrazione tra governanti e governati comporta. Ma è un rischio che bisogna correre. Non foss’altro perché una delle lezioni più evidenti dell’ultimo quinquennio è che, ormai, non vale più la regola dell’on. Andreotti che “il potere logora chi non ce l’ha”: all’Ulivo l’overdose di potere – pari, se non superiore a quella della DC (e alleati) negli anni cinquanta nel ’96- 2001 non ha portato (o mantenuto) un voto in più. Voto che forse avrebbero potuto ottenere, ove avessero governato meglio, il che avrebbe significato scontentare (almeno) alcune corporazioni forti: avendo preferito il consenso delle quali, non hanno guadagnato quello del corpo elettorale. E questo dev’essere di conforto – e monito – al centro destra, ad onorare il patto col popolo, anche a scapito della tregua con le corporazioni.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] P.J. Proudhon Contradictions politiques. Théorie du mouvement constitutionnel au XX siècle. Paris 1952, p. 215.

[2] V. M. Hauriou Précis de droit constitutionnel, laddove scrive “dell’organizzazione formale dell’ordine sociale concepito come un sistema animato d’un movimento lento ed uniforme”, op. cit., p. 71 ss.

[3] Verfassungslehre, trad. it., p. 18, Milano 1983, cui si rimanda

[4] Genesi e Struttura della società, ed. Firenze 1987, p. 103

[5] “Elezioni, dibattiti parlamentari, formazioni di gabinetto, referendum popolari: sono tutte funzioni integrative. In altre parole, non trovano la loro giustificazione, come insegna – per la sua origine giuridica – la teoria dominante degli organi e delle funzioni dello Stato, soltanto nel fatto che i rappresentanti dello Stato e del popolo in quanto intero vengono insediati” ma piuttosto “esse integrano, cioè creano di volta in volta, per parte loro, l’individualità politica del popolo nel suo insieme e perciò producono il presupposto del suo attivarsi in modo comprensibile sotto l’aspetto giuridico e materialmente positivo o negativo sotto quello materiale”; e prosegue “il diritto elettorale deve condurre in primo luogo alla formazione di partiti e quindi alla produzione di maggioranze, e non semplicemente di singoli deputati. Nello Stato parlamentare il popolo non è già in sé politicamente presente e viene poi ulteriormente qualificato, di elezione in elezione, in una particolare direzione politica: e da una formazione di gabinetto all’altra, esso ha invece una sua esistenza come popolo politico, come unione sovrana di volontà, principalmente in virtù di una sintesi politica specifica in cui soltanto giunge sempre di nuovo ad esistere in generale come realtà statale”, v. Rudolf Smend, Verfassung und Verfassungsrecht, trad. it., Milano 1988, p. 93-95.

[6] Op. cit. p. 111

[7] Op. cit. p. 272

[8] Op. cit. p. 272

Il sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559

oppure 

PayPal.Me/italiaeilmondo

 

Guardare e comprendere il multipolarismo_con Gianfranco La Grassa

Costruire uno strumento interpretativo adeguato a comprendere il contesto politico e geopolitico. Un impegno che non può prescindere dai tempi dettati dalla contingenza storica. Attardarsi, però, nella riproposizione pedissequa degli schemi interpretativi che hanno orientato le vicende politiche del secolo scorso porta sicuramente a posizioni fuorvianti e conclusioni sempre più paradossali. Ne parlo con Gianfranco La Grassa. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/v26e3zo-guardare-e-comprendere-il-multipolarismo-con-gianfranco-la-grassa.html

 

Non dimenticarti dell’acqua nel 2023, Di Antonia Colibasanu

Un argomento già trattato su questo sito. In particolare un saggio di Aymeric Chauprade. Qui sotto un testo di Antonia Colibasanu puntuale ed interessante che rifugge dalla retorica del catastrofismo ambientale. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Non dimenticarti dell’acqua nel 2023

Questa risorsa limitata avrà molti paesi in difficoltà nel prossimo anno.

Apri come PDF

Il 16 gennaio, il Ministero cinese delle risorse idriche ha annunciato che Pechino ha investito più di 1 trilione di yuan (148 miliardi di dollari) nella gestione delle risorse idriche nel 2022, un enorme aumento del 44% rispetto all’anno precedente. Altrove, il Pakistan ha suggerito che i progetti di gestione delle risorse idriche devono diventare una priorità per il corridoio economico Cina-Pakistan perché entro il 2025 il Pakistan dovrebbe essere un paese con scarsità d’acqua. Settimane prima, un funzionario iraniano aveva confermato che 270 città e paesi soffrivano di una grave carenza idrica poiché il livello dell’acqua alle dighe era sceso a livelli estremamente bassi.

Le fabbriche nel sud-ovest della Cina hanno dovuto sospendere il loro lavoro la scorsa estate dopo che una siccità da record ha causato il prosciugamento di alcuni fiumi del paese, comprese parti dello Yangtze. Anche l’energia idroelettrica e il trasporto marittimo sono stati colpiti; La provincia del Sichuan è stata considerata in una “situazione grave” perché genera oltre l’80% della sua energia dall’energia idroelettrica.

Il Pakistan si trova in una situazione simile. Il fiume Indo è una fonte di oltre 17 gigawatt di energia idroelettrica e fornisce acqua al sistema di irrigazione del bacino dell’Indo, che sostiene oltre il 90% della produzione agricola del paese. La cattiva gestione dell’acqua, la rapida crescita della popolazione, la siccità e le inondazioni hanno creato una situazione davvero disastrosa.

In Iran, un clima semi-arido e il calo delle precipitazioni nell’ultimo decennio hanno contribuito alla crisi, ma la perenne gestione inefficiente dell’acqua dagli anni ’90 è forse il problema più grande. Dopo la rivoluzione del 1979, il nuovo regime avanzò una politica di autosufficienza alimentare nazionale, che prevedeva la produzione di colture di base sufficienti per soddisfare i bisogni del paese invece di fare affidamento sulle importazioni. A tal fine, la produzione agricola è diventata dipendente dall’estrazione di acque sotterranee e le falde acquifere che si riempiono lentamente non sono state in grado di tenere il passo con il numero crescente di utenti e prelievi idrici.

Questi problemi potrebbero non essere nuovi, ma stanno tutti peggiorando. E il fatto che questi tre paesi siano geograficamente interconnessi è stato un campanello d’allarme per altre nazioni in tutto il mondo che hanno affrontato, o stanno per affrontare, simili carenze idriche e le relative conseguenze.

In effetti, l’acqua è così fondamentale per la geopolitica che spesso viene trascurata. L’approvvigionamento idrico svolge un ruolo fondamentale nel sostenere la vita, l’agricoltura e l’industria. Gli stessi livelli di offerta possono fluttuare drasticamente per ragioni al di fuori del controllo di un governo. Tuttavia, data la crescente minaccia della scarsità d’acqua e le conseguenze che ne derivano, i governi sono sempre più aggressivi nell’intraprendere tutte le azioni possibili per garantire l’approvvigionamento.

Storicamente, le controversie sul controllo delle risorse idriche finiscono con la violenza. La disputa storica tra Etiopia ed Egitto per l’acqua del fiume Nilo è probabilmente quella che ha attirato maggiore attenzione. Ancora oggi, l’approvvigionamento idrico nel Donbas è gestito con cura da entrambe le parti, e a Kherson, capire come tagliare l’approvvigionamento idrico alla Crimea è stato fondamentale per comprendere i combattimenti sul campo. Inoltre, l’attacco russo alla centrale idroelettrica di Dnipro aveva lo scopo di interrompere l’elettricità nella regione come parte della strategia russa per abbattere le infrastrutture critiche dell’Ucraina. In guerra, l’acqua è allo stesso tempo un’arma e una vittima.

Conflitti globali sull'acqua | 2000-2021
(clicca per ingrandire)

Ma l’acqua è solo una parte dell’equazione. La siccità del 2022, seguita dall’inverno più caldo degli ultimi anni nell’emisfero settentrionale, quest’anno ha messo in difficoltà molti governi mentre prendono forma gli effetti a valle della carenza d’acqua. La potenziale crisi alimentare, inizialmente il risultato della crisi energetica dello scorso anno, potrebbe solo peggiorare. L’impatto si farà sentire maggiormente in luoghi come l’Africa e il Medio Oriente, dove la scarsità d’acqua è una preoccupazione costante. I flussi di rifugiati da luoghi come l’Iraq, la Siria e lo Yemen potrebbero aumentare. L’insicurezza alimentare probabilmente aumenterà in paesi come Algeria, Marocco e Tunisia. E poiché non è chiaro quanto cibo sarà disponibile per l’esportazione da produttori altrimenti grandi come Russia e Ucraina nel 2023, i paesi con una produzione interna limitata hanno ancora più motivi di preoccupazione, soprattutto perché i loro cittadini diventano più irrequieti.

Ma anche per le grandi potenze come Cina, Pakistan e Iran, le cose probabilmente peggioreranno prima di migliorare. Tutti e tre stanno già affrontando il disagio socio-economico. Non si sa quanto la pandemia di COVID-19 abbia danneggiato l’economia cinese, ma non va bene, con rapporti che dipingono un quadro particolarmente desolante per la disoccupazione giovanile. (Questo per non parlare dei problemi economici che la Cina deve affrontare indipendentemente dalla pandemia.) Il Pakistan sta vivendo la peggiore crisi socio-politica degli ultimi anni . L’ Iran è da tempo coinvolto in proteste di alto profilo . L’inflazione è alta in tutti e tre i paesi, così come i disordini economici dovuti alla disuguaglianza di classe. L’aggiunta di stress idrico potrebbe rendere le cose ancora più esplosive.

Percezione della qualità dell'acqua in 10 anni
(clicca per ingrandire)

Un’ulteriore instabilità in uno qualsiasi dei tre principali attori avrà probabilmente un effetto di ricaduta in Medio Oriente e oltre. Un Pakistan e un Iran in difficoltà allo stesso tempo renderanno sicuramente nervosi la Turchia e l’Arabia Saudita. E ciò che accade in Cina – uno dei maggiori consumatori di risorse al mondo e uno dei suoi più grandi motori economici – conta per il resto del mondo. Le chiusure delle fabbriche a causa della carenza d’acqua nella Cina post-pandemia innescherebbero nuovi shock nella catena di approvvigionamento che colpirebbero sia l’Europa che gli Stati Uniti. Nessuno dei due è abbastanza disaccoppiato dalla centrale elettrica cinese per ignorare tali shock.

Percezione della qualità dell'acqua, 2021
(clicca per ingrandire)

Entrambi hanno i propri problemi idrici da affrontare. Livelli più bassi nel Reno hanno innescato allarmi per la navigazione interna europea lo scorso anno; ulteriori riduzioni ostacoleranno probabilmente l’attività economica nell’Europa occidentale. L’anno scorso, la scarsità d’acqua ha costretto il governo degli Stati Uniti a limitare il rilascio di acqua negli stati occidentali. Se le cose peggiorano, i responsabili politici statunitensi saranno costretti a scegliere tra il rilascio di acqua, la generazione di elettricità e la produzione industriale e alimentare da un lato e la conservazione dell’acqua dall’altro.

L’acqua è limitata, quindi è chiaro che le preoccupazioni sul suo utilizzo e distribuzione aumenteranno man mano che le riserve diminuiranno. Sotto la maggiore pressione dei cittadini, i governi cercheranno soluzioni rapide. Se una soluzione per un paese va a scapito di un altro, inevitabilmente sorgeranno tensioni, forse violente. Ogni governo gestirà, o cercherà di gestire, la situazione in modo diverso. Nei paesi più poveri, le milizie potrebbero continuare a combattere per l’acqua, mentre nelle nazioni più ricche si discuterà di nuove politiche sull’utilizzo dell’acqua e probabilmente di nuove tecnologie per mantenere e migliorare le infrastrutture idriche. Tutto sommato, lo stress idrico evidenzia un’altra sfida socio-economica che il mondo deve affrontare prima che peggiori.

https://geopoliticalfutures.com/dont-forget-about-water-in-2023/

Il sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure 

PayPal.Me/italiaeilmondo

La caduta. Lineamenti e prospettive del prossimo futuro, di Piero Pagliani

Un saggio interessante che tenta di riprendere e ricalcare impostazioni e contesti teorici classici, in particolare marxisti, ma con alcuni aggiustamenti che tentano di superare il loro determinismo, laddove recupera il ruolo del politico ed ideologico in maniera più autonoma. Si tratta, però, a parere dello scrivente, comunque di un tentativo dal quale l’autore rischia sempre di allontanarsi per ricadere in una impostazione economicista in almeno tre occasioni:

  • quando parla della crisi attuale come di sconvolgimento sistemico determinato dalle dinamiche dell’accumulazione capitalistica, quando queste dinamiche in realtà non determinano tendenze irreversibili assolute, ma sono la conseguenza e/o contribuiscono a ridefinire gli equilibri e i rapporti di forza
  • quando stabilisce negli anni ’60 il momento di innesco della crisi egemonica statunitense, scambiando questa con una crisi dell’egemonismo. Il momento di crisi, in realtà, si è innescato solo dopo un paio di lustri dall’implosione del blocco sovietico grazie alla sicumera di aver conseguito definitivamente la condizione egemonica nel mondo e al dato strutturale che qualsiasi tendenza egemonica, nella fattispecie quella definita “globalismo”, genera di per sé spazi ed opportunità di azione di attori rivali
  • quando lamenta la mancanza di una analisi di classe. Ma di quale rapporto di classe: quella tra salariati e proprietari di mezzi di produzione; quella tra “rapinati” e “rapinatori”; quella tra ricchi e poveri, da deboli e forti. Siamo proprio sicuri che il conflitto sociale sia condotto dalle classi e che quest’ultimo determini più o meno direttamente l’antagonismo ed il conflitto tra centri decisori?

Buona lettura, Giuseppe Germinario

Introduzione: i lineamenti della crisi in breve

La formidabile espansione economica occidentale del dopoguerra, guidata dagli Stati Uniti, ultimi eredi dell’egemonia occidentale sulla maggior parte del mondo, che era culminata con l’Impero Britannico, è entrata in crisi verso la fine degli anni Sessanta del secolo scorso. Si tratta di una crisi sistemica. Una crisi è sistemica quando non coinvolge un gruppo limitato di comparti economici né un gruppo limitato di Paesi ma investe tutta una economia-mondo e la sua organizzazione intorno al potere economico, finanziario, politico e militare di un centro egemone. Da quanto detto si capisce che ogni crisi sistemica ha un carattere “ibrido”, per l’appunto politico, militare, economico e finanziario. Ne ha ovviamente anche uno sociale, perché le economie-mondo reggono sistemi sociali e sono rette da rapporti sociali. E ne ha uno ideologico che riguarda il complesso delle idee dominanti.

Oggi l’economia-mondo in crisi ha un’estensione planetaria e il centro egemone in crisi sono gli Stati Uniti d’America. Ma la natura più spettacolare della crisi sistemica corrente è data dal fatto che con essa potrebbe chiudersi la lunghissima sequenza di economie-mondo che a partire da Venezia sono state centrate sull’Occidente e, al suo interno, la sequenza dei cicli sistemici dominati dal mondo anglosassone. Da qui il carattere fortemente ideologizzato dello scontro che va oltre le ovvie manovre di propaganda e disinformazione. Oltre ad avere arruolato militarmente gli eredi più puri del nazismo hitleriano, l’Occidente collettivo ha infatti dovuto riesumare anche l’armamentario lessicale del fascismo. Gli alti funzionari della UE ormai parlano della Russia in termini di “Paese non civilizzato” e dei Russi come “solo apparentemente europei”, così come al momento del lancio dell’Operazione Barbarossa si parlava di “barbarie dei territori orientali” e di popolazione “semiasiatica”. In definitiva, una professione di fede razzista da parte di chi per il resto della giornata parla di “inclusione” e “democrazia”.

La campagna d’odio contro tutto ciò che è russo, comprese la grande letteratura e la grande musica, parti integranti della cultura europea, racconta di uno stato di disperazione che conduce ad atti di autolesionismo, di automutilazione, che ritroviamo tali e quali nella sfera economica e sono il risultato di una perniciosa incapacità di adattamento.

Questa resistenza all’adattamento è in gran parte indotta dalla nazione egemone in crisi, di cui gli Europei sono semplici vassalli. Ma ha anche radici locali in quelle élite che sanno che la perdita di egemonia degli Stati Uniti travolgerebbe anche i propri straordinari patrimoni e interessi e le proprie posizioni di potere semidivine.

Il campanello d’allarme della crisi sistemica fu il Nixon shock del Ferragosto del 1971, quando il presidente degli Stati Uniti mise fine alla convertibilità del Dollaro in oro. Dopo quasi un decennio d’incertezza, dovuta al braccio di ferro tra Washington (il Potere del Territorio) e Wall Street (il Potere del Denaro), la pace tra i due poteri fu decretata dal Volcker shock, quando il neo appuntato presidente della Fed portò i tassi dei fondi federali dal 11.2% al picco del 20% nel giugno del 1981. Le conseguenze furono disoccupazione, fallimenti, concentrazione e centralizzazione di capitali e il raffreddamento dell’inflazione che per tutto il decennio precedente si era accompagnata alla stagnazione. Infatti le spinte inflazionistiche agevolate dal governo statunitense per rilanciare l’economia non avevano sortito alcun effetto data la perdurante crisi di profittabilità degli investimenti. I capitali man mano si spostavano dal commercio e dall’industria, cioè dall’economia reale, verso le speculazioni finanziarie rompendo gli argini delle restrizioni legislative nazionali anche grazie alle operazioni delle multinazionali che inizialmente cercavano di difendersi dall’instabilità dei cambi provocata dal Nixon shock. Col Volcker shock e l’avvento del presidente Reagan, emulato in Europa dalla signora Thatcher negli UK e poi via via da tutti gli altri Paesi della UE, gli investimenti nel circuito finanziario presero decisamente il sopravvento. Era iniziata la finanziarizzazione, storicamente segno di crisi, in cui l’accumulazione di capitale reale è stata esponenzialmente sostituita da quella di capitale fittizio, i cui valori nominali niente hanno a che vedere con la ricchezza reale prodotta o esistente. Si è così giunti ad ammassare titoli di credito totalmente inesigibili, come la strabiliante massa di prodotti derivati il cui valore nozionale per la Bank for International Settlements di Basilea ammonta a 558,1 trilioni di dollari (con una stima totale di 1 quadrilione di dollari calcolando anche i contratti non-Over The Counter). La sola prima cifra, quella più bassa, equivale al doppio della ricchezza immobiliare di tutto il Pianeta, a poco meno di 6 volte il denaro nel mondo (inteso come monete, banconote e depositi di ogni tipo) e a 6 volte il PIL mondiale. Se si considera la stima più alta abbiamo che i soli titoli derivati equivalgono a 10 volte il PIL mondiale 2021.

Questa ricchezza fittizia, ma politicamente e militarmente supportata e quindi attiva, se in Occidente dava spazio a fantasie che da noi ben si accompagnavano alla “Milano da bere”, come gli “intangible assetes”, il “knowledge management” e cose simili (tutti concetti che quando si cercava di concretizzare facevano semplicemente riferimento al delta tra il valore reale di un’azienda e il suo valore borsistico), fantasie che altre ne hanno generate grazie a immaginifici teorici della “sinistra marxista”, questa ricchezza fittizia, si diceva, nel concreto intercettava i profitti che venivano creati là dove solo era possibile crearli, cioè al di fuori dei circuiti capitalisti storici: alla finanziarizzazione era necessario accoppiare la globalizzazione.

Ma la globalizzazione faceva crescere potenze che collocate al di fuori del controllo politico occidentale, nel giro di un paio di decenni sarebbero emerse come competitor strategici degli USA, la Cina e la Russia, intorno alle quali si aggregava un numero crescente di Paesi che cercavano di sottrarsi al predominio dell’Occidente collettivo (si pensi alla Shanghai Cooperation Organisation o ai BRICS+).

Fin dal 2000 (si veda il report “Rebuilding America’s Defenses: Strategies, Forces, and Resources For a New Century” del think tank neo-conservatore Project for a New American Century) si prevedeva che il decennio 2020 sarebbe stata l’ultima finestra utile entro la quale gli Usa potevano e dovevano intervenire, anche militarmente, in modo diretto contro i propri competitor per non perdere l’egemonia mondiale.

E così è stato.

La sequenza crisi sistemica-finanziarizzazione-guerre mondiali è ricorrente nella storia del capitalismo.

Dalla caduta dell’URSS abbiamo assistito a una guerra dopo l’altra: Jugoslavia (prima guerra in Europa dal 1945, e qualcuno già capiva che non sarebbe stata l’ultima) Afghanistan, Iraq, Libia, Siria, Somalia, Yemen. E ora siamo di nuovo a una guerra europea, quella in Ucraina. Tutta questa cortina di fuoco, se da una parte serve a circondare la landmass eurasiatica (dove insistono quattro potenze atomiche, le nazioni più popolose del mondo, quella con la maggiore economia mondiale, ed è la sede di enormi e diversificate risorse naturali), dalla parte opposta serve a dividere l’Europa da essa e da buona parte dell’Africa. In altri termini serve a fare dell’Europa un’appendice incistata degli USA. E per far questo era necessario che la UE fosse “weaponized” (cioè trasformata in un’arma), diventasse un’estensione civile della Nato, da spendere contro la Russia, via l’Ucraina, la vittima sacrificale.

E qui arriviamo al centro del problema. Gli Stati Uniti, con tutti i suoi alleati, non sono in grado di sconfiggere in una guerra convenzionale né la Russia né la Cina. Vale la pena ricordare che il maresciallo Montgomery in un’audizione alla Camera dei Lord nel 1962 riguardante lo scenario di una futura terza guerra mondiale avvertì: «La regola 1, alla pagina 1 del manuale di guerra dice: “Mai marciare su Mosca”. La regola 2 dice: “Non combattete con un esercito di terra in Cina”».

In una guerra atomica saremmo tutti sconfitti, USA compresi. E lo sanno. Per lo meno c’è molta gente con posti di responsabilità negli Usa che lo sa perfettamente. A mio avviso lo sa anche Biden che è ondivagante perché deve tener testa a una massa di crazy freaks, a volte drammaticamente ideologizzati (il “Destino manifesto”), che non sanno cos’è una guerra convenzionale, men che meno sanno cos’è una guerra di difesa esistenziale (nozione che ai Russi è stata impressa nel DNA a suon di milioni di morti), e assolutamente non hanno idea di cosa sia una guerra atomica, pensano che poterebbe essere combattuta solo in Europa mentre loro stanno a guardare magari da un bunker extra lusso, e la cui unica strategia, sia economica che militare e politica, è rilanciare sempre esattamente la stessa mossa.

La crisi dei subprime fu, dopo le avvisaglie della crisi borsistica delle “dot-com” (cioè del “capitalismo immateriale”, del “capitalismo della conoscenza”), lo scoppio di un’enorme bolla di capitale fittizio. Grazie alla Cina la crisi fu faticosamente tamponata ma la logica occidentale di accumulazione rimaneva quella basata sul capitale fittizio. Tutte le mosse che avevano portato alla crisi vennero ripetute a scala ancora maggiore. Si pensi agli enormi quantitative easing in dollari o euro, che arrivavano all’economia reale solo col contagocce mentre la massa si fermava nei circuiti finanziari che la bloccavano lì. Ora incombe lo scoppio di una bolla colossale in un mondo non più globalizzato ma frammentato a livello geopolitico, commerciale e finanziario. Per mitigare lo scoppio si darà corso alle solite rapine: privatizzazioni del dominio pubblico, mergers and acquisitions, scorrerie immobiliari, compressione dei salari e tutto il resto a cui destra e ancor più sinistra ci hanno abituati in questi anni [1]. Rapine che ridurranno la società in uno stato miserevole, ma che comunque non basteranno, per via delle grandezze in gioco, del fatto che la ricchezza esistente è uno stock finito e infine che queste manovre e l’isolamento mondiale a cui ci stiamo auto-condannando impediranno ogni ripresa, se non in limitati settori, e quindi la creazione di nuovi flussi di ricchezza.

Ne consegue che sarà necessaria una progressiva sospensione/limitazione/abolizione delle libertà democratiche di espressione, organizzazione, eccetera, libertà non più sostenute dallo sviluppo ma, anzi, ostacoli alla riorganizzazione sempre più violenta, sempre più urgente e sempre più veloce dei processi di accumulazione di denaro e di potere. Ovunque verrà applicata l’autorità di questo nuovo impero aristocratico, fondamentalmente una nuova talassocrazia, sia sulle “colonie esterne” sia sulle “colonie interne” si applicherà il metodo classico di appoggiarsi a forze e gruppi sociali elitari e reazionari, ma avendo cura di accendere i riflettori sulla patina “libertaria” di woke culture, del tutto inutile per redimere vecchi torti e non farne di nuovi, ma molto utile per abituare le persone ad aderire a protocolli ideologici e comportamentali decisi dall’alto.

Negli Usa, pervasi dai neocon, l’unica via di salvezza è vista nella ripresa del ruolo di potenza egemone mondiale che però deve passare dalla sconfitta della Cina che richiede a sua volta la sconfitta della Russia. Mentre si tenta questa strada, che necessariamente spacca il mondo in un terzo occidentale e in due terzi “altro” e che quindi spezza violentemente il circuito finanziarizzazione-globalizzazione, gli Usa possono solo rapinare i propri alleati a partire dalla (ancora per poco) ricca Europa. Ma se anche questa rapina riuscisse in pieno gli Usa, nella migliore delle ipotesi, finirebbero per rimanere bloccati in una situazione di ricchezza solipsistica simile a quella da cui dovettero uscire nel dopoguerra inventandosi la Guerra Fredda e rifornendo di dollari un’Europa che doveva essere ricostruita dopo la II Guerra Mondiale. Ma quel ciclo non sarebbe più ripetibile, perché la situazione mondiale è oggi drasticamente diversa e più che altro è drasticamente compromessa. Non è chiaro se in questo modo gli Usa intendono solo guadagnar tempo mentre cercano di indebolire i propri avversari in vista di una loro capitolazione, o se la nuova posizione di assoluto comando su 1/5 del globo (quasi un impero formale) sarà usata per negoziare i nuovi rapporti di forza in un mondo multipolare ormai impossibile da contrastare. Dipenderà dall’andamento della crisi.

Come procederà?

La crisi è direttamente proporzionale al tasso di finanziarizzazione, all’accumulo di capitali fittizi, e quindi è massima nell’Occidente collettivo dove, come si è visto, non verrebbe risolta nemmeno rovesciando sotto sopra il Vecchio Continente e i suoi sempre meno numerosi annessi e connessi.

La crisi è causata dai meccanismi mossi dalla logica dell’accumulazione. Quindi all’interno del costruendo impero formale a guida anglosassone essa non ha modo di essere risolta. La domanda allora immediata è: “Al suo esterno cosa sta succedendo, cosa succederà?”.

A questa domanda io non so rispondere. Se un mondo multipolare finalmente emergerà sarà perché l’Occidente collettivo, che oggi è neoliberista, sarà sconfitto da un Sud (o Est) collettivo di cui per ora non si capisce quale potrà essere la natura. O quanto meno, io non lo capisco.

In realtà, al di là del chiaro intento della Russia di spezzare il sempre più minaccioso assedio della Nato culminato con l’appoggio occidentale ai neo-nazisti ucraini, e della possibilità – prevista dal Cremlino – che una gran parte del Sud globale vi sta cogliendo per sottrarsi al secolare giogo dell’Occidente, in crisi e quindi sempre più rapinoso e aggressivo (due aspetti in diretto contrasto con la nozione di “egemonia”), non credo che nessuno possa in scienza e coscienza affermare di aver chiare le linee profonde della contrapposizione, quelle che plasmeranno il mondo a venire.

Si parla genericamente di uno scontro tra l’Occidente neoliberista e … . E manca il secondo termine. Spesso il “neoliberismo” viene inteso come una sorta di “fase terminale” del capitalismo (cosa che in sé non è) e altrettanto spesso viene enfatizzata la sua accezione ideologica, visibile nelle iperboli della woke culture che seppure hanno una relativa forza distruttiva, sono ancora solo “sperimentali” e minoritarie (anche se non sembra, per via di media e testimonial vociferanti) e hanno il compito di celare sostanziosi “fenomeni di classe” nazionali e internazionali che non si è quasi ancora iniziato ad analizzare (le eccezioni sono pregevoli ma rare e tenute in stato di clandestinità). Così, ipnotizzato dagli effetti speciali della woke culture, c’è chi si immagina uno scontro tra un mondo indirizzato verso il transumanesimo e un mondo che difende i valori umanistici, non di rado descritti come “valori tradizionali”. E quando si usa il concetto di “tradizione” si entra in una selva di rovi. Quando inizia e quando finisce la “tradizione”? Per qualcuno nel Medioevo – inteso in senso storico, non spregiativo – per qualcun altro nell’Illuminismo, e via così secondo i propri punti di riferimento. E dove è localizzata questa “tradizione”, in Europa, in Cina, in Russia, in Argentina, in Thailandia? A quale sistema filosofico fa riferimento? “Tradizione” vuol solo dire rifiutare gli insopportabili “genitore 1” e “genitore 2”? Consiglio di lasciare queste schermaglie al lato propagandistico dei discorsi di Vladimir Putin, il lato che, per ovvi motivi, vuol far leva sui sentimenti più condivisi della società russa, e alle anime candide che sono pronte a vedervi una natura reazionaria e addirittura “fascista”. Perché non è su questo che si giocano i destini del mondo.

Ma su che cosa, allora?

Durante la guerra fredda si contrapponevano due progetti distinti, due visioni del mondo distinte, due sistemi economici e sociali distinti. C’erano poderosi corpi dottrinari, da una parte e dall’altra, che permettevano di interpretare quello scontro, pur con tutti i limiti che i corpi dottrinari hanno rispetto al fluire storico. Oggi non è più così.

Nello scontro che ora sta seguendo la dissoluzione dell’ordine mondiale della guerra fredda, si sa che da una parte c’è un complesso neoliberista, ma dalla parte opposta c’è un complesso ancor meno decifrabile di quanto lo fosse il sistema sovietico e che si sta arricchendo di soggetti eterogenei. Una nave che affonda viene abbandonata da tutti: ufficiali, sottufficiali, macchinisti, camerieri, passeggeri di lusso, di prima classe, di seconda classe, di terza classe, persino dai clandestini.

Apparentemente non siamo nemmeno di fronte a un classico scontro interimperialistico, nonostante si possa riscontrare la ripetizione di alcuni schemi presenti nella prima parte del secolo scorso – ad esempio la finanza anglosassone da una parte vs l’industrializzazione della Germania (oggi della Germania, della Russia e della Cina).

Ciò porta a doversi chiedere quali sono le condizioni per l’emergere effettivo di un mondo multipolare, per la sua stabilità e quale sarà la sua natura.

 

Cambio di partita

Il 4 ottobre scorso il Consiglio Federale russo ha ratificato il passaggio degli oblast di Zaporizhie, Cherson, Donetsk e Lugansk dall’Ucraina alla Federazione Russa, dopo che lo aveva fatto la Duma di Stato. Questa decisione, assieme all’ordine di mobilitazione parziale riguardante 300.000 soldati, è la risposta russa alla presa d’atto di due cose: 1) La Nato (qui intesa come Usa e UK) non permetterà a Zelensky di negoziare la pace con Mosca (finora glielo ha sempre impedito utilizzando i propri pretoriani neonazisti, pressioni e ricatti di ogni tipo), 2) La Nato ha preso il comando diretto delle operazioni militari in Ucraina.

Dal 4 ottobre Mosca considera dunque quelle regioni parti integranti della Russia. Che questa annessione sia o non sia riconosciuta dall’Occidente collettivo (che è primatista nelle operazioni di secessione, si vedano i Balcani) o da altre nazioni, conta molto poco. Perché in questo caso è evidente che ciò che conta è quel che pensa Mosca, ovvero le motivazioni strategiche dietro questa mossa. E questa mossa cambia totalmente le carte in tavola, o meglio cambia la scacchiera: ora non è più la Russia che combatte in Ucraina ma, per Mosca e per la stragrande maggioranza dei Russi come rilevano varie survey, è la Nato che combatte contro la Madre Russia con tutte le conseguenze che ciò comporta.

L’ex cancelliera Angela Merkel, che dimostra di avere ancora la stoffa da statista mentre Super Mario Draghi, che nella fantasia dei nostri politici e dei media Minculpop doveva essere il suo erede, ha solo dimostrato di essere un tecnocrate privo di ogni consapevolezza storica, lo sa e lo ha detto, pur se dietro il velo dello spettro di Helmut Kohl:

[D]ietro il velo di Kohl l’ex Cancelliera critica le condotte di Washington e della Nato, incapaci di “pensieri storicamente contestualizzati”, di “pensare l’impensabile” e di ascoltare lo spiraglio aperto da Putin nel discorso minaccioso del 21 settembre: un accordo con Kiev era quasi pronto a marzo, incentrato sulla neutralizzazione ucraina, e Londra e Washington l’affossarono. [2]

Mentre i media Minculpop si stanno esaltando per le “riconquiste” ucraine (Izjum, Balaklija, Lyman e qualche villaggio), mentre generali come Petraeus, che non hanno mai vinto una guerra in vita loro, parlano di “inizio del collasso dell’esercito russo” e al loro seguito una teoria di “esperti” stampati o teletrasmessi scambiano il successo di un’offensiva tattica con una vittoria operativo-strategica, dimenticandosi della distruzione immensa di materiale bellico e del numero spaventoso di perdite ucraine, mentre dunque l’Occidente collettivo si sta eccitando con questa “pornografia bellica” il quadro strategico è totalmente cambiato.

Una guerra non si vince sul piano tattico (anche se la pornografia bellica continuerà ancora, e al solo pensiero c’è da piangere). La parte “cinetica” di una guerra si vince sul piano operativo e la guerra come confronto strategico si vince nella dimensione politica. E’ per questo che le guerre sono sempre state ibride, anche se qualche commentatore pensa che sia una novità e comunica con un certo orgoglio al suo pubblico questa strabiliante “scoperta”. Ed è per questo che l’ammissione delle quattro regioni ucraine nella Federazione Russa cambia il gioco in modo drammatico.

Ora la Nato deve decidere se vuole combattere direttamente contro la Madre Russia (trattando di strategia, è opportuno parlare di “Madre Russia” come abbiamo visto). Non ci sono altre possibilità: o il compromesso o il confronto aperto, senza più l’interposizione del regime fantoccio di Kiev, col tentativo, a costi disumani per gli Ucraini, di strappare qualche nuova vittoria prima che la mobilitazione russa saturi il fronte e probabilmente passi alla controffensiva, nella speranza di indebolire Putin internamente (cosa che non sarà perché, per l’appunto, è in gioco la Madre Russia, e bastano due nozioni storiche e culturali per capirlo) e isolarlo dai suoi alleati, come la Cina, che in questo momento finge di fare il pesce in barile, ma ha perfettamente chiara la posta in gioco (anche perché basta un’imbecille arrogante come Nancy Pelosi per ricordarla a un miliardo e 400 milioni di Cinesi – e spaventare la stessa presidentessa di Taiwan, Tsai Ing-wen: “Lo scontro armato con la Cina non è un’opzione”).

E la decisione degli Usa (che dovrà tramutarsi in acquiescenza dell’Occidente collettivo) deve tener conto che l’Ucraina è solo uno dei terreni, attualmente il più caldo ma non per questo il più decisivo, del cambiamento epocale ormai conclamato e sotto gli occhi di tutti.

 

Un nuovo termine:unprovoked

Noam Chomsky ha fatto notare che quando si parla dell’invasione russa dell’Ucraina si usa automaticamente e obbligatoriamente un termine che in questi contesti è una novità: “non provocata” (unprovoked). «Ogni articolo che si trova [su Google] deve parlare dell’invasione dell’Ucraina come “non provocata”. Ovviamente è stata provocata. Altrimenti non si riferirebbero ad essa in continuazione come “non provocata” … Questa non è solo la mia opinione, è l’opinione di qualsiasi alto funzionario dei servizi diplomatici statunitensi che abbia una qualche familiarità con la Russia e l’Europa Orientale. Si va da George Kennan [il teorico del contenimento dell’Unione Sovietica] negli anni Novanta, all’ambasciatore di Reagan Jack Matlock, per includere l’attuale direttore della CIA» [3].

Ma se la Russia è stata provocata, occorre capirne i motivi. Quello più evidente è di tipo meccanico: la Russia deve “cambiare regime”, sottomettersi agli USA e se possibile deve essere balcanizzata, cioè frantumata in più stati. L’Ucraina in questo progetto funge da trappola dove migliaia di russo-ucraini del Donbass uccisi dal 2014 e, per ora, decine di migliaia di soldati ucraini caduti assieme a un migliaio di civili sono serviti da esca.

Perché la Russia deve cessare di esistere come stato sovrano?

Qui la pubblicistica russa ricorda che questo è da secoli un obiettivo dell’Occidente e fa riferimento all’invasione svedese e a quella dei Cavalieri Teutonici sconfitte da Alexandr Nevskij nel XIII secolo, all’invasione polacca durante il Periodo dei Torbidi tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento, all’invasione napoleonica, a quella prussiana e a quella nazifascista. E’ interessante questa lettura russa della Storia, perché anche se a volte ha un non convincente sapore millenaristico che passa sopra troppi particolari, tuttavia segnala un sentimento e il fatto che per i Russi il concetto di difesa della patria (e di denazificazione) ha un alto contenuto emotivo.

Fatto sta che la Russia è sostanzialmente vista dall’Occidente come una nazione troppo grande, troppo ricca di risorse e troppo “diversa”. E’ una nazione che sfugge al controllo politico dell’Occidente e anche a quello ideologico, cosa non meno importante. Pur essendo parte integrante – e indispensabile – della cultura europea, la Russia è Russia. Il suo cristianesimo sta al di fuori della dialettica (a lungo fratricida) tra cattolici e protestanti ed è estraneo alla loro “modernizzazione” ambiguamente in bilico tra riconoscimento di diritti dovuti e adeguamento agli interessi di lobby politico-ideologiche. Ci sono motivi profondi perché i Russi vedano l’attuale Occidente collettivo non solo composto da irriducibili “odiatori” della Russia ma anche pervaso da una “civilizzazione” aliena, con “valori” non condivisibili [4].

La storica ricchezza etnico-culturale della Russia, composta da ortodossi, musulmani, ebrei, buddisti, da popoli diversi e culture diverse che pure si riconoscono in una sola entità nazionale, fenomeno che possiamo chiamare di “centralizzazione della varietà”, lascia spiazzata un’Europa dove una pletora di stati essenzialmente monocromatici per secoli non sono riusciti a venire a termini con l’Altro [5].

Ed è quindi paradossale, ma non sorprendente che, come si è visto, alti diplomatici della UE dichiarino che la Russia “non è civilizzata”, esattamente come pensavano i nazisti e i fascisti [6].

 

Scontro di civiltà o scontro generazionale?

La centralizzazione della varietà non è un’esclusiva della Russia. Si pensi alla Cina e all’India.

La centralizzazione della varietà si è plasmata in lunghi processi storici che sono stati permessi da meccanismi socio-economici lenti. Non è quindi da confondere col pot-pourri statunitense, formatosi in modo disordinato sotto la pressione di veloci e straordinari processi di accumulazione di denaro e di potere, né con quello disorganico dell’immigrazione nell’Europa post coloniale.

Lo scontro tra Stati Uniti e Russia, preliminare a quello tra Stati Uniti e Cina, è lo scontro tra una giovane nazione anglosassone alleata ad altre giovani nazioni anglosassoni (il Canada, l’Australia, la Nuova Zelanda) sotto la supervisione della loro matriarca, la Gran Bretagna, e nazioni che si sono formate in secoli e secoli: 1.000 anni la Russia, 4.000 la Cina.

Sotto questo punto di vista il blocco anglosassone mette in campo molti punti di forza dovuti alla giovinezza, all’elasticità, alla dinamicità delle scelte, alla spregiudicatezza, alla geografia stessa, ma presenta, specialmente negli Stati Uniti, una direi “fragilità strutturale” che potrebbe essere spiegata, con un abuso di metafora, in termini quasi “politico-psicanalitici”: è il frutto della premura, dell’ansia di recuperare una storia che non si è avuta, un’infanzia e un’adolescenza che sono state negate. Gli Stati Uniti sono Jack Torrence che in “Shining” si blocca su una frase infantile (che nella traduzione italiana, curata da Kubrick stesso, evoca la fase orale: “Il mattino ha l’oro in bocca”) per poi trasformare i deliri infantili di onnipotenza in odio mostruoso per chi egli accusa di bloccare la sua creatività, cioè per chi gli pone vincoli sociali e affettivi e gli ricorda le sue responsabilità di adulto.

Nella millenaria vicenda del Paese di Mezzo, il periodo di soggezione all’Occidente è effettivamente stato quel “paio di secoli non molto brillanti da cui ci stiamo però riprendendo” a cui si riferiscono i Cinesi. Un paio di secoli in 4.000 anni di storia possono essere visti con ironia, come qualcosa di passeggero.

I 77 anni di egemonia statunitense possono invece essere veramente una fiammata, straordinaria, decisiva ma che rischia di essere irripetibile e al suo seguito i trecento anni di predominio dell’Occidente sembrano essere un fenomeno di enorme importanza ma in via di irreversibile esaurimento. Cosa che in sé non sarebbe destinata a sfociare nel dramma se il millenario Occidente non fosse forzato a imitare gli Stati Uniti.

Nel mondo giovane e veloce degli Usa la memoria della Storia o ha un valore mercantile di cui appropriarsi oppure è vista come un’arma potente e pericolosa che a loro manca e che deve essere tolta ai nemici. È così che gli Usa nel 2003 devastarono quel museo di Baghdad istituito da un agente segreto britannico, Gertrude Bell, nel 1915, quando l’espansione dell’impero della “vecchia Inghilterra” stava avvicinandosi al suo apice.

Le nazioni con radici profonde non sono tollerate così come non lo sono le nazioni geograficamente grandi. Gli Stati Uniti devono tenere sotto controllo sia l’ampiezza sia la profondità delle altre potenze. Gli Stati Uniti sono convinti che per “destino manifesto” sono i soli ad avere il diritto ad essere grandi, dove “grande” ha innanzitutto un significato geografico, e che i propri valori fast and furious devono sostituire quelli lenti e calmi degli altri popoli.

Per parafrasare Jawaharlal Nehru, la civiltà occidentale [gli Inglesi] era portatrice di una qualità di cui gli altri popoli [l’India] erano carenti: la dinamicità. Ma lo era fino al parossismo. La società, ogni società, e il capitalismo (col suo alter ego, l’imperialismo) hanno sempre avuto ritmi molto differenti e col tempo questa differenza ad ogni ciclo è diventata un solco che appare sempre più incolmabile.

Ritorneremo a ritmi più lenti, saremo di nuovo capaci di voltarci indietro, di creare “tipi sociali arcaici in una forma superiore” (Marx), o ormai il virus si è propagato ovunque? Cosa uscirà da questo caos sistemico?

 

La guerra per evitare la rivoluzione

La Russia è stata provocata, dunque, e la provocazione è servirà a trascinarla in una guerra. E la guerra serve a minare politicamente la Russia al suo interno, a distruggerla come grande nazione e come nazione sovrana. Poi verrà il turno della Cina e a seguire, posso pensare, quello di un’India che senza il contrappeso della Cina potrebbe rischiare di acquisire un ruolo “troppo importante”.

Washington non vuole perdere la supremazia che ha acquisito grazie a una straordinaria posizione geografica, a una dinamicità selvaggia ancor più che parossistica, e alla scaltrezza da giocatore di poker che l’ha consigliata di entrare a metà corsa nelle due guerre mondiali precedenti. Non la vuol perdere perché è l’unica cosa che tiene insieme una società frantumata, col 15,1% in stato di povertà, il 18% che deve rivolgersi ai banchi alimentari, e che con poco più del 4% della popolazione mondiale ha circa il 25% della popolazione carceraria mondiale.

Per accettare la Storia e il resto del mondo gli Stati Uniti dovrebbero essere in grado di rivoluzionare i rapporti sociali che sono stati plasmati da recenti, veloci e impetuosi processi di accumulazione di denaro e di potere. Ma le sue élite dominanti non lo permettono e non sarebbero comunque in grado di farlo, perché la logica dell’accumulazione capitalistica si erge come un potere oggettivo anche sopra di loro. Sono dunque obbligate a cercare di perpetuare uno strapotere che dura da 77 anni (uno schioccar di dita nella storia umana) da parte di una nazione che per la fine del 2022 conterà solo il 4,2% della popolazione mondiale. Uno strapotere gestito da una minuscola élite che assieme a un numero ristrettissimo di alleati internazionali governa una parte finora ricchissima del pianeta, utilizzando il sostegno di ceti sociali vassalli che si riconoscono negli interessi, o a volte solo nell’ideologia, di questa neo-aristocrazia allevata dalla ormai quasi cinquantennale stagione della finanziarizzazione e del neo-liberismo, allevata cioè dalla crisi sistemica.

Si faccia però bene attenzione a una cosa: benché in differenti circostanze, è già avvenuto che una nazione che “non aveva i numeri” abbia controllato direttamente o indirettamente l’intero pianeta. Pensate alla minuscola Inghilterra di fronte all’immenso subcontinente indiano (sottoposto direttamente) e all’immensa Cina (controllata indirettamente) e al resto dell’Europa (di cui controllava il flusso degli affari e a cui imponeva il “balance of power”). Al momento della sua massima estensione, nel 1921, l’Impero Britannico copriva 35.5 milioni di kmq, il 24% delle terre emerse, 145 volte l’estensione delle isole britanniche e aveva 448 milioni di abitanti, un quinto della popolazione mondiale di allora e ben 10 volte la popolazione della Gran Bretagna. Ma al momento della conquista dell’India, il PIL britannico era solo l’1,9% di quello mondiale e la Gran Bretagna non controllava ancora economicamente e finanziariamente il resto dell’Europa, anzi era indebitatissima coi banchieri olandesi. Eppure conquistò un Paese che vantava più del 22% del PIL mondiale. Ma, come commentava Immanuel Wallerstein, l’Inghilterra era largamente superiore nell’ “arte criminale”, cioè nell’arte della guerra [7].

Ma oggi, sarà ancora possibile dispiegare tutta la propria arte criminale quando ciò può significare la fine dell’intera umanità? Se a Washington ci sono senz’altro mostri impazziti per la disperazione, non c’è veramente nessuno da quelle parti capace di tenerli a bada?

Tuttavia l’aspetto militare è solo uno dei fattori in campo. Si ricordi che oggi il PIL statunitense, benché in contrazione, in Parità di Potere d’Acquisto è il 15,78% di quello mondiale e il Dollaro è punto di riferimento per due terzi del PIL mondiale. Ha quindi ragione Raffaele Sciortino quando suggerisce di «prendere con estrema cautela le ipotesi decliniste riferite agli Stati Uniti». E ciò si ricollega al nostro caveat [8].

Il problema da analizzare è come e quando si combineranno le dinamiche belliche con quelle economiche e quelle finanziarie, tenuto conto che, ceteris paribus, il castello di carte finanziario, esemplificato dal famoso ammontare dei titoli derivati pari a 10 PIL mondiali, cioè pari al nulla dato che non esistono 10 Terre, è destinato a crollare, trascinando con sé banche, industrie e crisi fiscali. E qui “ceteris paribus” vuol dire senza il sostegno dei sistemi finanziari del Sud collettivo, a partire da quello cinese [9].

 

La Storia e lo show-down della crisi sistemica

La lettura del discorso tenuto da Vladimir Putin il 30 settembre nella sala San Giorgio del Cremlino in occasione della firma dei decreti di ammissione nella Federazione Russa delle quattro regioni ucraine, mi ha impressionato per un motivo molto preciso: se prosciugato degli slanci retorici, del riferimento al neoliberismo come “cultura” contrapposta ai “valori tradizionali” russi (cosa non sorprendente in chi sta conducendo una “grande guerra patriottica”), sembra una nota d’aggiornamento a piè di pagina del capolavoro di Giovanni Arrighi “Il Lungo XX Secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo”.

Una nota che ci riguarda da vicino perché con questo discorso la Russia si è staccata dall’Europa e con una notevole dose di astio, come quella di un’amante tradita. La nostra incapacità di porci come soggetto terzo tra gli Stati Uniti e le potenze emergenti ha reso questo strappo inevitabile a causa proprio delle dinamiche che erano state descritte da Arrighi a partire dalla prima metà degli anni Novanta. In quegli anni Vladimir Putin era presidente del comitato per le relazioni internazionali di Leningrado. Il suo compito era quello di promuovere i rapporti con l’estero e attirare gli investimenti stranieri. E fu ufficialmente criticato perché le sue decisioni favorivano troppo gli investitori occidentali. Ricordo che fino alla metà dello scorso decennio Putin sognava un mercato unico “da Lisbona a Vladivostok” (e con lui lo sognavano anche gli imprenditori tedeschi).

Bastano solo questi elementi biografici per capire che Vladimir Putin non è ideologicamente antioccidentale ma ha dovuto cambiare le proprie idee per far fronte alle circostanze che doveva gestire. Ne consegue che il 30 settembre scorso al Cremlino parlava come un attore sovrapersonale che rappresentava una dinamica storica. E quel che più impressiona è che sembrava che ne fosse consapevole. Cosa che affascina e inquieta. Perché sono sempre inquieto quando qualcuno, anche a ragione, pensa di interpretare la logica della Storia.

 

Excursus metodologico

Qui serve una precisazione. La Storia è frutto di una sequenza di scelte fatte in circostanze oggettive. Anzi, con un’analogia matematica, più che di una sequenza si tratta di un fascio di scelte.

«Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione». Così Karl Marx ne “Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte”.

In questa dialettica tra scelta e condizione oggettiva, si gioca la storia umana e l’etica dei suoi protagonisti.

La composizione delle varie scelte, così come la composizione delle forze in Fisica, spinge la Storia in direzioni che possono essere inintenzionali, cioè non volute, non previste e persino non gradite dagli attori storici che prendono le decisioni, che compiono le scelte.

r0mboyehdhIl classico esempio di composizione delle forze è il rombo: la forza F1 si compone con quella F2, che ha una direzione, un verso e una intensità differenti da F1, per fornire la risultante R, che ha direzione, verso e intensità diversi da entrambe. Se si concepisce la Storia come un procedere per successive composizioni di forze, si evita di cadere sia nel meccanicismo sia nel complottismo. Sia chiaro, che i complotti avvengono in continuazione, da quelli che servono a coprire realtà scomode (Ustica), a eventi semplici costruiti ad arte (l’incidente del Golfo del Tonchino, i falsi bombardamenti chimici di al Assad, eccetera) a macchinazioni più complesse, come l’omicidio Kennedy, Piazza Fontana. Abbiamo persino complotti nel complotto, come quello straordinario che prevedeva che Maria Stuarda si lasciasse implicare in un complotto contro Elisabetta I che doveva essere scoperto per obbligare la recalcitrante regina d’Inghilterra a decapitare la cugina Maria, così che finalmente il cattolicissimo ma anch’egli recalcitrante re di Spagna, Filippo II, si decidesse a muovere guerra contro la cugina protestante con la sua Invincibile Armata. Così avvenne, ma ci si mise di mezzo il caso, cioè una serie di tempeste che fecero letteralmente affondare i progetti spagnoli.

Il caso, e ce ne sono tanti esempi, è parte delle forze da comporre. Al contrario, i complotti sono semplici frazioni di una forza e non sono in grado di imporre una risultante voluta.

Occorre però sottolineare che quanto detto non impedisce di poter intravedere o ipotizzare linee di tendenza più verosimili di altre.

 

Una dichiarazione di guerra all’Europa

«Se la Russia invade l’Ucraina, in un modo o in un altro il Nord Stream 2 non andrà avanti»

Victoria Nuland, gennaio 2022 [10].

In molti hanno visto nell’attentato ai due Nord Stream un atto di guerra contro la Germania e l’Europa [11]. Non mette conto leggere i penosi tentativi di sedicenti esperti politici e geopolitici che cercano di dare la colpa alla Russia. Non ha nessun senso. Punto.

uytgvbhtrIo suggerisco di leggere l’attentato terroristico internazionale al Nord Stream come il più recente di una sequenza di atti che, cose si diceva nell’Introduzione, hanno come obiettivo la separazione dell’Europa occidentale dalla restante massa Eurasiatica (con prolungamenti nel Nord Africa e nel Corno d’Africa) e, specularmente, l’accerchiamento della Russia e della Cina (e in prospettiva aggiungerei anche l’India – il fronte del Kashmir è sempre disponibile, oltre ad attentati e scontri intercomunitari).

L’attentato al Nord Stream sembra inoltre una risposta anticipata a ogni futuro ripensamento tedesco: d’ora in poi scordatevi la vostra pacifica Drang nach Osten 2.0.

Separato dal resto del mondo, l’Occidente collettivo avrà come unica scelta l’auto-cannibalismo. La scelta unilaterale di Berlino di stanziare 200 miliardi di euro in deficit per calmierare i prezzi energetici ha creato malumori nella UE e ha iniziato a rievocare lo spettro di Weimar. E ciò a causa della logica dell’accumulazione, che procede per differenziali di sviluppo e non lascia scelta: là dove si possono creare, vengono creati, non si guarda in faccia a nessuno. Inoltre, l’accumulazione odierna, cioè l’accumulazione in tempi di crisi, si svolge in larga parte non per sviluppo ma per rapina – o in termini più soft, tramite l’acquisizione della ricchezza esistente, già prodotta, da parte dei più forti. Per diverso tempo questo tipo di accumulazione era principalmente orientato ai danni del Sud globale. Poi ha dovuto iniziare a prendere di mira anche i centri capitalistici storici, con privatizzazioni del dominio pubblico, mergers and acquisitions, ristrutturazioni, scorrerie sui debiti pubblici e sulle risorse naturali ove esistono. Da oggi dovrà rivolgersi prevalentemente all’interno dell’Occidente stesso a meno di non riuscire a imporre un selvaggio sfruttamento neocoloniale su una parte di quel Sud collettivo che però, ben consapevole, guarda con crescente speranza al blocco Russia-Cina. In modo molto esplicito Vladimir Putin nel suo discorso del 30 settembre ha sottolineato come la Russia moderna intende raccogliere dall’Unione Sovietica la bandiera della protezione del Sud globale: «Noi siamo orgogliosi che nel XX secolo sia stato il nostro Paese a guidare il movimento anticoloniale, che ha aperto a molti popoli del mondo la possibilità di svilupparsi, di ridurre la povertà e le disuguaglianze e di sconfiggere la fame e le malattie».

Non sono parole retoriche lasciate al caso né nostalgie sovietiche: sono prove di egemonia nella lotta verso un mondo multipolare. Una lotta che la Russia deve condurre adesso, perché anche per la Russia le finestre operative non rimangono aperte all’infinito: la sua attuale supremazia militare in termini convenzionali e strategici non durerà per sempre, i gap sono destinati a colmarsi.

Nel mondo fratturato che caratterizza questa lotta, gli Stati occidentali più forti prenderanno di mira quelli più deboli, secondo una gerarchia che vede in testa gli Stati Uniti mentre le neo-aristocrazie locali prenderanno di mira la loro declinante classe media, un neo Terzo Stato che si sta mischiando progressivamente in modo disorganico a un Quarto Stato formato sempre più da proletari che sono intimiditi o sono indotti, e a volte obbligati, a credere di essere classe media, lavoratori autonomi [12].

Una condizione che in termini di coscienza politica e sociale mi ricorda il periodo tra la Rivoluzione Francese e i moti del 1848.

Questa cascata di rapine che si compie lungo una gerarchia ramificata dove ogni nodo cerca in qualche modo di risalire di livello a scapito degli altri, non può alimentarsi a lungo se la ricchezza rapinata non viene rigenerata. Ma proprio la cascata di rapine indurrà disfunzionalità e corti circuiti che ostacoleranno la produzione di nuova ricchezza. Già sta avvenendo, perché la necessità di non far crollare di colpo il castello di carte finanziario induce uno spreco immane di risorse, a partire dai quantitative easing che arrivano all’economia reale solo col contagocce o dai profitti d’impresa reinvestiti al 90% in operazioni di borsa.

Gli Usa vogliono venderci a caro prezzo il loro shale gas, come alternativa obbligata a quel gas russo a buon mercato che ha avuto un ruolo chiave per gran parte dello sviluppo economico europeo del dopoguerra [13]. Ma l’Europa come lo pagherà se contemporaneamente gli Usa applicano politiche tariffarie, fiscali e monetarie, per favorire la propria re-industrializzazione a scapito di una de-industrializzazione dell’Europa? E’ facilmente prevedibile uno scenario di austerity, di indebitamento crescente, di “aggiustamenti strutturali”, di disoccupazione, di impoverimento generale delle società europee. Ma a macchia di leopardo, in ragione delle “preferenze politiche” (ed economiche) degli Stati Uniti che lavoreranno su un terreno già frammentato.

La crisi del “sistema Germania” metterà infatti in crisi l’Euro e la già traballante solidarietà europea [14]. Ha misurato attentamente le parole Bruno Le Maire, il ministro francese dell’Economia, della Finanza e della Sovranità Industriale e Digitale (così Macron ha ribattezzato quest’anno il dicastero mentre sparava a zero contro i “sovranismi”) quando ha affermato che bisogna evitare «che il conflitto in Ucraina sfoci nella dominazione economica americana e nell’indebolimento europeo» [15].

Ma a cosa serve capire? Secondo Putin a nulla, ormai: «Capiscono chiaramente che gli Stati Uniti, spingendo l’UE ad abbandonare totalmente l’energia e le altre risorse russe stanno praticamente deindustrializzando l’Europa e si stanno impadronendo completamente del mercato europeo – capiscono tutto, queste élite europee, capiscono tutto, ma preferiscono servire gli interessi degli altri. Non si tratta più di una banalità, ma di un diretto tradimento dei loro popoli. Ma che Dio li accompagni, sono affari loro».

In realtà, più che il tradimento di un popolo, quella delle nostre élite è una scelta di classe, la scelta di servire interessi che ormai non hanno più alcuna connessione col benessere sociale e nazionale.

Con l’approfondirsi della crisi, infatti, alcuni grandi gruppi si arricchiranno, mentre altri collasseranno assieme a una miriade di imprese e di reti d’imprese con limitata disponibilità di capitale mobile, o meno protette politicamente, o meno strategiche (ad esempio non legate all’apparato militare). I fenomeni di concentrazione e centralizzazione dei capitali subiranno un’accelerazione perché il tempo diventerà risorsa rara: per via degli intrecci tra capitali reali e capitali fittizi queste operazioni dovranno essere compiute prima che inizino i grandi disastri finanziari, prima che si scopra che 10 Terre non esistono.

Se in corso d’opera la strategia anglosassone virerà dal tentativo di distruggere la Russia al tentativo di guadagnar tempo per rimandare più in là le scelte, bisogna considerare che sarà difficile “comprare tempo” senza lasciarsi attrarre da ricche sirene come il futuro mercato internazionale dello Yuan e forse anche del Rublo e gli stratosferici investimenti richiesti dalle nuove “vie della seta” (la Belt and Road Initiative cinese) e dagli altri colossali progetti eurasiatici. C’è una quantità strabiliante di capitali in Occidente che non intendono star fermi ad aspettare che la prossima crisi li “macelli” (Marx). E questo indurrà altri moti sussultori che si sommeranno allo scontro tra placche tettoniche.

Un discorso a parte, che qui non può essere sviluppato, riguarda l’agricoltura e i regimi alimentari. Un settore imprescindibile e che per gli Stati Uniti è stato strategico fin dalla loro formazione. E legato ad esso bisognerà affrontare il tema ecologico tenendolo distinto dal suo utilizzo a fini speculativi, che è quello corrente.

 

Conclusioni

Le conclusioni sono sempre le stesse che Giovanni Arrighi esponeva circa 30 anni fa:

«Prima di soffocare (o respirare) nella prigione (o nel paradiso) di un impero mondiale postcapitalistico o di una società mondiale di mercato postcapitalistica, l’umanità potrebbe bruciare negli orrori (o nelle glorie) della crescente violenza che ha accompagnato la liquidazione dell’ordine mondiale della guerra fredda. Anche in questo caso la storia del capitalismo giungerebbe al termine, ma questa volta attraverso un ritorno stabile al caos sistemico dal quale ebbe origine seicento anni fa e che si è riprodotto su scala crescente a ogni transizione. Se questo significherà la conclusione della storia del capitalismo o la fine dell’intera storia dell’umanità, non è dato sapere».

Queste domande e queste incertezze sono ineludibili e segnalano l’inadeguatezza dei nostri strumenti di analisi di fronte a fenomeni caotici e sommamente complessi.

Qua e là nei discorsi di Putin sembra di cogliere alcuni apprezzamenti precisi dei fenomeni in gioco, come la finanziarizzazione, come quando ricorda che con le «capitalizzazioni gonfiate», con la «capitalizzazione virtuale» non si può «riscaldare nessuno». Ma questo testimonia solo di una asincronicità tra le fasi di sviluppo e di crisi occidentali e quelle eurasiatiche. La finanziarizzazione non è uno stadio del capitalismo, ma l’espressione delle sua crisi sistemiche, crisi che sono indotte dai meccanismi di accumulazione. Quindi si può ipotizzare in prima battuta che per ora non sono entrati in contrasto due sistemi di rapporti sociali distinti, ma due “orologi” che non possono sincronizzarsi. Che poi questo contrasto assuma contorni ideologici è naturale. E’ sempre stato così e lo è ancora di più in un’epoca dove la comunicazione e il dominio delle idee sono diventati un’arma diretta. Ma la domanda è: sappiamo quali interessi difende Biden, ma quali interessi difende Putin, quali Xi? Che sistemi hanno in mente? Quanto sono praticabili? Quanto sono compatibili con la stabilità di un mondo multipolare? Si andrà incontro a una situazione permanente di caos, a una società di mercato postcapitalistica, o a che altro?

Non ne abbiamo idea. Io non ne ho idea. Sono anni che non si fa più un’analisi di classe e da un punto di vista di classe, militante e di ampio respiro. Così quando questo inverno saremo immersi nella riedizione del XIII secolo con la nuova guerra dei cent’anni, la nuova peste e i nuovi tumulti dei ciompi quel che avremo a disposizione sarà un pensiero simbolico pericolosamente vicino a un pensiero magico e rimpiangeremo la riga e il compasso.


Note
[1] “Non fate gestire la crisi ai banchieri centrali”, così il Guardian lo scorso 16 ottobre 2022 (https://www.theguardian.com/commentisfree/2022/oct/16/the-guardian-view-on-central-bankers-dont-put-them-in-charge-of-the-crisis). Come dei cani di Pavlov, i banchieri centrali per contrastare l’inflazione colpiscono automaticamente sul lato della domanda, cioè i salari, suscitando l’allarme di Richard Kozul-Wright, il responsabile del rapporto ONU sul commercio e lo sviluppo: «Cercate di risolvere un problema dal lato dell’offerta con una soluzione dal lato della domanda? Pensiamo che sia un approccio molto pericoloso». Qui il rapporto ONU: https://unctad.org/system/files/official-document/tdr2022_en.pdf e qui il commento di Michael Roberts, economista marxista britannico, ex analista finanziario nella City di Londra: https://www.sinistrainrete.info/crisi-mondiale/24075-michael-roberts-la-terapia-d-urto-sull-economia-mondiale.html
[2] Barbara Spinelli, “Meloni deve scegliere: o Draghi o Merkel”. Il Fatto Quotidiano, 30 settembre 2022.
http://barbara-spinelli.it/2022/09/30/meloni-deve-scegliere-o-draghi-o-merkel/
[3] https://www.ramzybaroud.net/rationality-is-not-permitted-chomsky-on-russia-ukraine-and-the-price-of-media-censorship/
[4] Per fare un esempio importante, in Russia l’omosessualità non è né illegale né perseguitata. A inaugurare le Olimpiadi di Sochi fu un duo canoro, il t.A.T.u., che si presentava in scena in esibiti atteggiamenti lesbici (in realtà solo Julia Volkova era dichiaratamente bisessuale), Čajkovskij non è messo al bando perché omosessuale – lo è invece in diversi posti in Occidente perché russo – e potete trovare testimonianze di omosessuali russi che vivono all’estero e non amano Putin ma negano che in Russia ci sia una persecuzione omofoba. In Russia c’è invece una legge per “proteggere i minori dalle informazioni che promuovono la negazione dei valori tradizionali della famiglia”. Una dicitura su cui si può discutere (cosa significa “tradizionale”?) ma che intende evidentemente porre un argine, magari mal formulato, alle estremizzazioni a cui sta giungendo l’Occidente sulla base di una concezione illimitata (e ipocrita) della coppia individualismo-desiderio. Anche le società occidentali, in quanto comunità che hanno necessità di valori condivisi e di solidarietà, cercano di difendersi dalla teorizzazione e dalla pratica dell’illimitatezza, dell’apeiron, di individualismo e desiderio. In mancanza di forze comuniste che elaborino e indichino la strada dell’emancipazione, pressata dall’apeiron dei progressisti (anche economico: l’accumulazione infinita) e alla ricerca di un katéchon, un freno ad esso, questa necessità di difesa vede un rifugio immediato, benché profondamente errato, nella conservazione reazionaria, bigotta, intollerante, persino fascistoide, politicamente scorretta non per provocazione ma per convinzione. Succede in Occidente così come in Russia.
[5] Un’amica russa mi raccontava con nostalgia di quando viveva in Uzbekistan in epoca sovietica perché nel suo palazzo vivevano ortodossi, ebrei e musulmani e tutte le ricorrenze religiose erano occasioni condivise di festeggiamento.
[6] https://www.entilocali-online.it/prezzo-gas-lontano-accordo-ue-su-tetto-contatti-draghi-meloni/
[7] E non solo. La Gran Bretagna era abile nello sfruttare le contraddizioni sociali e politiche delle nazioni che conquistava, la loro cultura, le loro tradizioni, persino le loro superstizioni, e sapeva corrompere. E non si faceva scrupoli di nessun tipo. Oggi negli UK queste abilità, a parte la mancanza di scrupoli, a quanto pare sono un ricordo. Ma è vero o è apparenza? Certo, a parità di mancanza di scrupoli c’è un abisso tra un Winston Churchill e una Liz Truss: il declino occidentale si riflette anche nel disperante declino della caratura del suo personale politico. Ma al di là di questo penoso spettacolo, cosa bolle in pentola? Gli UK sono usciti dalla UE per avere le mani libere in vista della svolta che da lì a poco sarebbe stata impressa alla crisi sistemica. Questo è un punto che mi sembra assodato. Eppure sono sempre descritti come i “junior partner” degli Stati Uniti. Ma fino a che punto è vero? Gli Inglesi, gli eredi del più grande impero della storia, possono accontentarsi di essere solo dei “junior partner”? Notate che essere eredi d’imperi conta, e conta molto. Conta per il piccolo Belgio e conta per la piccola Olanda. E’ persino contato per l’Italia essere erede dell’Impero Romano: fino al 1600, quando fu superata dalla Province Unite, ha goduto del più alto PIL pro capite mondiale. E’ ovvio che quindi conti anche per la Gran Bretagna. Provate a pensare alla City di Londra. A Parità di Potere d’Acquisto gli UK vantano solo il 2,34% del PIL mondiale. Eppure nonostante gli USA abbiano una quota parte quasi 7 volte più grande, Londra supera New York per servizi finanziari, surplus degli scambi e per il mercato dei bond internazionali (si veda https://www.theglobalcity.uk/competitiveness).
Questa capacità di “resilienza” è dovuta all’accumulo nei secoli, grazie all’impero, di densi grumi di potere, di capacità di influenza, di vaste e importanti relazioni, di presenza internazionale, di abilità organizzative del business e di acquisizione e gestione delle informazioni. E’ la prova che queste capacità non sono determinate solo dalla potenza militare o da quella economica (nemmeno quella reale, altrimenti questi primati spetterebbero alla Cina). Persiste, ovviamente, anche la mancanza di scrupoli, esemplificata oggi nel modo più squallido da Liz Truss. Mentre qualsiasi politico, anche il più spudorato, parla del ricorso all’arma nucleare come di una risorsa della disperazione, Liz Truss è l’unica che ha dichiarato che si sentirebbe onorata a schiacciare il bottone dell’attacco nucleare contro la Russia. Ha anche dichiarato di essere una “enorme sionista” (a huge Zionist). Ma quando le dichiarazioni sono esagerate delle due l’una: o il soggetto è psicopatico, o nasconde qualcosa, tipicamente il contrario dell’esagerazione affermata. Tenuto conto che tradizionalmente Londra e Mosca hanno canali di comunicazione preferenziali, fino a che punto gli UK sono disposti a seguire gli USA nella loro avventura ucraina e nella loro crociata antirussa? Si tenga conto che la Gran Bretagna è sì al di là della Manica, ma è ben al di qua dell’Atlantico. Così come negli Usa dell’Ottocento c’era un partito anglofilo, i Democratici, e uno anglofobo, i Repubblicani, specularmente negli attuali UK sembra che ci sia un partito, trasversale, filo-americano e un partito, trasversale, sovranista-aristocratico (si veda https://www.cumpanis.net/la-gran-bretagna-non-puo-piu-sbagliare-la-sua-strategia-globale/). Ricordo che la regina Elisabetta fece trapelare il suo endorsement alla Brexit. E se la Brexit può voler dire abbandono dell’Europa a favore del ruolo di partner privilegiato degli Usa, fondamentalmente vuol dire tenersi le mani libere. La Gran Bretagna sembra in bilico tra il ruolo di junior partner e quello di matriarca delle giovani nazioni anglosassoni, delle Five Eyes.
In attesa quindi di vedere se Liz Truss è una volpe (per lo meno per conto terzi) o è veramente psicopatica, saremo costretti a subire i suoi spettacoli di cinismo, di arroganza e di mancanza totale di etica che uguagliano quelli di Hillary Clinton, che sembravano inarrivabili.
[8] Raffaele Sciortino, “Prove di internazionalizzazione del renminbi yuan e de-dollarizzazione”. ACro-Pólis, 19-09-2022 (https://www.acro-polis.it/2022/09/19/prove-di-internazionalizzazione-del-renminbi-yuan-e-de-dollarizzazione/).
[9] Le provocazioni statunitensi alla Cina segnalano che Washington, Wall Street, Londra e la City sono ormai sicure che Pechino si opporrà all’integrazione della finanza cinese nei giochi finanziari occidentali – e la vicenda di Ali Baba lo dimostra. Quindi Washington e Londra devono ricorrere a tentativi di destabilizzazione.
[10] https://youtu.be/igAfB8LdZaE
[11] Uno per tutti, si veda un importante articolo del grande giornalista brasiliano Pepe Escobar, uno dei pochi che all’epoca di Osama bin Laden condusse inchieste in Afghanistan (e fu imprigionato dai Talebani). Dato che è stato bannato da Twitter e da Facebook, lo potete trovare qui:
https://canadiandimension.com/articles/view/germany-and-the-eu-have-been-handed-over-a-declaration-of-war
[12] «In questo universo di soggetti lavorativi, che da un ventennio almeno rappresentano in Italia circa l’80% dei nuovi posti di lavoro, si distinguono nettamente due categorie: quelli che ancora conservano una coscienza della subordinazione o della dipendenza economica e ritengono che i rapporti di forza sul mercato sono tali per cui il conflitto presenta alti o troppi rischi e quelli che hanno perduto completamente questa coscienza e ritengono che la legittimazione sociale, il riconoscimento sociale siano la massima ricompensa cui hanno diritto di aspirare nel rapporto di lavoro, il quale, come tale, non può essere messo in discussione. Ritengono che negoziare le condizioni di lavoro sia un sovvertimento dell’ordine sociale. […]
Stretto nella morsa della sua solitudine, incapace di protestare o di riuscire a negoziare il rapporto di lavoro e la condizione lavorativa, volendo comunque migliorare la propria situazione, cerca una diversa situazione di lavoro, abbandona il possibile campo di scontro e crea in questo modo, da un lato, una precarietà cercata, voluta, dall’altro, un ulteriore indebolimento del fronte che avrebbe potuto configurarsi in maniera antagonista.
Mi sono fatto la convinzione che il problema del conflitto impossibile o negato ruota attorno alla tragica condizione dell’individualismo e che il problema del neofascismo, del sovranismo, del nazionalismo, del populismo – in una parola dell’antiglobalizzazione – sia essenzialmente una riproposizione dell’identità collettiva, del senso stesso di collettività, ottenuto attraverso la costruzione di un nemico immaginario (ieri gli ebrei, oggi i migranti). Questo è risaputo, è la spiegazione mainstream del neofascismo. Quello su cui non si riflette abbastanza è che alla radice sta sempre il problema del lavoro (o del welfare) e che il senso di frustrazione che è la molla dei comportamenti razzisti deriva proprio dai problemi occupazionali e in ultima analisi dall’impossibilità/incapacità di negoziare le proprie condizioni di lavoro o di migliorare la propria condizione esistenziale.
La differenza sostanziale tra il nostro modo di superare l’individualismo e quello dei populisti sta nel fatto che noi vorremmo costruire la solidarietà attraverso un conflitto reale che comporta notevoli rischi mentre loro costruiscono identità attraverso un conflitto immaginario che non comporta nessun rischio. Per questo il loro ostentare ardimento e aggressività nasconde una profonda, innata, vigliaccheria» (Sergio Bologna, “Fine del lavoro come la fine della storia? 2/2”, AcrO-Polis, 23-06-2022
https://www.acro-polis.it/2022/06/23/fine-del-lavoro-come-la-fine-della-storia-2-2/)
L’intersecarsi disorganico di istanze di una classe media in via di proletarizzazione con quelle di un proletariato costretto a pensarsi classe media è stato messo in luce sia dalla vicenda Covid sia dalle elezioni in Europa e negli Stati Uniti.
[13] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/italia-russia-una-storia-tutto-gas-21400
[14] Si vedano “La Germania balla da sola” di Stefano Porcari e “On the Euro without Germany” di Michael Hudson (https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/23957-stefano-porcari-la-germania-balla-da-sola.html e https://www.nakedcapitalism.com/2022/09/michael-hudson-on-the-euro-without-germany.html).
[15] https://www.ilsole24ore.com/art/gas-francia-inaccettabile-che-usa-facciano-utili-forniture-all-europa-AEkvx27B?refresh_ce=1

https://sinistrainrete.info/crisi-mondiale/24083-piero-pagliani-la-caduta-lineamenti-e-prospettive-del-prossimo-futuro.html?fbclid=IwAR1YX4WMYrPRwbrjZpnMdGcpEZ6tEOvhrWEoeThZr-Ct6Q1wK68PL7vHKKE

Il sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure 

PayPal.Me/italiaeilmondo

IL BICCHIERE MEZZO PIENO, Teodoro Klitsche de la Grange

IL BICCHIERE MEZZO PIENO

Tra le innovazioni del decreto 150/2022, c’è l’estensione dei reati procedibili solo a querela dell’offeso, onde creare un barrage ai processi penali e così ridurne il numero. Il tutto, si sostiene, in linea con gli obiettivi di efficienza del processo e del sistema penale. Ancorché il tutto possa prestarsi ad un’inferiore deterrenza della prescrizione sanzionatoria (e così al di essa effetto dissuasorio) la rimessione alla parte lesa della facoltà di “far partire” il procedimento, ne facilita – a vantaggio della medesima – le condotte risarcitorie e riparatorie del reato, con soddisfazione – almeno parziale – dell’interesse della vittima.

Nello stato in cui versa la giustizia italiana, non possono che essere benvenute disposizioni che consentono una migliore soddisfazione dell’interesse privato, peraltro “alleggerendone” gli oneri per lo Stato. Tuttavia sono i presupposti di soluzioni come questa a dover essere criticati; vediamo perché.

Scriveva Hegel che lo “Stato è la realtà della libertà concreta”, in quanto, brevemente, coniuga gli interessi particolari con l’interesse della generalità così che né l’universale si compie senza l’interesse particolare, né che gli individui vivano solo per questo, senza che vogliano, in pari tempo, l’universale.

Più “tecnicamente”, da giurista, Jhering collegava l’interesse particolare al generale, attraverso i meccanismi giuridici, in particolare la sanzione, che, come Carnelutti avrebbe sottolineato, è un avvaloramento del precetto normativo con la quale si penalizza la condotta conforme o contraria a quella, sacrificando o soddisfacendo l’interesse particolare.

Anche per questo Jhering scrisse quel best seller giuridico che è La lotta per il diritto (Kampf ums Recht) ancora oggi, a circa un secolo e mezzo dalla pubblicazione, continuamente riedito. Nell’edizione Laterza degli anni ’30, con un’avvertenza preliminare di Croce che, sorprendentemente, ne sottolineava l’alto valore etico, scrivendo: “Può far maraviglia che questo elevamento della lotta pel diritto sopra le considerazioni utilitarie sia sostenuto da un pensatore che nella sua speciale trattazione filosofica dell’argomento, Der Zweck im Recht (1877-83), riportò il principio del diritto all’egoismo… Ma tant’è: nel Jhering il sentimento morale era più forte dei suoi presupposti e della sua logica filosofica” e proseguiva che a questa concezione “valse il forte rilievo dato agli individui e ai loro bisogni e ai fini che si propongono nel formare il diritto; se anche gli piacque interpretarli e chiamarli, poco felicemente, egoistici”.

La ragione per cui lottare (Kampf) per il proprio diritto soggettivo, al tempo stesso si risolve nel realizzare  quello oggettivo è che il diritto che non è applicato, per cui non si lotta, è un diritto… teorico. Cioè che nega la propria essenza di attività (ragione) pratica. Come le idee di Platone, confinato in un iperuranio normativo, senza un demiurgo che lo porti in terra.

Se la funzione del demiurgo è rivestita soltanto dalla vittima zelante probabilmente l’effettività dell’attuazione (cioè la soddisfazione dell’interesse pubblico all’ordine sociale) e così l’oggettivazione lascerà a desiderare.

Ciò premesso quel che più sorprende di questa soluzione è che se ne vuole misurare (almeno nella rappresentazione che ne danno molti mass-media) l’efficacia non dal calo dei reati commessi ma da quello dei processi che ne conseguono.

Di per se che non si celebri il processo dopo il reato perché manca la querela, non significa che il reato non sia avvenuto (né che il reo non lo reiteri), ma solo, per l’appunto, che manca la querela. Anzi, sbrigarsela con un risarcimento e non con la detenzione non fa calare le trasgressioni, ma aumentare le possibilità di “farla franca”. In particolare per i rei dotati di disponibilità finanziarie.

C’è da aggiungere che tale modo di ragionare, in particolare se presentato come “momento” decisivo delle riforme, è figlio di una visione burocratica del mondo; è l’universo visto dall’angolo visuale della scrivania, ma tale punto di osservazione non permette una percezione “a giro d’orizzonte” e prenderla per quella principale è frutto di una deformazione professionale, spesso ripetuta. Se invece di centomila processi da iniziare se ne hanno settantamila, onde la durata degli stessi dimezza, non vuol dire (neppure) che l’efficacia dell’amministrazione della giustizia penale è migliorata, ma solo che ha minore lavoro da sbrigare. Tuttavia la funzione della giustizia penale in ispecie, di assicurare l’ordine sociale non ci guadagna un gran che. Ciò non significa che la riforma sia disprezzabile, ma che non è il caso di intonare peana né confidare in grandi risultati da un bicchiere mezzo pieno.

Teodoro Klitsche de la Grange

Il sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559

oppure 

PayPal.Me/italiaeilmondo

 

Emmanuel Todd: ‘La Terza Guerra Mondiale è iniziata’

Se guardiamo i voti dall’ONU, vediamo che il 75% del mondo non segue l’Occidente, che così appare piccolissimo. Vediamo che questo conflitto, descritto dai media come conflitto di valori politici, è un più profondo conflitto di valori antropologici.

Intervista a cura di Alexandre Devecchio a Emmanuel Todd su “Le Figaro”.

Grande intervista – Emmanuel Todd è antropologo, storico, saggista, prospettivista, autore di numerose opere. Molte di esse, come “La caduta finale”, “Illusione economica” o “Dopo l’impero”, sono diventati classici delle scienze sociali. Il suo ultimo lavoro, “La terza guerra mondiale”, è apparso nel 2022 in Giappone e ha venduto 100.000 copie.

Pensatore scandaloso per alcuni, intellettuale visionario per altri, “Rebelle Destroy” con le sue stesse parole, Emmanuel Todd non lascia indifferente. L’autore de “La caduta finale”, che ha previsto nel 1976 il crollo dell’Unione Sovietica, era rimasto discreto in Francia sulla questione della guerra in Ucraina. L’antropologo ha finora riservato la maggior parte dei suoi interventi al pubblico giapponese, perfino pubblicando nell’arcipelago un titolo provocatorio: “La terza guerra mondiale è già iniziata”. Per “Le Figaro”, descrive in dettaglio la sua tesi iconoclasta. […]

Oltre allo scontro militare tra Russia e Ucraina, l’antropologo insiste sulla dimensione ideologica e culturale di questa guerra e sull’opposizione tra l’Occidente liberale e il resto del mondo che ha acquisito una visione conservatrice e autoritaria. I più isolati non sono, secondo lui, quelli che sono ritenuti tali.

Le Figaro. – Perché pubblicare un libro sulla guerra in Ucraina in Giappone e non in Francia?

Emmanuel Todd. – I giapponesi sono altrettanto anti-russi quanto gli europei. Ma sono geograficamente lontani dal conflitto, quindi non c’è un vero senso di urgenza, non hanno la nostra relazione emotiva con l’Ucraina. E lì, non ho affatto lo stesso status. Qui, ho l’assurda reputazione di essere un ribelle iconoclasta, mentre in Giappone sono un antropologo, uno storico e geopolitico rispettato, che si esprime in tutti i grandi giornali e riviste e di cui tutti i libri sono pubblicati. Laggiù posso esprimermi in un’atmosfera serena, cosa che ho fatto dapprima su delle riviste, e poi pubblicando questo libro, che è una raccolta di interviste. Quest’opera si chiama “La terza guerra mondiale è già iniziata, con 100.000 copie vendute ad oggi.

È ovvio che il conflitto, nel passare da una limitata guerra territoriale a uno scontro economico globale, tra tutto l’Occidente da una parte e la Russia sostenuta dalla Cina dall’altra parte, è divenuto una guerra mondiale.

Perché questo titolo?

Perché è la realtà, la Terza Guerra mondiale è iniziata. È vero che ha iniziato “in piccolo” e con due sorprese. Si è partiti in questa guerra con l’idea che l’esercito della Russia fosse molto potente e che la sua economia fosse molto debole. Si credeva che l’Ucraina sarebbe stata schiacciata militarmente e che la Russia sarebbe stata schiacciata economicamente dall’Occidente. Tuttavia, è accaduto il contrario. L’Ucraina non è stata schiacciata militarmente anche se ha perso il 16% del suo territorio ad oggi; La Russia non è stata schiacciata economicamente. Mentre le parlo, il rublo ha preso l’8% rispetto al dollaro e il 18% rispetto all’euro dalla vigilia dell’ingresso in guerra.

Quindi c’è stata una sorta di malinteso. Ma è ovvio che il conflitto, nel passare da una guerra territoriale limitata a uno scontro economico globale, tra l’intero Occidente da un lato e la Russia sostenuta dalla Cina dall’altro, è diventato una guerra globale. Anche se le violenze militari sono più deboli rispetto a quelle delle precedenti guerre mondiali.

Non starà mica esagerando? L’Occidente non è direttamente impegnato militarmente …

Forniamo comunque armi. Uccidiamo i russi, anche se non ci esponiamo in prima persona. Ma resta il fatto che noi, europei, siamo principalmente impegnati economicamente. Sentiamo d’altronde sopraggiungere il nostro vero ingresso in guerra attraverso l’inflazione e le penurie.

Putin ha commesso un grosso errore all’inizio, che presenta un immenso interesse socio-storico. Coloro che lavoravano sull’Ucraina alla vigilia della guerra consideravano questo paese non tanto come una democrazia emergente, quanto come una società in decomposizione e uno “stato fallito” in divenire. Ci si chiedeva se l’Ucraina avesse perso 10 o 15 milioni di abitanti dalla sua indipendenza. Non possiamo decidere in proposito perché l’Ucraina non fa più censimenti dal 2001, classico segno di una società che ha paura della realtà. Penso che il calcolo del Cremlino fosse che questa società in decomposizione sarebbe crollata nel primo shock, o avrebbe addirittura detto “Benvenuta mamma” alla Santa Russia. Ma ciò che è stato scoperto, al contrario, è che una società in decomposizione, se è alimentata da risorse finanziarie e militari esterne, può trovare in guerra un nuovo tipo di equilibrio e persino un orizzonte, una speranza. I russi non potevano prevederlo. Nessuno poteva.

Ma non è che i russi hanno sottovalutato, nonostante lo stato di autentica decomposizione della società, la forza del sentimento nazionale ucraino, e persino la forza del sentimento europeo di sostegno verso l’Ucraina? E lei stesso non la sottovaluta?

Non lo so. Ci lavoro, ma lo faccio in veste di ricercatore, vale a dire ammettendo che ci sono cose che non si sanno. E per me, stranamente, uno dei campi su cui ho troppo poche informazioni per esprimermi è l’Ucraina. Potrei dirle, sulla fede degli antichi dati, che il sistema familiare della piccola Russia era nucleare, più individualistico del sistema Grande Russo, che era più comunitario, collettivista. Questo, posso dirglielo, ma che cosa sia diventata l’Ucraina, con enormi movimenti della popolazione, un’auto-selezione di alcuni tipi sociali attraverso il rimanere in loco o l’emigrare prima e durante la guerra, non posso dirglielo, non lo sappiamo per il momento.

Uno dei paradossi che devo affrontare è che la Russia non mi pone problemi di comprensione. È qui che sono più fuori passo rispetto al mio ambiente occidentale. Capisco l’emozione di tutti, è mi risulta doloroso parlare come uno storico freddo. Ma quando pensiamo a Giulio Cesare che cattura Vercingetorige ad Alesia, portandolo poi a Roma per celebrare il suo trionfo, non ci si chiede se i romani fossero cattivi o carenti di valori. Oggi, in emozione, in sintonia con il mio paese, posso vedere l’ingresso dell’esercito russo nel territorio ucraino, bombardamenti e morti, distruzione di infrastrutture energetiche, ucraini che crepano di freddo per tutto l’inverno. Ma per me, il comportamento di Putin e dei russi è leggibile altrimenti e vi dirò in che modo.

Tanto per cominciare, ammetto di essere stato preso alla sprovvista all’inizio della guerra, non ci credevo. Oggi condivido l’analisi del geopolitico “realista” americano John Mearsheimer. Quest’ultimo ha fatto la seguente osservazione: ci dicevano che l’Ucraina, il cui esercito era stato preso in mano dai soldati della NATO (americani, britannici e polacchi) almeno dal 2014, era quindi membro di fatto della NATO e che i russi avevano annunciato che non avrebbero mai tollerato un’Ucraina membro della NATO. Questi russi fanno quindi, (come Putin ci ha spiegato il giorno prima dell’attacco) una guerra che dal loro punto di vista è difensiva e preventiva. Mearsheimer ha aggiunto che non avremmo motivo di rallegrarci di qualsiasi difficoltà dei russi perché, poiché per loro si tratta una questione esistenziale, quanto più questa dovesse risultare dura, tanto più loro colpirebbero con forza. L’analisi sembra essersi verificata. Aggiungerei un complemento e una critica all’analisi di Mearsheimer.

Questa guerra è quindi diventata esistenziale per gli Stati Uniti. Non più della Russia, non possono ritirarsi dal conflitto, non possono mollare. Questo è il motivo per cui stiamo ormai dentro una guerra infinita, dentro uno scontro il cui risultato deve essere il crollo dell’uno o dell’altro.

I quali?

Per il complemento: quando si dice che l’Ucraina era di fatto membro della NATO, non si va abbastanza lontano. La Germania e la Francia erano diventate da parte loro partner minori della NATO e non erano a conoscenza di ciò che si tramava in Ucraina a livello militare. Abbiamo criticato l’ingenuità francese e tedesca perché i nostri governi non credevano nella possibilità di un’invasione russa. Certo, ma perché non sapevano che americani, britannici e polacchi potevano consentire all’Ucraina di poter condurre una guerra allargata. L’asse fondamentale della NATO ora è Washington-Londra-Varsavia-Kiev.

Ora la critica: Mearsheimer, da buon americano, sopravvaluta il suo paese. Ritiene che, se per i russi la guerra ucraina è esistenziale, per gli americani è fondamentalmente solo un “gioco” di potere tra gli altri. Dopo il Vietnam, l’Iraq e l’Afghanistan, una disfatta in più o in meno…. Cosa importa? L’assioma di base della geopolitica americana è: “Possiamo fare quello che vogliamo perché siamo al sicuro, lontani, tra due oceani, non ci succederà mai nulla”. Niente sarebbe esistenziale per l’America. Analisi insufficiente che ora porta Biden a una fuga in avanti. L’America è fragile. La resistenza dell’economia russa spinge il sistema imperiale americano verso il precipizio. Nessuno aveva previsto che l’economia russa avrebbe tenuto testa al “potere economico” della NATO. Credo che i russi stessi non lo avessero anticipato.

Se l’economia russa resistesse alle sanzioni indefinitamente e riuscisse a esaurire l’economia europea, laddove essa rimanesse in campo, sostenuta dalla Cina, il controllo monetario e finanziario americano del mondo crollerebbe e con esso la possibilità per gli Stati Uniti di finanziare il proprio enorme deficit commerciale dal nulla. Questa guerra è quindi diventata esistenziale per gli Stati Uniti. Così come la Russia, non possono ritirarsi dal conflitto, non possono mollare. Questo è il motivo per cui ora siamo in una guerra infinita, in uno scontro il cui risultato deve essere il crollo dell’uno o dell’altro. Cinesi, indiani e sauditi, tra gli altri, esultano.

Ma l’esercito russo sembra ancora in una brutta posizione. Alcuni arrivano perfino a prevedere il crollo del regime, lei non ci crede?

No, all’inizio sembra esserci stata, in Russia, un’esitazione, ovvero la sensazione di essere stati abusati, di non essere stati avvertiti. Ma lì, i russi sono installati nella guerra e Putin beneficia di qualcosa di cui non abbiamo idea, ossia che gli anni 2000, gli Anni Putin, sono stati per i russi gli anni del ritorno all’equilibrio, del ritorno a una vita normale. Penso che Macron rappresenterà per contro agli occhi dei francesi la scoperta di un mondo imprevedibile e pericoloso, il ricongiungimento con la paura. Gli anni ’90 furono un periodo incredibile di sofferenza per la Russia. Gli anni 2000 sono stati un ritorno alla normalità, e non solo in termini di livelli di vita: abbiamo visto crollare i tassi di suicidio e di omicidio e, soprattutto, aqbbiamo visto il mio indicatore preferito, il tasso di mortalità infantile, che precipitava e persino andava al di sotto del tasso americano.

Nello spirito dei russi, Putin incarna (nel senso forte, cristico), questa stabilità. E, fondamentalmente, i russi ordinari ritengono, come il loro presidente, di fare una guerra difensiva. Sono consapevoli di aver commesso errori all’inizio, ma la loro buona preparazione economica ha aumentato la loro fiducia, non in confronto all’Ucraina (la resistenza degli ucraini è per loro interpretabile, sono coraggiosi come dei russi, mai degli occidentali combatterebbero così bene!), bensì di fronte a quel che chiamano “L’Occidente Collettivo”, oppure “gli Stati Uniti e i loro vassalli”. La vera priorità del regime russo non è tanto la vittoria militare sul terreno, quanto non perdere la stabilità sociale acquisita negli ultimi 20 anni.

Pertanto, fanno questa guerra “in economia”, in particolare un’economia d’uomini. Perché la Russia mantiene il suo problema demografico, con una fertilità di 1,5 bambini per donna. Tra cinque anni avranno classi di età vuote. Secondo me, devono vincere la guerra in 5 anni o perderla. Una durata normale per una guerra mondiale. Pertanto fanno questa guerra in economia, ricostruendo un’economia di guerra parziale, ma volendo preservare gli uomini. Questo è il significato del ritiro di Kherson, dopo quelli nelle regioni di Kharkiv e Kiev. Noi contiamo i chilometri quadrati ripresi dagli ucraini, ma i russi da parte loro attendono la caduta delle economie europee. Noi siamo il loro fronte principale. Posso ovviamente sbagliarmi, ma vivo con l’idea che il comportamento dei russi sia leggibile, perché razionale e duro. Le incognite sono altrove.

Lei spiega che i russi percepiscono questo conflitto come “una guerra difensiva”, ma nessuno ha cercato di invadere la Russia e oggi, a causa della guerra, la NATO non ha mai avuto così tanta influenza ad Est con i paesi baltici che vi si vogliono integrare.

Per risponderle, le propongo un esercizio psico-geografico, che può essere fatto zoomando all’indietro. Se guardiamo la mappa dell’Ucraina, vediamo l’ingresso alle truppe russe da nord, est, sud … e lì, in effetti, abbiamo la visione di un’invasione russa, non c’è altra parola. Ma se facciamo un enorme zoom all’indietro, verso una percezione del mondo, poniamo fino Washington, vediamo che i cannoni e i missili della NATO convergono lontano verso il campo di battaglia, movimenti di armi che erano iniziati prima della guerra. Bakhmout si trova a 8.400 chilometri da Washington ma a 130 chilometri dal confine russo. Una semplice lettura della mappa del mondo consente di pensare, di considerare l’ipotesi che “sì, dal punto di vista russo, quella deve essere una guerra difensiva”.

Quando guardiamo i voti delle Nazioni Unite, vediamo che il 75% del mondo non segue l’Occidente, che a quel punto appare piccolissimo. Vediamo quindi che questo conflitto, descritto dai nostri media come un conflitto di valori politici, è a un livello più profondo un conflitto di valori antropologici.

Secondo lei, l’ingresso nella guerra dei russi è anche spiegato dal relativo declino degli Stati Uniti …

In ‘Dopo l’Impero’, pubblicato nel 2002, ho evocato il declino a lungo termine negli Stati Uniti e il ritorno del potere russo. Dal 2002, l’America ha una catena di sconfitte e ripiegamenti. Gli Stati Uniti hanno invaso l’Iraq, ma hanno lasciato l’Iran quale massimo attore del Medio Oriente. Sono fuggiti dall’Afghanistan. La satellizzazione dell’Ucraina da parte dell’Europa e degli Stati Uniti non ha rappresentato un ulteriore dinamismo occidentale, bensì l’esaurimento di un’onda lanciata intorno al 1990, rilanciata dal risentimento anti-russo dei polacchi e dei baltici. Tuttavia, è stato in questo contesto di riflusso americano che i russi hanno preso la decisione di mettere al passo l’Ucraina, perché avevano la sensazione di avere finalmente i mezzi tecnici per farlo.

Esco dalla lettura di un’opera di S. Jaishankar, ministro degli Affari Esteri dell’India (The India Way), pubblicata poco prima della guerra, che vede la debolezza americana, che sa che lo scontro tra Cina e Stati Uniti non avrà un vincitore ma darà spazio a un paese come l’India e molti altri. Aggiungo: ma non agli europei. Ovunque vediamo l’indebolimento degli Stati Uniti, ma non in Europa e in Giappone perché uno degli effetti del ritrarsi del sistema imperiale è che gli Stati Uniti rafforzano la loro presa sui suoi protettorati iniziali.

Se leggiamo Brzeziński (La grande scacchiera), vediamo che l’Impero americano è stato formato alla fine della seconda guerra mondiale dalla conquista della Germania e del Giappone, che sono ancora oggi protettorati. Mentre il sistema americano si ritrae, pesa sempre più pesantemente sulle élite locali dei protettorati (e includo qui tutta l’Europa). I primi a perdere tutta l’autonomia nazionale, saranno (o sono già) gli inglesi e gli australiani. Internet ha prodotto nell’Anglosfera un’interazione umana con gli Stati Uniti di tale intensità che le loro università, media e élite artistiche sono, per così dire, annesse. Sul continente europeo siamo un po’ protetti dalle nostre lingue nazionali, ma la caduta nella nostra autonomia è considerevole e rapida. Ricordiamoci della guerra in Iraq, quando Chirac, Schröder e Putin hanno fatto conferenze stampa comuni contro la guerra.

Molti osservatori sottolineano che la Russia ha il PIL della Spagna; non è che sopravvaluta la sua potenza economica e la sua capacità di resistenza?

La guerra diventa un test dell’economia politica, è il grande rivelatore. Il PIL della Russia e della Bielorussia rappresenta il 3,3% del PIL occidentale (Stati Uniti, Anglosfera, Europa, Giappone, Corea del Sud), praticamente nulla. Ci si chiede come questo PIL insignificante possa affrontare e continuare a produrre missili. Il motivo è che il PIL è una misura fittizia della produzione. Se ti ritiriamo dal PIL americano metà delle sue spese sanitarie sovrafatturate, poi la “ricchezza prodotta” dall’attività dei suoi avvocati, dalle carceri più affollate del mondo, poi da un’intera economia di servizi scarsamente definiti tra cui la “produzione” dei suoi 15-20.000 economisti con uno stipendio medio annuo di 120 mila dollari, ci rendiamo conto che una parte importante di questo PIL è solo vapore acqueo. La guerra ci riporta all’economia reale, rende possibile capire quale sia la vera ricchezza delle nazioni, la capacità produttiva e quindi la capacità di guerra. Se torniamo alle variabili materiali, vediamo l’economia russa. Nel 2014, abbiamo messo in atto le prime importanti sanzioni contro la Russia, ma essa ha da allora aumentato la sua produzione di grano, che va da 40 a 90 milioni di tonnellate nel 2020. Mentre, grazie al neoliberismo, la produzione americana di grano, tra il 1980 e 2020, è passata da 80 a 40 milioni di tonnellate. La Russia è anche diventata il primo esportatore di centrali nucleari. Nel 2007, gli americani hanno spiegato che il loro avversario strategico era in un tale stato di decadimento nucleare che presto gli Stati Uniti avrebbero avuto una capacità di primo colpo atomico su una Russia che non avrebbe potuto rispondere. Oggi i russi sono in superiorità nucleare con i loro missili ipersonici.

La Russia ha quindi un’autentica capacità di adattamento. Quando vuoi prendere in giro le economie centralizzate, sottolinei la loro rigidità, mentre quando fai l’apologia del capitalismo, ne vanti la flessibilità. Giusto. Affinché un’economia sia flessibile, prendi ovviamente il mercato dei meccanismi finanziari e monetari. Ma prima di tutto, hai bisogno di una popolazione attiva che sappia fare delle cose. Gli Stati Uniti hanno ora più del doppio della popolazione della Russia (2,2 volte nelle fasce di età degli studenti). Resta il fatto che con proporzioni da parte di coorti comparabili di giovani che fanno istruzione superiore, negli Stati Uniti, il 7% sta studiando ingegneria, mentre in Russia è il 25%. Ciò significa che con 2,2 volte meno persone che studiano, i russi formano il 30% di più ingegneri. Gli Stati Uniti colmano il buco con studenti stranieri, ma che sono principalmente indiani e ancora più cinesi. Questa risorsa di sostituzione non è sicura e già diminuisce. È il dilemma fondamentale dell’economia americana: può affrontare la concorrenza cinese solo importando forza lavoro qualificata cinese. Propongo qui il concetto di bilanciamento economico. L’economia russa, da parte sua, ha accettato le regole operative del mercato (è persino un’ossessione per Putin quella di preservarle), ma con un ruolo grandissimo dello stato. E si tiene anche la sua flessibilità della formazione di ingegneri che consentono gli adattamenti, sia industriali che militari.

Molti osservatori credono, al contrario, che Vladimir Putin abbia sfruttato la rendita delle materie prime senza aver saputo sviluppare la sua economia …

Se fosse così, questa guerra non avrebbe avuto luogo. Una delle cose sorprendenti in questo conflitto, e questo lo rende così incerto, è che pone (come qualsiasi guerra moderna) la questione dell’equilibrio tra tecnologie avanzate e produzione di massa. Non vi è dubbio che gli Stati Uniti abbiano alcune delle tecnologie militari più avanzate, che a volte sono state decisive per i successi militari ucraini. Ma quando si entra nella durata, in una guerra di logoramento, non solo dalla parte delle risorse umane, ma anche di quelle materiali, la capacità di continuare dipende dal settore della produzione di armi più basso. E troviamo, vedendolo ritornare dalla finestra, la questione della globalizzazione e il problema fondamentale degli occidentali: abbiamo trasferito una proporzione tale delle nostre attività industriali che non sappiamo se la nostra produzione di guerra può proseguire. Il problema viene ammesso. La CNN, il New York Times e il Pentagono si chiedono se l’America riuscirà a rilanciare le catene di produzione di questo o quel tipo di missile. Ma non sappiamo se i russi sono in grado di seguire il ritmo di un tale conflitto. Il risultato e la soluzione della guerra dipenderanno dalla capacità dei due sistemi di produrre armamenti.

Secondo lei questa guerra non è solo militare ed economica, ma anche ideologica e culturale …

Mi esprimo qui soprattutto come antropologo. In Russia, ci sono state strutture familiari più dense, comunitarie, di alcune delle quali certi valori sono sopravvissuti. C’è un sentimento patriottico russo che è qualcosa di cui qui da noi non abbiamo idea, nutrito dal subconscio di una nazione famiglia. La Russia aveva un’organizzazione familiare patrilineare, vale a dire in cui gli uomini sono centrali e non può aderire a tutte le innovazioni occidentali neo-femministe, LGBT, transgender … Quando vediamo la duma russa vota una legislazione ancora più repressiva sulla “propaganda LGBT”, noi ci sentiamo superiori. Posso sentirlo come un occidentale normale. Ma da un punto di vista geopolitico, se pensiamo in termini di soft power, questo è un errore. Presso il 75% del pianeta, l’organizzazione della parentela era patrilineare e si può sentire una forte comprensione degli atteggiamenti russi. Per il non-Occidente collettivo, la Russia afferma un rassicurante conservatorismo morale. L’America Latina, tuttavia, qui sta sul lato occidentale.

Quando si fa geopolitica, ci si interessa a più dominii: i rapporti di forza energetici, militari, produzione di armi (che rinvia ai rapporti di forza industriali). Ma c’è anche l’equilibrio ideologico e culturale del potere, che gli americani chiamano il “soft power”. L’URSS aveva una certa forma di soft power, il comunismo, che influenzava parte dell’Italia, dei cinesi, dei vietnamiti, dei serbi, dei lavoratori francesi … ma il comunismo faceva in fondo orrore al mondo musulmano per via del suo ateismo e non fu particolarmente di ispirazione in India, tranne che nel Bengala Occidentale e nel Kerala. Ora, attualmente, poiché la Russia si è riposizionata come archetipo di grande potenza, non solo anti -coloniale, ma anche patrilineare e conservatrice dei costumi tradizionali, può andare molto più in là con la seduzione. Gli americani si sentono traditi oggi dall’Arabia Saudita che rifiuta di aumentare la sua produzione di petrolio, nonostante la crisi energetica dovuta alla guerra, e che di fatto si schiera dalla parte dei russi: in parte, ovviamente, per interesse petrolifero. Ma è evidente che la Russia di Putin, che è diventata moralmente conservatrice, è diventata solidale con i sauditi, i quali sono sicuro che abbiano qualche problemino con i dibattiti americani sull’accesso delle donne transgender (definite come maschi al concepimento) ai servizi igienici delle donne.

I giornali occidentali sono tragicamente divertenti, mentre continuano a dire: “La Russia è isolata, la Russia è isolata”. Ma quando guardiamo i voti delle Nazioni Unite, vediamo che il 75% del mondo non segue l’Occidente, che a quel punto sembra molto piccolo. Se siamo antropologi, possiamo spiegare la mappa, da un lato i paesi catalogati come aventi un buon livello di democrazia nelle classifiche di The Economist (vale a dire l’anglosfera, l’Europa …), dall’altra parte i paesi autoritari, che si diffondono dall’Africa fino alla Cina attraverso il mondo arabo e la Russia. Per un antropologo, questa è una carta banale. Alla periferia “occidentale” troviamo paesi dalla struttura della famiglia nucleare con sistemi di parentela bilaterale, vale a dire dove parenti maschi e femmine sono equivalenti nella definizione dello stato sociale del bambino. E al centro, con la maggior parte della massa afro-europea-asiatica, troviamo le organizzazioni familiari comunitarie e patrilineari. Vediamo quindi che questo conflitto, descritto dai nostri media come un conflitto di valori politici, è a un livello più profondo un conflitto di valori antropologici. È questa incoscienza e questa profondità che rendono pericoloso lo scontro.

Fonte originale: https://www.lefigaro.fr/vox/monde/emmanuel-todd-la-troisieme-guerre-mondiale-a-commence-20230112.

Traduzione per Megachip a cura di Pino Cabras.

https://megachip.globalist.it/cronache-internazionali/2023/01/15/emmanuel-todd-la-terza-guerra-mondiale-e-iniziata/

Il sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559

oppure 

PayPal.Me/italiaeilmondo

SUL “NOMOS” POST-MODERNO(*), di Teodoro Katte Klitsche de la Grange

 

NOTA

Questo articolo è stato pubblicato nel 2003 su “Palomar”. E’ il primo di una serie di saggi che saranno pubblicati sul sito. La problematica che affronta appare tuttora – in gran parte – attuale. Sovranità, jus belli, potere e diritto sono riproposti di continuo in un ordine internazionale in via di trasformazione, di cui il conflitto in Ucraina è una delle conseguenze. 

Teodoro Katte Klitsche de la Grange

SUL “NOMOS” POST-MODERNO(*)

Carl Schmitt, nelle prime pagine del “Der Nomos der Erde”, dopo aver individuato nell’occupazione sia l’atto fondante di un ordinamento che la possibilità di dominio non solo sulla terra, ma anche (sia pure profondamente diverso) sul mare, e i rapporti tra i due tipi, sostiene che queste sono profondamente trasformate “da un nuovo avvenimento spaziale: la possibilità di un dominio sullo spazio aereo. Cambiano non solo le dimensioni della sovranità territoriale, non solo l’efficacia  e la rapidità dei mezzi umani di potere, di comunicazione e informazione, ma anche i contenuti dell’effettività. Quest’ultima possiede sempre un aspetto spaziale e rimane sempre, tanto nel caso delle occupazioni di terra e delle conquiste, quanto nel caso delle barriere e dei blocchi, un importante concetto di diritto internazionale. Muta inoltre, in seguito a ciò, anche la relazione tra protezione e obbedienza, e quindi la struttura del potere politico e sociale stesso, e il rapporto tra questi e altri poteri. Ha inizio così un nuovo stadio della coscienza umana dello spazio e dell’ordinamento globale”.

Tale affermazione, come tutto l’inizio del “Der Nomos der Erde”, si può collegare alla definizione che un altro grande giurista, Maurice Hauriou, da dell’ “idea direttiva” dello Stato ovvero di “attività protettiva di una società civile nazionale svolta da un potere pubblico a base territoriale” e prosegue, chiarendola, “non si deve confondere l’idea dell’opera da realizzare, che merita il nome di “idea direttiva dell’impresa” né con la nozione di scopo né con quella di funzione. L’idea dello Stato, per esempio, è cosa ben diversa dallo scopo dello Stato o dalla sua funzione”[1]. Nel “Précis de droit constitutionnel” Hauriou ricollega l’idea di Stato all’ “ordine  individualista”, conseguente al formarsi di civiltà sedentarie[2]: di guisa che la sedentarietà, cioè il rapporto stabile e ordinato con la terra è il fondamento (tra l’altro) dell’idea di Stato, tipo particolare di ordinamento localizzato.

Lo Stato (e il di esso concetto) si specifica con una serie di distinzioni caratteristiche, tra le quali, particolarmente interessante il tema qui trattato, è quella tra interno ed esterno e la delimitazione tra tali due aree, cioè il confine. Interno ed esterno, intra o extra moenia, non costituisce soltanto una divisione spaziale, né si limita a determinare l’ambito d’esercizio dell’imperium dello Stato, ma è la distinzione tra due diversi “ordinamenti”, fondati su principi e presupposti diversi. All’interno, lo spazio della sovranità statale, dell’imperium basato sul principio che “il sovrano nello Stato ha verso i sudditi soltanto diritti e nessun dovere (coattivo)”[3], la volontà sovrana è, per definizione, irresistibile e non condizionabile con limiti e controlli giuridici.

Corollario di questa illimitatezza è che non vi è alcun potere esterno che possa influire all’interno (dei confini) dell’unità politica. Mentre all’esterno il diritto internazionale (denominazione che Schmitt corregge, con maggiore precisione, in interstatale) si basa su una società di Stati simili e pari, componenti l’ordinamento internazionale: per cui, di converso, nessuno può dettar legge all’altro, ma i rapporti tra gli stessi sono a carattere, in linea di principio, paritario. Tuttavia Spinoza ne coglieva assai chiaramente il senso (e il limite), quando scriveva che “Lo Stato, dunque, in tanto è autonomo in quanto è in grado di provvedere alla propria sussistenza e alla propria difesa dall’aggressione di un altro, e… in tanto è soggetto ad altri, in quanto teme la potenza di un altro Stato o in quanto ne è impedito dal conseguire ciò che vuole o, infine, in quanto ha bisogno del suo aiuto per la propria conservazione o per il proprio incremento”[4]; per cui uno Stato, in diritto uguale e pari agli altri, lo è di fatto nella misura in cui riesca ad avere potentia sufficiente a garantire quel tanto di jus effettivamente esercitabile nel consesso internazionale (o interstatale).

Il rapporto tra jus e potentia, nel pensiero di Spinoza, è simmetrico: nel senso che non c’è il primo senza la seconda, né la seconda senza il primo. Un diritto internazionale che non si fondasse sul potere di fatto dei soggetti dell’ordinamento internazionale di conservare la pace e fare la guerra ma su un legalitarismo normativistico sarebbe un non-senso, una parata inutile di pubbliche impotenze.

Ciò non è senza conseguenze, ovviamente, per lo Stato: se questo non ha potentia sufficiente a garantire la protezione, perché non può, almeno, difendersi, se non aggredire, è la stessa obbligazione politica “principe” verso i sudditi a perdere – anch’essa – di senso. Uno Stato che ha bisogno della protezione di un altro non è libero; e neppure può garantire la protezione dei cittadini, (o lo può, ma solo in parte) per la medesima ragione. In tal modo, a seguire Hobbes, ne viene meno anche la legittimità e la funzione, intesa dal filosofo di Malmesbury come garanzia della protezione cui corrisponde il dovere di obbedienza (con la conseguenza che questa va data a chi effettivamente è in grado di assicurare quella).

Le possibilità di fatto sono, tuttavia, quelle che determinano la possibilità concreta di appropriazione, distribuzione e regolazione di una materia e/o di uno spazio: è la potentia che determina lo jus: il “Nomos” moderno della terra presupponeva la navigazione oceanica (e tecnologia, conoscenze che l’hanno reso possibile), cui conseguiva l’appropriazione e la divisione del continente americano – e di parte degli altri – realizzata dalle potenze europee. Ma anche su un altro versante, quello europeo ed euro-asiatico (continentale), connotato da una pluralità di Stati confinanti (per terra) o vicini, non difesi come l’Inghilterra dal fatto di essere un’isola, le innovazioni tecniche e scientifiche sviluppate tra il finire del medioevo e l’inizio dell’evo moderno non furono neutrali, ma decisive per l’assetto politico-giuridico costituitosi.

Sicuramente il nascere dello Stato moderno dal corpo delle monarchie feudali lo si deve a fattori “ideali”, tra cui non bisogna trascurare l’esigenza di una protezione più efficace di quella assicurata dal pluralismo feudale; ma tra quelli “materiali” appare decisiva la diffusione delle armi da fuoco. Queste decretarono l’obsolescenza, ad un tempo, della cavalleria aristocratica feudale e di quella “guerriera” dei popoli nomadi. A Pavia i tercios spagnoli, a Khazan gli strelizzi russi aprivano un nuovo capitolo della storia (militare e) politica; non nasceva solo lo Stato moderno, ma nelle contese tra questo e i non-Stati (interni ed esterni) – ovvero le altre forme di unità e organizzazione politica – il primo vinceva (quasi) sempre. Le aristocrazie feudali fecero così, essendo divenute più che inutili, d’impaccio alla nuova istituzione, una “fine” politica parallela a quella dei popoli nomadi, che per millenni avevano costituito uno dei principali “motori” della storia del Vecchio Mondo: negli stessi anni in cui la Fronda aristocratica perdeva il conflitto con lo Stato monarchico di Mazzarino e del giovane Luigi XIV, russi e cinesi s’incontravano sull’Amur, e definivano i confini dei rispettivi imperi. I nomadi erano circondati nelle loro tende, come la grande nobiltà francese sorvegliata a Versailles: non vi sarebbe stata più alcuna di quelle eruzioni nelle terre dei popoli stanziali che dalle invasioni indo-europee  protostoriche a Tamerlano avevano periodicamente rimesso in moto la storia del mondo. I popoli nomadi regredivano (nelle possibilità politiche) da Gengis Khan a Pugaciov: dall’imperatore al ribelle.

Così era ridimensionato, e praticamente scompariva, quel “principio fluttuante, vacillante” della storia, che Hegel vedeva nei nomadi[5].

Occorre vedere quanto di questa “chiusura” politico-istituzionale si debba allo spirito del Rinascimento e della Riforma, e quanto al fatto che artiglierie e moschetti erano molto più efficaci nel serrare le frontiere marittime e terrestri degli eserciti feudali, e molto meno condizionanti il potere monarchico. Sicuramente, tuttavia, lo “spirito” della modernità e l’elemento, per così dire, materiale, hanno collaborato allo stesso esito. Si può, a tale proposito, ricordare l’opinione di Marx che l’umanità si pone (e risolve) i problemi quando ne sono mature le soluzioni[6]. Il sistema degli Stati sovrani europei nasceva proprio al momento in cui ne maturavano le condizioni “fattuali”.

Appare decisivo che, comunque, non sarebbe stato possibile realizzare, almeno al grado di efficacia ottenuto, quella “chiusura” se non con i mezzi che la tecnica “moderna” aveva messo a disposizione: pochi moschettieri ed artiglieri ben armati ed addestrati potevano fermare e sconfiggere orde assai più numerose di valorosi guerrieri nomadi, occuparne e presidiarne il territorio (il che, in modo parzialmente inverso, nel senso della conquista e dell’espansione, si ripeterà nel Nord America).

La complessità, poi, della nuova organizzazione militare escludeva – o rendeva altamente improbabile, e quindi marginale – che gruppi poco numerosi o poco organizzati (ovvero non organizzati come Stati) potessero arrecare offese rilevanti alle comunità ordinate in Stati, anche a quelli più piccoli e deboli, come i principati italiani e tedeschi, per via di terra: per mare la situazione era parzialmente diversa. Lo sviluppo della pirateria atlantica ai danni anche delle grandi potenze, e il permanere di quella mediterranea (che colpiva però, come scriveva Montesquieu, essenzialmente i commerci dei piccoli Stati) era dovuto alla minor sproporzione, sul mare, del rapporto tra potenza e vulnerabilità: i commerci marittimi erano più vulnerabili dei confini. E più difficile inseguire e scoprire i pirati negli oceani che i predoni nelle steppe e nelle foreste.

2 L’intuizione di Schmitt che la nuova dimensione acquisita con la navigazione aerea modificava sia la guerra che le forme del “politico” è stato confermata dai nuovi attacchi terroristici.

Il nuovo tipo di terrorismo (tra l’altro realizzato col mezzo aereo) ha in comune con l’offesa dall’aria altre caratteristiche, già individuate chiaramente dal generale italiano Giulio Douhet, teorico – pioniere della guerra aerea “totale”. Non esistono in primo luogo, “linee” di fronte, perché sono impossibili (o pressoché superflue): il terrorista, come l’aereo, le può oltrepassare senza prima essere costretto a combattere per forzarle. Secondariamente, neppure barriere naturali possono concorrere a rinsaldarle: l’aereo quindi, come il terrorista, è “indipendente dalla superficie, capace di muoversi in tutte le direzioni con uguale facilità”.

In terzo luogo così “la guerra può far sentire la sua ripercussione diretta oltre la più lunga gittata delle armi da fuoco impiegate sulla superficie, per centinaia e centinaia di chilometri, su tutto il territorio ed il mare nemico. Non più possono esistere zone in cui la vita possa trascorrere in completa sicurezza e con relativa tranquillità. Non più il campo di battaglia potrà venire limitato: ……  tutti diventano combattenti perché tutti sono soggetti alle dirette offese del nemico: più non può sussistere una divisione fra belligeranti  e non belligeranti”. Un quarto aspetto è che: “la vittoria sulla superficie non preserva dalle offese aeree dell’avversario il popolo che ha conseguito la vittoria”; per cui concludeva Douhet: “Tutto ciò deve, inevitabilmente produrre un profondo mutamento nelle forme della guerra, perché le caratteristiche essenziali vengono ad esserne radicalmente mutate”[7] di guisa che il più forte esercito e la più potente marina non servono ad evitare le offese che il mezzo aereo – e il nuovo terrorismo – sono in grado di produrre.

Neppure determinati jura belli, come quello di preda, che valgono a relativizzare la guerra o almeno l’atto di ostilità, sono concretamente esercitabili in tipi di guerra – e di azioni belliche – come quella aerea o terroristica. Il saccheggio che soddisfa l’avidità dell’aggressore salvando in genere la vita dei vinti, in questo tipo di conflitto non è esercitabile. L’unico obiettivo dell’azione diventa quindi la distruzione della vita e dei beni del nemico, senza riguardo alle distinzioni classiche della guerra “relativizzata” dello jus publicum europaeum.

Tale conclusione mina quindi il ricordato presupposto, fondamento – di fatto – dello Stato moderno; il quale, caratterizzato dalla distinzione tra interno ed esterno, si fonda sulla possibilità concreta di serrare porti e frontiere, riducendo e minimizzando sia gli atti di ostilità non rapportabili alla guerra “classica” sia i soggetti che la possono esercitare. Questo (ulteriore) elemento di novità, è suscettibile di sviluppi impensabili in un sistema di relazioni internazionali dominato dai soggetti “normali” (gli Stati) e costruito con istituti, rapporti (e concetti) sull’idea (classica) di Stato e di conflitto interstatale.

L’ “opposizione” di mare e terra, e la delimitazione che ne deriva, (l’offesa arrecabile per mare si trasforma difficilmente in quella di terra; al punto che le potenze marittime hanno, nelle guerre intereuropee, sempre avuto necessità di almeno una “spada” sul continente) non esiste più per la guerra aerea: questa può colpire indifferentemente sul suolo e sull’acqua, e trasferire l’offesa dall’uno all’altro elemento senza cambiare il mezzo con cui è portata[8].

Analoga è la guerra terroristica, condotta da piccole unità, sfuggenti al controllo ed al regime delle “linee” (di confine, di fronte, di “amicizia”) tipiche dell’ordinamento internazionale classico, guerra compresa, come a tutte le altre distinzioni intrinseche e conseguenti al relativo diritto di guerra (belligeranti e neutrali; civili e militari e così via). Di guisa che come guerra aerea e terrorismo non tollerano o riconoscono “linee” così  affievoliscono o fanno venir meno quelle distinzioni, giuridiche, che costituiscono delle chiusure “ideali”, necessarie per umanizzare la guerra e scongiurarne la peculiare  dinamica dell’ “ascesa agli estremi” cioè alla guerra assoluta.

3 Carl Schmitt, nel passo citato, nota come le nuove forme di guerra e di dominio modificano la relazione tra protezione ed obbedienza, le strutture del potere politico (e sociale) e il rapporto tra poteri: così collega l’esterno all’interno, come sottolinea l’influenza delle situazioni fattuali e concrete sull’assetto normativo. E’ noto che i fattori concreti (geografici, storici, climatici, e così via) condizionano e modellano l’ordinamento (la costituzione) delle comunità umane: da Montesquieu a de Maistre l’hanno rilevato in tanti. Meno noto, anzi spesso trascurato, è che di solito le società si organizzano nella forma la quale meglio permette di condurre la guerra in una determinata epoca storica. Tuttavia il rapporto tra istituzioni e guerra fa parte del pensiero umano, almeno a far data da Polibio di Megalopoli e dalla sua spiegazione dell’ascesa di Roma[9]. Di tutti i (numerosi) fattori che determinano strutture e dimensioni di una società umana, questo, a dispetto di certe astrazioni della “progettualità” politica (praticata da ideologi, costruttori di utopie), è uno dei principali: perché se una società perfetta (sotto il profilo culturale, economico, giuridico) non fosse organizzata in modo da proteggersi efficacemente dai tanti vicini, non altrettanto colti, ricchi, pii o giusti, ma meglio attrezzati a far la guerra, non durerebbe che pochi anni o, al massimo, decenni. Le unità politiche di lunga durata sono state capaci di risolvere quel problema, con delle istituzioni non congrue perché buone, ma buone perché adatte; ed avendo oltretutto il senso politico di cambiarle, anche radicalmente, ove la rei novitas lo richiedesse.

La fortuna, in determinate epoche, di certe forme di aggregazione politica si deve così alla loro capacità di consentire un’esistenza libera alle comunità che in queste si organizzavano; la loro decadenza – e sostituzione con altre forme e tipi – dal non essere più adatte a quella.

Nella storia europea, in particolare mediterranea, vediamo che fino al IV secolo a.C. le comunità hanno la forma della polis o delle tribù; solo nell’Oriente mediterraneo  esistono imperi, le cui caratteristiche – come, ad esempio, l’estremo “decentramento” di quello achemenide – erano tuttavia tali da renderli nemici affrontabili dalle altre unità politiche, come dimostra l’esito delle guerre persiane. A partire dalla fine del IV secolo, i popoli mediterranei si organizzano – per larga parte – in unità politiche regionali: a oriente quelle degli epigoni di Alessandro, a occidente Roma e Cartagine. La fine dell’ultima potenza regionale, l’Egitto dei Tolomei, segnò l’inizio dell’imperium unico mediterraneo. Toynbee nota che nel I secolo d.C. l’area temperata del Vecchio Mondo, dall’Oceano Atlantico al Mar Cinese, era divisa in (solo) quattro grandi imperi, al di fuori dei quali esistevano una miriade di piccole comunità politiche, talvolta clienti degli imperi, ma per lo più indifferenti a questi, perché troppo deboli per muovere loro la guerra. In epoca più recente l’assetto costituzionale e il diritto pubblico interno delle potenze “marittime” (Inghilterra e U.S.A.) sono stati ritenuti tali perchè tipici di due “isole”: in senso geografico (e politico) l’Inghilterra da De Maistre[10]; in senso politico (perchè privi di nemici credibili  ai confini terrestri e grandi guerre da sostenere con questi) gli U.S.A. da Tocqueville e da Hegel[11]. Differente invece, quello degli Stati continentali, per la necessità di eserciti permanenti, sempre potente strumento di difesa e di centralizzazione, ma a volte d’oppressione. Si può affermare pertanto, parafrasando Marx, che il modo di condurre la guerra determina il modo di governare. In questo senso lo jus belli del diritto internazionale dell’Europa moderna era quello peculiare degli Stati, non solo dotati di una (notevole) omogeneità culturale, ma di forme politiche e modi simili di combattere e quindi di danneggiarsi o avvantaggiarsi (reciprocamente). Il che comportava – con l’eccezione, solo relativa, delle potenze marittime – delle regole applicabili (con relativa facilità) perché i soggetti dell’ordinamento internazionale erano simili e se non pari, almeno non troppo impari.

  1. Diversa appare la situazione attuale, per una pluralità di ragioni: riducendo le quali ai limiti del presente scritto, ovvero ai riflessi che possono avere i nuovi modi di condurre la guerra – aerea e aerospaziale in primo luogo, e terroristica – sulle forme ed organizzazioni dell’unità politica, abbiamo diverse conseguenze.

In primo luogo che la “chiusura” dello Stato, sulla cui possibilità si basava l’idea (e l’ideologia) del medesimo, appare più difficile, e così i “beni “ che assicurava alla comunità: ordine, pace, e sicurezza. Il “defensor pacis”, in un mondo in cui gli Stati sono fra loro come nello stato di natura è tale se riesce ad assicurare chiusura e distinzione tra interno ed esterno. Se tra questi spazi viene meno il confine, disordine e insicurezza penetrano all’interno, e non l’inverso. La capacità di garantire “attività protettiva” viene così correlativamente ridotta.

Secondariamente, nel XX secolo si è contribuito in vari modi ad attenuare e/o negare quella “chiusura”. La Weltbürgerkrieg del marxismo-leninismo, con la contrapposizione amicus/hostis tra borghesia e proletariato, e la minaccia – più volte prospettata (e spesso impiegata) di mobilitare, con la guerra rivoluzionaria, i proletari, amici dell’Unione Sovietica e quinta colonna alle spalle degli Stati borghesi, ne è stata quella, ideologicamente più intensa e qualificata[12]. Anche la nuova minaccia terroristica di Al Quaeda, non solo nega qualsiasi distinzione tra interno ed esterno (e le altre peculiari allo jus publicum europaeum), ma, a quanto è dato capire, nega che la distinzione tra amici e nemici corra lungo i confini degli Stati attualmente esistenti, islamici o “non”, e sembra piuttosto contrapporre credenti ad infedeli[13].

In qualche misura , anche se su basi diverse, la stessa aspirazione a leghe di Stati o comunque ad istituzioni internazionali che scongiurino il ricorso alla forza sostituendolo con procedure “giuridiche” (d’ispirazione Kantiana), o meglio para-giudiziarie, concorre ad attenuare quella distinzione, ma senza granchè dei benefici prospettati: anche perché, a ben vedere, non riesce a portare la pace se non attraverso la guerra, che differisce da una “normale” guerra solo perché a dichiararla e condurla è una lega di Stati piuttosto che uno Stato singolo[14]. Il caso del Kosovo ne è stata la conferma più chiara, perché occasione (e motivo) dell’intervento non era un’aggressione esterna (come nella guerra all’Irak per l’occupazione del Kuwait), ma la repressione attuata dallo Stato sovrano sulla popolazione di etnia albanese residente nel proprio territorio. Con ciò si contestava allo Stato l’esercizio della funzione di “polizia” cui è connessa quella di identificare il nemico interno (il ribelle) e anche il criminale. Il principio di non-intervento negli affari interni dello Stato, essenziale alla distinzione tra quelli e gli affari esterni, viene così meno. In termini weberiani le relazioni  chiuse vengono sempre più sostituite da relazioni aperte[15]. Conseguenza di ciò non è tuttavia di sostituire il diritto alla guerra, ma di espropriare lo Stato del diritto d’individuare il nemico , trasferendolo ad un’istituzione internazionale, cui compete il potere anche d’esercitare la “violenza legittima” e garantire la pace, non solo tra Stati, ma anche negli Stati[16].

In questo senso il termine di “operazione di polizia internazionale” spesso dato a quella guerra è in effetti corretto nel sostantivo, ma fuorviante nell’aggettivo: perché costituisce attività di polizia (in quanto interna allo Stato che la subisce), ma proprio per ciò, quanto all’oggetto non è internazionale, nel senso delle relazioni fra più Stati, ma solo con riguardo al soggetto cioè all’istituzione (internazionale) che l’esercita[17]. A una simile concezione vanno ricondotti anche altri organismi (come la Corte penale internazionale di cui al recente Statuto di Roma) che, derogando alle regole (per la verità ripetutamente violate nel XX secolo) dell’esclusività statale dell’esercizio della giustizia la trasferiscono, in determinati casi, all’istituzione internazionale[18].

  1. Dati i rapporti (e le distinzioni) tra interno ed esterno, jus e potentia, modi di guerra e forma politica, occorre vedere in quale guisa i nuovi tipi di ostilità possono modificare il Nomos o, più limitatamente, l’ordinamento internazionale, e di riflesso, e in quale misura, quello interno.

Nella situazione odierna nessuno Stato appare in grado di esercitare appieno lo jus belli, perché nessuno è in grado di condurre una guerra (con qualche possibilità di sopravvivenza) con gli U.S.A., tranne, forse, la Russia e, in futuro, la Cina. Lo jus non corrisponde pertanto alla potentia, limitata alle guerre realmente possibili. E anche tali tipi di ostilità (tra Stati senza eccessivo squilibrio di potenza), sono praticabili nei limiti in cui la superpotenza non se ne ritenesse lesa o minacciata: di fatto quindi sottoposte a un possibile veto U.S.A.. A questo occorre aggiungere il favore al principio di intervento, finalizzato alla salvaguardia di diritti umani che limita la sovranità al contrario, salvaguardata da quello di non-intervento.

In tale situazione è la guerra terroristica, condotta da piccoli – o piccolissimi – gruppi umani, l’unica sempre praticabile. Ciò comporta che questi gruppi sono, paradossalmente, più efficienti ed adatti  dello Stato all’esercizio dello jus belli (malgrado tale diritto non sia loro riconosciuto).

Si verifica così una scissione tra jus e potentia: confermata dal fatto che la maggior parte dei conflitti successivi alla Seconda guerra mondiale non sono guerre tra Stati, ma tra uno Stato e una fazione (partito, etnia, ecc.) o tra fazioni all’interno di uno Stato.

A questo punto si pone anche il problema se può considerarsi Stato, nel senso dello jus publicum europaeum un’entità politica largamente (o totalmente) di fatto priva dello jus belli. Ai giuristi – ma non solo a loro – è familiare giudicare che, se a un istituto – e al concetto corrispondente – si sottrae un carattere (un attributo) essenziale, questo non è riconducibile a quello normalmente considerato e definito. A sottrarre (o ridurre) lo jus belli  allo Stato, se ne azzera (o si riduce) la capacità di protezione. E’ possibile, poi, ricondurre, al genere “Stato” un’istituzione, connotandola, per fare un esempio (tra i molti), secondo la definizione “funzionale” di Hauriou: “Protéger la société individualiste par son gouvernement, lui assurer la paix et l’ordre au dedans et au dehors par sa force armée, par sa diplomatie, par sa police, par sa législation, par ses tribunaux[19]”, di cui la protezione è l’elemento essenziale? E lo stesso potremmo ripetere paragonandolo ad altre definizioni o concetti di Stato elaborati. Certo si può chiamare “Stato” un ente privo dello jus belli, analogamente a come l’eufemismo prima ricordato definisce “operazioni di polizia internazionale” delle guerre tout-court, ma occorre intendersi, prescindendo dal tasso d’ipocrisia o d’illusione di certe operazioni da vocabolario, che quanto ne risulta non è uno Stato né qualcosa di diverso dalla guerra.

Il tutto non è indifferente all’altro aspetto della sovranità, così limitata dalla (parziale) inidoneità del ricorso alla forza, cioè quello interno. Invero il rapporto hobbesiano tra protezione ed obbedienza e l’effettività della decisione sovrana poggiano sul monopolio statale della violenza legittima, che appare doppiamente eroso: in primo luogo dalla (parziale) inidoneità prima ricordata e, secondariamente, dal ruolo delle istituzioni internazionali.

Ma se lo Stato non è più idoneo, se non è più la “gran macchina” della pace e della sicurezza, se non riesce a tenere al di fuori dai confini lo “stato di natura”, a chi si dovrà dare obbedienza? Un sostituto dello Stato moderno non è all’orizzonte, e ciò ch’è visibile è piuttosto un ritorno, mutatis mutandis, a forme politiche pre-moderne, di volta in volta imperiali, feudali, particolaristiche, corporative, comunque contrapposte allo Stato e all’ordine interstatale dello jus publicum europaeum, perché non basate su quella chiusura (e distinzione) e sull’assolutezza della decisione sovrana. A un mondo in cui lo jus è determinato da quel tanto di potentia esercitabile in una situazione concreta e in continuo movimento, meno o poco “calcolabile” e prevedibile; e quindi tendenzialmente non comparabile con ordine concreto in se concluso, come quello determinato dallo Stato.

La non coincidenza tra Stato, sovranità e jus belli fa, di converso, intravedere, in futuro, forme politiche di confusione e sovrapposizione tra quelli: con Stati non sovrani, sovrani senza Stato, belligeranti non statali e così via. Lo stesso Impero, ordine politico assai differenziato nelle varie situazioni storiche, non ha escluso sia forme “interne” di ostilità (come le guerre “tribali” nelle colonie extraeuropee o i conflitti tra feudatari  nel Sacro Romano Impero), sia, di conseguenza situazioni di “pace” interna non comparabile a quella assicurata dallo Stato europeo “classico”, e, in taluni casi financo, autorità “locali” che praticano una politica all’esterno (quindi estera) non coincidente né compatibile con quella dell’Impero[20].

In effetti l’impero è un ordinamento politico che, al contrario dello Stato, ha conosciuto forme diversissime, in cui le variabili prevalgono largamente nelle costanti. Tuttavia uno dei caratteri tipici (quasi sempre) degli imperi è di consentire forme – più o meno limitate – di ostilità all’interno (e all’esterno) dell’unità politica, cui corrisponde spesso una “competenza” in politica estera, riconosciuta (o tollerata) alle unità politiche “minori” o “vassalle”. In questo contesto si può immaginare – ma di fatto l’immaginazione è divenuta, in parte, già realtà – che possano esservi forme di ostilità limitate sia nei soggetti (accanto agli Stati, movimenti e partiti di liberazione, forme in futuro anche gilde armate e compagnie di ventura) sia nel motivo e nei modi di guerra, secondo distinzioni che ricalcano la dottrina della “guerra giusta” di S. Tommaso e dei teorici della controriforma. Per cui certi motivi e modi di guerra sarebbero consentiti: come (nei modi) l’uso di armi convenzionali, la eliminazione degli obiettivi militari, al contrario dell’impiego di armi “NBC” e, in genere, la sistematica distruzione di bersagli civili. Nei motivi sarebbero consentite guerre per la tutela dei “diritti umani”, probabilmente l’autodeterminazione di popoli e regioni, forse guerre limitate per diritti determinati. A una moltiplicazione  dei soggetti ( lo justus hostis, limitato fino a tutto il XIX secolo allo Stato, diviene un concetto “elastico”) corrisponderebbe una casistica dei modi e dei motivi (justa causa e justus modus), con un solo limite: l’illiceità di nuova guerra (giusta) alla potenza egemone, d’altra parte già esclusa di fatto, che lo sarebbe così anche – e conseguentemente – di diritto. Al di sotto di questo, le guerre – entro una “soglia” determinata – sarebbero consentite e tollerate.

Inter pacem et bellum nihil medium: questa frase di Cicerone era ripresa da Schmitt (come titolo di un breve saggio) a denotare uno dei principi del diritto internazionale classico, da Schmitt considerato ormai tramontato per i vistosi vulnera subiti nel primo dopoguerra[21], e dovuti alla prassi di azioni ostili non militari o senza dichiarazione di guerra. Tuttavia sempre condotte da Stati contro Stati. Nel secondo dopoguerra (e già durante la seconda guerra mondiale) lo sviluppo inconsueto di nuovi soggetti politici belligeranti, con i movimenti partigiani, aggiungeva allo Stato un “nuovo” soggetto politico[22].

Il successivo sviluppo è costituito proprio da Al Quaeda, il cui principale carattere differenziale rispetto ai movimenti partigiani e ai partiti rivoluzionari è di non avere come quelli, seppure in forma fluida, gli elementi di Stato “in embrione”[23], ma prescinde (almeno apparentemente) in modo completo dalla “statalità”. Ciò non ha impedito a un’organizzazione avulsa da un popolo e da un territorio (cioè da due dei tre elementi-base dello Stato) di condurre un’operazione “bellica”[24].

La presenza, pertanto di soggetti politici non statali e il carattere “illimitato” e “irregolare” delle guerre da questi condotte, contrapposto alla “guerra in forma” fra Stati dello  jus publicum europaeum, appare non inquadrabile in un ordinamento che, come quello classico, costituisce un sistema di relazioni fondate su un contesto di pace e sicurezza reciproca. Il nuovo Nomos post-moderno che si intravede al tramonto dello Stato e dell’ordinamento “classico” appare quindi assai meno rassicurante di quello formatosi nell’età moderna.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

(*) Questo articolo è la rielaborazione di un contributo scritto per la rivista nordamericana “Telos”, destinata ad un “Symposium” internazionale sul “Der Nomos der Erde” di Carl Schmitt.

[1] V.M. Hauriou, La théorie de l’institution et de la fondation (essai de vitalisme social), trad. it. in Teoria dell’istituzione e della fondazione, Milano 1967, pp. 15-15.

[2] M. Hauriou op. cit., P. Iª, cap. 1, Sez. II, Paris 1929 p. 41 ss..

[3] E’ la definizione di I. Kant in “Die Metaphysik der Sitten”, p. II, sez. I.

[4] Trattato politico, Torino 1958 p. 196.

[5] V. Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, trad. it., Firenze 1941 p. 212. Hegel prosegue con considerazioni sul diritto “Non sono legati al suolo, e non conoscono niente dei diritti che la convivenza, insieme con l’agricoltura, rende di natura obbligatoria. Questo principio incostante ha costituzione patriarcale, ma prorompe in guerre e rapine interne, ed anche in aggressioni contro altri popoli”.

[6] Nella prefazione alla Zur Kritik der Politischen Ökonomie, trad. It., Roma 1974, pp. 5-6.

[7] Giulio Douhet, Il dominio dell’aria, rist. Roma 1955, p. 9-10.

[8] Scrive Schmitt che i conquistadores (ma lo stesso vale per i coloni inglesi) si spostavano velocemente e per questo sottomisero gli Amerindi: sui vascelli per mare e sui cavalli per terra. La guerra aerea evita anche l’inconveniente di dover cambiare mezzo di trasporto.

[9] VI libro delle Storie.

[10] Du Pape, II, 2.

[11] La démocratie en Amérique, Lib. I°, p. 1, cap. VIII°. Una considerazione analoga faceva Hegel, secondo il quale “L’America del nord…va considerata come uno Stato tuttora in divenire: esso non è ancora tanto progredito da aver bisogno della monarchia. E’ uno Stato federativo: ma questi, per quel che concerne i loro rapporti con l’estero, sono gli Stati peggiori. Solo la sua particolare posizione ha impedito che questa circostanza non causasse la sua totale rovina. Ciò si è visto nell’ultima guerra con l’Inghilterra” e prosegue: “ gli Stati liberi nordamericani non hanno nessuno Stato confinante, rispetto a cui siano nella situazione in cui gli Stati europei sono reciprocamente, uno Stato cioè che debbano considerare con sospetto e contro cui debbano mantenere un esercito stanziale. Il Canada e il Messico non incutono loro timore”. Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, trad. it., Firenze 1941 p. 231. Si noti che sia Hegel che Tocqueville prendono lo spunto per queste considerazioni dal rifiuto di alcuni Stati del New England d’inviare i loro contingenti militari nella guerra del 1812 contro l’Inghilterra.

[12] Ne è un esempio chiaro ed argomentato, tra tanti, il discorso di Stalin al XVII congresso del PCUS (nel 1934): “la guerra si svolgerebbe non unicamente sul fronte, ma pure nell’interno dei paesi dei nostri nemici. La borghesia può essere sicurissima che i numerosi amici della classe operaia dell’U.R.S.S. nell’Europa e nell’Asia tenterebbero di colpire alle spalle i loro  oppressori che avessero ordito una guerra delittuosa contro la patria della classe operaia di tutti i paesi…”. Tale minaccia di Stalin era indirizzata (prevalentemente) alle democrazie liberali. Fu attuata, com’è noto, in tutt’altra direzione.

[13] Il tratto comune tra marxismo-leninismo e fondamentalismo islamico appare non solo quello di prescindere degli Stati (e dei confini) al fine di scriminare amici e nemici, ma anche di depotenziare o negare l’idea di Stato. Se nel marxismo questo è destinato ad estinguersi con l’avvento della società senza classi, nell’Islam – più o meno fondamentalista – appare negata la distinzione tra potere  spirituale e temporale, che nell’idea di Stato dell’Europa moderna è il carattere fondamentale.

[14] Quando poi s’intende applicare un diritto a carattere universalistico (diritti umani) ci s’imbatte  in una contraddizione con i principi dell’ordinamento internazionale. Non solo, il che è evidente con la “chiusura” per cui è lo Stato a decidere cos’è che deve valere come diritto all’interno dell’unità politica; ma anche col principio che, a determinare la “legittimità” di uno Stato non è la conformità delle sue leggi (o comportamenti) a un sistema ideale o anche positivo di norme, ma l’effettività del potere sul (proprio) territorio. Che questo sia un criterio non solo realistico ma anche opportuno è dimostrato dal fatto che riconoscimenti e trattati hanno un senso solo con chi può garantire la pace o minacciare la guerra: ove non sia in grado di fare queste due cose, un trattato con lo stesso è del tutto inutile, e talvolta farsesco.

[15] V. Max Weber Wirtshaft und Gesellshaft, Vol. I°, p. 1, cap. I, prgrf. 10.

[16] A sviluppare coerentemente  certe posizioni di “pacifismo giudiziario” si ha l’impressione si creda di aver risolto l’enigma della storia (e della Provvidenza) invertendo il detto di Hegel Die weltgeschichte ist das weltgericht, e cioè trovato il weltgericht adatto a giudicare e financo a fare la storia del mondo. Ma non è questo il reale rapporto tra Storia e Tribunali (anche autorevoli). Lo prova il fatto che nella veste di giudici stanno sempre i vincitori, in quella d’imputati, i vinti.

[17] In effetti si potrebbe sostenere, a sostegno dell’intervento nel Kosovo, che, di fatto nella regione lo Stato iugoslavo non esisteva più, essendovi una guerra civile. In tal caso, a seguire Kant, non varrebbe più il principio di non intervento v. in “Per la pace perpetua” in Antologia degli scritti politici, Bologna 1961, p. 110; sul tema, ci sia consentito richiamare il nostro scritto “Breve Storia della guerra giusta” in Palomar 2/2002.

[18] Com’è noto tale trattato non è stato ratificato  dagli Stati militarmente più forti del pianeta come gli USA, la Russia e la Cina, e neppure da quelli che verosimilmente avrebbero più occasioni (e tentazioni) per violare le regole istituite dal Trattato, come Israele, l’India o il Pakistan. E’ dubbio quale consistente beneficio per la pace ed il diritto possano apportare norme non applicabili ai (più) probabili trasgressori

[19] V. Précis de droit Constitutionnel  cit. p. 49, Paris 1929, in cui ne descrive le funzioni essenziali (quella riportata nel testo è la prima).

[20] Un esempio classico ne costituisce, a leggere l’Anabasi, quella del satrapo Tissaferne contro i mercenari greci; ovvero come scrive Otto Brunner in “Land und Herrshaft. Grundfragen der territorialen Verfassungsgeschichte Österreichs in Mittelater„ (trad. It. Milano 1983, p. 7) quella dei feudatari nel medioevo: “si da politica – politica spinta sino all’estrema conseguenza della guerra – non solo fra gli “Stati” medievali ma anche al loro interno … i regni medievali  si articolano in poteri locali ai quali competono il diritto ed il dovere di svolgere, entro determinati confini, una politica autonoma sia all’interno che dall’esterno del territorio. Anzi, questa politica, in certe circostanze, può perfino volgersi contro i poteri superiori”.

[21] Inter pacem et bellum nihil medium trad. it. ne lo Stato, X, 1939, pp. 541-548.

[22] In effetti “vecchio” dato che risaliva alle guerre napoleoniche, come ricordato da Schmitt nella Theorie des Partisanen (1963), che lo fa risalire ai guerilleros spagnoli antinapoleonici del 1808-1812. In realtà le prime forme della moderna guerra partigiana devono essere fatte risalire agli insorgenti italiani del 1796-1799 e all’esercito della “Santa Fede” guidato dal Cardinal Ruffo, che riconquistò il Regno di Napoli nel 1799.

[23] Come notato da un grande giurista italiano, Santi Romano, nel 1946, in uno scritto sul partito rivoluzionario: “si tratta di un’organizzazione, la quale, tendendo a sostituirsi a quella dello Stato, consta di autorità, di poteri, di funzioni più o meno corrispondenti e analoghi a quelli di quest’ultimo: è un’organizzazione statale in embrione, che, a mano mano,, se il movimento è vittorioso si sviluppa sempre più in tal senso”, Santi Romano Frammenti di un dizionario giuridico, p. 224, rist. Milano 1983.

[24] Sul che ci permettiamo di rinviare a quanto scritto in Osservazioni sul terrorismo post-moderno in Behemoth n. 30, luglio-dicembre 2001.

saggio del 2003, pubblicato su “Palomar” n. 14 (4/2003)

Il sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure 

PayPal.Me/italiaeilmondo

SCOTT RITTER: Prospettive 2023 per l’Ucraina

Data la duplice storia degli Accordi di Minsk, è improbabile che la Russia possa essere  dissuasa diplomaticamente  dalla sua offensiva militare. In quanto tale, il 2023 sembra preannunciarsi come un anno di continui scontri violenti.

Il presidente russo Vladimir Putin osserva le esercitazioni militari nella regione orientale del Primorsky Krai, settembre 2022. (Cremlino)

Di  Scott Ritter Speciale per Consortium News

D opo quasi un anno di azioni drammatiche, in cui le prime avances russe si sono scontrate con impressionanti controffensive ucraine, le linee del fronte nel conflitto russo-ucraino in corso si sono stabilizzate, con entrambe le parti impegnate in una sanguinosa guerra di posizione, schiacciandosi a vicenda in una brutale gara di logoramento. in attesa della prossima grande iniziativa da entrambe le parti.

Con l’avvicinarsi del primo anniversario dell’invasione russa dell’Ucraina, il fatto che l’Ucraina sia arrivata a questo punto nel conflitto rappresenta una vittoria sia morale che, in misura minore, militare.

Dal presidente dei capi di stato maggiore congiunti degli Stati Uniti al direttore della CIA , la maggior parte degli alti funzionari militari e dell’intelligence in Occidente ha valutato all’inizio del 2022 che un’importante offensiva militare russa contro l’Ucraina si sarebbe tradotta in una rapida e decisiva vittoria russa.

La resilienza e la forza d’animo dei militari ucraini hanno sorpreso tutti, compresi i russi, il cui piano d’azione iniziale, comprensivo delle forze assegnate al compito, si è rivelato inadeguato ai compiti assegnati. Questa percezione di una vittoria ucraina, tuttavia, è fuorviante .

La morte della diplomazia

Mentre la polvere si deposita sul campo di battaglia, è emerso uno schema riguardo alla visione strategica alla base della decisione della Russia di invadere l’Ucraina. Mentre la principale narrativa occidentale continua a dipingere l’azione russa come un atto precipitoso di aggressione non provocata, è emerso uno schema di fatti che suggerisce che l’argomento russo per l’autodifesa collettiva preventiva ai sensi dell’articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite può avere valore.

Recenti ammissioni da parte dei funzionari responsabili dell’adozione degli accordi di Minsk sia del 2014 che del 2015 ( l’ex presidente ucraino Petro Poroshenko , l’ex presidente francese Francois Hollande e l’ ex cancelliere tedesco Angela Merkel ) mostrano che l’obiettivo degli accordi di Minsk per il la promozione di una soluzione pacifica al conflitto post-2014 nel Donbass tra il governo ucraino e i separatisti filo-russi era una bugia.

Febbraio 12, 2015: il presidente russo Vladimir Putin, il presidente francese Francois Hollande, il cancelliere tedesco Angela Merke, il presidente ucraino Petro Poroshenko al formato Normandia colloqui a Minsk, in Bielorussia. (Cremlino)

Invece, gli accordi di Minsk, secondo questa troika, erano poco più che un mezzo per far guadagnare all’Ucraina il tempo di costruire un esercito, con l’assistenza della NATO, in grado di mettere in ginocchio il Donbass e cacciare la Russia dalla Crimea.

Vista in questa luce, l’istituzione di una struttura di addestramento permanente da parte degli Stati Uniti e della NATO nell’Ucraina occidentale , che tra il 2015 e il 2022 ha addestrato circa 30.000 soldati ucraini secondo gli standard della NATO al solo scopo di affrontare la Russia nell’Ucraina orientale, assume una prospettiva del tutto nuova.

L’ammessa duplicità di Ucraina, Francia e Germania contrasta con la ripetuta insistenza della Russia prima della sua decisione del 24 febbraio 2022 di invadere l’Ucraina affinché gli accordi di Minsk fossero attuati integralmente.

Nel 2008, l’ex ambasciatore degli Stati Uniti in Russia William Burns, l’attuale direttore della CIA, avvertì che qualsiasi sforzo della NATO per portare l’Ucraina nel suo ovile sarebbe stato visto dalla Russia come una minaccia alla sua sicurezza nazionale e, se perseguito, avrebbe provocato un attacco militare russo. intervento. Quel promemoria di Burns fornisce il contesto tanto necessario alle iniziative del 17 dicembre 2021 della Russia per creare un nuovo quadro di sicurezza europeo che tenga l’Ucraina fuori dalla NATO.

In poche parole, la traiettoria della diplomazia russa è stata quella di evitare i conflitti. Lo stesso non si può dire né dell’Ucraina né dei suoi partner occidentali, che perseguivano una politica di espansione della NATO legata alla risoluzione delle crisi del Donbass/Crimea attraverso mezzi militari.

Cambio di gioco, non vincitore del gioco

La reazione del governo russo all’incapacità dell’esercito russo di sconfiggere l’Ucraina nelle fasi iniziali del conflitto fornisce importanti informazioni sulla mentalità della leadership russa riguardo ai suoi scopi e obiettivi.

Negata una vittoria decisiva, i russi sembravano pronti ad accettare un risultato che limitasse le conquiste territoriali russe al Donbass e alla Crimea e un accordo dell’Ucraina a non aderire alla NATO. In effetti, la Russia e l’Ucraina erano sul punto di formalizzare un accordo in questo senso nei negoziati che si sarebbero svolti a Istanbul all’inizio di aprile 2022.

Questo negoziato, tuttavia, è stato affondato in seguito all’intervento dell’allora primo ministro britannico Boris Johnson , che ha collegato la continua fornitura di assistenza militare all’Ucraina alla volontà dell’Ucraina di forzare una conclusione del conflitto sul campo di battaglia, al contrario dei negoziati. L’intervento di Johnson è stato motivato da una valutazione da parte della NATO secondo cui i fallimenti militari russi iniziali erano indicativi della debolezza russa.

9 aprile 2022: il presidente ucraino Volodymyr Zelensky accompagna il primo ministro britannico a fare una passeggiata a Kiev. (Presidente dell’Ucraina, dominio pubblico)

Lo stato d’animo nella NATO, riflesso nelle dichiarazioni pubbliche del segretario generale della NATO Jens Stoltenberg (“Se [il presidente russo Vladimir] Putin vince, questa non è solo una grande sconfitta per gli ucraini, ma sarà la sconfitta, e pericolosa, per tutti di noi”) e il Segretario alla Difesa americano Lloyd Austin (“Vogliamo vedere la Russia indebolita al punto da non poter fare il genere di cose che ha fatto invadendo l’Ucraina”) doveva usare il conflitto russo-ucraino come una guerra per procura progettata per indebolire la Russia al punto che non avrebbe mai più cercato di intraprendere un’avventura militare simile all’Ucraina. [Assieme a una sfortunata guerra economica, era anche progettato per far cadere il governo russo, come ha ammesso la scorsa primavera il presidente Joe Biden.]

Questa politica è servita da impulso per l’iniezione di assistenza per un valore di oltre 100 miliardi di dollari, comprese decine di miliardi di dollari di equipaggiamento militare avanzato, all’Ucraina.

Questa massiccia infusione di aiuti è stata un evento rivoluzionario , consentendo all’Ucraina di passare da una posizione principalmente difensiva a una che ha visto un esercito ucraino ricostituito, addestrato, equipaggiato e organizzato secondo gli standard della NATO, lanciare contrattacchi su larga scala che sono riusciti a guidare le forze russe da vaste aree dell’Ucraina. Non era, tuttavia, una strategia vincente, tutt’altro.

Matematica militare

Gli impressionanti risultati militari ucraini che sono stati facilitati attraverso la fornitura di aiuti militari da parte della NATO hanno comportato un costo enorme in vite umane e materiale. Mentre il calcolo esatto delle vittime subite da entrambe le parti è difficile da ottenere, vi è un ampio riconoscimento, anche tra il governo ucraino, che le perdite ucraine sono state pesanti .

Con le linee di battaglia attualmente stabilizzate, la questione di dove va la guerra da qui si riduce alla matematica militare di base – in breve, una relazione causale tra due equazioni di base che ruotano attorno ai tassi di combustione (quanto velocemente vengono sostenute le perdite) rispetto ai tassi di rifornimento (come rapidamente tali perdite possono essere sostituite.) Il calcolo è di cattivo auspicio per l’Ucraina.

Né la NATO né gli Stati Uniti sembrano in grado di sostenere la quantità di armi consegnate all’Ucraina, che hanno consentito il successo delle controffensive contro i russi.

Questo equipaggiamento è stato in gran parte distrutto e, nonostante l’insistenza dell’Ucraina sulla sua necessità di più carri armati, veicoli corazzati da combattimento, artiglieria e difesa aerea, e mentre nuovi aiuti militari sembrano essere imminenti , sarà tardi per la battaglia e in quantità insufficiente per avere un impatto vincente sul campo di battaglia.

Allo stesso modo, i tassi di vittime subiti dall’Ucraina, che a volte raggiungono più di 1.000 uomini al giorno, superano di gran lunga la sua capacità di mobilitare e addestrare sostituti.

Il 3 maggio 2022, il 3 maggio 2022, presso la struttura Lockheed Martin a Troy, in Alabama, il presidente Joe Biden ha pronunciato le osservazioni “stand with Ukraine”. (Casa Bianca, Adam Schultz)

La Russia, d’altra parte, è in procinto di finalizzare una mobilitazione di oltre 300.000 uomini che sembrano essere equipaggiati con i sistemi d’arma più avanzati dell’arsenale russo.

Quando queste forze arriveranno in pieno sul campo di battaglia, entro la fine di gennaio, l’Ucraina non avrà risposta. Questa dura realtà, se unita all’annessione da parte della Russia di oltre il 20% del territorio dell’Ucraina e ai danni alle infrastrutture che si avvicinano a 1 trilione di dollari, è di cattivo auspicio per il futuro dell’Ucraina.

C’è un vecchio detto russo: “Un russo imbriglia lentamente ma cavalca velocemente”. Questo sembra essere ciò che sta accadendo riguardo al conflitto russo-ucraino.

Sia l’Ucraina che i suoi partner occidentali stanno lottando per sostenere il conflitto che hanno avviato quando hanno rifiutato un possibile accordo di pace nell’aprile 2022. La Russia, dopo aver iniziato con i suoi passi indietro, si è ampiamente riorganizzata e sembra pronta a riprendere operazioni offensive su larga scala che né l’Ucraina né i suoi partner occidentali hanno una risposta adeguata.

Inoltre, data la duplice storia degli Accordi di Minsk, è improbabile che la Russia possa essere dissuasa dall’intraprendere la sua offensiva militare attraverso la diplomazia. Pertanto, il 2023 sembra preannunciarsi come un anno di continui scontri violenti che porteranno a una decisiva vittoria militare russa.

È ancora da vedere come la Russia sfrutti una simile vittoria militare in un accordo politico sostenibile che si manifesti nella pace e nella sicurezza regionali.

Scott Ritter è un ex ufficiale dell’intelligence del Corpo dei Marines degli Stati Uniti che ha prestato servizio nell’ex Unione Sovietica attuando trattati sul controllo degli armamenti, nel Golfo Persico durante l’operazione Desert Storm e in Iraq sovrintendendo al disarmo delle armi di distruzione di massa. Il suo libro più recente è Disarmament in the Time of Perestroika , pubblicato da Clarity Press.

https://consortiumnews.com/2023/01/11/scott-ritter-2023-outlook-for-ukraine/

Il sito www.italiaeilmondo.com non fruisce di alcuna forma di finanziamento, nemmeno pubblicitaria. Tutte le spese sono a carico del redattore. Nel caso vogliate offrire un qualsiasi contributo, ecco le coordinate: postepay evolution a nome di Giuseppe Germinario nr 5333171135855704 oppure iban IT30D3608105138261529861559 oppure 

PayPal.Me/italiaeilmondo
1 31 32 33 34 35 85