Economia e guerra, di George Friedman

L’economia americana, la più grande e dinamica del mondo, è una questione geopolitica. E in questo momento, è in un prevedibile periodo di disfunzione. È stato paragonato – giustamente, secondo me – al tumulto degli anni Settanta. La disoccupazione ha raggiunto l’8,2% nel 1975, i tassi di inflazione hanno raggiunto il 14,4% nel 1980 e i tassi di interesse erano dell’11,2% nel 1979. Ho comprato la mia prima casa nel 1978 con un interesse del 19%. Fu un periodo difficile, intimamente legato alla guerra del Vietnam.

Lyndon B. Johnson ereditò quella guerra e la intensificò. Gli Stati Uniti stavano affrontando un’elezione nel 1964 e un’altra nel 1968. A quel punto, le cose in Vietnam non stavano andando bene. Probabilmente più importante per Johnson era quella che chiamava la Great Society, un tentativo massiccio e molto costoso di dichiarare guerra alla povertà. Dovette scegliere tra “pistole e burro”. Un massiccio programma sociale e una guerra su vasta scala erano incompatibili, ma Johnson era ideologicamente impegnato nel programma sociale e non poteva abbandonare la guerra. Ha deciso di fare entrambe le cose. Fu a quel punto che iniziò la crisi economica che sarebbe scoppiata negli anni ’70.

Pistole e burro significavano o massicci prestiti o un massiccio allentamento da parte della Federal Reserve. Tutti volevano unirsi a Johnson per mangiare la sua torta e anche per mangiarla. Il risultato è stato sia la stampa di denaro che l’indebitamento, creando un’inflazione massiccia e un indebolimento del dollaro.

Richard Nixon fu eletto in seguito, ereditando non solo la guerra del Vietnam, ma anche un’economia che sembrava essere fuori controllo. Nell’agosto del 1970 fece due cose quasi contemporaneamente: impose un blocco dei prezzi e dei salari per 90 giorni e abbandonò il gold standard, che era stato stabilito dall’accordo di Bretton Woods. Quell’accordo obbligava Washington a convertire i dollari in oro a 35 dollari l’oncia. L’improvviso blocco dei prezzi ha immobilizzato l’economia e l’abbandono del gold standard ha reso il dollaro più volatile. In generale, è diminuito di valore e ha portato all’inflazione.

Il tasso di disoccupazione è aumentato perché il licenziamento era l’unico modo per gestire le spese. I tassi di interesse e l’inflazione sono aumentati. Sembrava che tutto fosse fuori controllo, ma il vero colpo doveva ancora arrivare. Nell’ottobre 1973, con Nixon che si crogiolava nello scandalo Watergate, l’Egitto e la Siria colsero di sorpresa Israele con un attacco sbalorditivo e inaspettato. Gli Stati Uniti si sono trattenuti dal sostenere Israele, ma quando Israele ha iniziato a esaurire i proiettili di artiglieria e altre necessità, gli Stati Uniti hanno iniziato a trasportare rifornimenti in aereo. I produttori arabi di petrolio hanno risposto ponendo un embargo petrolifero agli Stati Uniti e agli altri sostenitori di Israele, in particolare in Europa. È stato un duro colpo per l’economia statunitense, dove i prezzi del petrolio non solo sono aumentati, ma il petrolio è diventato indisponibile. Le stazioni di servizio che avevano carburante avevano linee di macchine allineate per mezzo miglio. Il petrolio era un bene essenziale, e non era disponibile. L’inflazione è aumentata. La disoccupazione è aumentata vertiginosamente con la chiusura delle attività. I tassi di interesse sono aumentati poiché le banche hanno protetto le riserve. L’embargo petrolifero è continuato per mesi tra alcuni produttori. Non è eccessivo dire che l’economia americana e altre economie si stavano dirigendo verso il tracollo. Le manovre politiche che avevano avuto un impatto sull’economia statunitense negli anni precedenti sembravano ora modeste.

Ciò che iniziò con la guerra del Vietnam accelerò con la guerra arabo-israeliana. Il vero dolore non è arrivato fino all’inizio degli anni ’80, quando un nuovo paradigma politico si è confrontato con l’idea che l’inflazione e gli alti tassi di interesse non solo influivano sulla vita privata, ma limitavano drasticamente gli investimenti e, a loro volta, aprivano le porte alle esportazioni giapponesi. Un cambiamento del codice fiscale che ha aumentato gli investimenti e diminuito i consumi ha risolto i problemi creati prima dalla guerra e poi dalla politica. Ronald Reagan era presidente e attuava politiche che non aveva altra scelta che attuare. Ciò che è iniziato con pistole e burro è finito nella capitale che ha guidato il boom tecnologico.

È facile incolpare Johnson e Nixon, ma hanno eseguito le politiche richieste dal pubblico. Il pubblico voleva che i problemi fossero risolti senza alcun costo per loro. Poiché ciò era impossibile, il sistema politico ha generato l’illusione di una soluzione. Quell’illusione ha soddisfatto le richieste pubbliche a breve termine, le richieste che spesso finiscono in un dolore maggiore di quanto immaginassero.

In altre parole, la guerra ha generato una conseguenza non intenzionale. Un’altra guerra ha imposto un disagio straordinario ma ha portato a uno sconvolgimento del sistema politico. Come ho scritto altrove, è così che funziona la nostra cultura. Nella nostra era, la fine del ciclo è iniziata con il COVID-19, che ha avuto lo stesso effetto dirompente di una guerra e ha creato la stessa rabbia furiosa. Questa è stata seguita da un’altra guerra, l’Ucraina, che sta avendo un effetto enorme sul sistema economico globale. L’inflazione è in aumento e i tassi di interesse in aumento.

Se il mio modello seguirà il corso, il sistema politico non sarà in grado di risolvere i problemi prima della fine del decennio. Ovviamente daremo la colpa ai politici per quello che succede, poiché questa è una tradizione americana. Il processo irresistibile crea il dolore e i miracoli richiesti dal pubblico peggioreranno le cose. I politici saranno incolpati. Ma cancella il sistema e ci prepara per il futuro.

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BUROCRAZIA E INFALLIBILITÁ, di Teodoro Klitsche de la Grange

BUROCRAZIA E INFALLIBILITÁ

Ha suscitato stupore l’affermazione del direttore dell’Agenzia delle Entrate che in Italia ci sono 19 milioni di evasori fiscali. Ma non è stato notato – o notato poco – che non era tanto l’esternazione del dr. Ruffini ad essere discutibile ma- assai di più – il “ragionamento” di cui era il risultato.

Chi scrive è convinto che i 19 milioni di evasori di Ruffini siano una stima per difetto: in effetti ho l’impressione che il numero degli evasori sia poco inferiore all’intera popolazione maggiorenne italiana, cioè 45 milioni (almeno). Ciò per due motivi: il primo è che è l’appetito del fisco a creare l’evasione. Più è predatorio quello, più è diffusa questa, secondo la curva di Laffer, così sconosciuta nelle stanze del potere italiano. La seconda è la mediocre efficienza della pubblica amministrazione: per cui c’è da presumere che ai diciannove milioni di evasori sagacemente “tassati” dal fisco, ve ne siano altrettanti – o giù di li – che se la godono nella clandestinità. Anche perché il sistema principale per “recuperare l’evasione” collaudato da trent’anni è assai semplice: far pagare di più chi già paga. La seconda imposta per gettito, cioè l’IVA, compie quest’anno 50 anni: per “recuperare l’evasione” l’aliquota nello stesso periodo è stata quasi raddoppiata: dal 12% al 22%. Ad ogni aumento il solito coro di giubilo “paghiamone tutti, paghiamone meno” ma in effetti nella realtà sono sempre i soliti a pagare.

Ma ciò che rende debole e profondamente illiberale l’argomento di Ruffini è l’equivalenza tra pretese fiscali e fondatezza (anche giuridica) delle stesse. In altre parole si presuppone che 19 milioni siamo debitori perché gli impiegati dell’Agenzia fiscale hanno emesso dei titoli esecutivi a loro carico. Che è proprio il contrario di quanto da oltre due secoli i teorici dello Stato di diritto sostengono: tra i tanti basti citare il Federalista (come faccio spesso) in cui si sostiene che i controlli sul governo (cioè in termini moderni e “continentali”  sull’amministrazione pubblica) non sarebbero necessari se a governare fossero angeli, ossia moralmente irreprensibili e intellettualmente infallibili. Ma siccome non è così, scrivevano gli autori del “Federalista”, i controlli sono necessari. E l’intera costruzione dello Stato di diritto (e anche, meno coerentemente di altri “tipi” di Stato) si basa proprio su tale realistico giudizio sull’antropologia umana, e quindi burocratica.

La diffusione e l’istituzionalizzazione di limiti e controlli al potere, in primo luogo la giustizia nell’amministrazione, non è che la conseguenza di quello.

Credere il contrario non è soltanto manifestamente smentito dai fatti: è qualcosa che neppure gli ordinamenti più autoritari – forse (del tutto) neanche quelli totalitari – ammettono. Se il Papa è infallibile lo è solo quando parla ex-cathedra e in materie limitate. Ma l’infallibilità del Sommo Pontefice non emana verso uffici, impiegati, vescovi e parroci, mentre (pare che) quella fiscale si comunica per via gerarchica, dal Direttore agli impiegati di concetto (se non anche più in giù). Per cui il ragionamento di Ruffini, sulla cui fondatezza non insistiamo, è sicuramente il contrario di quanto sostenuto dai teorici (e pratici) del Rechtstaat.

Ma qualche conseguenza positiva la può avere: se è vero che gli evasori fiscali sono 19 milioni (come calcolato dal direttore) o molti di più, la conseguenza è che se vanno tutti a votare, e lo fanno coerentemente, i tempi del fisco predatorio sono agli sgoccioli: con una maggioranza così schiacciante un condono tombale (al minimo) è a portata di mano. Una riforma verso un fisco meno predatorio, probabile.

Ricordate, gente, ricordate.

Teodoro Klitsche de la Grange

Noterella di Roberto Buffagni

Ieri l’altro mattina, facendomi la barba, sentito Carlo Bonini, giornalista di “La Repubblica” alla Rassegna Stampa di Radio Tre. Nel dialogo con un ascoltatore, a proposito delle ostilità in Ucraina, Bonini esprime il seguente concetto: ci ha riflettuto a lungo, e secondo lui questo è un conflitto tra democrazia e autocrazie. Bravo Bonini, riflessione profonda. Dunque, visto che è andata così bene l’esportazione della democrazia in Iraq, Afghanistan, Siria, Libia etc., perché fermarsi alle mezze misure? Perché non esportarla anche in Russia e in Cina? Fiat democrazia, pereat mundus, perché no, bisogna pur finirla in qualche modo questa fola della vita umana sulla Terra, che rovina l’ambiente e turba le felci. Oddio: finché lo dice Bonini si può fare spallucce, purtroppo lo dicono anche il Ministro della Difesa, il Segretario di Stato e il Presidente degli Stati Uniti, un caravanserraglio al quale siamo ammanettati senza speranza di liberazione; e qui fare spallucce è meno facile.
Ma questa prima, elementare, considerazione non basta. Prendiamola sul serio sta cosa del conflitto democrazia/autocrazia, prendiamo per buone queste definizioni grossolane, per far prima; e poi non vale la pena usare il bisturi con questa spazzatura culturale, motosega e via.
Io in un paese autocratico non ho mai vissuto. Certamente ci sono vari inconvenienti, per esempio essere bruscamente svegliati alle quattro del mattino dalla polizia segreta. Non credo che piaccia neanche a chi ci vive, nelle “autocrazie”. Però per esempio in Russia la “democrazia” l’hanno provata, e per i russi la democrazia realmente esistente o esistita consisteva in questo: che arrivano dall’Occidente dei tipi incravattati anche al cesso, capaci di trasformare tutto il creato in soldi e di nient’altro, che si alleano con il peggio che c’era in Russia, criminali e notabili corrotti, gli portano via il frutto di settant’anni di lavoro e sacrifici immani del popolo russo, fanno precipitare l’aspettativa di vita al livello del Burkina Faso, li prendono in giro perché arretrati homines sovietici, e gli fanno la morale col sorrisino furbo. Poi, è vero, gli danno il permesso di dire e scrivere quel che gli pare (tranne quel che dà noia ai criminali e notabili corrotti al governo, che se innervositi ti fanno fuori) e aprono un botto di pizzerie e negozi di hamburger. Niente male come rapporto costi/benefici, forse qualche motivo per preferire l’autocrazia i russi ce l’hanno, senz’altro si ingannano ma possiamo capirli, facendo un piccolo sforzo.
Anche perché, su una scala di vari ordini di grandezza minore, è la stessa cosa che è capitata anche da noi in Italia dopo la cura “Mani Pulite”, contemporanea all’esportazione della democrazia in Russia e motivata dalla medesima congiuntura geopolitica (fine dell’URSS, fine di Yalta, gli USA si ubriacano di vittoria e credono di esserci solo loro al mondo).
Da noi gli stessi tipi incravattati anche al cesso, capaci di trasformare l’intero creato in soldi e di nient’altro, dei quali è esemplare idealtipico l’attuale Presidente del Consiglio, hanno fatto fuori con astuti trucchetti la vecchia classe dirigente corrotta, si sono cuccati le imprese di Stato regalandole ad amichetti riconoscenti, si sgranocchiano da trent’anni il welfare Stare, svendono i patrimonio industriale lasciando sul lastrico intere stirpi, ci prendono in giro perché arretrati cattolici e familisti amorali, ci fanno la morale col sorrisino furbo, e ci lasciano dire e scrivere quel che ci pare purché non tocchiamo qualche temino fastidioso tipo la guerra ucraina (le mafie che ti seppelliscono in una colata di cemento se gli dai noia ce le avevamo anche prima e continuiamo ad averle, con questa gente prosperano come non mai).
Ah, scordavo: essi però conferiscono ampi diritti in merito all’utilizzo del contenuto delle proprie mutande a chicchessia. Però! Niente male come rapporto costi/benefici. Noi però l’opzione autocrazia non ce l’abbiamo e quindi ci dobbiamo tenere la democrazia. Adesso poi che la esporteremo in tutto il mondo grandi potenze nucleari comprese non c’è dubbio alcuno che la democrazia si emenderà dei suoi difettucci e diventerà la democrazia ideale, idealtipica, con l’imperativo categorico kantiano nella Costituzione legale & materiale. Va bene così dai.

Kissinger, l’Ucraina e l’Ordine del Mondo, di OLIVIER CHANTRIAUX

Proseguiamo con il dibattito seguito all’intervento di Henry Kissinger al WEF, del quale abbiamo già offerto la traduzione. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Il 23 maggio, parlando in videoconferenza al World Economic Forum, Henry Kissinger ha fatto sentire una voce discordante [1] . Il messaggio principale di Kissinger non è che l’Ucraina dovrebbe accettare concessioni territoriali. Le sue osservazioni mirano a sottolineare l’urgenza della diplomazia in un clima di superiorità.

Contrariamente a molti media, così inclini a leggere le notizie internazionali in termini manichei, Kissinger ha ricordato la necessità, per risolvere i conflitti in atto, di considerare con occhio razionale la permanenza della storia e di sostituire la logica dell’escalation delle esigenze strutturali di diplomazia.

In piena coerenza con quanto espresso nell’articolo da lui pubblicato nel 2014 durante la prima crisi ucraina, in cui sottolineava che l’Ucraina, “ponte” tra est e ovest, non doveva necessariamente scegliere tra l’una o l’altra di queste strategie strategiche polarità, Kissinger ha auspicato l’apertura di negoziati che permettano ai protagonisti di affermare i propri interessi e che la Russia riconquisti, a lungo termine, un posto o un ruolo in Europa. Ha inoltre incoraggiato i due maggiori attori della vita internazionale, Stati Uniti e Cina, a tornare sulla strada di un dialogo strutturato, disegnato con la costante preoccupazione di garantire l’equilibrio di un mondo ormai plurale.

Sottolineando la necessità di un ritorno alla storia e l’urgenza della diplomazia in un mondo afflitto da molteplici tensioni, Kissinger ha dato ancora una volta prova della costanza del suo pensiero, ha espresso le esigenze e la portata della sua lettura delle relazioni internazionali, irriducibili alle mode come nonché ad ogni facile appropriazione e che possiamo qualificare, per riassumere la formula, come realismo storico. Mostrandosi animato, all’alba del suo 99° compleanno, da un’irresistibile libertà intellettuale, ha, nel dialogo così instaurato con Klaus Schwab e con Graham Allison, criticando l’opinione più attuale, ha ricordato l’interesse universale a favorire, nella condotta delle relazioni internazionali e per garantire la pace globale, frutto di una razionalità concreta, forte del lungo tempo della storia.

Realismo storico

Agli occhi di Kissinger, innanzitutto, sembra innegabile che il popolo ucraino stia attualmente dimostrando eroismo. Ma l’ardore dispiegato nei combattimenti, da qualunque parte provenga, non basta certo a risolvere la crisi. Indica quindi che per quanto riguarda la storia e la geografia, che fanno della Russia un garante degli equilibri europei e dell’Ucraina una marcia, si dovrà trovare un compromesso diplomatico che permetta di ristabilire la pace. Facendo riferimento all’articolo da lui pubblicato nel 2014, Kissinger ritiene che “l’obiettivo ultimo” da privilegiare in vista della stabilità, anche se il contesto attuale è diverso, dovrebbe essere quello di erigere l’Ucraina in “una specie di Stato neutrale.Deplora, infatti, che invece questo Paese sia diventato o sia tornato, se si ricorda la sua storia, in prima linea tra raggruppamenti di Paesi in Europa.

Questa soluzione negoziata non va quindi ricercata, secondo lui, in una forma di escalation incontrollata, che avrebbe l’effetto di rigettare la Russia in seno alla Cina. Un simile sviluppo non mancherebbe ovviamente di apparire controintuitivo, in quanto si impadronirebbe del meccanismo del pendolo triangolare, che in precedenza aveva consentito agli Stati Uniti di controbilanciare le ambizioni di una di queste due potenze giocando un rapporto costruito con l’altra.

L’obiettivo così proposto da Kissinger, il negoziato ritorno allo status quo attraverso il riconoscimento di un’Ucraina neutrale, non va necessariamente contrapposto all’analisi che era stata quella di Zbigniew Brzeziński in The Grand Chessboard. Riprendendo, a sostegno della sua tesi, le categorie forgiate da Halford Mackinder, per il quale l’egemonia mondiale dipendeva dal predominio esercitato sul cuore della terra che è l’Eurasia, Brzeziński vedeva nello stato ucraino un importante “perno geopolitico”, la cui indipendenza poteva contenere le ambizioni imperiali russe. Conserviamo dalla sua analisi la famosa frase: “Senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero eurasiatico. »

La conseguenza che Brzeziński ne trae è che l’indipendenza dell’Ucraina dovrebbe essere garantita affinché la Polonia non diventi a sua volta un perno geopolitico sul confine orientale dell’Europa unita.

In effetti, la prospettiva aperta da Kissinger, che certamente segue un metodo di analisi diverso da quello di Brzeziński e non condivide la visione del mondo di quest’ultimo, non include alcuna messa in discussione dell’indipendenza dell’Ucraina: fa semplicemente della diplomazia la chiave per ristabilire un equilibrio. E se Brzeziński metteva in guardia gli Stati Uniti e l’Europa dagli appetiti russi, per evitare che un’ipotetica annessione dell’Ucraina avesse la conseguenza di trasformare a sua volta la Polonia in un “perno geopolitico”, Kissinger comprende che, al contrario, l’integrazione dell’Ucraina nelle alleanze occidentali sarebbe portare, del resto, a una situazione equivalente, in cui, concretamente, Russia e Occidente si troverebbero a diretto contatto. La paura di vedere presto la Russia,

Si può presumere che il presidente Biden, da sempre particolarmente preoccupato per l’Ucraina, veda nel conflitto armato di cui quest’ultima è teatro un’occasione imperdibile per indebolire la Russia. È per una tale ragione geopolitica che gli Stati Uniti ei loro alleati stanno consegnando un grande volume di armi all’Ucraina. L’Occidente sotto l’egemonia americana intende quindi porre fine alle ambizioni strategiche della Russia, sottoponendola alla prova di un duro logoramento.

Dai priorità alla diplomazia

Per Kissinger, l’attrito decisivo di una grande potenza in una regione instabile, a rischio di scatenare una guerra generalizzata e catastrofica, non può costituire di per sé un obiettivo. Lungi dal sopravvalutare la geografia di Mackinder, il realismo storico kissingeriano mira all’equilibrio e favorisce la conservazione dell’ordine mondiale. Pesa la posta: un’Ucraina dello status quo ante , indipendente ma neutrale, gli sembra preferibile a un’Ucraina totalmente integrata nei gruppi occidentali, che si ritroverebbero quindi vicina di una Russia umiliata in preda al risentimento.

Allontanandosi dalla tradizione di ostilità viscerale nei confronti della Russia condivisa da molti suoi connazionali, Henry Kissinger ha mostrato la sua preferenza per la razionalità dei diplomatici e ha ritenuto necessario che i protagonisti del conflitto ucraino si impegnassero in seri negoziati entro “due mesi”.

Di fronte a questo ritorno allo stato di guerra, Kissinger ha sostenuto la diplomazia, l’unico modo per ristabilire l’equilibrio. Perché Henry Kissinger attribuisce tanta importanza al concetto di equilibrio? Perché l’equilibrio si applicava alle relazioni internazionali, come ha insistito nella sua tesi sulla composizione diplomatica della situazione in Europa dopo la caduta di Napoleone, è sinonimo di pace globale in un mondo sempre più instabile, caratterizzato dal moltiplicarsi degli attori e sotto la minaccia nucleare. L’equilibrio non passa, però, per un’alienazione degli interessi di ciascuna potenza. L’interesse nazionale resta il concetto normativo che spiega il comportamento degli enti sovrani sulla scena mondiale, ma deve essere conciliato concretamente, attraverso la diplomazia, con le ambizioni concorrenti di altri poteri.

Così il concetto di interesse nazionale rimane significativamente diverso dalla volontà di potenza, la quale, decorrelata dalla realtà plurale del mondo, può tragicamente obbedire a una motivazione molto astratta. Come sottolinea Jeremi Suri nella sua analisi della diplomazia kissingeriana, l’interesse nazionale è al centro di una vera ed essenziale “strategia del limite “.

Distinto dalla pura volontà di potenza, l’interesse nazionale, come un diamante da lucidare, deve essere rigorosamente delimitato e adattato rispetto alle forze reali a nostra disposizione e alla configurazione di potere in cui l’azione pianificata deve inserirsi. Per sua definizione molto concreta, l’interesse nazionale si distingue necessariamente dalle rivendicazioni ideologiche, il cui oggetto è per natura illimitato e che spesso sono agitate per manipolare le masse.

In hollow quindi, la scommessa kissingeriana, che in questo caso si oppone all’overbidding dei media, porta a considerare che Vladimir Putin, la cui politica è violenta e condannabile, non sarebbe per niente animato da una pura volontà di potenza. giocherebbe ancora il gioco dell’interesse nazionale. Considerato indipendentemente dalla propaganda che sta attualmente diffondendo, lo scopo geopolitico del potere russo, così come formulato almeno dal conflitto georgiano dell’agosto 2008, consentirebbe comunque di attribuirle una presunzione di razionalità, anche se questa razionalità è contraria, è vero, a quello di altri poteri. In una parola, le pretese russe sarebbero limitate ed è proprio questa limitazione che permette a Kissinger di considerare la possibilità di una soluzione diplomatica a breve o medio termine.

Riferimento alla storia

Il riferimento alla storia, così tipico della cliopolitica kissingeriana 2] , che pone il consigliere di Richard Nixon in linea con l’ Historismus di Leopold von Ranke , sembra avvalorare questa analisi, in virtù della quale si deve considerare che la Russia fa parte dell’Europa, dove essa deve svolgere un ruolo speciale, anche se l’attuale conflitto sembra tracciare i contorni di un’altra geopolitica.

Questo ruolo storico consisterebbe nel consentire l’equilibrio europeo, nell’esserne catalizzatore, come accadde alla fine dell’epopea napoleonica e negli anni successivi, poi alla Germania prima del 1939, infine, nell’ultima fase della guerra mondiale II. La chiave di lettura della crisi attuale ci verrebbe così data dalla storia.

Attraverso le sue osservazioni, Henry Kissinger colloca il conflitto armato in corso, molto localizzato, nel contesto di una più ampia evoluzione geopolitica che si manifesterebbe e la cui posta in gioco sarebbe la configurazione dell’equilibrio mondiale. Osserva che la tentazione occidentale di intensificarsi, negando la diplomazia, avrebbe il probabile effetto di indurre la Russia ad allontanarsi definitivamente dall’Europa e ad avvicinarsi alla Cina, principale concorrente degli Stati Uniti. Per Kissinger, lasciare che la Russia si appoggi alla Cina e si allontani dall’Europa, in un contesto di forte conflitto, non sembra un risultato auspicabile. Un tale sviluppo non mancherebbe di mettere l’uno contro l’altro due campi, polarizzati rispettivamente da Washington e Pechino, e di minare l’ordine mondiale,

Il rapporto tra gli Stati Uniti da un lato e la Cina dall’altro rimane infatti strutturante per l’ordine mondiale. Dà la matrice dell’equilibrio internazionale. Come fa notare Henry Kissinger, la questione centrale del rapporto sino-americano nella fase a cui è giunta è l’instaurazione di una struttura di cooperazione in grado di garantire la stabilità del mondo. La questione taiwanese sorge certamente; e Kissinger ricorda che questo è un vecchio problema, che sarà sempre preso in considerazione. Allo stesso tempo, afferma che questo problema non dovrebbe cancellare la necessità di un modus vivenditra le due potenze rivali, che hanno la reciproca capacità di distruggersi a vicenda, né l’emergere di una nuova strutturazione del concerto internazionale, che faccia spazio a potenze in divenire, come India e Brasile, e da cui dipende, in definitiva, la stabilità dell’ordine mondiale.

Le questioni sollevate dalle attuali tensioni internazionali possono essere risolte, secondo Henry Kissinger, solo attraverso i canali diplomatici.

I negoziati tra le parti presenti permetterebbero probabilmente il ritorno a una forma di stabilità nell’Europa orientale, di cui la neutralità di un’Ucraina ancora indipendente potrebbe essere la condizione principale. Così l’analisi dell’ex Segretario di Stato americano si unisce a quella del pensatore realista John Mearsheimer [10] , il quale, in occasione della crisi ucraina del 2014, aveva evidenziato l’interesse, sia per l’Alleanza Atlantica che solo per la Russia, a rimanere territorialmente separati da uno spaccato di stati neutrali.

Il messaggio principale di Kissinger non è quindi, nonostante le interpretazioni più rapide che sono state date alle sue osservazioni, che l’Ucraina dovrebbe acconsentire a concessioni territoriali. Sul punto, si può sottolineare che l’Ucraina ha acconsentito già prima dell’offensiva russa. Le sue osservazioni mirano a sottolineare l’urgenza della diplomazia in un clima di superiorità, di fronte a un mondo attraversato da tensioni, e la necessità di collegare ogni soluzione diplomatica con la più ampia definizione di un nuovo equilibrio globale tra le principali potenze, dialogo la cui strutturazione dovrebbe prevenire qualsiasi pericolosa escalation.

Con innegabile costanza, Henry Kissinger riformula la preoccupazione espressa, nel 2015, in un libro dal titolo esplicito [11] e invita i suoi ascoltatori, per il successo della pace, a non rinunciare a consolidare L’Ordre du monde .

https://www.revueconflits.com/kissinger-lukraine-et-lordre-du-monde/

 

Perché gli intellettuali russi stanno rafforzando il sostegno alla guerra in Ucraina, Scritto da Anatol Lieven

Inorridite dall’invasione, le élite centriste come Dmitri Trenin sentono comunque che gli Stati Uniti stanno usando il conflitto per distruggere il loro paese.

Un articolo di Dmitri Trenin, intitolato “Come la Russia deve reinventarsi per sconfiggere la ‘guerra ibrida’ dell’Occidente: l’esistenza stessa della Russia è minacciata”, potrebbe essere uno dei più rilevanti pubblicati in Russia negli ultimi tempi, in parte per quello che dice, e in parte per chi lo dice.

Il dottor Trenin, direttore del Carnegie Moscow Center fino alla sua chiusura da parte del governo russo ad aprile, è stato per molti anni una delle più importanti voci pragmatiche russe a sostegno della cooperazione con l’Occidente e dell’“occidentalizzazione” della Russia. Fu una delle poche figure russe a conservare ancora alcune delle speranze di Gorbaciov per una “casa comune europea”. (Devo dire che conosco il dottor Trenin da quando ero giornalista britannico a Mosca negli anni ’90, e sono stato suo collega al Carnegie Endowment for International Peace tra il 2000 e il 2004).

Il significato dell’articolo di Trenin sta nelle prove che fornisce di un consolidamento delle élite intellettuali russe a sostegno dello sforzo bellico in Ucraina. Non è in molti casi per il desiderio di conquistare l’Ucraina (molte delle figure che hanno aderito a questo nuovo consenso erano fortemente contrarie all’invasione e detestavano Putin), ma per una sensazione sempre più forte che gli Stati Uniti stiano cercando di usare la guerra in Ucraina per paralizzare o addirittura distruggere lo stato russo, e che ora è dovere di ogni cittadino russo patriottico sostenere il governo russo.

Trenin scrive:

“[Gli] Stati Uniti e i loro alleati hanno fissato obiettivi molto più radicali rispetto alle strategie di contenimento e deterrenza relativamente conservatrici utilizzate nei confronti dell’Unione Sovietica. Stanno infatti cercando di escludere la Russia dalla politica mondiale come fattore indipendente e di distruggere completamente l’economia russa. Il successo di questa strategia consentirebbe all’Occidente guidato dagli Stati Uniti di risolvere finalmente la “questione Russia” e creare prospettive favorevoli per la vittoria nel confronto con la Cina. Un simile atteggiamento da parte dell’avversario non lascia spazio ad alcun dialogo serio, poiché non c’è praticamente alcuna prospettiva di un compromesso, in primis tra Stati Uniti e Russia, basato su un equilibrio di interessi. La nuova dinamica delle relazioni russo-occidentali comporta una drammatica rottura di tutti i legami e una maggiore pressione occidentale sulla Russia (lo stato, la società, l’economia,

Così continua:

“È la stessa Russia che dovrebbe essere al centro della strategia di politica estera di Mosca in questo periodo di confronto con l’Occidente e riavvicinamento con gli Stati non occidentali. Il Paese dovrà essere sempre più da solo…” Ristabilire” la Federazione Russa su basi politicamente più sostenibili, economicamente efficienti, socialmente giuste e moralmente solide diventa urgentemente necessario. Dobbiamo capire che la sconfitta strategica che l’Occidente, guidato dagli Stati Uniti, sta preparando alla Russia non porterà la pace e un successivo ripristino delle relazioni. È altamente probabile che il teatro della “guerra ibrida” si sposterà semplicemente dall’Ucraina più a est, ai confini della Russia, e la sua esistenza nella sua forma attuale sarà contestata… Nel campo della politica estera, l’obiettivo più urgente è chiaramente quello di rafforzare l’indipendenza della Russia come civiltà… Per raggiungere questo obiettivo nelle condizioni attuali – che sono più complesse e difficili di quelle recenti – è necessaria un’efficace strategia integrata – politica generale, militari, economici, tecnologici, informativi e così via. Il compito immediato e più importante di questa strategia è raggiungere il successo strategico in Ucraina entro i parametri che sono stati fissati e spiegati al pubblico”.

Questo è un appello alle riforme, comprese le misure anticorruzione; ma esplicitamente parte di una strategia di rafforzamento della Russia e della società russa al fine di resistere all’Occidente e raggiungere obiettivi strategici limitati della Russia in Ucraina. Particolarmente sorprendente è l’appello di Trenin al rafforzamento della Russia come “civiltà” separata, un’idea che non avrebbe mai sostenuto negli anni precedenti.

Sarebbe facile respingere il cambiamento di Trenin (ora membro del Consiglio per la politica estera e di difesa della Russia) semplicemente come una questione di piegarsi alle pressioni del regime. Ciò significherebbe tuttavia ignorare che egli rappresenta solo, in una forma più brusca e radicale, un cambiamento nell’intellighenzia centrista russa che si è andata consolidando gradualmente per molti anni.

Per un certo periodo, dalla caduta dell’Unione Sovietica alla metà degli anni ’90, l’atteggiamento della maggior parte dell’intellighenzia russa nei confronti dell’Occidente è stato di cieca adulazione, e il cambiamento da questo ha attraversato tutta una serie di fasi. Il cambiamento è iniziato con la decisione di espandere la NATO, generalmente vista in Russia come un tradimento. La paura dell’espansione della NATO è cresciuta con l’attacco della NATO alla Serbia durante la guerra del Kosovo. L’invasione americana dell’Iraq nel 2003 è stata ampiamente vista come una prova che gli Stati Uniti desideravano imporre regole ad altri che non avevano intenzione di mantenere.

Un punto di svolta chiave è arrivato con l’offerta di una futura adesione alla NATO all’Ucraina e alla Georgia nel 2008, seguita dall’attacco georgiano alle posizioni russe nell’Ossezia meridionale e dalla falsa rappresentazione da parte dell’Occidente di questo come un attacco russo alla Georgia. Il sostegno occidentale alla rivoluzione ucraina del 2014, generalmente vista in Russia come un colpo di stato nazionalista contro un presidente eletto, ha infine condannato il vero riavvicinamento tra gli intellettuali centristi russi e le loro controparti occidentali.

Tuttavia, le speranze russe in una qualche forma di compromesso limitato con l’America o con l’Europa sono rimaste per molti anni. Realisti fino in fondo, membri dell’establishment russo, trovarono difficile capire perché l’America, di fronte a problemi intrattabili in Medio Oriente e all’ascesa di una potente Cina, non cercasse di ridurre le tensioni con la Russia, molto meno pericolosa. Allo stesso modo, erano sconcertati da quello che hanno visto come un fallimento europeo nel capire che con la Russia come amica, non avrebbero affrontato alcuna minaccia militare nel loro stesso continente.

Tre sviluppi in particolare mantennero vive queste speranze. In primo luogo, l’intermediazione francese e tedesca dell’accordo di pace “Minsk II” sul Donbas nel 2015 ha permesso ai russi di credere nella possibilità di un accordo con Parigi e Berlino sull’Ucraina, anche se questa speranza è svanita poiché francesi e tedeschi non hanno fatto nulla per convincere l’Ucraina ad attuare effettivamente l’accordo. Poi l’elezione di Donald Trump nel 2016 ha fatto sperare in un’America più amichevole, in una divisione tra Europa e America, o in entrambe. E infine, l’assegnazione delle priorità alla Cina come minaccia da parte dell’amministrazione Biden ha riacceso le speranze di una ridotta ostilità degli Stati Uniti nei confronti della Russia.

Le speranze russe di cooperazione con Francia e Germania potrebbero rinascere se questi governi cercano una pace di compromesso in Ucraina, con o senza gli Stati Uniti. In mancanza di ciò, tuttavia, l’articolo di Trenin indica che non solo la cerchia ristretta di Putin, ma gran parte dell’establishment russo più ampio, si avvicinerà alla guerra in Ucraina con uno spirito di cupa determinazione, almeno fino a quando non ci sarà la possibilità di un accordo di pace che soddisfi i fondamentali condizioni russe.

Ora, la determinazione di un analista politico di Mosca, ovviamente, è una cosa diversa e meno impegnativa della determinazione richiesta a un soldato russo che combatte l’Ucraina. Tuttavia, è potenzialmente un importante contrappunto alla speranza in molte capitali occidentali per un crollo precoce della volontà collettiva russa di combattere, o un colpo di stato d’élite contro Putin.

Sembra esserci una crescente convinzione nelle élite russe – inclusi molti che sono rimasti inorriditi dall’invasione stessa – che gli interessi vitali, e forse anche la sopravvivenza, dello stato russo siano ora in gioco in Ucraina. A differenza delle masse russe, queste figure ben informate non hanno subito il lavaggio del cervello dalla propaganda di Putin. La maggior parte di loro vede abbastanza chiaramente lo spaventoso pasticcio in cui la Russia è finita in Ucraina e le terribili sofferenze inflitte ai comuni ucraini. Ma l’unico modo in cui sembrano vederne fuori è attraverso qualcosa che può almeno essere presentato come una vittoria.

https://responsiblestatecraft.org/2022/06/06/why-russian-intellectuals-are-hardening-support-for-war-in-ukraine/

Aldo Giorgio Salvatori, Naufragio nel contromondo, a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Aldo Giorgio Salvatori, Naufragio nel contromondo, Solfanelli 2022, pp. 196, € 13,00.

Il contromondo di cui scrive l’autore nel libro è quello della nostra post-modernità, c.d. “liquida”, nel senso che non riesce a costituire certezze, tanto meno relativamente stabili e condivise.

Oggi di doveri si parla poco, i desideri – anche quelli meno sentiti dai più, diventano diritti e il passato viene valutato con i criteri “liquidi” del presente.

È così che sono giudicati personaggi spesso per prese di posizione poco rilevanti e (del tutto) decontestualizzate. Churchill, Mozart, Dante, Philip Roth diventano oggetto di disapprovazione, a dispetto della loro statura politica e letteraria – completamente dimenticata – per la misoginia di qualcuno o per avere messo all’inferno i sodomiti (come fece Dante).

Salvatori cita notizie, articoli, spot, mostrando come il pensiero unico si emani in tante affermazioni e campi spesso assai distanti. Questo in succinti capitoli i quali espongono come da un’unità di ispirazione (e direttiva) si scenda nei temi più vari: pur mantenendo la stessa matrice e le stesse coordinate.

A chiedersi qual è la matrice comune di opinioni che spaziano dal gender ai migranti, dal clima all’animalismo, dal razzismo ai vaccini, le risposte sono plurime. Ma una sovrasta – ancorché non esaurisca le altre: è che il “contro-mondo” vive in un presente soggettivo, e in base a quello giudica. Presente perché applica gli idola contemporanei; soggettivo perché non si pone il problema del common sense, della condivisione comunitaria dei criteri di giudizio. É un’ipertrofia dell’ego, che sostituisce l’obiettività con la buona convinzione. Qualche decennio fa un pensatore come Julien Freund notava la direzione del percorso del pensiero occidentale poi sviluppatosi fino ad oggi consistente nello spingere all’estremo i principi che l’hanno caratterizzato. Così il Rinascimento europeo, il cui  connotato saliente era la razionalizzazione, nella fase decadente si trasforma nel di esso estremo, cioè nell’intellettualizzazione. Perdendo sia il legame con la realtà che il senso della misura, che l’avevano connotato per secoli. Spesso diventa un pensiero razioide, senza alcun legame con la realtà; in altri non commisura scopo e mezzi, privilegiando l’intenzione di ottenere quello senza badare a questi. Sintomi sicuri di decadenza.

Il contro-mondo, nel quale rischiamo di naufragare è la decadenza. E questo saggio, anche con gradevole ironia, può essere una ciambella di salvataggio.

Teodoro Klitsche de la Grange

Potere e diritto: potestas e sovranità #7, di PIERRE LOUIS BOYER

Continuiamo a pubblicare gli articoli di “Conflits”, parte del dossier dedicato al concetto di potenza. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Nessun potere senza diritto. Giuristi e giuristi hanno riflettuto sui rapporti e sui legami del diritto di famiglia con il diritto internazionale, ponendo il riflesso della potestas e della sovranità.

Pierre-Louis Boyer è Preside della Facoltà di Giurisprudenza, Professore HDR presso l’Università di Le Mans.

Se la questione giuridica è intrinsecamente legata a quella del potere, è soprattutto che il potere segna un legame di dominio tra l’essere e la cosa, anche tra due esseri. Tuttavia, qualsiasi rapporto, o almeno qualsiasi regolamento di rapporto è, in sostanza, legale, l’adagio di Ulpiano tratto dal Digesto che fa legge “l’attribuzione a ciascuno di ciò che gli è dovuto” [1] e, per citare Platone , “La giustizia consiste nel rendere a ciascuno ciò che è opportuno  ” [2] . Lo stesso Montesquieu ha sottolineato questo legame tra potere e diritto, distinguendo tre forme di potere: quella di dettare legge, quella di regolare le relazioni internazionali, quella di regolare quelle interne:“Ci sono, in ogni Stato, tre tipi di poteri; il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti , e il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile .

In giurisprudenza esistono diverse applicazioni e definizioni della nozione di “potere”, ma che si tratti del potere esercitato o del titolare di tale potere, come può essere il potere pubblico o un “potere estero”, il potere resta l’attuazione da parte del titolare di un’autorità della sua capacità di imporre la propria volontà a un terzo. Tra il potere “potere” e il potere “ente detentore del potere”, entrambi stabiliti dalla legge, si può individuare una riflessione complessiva relativa all’espressione di tale potere, ma anche ai suoi limiti e alle conseguenze del suo esercizio.

La potestas romana e la famiglia

Nel diritto romano, attraverso la nozione di “  potestas  ”, il potere è esercitato sia sulla respublica come entità politica sia sulla famiglia come cellula primaria della vita politica romana. Il potere tribunicio, tribunicia potestas , è il potere dei magistrati romani che poggia sui diritti giurisdizionali e coercitivi [4]  ; questo potere ha una portata quasi assoluta su tutto il corpo politico romano [5] , motivo per cui Polibio scrisse che il potere tribunico era imposto a tutti, anche ai consoli [6]. Il potere paterno, dal canto suo, implica anche un potere legale e coercitivo, questa volta del padre di famiglia nei confronti del figlio, la patria potestas che fa del paterfamilias un giudice all’interno della cerchia familiare. Tuttavia, questo giudice è investito di tale potere da poter imprigionare, vendere o anche mettere a morte il figlio in potestate , cioè il figlio posto sotto il potere di questo giudice paterno [7] . Questo potere legalmente fondato deriva da questa prerogativa del diritto di vita e di morte del padre sul figlio, vitae necisque potestas , che si ritiene abbia il suo fondamento nelle origini regie di Roma [8]e che è perpetuato dalla Legge delle XII Tavole che lo introduce, di fatto, nello jus civile [9] .

Tale potere paterno si è perpetuato nei secoli, o in una continuità prettamente romanistica, o in una forma germanica chiamata mainbournie, o anche in una forma più contemporanea e condivisa chiamata “autorità genitoriale”, essendo il potere paterno sostituito da quest’ultimo con la legge del 4 giugno 1970 che prevede che “il bambino, a qualsiasi età, deve onore e rispetto al padre e alla madre” [10] . Il potere paterno ha subito, con questa evoluzione legislativa, una bilateralizzazione della sua attribuzione e, di conseguenza, un’effettiva riduzione rispetto a tale condivisione. Tale declino è proseguito con la legge 4 marzo 2002, che ha consentito l’esercizio congiunto della potestà genitoriale, d’ora in poi qualificata come co-genitorialità.

La patria potestas romana , e l’approccio patrimoniale al legame tra il padre e il gruppo familiare, portarono anche al potere coniugale, cioè a questa preponderanza del marito sulla moglie, in particolare riguardo a determinati atti diritti legali consentiti o meno alla moglie. Il cosiddetto matrimonio cum manu poneva la donna sotto la tutela del marito, integrandola nel patrimonio del detentore del potere. Diversi secoli dopo, il Codice Civile non sfuggì a questo approccio patriottico , e fu solo dalla fine dell’Ottocentosecolo che il potere coniugale è stato, a poco a poco, amputato della sua portata. La legge del 6 febbraio 1893 liberò le donne dal potere matrimoniale e conferì loro piena capacità giuridica; quella del 9 aprile 1881 autorizzava la lavoratrice sposata a fare depositi e prelievi dalla cassa di risparmio senza l’autorizzazione del marito; quella del 13 luglio 1907 permetteva alle donne di disporre liberamente del proprio salario; la legge 18 febbraio 1938 conferiva alla moglie piena capacità civile; e la legge del 22 settembre 1942 autorizzava la moglie ad aprire un conto in banca senza l’autorizzazione del marito, portando alla soppressione del dovere di obbedienza della donna e alla scomparsa dell’autorizzazione matrimoniale.

Potere pubblico e sovranità

Al di fuori delle relazioni interne, il termine potere, in diritto, si riferisce al potere pubblico, cioè a tutte le prerogative dello Stato e, per analogia, allo Stato stesso nonché alle altre persone pubbliche da esso dipendenti. Si può allora parlare di “sovranità” come caratteristica di questo potere pubblico, cioè la qualità suprema di chi esercita tale potere, la sua summa potestas [11] , sull’ente politico a lui soggetto. Jean Bodin definì la sovranità come segue: “il potere assoluto e perpetuo di una Repubblica” [12] .Gli sviluppi delle teorie assolutiste sotto l’Ancien Régime fecero sì che il potere pubblico fosse definito, prima dell’era rivoluzionaria, come l’esercizio di poteri illimitati. Tuttavia, il concetto di potere pubblico contemporaneo è una creazione del Consiglio di Stato nel XIX secolo , la giurisdizione amministrativa arrivando ad affermare nel 1873 che il potere pubblico non era illimitato perché poteva essere ritenuto responsabile [13] . Il giudice amministrativo ha così affidato alla legge il potere pubblico [14]  ; lo “stato di diritto ha prevalso sull’imperialismo del potere pubblico” [15] .

La sovranità dello Stato, in quanto potere pubblico, è il più delle volte correlativa al suo potere internazionale. È in relazione alla sua capacità di gestire il proprio ordine interno che lo Stato può definirsi una potenza a livello internazionale, pur sapendo che i suoi mutamenti interni non modificheranno il suo status di potenza internazionale. È quindi in relazione alla sua capacità di essere Stato, cioè di affermare il suo potere pubblico, che lo Stato può essere una potenza internazionale. Resta che uno Stato, ai sensi del diritto internazionale (vale a dire di entità governativa e territorialmente indipendente) oscilla nell’affermazione del proprio potere internazionale secondo la propria forza interna. Uno stato indebolito vede diminuire il proprio potere internazionale. Sorge allora la domanda, dal punto di vista del diritto internazionale, se potrebbe esistere un potere pubblico internazionale senza un potere pubblico interno: l’ONU può essere considerata una potenza? L’Unione Europea, senza sovranità, e quindi senza potere pubblico, può essere considerata una potenza internazionale?

Limita la violenza

Possiamo anche osservare che la produzione del diritto, e in particolare i mezzi del diritto, sono tanti poteri che consentono di evitare il collasso della società limitando la violenza. Infatti, la violenza interna alla società, sia che si adotti un approccio girardiano o altro antropologico, può portare “all’eradicazione della specie di per sé” [16] . Tuttavia, di fronte all’arroganzadi una violenza il cui potere può rivelarsi illimitato e, di fatto, distruttivo, la legge si oppone a un potere di regolazione, a un potere di mantenimento dell’ordine sociale. Infatti, i mezzi del diritto che sono il diritto, o anche la giurisprudenza, consentono di affermare all’interno di un tessuto sociale un potere di controllo di questa violenza. Viene poi sminuito, incanalato, grazie alla legge. Ad esempio, nel nostro Codice Civile, proteggiamo la proprietà e nel nostro Codice Penale condanniamo il furto, in modo che non venga effettuato alcun attacco a questa proprietà. Il furto è sanzionato perché la proprietà è legittimata dal potere legale del proprietario sulla cosa, il dominio . Il potere dei mezzi del diritto viene a proteggere il potere del diritto. François Terré studia questo“potere della legge contro la violenza”, sottolineando che “la forza della legge esprime brillantemente un dominio sulla violenza” [17] . Per certi versi, il diritto come potere limitante della violenza potrebbe essere assimilato al presupposto per l’espressione della nozione (o anche della virtù) di forza. Non si parla in diritto, inoltre, di forza probatoria, di esecutività o addirittura di forza maggiore e forza di legge?

potere e responsabilità

Si noti tuttavia che la nozione di potere resta sempre legata, in diritto, a quella di responsabilità, mediazione, misura, equità ( epikeia , per usare un termine aristotelico), implicando che un potere non si mette in opera solo in cambio di responsabilità proporzionale. La patria potestas romana implica che il padre di famiglia, in quanto capo di un gruppo che partecipa al corpo politico, sia responsabile degli atti dei membri del suo gruppo, ma anche che si comporti da buon cittadino. Una colpa civica, un fallimento morale come un abuso di potere, può quindi portargli, tramite la nota censoria , una pena di ignominia, vale a dire un degrado cittadino. Parimenti, il potere paterno, divenuto potestà genitoriale con la citata legge del 1970, implica una responsabilità naturale nei confronti dei figli, detta legge prevedendo che  «spetta al padre e alla madre l’autorità di tutelare il bambino nella sua sicurezza, salute e morale. Hanno il diritto e il dovere di cura, vigilanza ed educazione nei suoi confronti”.

In questa stessa impostazione, il potere pubblico è concepito come manifestazione di sovranità nei servizi che lo Stato rende ai singoli, e quindi ha una finalità, “la direzione del corpo sociale nel senso della giustizia”, ​​e una doppia responsabilità, ” rispetto dei diritti altrui” [18] da un lato e, conseguentemente, il risarcimento del danno cagionato dal titolare del potere pubblico dall’altro.

Infine, i poteri internazionali hanno anche una duplice responsabilità inerente al loro status: una responsabilità nei confronti dell’ordine internazionale in quanto soggetti di diritto internazionale, e una responsabilità politica e morale nei confronti dei singoli che li compongono.

Il potere del singolare (padre di famiglia, cittadino, ecc.) poggia quindi sulla responsabilità di quest’ultimo nei confronti di questo universale che è il bene comune, e il potere di un’entità universale plurale (Stato, potere comunità internazionale, ecc.) si basa sulla sua responsabilità nei confronti dei cittadini. Il principio del potere crea responsabilità, la legge è quindi la ricerca della proporzionalità tra il potere costituito e la relativa responsabilità. È dunque proprio il potere dell’essere che genera la sua responsabilità, il potere dell’essere sull’atto che produce comporta quest’ultimo: «Un atto è imputabile a un agente quando quest’ultimo è il suo padrone. ( in potestate ) fino al punto di esercitare su di lui il suo dominio sovrano ( dominium )”[19] . 

Anche da leggere

Guerra di diritto e diritto di guerra

[1] D. 1, 1, 10.

[2] Platone, La Repubblica , 332c.

[3] Montesquieu, Sullo spirito delle leggi , IX.

[4] M. Youni, “Violenza e potere sotto la Roma repubblicana: imperium, tribunicia potestas, patria potestas”, Dialogues d’histoire canadienne , n° 45, 2019, p. 37-64.

[5] C. Nicolet, Roma e la conquista del mondo mediterraneo (264-27 aC) , t. I, Parigi, p. 398-399.

[6] Polibio, Storia , VI, 12, 2.

[7] Dionisio di Alicarnasso, Antichità romane , II, 26, 4 e II, 27, 1.

[8] Y. Thomas, “  Vitae necisque potestas . Il padre, la città, la morte”, Pubblicazioni della Scuola Francese di Roma , n° 79, 1984, p. 499-548.

[9] Y. Thomas, “Remarks on domestic competence in Rome”, in J. Andreau, H. Bruhns (dir.), Kinships and family strategy , 1990, Roma, French School of Rome, p. 449-474.

[10] Legge n.70-459 del 4 giugno 1970, JO 5 giugno 1970, p. 5227.

[11] Hobbes, Leviatano , XIII.

[12] J. Bodin, I sei libri della Repubblica , I, VIII.

[13] TC, 8 febbraio 1873, Blanco .

[14] J.-P. Théron, “About the legittimità del giudice amministrativo”, in J. Krynen e J. Raibaut (a cura di), La legittimità dei giudici , Tolosa, PUSST, 2004, p. 97-102.

[15] G. Bigot, Introduzione storica al diritto amministrativo , Parigi, PUF, 2002.

[16] M. Serres, Risposta al discorso di accettazione di René Girard all’Académie française, 15 dicembre 2005.

[17] F. Terré, “Sul fenomeno della violenza”, Archives de philosophie du droit , n° 43, 1999, p. 243-252.

[18] M. Hauriou, Précis de droit administratif , Paris, Larose e Forcel, 1893, p. 10.

[19] Tommaso d’Aquino, Summa Theologica , Ia-IIae, q. XXI, a. 2. c: “  Tunc autem actus imputatur agenti, quando est in potestate ipsius, ita quod habeat dominium sui actus  ”.

https://www.revueconflits.com/puissance-et-droit-la-potestas-et-la-souverainete/

TUTTI I DEMONI (PAN-DEMONIO), di Pierluigi Fagan

TUTTI I DEMONI (PAN-DEMONIO). “Meglio regnare all’Inferno, che servire in paradiso” scriveva Milton nel 1667 cioè a metà strada tra la Guerra civile e la Gloriosa rivoluzione inglese, la transizione alla società politica moderna. Negli ultimi venti anni ci siamo trovati a metà strada tra la fine del periodo moderno e qualcosa che ancora non ha forma, quindi nome e concetto.
La fenomenologia della transizione storica inizia giusto all’inizio del millennio dove scoppia la bolla finanziaria delle dot-com. O almeno così diciamo per non farla troppo complicata qui su un post. Una enorme massa di liquidità fittizia aveva gonfiato una bolla speculativa nei listini tecnologici che avevano segnato, in pochi anni, un +400%. Veloce l’ascesa, rovinosa la caduta. Il tutto, riferito ad un fatto economico del tutto insignificante (la nascita delle nuove compagnie digitali) che però era stato scambiato, negli Stati Uniti, per evento cataclismatico e vivificatore di una economia se non spenta, troppo piatta.
Ai tempi, tempi che provenivano dagli anni ’90, il decennio della fine dell’URSS, la nascita del WTO e di Maastricht, tutti presi dal trionfo del modo economico moderno e relativi sistemi liberali occidentali, c’eravamo convinti la storia fosse finita. La storia non la prese bene e decise di falsificare l’errata convinzione, presentandosi sulle ali di tre aviogetti picchiati in testa ad altrettanti, simbolici palazzi americani. Il tutto a nome di genti a noi ignote, circa 1,8 miliardi di credenti nell’islam, circa un quarto del mondo, circa il doppio degli “occidentali” (Europa unita più anglosfera). Genti ignote prima dell’evento, ma anche dopo visto che l’evento lo rubricammo alla cartella “terrorismo salafita”, senza capire bene da quel complesso stato di sistema provenisse.
Passano sette anni e di nuovo scoppia una bolla finanziaria, di nuovo in America, Paese-sistema che evidentemente ri-bolle. La bolla viene soffiata e scoppiata negli USA, ma la catena delle conseguenze nell’economia e società reale è tutta europea.
Pochi anni e l’intero mondo arabo prende le convulsioni, iniziando da una rivolta per il pane occorsa per una siccità in Ucraina e Russia. Ma l’accensione del fremito è una cosa, il disordine socio-politico sottostante un’altra. La fiammata viene presto spenta tranne che in un Paese, la Siria, dove l’incendio si innesta su una guerra civile che con l’allegra partecipazione di potenze geopolitiche, regionali e non, diventa conflitto bellico. Bilancio: 570mila morti, 2,8 milioni di feriti, 6milioni di rifugiati, altri 6milioni di sfollati. A parte i siriani, dal 2015 ad oggi arriveranno in Europa circa 2 milioni di migranti, una inezia statistica, ma un serio problema data l’approssimazione logistico-sociale delle nazioni più esposte.
Nel mentre, la Cina che era solo il 12% del Pil USA al 2000, entra nel WTO e continua la sua crescita mossa da gatti del cui colore i pragmatici cinesi decidono di non curarsi. la Cina arriverà al 70% del Pil Usa dopo venti anni, promettendo di pareggiarlo al 2028. Ma occhio anche all’India, il 32% dell’economia britannica al 2000, il 105% oggi.
Sebbene molti allarmati studiosi abbiano invano cercato di far notare l’impressionante aumento di ogni parametro ecologico-climatico sin dagli anni ’70, per decenni i loro avvisi sono stati rubricati come paranoie di “abbracciatori di alberi”. Poi gli alberi hanno cominciato a bruciare e tra il quarto (2007) ed il quinto (2014) rapporto dell’IPCC, ci si è stupefatti del minaccioso incremento del calore. Il quinto rapporto (2021) la butta sul drammatico, ma tranquilli, è una invenzione della cricca di Davos, il clima è sempre cambiato, noi non c’entriamo nulla è una questione solare. Nessuno pare interessato alla ben più vasta problematica delle molteplici corruzioni delle ecologie mentre i negazionisti climatici, spesso finanziati dal complesso petro-carbonifero statunitense più una pattuglia di stupidi naturali, non s’avvedono che negli ultimi settanta anni: a) l’umanità si è triplicata; b) ormai tutta l’umanità usa il modo economico moderno nato in una isoletta del Mar del Nord con, ai tempi, cinque milioni di abitanti. In effetti, poiché la Storia è finita, perché perdere tempo a leggere cosa è successo nel tempo?
Scontri di civiltà? Collassi a ripetizione del sistema economico-finanziario? Crescita stentata occidentale e poderosa orientale? Conflitti e migrazioni? Febbre climatica e vistosi disequilibri ambientali? Probabilmente bias percettivo della mente catastrofista, eccesso di clamore dell’infosfera, false cause per alimentare la distruzione creatrice necessaria a creare “valore” sempre nuovo.
Arriva così una pandemia, neanche l’1% di morti nel mondo, eppure un bel casino multidimensionale con impatti diretti ed indiretti sulle nostre vite, prima psico-sociali, poi economici. Quando poi l’economia tenta la ripresa, travolge la logistica ed i mercati e scopre che il mondo è organizzato a standard che mal sopportano gli eventi fuori standard, non importa se in negativo o in positivo. È un fatto di incompatibilità tra logica lineare ed oscillatoria, ordine e complessità a volte tendente al caos.
Vabbè dai, arriva il PNRR e ci riprenderemo almeno economicamente, il resto lo vedremo con calma e per piacere. Ma per dispiacere, quel manigoldo pazzo russo con il cancro, invade lo stato vicino con una forza armata, lui prima potenza nucleare contro un Paese un po’ disgraziato ma con dietro l’altra prima potenza nucleare. Dopo qualche settimana, appena, è tutto un fiorire di minacce di reciproca nuclearizzazione, spuntano armi dappertutto, l’Europa fa guerra al suo fornitore di energia senza in realtà poterne fare a meno sul serio e così incendiando i prezzi quindi aumentando i soldi che sempre più gli dà. S’infiamma l’inflazione, manca il grano, le materie prime schizzano nell’iperspazio, la globalizzazione è ripudiata, ora il titolo in cartello recita “democrazie vs autocrazie”. L’altro giorno mi pare che la NATO abbia anche dichiarato anche guerra al PKK, ci sta.
Poiché la nostra mentalità ha le dimensioni di spazio e tempo della formica operaia, talvolta soldato, non importa che la questione del grano e delle materie prime s’era già detta tre mesi fa, così non importa che JP Morgan a nome di tanti altri analisti avvisi l’arrivo della fatidica “tempesta perfetta” economico-finanziaria entro tre-cinque mesi. Oggi è il tempo di più warfare e meno welfare! Come la civetta di Minerva, “noi” arriviamo sempre “dopo”, lì dove “dopo è tardi”.
Scriveva l’altro giorno un mio contatto che la complessità “è quella cosa che poi ti fa dire che avresti dovuto pensarci prima”. Ecco forse chiarito il mistero del nome e del concetto dell’era verso cui stiamo transitando, l’era complessa. Che vogliate regnare nell’inferno e rispristinare l’innocenza del paradiso che tale non è mai stato ma rispetto ad oggi ci piace pensarlo così nel ricordo (sindrome del “paradiso perduto” per restare il tema miltoniano), dovete solo tener conto che una nuova era comporta nuove mentalità e nuovi modi di organizzare la vita associata. Questi secondi non li potremo costruire e prima immaginare se non cambiamo o almeno cominciamo a cambiare prima la mentalità.
Gli artigiani della mentalità sono gli intellettuali, i chierici si definivano una volta. Speriamo ce ne siano all’altezza della fase storica, altrimenti saranno guai molto seri. Diceva quello della civetta tardiva che il vero è l’intero, ma chi mai più è in grado di mettere assieme le cose del mondo? Diceva quell’altro che il pensiero non si può limitare a comprendere il mondo, deve cambiarlo, ma forse doveva anche aggiungere che per cambiarlo, prima bisogna comprenderlo.
Il pandemonio è dato sempre dai demoni che scappano dai circoli che non siamo in grado di chiudere, per tempo.
> La citazione è tratta da #Giancarlo Manfredi, Disaster Manager ovvero uno a cui il lavoro non mancherà…
NB_tratto da facebook

Kissinger e la lotta per la Russia, di Timofei Bordachev

Il recente discorso di Kissinger a Davos continua ad alimentare un importante dibattito, ancora una volta per lo più negletto in Italia. Il conflitto in Ucraina viene indicato ormai un punto di svolta delle dinamiche geopolitiche successive all’implosione della Unione Sovietica. In realtà è uno dei punti di precipitazione di un processo conclamato con il discorso di Putin alla conferenza di Monaco del 2007, in realtà avviato, anche nel suo significato profondamente simbolico, con il ritorno a mezza strada in volo a Mosca dell’allora Primo Ministro di Russia Primakov al momento dello scoppio della guerra della NATO alla Serbia. Contestualmente ai numerosi tentativi di recupero di un sistema accettabile di relazioni con gli Stati Uniti e l’Europa, Putin da almeno dieci anni ha cercato alternative sino a pervenire ad una scelta ormai definitiva. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Nel caso in cui la fase acuta del conflitto in Ucraina si riveli davvero molto lunga, come pare sia il caso, allora le elementari necessità di sopravvivenza costringeranno la Russia a liberarsi di ciò che la lega all’Europa. Valdai Club Program Direttore Timofei Bordachev .

Nel caso in cui il conflitto crescente dentro e intorno all’Ucraina non porti a conseguenze irreparabili su scala globale nel prossimo futuro, il suo risultato più importante sarà una demarcazione fondamentale tra Russia ed Europa, che renderà impossibile mantenere una neutralità anche in zone insignificanti e comporterà una sostanziale riduzione dei legami commerciali ed economici. Il ripristino del controllo sul territorio dell’Ucraina, che, molto probabilmente, dovrebbe diventare un obiettivo a lungo termine della politica estera russa, risolverà il principale problema della sicurezza regionale: la presenza di una “zona grigia”, la cui gestione diventa inevitabilmente l’oggetto di un confronto pericoloso dal punto di vista della progressiva tensione. In questo senso possiamo contare su una certa stabilizzazione nel lungo periodo, anche se non si baserà sulla cooperazione tra le principali potenze regionali. Tuttavia, è già evidente che la strada per la pace sarà abbastanza lunga e sarà accompagnata da situazioni estremamente pericolose.

Nel suo discorso ai partecipanti al forum di Davos, Henry Kissinger, il patriarca della politica internazionale, ha indicato proprio tale prospettiva come la meno desiderabile dal suo punto di vista, dal momento che la Russia allora “potrebbe alienarsi completamente dall’Europa e cercare una stabile alleanza altrove”, che porterebbe all’emergere di distanze diplomatiche sulla scala conosciuta nella Guerra Fredda. A suo avviso, i colloqui di pace tra le parti sarebbe il modo più conveniente per impedirlo; ciò comporterebbe la presa in considerazione degli interessi russi. Per Kissinger, questo significa che per certi aspetti la partecipazione della Russia al “concerto” europeo è un valore incondizionato, e la perdita di questo deve essere prevenuta finché rimane qualche possibilità.

Tuttavia, con tutto il massimo apprezzamento dei meriti e della saggezza di questo statista e studioso, la logica impeccabile di Henry Kissinger deve affrontare un solo ostacolo: funziona quando l’equilibrio di potere è determinato e le relazioni tra gli stati hanno già superato la fase del conflitto militare. In questo senso, segue certamente le orme dei suoi grandi predecessori: il Cancelliere dell’Impero Austriaco Klemens von Metternich e il Segretario agli Esteri britannico visconte Castlereagh, le cui conquiste diplomatiche furono oggetto della dissertazione di dottorato di Kissinger nel 1956. Entrambi passarono alla storia proprio come gli artefici del nuovo ordine europeo, instauratosi dopo la fine dell’era napoleonica in Francia e che persistette, con piccoli aggiustamenti, per quasi un secolo nella politica internazionale.

Come i suoi grandi predecessori, Kissinger appare sulla scena mondiale in un’era in cui l’equilibrio di potere tra i giocatori più importanti è già determinato da “ferro e sangue”. Il momento del suo più grande successo è stata la prima metà degli anni ’70, un periodo di relativa stabilità. Tuttavia, non si può ignorare il fatto che la capacità degli stati di comportarsi in quel modo non era dovuta alla loro saggezza o responsabilità nei confronti delle generazioni future, ma a fattori molto più prosaici. Il primo fattore fu il completamento del “restringimento” dell’ordine che assunse le sue caratteristiche approssimative a seguito della seconda guerra mondiale. Nei successivi 25 anni (1945 – 1970), questo ordine fu “finalizzato” durante la guerra in Corea, l’intervento degli Stati Uniti in Vietnam, le azioni militari dell’URSS in Ungheria e Cecoslovacchia, diverse guerre indirette tra l’URSS e gli Stati Uniti in Medio Oriente, il completamento del processo di disintegrazione degli imperi coloniali europei, nonché un numero significativo di eventi minori, ma anche drammatici. Quindi ora sarebbe difficile aspettarsi che la diplomazia riesca a prendere il primo posto negli affari mondiali nella fase iniziale del processo, che si preannuncia molto lungo e, molto probabilmente, piuttosto sanguinoso.

La base materiale di quell’ordine, a cui la diplomazia di Kissinger, la politica di “distensione” con l’URSS e la riconciliazione del 1972 con la Cina hanno dato il suo definitivo slancio, è stata la sconfitta strategica dell’Europa a seguito di due guerre mondiali nella prima metà del 20° secolo. Il crollo degli imperi coloniali europei e la storica sconfitta della Germania nel suo tentativo di essere al centro degli affari mondiali hanno portato in primo piano gli Stati Uniti; ciò che ha permesso di rendere la politica veramente globale. Come risultato dell’autodistruzione dell’URSS, questo ordine si rivelò di breve durata. Vediamo ora che questa è stata una grande tragedia, poiché ha portato alla scomparsa dell’equilibrio di potere a favore del predominio di un solo potere.

Ora possiamo presumere che la massiccia emancipazione dell’umanità dal controllo occidentale sia di fondamentale importanza, il fattore del quale più importante è la crescita del potere economico e politico cinese. Se la stessa Cina, così come l’India e altri grandi stati al di fuori dell’Occidente, faranno fronte al compito loro affidato dalla storia, nei prossimi decenni il sistema internazionale acquisirà caratteristiche sino ad ora del tutto inusuali.

La maggior parte degli eventi significativi che si stanno verificando ora, sia a livello globale che regionale, sono legati al processo oggettivo di crescita dell’importanza della Cina e, a seguire, di altri grandi paesi asiatici. La determinazione che la Russia ha mostrato negli ultimi anni, e soprattutto mesi, è anche associata ai cambiamenti globali. Il fatto che Mosca si sia alzata così intenzionalmente per proteggere i suoi interessi e valori non era dovuto solo a ragioni interne russe, sebbene siano di grande importanza. Né si basavano sulle aspettative di assistenza materiale diretta dalla Cina, che potesse compensare le perdite durante la fase acuta del conflitto con l’Occidente.

La principale fonte esterna della fiducia in se stessi della Russia è stata una valutazione obiettiva dello stato dell’ambiente politico ed economico internazionale, in cui anche una rottura completa con l’Occidente non sarebbe mortalmente pericolosa per la Russia dal punto di vista della risoluzione dei suoi principali compiti di sviluppo. Inoltre, proprio la necessità di un riavvicinamento più attivo con altri partner, che la Russia non ha sperimentato fino a poco tempo fa, potrebbe rivelarsi un modo molto più affidabile per sopravvivere in un ambiente in evoluzione.

Questo è ciò che viene compreso negli Stati Uniti e in Europa con la massima preoccupazione. Nel caso in cui la Russia, durante gli anni dell’emergente disimpegno dall’Europa, crei un sistema comparabile di legami commerciali, economici, politici, culturali e umani nel sud e nell’est, il ritorno di questo paese nell’area occidentale diventerà tecnicamente difficile, se mai realizzabile. Finora, un tale sviluppo di eventi è ostacolato da un numero colossale di fattori, tra i quali in primo luogo c’è l’inerzia della stretta interazione con l’Europa e la presenza reciproca attiva accumulata negli ultimi 300 anni. Inoltre, è stata l’Europa l’unico partner costante della Russia dopo l’apparizione di questa potenza nell’arena della cooperazione internazionale. Tuttavia, nel caso in cui la fase acuta del conflitto in Ucraina si riveli davvero molto lunga, come, a quanto pare, è il caso, allora le esigenze elementari di sopravvivenza costringeranno la Russia a liberarsi di ciò che la lega all’Europa. Questo è esattamente ciò che chiedono quegli studiosi e personaggi pubblici russi, che in tutti i modi sottolineano la natura esistenziale dello scontro in corso ai nostri confini occidentali.

Pertanto, è la comprensione da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati che il movimento verso un nuovo ordine mondiale ha basi oggettive che sono la fonte più importante della loro lotta con la Russia.

L’inevitabile ridistribuzione di risorse e potere su scala globale non può avvenire in maniera del tutto pacifica, sebbene l’irrazionalità di una guerra offensiva tra le grandi potenze, dato il fattore di deterrenza nucleare, ci fornisca qualche speranza per la conservazione dell’umanità. Nel mezzo della lotta che sta prendendo slancio, la Russia, come l’Europa, è, nonostante le sue capacità militari, un partecipante inferiore in forza alle principali parti in guerra: Cina e Stati Uniti. Pertanto, c’è una lotta per la Russia e c’è una possibilità in diminuzione per l’Occidente di vincere, che ora Henry Kissinger sta cercando di spiegare.

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La grande strategia dell’Inghilterra, di OLIVIER KEMPF

Un articolo importante non solo per la ricostruzione storica e per la comprensione delle scelte di un paese dal recente passato importante, ridimensionato nel ruolo presente, ma con grandi ambizioni ed una ineguagliata capacità di muovere ed influire indirettamente sulle dinamiche geopolitiche. Il conflitto in Ucraina e la polarizzazione proatlantica di quasi tutti i paesi del Nord ed Est Europa sono almeno in parte l’esito di questo retaggio. Importante perché è la filosofia di fondo adottata per trasmissione culturale e simbiosi politica dalla potenza egemone da ormai oltre un secolo, ma che probabilmente sta conoscendo una fase di transizione e di probabile declino per molti versi simile a quella vissuta dal Regno Unito a cavallo tra ‘800 e ‘900. Le classi dirigenti statunitensi, in realtà, stanno mostrando una minore flessibilità nell’affrontare la fase transitiva al multipolarismo, segno dell’acutezza dello scontro politico interno e dell’influsso di diverse componenti culturali, in particolare tedesca, proprie di una formazione sociale particolarmente composita e polarizzata, incapace al momento di una sintesi coerente. Buona lettura, Giuseppe Germinario

La grande strategia dell’Inghilterra

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L’Inghilterra è un’isola. L’osservazione è nota, ma i geografi emettono subito chiarimenti: l’Inghilterra è solo una parte dell’isola principale (Gran Bretagna) che condivide con il Galles e la Scozia, a cui si deve aggiungere l’Irlanda del Nord (Ulster) per costruire il Regno Unito, a cui va aggiunta la Repubblica d’Irlanda (Eire) per finire nelle isole britanniche. Tuttavia, nonostante questi dettagli, nonostante il desiderio di indipendenza (Irlanda o Scozia) o addirittura di autonomia, ogni francese di solito designerà l’altra sponda della Manica con questo nome comune dell’Inghilterra. La rivalità è ancestrale come spesso accade in Europa quando si parla di Francia: il 20°secolo ci ha parlato del nemico ereditario parlando della Germania, facendoci dimenticare l’inespiabile lotta con la maggiore Spagna nei secoli XVI e XVII in particolare Ma è vero che abbiamo un rapporto millenario, contrastato e complicato con l’Inghilterra.

L’Inghilterra è quindi questa terra degli Angli, popolo germanico che, tra gli altri, si stabilì nell’isola al tempo delle grandi invasioni. Perché non solo Cesare o Guglielmo il Conquistatore riuscirono a sbarcare lì, ma anche tedeschi e vichinghi. Ciò diede origine ad una curiosa mescolanza tra antiche radici celtiche, poi romane e francesi, a cui infine se ne aggiunsero altre, più barbariche. Questa filiazione multipla non va omessa se si pensa a questo Paese: può manifestare talvolta una grande ferocia e poi la sua flemma e la sua correttezza possono improvvisamente scomparire. La versione più civile di questo tratto caratteriale è la tenacia e la testardaggine. Tuttavia, ci volle l’Inghilterra per passare da un paese scarsamente popolato e isolato alla più grande potenza del mondo,

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Quando l’Inghilterra ha inventato la diplomazia dei diritti umani

Come spesso, tutto è iniziato con una sconfitta. Nel 1453, la battaglia di Castillon suonò la campana a morto per le ultime speranze inglesi di avere un punto d’appoggio nel continente: c’erano voluti duecento anni di guerra per giungere a questa conclusione: l’Inghilterra non avrebbe più il possesso diretto del continente europeo. Influenze ovviamente, possibilmente punti di appoggio (qui Gibilterra, là Malta o Cipro), sostenitori ovviamente, ma nessun territorio in quanto tale. L’Inghilterra tornò ad essere un’isola, in esclusiva. Dopo un Cinquecento segnato da una dichiarata autonomia (la creazione dell’Anglicanesimo), il Seicentosecolo conobbe molti problemi interni (prima rivoluzione, Rivoluzione gloriosa), ma si concluse con l’Atto di Unione del 1707 che legò la Scozia all’Inghilterra. È in un certo senso una prima colonizzazione e il Regno diventa il Regno Unito. Si stava aprendo un ciclo imperiale…

Le Americhe o commercio triangolare (XVII secolo )

Tuttavia, le sue prime fondazioni risalgono alla fine del XVI secolo . Infatti, la lotta contro l’impero spagnolo passò poi attraverso le lettere di razza consegnate ai corsari Francis Drake e John Hawkins, prima sulle coste del Nord Africa, poi fino alle Americhe. Dall’inizio del XVII secolo, l’Inghilterra stabilì i primi posti commerciali nelle Americhe e il Parlamento decretò che solo le navi inglesi potevano commerciare con le colonie inglesi Ciò portò a una serie di guerre con le Province Unite (Paesi Bassi) per tutta la prima metà del secolo, che permisero l’espansione dei possedimenti britannici: Giamaica nel 1655, Bahamas nel 1666. Nel continente americano, Jamestown fu fondata nel 1607 con la Compagnia della Virginia. Seguono altre colonie: Plymouth (1620), Maryland (1634), Rhode Island (1636), Connecticut (1639), Caroline (1663). Fort Amsterdam fu conquistata nel 1664 e ribattezzata New York, quando la Pennsylvania fu fondata nel 1681. Le colonie americane erano meno redditizie di quelle dei Caraibi, ma i vasti tratti di terra disponibili attirarono molti coloni. Nel 1670, la Compagnia della Baia di Hudson ricevette il monopolio delle terre scoperte in quello che sarebbe diventato il Canada.

Questo sistema doveva essere completato dalla fondazione nel 1672 della Royal African Company. Le condizioni economiche dei Caraibi, infatti, imposero un cambiamento nella coltivazione della canna da zucchero e quindi l’arrivo di molti schiavi neri. La popolazione africana delle isole passò dal 25% nel 1650 all’80% nel 1780 (e dal 10% al 40% nelle colonie americane, soprattutto quelle del sud). Da quel momento in poi, fu istituito un commercio triangolare con forti stabiliti nell’Africa occidentale per fornire schiavi alle colonie americane. Vengono deportati 3,5 milioni di africani (un terzo di tutte le vittime di questo traffico), il che garantisce la ricchezza di città come Bristol o Liverpool. Il primo impero britannico fu quindi americano.

L’Asia e la lotta contro i Paesi Bassi e la Francia ( XVIII secolo )

Alla fine del XVII secolo, Inghilterra e Paesi Bassi si interessarono all’Asia e al monopolio portoghese del commercio delle spezie. Se la Compagnia inglese delle Indie orientali fu fondata nel 1600 (l’America è ancora chiamata “Indie occidentali), furono gli olandesi a prenderne inizialmente il vantaggio, soprattutto perché i problemi politici interni inglesi ostacolavano il progresso. Dopo la Gloriosa Rivoluzione del 1688, Guglielmo d’Orange divenne re d’Inghilterra. Si raggiunge un accordo: agli inglesi il commercio dei tessuti, agli olandesi quello delle spezie. Ma a poco a poco il commercio del tè e del cotone si sviluppò e gli inglesi ne approfittarono all’inizio del 18° secolo .

L’Inghilterra era così riuscita a sconfiggere la potenza spagnola ea controllare la rivale navale olandese. Rimase al suo posto un ultimo avversario: la Francia. Ci vorrà un secolo per raggiungere questo obiettivo. Dal 1702 al 1714, l’Inghilterra ha preso parte alla coalizione contro la Francia durante la guerra di successione spagnola. Nel Trattato di Utrecht, l’Inghilterra riceve Gibilterra, Minorca e Acadia. Gibilterra è la principale risorsa strategica che blocca l’accesso al Mediterraneo.

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Dalla grandezza al declino

La Guerra dei Sette Anni iniziò nel 1756 e fu la prima guerra “mondiale”, viste le operazioni in Europa, India e Nord America. Nel 1763, al Trattato di Parigi, la Francia abbandonò la Nuova Francia (i famosi “arpenti di neve in Canada” derisi da Voltaire) all’Inghilterra e la Louisiana alla Spagna. In India, se la Francia mantiene le sue stazioni commerciali, deve abbandonare il suo piano di controllo del subcontinente. Il primo impero coloniale francese è dislocato. Parigi vorrà la sua vendetta e la otterrà qualche anno dopo appoggiando le colonie americane che si stanno ribellando contro Londra.

Tuttavia, la Compagnia delle Indie Orientali approfittò della nuova situazione: conquistò molti territori, amministrava più o meno direttamente, quindi organizzò un proprio esercito. L’India britannica divenne dalla fine del diciottesimo secolosecolo la più redditizia delle colonie britanniche e il “gioiello dell’Impero”. Contemporaneamente alla perdita delle tredici colonie americane durante la Guerra d’Indipendenza americana, resa possibile dal sostegno francese, in particolare dalla flotta di Grasse. L’Inghilterra mantenne alcuni possedimenti nei Caraibi e in Canada, ma ora si interessava principalmente all’Asia. Ha anche continuato la sua espansione in Oceania con l’esplorazione dell’Australia (James Cook) e della Nuova Zelanda. L’Australia inizialmente divenne una colonia penale (fino al 1840 circa) prima di sperimentare la corsa all’oro.

La lotta contro Napoleone portò alla doppia osservazione della difficoltà della lotta di terra e del vantaggio della preminenza navale, confermata dalla vittoria di Trafalgar nel 1805. I Trattati di Vienna riorganizzarono alcune colonie: Mauritius, Trinidad e Tobago o Sainte-Lucia , ma anche Ceylon o la Provincia del Capo tornarono a Londra, che restituì alla Francia Guadalupa, Martinica, Guyana e Riunione. L’inizio dell’Ottocento vide anche la progressiva abolizione della schiavitù (1833). Così, il diciottesimo secolo vide l’impero inglese spostarsi dall’America all’Asia. Questa tendenza si accentuò nel secolo successivo.

Il periodo di massimo splendore (1815-1914)

Un secolo d’oro imperiale si aprì allora per l’Inghilterra, che non ebbe più avversari marittimi e poté costituire una pax britannica legata ad una politica di splendido isolamento. Questa situazione geopolitica fu supportata da due rivoluzioni tecniche: il battello a vapore e il telegrafo consentirono a Londra di controllare l’impero che crebbe di 26 milioni di km².

Questo è stato il primo caso in Asia: Singapore e poi Malacca sono state conquistate, consentendo di estendere la rotta dall’India all’Estremo Oriente. Il commercio di oppio con la Cina è stato organizzato per bilanciare i deflussi di denaro legati all’importazione di tè cinese. L’opposizione cinese fu contrastata dalla prima guerra dell’oppio, conclusa dal Trattato di Nanchino, che concedeva a Londra il porto di Hong Kong. In India, la rivolta dei Sepoy (1857) non fu repressa. La Compagnia delle Indie Orientali viene sciolta, i suoi possedimenti trasferiti al Raj, il regime coloniale che gestirà il subcontinente. La regina Vittoria fu incoronata imperatrice d’India nel 1876.

La rivalità con la Russia (il Grande Gioco) iniziò all’inizio del XIX secolo, sullo sfondo del crollo degli imperi ottomano e persiano. L’Inghilterra tenta di conquistare l’Afghanistan senza molto successo (1842), mentre sconfigge la Russia nella guerra di Crimea (1853). L’Inghilterra annette il Balochistan (1876) mentre la Russia si impossessa del Kirghizistan, del Kazakistan e del Turkmenistan (1877). Fu finalmente firmato un accordo sulle sfere di influenza e la rivalità si spense completamente con l’accordo anglo-russo del 1907.

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Il dominio dell’impero asiatico si basava su un certo numero di staffette: Gibilterra, Malta, Cipro, attraverso il Mediterraneo, il Capo aggirando l’Africa, poi Oman, India, Singapore, Hong Kong. La Colonia del Capo era stata annessa nel 1806 e scatenò l’immigrazione britannica che si oppose ai boeri locali. Questi si trasferirono (il grande Trek) alla fine degli anni ’30 dell’Ottocento, fondando la Repubblica del Transvaal e lo Stato di Orange. La guerra boera (1899-1902) portò all’annessione di questi due stati nel 1902. All’altra estremità del continente, lo scavo del Canale di Suez collegava il Mediterraneo all’Oceano Indiano. Gli inglesi vi investirono e l’Egitto fu occupato nel 1882 dopo una rapida guerra. Poco dopo gli inglesi si spostarono a sud e alla fine sconfissero i Mahdisti del Sudan, poi respinse l’avanzata francese nell’Alto Nilo (Fashoda, 1898). Da quel momento in poi, il desiderio di collegare le colonie africane fece nascere l’idea di una ferrovia, idea spinta da Cecil Rhodes e che provocò nuove occupazioni, una delle quali prese il nome di Rhodesia in suo onore (futuro Zambia e Zimbabwe).

Altrove, le posizioni inglesi si stanno rafforzando. I territori nordamericani si estendono attraverso il continente fino al Pacifico (British Columbia, Northwest Territory, Vancouver Island). La questione dell’emancipazione delle colonie bianche è sorta abbastanza rapidamente. L’Atto di Unione del 1840 creò così la provincia del Canada, prima della creazione di un dominio nel 1867, paese dotato di totale indipendenza tranne che per quanto riguarda la diplomazia. Lo statuto fu adottato per l’Australia nel 1901, la Nuova Zelanda nel 1907 e il Sud Africa nel 1910. Il dibattito per l’applicazione di tale statuto all’Irlanda continuò per un’adozione tardiva nel 1914, troppo tardi per essere applicata: questa fu una delle cause dell’insurrezione del 1916 e della futura indipendenza della Repubblica d’Irlanda.

Potenza navale, maestria tecnica, invenzione economica, ma anche grande emigrazione, queste sono le ricette di questo grande impero mondiale che si estende dal Canada all’Africa, dalle varie staffette asiatiche (Oman, India e Hong Kong) all’Oceania. Già però l’invenzione dei domini suggerisce che questo dominio non può essere duraturo e che sarà necessario, a poco a poco, liberarlo fino al completo abbandono.

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Il declino

Le due guerre mondiali videro la relativizzazione del potere britannico. L’ascesa della Germania e la sfida posta al dominio navale sono una delle cause del cambio di posizione inglese e dell’alleanza con Giappone (1902), Francia (1904) e Russia (1907). Durante la prima guerra mondiale, i soldati dei Domini si allearono con gli inglesi. La battaglia dei Dardanelli segna quindi la coscienza nazionale australiana o neozelandese, proprio come la battaglia di Vimy Ridge fa per la coscienza canadese. Tuttavia, il Trattato di Versailles consente all’Impero britannico di trovare la sua massima espansione, con la messa sotto mandato di colonie precedentemente tedesche e ottomane. La Gran Bretagna conquistò così Palestina, Iraq, Togo, Tanganica, parte del Camerun.

Ma questi guadagni non nascondono il fatto che Londra deve comporre e lasciar andare la zavorra. Nel 1922 firmò il Trattato di Washington dove accettò la parità navale con gli Stati Uniti. L’indipendenza sta già prendendo piede. Un trattato creò lo Stato d’Irlanda nel 1921 (diventato una Repubblica nel 1937), mentre l’Egitto divenne ufficialmente indipendente nel 1922 e l’Iraq nel 1932. Una conferenza imperiale concesse ai domini il potere di gestire la propria diplomazia.

La seconda guerra mondiale completa l’indebolimento degli equilibri imperiali. Le colonie e l’India prendono parte al conflitto così come gli ex domini, l’Irlanda rimanendo neutrale. La caduta della Francia nel 1940 e la guerra combattuta dai giapponesi (offensiva contro Hong Kong e Malesia) lasciarono l’Inghilterra sola. La Carta atlantica del 1941 ha stretto un’alleanza con gli Stati Uniti, ma l’incapacità di difendere le colonie asiatiche ha inferto un duro colpo all’immagine della potenza britannica. Di certo la Gran Bretagna è stata una delle vincitrici indiscusse della guerra, che le ha conferito un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza della nuova ONU. Ma una pagina è stata irrimediabilmente voltata. L’impero aveva permesso a Londra di sconfiggere la Germania, ma era un contributo definitivo. Ora dovevamo andare avanti.

Decolonizzazione

Le elezioni del 1945 videro la sconfitta di Churchill e l’ascesa al potere dei Labour, sostenitori della decolonizzazione. La guerra aveva indebolito profondamente l’economia britannica, che era quasi in bancarotta, dalla quale Londra si salvò solo con un ultimo prestito americano. Tuttavia, in questa nascente guerra fredda, sia Mosca che Washington si opposero al sistema coloniale. Dal 1946 in India scoppiarono gli ammutinamenti che costrinsero a concedere l’indipendenza nel 1947 e la scissione in due stati, uno indù, l’altro musulmano, che causò massicci trasferimenti di popolazione. Birmania e Ceylon ottennero la loro indipendenza nel 1948. Anche la Gran Bretagna si ritirò dalla Palestina nel 1948, lasciando due stati che entrarono immediatamente in conflitto. Infine, La Malesia entrò in insurrezione nel 1948 fino ad ottenere l’indipendenza nel 1957 (Singapore se ne separò rapidamente nel 1965 mentre il Brunei rimase un protettorato fino al 1984). In Kenya, la ribellione Mau-Mau fu attiva dal 1952 al 1957.

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Conflitto di confine sino-indiano: colpa della colonizzazione britannica?

La crisi di Suez è una delle ultime manifestazioni dell’imperialismo. Volendo contrastare la nazionalizzazione del Canale di Suez da parte di Nasser, Londra unì le forze con Parigi e Tel Aviv per organizzare una spedizione. Questo fu un successo militare, ma la pressione combinata dell’URSS e degli Stati Uniti costrinse l’Inghilterra a ritirarsi, che all’epoca era sentita come una “Waterloo britannica”. Altri interventi ebbero luogo (Oman nel 1957, Giordania 1958, Kuwait 1961), ma la Gran Bretagna si ritirò da Aden e Bahrain alla fine degli anni 1960. Così la decolonizzazione inglese fu forse più rapida di quella francese ma conobbe anche vicissitudini e conflitti armati.

Gli anni ’60 videro la decolonizzazione dell’Africa. Il Sudan e la Gold Coast avevano già ottenuto la loro indipendenza nel decennio precedente, ma Londra si ritirò da tutti i suoi possedimenti, nonostante la presenza di popolazioni bianche in alcuni, in particolare la Rhodesia. Cipro divenne indipendente nel 1960, così come le colonie caraibiche (Giamaica e Trinidad, poi Barbados, Guyana, ecc.). Negli anni ’70, queste erano Fiji e Vanuatu. Le ultime indipendenze sono avvenute negli anni ’80: Honduras britannico (Belize) e Rhodesia (Zimbabwe). Un ultimo colpo di stato britannico ebbe luogo nel 1982 quando l’Argentina invase l’arcipelago delle Falkland. L’Inghilterra ha lanciato una spedizione militare alla fine del mondo per mantenere questo territorio definitivo. Nel 1984 è stato raggiunto un accordo con la Cina sul futuro status di Hong Kong,

Avanzi, eredità e significato geopolitico

La Gran Bretagna conserva ancora 14 “British Overseas Territories”, a volte disabitati, il più delle volte con varie autonomie. Alcuni sono contestati (Gibilterra, Falkland, ecc.). Un Commonwealth, che riunisce i territori precedentemente britannici, è stato istituito nel 1949 (30 milioni di km², 2,5 miliardi di abitanti). Questa organizzazione intergovernativa non prevede alcun obbligo tra i membri che sono accomunati da lingua, storia, cultura e valori. 15 dei 54 stati sono monarchie guidate dalla regina d’Inghilterra.

Questo impero, tuttavia, ha lasciato molti segni. Oltre a un’intensa emigrazione di britannici in tutto il mondo e che da allora sono diventati cittadini di paesi diventati indipendenti, l’Inghilterra ha prima condiviso la sua lingua. 400 milioni di persone la condividono come lingua madre e diversi miliardi come lingua di comunicazione (grazie all’influenza americana, è vero). Ma il modello politico britannico, il suo modello giudiziario, la sua cultura, i suoi sport (calcio, rugby, cricket, tennis, golf) ei suoi missionari hanno lasciato numerose tracce in tutto il mondo.

Questo impero raggiunse il suo apice poco prima della prima guerra mondiale. Non è un caso che Halford MacKinder pubblicò The Geographical Pivot of History nel 1904, che è il testo fondante della geopolitica anglosassone. Inventa il concetto di Heartland (l’isola globale composta da Eurasia e Africa) a cui si contrappongono le isole esterne (America e Australia). In quanto potenza navale, l’Impero britannico deve controllare l’emergere delle potenze continentali (la Germania ai suoi tempi). È quindi necessario controllare l’Heartland dall’esterno, dalle rive. Il tema sarà ripreso qualche anno dopo dall’americano Spykman che inventerà il concetto di Rimland.

I nostri lettori conoscono questa fondamentale contrapposizione tra i popoli della terra ei popoli del mare: questa è infatti la ragione principale della potenza inglese che ben presto ne accettò il carattere insulare e quindi navale. Sir Walter Raleigh spiegò presto (dall’inizio del diciassettesimo secolo ) il principio che l’impero avrebbe seguito nel corso dei secoli: “Chi detiene il mare detiene il commercio del mondo; chi detiene il commercio detiene ricchezza; chi detiene la ricchezza del mondo detiene il mondo stesso. Da lì nasce l’ambizione di “ Rule Britannia, domina le onde   .

Il mare, fonte di ricchezza, esso stesso fonte di potere: questo è in fondo il destino dell’Impero Britannico. Approfittando della scoperta di un nuovo mondo, stabilendo una prima ricchezza commerciale poi estendendo il suo interesse a nuovi possedimenti sempre più lontani, inventando contemporaneamente la rivoluzione industriale, sfruttando appieno le nuove tecnologie (vapore, telegrafo), mandando i figli e le figlie a fondare stessa alla fine dei mondi per stabilirvi durevolmente la sua influenza, l’Inghilterra seppe costruire un sistema mondiale notevole per la sua durata. L’apogeo britannico durò infatti quasi un secolo, dalla caduta di Napoleone all’entrata in guerra nel 1914. Un dominio così lungo e universale è unico.

Questo orizzonte mentale su scala mondiale, questa associazione precoce della prosperità commerciale con il potere, questo feroce bisogno di una sovranità inalienabile sono invarianti inglesi: devono essere tenuti a mente per comprendere la scommessa della Brexit.

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