Italia e il mondo

Con Machiavelli, pensando alla libertà politica in un mondo in guerra

Con Machiavelli, pensando alla libertà politica in un mondo in guerra

Da Revue Conflits

La nostra democrazia è in crisi: come possiamo reinventarla? Cosa possiamo imparare da coloro che, nel corso dei secoli, ne sono stati i creatori? La terza puntata della nostra serie sui filosofi e la democrazia è dedicata a Nicolas Machiavelli (1469-1527). Per il fiorentino il conflitto è un orizzonte politico ineludibile: il “popolo” deve essere armato per non subire la tirannia del “Grande” e le repubbliche devono essere potenti per non subire l’imperialismo degli Stati vicini.

Jérôme RoudierIstituto cattolico di Lille (ICL)

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Machiavelli fu un pensatore che fece della sopravvivenza e della fondazione degli Stati una questione fondamentale. Per Machiavelli, che fu un alto funzionario della Repubblica fiorentina, la questione del regime politico era subordinata a quella della sopravvivenza in un contesto sempre segnato dalla prospettiva della guerra.

Il regime migliore è necessariamente quello che assicura sia la libertà che il potere e che permette di fondare lo Stato nel tempo. La scienza politica che egli inaugura non è più una riflessione teorica, ma un programma politico che articola l’ideale con il pragmatismo.

Un repubblicanesimo originale e fondante

Machiavelli non è un pensatore della democrazia in senso stretto. Era un repubblicano convinto. I repubblicani del suo tempo intendevano allargare la base del governo e integrare questa classe media in una vita politica che tradizionalmente era stata riservata agli aristocratici. La scelta, da parte di Machiavelli e dei suoi contemporanei e anche della tradizione fiorentina di parlare di “Repubblica “, indica un regime in cui, come a Roma, non tutti sono necessariamente cittadini.

Per i repubblicani, fino alla metà del XIX secolo, l’estensione e persino l’universalizzazione della cittadinanza era una questione essenziale. Dato che la classe media è cresciuta gradualmente nel tempo fino a raggiungere una quota molto ampia, addirittura maggioritaria, della popolazione europea, il repubblicanesimo, in queste condizioni, era legato a una cittadinanza universalmente attribuita ai membri della società e poteva quindi essere proposto come fondamento teorico delle democrazie moderne e poi contemporanee.

L’orizzonte del potere

Da un punto di vista interno, Machiavelli ritiene che la divisione sociale sia inevitabile e che il ruolo di un sistema giuridico sia quello di permetterle di esprimersi, fermandola nelle sue manifestazioni più estreme. Come ha sottolineato, i grandi vogliono naturalmente dominare, quindi bisogna impedire loro di tiranneggiare. Il “popolo ” (per intenderci, le “classi medie “) vuole solo non essere dominato, quindi bisogna dargli le armi che gli consentano di costituire un contropotere alla potenziale tirannia dei Grandi.

Il mondo di Machiavelli è guerrafondaio; il potere è al tempo stesso garanzia di sopravvivenza e strumento di conquista. Se il popolo può accontentarsi di non essere schiavo, una società, in un mondo instabile, deve essere potente. La politica si costituisce nell’articolazione ben ponderata sia di ciò che è in sostanza, la ricerca di una convivenza sostenibile, sia della sua situazione nel mondo, composta dalle sue inevitabili interazioni con altre entità politiche.

Per Machiavelli, il mondo della politica non è cristiano: il suo fondamento, il fondamento di ogni società, rimane l’appetito dell’individuo. Se fossimo tutti santi cristiani, la politica semplicemente non esisterebbe. Il desiderio di dominio, perfettamente naturale e quindi inevitabile, struttura ogni comunità e la divide in tre gruppi: coloro che vogliono dominare (i Grandi), coloro che accetterebbero questo dominio per necessità di sopravvivenza (la plebe, la plebe) e coloro che non vogliono né l’uno né l’altro (la gente comune, il “ceto medio”). Il sistema politico repubblicano accetta questo come punto di partenza. Accetta la fondamentale disuguaglianza di condizioni e desideri nella sua stessa tripartizione.

Da quel momento in poi, Machiavelli pone al centro del sistema sia la legge, che tutti devono rispettare sopra ogni cosa, sia le armi. Il fiorentino non immagina nemmeno per un secondo che i Grandi smettano di loro iniziativa di avere sete di dominio e di riconoscimento. Anticipa così i liberali, in particolare Montesquieu su questo punto, ritenendo che solo il potere fermi il potere. Nella visione machiavellica e pragmatica delle cose, fermare un dominio che potrebbe essere tirannico non può essere fatto solo dalla legge. Il popolo deve essere armato per imporre ai Grandi il rispetto della Legge.

Per il fiorentino, questa dinamica iniziale non portò alla guerra civile, ma piuttosto all’evoluzione della sete di dominio dei Grandi, che li portò a rivolgere i loro desideri verso l’esterno. Più che tiranni, avevano il duplice interesse di diventare generali e statisti. Questo punto è ben visibile attraverso lo schema dei Discorsi sulla prima decade di Tito Livio, un libro poco noto al grande pubblico ma molto letto dai repubblicani successivi. Per Machiavelli, il sistema politico repubblicano, nella sua turbolenza e instabilità di fondo, offriva la possibilità di un potere esterno e di una certa forma di imperialismo.

” Si vis pacem… “

Per Machiavelli, ogni situazione di pace corrisponde a quel momento che precede una nuova guerra. Di conseguenza, la guerra deve essere preparata al meglio per non doverla combattere. La vita del Segretario si svolge durante le guerre d’Italia, quando la guerra era onnipresente e inevitabile. Dal suo punto di vista, un pacifismo che potesse presiedere a una gara di armi per difendere le democrazie assumendo il rischio di una guerra era sempre preferibile a un disarmo che poteva solo far presagire una futura invasione.

La questione della pace, per Machiavelli, ci viene così restituita come quella di una tensione molto difficile da raggiungere e non come un progetto ideale razionale. Così, lo sforzo kantiano di promuovere la pace perpetua attraverso un’estensione dello Stato di diritto a tutte le entità politiche è l’opposto del pensiero machiavelliano. Secondo il fiorentino, per raggiungere la pace, un potere imperiale repubblicano dovrebbe essere limitato da un altro potere imperiale equivalente. Potremmo dire che, nel nostro mondo contemporaneo, questo è stato il caso dell’Europa dal 1945, sotto il dominio della potenza imperiale americana sull’URSS. Una volta che la prima potenza non c’è più, deve essere sostituita da una potenza sufficiente a scoraggiare qualsiasi aggressione esterna.

Morire per la libertà?

Machiavelli avrebbe indubbiamente collegato questa domanda a un’altra, per lui più essenziale e che, ai suoi occhi, sarebbe stata indubbiamente alla base di tutto il problema democratico: siamo disposti a morire per la libertà, cioè per ciò che la rende possibile, cioè la patria e il suo sistema politico?

Per Machiavelli, questa semplice e cruciale domanda non dovrebbe mai uscire dall’orizzonte di una società che voglia durare. Per Machiavelli, la libertà è potere: solo un popolo in armi è libero e capace di mantenere la propria libertà dai Grandi e dalle ambizioni dei vicini, imponendo la paura.

Oggi si sentono molte voci sulla sacralità della vita. In una prospettiva machiavellica, che si rifà all’antico pensiero filosofico precristiano, in particolare a quello degli stoici, la vita non può essere sacra. Non è un dono ineffabile del Creatore, ma un fatto che ci proietta in un universo collettivo all’interno del quale dobbiamo fare delle scelte e contribuire a un significato che non è dato in anticipo e non è esterno a questo mondo. C’è tutta un’area di interrogazione da esplorare qui, un significato da dare alla politica nelle nostre società, che sono allo stesso tempo cristianizzate e disincantate, per usare il termine di Max Weber.

Machiavelli fornisce una risposta repubblicana inequivocabile, che implica una risposta radicale alla domanda se vogliamo vivere a tutti i costi, anche sotto una tirannia. Questo primo pensatore della modernità rifiuta chiaramente qualsiasi prospettiva cristiana a favore, in modo molto singolare per il suo tempo, di una “religione civica” sul modello romano precristiano. La riflessione che la lettura di Machiavelli suscita per le nostre democrazie liberali si riferisce al posto della politica nella nostra vita. Per il fiorentino, la vita vale la pena di essere vissuta solo se è politicamente libera.

Jérôme Roudier, professore di filosofia politica, Institut catholique de Lille (ICL)

Questo articolo è ripubblicato da The Conversation con una licenza Creative Commons. Leggi l’articolo originale.

Il giardino prima della macchina_di Morgoth

Il giardino prima della macchina

Sulle verdure perdute del Medioevo e perché stanno tornando

Morgoth12 ottobre
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L’autunno è arrivato e ha segnato la fine della mia terza stagione di coltivazione nell’orto. Ho ancora alcune brassicacee più resistenti, come cavoli, germogli e broccoli, nell’orto. Tuttavia, i bei tempi sono effettivamente finiti e le mie colture invernali decisamente poco entusiasmanti, come porri, cipolle e aglio, sono quasi pronte per essere trapiantate. Ripensando alla stagione di coltivazione, posso raccontare i miei successi e i miei fallimenti.

Ho piantato pomodori per la prima volta e ho scoperto che erano piante incredibilmente deboli e bisognose. Prima, da giovani piantine, non c’era abbastanza luce solare; poi, da piante, faceva troppo freddo; poi ricevevano troppa acqua; infine richiedevano fertilizzanti costosi. Durante l’ondata di caldo estivo, faceva troppo caldo.

Al contrario, un grande successo quest’anno è stato quello dei fagiolini scarlatti. Mentre i pomodori reclamavano attenzione nella serra, i fagiolini scarlatti si sono arrampicati allegramente su un traliccio improvvisato e hanno prodotto un gran numero di baccelli lunghi trenta centimetri (!).

Ho avuto un raccolto di patate enorme, mentre i piselli si sono rivelati un completo disastro perché, ancora una volta, non avevo calcolato quanto sarebbero cresciuti in altezza.

Accanto alle mie piantine di cipolla e porro ci sono alcune piante più rare e insolite con cui sto sperimentando.

E c’è una storia dietro a tutto questo…

Non sorprende che l’algoritmo di YouTube promuova in modo piuttosto aggressivo i “contenuti” di giardinaggio nel mio feed video. All’inizio di quest’anno, mi è stato consigliato un video intitolato ” 15 verdure dimenticate coltivate dai contadini medievali che DEVONO tornare ” . Il video, che sospetto fosse principalmente generato dall’intelligenza artificiale, elencava numerose erbe e verdure del Medioevo che da allora sono scomparse dalla nostra dieta quotidiana. Nonostante la natura “scarsa” del contenuto, sono rimasto incuriosito dalla premessa e ho approfondito ulteriormente.

Devo ammettere che non avevo riflettuto molto su come il nostro cibo sia cambiato nel corso dei secoli. Se William Shakespeare avesse visto una patata, l’avrebbe considerata una stranezza, forse un afrodisiaco. I Romani non sapevano cosa fosse un pomodoro. E nemmeno Leonardo da Vinci.

Mentre gli uomini europei navigavano verso le terre selvagge e inesplorate del mondo, tornavano con nuove colture che si insinuarono nella nostra dieta quotidiana fino a quando non le riconoscemmo più come estranee. Le colture tradizionali che sarebbero state familiari a un monaco o a un contadino medievale furono, per così dire, relegate ai margini del piatto, per poi essere completamente dimenticate.

Chi ha mai sentito parlare oggi del Buon Re Enrico? Era anche chiamato “Spinaci del Povero” o “Piede d’oca perenne”. Un’altra è il levistico, un parente del prezzemolo e del sedano. Il tanaceto è una pianta piuttosto aromatica con fiori a bottone giallo brillante e una vasta gamma di usi, alcuni dei quali sembrano decisamente dubbi, se non addirittura pericolosi. Poi c’è lo skirret, un parente della carota e della pastinaca che forma una spessa massa di bulbi nutrienti. Un’altra radice di cui non si sente molto parlare oggigiorno è la scorzonera, che si dice abbia un sapore di mare.

Il buon re Enrico

L’elenco degli alimenti che non mangiamo più, non coltiviamo più e non ricordiamo più è lungo. L’amministrazione dell’imperatore Carlo Magno produsse un documento intitolato “Capitulare de villis” che, tra molti altri editti amministrativi, prescriveva quali piante dovessero essere considerate benefiche per il popolo e per l’Impero in generale.

Più leggevo sui gusti e le abitudini culinarie degli europei in continua evoluzione, più mi sentivo come se fossi in un giallo. Perché, ad esempio, non avevo mai sentito parlare del levistico, figuriamoci di averlo visto al supermercato? Lo skirret era davvero una patata o una carota di qualità inferiore, da gettare nella zona fantasma storica e culturale? Era una cospirazione? Se il buon Re Enrico è un asparago o uno spinacio da poveri, perché non era facilmente reperibile?

Il primo indizio mi è venuto in mente quando ho capito perché all’improvviso avevo voluto ordinare dei semi e provare a coltivare alcune di queste piante dimenticate: erano piante perenni.

(Una pianta che viene seminata e completa il suo intero ciclo vitale nell’arco di un anno è detta annuale. Un pomodoro o un fagiolo sono annuali. Una pianta che rimane nel terreno per anni e anni, producendo raccolti stagionalmente, è detta perenne. Il rabarbaro o un melo sono perenni.)

Addentrandoci nel mistero, scopriamo che non è tanto il fatto che le colture straniere più saporite abbiano soppiantato e sostituito quelle autoctone più antiche, quanto piuttosto che erbe e verdure abbiano iniziato a essere scelte in base ai loro cicli di crescita. Per un monaco o un contadino medievale, l’incentivo era quello di coltivare colture affidabili che richiedessero il minimo sforzo e fossero il più possibile vicine alla cucina. Pertanto, una coltura resistente e resistente come il levistico o il levistico era l’ideale poiché, una volta piantata, produceva frutti anno dopo anno.

È, letteralmente, una questione di radicamento.

L’umile, dimenticato da tempo skirret

Certo, il giardiniere del Medioevo non coltivava solo piante perenni, ma anche annuali, che si adattavano a un’esistenza più ritmica, in cui le colture principali erano già sistemate e l’appezzamento aveva solo bisogno di essere curato.

Il problema è che un sistema del genere non si replica né sopravvive bene in una civiltà di massa basata su scala industriale. Infatti, durante la Rivoluzione Industriale, la classe contadina fu principalmente espulsa dalla terra e trasferita nei mulini, nelle miniere e nei cortili. I prodotti alimentari di base furono razionalizzati; l’incentivo era la scalabilità e l’efficienza.

Un proprietario terriero o un azionista di mercato dovevano essere in grado di valutare costi e benefici durante l’intero anno. Il mercato doveva adattarsi rapidamente alle condizioni meteorologiche, ai semi marci o alle catene di approvvigionamento problematiche. I lavoratori dovevano essere riforniti di cibo nutriente in quantità sempre maggiori. In questo caso, una coltura come la patata ha superato la coltivazione di patate in quasi tutti i parametri, tranne che in termini di durata e resistenza.

Le radici profonde furono recise e sostituite da un modello più transitorio e favorevole al mercato. Gli europei cessarono di essere parte dell’ordine naturale, non più generandolo ma dominandolo attraverso la tecnica. La natura divenne una riserva permanente uniforme, i cui ritmi subordinati ai programmi di produzione e ai margini di profitto. Quella trasformazione plasmò più che le colture: plasmò i nostri sensi.

Levistico

Non abbiamo mai veramente deciso che il sedano fosse più saporito del levistico: non lo è, semplicemente le nostre scelte sono state fatte per noi da un sistema meccanizzato che richiedeva delicatezza, uniformità e velocità.

È la storia del trionfo del “Regno della Quantità”, a prescindere dai gusti culinari e dall’estetica. La tecnica privilegia il generico, il disneyano e l’insipido, ed è per questo che così tante persone considererebbero orribile la massa grumosa di radici nodose della pianta di styrret, e confortante e familiare l’aspetto arancione e infantile della carota.

Eppure, mentre questa società di massa e scala scivola sempre più nella follia e nel nichilismo, aneliamo a una via d’uscita, a un rifugio che ci riporti alle radici e all’appartenenza. Quante volte ci è capitato di passare inconsapevolmente accanto a un gruppo di piante di Re Enrico il Buono, accanto a un vecchio muro diroccato? O a un groviglio di levistico incastonato in una siepe?

Il mio interesse per queste verdure è nato perché erano piante perenni, perché sarebbero rimaste lì indipendentemente dalle altre condizioni. La definizione di perenne è:

duraturo o esistente per un tempo lungo o apparentemente infinito; duraturo o che si ripete continuamente.

È uno sguardo verso un altro mondo, più antico, in cui il tempo funziona in modo diverso e indipendente dalle esigenze dei processi digitalizzati; appartiene al passato e molto probabilmente anche al futuro.

In un mondo che ha superato l’uniformità, lo standardizzato, il generico, forse avranno la loro rivincita.

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Addavenì er Messìa_di WS

Di questo lungo articolo di MdL condivido sia la premessa che la conclusione , ma non il concetto di fondo, perché   seppure  “il male” è ineliminabile   esso è sempre  contenibile; la prova  è che  l’umanità è ancora  qui   in miglior condizioni  di quando  si è affrancata  dalla  ferinità.

Per ora , precisiamo, datosi  che gli inistancabili  “maligni”  sono anch’essi ancora qui   ma  stavolta  con mezzi  e tecnologie mai avute prima.

 In  questo  articolo MdL   decrive benissimo  il meccanismo  che  avvelena la nostra  società.

La quale  società  , oggi “morente”,   e che  noi tutti  siamo  chiamati  a deridere  e a disprezzare   storicamente,  è  stata  GRANDE,   tant’è  che      migliaia di  “ cervelli  a pagamento”   sono oggi  chiamati a     riscriverne  la   Storia   come in “1984”.

E non c’è dubbio  che la prognosi   per questa  società sia  infausta;  ma  saremo  NOI a finire,  non il mondo .

  E  per  altro    a questo NOSTRO   disastro non  ci sono  soluzioni “personali “ . Non  è fuggendo dal mondo che si riducono  né il proprio, né l’ altrui dolore di vivere su questa terra, anche perché il cammino umano seppur tortuoso è stato positivo, almeno fino ad ora.

 Quindi non condivido la critica feroce contro ogni sovrastruttura  sociale sia essa religiosa che politica che affermi e quindi cerchi di ridurre la quota di “male” che sempre spetta “ai più” perché “i meno” abbiano più “bene” per sé, perché  il  contenimento del male  non si ottiene “contemplando il proprio ombelico”.

 Anche se “homo homini lupus “, l’ uomo è un animale sociale e come in un branco di lupi le società umane  si basano su regole tese a massimizzare il vantaggio di tutti.

E la prima  regola di un  gruppo,  anzi  il  concetto  fondante   del  gruppo,  è “ tutti per uno e uno per tutti”;   il che comporta anche  il sacrificio del singolo finalizzato alla  maggior forza del gruppo,  purché  TUTTI siano chiamati  al sacrificio  in ragione della propria posizione nel “gruppo” stesso.

Se  si permettesse  la “speciazione”  del gruppo  in  due gruppi in cui  uno  deve solo  dare  e l’ altro solo   ricevere   il gruppo si frantumerebbe    qualunque  strumento  coercitivo usasse  il   gruppo  dei “privilegiati”.

E le “religioni” siano esse “trascendenti” o “civili” servono solo a questo:  fortificare il gruppo  affinché  tutti  possano  vivere  meglio. Queste  “religioni” muoiono quando esse cessano da questa funzione.

Non è un caso che ogni “religione” FUNZIONANTE parli di “prossimo” e non di “genere umano” e peggio ancora di “pianeta Terra”. 

Lo stesso Emmanuel Todd il “descrittore” franco-ebreo del collasso della civiltà occidentale ha correttamente attribuito la fine della nostra civiltà alla scomparsa della nostra (ex) religione cristiana, ma  si guarda bene   da analizzarne le cause profonde.

Quindi non basta , come fa benissimo MdL, descrivere come ha agito e ancora agisce il veleno ponerologico in ogni  società, la nostra compresa ; bisogna   trovarne  dei  rimedi  anche  se  fossero solo “pannicelli caldi” perché    “il  gruppo non tiene”.  Se ne accorgeranno    anche  gli  attuali “privilegiati”  per quanto “ricchi&potenti”   essi siano.

E di  sicuro  non serve la fuga,per altro personale e quindi socialmente inutile , verso il “buddismo”. Storicamente  dopo una  grande espansione le  società   basate sul buddismo  sono  state pressoché  tutte  travolte  da  altre ,   sicuramente  eticamente inferiori, ma  più dinamiche, perché  per  la sopravvivenza   del “gruppo” il buddismo offre  MENO.

E  siccome  su il “Primum vivere deinde philosophari” sarà  certamente  d’accordo  anche MdL ,   se “la fuga” non arresta il declino allora  a che ci serve la “filosofia “? .

Ma  chi volesse arrestare questo NOSTRO declino non potrà mai  ottenere nulla se  PRIMA   non indaga   e  non capisce   su CHI  e perché abbia  diffuso questo veleno nella nosta società.

E  qui  si potrebbe  fare una analisi  storico-politica ma in realtà le  ragioni  sono     “trascendenti”    sebbene in ogni  capitolo  storico  gli “attori”  siano  sempre facilmente individuabili.

La prima ragione  trascendente    che  avvelena ogni  società  è  “politica”,  e l’ ho  già    richiamata  altre volte :    ci sarà sempre    un  conflitto  sociale  tra  “chi  deve lavorare per poter  vivere, peggio   e chi può vivere, meglio, senza  dover lavorare”

La seconda è filosofica  , ma è anche intrinsecamente  legata  alla prima:   ci sarà  sempre    un conflitto  ideologico  e morale   tra “verbo”  e “gnosi”     cioè   tra “verità”    rivelata  a tutti    e  “verità”   riservata  a  pochi

E le società muoiono  quando   “la gnosi”  prende  il sopravvento  sul “verbo”  come strumento  di oppressione  dei   “pochi”   su “tutti”.

E  siccome lo vede  anche un  “diversamente intelligente”    che la NOSTRA  società   sta morendo qualcuno  adesso potrebbe chiedersi   chi  siano oggi i “pochi”  che opprimono i “tutti”     e con  quale “gnosticismo”.

Ma  la  risposta  non  vale la pena  di darla  perché  “  ci sono cose  che  se potessero  essere  capite  non  dovrebbero  essere  spiegate”.

Quando anche la massa , costretta dalla realtà , si porrà  quelle domande che  è stata addestrata a non porsi  , forse allora  troverà anche “il messia “ che gli spiegherà   il  suo“ verbo”.

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Il culto dell’impossibile_di Aurelien

Il culto dell’impossibile.

Dovrai solo sopportarlo.

Aurelien8 ottobre
 
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E come sempre, grazie agli altri che instancabilmente forniscono traduzioni nelle loro lingue. Maria José Tormo sta pubblicando traduzioni in spagnolo sul suo sito qui, Marco Zeloni pubblica le traduzioni in italiano su un sito qui, e Italia e il Mondo: le pubblica qui. Sono sempre grato a chi pubblica traduzioni e sintesi occasionali in altre lingue, purché ne indichiate la fonte originale e me lo comunichiate. E ora:

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Inizialmente volevo iniziare questo saggio con un altro esempio, ma proprio in quel momento stavo cercando di effettuare la mia donazione annuale all’insostituibile sito Naked Capitalism di Yves Smith (se non donate anche voi, dovreste chiedervi perché) e, come sempre, Internet sembrava determinato a impedirmi di farlo. Non potevo pagare con carta di credito, non potevo pagare con bonifico bancario e alla fine, stringendo i denti, ho usato PayPal, che ha richiesto due tentativi e si è concluso con il blocco dello schermo dopo quella che sembrava essere una transazione riuscita. Spero che Yves riceva il denaro. D’altra parte, però, quella stessa mattina sono riuscito ad acquistare un biglietto ferroviario di andata e ritorno dovendo tornare all’inizio e ricominciare da capo solo una volta, quindi non è tutta una cattiva notizia.

Ora, non ho intenzione di infliggervi ancora le mie banali frustrazioni legate alla gestione della vita quotidiana: voglio solo usarle per introdurre un argomento sul perché oggi nulla funzioni, cosa che ritengo vera e che tutti quelli che incontro dicono. C’è una litania ben consolidata: siti che non funzionano, telefonate senza risposta, pagamenti non ricevuti, persi o addebitati due volte, letture ridicole dei contatori del gas e dell’elettricità che apparentemente non possono essere corrette, pezzi di ricambio semplici per elettrodomestici non disponibili, corrispondenza persa nei meandri di organizzazioni, aziende e enti che si sono ritirati dietro le mura dei chatbot e delle FAQ, dove non è nemmeno possibile inviare un’e-mail a qualcuno. E senza dubbio potete pensare a una dozzina di altri esempi. Quel che è peggio, nessuno sembra davvero preoccuparsene.

La conseguenza è una crescente sfiducia nei confronti delle organizzazioni e delle aziende private a tutti i livelli, e una crescente consapevolezza che non si può dare nulla per scontato, quindi è necessario ricontrollare tutto, fare copie, inviare copie, telefonare, recarsi di persona, solo per cercare di assicurarsi che ciò che dovrebbe avvenire automaticamente avvenga davvero. L’unica cosa in cui le organizzazioni sono brave, ho scoperto, è spillarti soldi, e spesso anche in modo ingiustificato. C’è una ragione per cui è così, e torneremo su questo punto.

Allo stesso modo, l’idea che il governo e i suoi servizi debbano funzionare correttamente sembra ormai antiquata e fuori moda. Non è necessario insistere ancora una volta sul caos della risposta dei governi occidentali al Covid e alla crisi ucraina, o sulla loro apparente impotenza di fronte al cambiamento climatico. Tuttavia, è interessante notare che il fallimento non deriva solo dal declino della capacità dello Stato, ma anche da un atteggiamento di rassegnazione che dice: “Non possiamo farlo, Non è possibile, Non chiedere, Qualunque cosa tu voglia, la risposta è no. Lo spettacolo pietoso offerto dai governi negli ultimi anni è fondamentalmente quello di politici che pensavano che la politica fosse solo una questione di potere e che consisteva principalmente nel non fare nulla, ma che sono stati costretti dalla pressione degli eventi a cercare di fare qualcosa, combinando un disastro totale. Non c’è da stupirsi che, come nel caso del Covid, la tentazione sia quella di dichiarare il problema risolto il più rapidamente possibile, in modo da poter tornare a non fare nulla, cosa che almeno sanno come fare.

Ma perché dovrebbe essere così? In parole povere, la società occidentale (come altre, sì, ma ho solo uno spazio limitato a disposizione) ha attraversato diverse fasi in cui o si credeva nella possibilità di un futuro migliore, o si era convinti che un futuro migliore non fosse possibile, né auspicabile, e che non valesse nemmeno la pena provarci. E quando non si crede più che un futuro migliore sia possibile, si perde ogni interesse a salvaguardare il presente. Da almeno un’ultima generazione, siamo intrappolati nella seconda fase e non vedo immediatamente come potremo uscirne.

Ora, ciò che consideri un “futuro migliore” dipende in gran parte dal momento in cui sei nato. C’è sempre stato un “futuro migliore” elitario, legato in gran parte, ma non esclusivamente, al progresso scientifico e tecnico, spesso fine a se stesso. Da Platone in poi, i pensatori d’élite hanno immaginato futuri ideali corrispondenti ai propri bisogni e desideri e, negli ultimi secoli, la scienza e la tecnologia hanno fornito loro gli strumenti per realizzare i propri sogni, almeno in teoria. Ma poco di tutto questo – e l'”intelligenza artificiale” è solo l’ultima folle idea – è stato mai progettato consapevolmente a beneficio della gente comune, né questa è mai stata consultata. Al contrario, le cose che hanno effettivamente migliorato la vita della gente comune sono state create senza clamore, senza investimenti massicci, spesso da persone di mezzi e risultati modesti, e una volta realizzate sono state gestite in modo efficace. Se consideriamo quanto la nostra civiltà abbia beneficiato dell’acqua potabile pulita, dei servizi igienici e dei bagni interni, di un sistema affidabile di smaltimento dei rifiuti, della legislazione sulla sicurezza sul lavoro, della legislazione sull’aria pulita degli anni ’60 e delle semplici vaccinazioni contro malattie mortali come il vaiolo e la poliomielite, e poi consideriamo quanto quella civiltà abbia beneficiato, ad esempio, del Bitcoin, allora possiamo vedere quanto e quanto velocemente siamo declinati.

Ciò che accomuna questi esempi è il fatto che hanno migliorato la vita della gente comune, in un momento in cui era di moda migliorare gradualmente la vita della gente comune e mantenere tali miglioramenti. Ora non è più così, e spesso si sostiene addirittura che sia impossibile. Oggi si dà per scontato che la vita della gente comune peggiorerà, e se non ti sta bene puoi fare altrove. Il ritorno di malattie infantili mortali, l’aumento della mortalità infantile, la fame e i senzatetto sono, a quanto pare, solo cose a cui dobbiamo abituarci, e comunque non c’è nulla che possiamo fare al riguardo: non vale nemmeno la pena provarci, e qualsiasi tentativo non farebbe che peggiorare i problemi.

Non credo che al giorno d’oggi qualcuno parli più di “coscienza sociale”, se non forse in relazione a paesi lontani di cui non sappiamo molto. (Abbiamo quindi delocalizzato il nostro senso di colpa e la nostra responsabilità per la sofferenza, così come abbiamo delocalizzato tutto il resto). Nell’Inghilterra del XIX secolo, le dettagliate osservazioni di Henry Mayhew sulla vita dei poveri di Londra e l’opera polemica di a30> di Charles Booth, con la sua tesi esplicita che i poveri dell’Inghilterra versavano in condizioni pari o peggiori di quelle dell'”Africa più buia”, furono tra una serie di iniziative che effettivamente smuovevano la coscienza dell’epoca e portarono a pressioni per un cambiamento e, a tempo debito, ai cambiamenti stessi.

Ma per chiedere un cambiamento, e ancor più per attuarlo, bisogna credere che il cambiamento sia effettivamente possibile. Questo discorso è ormai così contaminato e infangato da decenni di abuso che è difficile immaginare un tempo in cui un cambiamento graduale in meglio non solo sembrava possibile, ma, con un po’ di impegno, inevitabile. (Colloquialmente, oggi “cambiamento” significa “peggiorare le cose” e “gestione del cambiamento” significa costringere le persone ad accettare una vita peggiore). A sua volta, ciò richiede la convinzione che le società non siano statiche, che le relazioni e le gerarchie sociali ed economiche non siano fisse e che il cambiamento non sia necessariamente in peggio. Questa convinzione è stata rafforzata dall’esperienza pratica: quando è stata introdotta l’istruzione universale, quando ai poveri sono state date alloggi dignitosi, quando sono state introdotte restrizioni alla giornata lavorativa e quando i bambini non hanno più dovuto andare a lavorare all’età di otto anni, allora, invece di disgregarsi, i paesi sono diventati più ricchi, più felici e luoghi migliori in cui vivere. Oh, e persino i reati contro la proprietà sono diminuiti.

Le nostre élite autoproclamate non fingono più di crederci. All’estremità un po’ più intellettuale dello spettro, le società e le economie dovrebbero essere soggette alle ferree leggi economiche della “concorrenza”, il che significa che migliorare la vita della gente comune, o anche solo cercare di preservare ciò che ancora esiste, rende il Paese “non competitivo”. Esiste poi una linea di pensiero molto importante e piuttosto pericolosa, che ha origine dallo storico francese François Furet e dal suo lavoro sulla Rivoluzione francese, secondo cui tutti i tentativi di migliorare la società portano inevitabilmente al gulag e alla ghigliottina. Per l’influente filosofo britannico John Gray, l’Illuminismo stesso ha portato a progetti sociali “utopistici” che a loro volta hanno portato ai terrori autoritari del XX secolo. (Si può concedere una certa validità a tali argomenti senza accettare che, ad esempio, l’ampliamento della gamma di bambini in grado di frequentare l’università implichi la contemporanea apertura di campi di concentramento). All’estremità un po’ meno intellettuale del sistema, invece, si tratta in effetti di una giustificazione pro forma dell’avidità e del desiderio psicopatico di ricchezza e potere.

Idee come queste hanno una lunga storia e si presentano in diverse forme, necessariamente sovrapponendosi nel tempo e nella portata. È comunque possibile distinguere una serie di argomentazioni distinte. La più semplice è che il mondo è così perché è stato creato in questo modo, e qualsiasi tentativo di migliorare la sorte della gente comune è blasfemo. Questa visione è ovviamente associata a credenze religiose intransigenti di vario tipo, in particolare quelle di stampo deterministico. Pertanto, gli insegnanti occidentali nelle società musulmane sono portati alla distrazione dagli studenti che credono che supereranno gli esami inch’allah e che quindi il ripasso e la preparazione non sono realmente importanti. Si tratta di società in cui si presume la predestinazione e quindi l’azione umana è nel migliore dei casi inutile e nel peggiore blasfema. In Mountolive di Lawrence Durrell, il terzo libro della serie Alexandria Quartet, c’è una scena in cui l’eroe omonimo, la cui vita ed esperienze sono vagamente basate su quelle dello stesso Durrell, è seduto in un ristorante sotto degli alberi sulle cui foglie si crede siano scritti i nomi di tutte le persone che moriranno quell’anno.

Lo stesso vale naturalmente anche per il cristianesimo, talvolta con conseguenze di vasta portata. I calvinisti olandesi e gli ugonotti francesi che si insediarono nella Colonia del Capo accettavano un’unica fonte di conoscenza e guida: la Bibbia. Essa diceva loro che erano come gli ebrei dell’Antico Testamento, in fuga dalle persecuzioni verso una terra promessa che Dio aveva riservato loro. Per diversi secoli, la Bibbia è stata l’unico libro che la maggior parte delle famiglie possedeva, e qualsiasi conoscenza o credenza non presente nella Bibbia era chiaramente falsa. Anche se oggi non viene più sottolineato, il sistema dell’apartheid era in parte basato sull’affermata rivelazione biblica dell’esistenza di razze diverse e disuguali e sul dominio che Dio aveva dato agli afrikaner su tutti gli altri (compresi, anche se questo non veniva detto ad alta voce, gli inglesi). Le idee di uguaglianza razziale, o anche i passi in direzione delle moderne società liberali, non erano solo una cospirazione comunista, ma in realtà una blasfemia contro Dio. (La Chiesa riformata olandese cambiò finalmente idea sull’apartheid nel 1986, ma anche anni dopo era ancora possibile incontrare afrikaner che rimanevano fedeli alle vecchie credenze).

All’altra estremità del mondo e dello spettro religioso, la Chiesa cattolica spagnola deteneva nel XVIII secolo diversi primati di feroce oscurantismo, talvolta in ambiti insoliti. Il romanzo di Arturo Perez Reverte del 2015 Hombres Buenos (” Uomini buoni”) racconta la storia vera di un pericoloso viaggio a Parigi di un gruppo di spagnoli che cercavano di acquistare una copia dell’Enciclopedia di Diderot, ostacolati in ogni fase dalla Chiesa, che diffidava di tutto ciò che non si trovava nella Bibbia e negli scritti ufficialmente accettati dalla Chiesa. La Chiesa proibiva ai marinai spagnoli dell’epoca di utilizzare invenzioni moderne come la bussola e il sestante, affermando che dovevano affidarsi a Dio per arrivare nel posto giusto. Ciò significava, tra le altre cose, che gli spagnoli rimanevano indietro nella corsa all’esplorazione, quindi nessuno osi suggerire che l’antimodernismo dogmatico non abbia mai effetti quantificabili.

Una volta tornati sulla terraferma, una versione più moderata di questo modo di pensare sosteneva che, predestinazione o meno, il mondo fosse stato progettato da Dio in ogni dettaglio. Quindi non solo ricchi e poveri, signori e contadini, ma anche guerre per il cibo e carestie, mortalità infantile e terribili malattie facevano tutte parte del Piano Divino, e noi non potevamo comprendere quel Piano più di quanto uno scarafaggio sulla scrivania di Einstein potesse comprendere la Teoria della Relatività. Pertanto, i tentativi di migliorare la sorte della gente comune, e ancor meno di concedere loro una quota di potere politico, erano blasfemie contro l’ordine divino delle cose. E tali idee erano ampiamente accettate: i contadini della Vandea che si ribellarono alla Rivoluzione credevano che essa sconvolgesse l’ordine delle cose stabilito da Dio, e combatterono sotto il motto Per Dio e per il Re. E anche gli ecclesiastici più riflessivi e moderati cercavano di persuadere gli altri che, beh, Dio aveva creato il mondo così com’era, e che dovevamo stare molto attenti prima di iniziare a interferire con esso. Se Dio non avesse voluto che ci fossero ricchi e poveri, se non avesse voluto che gran parte dei bambini morisse prima dei dieci anni, allora presumibilmente il mondo sarebbe stato organizzato in modo diverso. Ma non era così, e dovevamo rispettarlo.

La versione laica è ovviamente il tipo di scetticismo civilizzato che si ritrova nel modo in cui Burke trattò la Rivoluzione francese (di cui aveva solo letto). Che Burke credesse sinceramente che il sistema politico inglese fatiscente e corrotto che difendeva fosse «il risultato di un’attenta riflessione» – cosa che sembra improbabile – egli fu all’origine di un tipo di teorizzazione reazionaria che si presentava al pubblico come semplice pragmatismo, un approccio sensato e moderato al cambiamento, che teneva conto della natura umana e dei pericoli di andare troppo veloce troppo presto. Dopotutto, riflettevano molti conservatori dell’epoca, una volta che si iniziava a interferire con la società, dove si sarebbe potuti arrivare? Una concessione qui e una concessione là, e ben presto si sarebbero avute rivoluzioni e ghigliottine. Quindi, alla fine, non si fa nulla, perché c’è sempre un argomento sensato e prudente contro il fare qualsiasi cosa in particolare. Come spesso si sosteneva nella prima metà del XIX secolo, era giusto insegnare alla gente a leggere, ma cosa sarebbe successo se avessero letto le cose sbagliate? I conservatori credevano di comprendere la natura umana: salari da fame garantivano che i lavoratori non sperperassero inutilmente il denaro in eccesso. Un livello salutare di disoccupazione costringeva i pigri a cercare lavoro. In effetti, guardando indietro, la sfiducia e il disprezzo della classe dirigente nei confronti dei nostri antenati sembrano quasi illimitati. Sono nato in uno dei primi complessi di edilizia popolare in Inghilterra ad avere finalmente bagni e servizi igienici interni. Dopotutto, i poveri non si lavavano comunque, quindi a che serviva un bagno? E questi pregiudizi volgari erano a loro volta rafforzati dalla volgarizzazione delle opere di Darwin e Malthus. Alzare le spalle: sarebbe bello che la gente comune avesse queste cose, immagino, ma alla fine sarebbe solo uno spreco di denaro.

Ciononostante, c’erano controargomentazioni e sempre più voci sostenevano che il progresso fosse possibile e che la vita della gente comune potesse, in effetti, essere migliorata. Ma la condizione indispensabile per questo tipo di pensiero era che il cambiamento fosse effettivamente possibile, e non solo una sorta di sogno utopico, come la terra di Cockaigne nel Medioevo. La Rivoluzione francese fu fondamentale in questo senso, non tanto per la sua ideologia, per quanto importante fosse, quanto piuttosto perché, per la prima volta, il potere politico si allontanò inequivocabilmente dall’aristocrazia terriera per passare alla classe media urbana, dimostrando che i tradizionali rapporti di potere non erano, in realtà, immutabili. Fu questo che spaventò così tanto Burke e i suoi contemporanei: forse anche la gente comune avrebbe presto preteso una parte del potere. E in effetti, è proprio quello che è successo.

Una volta accettato che il cambiamento e il miglioramento sono effettivamente possibili, ne conseguono molte altre cose. In particolare, assistiamo all’inizio di speculazioni su come potrebbe essere effettivamente un mondo migliore, spesso sfruttando le forze della tecnologia, che rappresentano simbolicamente il potere crescente delle classi medie istruite che progettano e delle classi lavoratrici qualificate che eseguono il lavoro. I romanzi più famosi di Jules Verne sono contemporanei agli ultimi giorni di Napoleone III e all’instaurazione della Terza Repubblica, proprio come le opere principali di HG Wells sono contemporanee alla fondazione dei partiti di massa di sinistra e all’organizzazione dei moderni sindacati. Il cambiamento nei modelli di potere (la tecnologia implicava il trasporto meccanico che poteva essere interrotto dagli scioperi) iniziò a produrre miglioramenti nella vita della gente comune.

Ci furono anche cambiamenti intellettuali. Le scoperte di Charles Lyell in geologia e di Charles Darwin nella teoria dell’evoluzione dimostrarono che la visione tradizionale di un mondo creato di recente e sostanzialmente immutabile non poteva essere sostenuta. Karl Marx propose per la prima volta una visione evoluzionistica dello sviluppo economico e predisse, in modo del tutto corretto, che il capitalismo sfrenato avrebbe finito per autodistruggersi. Sigmund Freud aprì un mondo completamente insospettabile, quello dell’inconscio, e diede il colpo di grazia alle interpretazioni puramente meccanicistiche del pensiero e del comportamento umano. Successivamente, la fisica quantistica rivelò che il mondo era ancora più strano delle teorie più strane dei mistici cristiani, e John Maynard Keynes produsse un manuale su come gestire un’economia in modo sensato senza uscire di strada.

La scoperta, infatti, era uno dei temi dell’epoca: (È interessante notare che le scoperte e gli scritti di Freud risalgono allo stesso periodo dei viaggi e delle pubblicazioni dei primi esploratori europei in Africa, l’ultimo “continente sconosciuto” per gli europei). Per la prima volta, i nomi degli scienziati erano noti al grande pubblico. I documentari sulla fauna selvatica di David Attenborough e le avventure sottomarine di Jacques Cousteau rivelarono meraviglie insospettabili a chiunque avesse un televisore. Ancora negli anni ’60, l’apparente conferma della teoria del “Big Bang” fece notizia in prima pagina in tutto il mondo. Anche il futuro sembrava entusiasmante: nuove opportunità si aprivano per la gente comune, in un mondo in cui si poteva dare per scontato avere acqua pulita, cibo a sufficienza, servizi igienici interni e libertà dalla povertà e dalle malattie infantili. Tali opportunità non erano necessariamente legate al diventare ricchi. Una generazione prima, avrei lasciato la scuola a quattordici anni per andare a lavorare in un ufficio: ho avuto la fortuna di vivere in quel breve periodo in cui i figli di famiglie modeste potevano sperare di frequentare l’università per alcuni anni e persino di essere pagati per studiare.

Ovviamente quel periodo non era un’utopia (anche se sarebbe sembrato tale a un londinese della classe operaia del secolo precedente). Ma era un’epoca in cui i cambiamenti positivi graduali erano considerati la norma, in particolare nella vita della gente comune. Ciò che in Europa veniva chiamato “socialismo municipale”, ovvero la fornitura di servizi poco appariscenti ma fondamentali alla comunità locale, come l’energia elettrica, l’acqua e l’illuminazione stradale, era un esempio di questo approccio. E poiché questi servizi erano gestiti da consigli eletti, dovevano essere sensibili alle richieste della popolazione. All’epoca, nulla di tutto ciò era controverso.

Non credo proprio che alla fine degli anni ’60, ad esempio, il mondo in cui viviamo oggi sarebbe stato immaginabile al di fuori delle pagine della fantascienza distopica. Ed è interessante notare che la stessa fantascienza è diventata prevalentemente distopica a partire dai primi anni ’80, nelle opere di William Gibson e altri, descrivendo un mondo in cui ogni progresso sociale ed economico compiuto dal XIX secolo era stato effettivamente ribaltato. All’epoca sembrava, beh, fantascienza. La fantascienza non è sempre stata di sinistra, ma i suoi autori hanno storicamente celebrato il potenziale degli esseri umani di migliorare se stessi e la propria condizione. Al di là della mitologia superficiale delle auto volanti e delle astronavi, c’era l’entusiasmo per le possibilità del futuro e la convinzione che potesse essere migliore del passato.

E in effetti sembrava incomprensibile che il mondo potesse mai tornare indietro. Dopo tutto, quale partito avrebbe potuto sperare di conquistare il potere politico promettendo più povertà, un’assistenza sanitaria peggiore e una disoccupazione più elevata? Alcune delle ragioni che hanno determinato questo cambiamento erano di natura sociale: l’ascesa di una nuova classe operaia impiegatizia e di una classe medio-bassa cresciuta nel benessere, che aveva iniziato a identificarsi con la parte più ricca della popolazione e a guardare con disprezzo alla classe sociale in cui era nata. Ma gran parte di questo cambiamento fu accidentale. Come ho già sottolineato in precedenza, in Gran Bretagna, dove il marciume ebbe inizio, la signora Thatcher non era destinata a diventare il leader del partito conservatore: in circostanze leggermente diverse non avrebbe mai vinto nel 1979 e, se il partito laburista non avesse deciso di suicidarsi, sarebbe stata cacciata nel 1983. L’opinione pubblica britannica non era convinta, e infatti negli anni ’80 l’opinione pubblica in Gran Bretagna si spostò a sinistra, e ancora oggi rimane a sinistra del governo. Un partito di sinistra autentico avrebbe ottenuto la vittoria al più tardi all’inizio degli anni ’90. Allora furono eletti partiti di sinistra nazionale, ma erano completamente privi dello zelo riformista dei loro predecessori e si unirono rapidamente al consenso secondo cui mantenere una vita dignitosa per la gente comune era troppo difficile, mi dispiace. Dovrete solo sopportarlo. Perché? Perché le forze precedentemente inarrestabili per migliorare la vita della gente comune si sono improvvisamente disintegrate come pupazzi di neve sotto la pioggia?

Ci sono molte ragioni, ma ne citerò solo due. Una era che i partiti di sinistra erano cambiati sociologicamente, soprattutto ai livelli più alti. È noto che Friedrich Ebert, il primo presidente socialista della Germania dopo il 1919, da bambino era stato apprendista sellaio e in seguito era diventato proprietario di un pub. Gerhard Schroeder era un avvocato che difendeva cause di sinistra alla moda. I loro leader erano sempre più distanti da coloro che dicevano di rappresentare, e i funzionari locali del partito provenivano sempre più spesso dalla classe media istruita. Se eri un docente universitario, tua moglie era un avvocato e vivevi in una bella casa, allora, anche con tutta la buona volontà del mondo, era difficile identificarsi con gli elettori della classe operaia che non parlavano correttamente e avevano lasciato la scuola a quindici anni. Avevi partecipato alle manifestazioni contro la guerra del Vietnam, ti preoccupavi profondamente della Bosnia e della carestia in Somalia e pregavi per la caduta di Slobodan Milosevic. Pagavi il giardiniere e la governante in contanti e ti lamentavi dell’aliquota dell’imposta sul reddito.

L’altro era che i partiti di sinistra, sempre masochisticamente pronti a credere al peggio e a dare per persa la battaglia prima ancora che iniziasse, hanno accettato acriticamente l’assurdità della fine della storia e hanno creduto che il dominio degli Stati Uniti, la globalizzazione e la deindustrializzazione fossero destinati a durare e che bisognasse semplicemente conviverci. Ora che tutto questo è stato messo in discussione, questi partiti non sanno più dove andare (vedi Mr Starmer). L’unico slogan elettorale che sono riusciti a inventarsi è stato “se pensate che noi siamo cattivi, gli altri sono anche peggio”, che non ha funzionato molto bene. Nel frattempo hanno completamente abbandonato qualsiasi iniziativa concreta, o anche solo promessa, per migliorare la vita della gente comune. Il progresso è stato sostituito dal regresso. Sempre più persone non si sono preoccupate di votare, perché a che serviva?

Così i leader dei partiti, ben intenzionati e di buon senso, ma poco inclini a fare qualcosa di concreto, hanno cercato uno sbocco per le loro energie politiche e, naturalmente, hanno trovato e alimentato la politica identitaria nelle sue varie fasi e forme. Ciò presentava molti vantaggi, soprattutto perché non richiedeva alcuna azione o impegno concreto, ma solo le opinioni giuste e il discorso giusto. Permetteva di sentirsi superiori agli altri e di giudicarli in base alle proprie opinioni, piuttosto che al proprio comportamento. Permetteva di “combattere” non contro individui, che avrebbero potuto reagire, ma contro astrazioni come il “razzismo” e il “sessismo”, che non hanno un’esistenza oggettiva e, poiché non possono mai essere identificati con precisione, non possono mai essere sconfitti, fornendo così un lavoro, o una causa, per tutta la vita. Permetteva di distruggere ideologicamente i propri nemici senza rischi o inconvenienti per sé stessi. Soprattutto, vi ha fornito un repertorio di codici e segnali per mostrare la vostra virtù, cercare persone che la pensano come voi ed evitare la marmaglia.

Mi ha sempre stupito che qualcuno potesse seriamente ritenere che queste idee, e gli scritti dei teorici che le sostengono (Foucault, Derrida, Deluze…), fossero in qualche modo “di sinistra”. In realtà sono profondamente conservatrici nella loro formulazione e lo sono ancora di più nei loro effetti pratici. Forniscono una nuova serie di ragioni per spiegare perché nulla può cambiare, perché il progresso non è più possibile e perché i tentativi di cambiare e migliorare le cose sono inutili e persino controproducenti. Non è un caso che queste idee siano state accolte con favore dalla destra nel mondo degli affari e nel governo e utilizzate come forma di disciplina ideologica.

Sebbene sia vero che Foucault, ad esempio, fosse associato ad alcune cause definite “progressiste” (una delle quali era la riforma carceraria), lui e i suoi colleghi erano piuttosto disinteressati alle cause tradizionali della sinistra. Non sostenevano gli scioperi di massa del maggio 1968, i più grandi nella storia francese, ma gli studenti della classe media di Parigi che chiedevano più libertà da mamma e papà. La bastardizzazione delle opinioni di Foucault e di altri negli Stati Uniti sotto lo strano titolo di “Teoria francese”, come se fosse omogenea, ora giace come una coperta soffocante su chiunque e su qualsiasi istituzione che cerchi di migliorare la vita. Tutto è potere e dominio, ogni apparente vittoria è solo una sconfitta nascosta, ogni progresso è illusorio poiché il potere si ritira semplicemente in posizioni meglio nascoste. (Questo è ovviamente uno dei progenitori delle moderne teorie del complotto: il fatto che non ci siano prove dell’esistenza di tali complotti dimostra solo quanto siano stati ben nascosti).

Pertanto, potresti considerare il ruolo aggressivo della signora von der Leyen nel conflitto ucraino come un trionfo per le donne di tutto il mondo (o forse no), ma in realtà si tratta solo di un esempio di come la struttura di potere misogina stia trovando mezzi di controllo più sottili. Si potrebbe pensare che dare soldi a un senzatetto sia un atto di carità, ma in realtà è solo un simbolo dell’umiliante dominio dei ricchi sui poveri, proprio come mandarli a lavorare nelle case dei poveri due secoli fa. Potreste credere di stare iniziando una relazione a lungo termine con qualcuno che amate, mentre in realtà vi state solo coinvolgendo in una lotta sadomasochistica senza fine per il potere e il dominio. (Considerando ciò che sappiamo della vita privata di Foucault, probabilmente era vero nel suo caso). Potresti credere di fare del bene inviando denaro per gli aiuti umanitari nel Terzo Mondo, ma in realtà stai solo mettendo in atto i tradizionali modelli di dominio neocoloniale e razzista. In ogni caso, nulla vale la pena di essere fatto: tutti i sentimenti più nobili, tutti i sentimenti altruistici, possono essere decostruiti nella ricerca e nell’esercizio del potere, e alla fine tutto viene decostruito, anche l’insegnamento della decostruzione stessa, che ovviamente implica un rapporto di potere tra insegnante e studenti.

Nulla può mai cambiare, quindi nulla può mai migliorare, anche se superficialmente sembra il contrario. La società è statica in questa formulazione come lo era nella Spagna del XVIII secolo. Ho già sostenuto in precedenza che la nostra società sta effettivamente divorando se stessa e che il nostro sistema politico è sia la causa dell’esaurimento sia esso stesso esaurito, e non ripeterò tutto ciò qui. Tra i globalisti e i fanatici del mercato da un lato, e coloro che sono abbagliati dalla decostruzione dall’altro, non abbiamo alcun mito del Progresso a sostenerci, solo un mito del Regresso. Il meglio che possiamo fare è afferrare ciò che possiamo mentre possiamo in una società in declino, combattere ferocemente gli altri per un accesso dignitoso all’assistenza sanitaria e all’istruzione, risparmiare e indebitarci freneticamente per avere una casa invece di essere senzatetto, cercare disperatamente un vantaggio finanziario personale ovunque e in qualunque modo possiamo trovarlo. In questo caso, sia la “destra” moderna che la “sinistra” moderna hanno una visione comune di una società di tutti contro tutti, dove i vincitori sono coloro che riescono a conservare il maggior numero possibile di componenti tradizionali di una vita dignitosa.

Va da sé che l’azione collettiva è quindi inutile. Non può portare a nulla, poiché le teorie sulle strutture di potere e le leggi ferree dell’economia ci dicono che conta solo l’individuo e che tutte le relazioni sono necessariamente conflittuali, dominanti-sottomesse e parte di un gioco a somma zero. Anche il passato viene riscritto, per reinterpretare ciò che storicamente era considerato altruismo come egoismo, e gli sforzi collettivi come esempi delle operazioni insidiose di strutture di potere profondamente nascoste, nel caso in cui il passato dovesse diventare una fonte di ispirazione per il presente e il futuro. Quindi non fa differenza per chi voti, o se sei membro di un’organizzazione di beneficenza, di una chiesa o di un sindacato. Tanto vale arrendersi prima ancora di iniziare. Fornire un servizio migliore ai clienti, migliorare l’istruzione o l’assistenza sanitaria, persino intraprendere miglioramenti infrastrutturali, è inutile e persino controproducente. È affascinante vedere come il senso di sicurezza e prosperità degli anni ’60 sia stato accuratamente oscurato, 1984-in stile, nel caso in cui la gente cominciasse a pensare che la piena occupazione e il funzionamento dei servizi pubblici fossero effettivamente, sapete, possibili. (Oh, il sessismo di quei tempi! Che orrore! Eri vivo allora? No, ma l’ho letto in questo libro uscito l’anno scorso.)

Nessuna società fondata sul culto dell’impossibilità può durare a lungo. In definitiva, è impossibile nascondere il fatto che in passato, e per lo stesso motivo in molti altri paesi oggi, i sistemi funzionavano abbastanza bene e le persone potevano sperare in un futuro migliore, e lo facevano. Ci sono segnali che in molti paesi occidentali la gente stia finalmente iniziando a ribellarsi all’immobilismo e al pessimismo che dominano il panorama politico. Il problema è ovvio: nessuno dei partiti politici consolidati ha una storia convincente da raccontare su come la società possa iniziare a migliorare o, come minimo, smettere di peggiorare. Oh, ci sono chiacchiere su come l’intelligenza artificiale ci renderà tutti ricchi, o su come un aumento dell’offshoring e dei tagli alla sicurezza sociale ribalteranno l’economia. Ma alla fine, il messaggio è effettivamente quello della Chiesa nella Spagna del XVIII secolo: dovrete semplicemente sopportarlo. E non vale più la pena fare appello ai partiti tradizionali del bene comune – la vecchia sinistra o la destra civile – perché i loro cervelli sono stati divorati dai parassiti. Quando i servizi non funzionano, l’importante è rivendicare il maggior numero possibile di buoni posti di lavoro per il proprio gruppo di appartenenza. Quando le università non educano più, ciò che conta è che l’ideologia che propagano sia la tua. Quando tutto è troppo difficile, concentriamoci sulla spartizione del bottino: almeno quello sappiamo fare.

Questo è ovviamente estremamente pericoloso. “Fregarsene dell’elettorato” è una politica praticabile solo finché l’elettorato accetta di essere fregato. E cosa succede quando non lo accetta? Ci chiedete un esempio storico. Molto bene. Ho letto un nuovo libro dello storico francese Johann Chapoutot, che descrive in modo molto dettagliato gli ultimi tre anni della Repubblica di Weimar e che spero venga presto pubblicato in inglese. Il libro descrive un governo liberale-autoritario ossessionato dal taglio delle spese nel bel mezzo di una depressione economica, che perdeva costantemente potere ed elezioni, un partito socialista che sosteneva il regime di austerità per paura di qualcosa di peggio, partiti marginali di destra e di sinistra che raccoglievano voti e un governo che cercava di governare senza un mandato o una maggioranza. Entra in scena Kurt von Schleicher, genio malvagio e manipolatore che decide che sarebbe una buona idea sfruttare il partito nazista, in rapida perdita di consensi e di fatto in bancarotta. Perché non dividere il partito, riflette, invitando Gregor Strasser a entrare nel governo e mettendo da parte quell’idiota di Hitler bavarese? Solo che il malato Hindenburg voleva invece Hitler. Beh, va bene, in entrambi i casi i nazisti si sarebbero divisi in breve tempo e sarebbero scomparsi nel giro di pochi anni.

Il merito del libro di Chapoutot è quello di evitare completamente il senno di poi, e il risultato è una sorta di tragica farsa glaciale, in cui l’incompetenza e la stupidità competono con la ricerca di vantaggi politici e finanziari a breve termine per rovinare un paese in modo del tutto inutile. Naturalmente la storia non si ripete, ma come dico sempre, la politica è come l’ingegneria, e le stesse pressioni e tensioni tendono a produrre risultati simili. Quando un problema non può essere risolto con mezzi ordinari, le persone ricorrono a mezzi straordinari. Quando i partiti politici convenzionali rifiutano di affrontare le reali lamentele, le persone si rivolgono a quelli non convenzionali. Il culto dell’impossibilità può funzionare quando intere società accettano una giustificazione religiosa o ideologica dello status quo e il rifiuto del progresso. Ma non può funzionare quando l’unico argomento è: «Perché lo diciamo noi e dovrete semplicemente accettarlo».

LA MATRICE DEL MALE_ di Marco Della Luna

LA MATRICE DEL MALE:

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OLTRE LA PONEROLOGIA

La difesa ad oltranza delle illusioni genera inevitabilmente comportamenti mostruosi.

Premessa

Questo tempo di Avvento – Avvento  non del Messia, ma della Guerra –, nel quale governanti corrotti ci addebitano grandi spese per inutili armamenti, mentre noi europei, nel nostro continente sempre più tartassato, aspettiamo impotenti di essere esposti a una guerra nucleare per interessi altrui, è un tempo perfetto per analizzare l’origine della malvagità al potere.

Svolgerò di seguito dapprima un ragionamento nei limiti del normale pensiero etico e psicologico, nel tracciato della ponerologia; poi farò un salto qualitativo.

La ponerologia (dal greco poneròs, “cattivo”, “malvagio”) è un campo di studio che si concentra sulle origini, la natura e i modelli della malvagità o del male. Precisiamo che la ponerologia spiega i comportamenti malvagi – intesi come il perseguimento dei propri interessi a scapito degli altri, tipico di decisori politici ed economici – ricorrendo a concetti come la “ponerizzazione” o la diffusione del male “normale” e non clinico. Lasciamo quindi, almeno per ora, fuori dalla porta i casi patologici gravi come il sadismo (che ricadono nella psicopatia o disturbi di personalità).

Spiegazione Ponerologica dei Comportamenti Malvagi Non Sadici

Il meccanismo principale su cui si focalizza la ponerologia nei contesti non patologici (o almeno non primariamente sadici) è l’interazione tra individui, la formazione di gruppi e la psicologia sociale. La spiegazione si articola su diversi livelli:

1. L’Egoismo, la Deumanizzazione e la Razionalizzazione

I decisori politici ed economici spesso non agiscono per il piacere di infliggere dolore (sadismo), ma per:

  • Egoismo Spinto/Ambizione: Il desiderio smodato di potere, ricchezza e controllo è la forza motrice. I danni collaterali (il male fatto agli altri, incidentalmente o strumentalmente) non sono l’obiettivo, ma un costo accettabile o un effetto collaterale ignorato per raggiungere fini personali o di gruppo.
  • Deumanizzazione: È più facile perseguire i propri interessi a scapito degli altri quando le vittime non sono percepite come esseri umani pieni e degni, ma come cani miscredenti o come razza inferiore. La deumanizzazione riduce l’empatia e la colpa, trasformando le persone in numeri, statistiche, “danni collaterali” o, in senso politico, “nemici” o “sudditi da manipolare”.
  • Razionalizzazione: I decisori spesso si convincono di agire per un “bene superiore” (il bene dello Stato, dell’azienda, della nazione: salus rei publicae suprema lex) o che le loro azioni, per quanto dure, siano “necessarie” o “inevitabili” per motivi di mercato, o scientifici. O per volontà divina, espressa nelle Sacre Scritture. Questo permette loro di mantenere una visione positiva di sé stessi nonostante le conseguenze negative delle loro decisioni su milioni di esseri umani.

2. Il Ruolo della Psicopatia e della Ponerizzazione

Un concetto centrale, specialmente nella versione proposta da Andrzej M. Lobaczewski (che coniò il termine ponerologia politica), è quello della “ponerizzazione” della società e del ruolo delle personalità patologiche non sadiche ma egocentriche (come la psicopatia o disturbi narcisistici) al suo interno:

  • Personalità Anormali ai Vertici: La ponerologia suggerisce che le strutture di potere (aziende, partiti, Stati) tendono ad attrarre e promuovere persone con lievi o moderate anomalie caratteriali/psicologiche (come una ridotta capacità di provare empatia o senso di colpa) che le rendono particolarmente adatte a prendere decisioni “fredde” e spietate – su questo torneremo nel finale, dopo aver introdotto vedute che alla ponerologia sfuggono..
  • Adattamento per Imitazione: La presenza di tali individui nei ruoli chiave può “ponerizzare” (o “corrompere”) l’ambiente circostante. Le persone “normali” che lavorano sotto di loro imparano che l’unico modo per avere successo o sopravvivere è imitare i comportamenti non etici, sopprimere la propria coscienza e adottare le stesse logiche spietate, anche se non sono sadiche o maligne per natura.

3. La Pressione del Sistema e la Banale Malvagità

Questo aspetto si allinea con le teorie sulla “banalità del male” (Hannah Arendt) e l’influenza del contesto (esperimento di Milgram, esperimento della prigione di Stanford).

  • Pressione Strutturale: Nei grandi sistemi (multinazionali, burocrazie statali), l’individuo si sente spesso solo un ingranaggio. La responsabilità delle decisioni non è personale, ma diffusa nel sistema o nella catena di comando. “Stavo solo eseguendo gli ordini” o “Questo è il modo in cui funziona il mercato”  o “Ce lo chiede l’Europa” diventano giustificazioni per azioni che, prese singolarmente, sarebbero ritenute inaccettabili.
  • Conformismo e Paura: Il male può essere perpetrato per conformismo, per non rompere i ranghi, per paura di perdere la posizione o di essere esclusi o invasi dalla Russia. Questo non è sadismo, ma debolezza morale in un sistema che ricompensa la spietatezza e punisce l’integrità.

In sintesi, nella ponerologia, il male politico ed economico non sadico, non morboso, è spiegato come un processo dinamico guidato dall’egoismo e dall’ambizione, facilitato dalla deumanizzazione e dalla razionalizzazione, e amplificato dalla presenza di personalità amorali (anche non sadiche) che contaminano e distorcono la moralità delle strutture sociali e dei processi decisionali.

Dissezione dell’Illusione

Quanto sopra, l’opinione corrente, è incontestabile, entro i suoi limiti, ma è costitutivamente inidoneo a spiegare la matrice, la fonte del Male, inteso come l’indifferenza alla sofferenza che si arreca agli altri nel perseguire il proprio tornaconto particolare. Quella matrice è un preciso habitus mentale, compendiabile come segue:  

1.      Esiste una dimensione, il mondo, esterna alla mente, indipendente da essa, consistente di materia ed energia, quindi oggetto conquistabile: concezione realistica ingenua  dell’essere. 

2.      Questo mondo è composto di enti, di cose fisse, esistenti in se stesse (selbständig) e permanenti nel tempo, nel divenire. 

3.      Anche l’io personale o empirico, cioè il me, è fisso e permanente nel tempo.

4.      Il me è capace di acquisire e detenere le cose, ed è vulnerabile dall’esterno; perciò il suo interesse è conquistare quanto più possibile della realtà esterna, per mettersi al sicuro da pericoli provenienti dall’esterno: istinto di autoconservazione e volontà di potenza. 

5.      Il mondo è una realtà limitata, scarsa (in senso economico), in cui ciò che è mio non è tuo; onde, per massimizzare la propria capacità di autoconservazione, ciascuno razionalmente tende ad espandere il suo possesso di questa realtà e può farlo solo sottraendolo agli altri. 

6.      Anche gli altri esseri umani, come materia ed energia,  sono parte di questa realtà, quindi l’interesse e lo scopo di ciascuno è conquistare anche gli altri per sfruttarli. 

7.      Con queste premesse, automaticamente, per autoconservazione, il comportamento degli uomini tende ad essere egoistico e soppressivo dei beni e delle libertà del prossimo nonché indifferente alla sofferenza che causa negli altri. 

  Il Buddhismo, senza giudicare in chiave morale, insegna che la suddetta concezione della realtà, dell’essere e di sé, è erronea, illusoria; che causa dolore mentre impegna nel perseguimento di scopi essi pure illusori; e che è possibile liberarsi da tutto ciò mediante specifici esercizi mentali e corporali di rettificazione  del pensiero, dell’azione, degli stati d’animo. La liberazione, o nirvana, consiste appunto nella correzione di errori e nell’eliminazione del loro portato. Il Buddhismo, notoriamente, insegna:

– che non esiste una dimensione “esterna” alla mente e che il mondo, le cose, sono “vuoti” (sunya), nel senso che non hanno esistenza propria, indipendente dalla mente (non dalla mente mia o mia, ma dalla mente o coscienza trascendentale): sono oggetti mentali, rappresentazioni (nel senso del mondo come rappresentazione di Schopenhauer);

– che quelli che crediamo e viviamo come cose, enti, permanenti e a se stanti non sono tali, ma sono aspetti e momenti di un flusso, del flusso del divenire, come gli accordi sono passaggi della melodia; sicché l’idea di conquistarli e possederli stabilmente è irrealizzabile, è un auto-inganno;

– che anche l’io empirico, ossia il me (non la coscienza, la consapevolezza), non è una cosa fissa, separata, permanente, bensì un flusso, in costante mutamento, sicché non può, non posso, avere un’identità costante, ancor meno eterna; onde lottare per perpetuare il proprio me individuale non ha senso, è impossibile per inesistenza dell’oggetto da perpetuare.

Via via che si assimilano questi principi (non solo intellettualmente, è ovvio, ma anche come vissuto), cambiano, si correggono, le mete e le aspirazioni. Evidenzio che, se non li si assimila, si può bensì essere buoni, fare il bene, sacrificare l’interesse proprio a quello altrui – ma, per l’appunto, sarà sempre un sacrificare un interesse per un altro interesse, sarà sempre una contrapposizione tra il bene di un me e il bene di altri me. Perciò non sarà una posizione o una opzione stabile, e soprattutto rimarrà, al fondo, la contrapposizione tra i vari me, i molti centri di interessi.

L’insieme di idee buddhiste sopra delineato non è affatto estraneo alla cultura europea, poiché anche alcuni filosofi occidentali hanno dimostrato l’erroneità della concezione suddetta: il realismo-materialismo è stato confutato da Cartesio, Berkeley, Kant e poi dall’idealismo; la fissità e indipendenza degli enti era nota come illusoria già ad Eraclito; la loro indissolubile, reciproca dipendenza ontologica è stata acquisita da Hegel; l’illusorietà dell’io empirico (o me) come entità stabile e definita è stata dimostrata da Bradley, il quale ha inoltre dimostrato l’illusorietà del comune concetto di tempo, spazio, causa; e altresì da Gentile, il quale ha ulteriormente dimostrato la realtà non statica ma processuale, agente, dell’esistente (realtà come atto in atto), e che l’io o coscienza, il soggetto, non è una cosa, ma un’azione, senza un oggetto altro da sé: un’azione intransitiva.  Nel mio saggio Terminus ho argomentato l’inconciliabilità logica di esistenza e infinità o perfezione, quindi l’insuperabile contraddittorietà logica del concetto del dio cristiano.

Di contro a queste comprensioni filosofiche, sta il fatto che il genere umano vive nel culto ossessivo del “permanentizzare” il me fisso e il possesso delle cose. Le illusioni permeano e impregnano la vita, informano a sé il sentire, il volere, il percepire; strutturano la morale, il diritto, la società, la politica, l’economia. Esse regnano – e più avanti tratteremo le implicazioni di questa loro sovranità.

L’uomo adora dei che, a differenza del mondo naturale, fenomenico, sono eterni, quindi possono dispensare eternità. Ad essi chiede la vita eterna per il suo supposto me fisso che non esiste; e le astute religioni, in cambio dell’obbedienza in questa vita, la promettono per la successiva. Le più popolaresche, come l’Islam e i Testimoni di Geova, promettono addirittura l’eternità del me corporeo materiale su questa Terra, con tutti i suoi piaceri. Altre promettono la conservazione del me a diversi livelli di purezza: con il corpo però senza brutte funzioni escretorie e sessuali, malattie e morte; oppure senza il corpo ma con la forma; oppure ancora senza corpo e senza forma, con solo il me. Noterete che questa successione di prospettive escatologiche costituisce una progressione, una progressiva spogliazione dagli elementi dell’empiricità verso l’identità con l’io o coscienza trascendentale. Richiama il funzionamento di una torre di raffinazione per il petrolio grezzo.

Il Paradigma Ontologico

Col discorso che sto svolgendo ho inteso spostare la spiegazione del Male non sadico dal piano della mera psicologia individuale e sociale (ponerologia) a un piano metafisico ed epistemologico. La mia tesi centrale è che l’indifferenza alla sofferenza altrui (la matrice del Male) non è solo una conseguenza di ambizione ed egoismo, ma è radicata in una percezione, in un vissuto della realtà fondamentalmente erronei e illusori (il realismo ingenuo), che fanno vivere in un modo deviato e che portano automaticamente a un conflitto soppressivo. Propongo, in sostanza, quanto segue:

  1. Individuazione della Radice Metafisica: L’identificazione di un “habitus psichico” come vera matrice del Male. Spostare l’attenzione dalla patologia o dal semplice vizio morale alla struttura percettivo-cognitiva (la concezione del sé e del mondo) è un salto qualitativo. Questo eleva l’analisi dal che cosa al perché profondo.
  2. Sistematizzazione Chiara: La sequenza logica dei punti 1-7 del precedente paragrafo descrive l’illusione realista e le sue conseguenze morali. Mostra come la credenza in un mondo esterno conquistabile induca la credenza in un “me” fisso che a sua volta suscita la percezione di scarsità e vulnerabilità, che ha come conseguenza la necessità logica dell’egoismo e dello schiacciamento degli altri.
  3. Integrazione Interculturale (Buddhismo): L’uso del Buddhismo (in particolare i concetti di śūnyatā – vacuità, anikka – impermanenza. e anātman – non-sé) come antidoto è estremamente pertinente. Il Buddhismo offre non solo una confutazione teorica, ma anche un percorso pratico (habitus mentali e corporali) per la rettificazione, in quanto l’errore epistemologico è collegato alla sofferenza e alla malvagità.
  4. Riferimento alla Filosofia Occidentale: La connessione finale con Eraclito, Plotino, Cartesio, Berkeley, Kant, Hegel e l’Idealismo italiano (Gentile), non dimenticando il grande apporto di Schopenahier è fondamentale. Dimostra che la critica al realismo ingenuo e all’idea di un io (me) fisso non è un’esclusiva orientale, ma una base filosofica universale.

1. Il Salto tra Metafisica e Azione Morale

Assolto il compito di definire l’errore ontologico, l’illustrazione del passaggio dall’errore epistemologico all’azione malvagia richiede di un ponte più solido. Infatti il critico potrebbe dire: Affermare “automaticamente, per autoconservazione, il comportamento… tende ad essere egoistico e soppressivo” sembra ignorare la sfera della libertà morale o della scelta etica che esiste anche all’interno di una concezione realista. Molte persone con una visione “realista” del mondo riescono comunque a essere altruiste (sebbene, come giustamente evidenzi, con un fondo di “sacrificio di un interesse per un altro interesse”). A questa possibile obiezione in parte ho risposto parlando dell’illusorietà della soluzione che passa per l’idea del sacrificio di sé per il bene altrui, e per il resto risponderò infra, parlando dei meccanismi di condizionamento che prevalgono sulla coscienza morale.

Intanto faccio presente che quel passaggio avviene non direttamente, omisso medio, ma attraverso la sfera del vissuto (del desiderio, dell’emozione, della volizione), in un percorso non lineare ma circolare, che circolarmente rinforza i suoi elementi (quel tipo di percezione rinforza quel tipo di emozione, che a sua volta rinforza quel tipo di condotta, che a sua volta rinforza quel tipo di percezione); inoltre, sottolineo come l’habitus mentale realista non costringe al Male, ma ne riduce drasticamente la soglia di accesso e lo rende l’opzione razionalmente più efficiente (secondo la logica di autoconservazione/volontà di potenza). La concezione sbagliata prepara il terreno e giustifica il Male, specialmente nei decisori di potere, ma la scelta rimane. E il Male, una volta compiuto, corrobora la concezione sbagliata. Così il flusso mentale costituente il soggetto “affonda” sempre più nell’errore – quindi anche nel suo proprio male, nella propria sofferenza (dukkha), come una corrente marina affonda verso profondità più oscure quando si raffredda.

2. Differenziare il Sé Empirico dal Sé Trascendentale

Nel paragrafo sul Buddhismo, la distinzione tra l’io empirico (il “me”) e la coscienza trascendentale/mente è cruciale; ma, privilegiando la rapidità, quando la ho introdotta, la ho trattata molto rapidamente, e intendo ora rimediare.

 Per un lettore non esperto di filosofia orientale o idealista, la frase “indipendente non dalla mente mia o tua, ma dalla mente o coscienza trascendentale” rischia di rimanere enigmatica. Essa è tuttavia la chiave per distinguere la vacuità buddhista (che non è un nichilismo) dal nichilismo come inteso chez nous e dall’annientamento totale. Perciò qui chiarisco che la coscienza trascendentale o la realtà come Flusso/Atto del pensiero è il carattere autocosciente dell’essere stesso oltre gli ego individuali: il vero Io  non è il “me” empirico (un flusso di dati psicologici), ma è l’unità universale e attuale che opera in ogni individuo quando compie l’atto di pensare. Quando tu pensi, non è il tuo “me” separato che opera, ma l’Atto Universale del Pensiero. Questo sottolinea che la liberazione (Nirvana) non è apatia, ma la comprensione a tutti i livelli dell’interdipendenza ontologica, che mostra il male arrecato all’altro un male arrecato a sé stessi.

3. La Instabilità dell’Altruismo

La mia conclusione sulla non-stabilità dell’altruismo basato sul sacrificio va sviluppata. Ho scritto: “…sarà sempre un sacrificare un interesse per un altro interesse, sarà sempre una contrapposizione tra il bene di un me e il bene di altri me. Perciò non sarà una posizione o una opzione stabile…” Questa stringata enunciazione vuole evidenziare come l’altruismo interno al vissuto “realista” sia sempre una transazione, un’etica del dovere/sacrificio che si basa su una tensione non risolta (il mio me contro gli altri me). E così pure si osserva il comune destino di tutti i movimenti nati “per il bene comune”: essi vanno incontro al regolare fallimento per degenerazione in senso affaristico, o per frammentazione e abbandono. Regolarmente, succede che in essi si ritrovano troppi galli nel pollaio, troppe prime donne – troppi soggetti che intendono quei movimenti come strumenti per affermare ciascuno il proprio me, in forma di leadership e/o intellettualità, sugli altri. Le organizzazioni del samsara, cioè del mondo dell’illusione, non cagliano intorno al bene comune, diffuso, bensì intorno al bene dei loro membri dirigenti, perseguito in distinzione o contrapposizione rispetto al bene comune, collettivo, generale, e persino a quello dei membri non dirigenti. Questi concetti valgono anche a invalidare l’idea che possa arrivare un salvatore a risolvere i mali del mondo, sia egli un essere soprannaturale, extraterrestre, o più banalmente un Trump o un Putin.

Al rovescio di tutto ciò, la liberazione buddhista/idealista, e pure quella neo-platonica, è l’eliminazione della tensione stessa, poiché non c’è più un me separato da difendere o sacrificare. Questo è l’essenza della mia critica all’etica dell’altruismo. La mia non è un’analisi etica o psicologica, ma una diagnosi ontologica: il male nasce dall’errore di credere e senitre che l’essere  consista in enti e “me” fissi, separati e in competizione. Questa è una linea di ragionamento si allinea con l’idea che la vera rettificazione non è un cambio di comportamento, ma un cambio di coscienza e di sentire sulla natura della realtà, seppure il cambiare gradualmente il proprio comportamento aiuta a correggere la mente. È una linea argomentativa che si spinge alle fondamenta di come percepiamo la realtà e il sé.

Implicazioni Pratiche dell’Illusione Realista

 Tenendo conto della mia analisi ontologica (l’errore del “sé fisso” e del “mondo conquistabile” come radice del Male) e aggiungendo i fattori impersonali e il contesto decisionale (mercato e groupthink), possiamo sviluppare le implicazioni pratiche e la differenza tra l’analisi  Ponerologica e l’analisi Ontologia.

Se la matrice del Male è l’illusione di un sé separato e in competizione in un mondo di risorse scarse (il tuo punto 1-7), la sua traduzione nell’agire politico ed economico diventa il tentativo incessante di cementare quell’illusione attraverso il possesso e il potere.

1. Il Mercato come Manifestazione dell’Illusione della Scarsità

Il “mercato” e le sue “richieste” non sono forze naturali, ma sistemi umani costruiti sulla premessa dell’individualismo metodologico e della scarsità competitiva (punti 4, 5, 6  supra).

  • Necessità Fittizia: La credenza che il mio benessere dipenda dal mio possesso e dalla mia espansione (autoconservazione) si traduce nella logica del profitto illimitato. Il decisore economico non è mosso dal sadismo, ma dalla paura ontologica (la paura dell’io separato di essere vulnerabile) che viene razionalizzata come “esigenza del mercato” o “massimizzazione del valore per gli azionisti”.
  • Gli stakeholders ti richiedono la massimizzazione dei ritorni egoistici senza considerazione per le esternalità generate a danno della collettività; se non performi, ti cacciano e ti rimpiazzano con uno che sta al gioco; quindi tu ti adatti e performi.
  • Deumanizzazione Strutturale: Quando le persone sono considerate “capitale umano” o “consumatori”, e l’ambiente “risorsa”, l’illusione ontologica si traduce in un linguaggio quantitativo ed estrattivo. L’indifferenza alla sofferenza (la matrice del Male) non è un atto di volontà, ma una conseguenza automatica dell’applicazione di modelli che vedono la realtà e gli altri come oggetti conquistabili (punto 6). Il sistema non richiede l’odio, ma l’indifferenza calcolata. Te lo chiede il Mercato.

2. Il Groupthink e la Congruenza Illusoria

La dinamica del “groupthink” (la tendenza dei gruppi a cercare il consenso e a sopprimere il dissenso razionalmente critico perché introduce nel gruppo dubbi sgradevoli) amplifica l’errore ontologico di partenza e spiega come “uomini buoni” (o non malvagi) possano compiere “azioni malvagie” in gruppo (il tuo esempio: senatores boni viri, senatus mala bestia).  L’obiettivo non è la verità o l’etica, ma la sopravvivenza collettiva dell’io di gruppo (“il nostro interesse”). Il “me fisso e separato” viene sostituito dal “noi fisso e separato” (nazione, azienda, partito), che deve difendersi dagli “altri noi”.
Il gruppo si sente meno vulnerabile rispetto all’individuo. Questo incoraggia l’assunzione di rischi immorali, poiché la responsabilità è diffusa e il danno percepito all’esterno come “inevitabile” o “collaterale” viene razionalizzato più facilmente.
I membri, individualmente capaci di empatia (boni viri), cedono il giudizio etico alla logica di gruppo. Poiché la loro autoconservazione e identità dipendono dall’appartenenza (la fissità dell’io si trasferisce al noi), la soppressione della coscienza individuale è vista come un “sacrificio necessario” per il bene maggiore (e illusorio) del gruppo. Così l’effetto campo del gruppo amplifica l’illusione realista e corrobora il me in forma collettiva, aumentando il senso della sua forza e invulnerabilità.

Il groupthink è quindi la prova che l’errore ontologico (il sé fisso e separato) non è solo individuale, ma sistemico: il sistema premia chi condivide l’illusione di un “noi” contrapposto al “loro”.

Ponerologia e Ontologia a Confronto

La mia analisi non nega la Ponerologia, ma la radica e la spiega. Vediamola nel confronto con la mia teoria.

Ponerologia (Lobaczewski)

Si concentra sul come il Male si diffonde. Il meccanismo centrale è l’infiltrazione e l’influenza di personalità patologiche (psicopatici, ecc.) che creano una struttura di potere distorta e contaminano gli individui normali, portandoli al male per imitazione e conformismo.

Ontologia (La mia tesi)

Si concentra sul perché il sistema è vulnerabile all’infiltrazione. La vulnerabilità nasce dall’errore fondamentale sulla natura dell’Essere.

In sintesi, la Ponerologia descrive come i malvagi prendono il potere; La società è vulnerabile perché attrae e legittima la logica morbosa e perché le persone sane non sanno riconoscere i patologici e mancano di un sistema immunitario etico. Come soluzione, propone una sorta di igienizzazione mentale e politica, col riconoscimento e isolamento dei soggetti patologici.

Invece, la mia analisi ontologica spiega perché le strutture di potere sono intrinsecamente predisposte ad accogliere la logica malefica, a causa di una comprensione errata della realtà che è già accettata come “normale” dal mercato e dalle dinamiche di gruppo. La società è vulnerabile perché basata sul miraggio del me fisso e separato e della competizione per il controllo delle cose fisse – un miraggio che legittima quella logica. La soluzione è la “rettificazione” sopra delineata.

Siamo, con tanto, arrivati al cuore del problema, collegando direttamente l’errore epistemologico (l’irrealtà del me fisso e delle cose fisse) alle sue estreme conseguenze etiche.

La frase “La difesa ad oltranza dell’indifendibile perché irreale (il me fisso, le cose fisse) genera comportamenti mostruosi”, anticipata come sottotitolo, può essere analizzata come la formula causale del Male non sadico, vista in chiave ontologica:

  • L’Illusione (L’Irreale): La concezione che l’io sia un’entità stabile, separata e permanente (me fisso), e che la realtà esterna sia composta da oggetti definiti e conquistabili (cose fisse): questo è il presupposto di base della competizione e dell’autoconservazione egoistica.
  • La Difesa ad Oltranza: L’instancabile sforzo (politico, economico, militare) per mantenere in vita questa illusione. Poiché il “me fisso” e le “cose fisse” sono ontologicamente indifendibili (sono flussi e interdipendenze, come insegna il Buddhismo e l’Idealismo), la loro difesa richiede una quantità sproporzionata di violenza mentale e fisica.
  • Il Comportamento Mostruoso: L’inevitabile risultato. Quando l’obiettivo è difendere ciò che non esiste (l’identità separata), ogni mezzo è giustificato. I danni collaterali (la sofferenza altrui) diventano marginali, in quanto l’urgenza di preservare l’illusione del proprio essere o del proprio possesso eclissa ogni considerazione etica. L’indifferenza alla sofferenza diventa non un atto di sadismo, ma un imperativo logico generato dalla paura di vedere dissolta la propria (irreale) identità.

Questa dinamica spiega perché i comportamenti diventano “mostruosi” anche in assenza di sadismo:

  1. Vulnerabilità Intrinseca: Poiché l’io empirico separato è ontologicamente indifendibile e il possesso è instabile, si percepisce una minaccia costante. Questo genera una paranoia radicale che vede gli altri non come partner nell’interdipendenza, ma come concorrenti necessari per le “cose”.
  2. Escalation Logica: La difesa dell’irreale non può mai avere successo, e ciò porta a una spirale di richiesta di maggiore potere e controllo. Per difendere l’illusione del possesso e della permanenza, si è costretti ad agire con misure sempre più estreme, fredde e disumanizzanti, culminando in azioni che, dall’esterno, appaiono oggettivamente “mostruose”.
  3. Rinforzo Progressivo: Quanto più sento, penso e agisco all’interno del suddescritto paradigma illusorio, tanto più lo rafforzo in me, facendone un’abitudine e un automatismo mentale e comportamentale.

Occorre, insomma, una diagnosi profonda che vada oltre l’analisi morale o psicologica per identificare la radice della malvagità nel fraintendimento ontologico, della natura interdipendente della realtà.

Avanti i sadici!

Rimane un punto molto importante, dinamicamente e psicologicamente, da considerare: la difesa oltranzista dell’indifendibile recluta, seleziona e promuove difensori con determinati tratti di personalità…

Questo è il punto cruciale di connessione tra la mia analisi ontologica (l’errore matriciale) e l’analisi psicologica/ponerologica (l’applicazione pratica del Male): la difesa di un sistema basato sull’irreale non è anche un potente meccanismo di selezione del personale.

La difesa oltranzista dell’indifendibile (l’illusione del sé fisso e della scarsità competitiva) funge da filtro che recluta, seleziona e promuove individui che non solo accettano l’illusione, ma sono anche psicologicamente più adatti a operare al suo interno senza subire crisi di coscienza.

Il Filtro Psicologico del Sistema Illusorio

Il sistema (sia esso politico, economico o burocratico) che opera sulla base di una premessa irreale (l’ego separato come unica realtà) necessita di decisori che possiedano tre caratteristiche fondamentali:

1. Ridotta Empatia e Senso di Colpa (Tratti Psicopatici/Narcisistici)

Il sistema premia coloro che riescono a mantenere la distanza emotiva dalle conseguenze delle loro azioni, e a non vedere il ruolo di esse nell’insieme del meccanismo in cui sono inseriti (selezione dell’ottusità).

  • Necessità del Sistema: Poiché la logica del “me fisso vs. altri” richiede decisioni che arrecano danno (“ciò che è mio non è tuo” – “mors tua vita mea”), il sistema non può permettersi leaders con un alto grado di empatia o una coscienza morale normo-reattiva.
  • Selezione: Vengono promossi individui con tratti sub-clinici (non necessariamente sadici, ma egocentrici, machiavellici o con un lieve narcisismo grandioso) che possono razionalizzare il danno come “necessario” o delegare la colpa al sistema, al mercato, o alla concorrenza. Essi non si sentono “mostruosi” perché il loro filtro emotivo li rende indifferenti (la matrice del Male) alla sofferenza generata.

2. Rigida Coerenza Cognitiva e Conformismo all’Ideologia

La difesa di una premessa irreale (come l’illimitata crescita in un mondo finito, o l’assoluta sovranità dell’individuo) richiede una forte adesione dogmatica.

  • Necessità del Sistema: L’irrazionalità di base del sistema deve essere protetta da ogni disallineamento cognitivo. Chi mette in discussione le premesse (ad esempio, l’interdipendenza o la finitezza delle risorse) è percepito come una minaccia, un “nemico interno” o un debole.
  • Selezione: Vengono scelti individui che mostrano fedeltà cieca all’ideologia e alla gerarchia (sia essa di partito, aziendale o finanziaria) e una resistenza al pensiero critico o all’auto-riflessione. Questo è l’essenza del groupthink: il decisore ideale non è chi porta la realtà nel sistema, ma chi rinforza l’illusione condivisa.

3. Super-Identificazione con la Posizione e il Potere

L’illusione del “me fisso” viene proiettata e fissata nel ruolo sociale o economico.

  • Necessità del Sistema: La difesa dell’indifendibile richiede persone che confondano totalmente la propria identità con la carica che ricoprono.
  • Selezione: La promozione va a coloro per i quali il potere, la ricchezza e la posizione non sono strumenti, ma sostituti dell’io (l’identità irreale). La perdita di potere è percepita non come un cambio di lavoro, ma come l’annientamento dell’io. Per questo motivo, la difesa del proprio status e delle politiche che lo garantiscono diventa una lotta per la sopravvivenza ontologica, giustificando azioni sempre più estreme e difensive.

In conclusione, la difesa dell’irreale non solo scavalca o anestetizza l’empatia e la coscienza morale e rende inevitabile il “comportamento mostruoso”, ma attira selettivamente i caratteri psicologici che sono naturalmente meno ostacolati dall’etica e dalla realtà per realizzarlo. È una dinamica di rinforzo reciproco: l’errore ontologico struttura il sistema, e il sistema seleziona gli agenti ottimali per perpetuare e premiare l’errore stesso.

E con questo abbiamo chiuso il cerchio, accogliendo finalmente e a pieno diritto nella nostra analisi, dalla porta di servizio, i sadici, i narcisisti e gli psicopatici, che all’inizio avevamo lasciato fuori ad aspettare.

28.09.25 Marco Della Luna

Rudolf Von Jhering, La lotta per il diritto e altri saggi_a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Rudolf Von Jhering, La lotta per il diritto e altri saggi, Castelvecchi editore (traduzione di Roberto Racinaro, a cura di Pasquale Femia e Francesco Mancuso), € 21,00, pp. 254.

A leggere questa nuova edizione della traduzione (del 1989) di Roberto Racinaro di un classico del pensiero giuridico come Der Kampf um’s Recht occorre porsi alcuni interrogativi.

Il primo è: se il saggio di Jhering è uno dei libri giuridici più conosciuto (e pubblicato) degli ultimi centocinquant’anni, tradotto in una ventina di lingue, continuamente ripubblicato (Italia compresa) a che serve una nuova edizione? La prima risposta che si può dare è che i problemi lì affrontati (connaturati al diritto) sono  sempre attuali. Facciamo un esempio. Nelle prime edizioni del saggio, Jhering scriveva “Il concetto del diritto è un concetto pratico, cioè rivolto ad uno scopo, ma ogni concetto rivolto a uno scopo è configurato per sua natura dualisticamente, poiché racchiude in sé l’antitesi di scopo e di mezzo: non basta rendere noto semplicemente lo scopo, ma deve insieme essere fornito il mezzo, attraverso cui esso possa essere raggiunto”.

A chi rimproverava a Jhering di aver enfatizzato la litigiosità perciò rispondeva, nella prefazione del 1891 (non presente nell’edizione italiana precedente, neanche in quella del 1935, traduttore R. Mariano) “mi limito soltanto a rivolgere, a coloro che si sentono chiamati a farmi delle critiche, due preghiere. In primo luogo, che non facciano in modo di distorcere e snaturare le mie vedute, da farmi propugnare la lite e la lotta, l’amore di far liti e processi, mentre io non richiedo assolutamente la lotta per il diritto in ogni lite, ma solo là, ove l’assalto contro il diritto implica parimenti il dispregio della persona… L’arrendevolezza e lo spirito di conciliazione, la mitezza e la natura pacifica, la composizione amichevole e la rinunzia a far valere il diritto trovano anche nella mia teoria il posto che loro compete; ciò contro cui essa si pronunzia è unicamente l’umiliante tolleranza dell’ingiustizia che deriva da viltà, pigrizia, indolenza” e sottolinea il limite di opposte critiche “Cos’ha il dovere di fare chi si trova dalla parte del diritto, quando il suo diritto è calpestato? Chi può darmi al riguardo una risposta diversa dalla mia, ma tollerabile, cioè compatibile con il sussistere dell’ordinamento giuridico e con l’idea della personalità, mi ha battuto”; perché in attività (e problemi) pratici “per quanto riguarda i problemi puramente scientifici ci si può limitare a confutare semplicemente l’errore, anche se non si è in grado di sostituirvi la verità positiva, ma nel caso dei problemi pratici, ove è certo che un problema non può essere non trattato, e ove la questione è come debba essere trattato, non è sufficiente rifiutare come non giusta l’indicazione positiva data da un altro, ma la si deve sostituire con un’altra. Attendo che ciò avvenga riguardo all’indicazione da me fornita; finora, non sono stati compiuti in proposito neanche i primi passi”.

E nell’attualità abbondano quelli che Jhering chiamava i “Sancho Panza… i filistei del diritto”, ai quali conveniva l’espressione di Kant “chi si fa verme, non può lamentarsi se viene calpestato”: il  risultato delle loro condotte, di mancata coltivazione dei diritti soggettivi, è il venir meno del diritto oggettivo come il grande giurista ripeteva “La vita del diritto è lotta, una lotta dei popoli, del potere statale, degli individui.

Ogni diritto nel mondo è stato conquistato, ogni massima giuridica ha dovuto dapprima essere strappata con la lotta a coloro che le si opponevano, e ogni diritto, il diritto di un popolo come quello del singolo individuo, presuppone la disposizione continua alla sua affermazione. Il diritto non è un concetto logico, ma un concetto di forza… La spada senza la bilancia è la cruda violenza, la bilancia senza la spada è l’impotenza del diritto… Il diritto è un lavoro ininterrotto e cioè non è soltanto un lavoro che riguardi il potere dello Stato, ma tutto il popolo. L’intera vita del diritto, vista con uno sguardo d’insieme, ci offre l’immagine di un infaticabile lavorare e lottare… Ogni singolo che si trova nella situazione di dover affermare il suo diritto, svolge la sua parte in questo lavoro nazionale, offre il suo contributo alla realizzazione dell’idea del diritto sulla terra”. Che quello stigmatizzato da Jhering sia l’andazzo prevalente nell’Italia del XXI secolo è evidente.

La ripetuta formulazione di leggi che rendono difficoltosa e onerosa l’esecuzione di sentenze, soprattutto nei confronti delle pubbliche amministrazioni ne è la componente saliente. Così come è trascurato quello che sosteneva Jhering, che il diritto è un lavoro di tutto il popolo e non solo (e non tanto) del potere dello Stato. Tanto più quando questo è strumento per l’approvazione e il mantenimento di una classe dirigente decadente: e proprio perciò propensa, come scriveva Pareto, a far uso della furbizia piuttosto che della forza.

La seconda questione è la capacità di Jhering di coniugare versanti spesso contrapposti, o quanto meno distinti, in una sorta di complexio oppositorum e così diritto soggettivo ed oggettivo, forza e diritto, norma ed eccezione.

Lunità dei quali, o quanto meno la loro coincidenza e sinergia è trascurata o negata.

Gli è che Jhering come scrive in “Das Zweek im Recht” ritiene che scopo del diritto sia la vita (collettiva ed individuale) e in ciò manifesta molti punti di contatto con altri giuristi, a cominciare da Hauriou e Santi Romano. E’ un vitalismo giuridico che vede nella norma lo strumento dell’ordine della (e nella) vita comunitaria (come nella metafora della scacchiera di Romano).

Un cenno, prima di terminare queste note. Jhering rileva che nel “Mercante di Venezia” Shylock lotta per il proprio diritto, che è, a un tempo, quello di Venezia, come afferma il mercante. A fronte di tale domanda “Il giudice aveva l’alternativa di ritenere valida oppure non valida la cambiale”. Tuttavia “dopo che è stata pronunciata la sentenza del giudice, dopo che è stato fugato dal giudice stesso ogni dubbio sul diritto dell’ebreo, non si osa più contraddire tale  diritto… lo stesso giudice, che ha riconosciuto solennemente il suo diritto, glielo rende vano con una scusa, con una malizia così meschina e vergognosa, che non merita alcuna seria critica… egli deve prendere soltanto carne senza sangue e deve tagliare solo una libbra determinata, né più né meno”.

Porzia così vanifica il diritto di Shylock non con l’argomento forte della nullità del contratto per “illiceità della causa” (o illiceità in genere) ma con un espediente da causidico di mezza tacca. E, nell’opera di Shakespeare, anche il Doge ritiene di non poter cambiare la legge di Venezia e la sentenza che la applica. In un altro capolavoro teatrale come il Tartuffe di Molière, la conclusione è inversa, perché il rapporto tra legge ed autorità politica è cambiato. Nello Stato  assoluto di Luigi XIV è l’occhio vigile del Sovrano, il quale cassando la sentenza pronunciata legalmente dai giudici (ingannati da Tartuffe) salva Orgon e la sua famiglia. Ma lo fa senza espedienti, senza ipocrisia, sicuro della propria autorità e decisione.

Come scrive Schmitt a proposito dell’Amleto, in Shakespeare c’è una rappresentazione pre-statuale (cioè pre-moderna) della realtà mentre nella commedia di Moliére, c’è un nuovo protagonista: la monarchia assoluta. E di conseguenza lo Stato sovrano, il quale oggi appare in calo di sovranità (e abbondanza di espedienti).

Teodoro Klitsche de la Grange

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Dalle feste ai follower privati_di Spenglarian Perspective

Dalle feste ai follower privati

spenglarian perspective 2 ottobre
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Il post precedente ha trattato di come gli stati cedano il passo ai partiti, che rappresentano la principale forma di leadership minoritaria durante la transizione alla civiltà. Gli stati sono unità inconsce di leader, coltivate dalla razza, mentre i partiti sono gruppi di intellettuali che si uniscono con un piano elaborato consapevolmente per plasmare idealisticamente la società. Quest’epoca di partiti dura circa 200 anni prima di sfociare nel cesarismo. Questo post ne documenterà il crollo.

La fine della democrazia e l’ascesa del cesarismo non sono indicate dalla scomparsa dei liberali e dei conservatori, ma dalla scomparsa dei partiti come forma di politica. I partiti sono caratterizzati dai loro sentimenti, dall’attenzione popolare e dagli ideali astratti, ma vengono gradualmente sostituiti da un seguito personale. Questo seguito può emergere, e di solito emergerà, inizialmente nel contesto di un partito, ma col tempo crescerà oltre la necessità di fingere di esserlo. Una classe dirigente ha istinti che la spingono ad affermare il simbolo della nobiltà, un partito ha un programma che la motiva a rendere il mondo un posto migliore, ma un seguito ha un maestro il cui carisma guida il gregge; l’elemento chiave in questo caso è il riemergere di una politica basata sulla lealtà.

Il primo esempio a Roma di un seguito organizzato fu Scipione il Giovane (185-129 a.C.). Il “Circolo Scipionico” o “Cohors Amicorum” comprendeva filosofi, poeti e giovani aristocratici amici o ammiratori di Scipione, e fu una delle prime organizzazioni di questo tipo in un’epoca in cui la struttura partitica dei Populares e dei Patrizi stava sgretolandosi. Questo avvenne anche in concomitanza con le riforme agrarie di Tiberio Gracco, che furono promosse e distrutte proprio sotto la sua guida.

Spengler contrappone questo nella nostra civiltà all’emergere di club e comitati elettorali americani all’inizio del XX secolo , ma se ci prendiamo la libertà di considerare il declino dell’Occidente, l’apice della carriera di Scipione e Gracco fu il 146 a.C. e il 133 a.C., che corrispondono al periodo della civiltà faustiana, rispettivamente il 2004 e il 2017, se si considerano gli inizi di entrambi i periodi della nostra civiltà (350 a.C. e 1800 d.C.). Donald Trump si è infiltrato nel Partito Repubblicano e, con la sola personalità, ha conquistato il Partito Repubblicano e ne ha cambiato il metodo di approccio. Nigel Farage nel Regno Unito ha condotto una campagna elettorale per diversi partiti senza riguardo per un programma, pur di perseguire i propri interessi. Ha quasi abbandonato la politica britannica finché non ha iniziato a emergere il movimento riformista, dove si è infiltrato anche lui. Al momento è divertente considerarli momenti storici, ma saranno ricordati così per le loro sfide dirette, non solo ai dogmi dell’establishment, ma anche alla struttura del partito. Questo senza menzionare l’enorme cultura degli influencer su Internet, dove chiunque abbia un microfono può raggiungere i vertici del potere grazie al numero dei suoi “follower”.

Questi quattro personaggi sono “pre-Cesari”. Si può dire che minino la democrazia, ma in realtà sono la democrazia nella sua forma più pura. La loro opposizione è sempre rappresentata dagli idealisti che vedono il loro ottimismo distrutto dalla durezza della storia, da qui la posizione dei Democratici come rappresentanti di un governo burocratico senza leader che bilancia il potere esecutivo.

L’era della politica di partito è un’era di teoria politico-sociale: piani e manifesti di partito per organizzare il mondo come dovrebbe essere. In Occidente abbiamo una linea di teoria sociale che va dall’Illuminismo, come Rousseau, all’età del materialismo spirituale, come Marx, che corrisponde alla linea da Platone a Zenone in Grecia. Queste teorie possono essere dibattute in termini di verità che postulano, ma nel contesto politico servono solo a organizzare un repertorio di slogan e grida di battaglia per movimenti ideologici che necessitano di armi efficaci. Possiamo discutere della teoria del valore-lavoro o dell’esistenza dei valori giudaico-cristiani, ma la sua applicazione pratica sarà sempre diversa da come appare nel dibattito accademico.

L’era della politica di partito è l’età dell’oro di idee come libertà, giustizia, umanità comune, progresso e, soprattutto, verità come strumenti efficaci nel discorso politico. Questo riserva la politica alla popolazione istruita e urbana. Sulla classe contadina non ha alcun effetto di default, e l’effetto che ha sugli abitanti delle città è limitato al lasso di tempo in cui le persone diventano apatiche all’idea che verità e giustizia possano manifestarsi nella sfera politica. Questo lasso di tempo dura circa due secoli prima che le persone gestiscano la situazione così com’è, anziché come dovrebbe essere .

All’inizio, abbiamo la follia dell’idealismo che porta le nazioni nelle mani di figure napoleoniche, come la Siracusa di Platone che cade in grembo a Dionisio I e la tirannia francese che cade in grembo al Direttorio francese e al Consolato di Napoleone. Dopo duecento anni di tentativi ed errori, il risultato finale è un ateismo verso le idee come qualsiasi tipo di miglioramento della politica. Dopo il II secolo a.C. – nell’età dei Cesari, dei Pompeo e dei triumvirati – solo il potere personale contava fino alla fine della storia della civiltà.

Spengler notò che ai suoi tempi non esisteva un vero successore del marxismo o del nazionalismo. Non spiegò l’ascesa delle tirannie ideologiche nel XX secolo , ma sia la Germania che la Russia dimostrarono la loro condizione temporanea prima che le ambizioni comuniste di quest’ultima si dissolvessero in un sobrio stato di sicurezza.

Grazie per aver letto Spenglarian.Perspective! Questo post è pubblico, quindi sentiti libero di condividerlo.

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L’Araba Fenice_di WS

Questo  pur condivisibile  commento di Massimo Morigi mi ha spinto  a     domandarmi : ma cosa è la “democrazia” ? E  a CHI  serve  e per cosa ?

Innanzitutto  deve  essere  chiaro  che la “democrazia” con  cui  noi  siamo  cresciuti  è un accidente  della Storia     confinato  al solo   mondo “occidentale”.  Altre  civiltà  hanno loro  peculiarità  e  i loro  meccanismi  di  “ratifica  popolare” che la  nostra “democrazia”  altro non è.

 Infatti nella eterna “lotta di classe” tra” chi deve lavorare per poter vivere (peggio) e chi può vivere (meglio) senza dover lavorare”, il  potere politico apparterrà sempre a questa   ultima classe perché  solo  essa ha il tempo e i mezzi  per fare politica.

 E questo è un concetto banalissimo già  chiaro ne “la democrazia in Atene” scritta da un “Anonimo Ateniese”  quattro  secoli prima di Cristo e come   tale anche il primo libro di politica mai scritto.

Questa ” classe”  che non ha necessità di lavorare, allora si potevano chiamare gli “Ottimati” , si impadronisce  sempre  e inesorabilmente di tutto il potere e di tutte le ricchezze, salvo laddove UNO di LORO , un “autarca”, si impadronisca del potere  assoluto  appoggiandosi alla ” classe lavoratrice” , ovviamente a sua volta  SCONTENTA di essere  completamente  espropriata  del suo.

Il quale “autarca” spesso poi si faceva “re” e lasciava il potere ad un figlio generalmente non all’altezza del padre, provocando di nuovo una  rivolta “popolare” astutamente   guidata  dagli “ottimati” per riprendersi il potere.

In “occidente”, nel mondo antico,  la  politica  ha sempre oscillato tra questi due sistemi salvo due “luminose”  eccezioni : Atene e Roma, le quali hanno prodotto due diverse ” democrazie”.

Ma che cosa è   “la democrazia “?  Nella sostanza  essa è solo il metodo con cui l’ elite verifica il consenso popolare rispetto alle PROPRIE decisioni .

 Questo ” mercato” è tutt’altro che “libero”;  “la democrazia” però funziona meglio, quando funziona, della semplice autarchia  e della ” dittatura degli ottimati” semplicemente perché, concedendo dei ” diritti politici inalienabili alla “classe lavoratrice”, ne mobilita maggiormente le energie che con le  esemplari bastonate  usate dalle altre  due.

 E qui occorre spiegare, a chi fosse interessato, la differenza tra le due “democrazie” sopra citate .

La democrazia ateniese era semplicemente la concessione DIRETTA di tutti i diritti politici alla massa dei cittadini ateniesi, i quali erano quindi obbligati comunque a perdere tempo per far politica; in mancanza del quale lasciandone il monopolio agli “Ottimati” .

Per MITIGARE questo problema fu introdotta una democrazia rappresentativa in cui gli “eletti” DIRETTAMENTE dalle assemblee ricevevano una paga per tutta la durata dell’ incarico. Probabilmente questa è stata la ” democrazia” più “democratica”, ma  con un limite “fisico”  così posto  all’espansione dello Stato Ateniese, perché  solo un ridotto numero di cittadini poteva partecipare “fisicamente “alle assemblee.

 Roma invece “coinvolse” la massa dei cittadini solo attraverso una “democrazia rappresentativa ” che non aveva questo “limite di crescita”.

La repubblica romana era quindi molto più “inclusiva” ma la sua direzione politica rimase invece sempre  completamente “aristocratica ” in quanto solo i “ricchi” potevano servire “gratuitamente ” lo stato; non c’era però preclusione a nessun cittadino che ne avesse i mezzi, spesso guadagnati, immaginate come, “servendo” lo stato in guerra nei livelli  di potere  sottostanti.

Si trattava quindi di un “patto tra “popolo ” e “elite” guidata da una oligarchia “aperta ad una “scala sociale”offerta al “populus”. 

 Quando questo famoso SPQR fu rotto dagli “Ottimati”, anche “la democrazia” Romana andò in pezzi, ma la lotta  POLITICA fu interna all’elite,  tra ” senatores” ( aka vecchia elite) ed “equites ( quella nuova ) a cui veniva precluso ciò che prima era permesso.

Bene , quale è il senso di questo mio “pippone”? Anche “l’ occidente” si è sviluppato sullo schema della Repubblica Romana e anche qui “il patto ” è ora  stato rotto dagli “Ottimati” ( i senatores) e su questo anche la attuale “classe lavoratrice ” OVVIAMENTE  non è d’accordo.

  Ed è inevitabile che, come nella tarda repubblica Romana , i “meccanismi” elettorali  ora siano sempre più manipolati da “Senatus” contro gli interessi  del “Populus “, con il risultato che “la repubblica” va in pezzi precipitando  giù  dai  suoi   fasti , finché , dopo tanto sangue e tanta ingiustizia, un “senator” prende  tutto  il potere  per  sé  appoggiandosi sui “populares”.

Ma gli “attuali “Ottimati”  della   “tardorepubblica”   in cui  stiamo vivendo  sono convinti che grazie a nuove schiaccianti tecnologie “stavolta sarà diverso” .

Bah ! Forse stavolta sarà così, ma chi può  saperlo ?

 L’ unica cosa sicura è che comunque “la democrazia ” nei fatti non esisterà più e che magari passerà un millennio prima che qualcuno si reinventi una “democrazia  diretta  “ alla  ateniese” e forse un altro ancora ce ne vorrà per una  più sofisticata, “alla romana”.

Insomma   “democrazia “ come  “rara  avis”   che  risorge   dalle  sue  ceneri  come  “l’  Araba  fenice” .

Anche  della   “ democrazia”   tutti  dicono  che  ci  sia ,  ma dove  veramente sia nessun lo  sa.

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GIANFRANCO LA GRASSA ci ha lasciati

Gianfranco La Grassa è morto giovedì scorso, 25 settembre. Appena otto mesi fa avevamo festeggiato a Conegliano i suoi 90 anni. Le sue chiavi di interpretazione delle dinamiche geopolitiche e sociali sono state la scintilla determinante che ha consentito nuovi approcci più adatti e idonei alla comprensione della complessità del mondo. Le voci che ne hanno colto appieno l’importanza sono poche, ma esistono. Conflitti e strategie e l’Italia e il mondo sono, probabilmente, l’esperimento editoriale più compiuto ispirato al suo pensiero. Manca, purtroppo, una espressione politica adeguata e conseguente, ancora ben di là da venire rispetto alla drammatica accelerazione delle dinamiche in corso. Lo ricordiamo in uno dei suoi ultimi momenti di spensieratezza. Sulla sua opera avremo modo di riflettere più in là_Giuseppe Germinario

ID digitale una volta e futuro_di Morgoth

ID digitale una volta e futuro

Un compendio di scritti e video-saggi su tecnocrazia, identità digitali e sorveglianza.

Morgoth26 settembre
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Ho un rapporto imbarazzante con le identità digitali come argomento di discussione all’interno dello zeitgeist. Vengo accusato allo stesso tempo di essere un tecnofobo paranoico che fa storie e si fa prendere dal panico per niente, e allo stesso tempo mi vengono dati complimenti per la mia lungimiranza. La verità è che probabilmente dovrei dare la proverbiale “L” alle identità digitali perché pensavo che fossero imminenti durante il COVID e che, in effetti, le identità digitali sarebbero state la rampa di accesso. Niente di tutto questo è successo. L’intera saga del COVID è stata cancellata dalla memoria, e con essa si sono accumulate molte speculazioni e teorie.

In una certa misura, comunque. Era ovvio nel mondo reale che la rete di sorveglianza digitale si stesse sviluppando, anche se per nessun altro motivo se non perché era semplicemente più facile ed efficiente per le persone usare i propri telefoni per tutto piuttosto che armeggiare con carte e documenti. La mia analisi originale dello stato di sorveglianza digitale si basava su ” Sul potere” di Bertrand de Jouvenel . La struttura del potere avrebbe spinto per più intrusioni, più dati e più sistemi di tracciamento semplicemente perché è nella natura intrinseca del potere espandere se stesso e il proprio mandato.

L’espansione della rete digitale come fenomeno emergente potrebbe protrarsi fino a quando la regolamentazione o la capacità tecnologica non consentiranno a Power di formalizzare il proprio controllo.

E ora lo Stato britannico ha annunciato formalmente che l’ID digitale sarà reso obbligatorio, e tutti sono in rivolta. La destra è arrabbiata perché sa che lo Stato li odia, i Britliberali sono arrabbiati perché pensano che verrà usato come strumento razzista contro le minoranze. La sinistra più estrema è furiosa perché il Tony Blair Institute e i suoi miliardari donatori sono dietro l’iniziativa. Alcuni liberali vecchio stampo si oppongono perché è illiberale. Ci sono anche dubbi sulla fattibilità stessa dell’implementazione dell’ID digitale, dato che il governo laburista è profondamente impopolare.

Ho sempre sospettato che il ruolo di Keir Starmer fosse quello di risolvere alcuni problemi chiave, al diavolo la popolarità. Come un rapinatore di banche che entra dalla porta principale, sparando a raffica, invece di aggirarsi furtivamente nel cuore della notte.

Dato che è probabile che questo argomento dominerà il dibattito nel Regno Unito nel prossimo futuro, ho deciso di incorporare alcuni dei miei vecchi video e saggi in questo post prima di proseguire.

Nel 2023, ho partecipato alla Conferenza Witan e ho tenuto il mio primo discorso pubblico, di persona, sul tema delle identità digitali, della sorveglianza e del loro potenziale da incubo. Ironicamente, questo è il discorso che mi ha portato a essere doxato proprio perché la sorveglianza digitale è già così avanzata.

Il discorso è qui.

Non se ne parla abbastanza, ma l’Online Harms Bill si inserirà perfettamente nell’ID digitale sotto forma di verifica dell’età.

Brevi riflessioni
La super arma di censura del governo britannico è operativa
Morgoth·27 marzo
La super arma di censura del governo britannico è operativa
Mi sento in dovere di scrivere un breve post in occasione dell’entrata in vigore del disegno di legge sui danni online del governo britannico. Ho passato gli ultimi anni a guardarlo zigzagare e insinuarsi tra procedure legislative, riscritture, rebranding e dibattiti, con un senso di inutilità e inevitabilità predominante. La gestazione è finita e l’abominio si è concretizzato…
Leggi la storia completa

In questo video saggio ho esplorato il modo in cui la tecnologia digitale crea un’esperienza reale basata sul gioco.

Come la tecnocrazia mina le fondamenta del liberalismo.

Verso l’Occidente post-liberale
Morgoth·27 luglio 2022
Verso l'Occidente post-liberale
Di recente, un paio di questioni apparentemente distinte hanno attirato la mia attenzione e, a prima vista, non sembravano avere nulla in comune, ma a un esame più attento hanno molto in comune. Entrambe hanno qualcosa da dire sulla nostra situazione attuale e su dove stiamo andando.
Leggi la storia completa

Quali sarebbero gli incentivi di un sistema di credito sociale “woke”, in contrasto con quello cinese.

In questo caso, considero il localismo come una potenziale salvaguardia allo stato di sorveglianza tecnocratica.

Non dubito che il mio portfolio di contenuti sullo stato di sorveglianza tecnocratica aumenterà ora che l’ID digitale ha finalmente ricevuto il via libera. La mia prima impressione è di sorpresa per l’indignazione e l’opposizione diffuse.

Sarà sufficiente? Vedremo.

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