La lotta contro il Diritto _ Con Buffagni, Klitsche de la Grange, Sinagra, Germinario, Semovigo

Il Diritto. Da principio regolatore della civiltà, il diritto si trasforma in una macchina di potere, chi è dentro e chi è fuori. Un capovolgimento radicale che ricorda la critica di Carl Schmitt alla neutralità liberale: il diritto non è più neutrale, ma espressione della volontà del più forte.

Dike, CPI e la crisi della sovranità
Il diritto penale internazionale diventa un’arma geopolitica che rimane intoccabile. È il modello della guerra giuridica (lawfare)

Hegel, Stato e diritto: il tradimento delle istituzioni
Hegel vedeva lo Stato come l’incarnazione dello Spirito, il luogo in cui il diritto trova la sua realizzazione. Ma cosa accade quando lo Stato abdica al proprio ruolo e diventa un mero esecutore di decisioni prese altrove ?

L’UE come spazio di controllo giuridico
L’Unione Europea ha creato un sistema di diritto che vincola gli Stati membri e impone un modello giuridico o è un apparato burocratico autoreferenziale ?

Dike e il tradimento della giustizia – Dalla Grecia classica a oggi, il diritto è sempre stato fondamento della civiltà. Ma cosa accade quando diventa un’arma di guerra?

Lawfare: il nuovo volto del totalitarismo – Dalla CPI ai tribunali europei, il diritto penale internazionale portatore di neutralità ?

L’Unione Europea e il soft power giuridico – Trattati, corti e regolamenti indipendenti ?

Ospiti e relatori

⚖️Teodoro Klitsche de la Grange – autore di : La Lotta contro il Diritto
Roberto Buffagni – saggista e analista politico
⚖️ Augusto Sinagra – giurista e magistrato
Giuseppe Germinario – Analista Geopolitico e direttore di Italia e il Mondo
Cesare Semovigo – regista e documentarista

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PERCHÉ LA CORTE PENALE INTERNAZIONALE NON PIACE?_di Teodoro Klitsche de la Grange

PERCHÉ LA CORTE PENALE INTERNAZIONALE NON PIACE?

1.0 Tira un’aria di ridimensionamento – anche il più temuto; cioè quello mediatico – per la CPI. Questa istituzione, accolta a suo tempo, specie in Italia dal favore festaiolo dei politici di centrosinistra (Ciampi in testa) non era proprio quel rimedio definitivo ai reati sui quali è competente e ancor più, nasceva male. Vediamo perché  (il tempo trascorso – un venticinquennio – l’ha confermato).

1) La competenza della Corte è sui maggiori crimini: il genocidio, i crimini contro l’umanità e i crimini di guerra, nonché il crimine d’aggressione: la cui competenza è comunque complementare a quella degli Stati: può attivarsi nell’inerzia dei medesimi.

2) Ovviamente non si applica se non agli Stati che hanno aderito al Trattato istitutivo. Questo è stato ratificato superando il quorum previsto. Ma qua si trova il problema decisivo. Quelli che non l’hanno ratificato sono proprio coloro che hanno le maggiori tendenze (e possibilità) di commetterlo: USA, Cina, Russia, Israele tra i più propensi, dato che potrebbero essere perseguiti dalla Corte proprio loro governanti e funzionari.

3) proprio per questo gli USA hanno sempre tenuto un atteggiamento ostile alla Corte e alle di essa iniziative (non solo con Trump).

4) La Corte è stabile e ha una propria organizzazione e una propria burocrazia.

2.0 Ciò stante la CPI, così come istituzionalizzata, ha sofferto di un eccesso di strutturazione, inesistente nella storia del diritto internazionale prima del secolo passato.

In primo luogo la prassi del diritto internazionale classico per dirimere i conflitti, offre tutta una serie di soluzioni, per lo più con l’intervento di Stati-terzi “mediatori” e senza l’istituzionalizzazione di Tribunali.

Così come organizzata sembra fatta proprio per istituire quel “Pretore” tra gli Stati irreale secondo Hegel (e, a seguirlo, quindi non razionale). Ma occorre chiedersi se è più razionale un Tribunale istituzionalizzato o i “buoni uffici” di un terzo neutrale incaricato dai litiganti di conciliarli.

Conciliazioni, ivi comprese quelle di cui all’art. 33 dello Statuto delle Nazioni unite nei conflitti che possono compromettere il mantenimento della pace e della sicurezza, soprattutto arbitrati. È stato ritenuto che l’arbitrato, avendo avuto una diffusione prevalente, la stessa storia della giustizia internazionale coincide in gran parte con la storia dell’arbitrato. Esso può concretizzarsi – in analogia agli arbitrati privati – in due modi: quando la controversia è già in corso le parti possono stipulare un particolare accordo – il compromesso – nel quale è prevista (soprattutto) la scelta degli arbitri, oltre all’oggetto, ai poteri, alle norme e alla procedura.

Oppure può originare da una clausola compromissoria. Cioè dalla clausola di un trattato – ratificato dalle parti in cui, anche in tale  caso, di solito la scelta dell’arbitro (e degli arbitri) è rimessa alla decisione delle parti litiganti.

Terminata la procedura, emesso il lodo, l’ufficio arbitrale così costituito, cessa di esistere.

Anche laddove siano stipulati dagli Stati trattati di arbitrato in forza del quale si accordano di sottoporre a giudizio tutte le controversie che possano sorgere fra loro, spesso nel trattato non è previsto l’impegno arbitrale, cioè l’obbligo di sottoporre le controversie a quel dato organo arbitrale.

Secondariamente i paesi che non hanno aderito al trattato sono, come cennato sopra, quelli che hanno la propensione di commettere i crimini per cui la CPI è competente: USA, Cina, Russia, Iran, Israele, parecchi Stati arabi, l’India e il Pakistan. Il che di per sé ridimensiona la CPI. E sostanzialmente divide gli Stati in due gruppi: i sottoposti e i non sottoposti alla giurisdizione della CPI. Il che, per un diritto in cui vale il principio par in parem non habet jurisdictionem è una deroga al principio di uguaglianza (giuridica) tra gli Stati, tutt’altro che secondaria.

In terzo luogo, anche se il fine della CPI è, più che tutelare la pace, di evitare condotte in violazione dei diritti umani, ciò avviene, per lo più, nelle situazioni di disordine e conflittualità diffusa e spesso dis-ordinata, tipica delle guerre atipiche e asimmetriche.

Occorre comunque valutare se con la pace istituenda e l’ordine che ne consegue, sia più efficace l’opposta prassi della clausola di amnistia, di non punire i crimini commessi nello stato di guerra (Kant).

Resta poi da considerare che gli Stati non obbligati dal trattato istitutivo della CPI sono molto più popolosi di quelli che vi aderiscono.

3.0 Quel che più rileva è che le criticità della CPI sono riconducibili al coefficiente d’istituzionalizzazione della Corte, perché stridente con la natura di “giustizia di diritto comune” di quello internazionale.

Anche qui deve ripetere quanto al riguardo scriveva Maurice Hauriou, il quale distingueva due diritti: quello istituzionale con la relativa giustizia disciplinare (in cui le parti non sono in posizione di parità) e comune, ossia tra gruppi umani in posizione di parità. Questa “era esteriore ai gruppi, tra i gruppi (inter-groupale), interfamiliare e noi diremmo oggi internazionale, la quale aveva per organi tribunali d’arbitri, davanti a cui le parti erano uguali l’una all’altra”. Ciò perché, scriveva il giurista francese, quando i primi Stati si costituiscono come federazioni di clan, l’era delle vendette non era terminata, così che tribunali arbitrali funzionavano all’interno dello Stato, come arbitri tra uguali.

Il grande apprezzamento per l’arbitrato nel diritto internazionale si può spiegare proprio perché: a) è una giustizia tra uguali; b) l’arbitro è scelto dalle parti; c) o comunque determinato (o comunque pre-individuato) dalle parti. Cioè mancano i connotati che fanno della CPI un’istituzione e ne rendono l’operato assai più prevedibile.

Invece la Corte è “permanente”, i giudici sono espressi da un organo che non è parte in causa (anche se nominato da un collegio degli Stati aderenti, ossia dall’Assemblea degli Stati-parte), ha una procura (OTP) che può indagare anche su fatti non sotto-postigli dagli Stati, ma da semplici cittadini.

Che quindi sia profondamente innovativo rispetto agli arbitrati internazionali di un tempo è palese; e lo sono anche le ragioni della diffidenza verso lo stesso di tanti Stati.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Storie che ci raccontiamo_di Aurelien

Storie che ci raccontiamo.

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Immaginate la scena, se volete. Il Reichstag brulicante di eccitazione e addobbato di bandiere, i funzionari del Partito in uniforme marrone che cercano di intravedere il loro leader. Un piccolo uomo con i baffi sale sul podio e la piazza esplode: Heil Shicklgruber! Heil Shicklgruber!.

Naturalmente poteva essere così. Non sapremo mai con esattezza cosa spinse Alois Shicklgruber a cambiare il suo nome di famiglia nel 1877, tranne che sembra avere a che fare con la successione delle proprietà. Avrebbe potuto scegliere il più difficile Hiedler, o forse altri nomi di famiglia. Così oggi potremmo avere stanze piene di libri sulla vita e la malvagità di Winifried Schicklgruber o Hans-Joachim Nepomuk.

O forse no. Il più fervente materialista/razionalista ammetterà che i nomi hanno effetti su di noi. Hollywood sapeva benissimo cosa stava facendo cambiando il nome di Roy Scherer in Rock Hudson, o Norma Jeane Mortensen in Marilyn Monroe. Nello stesso spirito, Ivo Livi ha cambiato il suo nome in Yves Montand, così come Declan MacManus è diventato Elvis Costello.

Banale, direte voi? Beh, la Seconda Guerra Mondiale non è iniziata solo per un nome di famiglia, certo, ma userò questo esempio volutamente banale come caso estremo dell’argomento di questa settimana: la terrificante contingenza della storia e degli eventi contemporanei e le strategie che usiamo per cercare di portare una parvenza di ordine dal caos ambientale. Alcune di queste strategie sono ragionevoli e necessarie, altre sono più dubbie e altre ancora sono del tutto disoneste. Tutte hanno origine in diverse modalità letterarie, ma a questo punto ci arriveremo più avanti.

Che la storia sia in realtà molto contingente è generalmente accettato. È sufficiente ricordare che Napoleone Buonaparte nacque appena un anno dopo che i francesi avevano preso il controllo della Corsica dai genovesi e, sebbene la Corsica non fosse diventata parte della Francia vera e propria fino al 1789, poté comunque arruolarsi nell’esercito francese. (Per tutta la vita parlò il francese imparato da bambino con accento italiano e, a quanto pare, la sua ortografia era pessima). Inoltre, Stalin proveniva dai margini esterni e recentemente acquisiti dell’Impero russo, per breve tempo ancora uno Stato indipendente prima dell’ingresso dell’Armata Rossa nel 1921).

Quando si legge la storia con attenzione, i “e se” diventano quasi paralizzanti. Dopo tutto, il caporale Hitler è riuscito a sopravvivere alla Prima guerra mondiale: molti dei suoi compagni non ce l’hanno fatta. E quanti altri potenziali leader nazionali, dittatori e presunti salvatori dei loro popoli sono morti in trincea? È impossibile saperlo. Andate a Sarajevo e qualcuno vi porterà sul ponte indistinto dove fu sparato l’arciduca Ferdinando nel 1914: leggete l’incidente e sembra che Ferdinando – che era già sopravvissuto a un attentato quel giorno – fosse davvero determinato a farsi uccidere.

E così via. Se i tedeschi non avessero mandato Lenin alla stazione di Finlandia con il famoso treno sigillato? Se, più recentemente, i francesi non avessero accettato di ospitare l’ayatollah Khomeini in Francia per qualche mese, prima di rispedirlo con grande pubblicità nel bel mezzo della rivoluzione iraniana?

A volte, le piccole decisioni fanno scorrere le generazioni. L’amarezza suscitata dalla guerra boera rese molto controversa la decisione del governo sudafricano di permettere ai volontari di combattere a fianco degli inglesi nella Seconda Guerra Mondiale. In effetti, si attribuisce a questa decisione il merito di aver permesso al Partito Nazionalista di entrare in carica nel 1948, di cacciare l’establishment anglofono dal potere e di introdurre il sistema dell’apartheid. Ma, al contrario, molti di quei volontari erano membri del Partito Comunista, in seguito bandito dal governo, che fornirono l’addestramento alle armi per l’ala militare dell’ANC e successivamente costituirono una buona parte della leadership. Strana cosa, la storia.

La contingenza quasi infinita della storia fino ai giorni nostri è fonte di terrore per alcuni e di gioia per altri. Diverse forme di materialismo hanno confortato alcuni, tra cui il determinismo, in cui, essenzialmente, ogni evento è il risultato inevitabile di eventi precedenti, per quanto difficile da dimostrare nella pratica. Da parte sua, Engels sembra aver coniato il termine “materialismo storico” (in opposizione soprattutto all’interpretazione idealistica della storia), anche se in seguito sia lui che Marx espressero preoccupazione per il modo in cui era degenerato in un semplice slogan. Negli anni successivi, il concetto fu attaccato in modo memorabile da Walter Benjamin e Karl Popper, e il suo uso improprio fu criticato dal marxista britannico dissidente EP Thompson, che era un vero storico. Sebbene il dominio delle spiegazioni materialiste sia oggi un po’ meno pronunciato di un tempo, rimane una presenza costante tra coloro che pensano che la storia si evolva attraverso idee semplici su larga scala. Tornerò più avanti sull’influenza più ampia di queste idee.

C’è, ovviamente, un’intera industria della storia controfattuale, sia di fantasia che non, che si diverte con storie alternative e con i futuri a cui avrebbero potuto dare origine. In molti casi, non si tratta altro che di “ipotizzare un miracolo”, con la vittoria del Sud nella guerra civile o dei tedeschi nella seconda guerra mondiale. Gran parte di queste storie è a scopo di intrattenimento, ma in alcuni casi, come nel classico di Philip K. Dick L’uomo nell’alto castello, si sta facendo un’importante riflessione filosofica su ciò che è reale e ciò che non lo è, e se possiamo conoscere la differenza.

Ma anche a prescindere da questo, è un dato di fatto che la storia avrebbe potuto svilupparsi molto facilmente in modi molto diversi da quelli che conosciamo. Il biologo Stephen Jay Gould ha notoriamente sostenuto che l’effettiva evoluzione della vita sulla Terra è stata così contingente che se potessimo tornare indietro di centinaia di milioni di anni e rieseguire l’evoluzione, la vita di oggi avrebbe un aspetto totalmente diverso. Lo stesso vale per la storia. In L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon, un personaggio minore chiamato Brigadiere Pudding sta cercando di scrivere un libro intitolato Cose che potrebbero accadere nella storia europea, che inizia subito dopo la Prima Guerra Mondiale. Ma naturalmente non ha ancora finito il primo capitolo che già si sono verificati eventi che non aveva previsto, per cui è costretto a ricominciare tutto da capo. Questo è un modo in cui il romanzo sovverte sottilmente i deliri paranoici del suo apparente narratore (o dei suoi narratori), le fantasie sempre più diffuse di dominio del mondo da parte di misteriosi cartelli, banche e cospirazioni finanziarie internazionali. Se il romanzo è, tra le altre cose, una satira rumorosa sulla mentalità cospiratoria che esige che assolutamente tutto debba essere collegato (“Vorrai causa ed effetto” sospira Pynchon a un certo punto “molto bene”.”), ritrae anche molto chiaramente il terrore esistenziale provato dai suoi personaggi in un mondo senza senso, dove ogni presunta causa ed effetto è meglio di niente.

Ma anche se la storia non è preordinata e controllata da misteriose cabine, e anche se alcuni elementi della storia, come sostiene Thompson, sonocompatibili con l’analisi materialista condotta su base empirica, cosa dobbiamo fare di questi eventi ostinati che accadono di continuo, spesso inaspettatamente, e sono difficili da inserire in strutture preesistenti?.

Mi permetto di suggerire una tipologia molto semplice che traggo dalla mia esperienza personale di crisi politica e che propongo di estendere agli esempi storici. Si potrebbe descrivere come la differenza tra il Cosa e il Quando, tra la dinamica di fondo di una crisi e il momento in cui accade qualcosa di eclatante che attira l’attenzione della politica e dei media. Come ho sottolineato molte volte, l’Occidente è molto bravo a farsi “sorprendere” da eventi che “nessuno si aspettava”. Gran parte di questa sorpresa deriva da una confusione tra il Cosa e il Quando: in altre parole, quello che è successo era molto probabile, se non inevitabile, in un certo modo e in un certo momento, ma non era possibile prevederne l’esatta tempistica e natura. (Possiamo paragonare questo alla distinzione di Thompson tra cause necessarie e sufficienti nella descrizione degli eventi storici). Ci sono molti esempi solo negli ultimi anni: la presa di potere dei Talebani in Afghanistan, le guerre civili in Etiopia e in Sudan, la caduta della Casa di Assad, la guerra israeliana a Gaza, erano tutti prevedibili nel senso che gli ingredienti erano tutti al loro posto, era una questione di quando. A livello nazionale, l’ascesa della cosiddetta “estrema destra” e la popolarità dei cosiddetti leader “autoritari” sono il risultato di sviluppi che sono stati ampiamente trattati e sui quali non c’è alcun mistero. Ma la nostra attuale classe politica, e la Casta Professionale e Manageriale (PMC) che la serve, hanno la capacità di attenzione di un moscerino e la curiosità intellettuale di un ravanello, per cui non sono in grado di riflettere a fondo sugli eventi contemporanei, né sono inclini ad ascoltare gli avvertimenti di coloro che lo fanno. Il risultato è che, non conoscendo le tendenze di fondo, sono sorpresi dalla natura e dalla tempistica spesso inaspettata di incidenti che erano prevedibili nei contorni ma non nei dettagli.

Gli specialisti sapevano quindi che la posizione del regime di Assad in Siria era precaria. La vittoria del regime nella guerra civile non era stata sfruttata politicamente per liberalizzare il sistema politico o per allentare il ferreo controllo di Assad sul Paese. Le sanzioni stavano continuando ad avere effetto. L’occupazione curda dei giacimenti petroliferi stava interrompendo un’importante fonte di entrate. La produzione e il contrabbando di Captagon, una potente anfetamina molto richiesta negli Stati del Golfo e che aveva contribuito a compensare la perdita di introiti petroliferi, erano stati intercettati dagli Stati Uniti e dall’esercito libanese, con il risultato che l’Esercito arabo siriano veniva pagato a malapena e il suo morale era ai minimi termini.

Ma tale precarietà può durare a lungo, come una casa traballante in assenza di un forte vento. Quando come erano domande molto indecise. Ma pochi si sarebbero aspettati che la caduta di Assad derivasse in ultima analisi dall’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. La risposta iraniana, attraverso Hezbollah, ha portato a un conflitto totale in cui Hezbollah è stato duramente colpito e costretto a ritirare molte delle sue truppe in Libano. Vedendo la mancanza di sostegno iraniano e per procura, l’HTS ha lanciato un attacco opportunistico che ha portato alla disintegrazione dell’SAA e alla fine del regime. (Il punto è che, pur sapendo che il regime era fragile, nessuno avrebbe potuto ragionevolmente prevedere, nell’ottobre 2023, cosa sarebbe successo poco più di un anno dopo, e soprattutto quando.

Gli storici sono consapevoli di questa distinzione, naturalmente. L’esempio classico è quello della Prima Guerra Mondiale, che non aspettava altro che di scoppiare, viste le tensioni politiche dell’Europa dell’epoca e la diffusa convinzione che la maggior parte di esse potesse essere risolta solo con la guerra. Se la causa immediata era l’ossessione austriaca di creare un motivo per attaccare la Serbia, c’erano anche tutta una serie di altre opportunità di conflitto. Una guerra (non necessariamente la guerra come la conosciamo) era altamente probabile, ma sarebbe potuta accadere prima o dopo e il cast sarebbe stato diverso. In tempi più recenti, gli esperti sapevano che la posizione dello Scià dell’Iran nel 1978 era molto più debole di quanto sembrasse e che gli islamisti erano forti, ma il momento della sua caduta, il momento e il luogo della sua decisione di andare in esilio, i punti di forza delle varie forze in lotta per il potere, il ritorno dell’ayatollah Khomeini, le tattiche adottate dagli islamisti e l’eventuale proclamazione della Repubblica islamica erano tutti sviluppi altamente contingenti.

Questa distinzione tra sfondo e primo piano, tra il ragionevolmente prevedibile e il largamente contingente, si applica tanto alle conseguenze (di solito “inaspettate”) dei grandi eventi quanto alle loro cause. Così, le politiche occidentali di “stabilizzazione” dei Balcani degli ultimi trent’anni hanno avuto l’effetto involontario di consegnare la criminalità organizzata in Europa alle mafie della regione. Una mossa intelligente. Inoltre, hanno dato il via a conseguenze che “nessuno aveva previsto”, quando l’UCK ha dichiarato l’indipendenza del Kosovo (cosa che l’Occidente aveva detto essere inaccettabile) e ora, naturalmente, si trova ad affrontare un’elezione difficile questa settimana perché la minoranza serba si sente perseguitata. Tutto ciò, ovviamente, era del tutto inaspettato.

Quindi, se torniamo per un attimo alla Siria, possiamo vedere una catena di conseguenze. La caduta della Casa di Assad è stata un duro colpo per l’Iran e per la sua politica dell’Asse della Resistenza. Insieme alle perdite subite e alla forzata rinuncia agli attacchi contro Israele, ha ridotto radicalmente la forza politica interna di Hezbollah e ha sbloccato il blocco politico degli ultimi anni. Con l’Iran e gli Hezbollah ora pronti ad accettare sia l’elezione di un Presidente che la nomina di un Primo Ministro, queste due cose sono avvenute molto rapidamente e ora è stato formato un nuovo governo. La combinazione di un Presidente severo e senza fronzoli, che molto pubblicamente non voleva nemmeno l’incarico, e di un Primo Ministro riformista proveniente da un ambiente estraneo alla politica libanese quotidiana, insieme al rinnovato interesse dell’Arabia Saudita, ha portato al più blando ottimismo sul fatto che le cose potrebbero davvero smettere di peggiorare in quel povero Paese. Ma non è solo che nessuno avrebbe potuto prevedere questo risultato un anno fa o giù di lì, è anche che tali risultati sono così contingenti che non vale nemmeno la pena di provarci.

Se da un lato trovo che questa distinzione tra lo sfondo e il dettaglio, il ragionevolmente prevedibile e l’irrimediabilmente contingente, abbia un valore analitico, dall’altro è ovvio che non serve pretendere “i fatti” per esprimere giudizi, poiché i fatti non si allineano come soldati pronti per essere schierati. Quanto più ci si avvicina ai “fatti”, allora, come in un diagramma di Mandelbrot, le sottigliezze si rivelano e sono necessarie più qualifiche, e quando si tratta di interrelazioni tra “fatti”, il problema è geometricamente peggiore.

Perciò, negli ultimi paragrafi, ho dovuto innanzitutto selezionare gli esempi, decidere come descriverli, decidere quali “fatti” includere, decidere quali giudizi era giusto dare e presentare tutto nel modo più onesto possibile. Un’altra persona che avesse fatto più o meno lo stesso ragionamento avrebbe potuto selezionare o enfatizzare “fatti” diversi, mentre ovviamente sarebbe stato possibile presentare molti degli stessi “fatti” sotto una luce negativa, se si fosse stati sostenitori dell’Iran/Hezbollah.

Lo facciamo continuamente nella nostra vita privata, nel decidere quali notizie leggere, a quali credere, cosa dire ad amici e parenti, cosa dire sui social media (se ne abbiamo voglia)… Forse occasionalmente lasciamo commenti su siti Internet. A meno che non facciamo parte di quel gruppo di noiosi che commentano tutto solo per dimostrare quanto sono intelligenti, in genere facciamo commenti su cose che ci interessano o che crediamo di capire, e allora ci troviamo di fronte allo stesso problema: cosa includere, cosa tralasciare, quali giudizi dare.

Se avete mai scritto un’opera sostenuta di storia o di attualità, e ancor più un libro, conoscerete dolorosamente il problema. In teoria, la storia narrativa dovrebbe essere facile: “cosa è successo?”. Ma, nella sua forma più semplice, ogni narrazione deve decidere cosa includere e cosa escludere, e perché, e non ci sono due autori che esprimono lo stesso giudizio. La somma di tali giudizi, a volte su questioni di dettaglio, può produrre due narrazioni il cui contenuto generale può essere lo stesso, ma il cui trattamento dettagliato può essere molto diverso. (Si noti che questo riguarda solo la scelta del contenuto: i due autori possono essere fondamentalmente d’accordo l’uno con l’altro su questioni importanti). L’idea di una storia “neutrale” o “priva di valori” è quindi in definitiva una fantasia, per quanto si cerchi di affrontarla con determinazione. Allo stesso modo, scrivendo degli eventi attuali in Ucraina, alcuni scrittori fanno un gran parlare dell’affermazione russa che il governo di Kiev non è legittimo. Non ne ho parlato, perché penso che sia un problema che ha certamente una soluzione pragmatica e non ostacolerà una soluzione: non è quindi abbastanza importante.

Questo ci porta alla seconda parte di questo saggio. In una misura che sarebbe apparsa impensabile ai tempi in cui scrivevo per la prima volta di storia e di attualità, oggi siamo i beneficiari di una quantità di scritti di ogni genere su ogni argomento e da ogni punto di vista immaginabile. In teoria, questo dovrebbe essere un bene: in pratica, il paradosso della scelta colpisce ancora. Scoprire semplicemente cose di qualità da leggere, annotarle e ricordarle, organizzarle in una qualche forma e recuperarle richiede molto lavoro. Quando si ottengono nuovi abbonati su Substack, il sito ci dice a quali altri Substack sono abbonati. In alcuni casi, i miei nuovi abbonati hanno già altri sessanta o settanta abbonamenti. Se sono seri e leggono un articolo alla settimana con i commenti di ogni sito, ciò significa forse 12-15 ore alla settimana dedicate solo a questa attività, il che mi sembra un po’ eccessivo. E questo si aggiunge al tempo che le persone passano a spulciare senza sosta in Internet, seguendo link e raccomandazioni, cercando di trovare qualcosa che valga davvero la pena di leggere.

Era meglio prima? Beh, al giorno d’oggi non ci sono barriere all’ingresso e non c’è bisogno di qualifiche. In sostanza, chiunque può scrivere di qualsiasi cosa e sperare di attirare un pubblico. È importante? In linea di principio, non dovrebbe, perché si può lasciare che un migliaio di siti Internet fioriscano, eccetera, ma in pratica credo che lo faccia, perché consente una forma di micro-targeting consensuale, in cui i lettori trovano siti che riproducono le loro opinioni, e i proprietari dei siti si assicurano che tali opinioni siano debitamente riprese. Spesso c’è una componente finanziaria in tutto questo, come pagare un busker per cantare una canzone per voi.

“Sai che gli Stati Uniti sono responsabili dello spargimento di sangue nella RDC?”.

“Sì, è nel mio repertorio. Sono cinque dollari, per favore”.

Non ho la presunzione di istruire i lettori su quali siti frequentare e quali evitare, e comunque molto dipende dai vostri gusti. ma penso che potrebbe essere utile dire una parola ora sui generici approcci dei diversi siti e dei diversi scrittori, perché possono variare selvaggiamente, e non è sempre ovvio cosa stanno facendo. Gli opinionisti di Internet e di altri settori, forse non abituati a scrivere in forma lunga su eventi contemporanei e recenti, rientrano per lo più in uno dei tre tipi di struttura tradizionale, senza rendersene conto. (Per quanto mi piaccia scrivere di letteratura, la descrizione dei tipi di struttura sarà molto breve).

La prima possiamo semplicemente definirla tradizionale. Qui c’è un narratore, un raccontatore di storie, che conosce il passato, il presente e il futuro, che commenta l’azione e che sa cose sui personaggi che essi stessi non sanno. Questo stile di scrittura (ancora presente, soprattutto nella narrativa popolare) fa sì che alla fine di un romanzo come Middlemarch, il lettore sappia effettivamente tutto quello che c’è da sapere sui personaggi e sul loro eventuale destino dopo la fine della storia vera e propria. I personaggi vengono descritti, compresa la loro vita interiore, piuttosto che definirsi in base alle loro azioni. L’autore è dappertutto, per sciogliere i nodi della trama e lasciarci con la sensazione che la vita sia, in effetti, un insieme razionale, dove causa ed effetto hanno un senso. Dumas, in un certo senso la caricatura stessa del romanziere del XIX secolo, non ci fa mai dimenticare che stiamo leggendo una storia (“Ora, dove abbiamo lasciato Aramis?…”).

Questo è abbastanza corretto per la letteratura, ma è molto più discutibile quando applichiamo lo stesso approccio alla storia, per non parlare degli eventi attuali. È possibile riconoscerne i segni quando gli autori emettono giudizi generalizzati basati su poche prove, ma sulla convinzione di aver compreso, in qualche modo gnostico, i significati più profondi delle cose. Mi sono imbattuto per la prima volta in questo modo di pensare durante la Guerra Fredda, quando gran parte della generazione dei miei genitori, e i giornali che leggevano, vedevano la mano di Mosca ovunque in ogni evento spiacevole. Tutti questi eventi inspiegabili e potenzialmente spaventosi e scollegati in tutto il mondo potevano essere razionalizzati e compresi se solo si accettava che dietro di essi ci fosse Mosca. E in effetti, sono stati scritti numerosi libri, con una trama identica a quella dei romanzi del XIX secolo, che fornivano una narrazione coerente della minaccia rossa (oggi i nomi sono cambiati, ma questa modalità di scrittura è ancora popolare). (Oggi i nomi sono cambiati, ma questa modalità di scrittura è ancora popolare).

Al limite, questo approccio presume di psicanalizzare personaggi del passato o del presente, penetrando nei loro pensieri più intimi. È stato meritatamente deriso (“Cosa avrà pensato Napoleone mentre guardava il mare da Sant’Elena quella mattina di Capodanno del 1816? Sicuramente…”) Sicuramente non potremo mai saperlo, e sarebbe inutile fare congetture. Ma, ignorando la famosa ingiunzione di Wittgenstein nell’ultima tesi del suo Tractatus (“se non hai nulla di interessante e utile da dire, STFU”- traduzione mia), il web è pieno di persone che affermano con sicurezza di sapere “cosa pensa Putin”, chi comanda davvero a Washington, quali sono i veri piani di Netanyahu, e così via, senza alcuna indicazione di avere un’idea di ciò di cui stanno parlando. Non ho idea di cosa pensi Putin, e non pretendo di averla.

Questo modo di pensare porta alla maledizione della Geopolitica, che a mio avviso non è affatto una disciplina, anche se alcuni sostengono di praticarla. Un geopolitico si riconosce tanto dai suoi riferimenti ossessivi a Stati e attori “filo-occidentali”, “filo-russi” o “allineati alla Cina”, quanto dalla sua mancanza di curiosità per la situazione reale sul terreno e per ciò che vogliono gli attori locali. Questo modo di pensare, che ironicamente ha le sue origini nella letteratura popolare dell’epoca imperialista (“Scramble for Africa”, “Great Game”), insiste sul fatto che tutto ciò che accade nel mondo riguarda noi, i nostri interessi e i nostri nemici. Gli abitanti del luogo sono solo attori secondari. Questo ha ovviamente il vantaggio di facilitare l’analisi. Non è necessario conoscere alcunché sulle dinamiche di una crisi, basta guardare cosa stanno facendo i principali Stati del mondo e magari consultare rapidamente alcuni dati economici. In mezz’ora ci si può trasformare da opinionisti sull’Ucraina a opinionisti su Gaza, Sudan o Myanmar. Ma vende.

Il movimento culturale che seguì il narratore onnisciente fu il modernismo, poiché prima l’industrializzazione e la secolarizzazione, poi Freud e soprattutto la Prima guerra mondiale resero sempre più problematica la posa divina e il funzionamento ordinato di causa ed effetto. La scrittura modernista era essenzialmente soggettiva e frammentata, ed evitava le grandi dichiarazioni e i grandi progetti: James Joyce, naturalmente, ma anche Virginia Woolf, Rilke, Kafka, Pirandello e, emblematicamente, la poesia di TS Eliot, che notoriamente riusciva a collegare “il nulla con il nulla”. È interessante notare che questo approccio si è riversato sulla scrittura di entrambe le guerre principali: tutta la letteratura di guerra di spicco è modernista, frammentata e in parte autobiografica, da Goodbye to All That a Catch-22. (Non esiste un equivalente occidentale dell’epopea di Grossman Life and Fate, per esempio). E la saggistica popolare sulle Guerre, e persino gli studi accademici, hanno infine seguito lo stesso modello frammentario e personale, trattando sempre più spesso di eventi decontestualizzati su piccola scala. Oggi, a ottant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, l’immagine che se ne ha è quella di un insieme sconnesso e quasi casuale di incidenti, la maggior parte dei quali sono atrocità di un tipo o di un altro.

Sin dai combattimenti nell’ex Jugoslavia, questa è stata la tecnica di base con cui i media hanno affrontato la complessità e la contingenza: ignorarla, a favore di storie decontestualizzate di “interesse umano”, spesso scritte da una posizione di superiorità morale. In effetti, il solo fatto di voler discutere del contesto più ampio viene spesso liquidato come una “scusa” per qualsiasi gruppo politico o nazione sia attualmente in disgrazia. Il narcisismo insito nel modernismo (Joyce che passa diciassette anni a scrivere un libro che solo lui può davvero capire, poeti come Lowell e Plath che scrivono solo di quanto si sentano infelici) è l’antecedente di molti commenti politici moderni, che oggi sono in gran parte incentrati sul “cosa provo per questa situazione”, piuttosto che su un serio tentativo di illuminare o di produrre un’argomentazione coerente. Alla fine del 2023, ho iniziato (ma non ho finito) di leggere un certo numero di saggi strappalacrime di sionisti di una vita che descrivevano le agonie mentali che stavano vivendo: come hai potuto farmi questo, Oh Israele? E naturalmente c’è un modello di business molto popolare su Internet che potrebbe essere descritto come “Non so nulla dell’argomento, ma ho forti sentimenti riguardo a ciò che leggo su Internet e sono abile nell’esprimere i miei sentimenti in una prosa rabbiosa e violenta, quindi per favore mandatemi dei soldi”.

Il modernismo alla fine si è scontrato con un muro di mattoni, per ragioni che saranno evidenti. Se i suoi autori erano ancora preoccupati per la frammentazione del mondo, i loro successori, generalmente chiamati postmodernisti, la celebravano attivamente e ritraevano un mondo di caos in cui il significato era intrinsecamente assente, in opere autoreferenziali, giocose e piene di parodia, e spesso senza alcun tentativo di essere credibili. Autori come Pynchon e Nabokov, Borges, Beckett, John Barth e Umberto Eco, i realisti magici dell’America Latina sono rappresentativi. Tuttavia, l’influenza della letteratura postmoderna sulla scrittura politica è stata in realtà molto minore rispetto all’influenza della teoria postmoderna, e di alcune idee culturali marxiste che erano in circolazione nello stesso periodo.

Si può sostenere che hanno fatto più danni i libri che non sono stati letti che quelli che lo sono stati, perché i primi persistono solo in frammenti nella coscienza popolare, come frammenti (ironicamente) decontestualizzati. È vero che Roland Barthes ha scritto un saggio nel 1967, intitolato “La morte dell’autore”. Tutto ciò che Barthes diceva, in termini tipicamente ludici, era che un’opera d’arte non era un cruciverba, da risolvere scoprendo le intenzioni e le influenze dell’autore, e che ogni lettore poteva avere una valida reazione personale a un testo. In realtà non c’è nulla di nuovo in questo: quando mi occupavo di letteratura, una cinquantina di anni fa, venivamo severamente messi in guardia dalla “fallacia intenzionale”. Ma la sorprendente formulazione di Barthes ha portato coloro che non avevano letto il suo saggio a supporre che egli stesse dicendo che il significato previsto di qualsiasi testo è irrilevante, o almeno solo uno dei tanti, il che non è quello che intendeva.

Parimenti, il suo connazionale Jacques Derrida disse in un libro pubblicato nel 1967 che “il n’y a pas d’hors-texte”, una frase gnomica che molti che non avevano letto il libro presero per significare “non c’è nulla tranne il testo”, cioè che lo sfondo e l’intenzione autoriale non avevano nulla a che fare con il significato di un testo, che poteva quindi essere interpretato come un lettore desiderava. In realtà, Derrida protestava che in realtà intendeva il contrario: che è necessario tenere conto di tutti questi fattori, perché sono tutti rappresentati da qualche parte nel testo: in francese, l’hors-texte, è il contenuto di un libro (frontespizio, illustrazioni) che si trova al di fuori del testo principale, ma che, secondo Derrida, deve essere considerato parte di esso.

Se Barthes e Derrida sono stati fraintesi quando hanno parlato di parole, Louis Althusser è stato capito correttamente quando ha parlato di “fatti”, e la sua influenza è stata duratura e quasi completamente distruttiva. Althusser ha scartato ogni forma di conoscenza materiale o “fattuale” (pur rimanendo un membro del Partito Comunista Francese) e ha sostenuto che i “fatti” sono solo “concetti di natura ideologica”. Pertanto, la conoscenza procede da teoria a teoria, non da fatto a fatto. Le teorie vengono testate per verificarne la congruenza con il pensiero marxista (che per definizione è perfetto) e la loro verità viene giudicata di conseguenza. La verità non è quindi una questione di prove, ma di dimostrazione teorica, come nel caso della matematica. E, cosa importante per il nostro scopo, non esiste una “realtà storica”, il passato cambia letteralmente come cambia la teoria. (Non è chiaro se Althusser considerasse l’omicidio di sua moglie e la sua successiva reclusione in un ospedale psichiatrico come “fatti” nel senso banale del termine, o solo come costrutti ideologici).

Althusser fu fortemente attaccato, non solo da Thompson ma anche da altri marxisti dissidenti come Koloakowski, che sostenevano che il suo pensiero fosse a tratti banale, oscuro e semplicemente pieno di errori. Ciononostante, la sua influenza fu enorme negli anni Sessanta e Settanta, non da ultimo nell’élite dell’École normale supérieuredove trascorse la sua carriera professionale. Ma queste idee, come quelle di Barthes e Derrida, sono state entusiasmanti e liberatorie per intere generazioni di studenti e per coloro che hanno successivamente insegnato. In questo mondo marxista-decostruzionista, la Seconda guerra mondiale, ad esempio, non era un “evento” ma una “produzione ideologica”, i cui “eventi” fittizi erano “veri” solo nella misura in cui erano coerenti con la teoria marxista. Allo stesso modo, la Carta delle Nazioni Unite o l’ultima dichiarazione del Presidente degli Stati Uniti sono solo testi: il significato dei loro redattori è irrilevante e ognuno può interpretarli come vuole.

In alcuni casi, ciò ha prodotto semplicemente un intrattenimento innocuo: Interpretazioni sioniste di Mein Kampf, per esempio, o letture femministe di Moby Dick. Ma queste idee, proliferando in forme sempre più banalizzate, hanno prodotto intere scuole di controstoria e contro-narrazione, sostenute da letture selettive e spesso ridicole di testi le cui origini e intenzioni sono altrimenti ben note. Nel mio piccolo, mi sono abituato a leggere o a sentirmi dire che non sono accaduti eventi di cui sono stato testimone, ma eventi puramente immaginari, che i documenti che ho contribuito a redigere hanno un significato diverso da quello che si supponeva, che le decisioni a cui ero presente non sono mai state prese o che documenti il cui significato semplice è ovvio hanno tuttavia profondità segrete. Ironia della sorte, i postmodernisti (in gran parte inconsapevoli) che proliferano su Intertubes in questi giorni usano questi metodi di decostruzione proprio per costruire una visione del mondo coerente, anche se irrimediabilmente difettosa, che li salvi dai terrori della contingenza.

È quasi ora di finire, vedo, ma voglio menzionare brevemente un paio di concetti tratti da un’opera proibitiva ma molto istruttiva di teoria letteraria di Gary Morson, sul rapporto tra tempo e narrazione. Sebbene il libro riguardi in larga misura il modo in cui gli autori gestiscono il rapporto tra una narrazione di cui conoscono la conclusione (e che sarà già nota se il libro viene riletto) e il concetto di tempo, esso ha importanti implicazioni per la scrittura della storia e le analisi degli eventi attuali.

Morson definisce “prefigurazione” la tecnica con cui gli autori fanno uso di un “tempo chiuso”, in cui il futuro di cui si conosce l’esito determina il presente, poiché il presente deve inevitabilmente condurlo. Ciò è immediatamente rilevante per tutte le storie che precedono grandi eventi, come le Rivoluzioni francese e russa, in cui gli storici inconsciamente ma deterministicamente selezionano ed enfatizzano solo gli eventi che a loro avviso li hanno “preceduti”. È necessario un grande sforzo di volontà per scrivere di ciò che le persone pensavano e facevano quando erano all’oscuro dell’imminenza di un grande evento, come la Seconda guerra mondiale. Nel corso dei decenni ho tentato in diverse occasioni di scrivere e tenere conferenze su ciò che i politici e la gente comune degli anni Trenta pensavano e facevano, e perché. Trovo che questo destabilizzi e preoccupi i lettori e gli ascoltatori, abituati come sono alla presentazione dell’inevitabile, prevedibile marcia degli eventi che portano al 1° settembre 1939, e ai confortanti giudizi morali che ne possono derivare. “Ma non possono veramente averlo pensato!” è la risposta abituale, anche se è abbastanza chiaro che lo hanno fatto. Allo stesso modo, “dovevanosapereche sarebbe successo” (ciò che Morson chiama “backshadowing”), anche se è chiaro che non l’hanno fatto. E naturalmente chiunque abbia assistito a una lezione su Barthes, Derrida o Althusser sa come trovare un’ambiguità o una frase vagante che può da sola ripristinare la narrazione convenzionale, moralmente soddisfacente.

Più in generale, la narrazione del tempo chiuso rafforza la convinzione di vivere in un mondo di esiti inevitabili, dove segni e presagi rivelano il futuro predeterminato per chi ha occhi per vedere. Così, non so quante volte negli ultimi tre anni ho letto che la crisi ucraina “diventerà inevitabilmente nucleare”, come se la crisi avesse una mente e una serie di obiettivi propri, distinti dai molti tentativi contrastanti di influenzarne l’esito. In questo caso, l’esempio di crisi asseritamente “inevitabili”, come quella del 1914, viene elevato al rango di legge storica. Eppure, qualsiasi analisi di eventi recenti, come quelli che ho fornito sopra per la Siria e il Libano, mostra come le presunte conseguenze “inevitabili” (una guerra nucleare con l’Iran, ad esempio) non si siano effettivamente verificate, e al momento non c’è motivo di pensare che lo faranno.

Anche se l’argomentazione di Morson è più complessa di questa, il suo principale modello alternativo alla prefigurazione è quello che lui chiama “sideshadowing”: una narrazione in cui il tempo è aperto e in cui in tutte le fasi si riconosce che sono possibili esiti diversi. Alcuni scrittori, ovviamente, hanno cercato di farlo, non solo i postmoderni, ma anche autori classici come Tolstoj, i cui romanzi, scritti a puntate, erano deliberatamente aperti e presentavano vicoli ciechi, personaggi che scompaiono senza spiegazione, e la deliberata riduzione della causalità, come quando in Guerra e pace un gruppo di personaggi passa per caso davanti a un villaggio chiamato Borodino, senza pensarci..

È difficile scrivere in questo modo come storico: è praticamente impossibile come opinionista istantaneo. Eppure la realtà è che la storia e le crisi contemporanee non si svolgono in un tempo chiuso ma aperto, e la terrificante apertura e contingenza del mondo è un fatto bruto che va riconosciuto, senza lasciarsi sopraffare. Un possibile approccio, che ho utilizzato in questi saggi, è cercare di comprendere il mondo non come un sistema chiuso o una lotta tra poteri misteriosi, ma come l’interazione di una serie di processi politici noti (come esistono processi fisici noti) la cui interazione non determina il futuro, ma può aiutare a comprendere i limiti di ciò che potenzialmente potrebbe essere. E senza dubbio anche voi avrete le vostre idee.

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NECESSITÀ E CONTRADDIZIONI DELL’EPOCA DI TRUMP: ALCUNE TENDENZE DEGLI STATI UNITI, di Vincenzo Costa

Considerazioni interessanti di Vincenzo Costa. Provo a puntualizzare ulteriormente, dal mio punto di vista alcuni aspetti, riservandomi in futuro considerazioni più organiche:

  • il conflitto politico interno agli Stati Uniti attraversa ormai tutti i poteri, compreso il sistema giudiziario. MAGA, in questi ultimi anni, ha prestato particolare attenzione alla elezione dei procuratori, alla stessa stregua, questa volta, di Soros e delle confraternite di segno opposto. Si può dire che ci sia ormai una élite e una classe dirigente, non ancora del tutto formata, alternativa in aperta competizione e sempre più radicata negli apparati
  • il peso attribuito ai privati non ha valore sistemico, ma serve a destrutturare radicalmente gli attuali apparati per costruirne di nuovi. Le tesi di un ritorno ad una società neofeudale, come dello strapotere dei poteri finanziari fine a se stessi, secondo me, sono del tutto fuorvianti, specie se si tiene conto di cosa sia stata la società feudale e del fatto che il sistema feudale vero e proprio copriva solo una parte della società europea. Gli Stati Uniti, del resto, con il sistema delle agenzie (DARPA, ect) ha messo in piedi sin dalle origini, ma soprattutto con F.D. Roosevelt, un particolare sistema simbiotico ed intercambiabile pubblico/privato.
  • A guidare la destrutturazione non è solo la componente tecno-imprenditoriale, ma anche una componente conservatrice particolarmente attiva che, tra l’altro, sta cercando di costruire una sintesi politico-culturale con quella tecno-progressista. Dal successo di questo tentativo dipenderà la coerenza e la forza strategica e ideologica di questo movimento. L’enfasi che si tende ad attribuire alla gestione privata del potere e dell’informazione e al nesso che si determinerebbe con i processi autoritari in atto è del tutto fuorviante e travisante della situazione attuale negli USA. Intanto, in linea di principio ciò che determina gli spazi di libertà di azione e comunicazione sono le regolamentazioni dei comportamenti degli attori, siano essi privati o pubblici, il rispetto fattuale di queste; nei fatti contano il carattere competitivo delle relazioni tra i centri poliarchici e il rapporto di questi con la base popolare. Nelle fasi di destrutturazione questi spazi di libertà, solitamente, tendono ad aprirsi parallelamente agli atti proditori in attesa di una fase di restaurazione tutta da verificare. Gli Stati Uniti stanno vivendo, ormai da anni, questa fase dinamica di conflitto. L’enfasi sull’attuale carattere oligarchico ed oppressivo delle élites emergenti sono travisanti e fuorvianti.
  • Continuare ad individuare, come certa area tende ad insistere imperterrita, nei centri finanziari il deus ex machina del potere elude la dialettica ben più complessa del conflitto politico e spinge a concentrare l’attenzione ostile sul corollario della corruzione e sul carattere parassitario di questi centri (tra i tanti, Carnelos), piuttosto che sulla funzione proattiva dei flussi finanziari nella gestione del potere e nella determinazione delle formazioni sociali. Con la conseguenza che si tende ad omettere da una parte l’articolazione interna di funzioni di questi centri e la loro dipendenza dal quadro politico, caratteristica per altro presente in tutti i competitori geopolitici; dall’altra si tende ad attribuire ad essi il carattere di tesaurizzatori e parassitario. Quanto questa tesi sia fuorviante c’è lo ha spiegato chiaramente Marx, pur con tutti i suoi limiti, con la sua teoria del plusvalore e della realizzazione e redistribuzione del profitto. 
  • Trump, per perseguire i suoi obbiettivi interni di Grande America e di coesione sociale, ha bisogno di una competizione non belligerante e di una sorta di regolazione più o meno tacita del conflitto e della transizione con le forze multipolari emergenti; di una significativa riduzione pilotata della sovraestensione imperialistica piuttosto che imperiale (anche questo, secondo me, termine sempre più usato a sproposito) e di modalità diverse di esercizio del potere egemonico e di influenza anche nello stesso suo “giardino di casa”

Di sicuro dovrà correre sul filo del rasoio. Un suo fallimento rischia di portare ad una frammentazione anarchica il conflitto politico interno dalle conseguenze imprevedibili.

Di sicuro, la tentazione prevalente, per altro assente nello scritto di V. Costa, di accomunare il movimento di Trump alla cerchia di potere uscente, spesso attribuendogli un carattere peggiorativo, serve solo a giustificare la postura testimoniale del magma “sovranista”, ad aggrapparsi a stereotipi inadeguati e surclassati e ad ignorare gli enormi spazi di azione politica che si potrebbero aprire.

A titolo di esempio:

  • il tema dei dazi, piuttosto che ad una condanna e recriminazione, dovrebbe spingere a riproporre, anche nei paesi europei e in Italia in particolare il tema ricorrente, sin dal dopoguerra, dello sviluppo industriale equilibrato più fondato sulla domanda interna, di uno sviluppo diversificato delle esportazioni, di un controllo dei flussi finanziari e delle partecipazioni azionarie, di utilizzo interno del risparmio nazionale
  • l’epurazione di USAID e dintorni dovrebbe servire per fare pulizia all’interno dei propri paesi e a riprendere il controllo delle proprie leve istituzionali e degli apparati

Il riflesso oppositore pavloviano, al contrario, nel migliore dei casi si rivelerebbe sterile, nel peggiore, e già qualche inquietante segnale è purtroppo visibile in Italia, come in Francia e Germania, porterà a ridursi a semplice ruota di scorta del movimento reazionario, finto-progressista, che mantiene in Europa i filamenti più striduli ed organizzati ma che allignano negli Stati Uniti i detentori  ultimi delle trame. Basterebbe poco, qui in Europa, a cominciare dalla cessazione del conflitto in Ucraina, per far pendere le sorti del conflitto politico negli Stati Uniti. Quel poco, però, fatica ad emergere. Più che accanirsi su Trump e spingerlo, quindi, a compattarsi con i neocon o al suicidio, ci si dovrebbe concentrare sui corifei guerrafondai ben radicati in Europa, presenti nei comandi NATO, negli apparati e nel ceto politico nostrano i quali sono ben consapevoli di essere i primi a morire, in caso di collasso delle politiche globaliste. 

Negli Stati Uniti vige ormai una sorta di stato di eccezione; qui in Europa occorrerebbe qualcosa di analogo che tarda a venire; se pure si avrà.

Giuseppe Germinario

Post lungo e di studio. Lo ho scritto per cercare di chiarirmi le idee, nulla di più
L’approccio ai cambiamenti in corso è, per lo più, morale. Alle analisi si sono sostituite le indignazioni. Di per sé questo gioco è innocuo, non produce niente e non porta danni. E tuttavia, può divenire un impedimento a capire quello che sta accadendo, bloccando sul nascere qualsiasi tentativo di interrogarsi sui mutamenti in corso. Farlo significa esporsi all’accusa di putinismo prima, ora di putin-trumpismo. Non resta che ignorare questa fascia e tentare di capire.
1. Perché Trump è una necessità per gli USA
1. Trump è una differente risposta a un medesimo problema: la perdita di competitività dell’industria americana, di potere militare, di egemonia. In un’intervista importante Robert Lighthizer, colui che guida da decenni le linee del commercio estero dei governi repubblicani, ha chiarito che la Cina è una “minaccia esistenziale” per gli USA, perché ha il più grande esercito del mondo e lo sta rafforzando, la più grande marina militare del mondo e la sta rafforzando, “sta portando avanti e vincendo una guerra economica contro gli USA”
2. Gli stati uniti devono agire ora, in fretta, perché hanno perso la superiorità militare, tecnologica, industriale, e il tempo è poco e lavora per coloro che minacciano la supremazia: Lighthizer sostiene, giustamente, che con questo regime di libero scambio si trasferisce una quantità enorme di ricchezza alla Cina e, con essa, di tecnologia avanzata. Questo, dice, è insano.
3. Gli USA non possono più sostenere i costi delle rivoluzioni colorate, perché quel modo di ottenere la supremazia implica costi enormi, ed è per questo che Musk sta svuotando molte istituzioni, che Trump maltratta alleati fedeli come l’Arabia saudita, l’Europa, il Canada.
QUEL MODO DI MANTENERE LA SUPREMAZIA NON Può DURARE SUL LUNGO PERIODO, è autolesionista perché gli USA diventano sempre più deboli.
4. Il debito pubblico è fuori controllo, e l’economia americana si regge solo sul ruolo del dollaro, che però produce, di ritorno, deindustrializzazione. Ma ora, per molte ragioni e a causa dei molti errori dei democratici, gli investitori iniziano a ritirarsi, si inizia a parlare di dedollarizzazione.
Anche se la dedollarizzazione non è dietro l’angolo, tuttavia si usano sempre più monete locali negli scambi e la guerra in Ucraina è stata un acceleratore. Ma se il dollaro perde potere questo debito pubblico produrrà il collasso. Di qui l’urgenza di agire su vari piani: i tagli, la riduzione dell’apparato burocratico, le minacce verso i paesi esteri.
5. Di qui la sfida di Trump: fare di nuovo degli USA una potenza industriale, con la quale non conviene entrare in conflitto commerciale, che deve essere pagata per garantire sicurezza, che deve attrarre talenti per la tecnologia e non manovalanza a basso prezzo.
6. Il protezionismo, spiega Lighthizer, non è un’opzione: è una questione di sopravvivenza. Senza protezionismo il declino sarà rapidissimo. Significa trasferire ricchezza e potere altrove.
7. Del resto, già Biden aveva messo dazi del 100% sulle auto elettriche cinesi, aveva dato contributi statale importanti a Stellantis per riportare la produzione negli Usa. Gli Stati uniti hanno avuto un’emorragia enorme di posti di lavoro.
8. Se il sostegno degli americani a Trump è crescente, se neanche nel corso del primo mandato era stato così alto, le ragioni vanno cercate qui, non nella personalità autoritaria, l’identificazione con il leader, la psicologia delle masse.
9. Le cose correranno in fretta. I grandi oligarchi hanno scelto Trump perché le condizioni lo impongono
2. I RISCHI DELLA SCOMMESSA TRUMPIANA
Quella di Trump è una scommessa ad alto rischio, e sarà gestita pragmaticamente. Al di là delle sparate, Trump sarà pragmatico, è pragmatico: se una strada non funziona la cambia. Ma in ogni caso vi sono dei rischi, delle contraddizioni interne a questo progetto. Quali?
1. La società americana sta passando dalla polarizzazione al conflitto aperto.
Basta seguire i notiziari di CBS e CNN da un lato e FOX dall’altro per vivere in due mondi diversi. CBS presenta la chiusura di USAID come la chiusura di un’agenzia che curava i poveri bambini della Nigeria, che portava da mangiare agli affamati.
C’è da credere che gli elettori democratici non sappiano davvero niente delle porcherie che faceva USAID. Al contrario, FOX accentua il verminaio che era USAID, soprattutto attirando l’attenzione sugli sprechi, sui regali.
Due mondi, due americhe, bisognerà vedere se e quanto a lungo potranno convivere. Non è detto che possano farlo, non se lo scontro si acutizza ancora. I sistemi democratici hanno dei limiti nella capacità di tollerare il conflitto.
2. La chiesa cattolica americana (e forse la chiesa cattolica in se) va verso la spaccatura. L’uso del vangelo in chiave politica ha spaccato in due i cattolici, la commistione tra fede e politica ha frantumato il comune senso di appartenenza. I cattolici di Trump e quelli che si richiamano alla Pelosi o alla Ocasio-Cortez non appartengono già ora alla stessa comunità religiosa. C’è una bomba ad orologeria piazzata nella chiesa cattolica americana. Se non si è cauti esplode. Le conseguenze possono essere devastanti, e non solo per la chiesa cattolica.
3. Si è approfondita la spaccatura tra popolo e intellettuali negli USA, e si è sviluppata a un nuovo livello: adesso il popolo non è un movimento romantico antitecnologico, ma si riconosce nelle punte avanzate della tecnologia. Questa è una cosa del tutto nuovo rispetto ai movimenti populisti classici degli stati uniti.
4. Il concorrente per gli usa non è la Russia, ma la Cina e l’Europa. La Russia può, anzi, essere un ottimo partner, forse un partner indispensabile per gli USA e nella competizione globale.
5. L’artico non necessariamente deve portare a un conflitto con la Russia. Se guardate la cartina si capisce in fretta che l’Artico può essere diviso o condiviso con la Russia, escludendo altri paesi (in particolare l’Europa). E può esserlo con alcune modifiche territoriali. Groenlandia e Canada diventano strategiche per giungere a questa divisione che esclude. Il loro spostamento non intacca la Russia, traccia due sfere di influenza. Trump sta puntando a un multipolarismo che si struttura attorno a pochi poli dominanti, perché in questo modo vince. La divisione in sfere di influenze con la Russia non rappresenta una minaccia per gli USA, poiché la Russia comunque non è un competitore economico terribile.
6. Con la Russia non c’è affinità ideologica (autocrazia e oligarchia) come si vuole credere. Semplicemente, la Russia è decisiva per gli Stati Uniti nella lotta geopolitica, contro gli avversari veri, che sono Europa e Cina.
7. L’amministrazione Biden ha complicato tutto. È riuscita a distruggere l’economia europea, questo sì, ma ha fatto l’errore di portare a un legame strategico tra Russia e Cina. La scommessa di Trump è rimettere a posto questo errore, avere la Russia come alleato, strapparla alla Cina. Operazione difficile, ovviamente, oramai.
8. La questione ucraina va vista in chiave sistemica non morale. Il resto è solo fumo, che a volte segnala l’arrosto ma a volte segnale cose più o meno moralmente riprovevoli ma irrilevanti dal punto di vista sistemico.
9. Trump non sta smantellando lo Stato, Trump non è più dell’ordine del neoliberalismo, per cui ogni discorso sul neoliberalismo è superato dalla storia. Trump sta creando un nuovo modello, inedito: STA PRIVATIZZANDO LO STATO, sta dando e darà sempre più a privati la gestione di funzioni che restano comunque statali.
10. È la fine della modernità. La modernità era stata, tra tante cose, un processo attraverso cui lo Stato (il sovrano) toglieva ai privati (feudatari etc.) potere, lo erodeva, e in questo modo si è affermato un processo di razionalizzazione che implicava un processo di burocratizzazione. Ora il processo si inverte: i privati si appropriano di funzioni statale (la sicurezza per esempio). Non si tratta più di lasciare libero il mercato. I privati non rivendicano la libertà del mercato. Siamo di fronte a qualcosa di totalmente diverso. I privati si prendono lo stato, che resta Stato e non mercato.
11. La divisione dei poteri non è che sta saltando: è già saltata. I democratici usano e puntano sul potere della magistratura per fermare le politiche di Trump. Inevitabile che il conflitto sia destinato ad acuirsi
#Trump #StatiUniti #geopolitica #multipolarismo #europa #realismo #sovranismo
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GIOVANNI SPADOLINI. UN ITALIANO_di Massimo Morigi

      GIOVANNI SPADOLINI. UN ITALIANO

 

L’ARTEFICE DELL’IMMAGINARIA COSTELLAZIONE DELL’ITALIA LAICA, IL SUO CONTRADDITTORIO REALISMO POLITICO NELLA FINE DELL’UTOPIA DELL’ITALIA DELLA RAGIONE E DEL PRI COME PARTITO DELLA DEMOCRAZIA NELLA NUOVA EPOCA DELL’ “IMPÉRIALISME EN FORME” INAUGURATA   DALLA    SECONDA   PRESIDENZA     TRUMP

 

di Massimo Morigi

 

         

 

Ma io, con il cuore cosciente

 

di chi soltanto nella storia ha vita,

potrò mai più con pura passione operare,

se so che la nostra storia è finita?

 

Pier Paolo Pasolini, Le ceneri di Gramsci

 

Giovanni Spadolini. Un Italiano 

         Cattedratico, storico, giornalista e, infine, uomo politico che in questa sua ultima dimensione ottenne i massimi risultati venendo eletto nel 1972 senatore nella lista del PRI, nel 1979, dopo la morte di Ugo La Malfa divenendo, carica che ricoprì ininterrottamente fino al 1987,  segretario del Partito Repubblicano Italiano, poi dal 28 giugno 1981 al 30 novembre 1982 ricoprendo il ruolo, incaricato dal Presidente della Repubblica Sandro Pertini e primo laico nella storia dell’Italia repubblicana, di presidente del Consiglio, divenendo successivamente, dal 1983 al 1987,  ministro della difesa nei due governi Craxi, riuscendo a far raggiungere al PRI nelle elezioni politiche del 1983 il 5,08%, il massimo storico di quel partito e, infine, venendo il 2 luglio del 1987 nominato presidente del Senato, carica che ricoprì fino al 14 aprile del 1994 quando il Parlamento gli preferì Carlo Scognamiglio con una votazione con pesantissimi  punti interrogativi sulla sua correttezza e Spadolini provò una grandissima sofferenza per questo esito opaco, una sofferenza che lo accompagnò fino alla morte che sarebbe avvenuta da lì a poco il 4 agosto 1994, era nato il 21 giugno 1925 (nel frattempo Spadolini nel 1992 aveva mancato la presidenza della Repubblica perché il Parlamento, in seguito all’attentato a Falcone preso dalla frenesia di eleggere in fretta e furia un presidente della Repubblica, gli preferì Oscar Luigi Scalfaro), Giovanni Spadolini, presso il vasto pubblico dei suoi ammiratori del tempo, non solo i c.d. laici e non solo i repubblicani, risultava non solo come un personaggio estremamente simpatico (la sua stessa barocca corpulenza non gli procurava in nessun modo scherno ma anzi ne accresceva la popolarità, si vedano a questo proposito le amichevoli vignette di Forattini che lo ritraevano quasi sempre come un obeso putto nudo e questo concorse a renderlo ancora più simpatico, quasi un barbapapà prestato alla politica) ed affidabile (nessuno mise mai in dubbio, in quell’epoca come l’odierna squassata dagli scandali politici, la sua integrità personale ed anzi il modo come da presidente del Consiglio riuscì a gestire lo scandalo della loggia massonica P2 consacrò giustamente questa sua immagine) ma anche come una specie di genio che era riuscito ad eccellere sia, appunto, come storico che come giornalista (giovanissimo collaboratore de “Il Mondo” di Mario Pannunzio, direttore del Resto del Carlino dal 1955 al 1968 e poi fino al 1972 direttore del Corriere della Sera!). E se oggi presso le giovani generazioni (giovani si fa per dire, qui ci riferisce soprattutto agli appartenenti alla generazione dei Millenians, per quelle che seguono manco parlarne, e da queste parole si può ben capire la vetustà dello scrivente, un baby boomer, per non scendere in ulteriori imbarazzanti dettagli…) il nome di Spadolini non dice praticamente niente, ma questo è dovuto non tanto alla mancanza di spessore del personaggio ma al fatto che oggi e da molto tempo ormai si vive in un eterno presente, è singolare il fatto che, proprio mancanti pochi anni al trentesimo anniversario della sua scomparsa,  anche presso coloro che furono i suoi più stretti collaboratori e coloro che, molto più giovani, afferiscono a quello che può essere definito il cenacolo spadoliniano, la figura intellettuale e professionale di Spadolini fosse stata un po’, anche se soltanto un po’, ridimensionata. Cosa allora in questo ambiente viene anche detto di Spadolini? In pratica, si dice che Spadolini fu un grande storico ma non un grandissimo storico, cioè si afferma che i suoi lavori per quanto estremamente interessanti e dissodanti  per molti versi territori ancora in larga parte incolti, non costituiscono pietre miliari della scienza storica e si continua dicendo che se anche professionalmente come giornalista raggiunse, come s’e visto, le più altre vette, egli non fu assolutamente né un rinnovatore del linguaggio giornalistico  né un grande organizzatore della carta stampata, come per esempio un Eugenio Scalfari o un Indro Montanelli  che arrivarono  alla fine a fondare nuove  testate giornalistiche fortemente influenti sulla pubblica opinione.

          Ovviamente, in quest’opera di piccolo, piccolissimo, ridimensionamento del personaggio, viene salvata, oltre alla figura del cattedratico di grande successo e prestigio (e non potrebbe essere diversamente: «Già nel 1950 Spadolini è incaricato dell’insegnamento di Storia Moderna II alla Facoltà di Scienze Politiche di Firenze  «Cesare Alfieri », primo titolare di quella che diverrà dieci anni più tardi la prima cattedra in Italia di Storia Contemporanea: secondo della terna Gabriele De Rosa, terzo Aldo Garosci. I suoi studi sono anticipatori di originali, successivi filoni di indagine e di ricerca storiografica: i rapporti fra Stato e Chiesa, le vicende dei partiti e dei movimenti politici, la revisione del Risorgimento, la storia di Firenze e della Toscana nel contesto italiano ed europeo. Molte sue opere sono ancora considerate autentici classici della storiografia italiana. In aspettativa per mandato parlamentare, non avrebbe mai lasciato la titolarità della cattedra del «Cesare Alfieri» »: Cosimo Ceccuti, Giovanni Spadolini. Giornalista, storico e uomo delle istituzioni, introduzione di Carlo Azeglio Ciampi, Firenze, Mauro Pagliai, 2014, p. 58, quindi in Cosimo Ceccuti, il più stretto collaboratore di Spadolini, mancanti però più di dieci anni dal trentesimo anniversario della sua scomparsa, si propone l’immagine di un Giovanni Spadolini grande storico) in toto la figura dell’uomo pubblico, del politico, anzi il politico viene innalzato come nessun altro sugli scudi sottolineando, molto opportunamente, oltre alla grande impresa di essere stato il primo laico ad assumere la carica di presidente del Consiglio, il suo successo nel riavvicinare la gente alla politica, oggi come allora totalmente screditata ma il fatto che questo sia stato un successo effimero – hanno buon gioco di sostenere costoro – non è certo imputabile a Spadolini e io su questo sono parzialmente d’accordo ma anche parzialmente in disaccordo. E mi spiego perché ho usato questa circonlocuzione che sa molto di linguaggio moroteo – o di necessità di una seduta psicoanalitica dello scrivente –  ma penso che non solo  presso il lettore sia  d’aiuto a far affiorare i contrastanti e contraddittori odierni sentimenti di una persona, il sottoscritto,  che visse in pieno e con convinzione i fasti spadoliniani   (ricordo  la grande emozione che provai quando nel 1986 con estrema gentilezza – bontà d’animo e disponibilità che apparentemente contraddittoriamente alla esibita consapevolezza del suo valore che sfiorava l’egocentrismo e, soprattutto,  ai suoi terribili scatti umorali, era un tratto distintivo del suo carattere –  Spadolini siglò il frontespizio della mia prima fatica nel campo della letteratura politica, Gloria alla Repubblica Romana. Compendio de «La Repubblica Romana del 1849 di Giovanni Conti», Ravenna, Edizioni Moderna, 1986  e per chi voglia rendersi direttamente conto di quella  che può essere considerata l’ultima pubblicazione palesemente e senza infingimenti retorica generata dal già morente mondo della religione politica mazziniana, può andare all’ URL di Internet Archive  https://archive.org/details/massimo-morigi-gloria-alla-repubblica-romana-compendio-de-la-repubblica-romana-d/mode/2up dove potrà apprezzare la scansione del documento col frontespizio siglato da Giovanni Spadolini) ma anche perché è proprio il lascito storico-culturale spadoliniano che, in ultima istanza, visto oggi ex post, non poteva che lasciare dietro di sé che un cumulo di macerie anche sul piano più prettamente politico.

          Una caratteristica, anzi l’autentica peculiarità distintiva di Spadolini è che, contrariamente ad altri intellettuali che ad un certo punto della loro vita decidono di dedicarsi alla politica, fu che, in un certo senso, tutta la sua precedente attività come cattedratico, storico e giornalista, può considerarsi una preparazione ai ruoli politici che egli avrebbe ricoperto in seguito. Egli non fu, quindi, il classico intellettuale, ma senza una specifica autoformazione riguardo alla vita pubblica, prestato alla politica e che magari sogna di divenire in finale di carriera una sorta di consigliere del Principe, egli,  al contrario, fu un intellettuale che sin dagli inizi volle farsi Principe e che, come intellettuale, inizia sin da subito a forgiare gli strumenti per ottenere questo risultato. E quali sono questi strumenti? Molto semplicemente, il cercare in maniera indefessa e diuturna di costruire attraverso l’attività di cattedratico, di storico e di giornalista la narrazione che, al di là della cultura marxista  e di quella più umile ma altrettanto pervasiva cattolica, in Italia è sempre esistita una cultura alternativa,  che egli definisce come Italia laica o Italia della ragione (vedi i titoli dei suoi più significativi lavori storici al riguardo: Gli uomini che fecero l’Italia, L’Italia della ragione. Lotta politica e cultura nel Novecento, L’Italia dei Laici. Da Giovanni Amendola a Ugo La Malfa (1925-1980) e, infine, Autunno del Risorgimento, libro pervaso da una vena malinconica e dalla sottesa consapevolezza che il Risorgimento ci ha lasciato profondissime e forse insanabili contraddizioni). Ora, il punto è che è vero che mai politicamente gli italiani si sono riconosciuti in blocco nei due predetti filoni ma non era proprio detto, anzi era una totale distorsione cognitiva spadoliniana, che coloro che non erano né “rossi” né “bianchi” potessero – allora come oggi! – essere considerati e quindi impiegati come una compatta falange politico-culturale prendendo come esempio – come fece Spadolini in queste ed altre sue  pubblicazioni ed in moltissimi suoi interventi sulla stampa – gli illustri personaggi del passato che erano stati fuori dall’orbita marxista o da quella confessionale. Invece, proprio questo Spadolini cercò di fare: dagli Uomini che fecero l’Italia, all’Italia della ragione, all’Italia dei laici ed  anche con Autunno del Risorgimento, tutti gli sforzi di Spadolini furono indirizzati alla costruzione di una narrazione politica (non dico ideologia politica, perché l’ideologia comporta il proporre uno schema di società che vada al di là della esaltazione degli eroi che devono porsi alla guida del processo di trasformazione, che poi l’ideologia rapidamente degradi nell’agiografia questo è un altro discorso ed appartiene comunque alla fase successiva della presa del potere quando necessitano ancor più facili schemi propagandistici per manipolare le masse) dove le virtù morali di coloro che non furono né marxisti né cattolici costituiscono il collante della narrazione spadoliniana  e l’esempio da seguire, secondo Spadolini, per la futura Italia.

          E il fatto veramente singolare di tutta questa costruzione – che potremmo definire una costellazione di medaglioni biografici che costituiscono la struttura delle predette pubblicazioni e costellazione e non galassia perché, come tutti sanno, al contrario di altre nomenclature celesti, le costellazioni sono solo una costruzione mentale e fantastica dell’osservatore che nulla di reale ci dicono sulle reali dinamiche dell’Universo – è che Spadolini, da vero, anche se non grandissimo, storico quale egli era, non sorvola affatto sulle caratteristiche culturali e politiche dei personaggi da lui presi in considerazione, da questo punto di vista egli è onestissimo e, a mio giudizio, è un esempio di deontologia applicata al lavoro dello storico, ma pretende che queste differenze non contino o contino poco o nulla  rispetto alla dimensione caratteriale quiritaria, come lui amava definirla, che idealmente accomuna questi personaggi e che avrebbe dovuto costituire, questa dimensione, il tratto morale base per i partecipanti  alla costruzione del futuro soggetto politico né cattolico né marxista. E così culturalmente egli liberale profondamente crociano, con una sorta di autentica devozione per Gobetti, il Gobetti della Rivoluzione liberale ma soprattutto del Risorgimento senza eroi, si trova costretto, in ragione di questo progetto politico, a dovere inserire nella sua teleologia storico-politica personaggi che non sono rivoluzionari anche se solo nel senso gobettiano della rivoluzione  liberale e che talvolta potrebbero essere definiti semplicemente come conservatori della più bell’acqua o che non sono nemmeno liberali, anzi sono consapevolmente e decisamente antiliberali. Come esempio di personaggio giudicato molto correttamente e perspicuamente da Spadolini come antiliberale, valga per tutti Giuseppe Mazzini e a tal proposito riproduciamo qui per intero il suo primo articolo su Mazzini, sul quale in seguito Spadolini  cercherà di svolgere un’operazione palinodica ma, per sua stessa ammissione, molto parziale: «Esiste il “mito di Mazzini”. È il tipico mito italiano, eclettico e confusionario: riassume tutto, concilia tutto, giustifica tutto. In questo senso, Mazzini si è prestato, si presta e si presterà sempre a esser sfruttato da tutti i regimi: liberali, democratici, trasformisti, fascisti, socialisti, comunisti. Ma pochi conoscono la “realtà”, del pensiero e dell’azione mazziniana, ciò che è morto, oggi, e che è vivo di lui. Cosa c’era di caduco nel mazzinianesimo? Quel riflettere gli atteggiamenti più estremi della “Weltanschauung”, massonica, di quella visione della vita che s’era formata nel Settecento e che era tutta intrisa e compenetrata di umanitarismo, di egualitarismo, dei principi della pace, della giustizia, della fratellanza, dell’armonia e del progresso universale.
E cosa c’era di genuino nel Mazzini? Quel dipingere il popolo come “profeta della rivoluzione”, quell’affermare il nesso fra Dio e popolo, quell’insistere su un’impossibile “iniziativa popolare”, quell’illusione, quella fissazione, quella passione “popolaresca”, che mai egli perse nonostante le delusioni del ’48 e le smentite del ’59.
E cosa c’era di retorico? Quell’inseguire il mito della “Terza Roma”, e anzi assegnare alla terza Roma, quale “mente della terra”, “verbo di Dio fra le razze”, centro della religione dell’umanità, il compito di unificare tutte le genti disperse d’Europa e d’America sotto un sol senso comune (quale poi fosse precisamente, nessuno sapeva). E quanto di derivato dalle dottrine straniere o antiche? A chi guardi il volto complesso e composito del mazzinianesimo, non sfuggiranno i sedimenti del gioachimismo, i ricordi e le eresie medievali, i residui della Riforma, le tracce del giansenismo, le influenze di Saint-Simon, le ripercussioni di Lamennais, i riflessi del Quinet o del Vinet, le risonanze del socialismo utopistico: del suo pensiero, ben poco resterà di originale.
Qual è dunque, la ragione dell’attuale e forse immortale vitalità del pensiero di Mazzini? Mazzini è in primo luogo l’unico grande riformatore religioso che l’Italia abbia avuto dopo Savonarola. In quel moto, a carattere essenzialmente politico-diplomatico che fu il Risorgimento, egli portò un lievito, un fermento, un tormento religioso, che danno alla rinascita italiana un significato che non ebbe nessun altro movimento nazionale europeo. In un paese, che non aveva più sentito una profonda istanza di religiosità civile, laica, umanistica dalla Controriforma in là, il pensiero mazziniano rappresentava, con l’affermazione dell’unità fra politica e morale, del nesso fra Stato e Chiesa, del vincolo fra democrazia e religione, l’affermazione solenne della necessità di un rinnovamento delle coscienze, di un’interiore “metanoia” prima ancora d’una riforma delle strutture sociali e politiche. In secondo luogo, Mazzini è il creatore del “mito” operante dell’unità. L’unità, in Italia, non era una realtà geografica, non era un’eredità storica, non era una vocazione nazionale. L’Italia era il paese delle città e dei Comuni; l’Italia era il popolo delle infinite rivoluzioni federali, e nel ’48 ne aveva vissuto l’ultima e più grandiosa; l’Italia era la terra che aveva sempre ondeggiato fra una realtà municipale e una destinazione universale, fra un presente di provincia e una meta di impero; l’Italia era infine la sede del Papato, cioè dell’organismo più universale della storia, e non solo la sede, quanto il cuore, il centro, il fulcro stesso del Pontificato romano. Mazzini riuscì a dare a questo popolo l’illusione dell’unità; riuscì a infondere nelle sue classi dirigenti il sogno, la speranza, il desiderio dell’unità. Il “mito” unitario non era per Mazzini limitato al fatto nazionale. Egli voleva l’unità fra gli italiani, in quanto, fosse a sua volta principio e premessa dell’unità fra popolo e stato, fra Stato e Chiesa, fra cielo e terra. Unità nazionale d’Italia; unità internazionale d’Europa; unità universale del mondo; unico dogma quello del progresso; unica religione quella dello spirito; unica educazione quella del vero; unico Stato quello ispirato alla democrazia e alla giustizia. L’ “unità”: ecco la grande forza di Mazzini. In un paese tendente alla molteplicità, alla diversità, alla discordia, Mazzini gettava questo seme di unità, e lo consacrava col sangue dei martiri. Se oggi si celebra il ’48 come rivoluzione nazionale, lo si deve a lui, non certo ai Principi e ai Granduchi in onore dei quali si organizzano le varie e inutili mostre commemorative. Essendo unitario, Mazzini non poteva essere, non fu mai liberale. È l’ultimo equivoco che bisogna dissipare. La visione del liberalismo moderno era per Mazzini il prodotto complessivo dell’individualismo, dell’utilitarismo e del materialismo: tutto ciò a cui bisognava opporsi nella fondazione della nuova società. Se il liberalismo rappresentava la concezione dei diritti individuali rispetto ai poteri dello Stato, Mazzini vagheggiava una concezione in cui fossero ben stabiliti i doveri “individuali” rispetto ai diritti dello Stato. Se il liberalismo era laicismo, religione della laicità, Mazzini sognava uno “Stato teocratico”, dove “fossero sacerdoti tutti con uffizi diversi”. Se il liberalismo era immanentismo, Mazzini sognava una trascendenza, sia pur diversa da quella cattolica. Se il liberalismo era umanesimo, Mazzini auspicava una rivelazione divina, che si attuasse attraverso i geni “angeli di Dio sulla terra” e il popoli “profeti di Dio in terra”. Se il liberalismo, insomma, era dialettica, dialettica di forze e di idee, di istituti e di uomini, libertà di iniziative e senso di autonomia, capacità dell’autogoverno e vigore di individuale creazione, Mazzini era, invece, per la riduzione a unità delle forze e delle idee, degli istituti e degli uomini, per il controllo delle iniziative e la subordinazione dell’autonomia personale alla nazione e allo stato, per l’educazione impartita dall’alto e secondo uno schema unitario, infine per l’opera sociale, lo sforzo collettivo, l’azione dei molti, l’associazione. Mazzini non fu mai un liberale, perché in fondo non fu mai un “politico”. Egli fu un anticipatore, un apostolo, un profeta: e io non conosco nella storia un apostolo e un profeta che sia mai stato liberale.»: Giovanni Spadolini, Mazzini oggi, in  “Il Messaggero”, 5 agosto 1948 ma anche in Id.,
Autunno del Risorgimento, Firenze, Le Monnier, 1971, pp. 306-308 e nel blog “Termometro politico” all’URL https://forum.termometropolitico.it/231944-giovanni-spadolini-firenze-1925-roma-1994-a-17.html, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20250201085119/https://forum.termometropolitico.it/231944-giovanni-spadolini-firenze-1925-roma-1994-a-17.html.

          Ora, a parte il fatto che ingenuamente, molto ingenuamente, verrebbe da chiedersi come abbia fatto uno storico che pronuncia questi giudizi su Mazzini diventare segretario del Partito repubblicano che, anche se solo a livello di lip service, riteneva – e ancor meno razionalmente proclama tuttora, viste le sue posizioni politiche – Mazzini come una specie di Dio in terra e l’incisore delle tavole della legge per la fuoruscita dell’Italia dal suo stato di minorità che la accompagna sin dalla fine del Risorgimento, si tratta quello appena mostrato di uno scritto giovanile ma su questo giudizio una vera palinodia non verrà mai fatta, e quindi che un uomo valentissimo ma liberale sin nelle midolla come Spadolini sia potuto diventare segretario del PRI si spiega e con la debolezza politica di questo partito che dopo la morte di La Malfa richiedeva una altrettanto grande e rappresentativa figura da mettere al suo posto e alla sempre più declinante crisi della religione politica che formalmente ispirava (ed ispira del tutto superficialmente tuttora) il Partito repubblicano, cioè il mazzinianesimo (e sulla sempre più declinante religione politica del mazzinianesimo cfr. il mio  Massimo Morigi, Lo Stato delle Cose dell’Ultima Religione Politica Italiana: il Mazzinianesimo. Una Riflessione Transpolitica per il suo Legittimo Erede: il Repubblicanesimo Geopolitico. Presentazione di Trent’anni Dopo alla Dialettica Olistico-Espressiva-Strategica-Conflittuale de Arnaldo Guerrini. Note Biografiche, Documenti e Testimonianze per una Storia dell’Antifascismo Democratico Romagnolo, pubblicato in quattro puntate sul presente sito di geopolitica “L’Italia e il Mondo”, sempre sull’ “Italia e il Mondo” in un’unica puntata in data 8 marzo 2023 all’URL http://italiaeilmondo.com/2023/03/08/lo-stato-delle-cose-dellultima-religione-politica-italiana-il-mazzinianesimo-integrale-di-massimo-morigi/, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20230330090857/http://italiaeilmondo.com/2023/03/08/lo-stato-delle-cose-dellultima-religione-politica-italiana-il-mazzinianesimo-integrale-di-massimo-morigi/ e, infine, caricato su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/lo-stato-delle-cose-dell-ultima-religione-politica-il-mazzinianesimo-repubblican/page/n39/mode/2up e https://ia801605.us.archive.org/31/items/repubblicanesimo-repubblicanesimo-geopolitico-neomarxismo-monica-vitti/Repubblicanesimo%2C%20Repubblicanesimo%20Geopolitico%2C%20Neomarxismo%2C%20Monica%20Vitti.pdf), in realtà il punto più interessante per il nostro discorso è  quando Spadolini afferma che «Mazzini è il creatore del “mito” operante dell’unità. L’unità in Italia non era una realtà geografica, non era un’eredità storica, non era una vocazione nazionale. L’Italia era il Paese delle città e dei comuni; l’Italia era il popolo delle infinite rivoluzioni federali, e nel ’48 ne aveva vissuto l’ultima e più grandiosa; l’Italia era la terra che aveva sempre ondeggiato fra una realtà municipale e una destinazione universale, fra un presente di provincia e una meta di impero; l’Italia era infine la sede del Papato, cioè dell’organismo più universale della storia, e non solo la sede, quanto il cuore, il centro, il fulcro stesso del pontificato romano. Mazzini riuscì a dare a questo popolo l’illusione dell’unità; riuscì a infondere nelle sue classi dirigenti il sogno, la speranza, il desiderio dell’unità.», dove emerge ben chiara la vera nota di fondo di  tutta la produzione spadoliniana sul Risorgimento, vale a dire la consapevolezza che l’unificazione italiana era stato un processo debolissimo, con scarsa base sociale ed opera quasi esclusivamente di élite. E questa consapevolezza attraversa come un sordo rintocco tutta la costellazione dei personaggi  della narrazione storico-politica spadoliniana, non si rivela solo trattando di Mazzini ma trova anche sorprendenti manifestazioni che espresse come vengono espresse mettono palesemente in crisi, se ben osservate in controluce,  anche la rappresentazione pubblica del disegno politico spadoliniano. Ecco cosa scrive
Spadolini riguardo a Gramsci: «Dal Cinquecento ad oggi[…], il pensiero cattolico ha sempre combattuto, nel machiavellismo, lo spettro dello Stato laico, dello Stato forte, dello Stato sovrano: la logica della teocrazia, che presuppone la perfetta unione fra la politica e la morale, non potrà mai giustificare una rottura che esalta il primo termine nel suo valore assoluto e totale. Molto meno si comprende la opposizione di certi spiriti liberali al pensiero di Machiavelli. Non sarà male ricordare innanzitutto che, alle origini del nostro Risorgimento, Machiavelli fu considerato un maestro di libertà repubblicana: e come tale lo esaltarono i giansenisti della fine del Settecento, come tale lo vide Niccolini,  come tale lo guardarono i neoghibellini del ’48 impegnati a respingere le suggestioni e i fantasmi del ritorno neoguelfo. Lungi dal giudicarlo come un amico dei tiranni, molti dei patrioti dell’Ottocento glorificarono in lui non solo il profeta dell’unità nazionale, quello della chiusa del Principe, ma ancor più l’anticipatore degli ideali repubblicani e democratici brillati nelle pagine dei Discorsi. Non era difficile ribattere, ai detrattori “moderati” del Segretario fiorentino, come Balbo e Cantù, non era difficile ribattere allo stesso Mazzini, sempre pronto ad accettare la logica della teocrazia sia pure al servizio di un altissimo ideale democratico, che la più violenta polemica contro il “machiavellismo” era venuta proprio da un re come Federico II, pronto a sacrificare ogni ideale di libertà alla grandezza e alla potenza dello Stato. […] Ma se Voltaire aveva ispirato la satira del principe prussiano,  se l’illuminismo e il razionalismo si erano opposti alle dottrine politiche di colui che presupponeva la fede nella storia e quindi la coscienza di una lotta implacabile contro la natura ed il male, il suo difensore più efficace Machiavelli lo trovò nel filosofo, che doveva giustificare idealmente tutte le audacie del liberalismo moderno ed essere quindi scambiato per un conservatore: Giorgio Federico Hegel. Pochi ricordano che nel suo scritto giovanile Libertà e fato, che vide la luce postumo nel 1893, Hegel esaltò la tesi del Principe come la concezione più alta e più vera di un’autentica mente politica animata dai più grandi sentimenti. Profondamente consapevole com’era del problema nazionale tedesco, ansioso di promuovere la liberazione del suo popolo dal giogo straniero, Hegel esaltò in Machiavelli l’italiano, il patriota, il cittadino che per primo aveva sentito la necessità di comporre l’Italia  in unità di Stato, affrancandola dalle discordie interne e dalle dominazioni esterne. […] Il dissidio  fra l’essere e il dover essere, fra l’esigenza etica e quella politica, fra la voce dell’utile e quella della coscienza –  dissidio che Machiavelli aveva aperto col suo libro famoso – non apparve neppure a Hegel giovane, che affermò risolutamente  che “uno stato di cose nel quale il veleno e l’assassinio sono diventati armi abituali, non sopporta rimedi miti. Una vita prossima alla corruzione può essere riorganizzata soltanto per mezzo  del procedimento più forte”. […] L’unico fra i recenti pensatori italiani, che abbia avuto  l’esatta percezione della funzione attuale del Machiavellismo, secondo la logica storicistica e dialettica, è stato Antonio Gramsci. Nelle pagine inedite, apparse nel quadro dell’opera postuma einaudiana, sulla concezione machiavellica della politica e della vita, il teorico del comunismo italiano ha identificato il “moderno principe” col partito della classe operaia e ne ha riassunto la missione nella costruzione dello Stato rivoluzionario che risolve il contrasto  fra la tecnica e la teologia, che annulla il dualismo fra i mezzi e i fini. Di fronte al pensiero di Gramsci, di fronte alla polemica dei comunisti, i liberali e i democratici italiani non saranno capaci di rivendicare l’eredità di Machiavelli? Per il solitario pensatore sardo, coerente a tutte le premesse dell’ “umanesimo marxista”, la funzione creatrice e liberatrice che Machiavelli aveva assegnato allo Stato trapassa naturalmente alla “classe”, secondo la stessa logica inesorabile per cui la guerra internazionale ha ceduto il posto a quella civile o il conflitto di nazioni si è spostato sul piano della lotta sociale. In ogni caso, qualunque sia oggi la posizione dei marxisti o dei liberali, lo Stato moderno non sarebbe mai nato senza l’intuizione di Machiavelli. Ma quell’intuizione non avrebbe dato i suoi frutti, se non fosse passata attraverso il vaglio di Hegel. Machiavelli era ancora soltanto un “laico”; Hegel era già un “credente”. Questa è la differenza. Lo stato moderno, nella sua sostanza ultima, non è altro che la “Chiesa” del liberalismo.»: Ivi, pp. 263-268).

          Ora, a parte la  difesa del machiavellismo, aspetto sul quale torneremo fra breve, quello che sorprende è il ragionamento di Spadolini su Gramsci che ci porta ad una prima considerazione 1) che il moderno Principe di Gramsci, il Partito comunista della classe operaia e della classe contadina  che organizza queste masse, viene in linea di principio giudicato nient’affatto con sospetto,  anzi è quasi un modello da imitare, e ciò pone Spadolini ai margini della tradizione politica liberale cui appartiene, per la quale Gramsci e il suo moderno Principe sono sempre stati visti con estrema avversione, come una premessa, in altre parole, del totalitarismo. E sorprende anche che, però, il moderno Principe à la Spadolini non debba organizzare le masse operaie e contadine ma i democratici e i liberali, insomma già da questo si vede la debolezza della narrazione spadoliniana concepita non in funzione dell’organizzazione di  vaste masse elettorali e quindi di una grande mobilitazione interclassista ceti medi più masse operaie e contadine da contrapporre al moderno Principe à la Gramsci che organizza le masse proletarie contadine ed operaie – e che, per quanto riguarda i ceti medi, guarda quasi esclusivamente agli intellettuali in via di proletarizzazione, o sempre a ceti medi non meglio specificati professionalmente ma solo se e in quanto se, come gli intellettuali, in via di rapidissimo declassamento –, che devono costituire il cervello pensante del moderno Principe-Partito comunista ma unicamente per  compiere un’operazione esclusivamente all’insegna  di una politique d’abord e senza alcuna pretesa di egemonia politico-culturale su tutta la società ma  accatastando caoticamente e disorganicamente  in un solo partito quell’Italia minoritaria di ceti intellettuali medio-alti (e come da noi già sottolineato, tutt’altro che omogenea dal punto di vista ideologico) che non si riconosceva né  nella cultura cattolica né in quella comunista; 2) secondo critico aspetto della narrazione politica spadoliniana,  è che a Spadolini non  è affatto estranea la visione realistico-machiavelliana della politica, solo che, ahimè,  questo realismo deve costantemente fare i conti con il suo progetto politico-culturale di costruzione di una costellazione di personaggi e di racconti biografici  tutti diversi fra loro ma uniti non in virtù di una concezione realista della società e della politica, una concezione machiavelliana in altre parole,  ma in ragione del valore morale di questi personaggi. Un valore morale che Spadolini, ricorrendo ad un lemma richiamante emotivamente la Roma antica (e in questo possiamo udire l’ eco del  mito della Roma repubblicana filtrato attraverso Machiavelli), sovente definisce con l’aggettivo di ‘quiritario’, virtù quiritaria che avrebbe dovuto costituire quell’elemento distintivo di quell’ ‘Italia della ragione’  o di quell’ ‘altra Italia’ – termini entrambi carissimi a Spadolini anche se il secondo non era di conio spadoliniano ma che prima di Spadolini era stato impiegato come titolo per un serie di articoli che Ugo La Malfa aveva pubblicato su “Il Mondo” ma che, a sua volta, Ugo La Malfa aveva preso da Piero Gobetti,  uno degli intellettuali che Spadolini ebbe fra i suoi più amati – che non si riconosceva né nella cultura cattolica né in quella marxista e tratto morale ‘quiritario’ come fomento generatore di quel ‘partito della democrazia’, altro termine molto caro a Spadolini, che avrebbe dovuto sorgere sulle basi del mazziniano PRI ben poco mazziniano già a quei tempi e ancor meno partito con possibilità di espansione. E che il realismo politico fosse una delle più vive contraddizioni del pensiero spadoliniano lo vediamo in questo rapido passaggio dove Spadolini ricorda lo storico Federico Chabod: «Munito di tutte le cautele del più agguerrito storicismo, lo Chabod non indulgeva mai alle pregiudiziali deterministiche e si guardava dalle pregiudiziali classificatorie: la sua sensibilità storiografica ripudiava gli schematismi e le astrazioni, respingeva le suggestioni delle “dottrine pure” e delle “pure strutture”, rifiutava il monopolio delle statistiche e dei diagrammi e, pur nell’indagare il giuoco degli interessi, non piegava alle assurde regole della “geopolitica”, non si muoveva sul piano della esclusiva e particolare storia diplomatica (pronto invece a cogliere la vibrazioni degli uomini, le sfumature delle correnti, le reazioni dell’opinione). »:Ivi, pp. 448-449.

          Singolarissimo passaggio che oltre a restituirci una vivida rappresentazione dello storico valdostano,  proprio per il difficoltosamente rattenuto pathos che lo pervade si presta anche ad essere un (molto poco) involontario ritratto di Spadolini stesso,  in realtà un autoritratto dal quale possiamo estrarre due elementi.

          Primo) Lo Spadolini-Chabod,  da vero storicista crociano rifiuta il determinismo marxista o meglio rifiuta il determinismo marxista di scuola marxista-leninista (semmai verrebbe da chiedersi quanto nell’Italia di inizio anni ’70 fosse egemone in seno alla sinistra il marxismo-leninismo mentre nel partito comunista era sicuramente più seguito il marxismo umanistico di Antonio Gramsci tradotto per le  masse del PCI e come instrumentum regni ideologico per i quadri e i dirigenti nella versione geneticamente modificata di Palmiro Togliatti del partito Nuovo e che del moderno Principe gramsciano, in pratica, non sapeva che farsene perché in questo partito Nuovo era solo il momento politico che avrebbe dovuto organizzare le masse e l’apporto degli intellettuali all’organizzazione e direzione del partito Nuovo non era visto alla luce di una continua prassistica dialettica momento intellettuale/momento politico ma solo come subordinazione degli intellettuali alla dirigenza politica – come infatti sempre fu il PCI di Togliatti e dei suoi successori – e abbandonando il partito Nuovo togliattiano ogni velleità egemonica sulla società, una egemonia che, secondo Gramsci,  avrebbe dovuto essere il prodotto politico della dialettica fra momento intellettuale e momento politico che nel partito comunista-moderno Principe avrebbe trovato la sua più alta entelechia ed efficacia perchè volto al coinvolgimento diretto delle   delle masse proletarie e contadine in questa stessa dialettica, in un processo sì egemonico su tutta la società ma egemonico non per l’esito autoritario in senso politico-istituzionale ma perchè realmente trasformatore di tutti i rapporti di classe e reali rapporti di forza fra queste – e in questo empito totalitario di Gramsci, totalitario cioè nel senso di trasformazione totale della società, come non vedere anche dei riflessi del totalitarismo mazziniano, per il quale repubblica significava trasformazione totale della società imponendone un imperativo di miglioramento etico-sociale: certo Gramsci guardava alla lotta di classe, Mazzini invece alla collaborazione di classe ma in entrambi incombe  la presenza, o si registra la presenza se vogliamo usare un verbo meno urticante,   di uno Stato etico mazziniano o di un  moderno Principe gramsciano, se si preferisce, che progetta di rivoltare come un calzino la società in dispregio a tutte le “conquiste” individualiste del liberalismo; inteso, invece, il partito Nuovo togliattiano esclusivamente come il generatore, seppur autoritario,  di una inclusività puramente addizional-matematica e non organica di tutte le classi sociali all’interno del partito, partito Nuovo di Togliatti,  quindi, autoritario ma non  nel senso del   Partito comunista-moderno Principe di Gramsci per il quale la decisione verticistica ed inappellabile era solo giusticata dalla finalità di far scaturire una libera dialettica sociale annientatrice della sottomissione di classe del regime capitalista, ma profondamente connotato da un autoritarismo che rinunciando ad una reale egemonia sulla società, aveva anche abbandonato ogni pretesa alla trasformazione dialettica della stessa  come invece avrebbe fatto il Partito comunista-moderno Principe,  limitandosi il partito Nuovo a dovere tracciare  una linea mediana di sintesi puramente geometrico-calcolatoria fra le varie e divergenti istanze della società; ma su queste sottigliezze preferiva sorvolare Spadolini tutto teso a compattare un fronte liberaldemocratico che, per quanto più a sinistra del partito liberale non poteva certo transigere sulla contrapposizione al comunismo o, meglio, sulla contrapposizione di quello che oramai solo nel nome e nella ingenua rappresentazione dei suoi detrattori e dei suoi militanti poteva essere definito Partito comunista. Un partito Nuovo togliattiano meramente addizionatore matematico delle spinte e controspinte che provengono dalla società   – insomma, una sorta di Democrazia Cristiana più di sinistra e che ha rinunciato ad ogni riferimento identitario alla religione cattolica, in altre parole, l’attuale PD – e non momento fondamentale della loro sintesi dialettica che conduce all’egemonia culturale e politica del partito sulla società e che perciò  è veramente la pallida e svirilita caricatura del partito comunista-moderno Principe di Antonio Gramsci, come cerca di farcelo accettare con debolissimo ragionamento –  in realtà dimostrando di non crederci nemmeno lui – Cino Tortorella:«Così il partito di cui Gramsci traccia l’idea ha un compito altissimo, politicamente e moralmente. Viene di qui una concezione che tende a fare del «moderno Principe» un soggetto che può porsi come assoluto: «Il “moderno Principe”, sviluppandosi, sconvolge tutto il sistema di rapporti intellettuali e morali in quanto il suo svilupparsi significa appunto che ogni atto viene concepito come utile o dannoso, come virtuoso o scellerato, solo in quanto ha come punto di riferimento il “moderno Principe” stesso, e serve a incrementare il suo potere o a contrastarlo» (Q. XIII, l). Questa concezione del partito in Gramsci non può dunque essere ridotta e banalizzata – come è stato fatto – quasi che essa costituisse l’imitazione o l’eco di quel che intanto andava accadendo nell’Urss e del ruolo che vi acquistava il partito. Era una concezione che, tuttavia, andava superata; e così è già in Togliatti con l’idea del «partito nuovo», cui si aderisce su base programmatica. Il laicismo moderno e la laicizzazione integrale che Gramsci considerava come finalità essenziale avrà bisogno di un partito comunista che, senza nulla perdere del proprio impegno ideale e morale, sappia considerarsi come un soggetto tra gli altri: capace di battersi per i propri convincimenti e per i propri programmi senza ignorare le ragioni degli altri.»: Cino Tortorella, Partito come moderno principe, da noi citato all’URL dell’ “Associazione Enrico Berlinguer. Per la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale della sinistra italiana” https://enricoberlinguer.org/home/glossario-gramsciano/64-partito-come-moderno-principe.html,  Wayback Machine:     http://web.archive.org/web/20221205104904/https://enricoberlinguer.org/home/glossario-gramsciano/64-partito-come-moderno-principe.html, messo in Rete dall’Associazione Enrico Berlinger”  senza data ma sicuramente non dopo il  congelamento Wayback Machine avvenuto in data 15 agosto 2022  e articolo a  sua volta originariamente in Aldo Tortorella, Partito come «moderno Principe», in Carlo Ricchini, Eugenio Manca e Luisa Melograni (a cura di), Gramsci. Le idee nel nostro tempo, Roma, Editrice L’Unità, 1987, pagine del collocamento all’interno del documento ugualmente non disponibili).

         Secondo) Spadolini rifiuta sempre, in nome di una visione antideterminista, anche la geopolitica e su questo punto occorre soffermarsi. Oggi si fa un gran parlare e straparlare di geopolitica, la geopolitica serve per condire qualsiasi immangiabile pietanza ed effettivamente da parte dei suoi più beceri turiferari la geopolitica viene tirata in ballo per giustificare immancabilmente e deterministicamente  tutto e il contrario di tutto. Lo si è  ben visto nel corso dell’attuale guerra Nato-Russia, che dai sopraddetti turiferari viene raccontata come una guerra Russia-Ucraina dove la Russia sarebbe l’aggressore e l’Ucraina l’aggredito, mentre in realtà l’Ucraina non fa altro che agire per procura della Nato la quale sin da prima dello scoppio del conflitto, da Euromaidan del 2013 in poi,   aveva sempre  più aumentato la sua pressione sull’Ucraina per renderla nemica della Russia allo scopo di diminuire la profondità strategica di questa in un processo che nei disegni Nato avrebbe dovuto portare ad uno smembramento della stessa Federazione russa  (geopolitica non racconti di fate per masse incolte e credulone, please!), una geopolitica dove i Russi, per questi esimi autoproclamati esperti in questa disciplina, starebbero immancabilmente collassando in ragione del fatto che sarebbero costretti ad andare all’assalto con le pale per poi scoprire che l’apparato bellico russo è superiore come livello di produzione (e come qualità dei sistemi d’arma prodotti e dispiegati) a  quello di tutti i paesi dell’Unione europea messi assieme, una geopolitica che ci diceva che le sanzioni contro la Russia l’avrebbero schiantata in pochi mesi mentre ora la Russia prospera e quella che si sta economicamente schiantando  a causa  delle sanzioni è l’Europa (discorso diverso per gli Stati Uniti, che ha come non mai lucrato per le sanzioni europee contro la Russia in campo energetico: da questo punto di vista, se la Russia ha praticamente vinto il conflitto armato, l’altro vincitore, almeno dal punto di vista economico, sono gli Stati uniti. Ma su questo i nostri grandi geopolitici da talk show nulla dicono. Aspettiamo fiduciosi…) e  una geopolitica che,  nonostante le sue deliranti affermazioni sulle  immense perdite umane inflitte dagli Ucraini ai Russi, non riesce a dare una spiegazione minimamente razionale sul fatto gli ucraini sono costretti ad una sempre più pervasiva mobilitazione,  progettando di  richiamare alle armi anche i diciottenni (già fatto per i malati oncologici ed anche per chi soffre di gravi malattie mentali e deficit cognitivi, tanto per fare la carne da cannone…), delirando di costringere i paesi europei a farsi  consegnare i più o meno patriottici profughi ucraini per spedirli  immantinente al fronte,  in uno sconsiderato, inefficace e criminale  richiamo alle armi anche di coloro precedentemente risparmiati, dove le squadre dei reclutatori girano per strada compiendo rapimenti nello stile della vecchia marina britannica e che per questo rischiano regolarmente di incappare in schioppettate da parte dei reclutandi  mentre in Russia fanno la fila per essere volontariamente arruolati nell’esercito, invogliati da ciò sia dalle alte paghe che vengono corrisposte ai militari ma anche dall’innegabile dato di realtà che per un militare russo questo mestiere non corrisponde al suicidio mentre il contrario si può dire per un militare ucraino. Caposcuola di questa esimia figliata di geopolitici fai da te è un certo personaggio, una sorta di Fantomas (o se si preferisce, di Lex Luthor o anche di Kurtz-Marlon Brando di Apocalypse Now di Coppola) de Noantri,  certamente loquace nel presentare la sua mercanzia sciorinandoci le sue profonde verità geopolitiche ma al, al contrario, afasico e  poco trasparente nel rappresentarci con dovizia di altrettanto illuminanti particolari i suoi quarti di nobiltà accademici, che di per sé non fanno un geopolitico ma che, come in questo caso, nelle modalità con cui costui ce li rende di pubblico dominio,  gettano un’ombra sulla pubblica affidabilità del suo sentenziare, quarti di nobiltà, comunque,  con i quali o senza i quali  il nostro eroe in questione è un campione del mondo di analisi geopolitiche sballate e regolarmente smentite e ridicolizzate dai fatti successivi ma mai da lui pubblicamente riconosciute come tali e rettificate.

          Ma questo riguarda l’oggi ma agli inizi degli anni ’70, quando Spadolini scrive quelle parole qual è la situazione della conoscenza presso il più vasto pubblico – ed anche presso gli intellettuali – della geopolitica? A questo  si può rispondere che la geopolitica in quegli anni era praticamente sconosciuta, ma anche aggiungere che, nonostante questo, si può dire che Spadolini ne aveva una  buona conoscenza  che in virtù del difetto principale in cui può incorrere la geopolitica – e incisivamente rilevato, come s’è visto, da Spadolini scrivendo su Chabod –, e cioè una visione troppo sovente determinista delle dinamiche politiche, economiche e geostrategiche, gli consentiva di rigettarla nel suo insieme. Ma avanziamo ora un’ipotesi  su questa esibita diffidenza   di Spadolini verso la geopolitica, una idiosincrasia  che, riteniamo, fosse più un atteggiamento pubblicamente rappresentato che profonda convinzione perché a Spadolini non era affatto estranea la dimensione machiavelliana e quindi realistica, e l’ipotesi è – ma ipotesi molto forte perchè totalmente compatibile con tutto il suo profilo intellettuale e politico fin qui tracciato – che questa  contrarietà verso la geopolitica fosse stata pubblicamente ostentata  perché questa scienza tendeva, pur nelle varie sfumature dei suoi autori, a mettere assolutamente in secondo piano, fino a ritenere del tutto ininfluenti, tutti quei fattori sovrastrutturali di tipo  quiritario e morale (meglio: moralistici tout court) che Spadolini aveva tanto cari e per l’edificazione del suo progetto politico in Italia ed anche per il mantenimento della narrazione filoccidentale e filoatlantica cui il Professore tanto teneva non so quanto per convinzione personale ma certamente fondamentale per posizionare il futuro partito della ragione –  al tempo di quel giudizio sulla geopolitica Spadolini non era ancora segretario del PRI, ma certamente più di un pensiero in proposito doveva averlo fatto! e se divenire segretario del Partito repubblicano non era certo obiettivo programmabile in anticipo, non altrettanto si può dire di una carriera politica da notabile all’interno della c.d. area laica, per Spadolini preferibilmente  il Partito repubblicano o quello liberale  –  come il più affidabile guardiano del dogma atlantista (già il PRI,  i liberali e i socialisti di Saragat lo erano  ma Spadolini Segretario del PRI riuscirà ad accentuare ancor di più questa caratteristica del Partito repubblicano). Per farla breve, nel novero dei personaggi pubblici e politici,  egli fu il più accanito filoatlantista  ed anche filoisraeliano che mai fosse apparso e mai più apparirà  in Italia e un posizionamento che a livello pubblico venne sempre giustificato da Spadolini in base a ragionamenti di natura extrastorica ed intrinsecamente antigeopolitica   di matrice unicamente moralista basati sulla necessità di difesa dell’occidente e della democrazia e mai  perché magari si doveva fare così e schierarsi così perché le alternative, geopolitiche o geostrategiche o storiche che dir si voglia, non consentivano di far diversamente.

 

          Ritengo molto opportuno a questo punto, per dare forma compiuta a questo discorso su  Spadolini,  sul suo progetto politico,  sulle sue contraddizioni  e,  soprattutto,  su quanto queste contraddizioni possano farci da segnalatore d’incendio sulle  attuali, intese come costituzione materiale ideologica di un paese  che – destra e sinistra in questa Stimmung ideologica accomunate indifferentemente –  non riesce a darsi una decente narrazione che faccia veramente gli interessi globali dell’ Italia vista come  comunità nazionale dotata di una sua peculiare identità, che è il suo bene più prezioso da tutelare (insomma, per mettere a fuoco quanto questo discorso su  Spadolini  possa essere d’aiuto per un’Italia formata in senso rigorosamente ed autenticamente  mazziniano), ricorrere al Nomos della Terra di Carl Schmitt: «Nell’epoca interstatale del diritto internazionale, databile tra il secolo XVI e la fine del XIX, si conseguì un reale progresso nel campo della civiltà: quello di circoscrivere e definire giuridicamente la guerra in ambito europeo. Come osserva Alfred von Verdross nella sua recensione al Nomos, è di importanza centrale il passaggio, avvenuto attorno ai secoli XVI-XVII, dall’analisi teologico-morale della justa causa belli a quella puramente giuridica dello justus hostis (e quindi del bellum justum interstatale). Questo passaggio è realmente importante e merita di essere evidenziato, anche perché il concetto di “equilibrio interstatale” che esso introduce si sarebbe mantenuto sostanzialmente inalterato fino a tutto il secolo XIX. Cessata l’unitarietà medievale dei punti di riferimento e di orientamento spaziale, è l’uguaglianza tra le nuove figure (o “persone”) statali che determina la limitazione dei mezzi bellici consentiti nel bellum justum. Non più valutazioni contenutistiche tese a giustificare (o ingiustificare) il ricorso alle armi in base a verità ultime ed esclusive, ma solo la precisa definizione giuridico-formale delle parti contendenti come Stati sovrani titolari di un potere effettivo può consentire l’esercizio del bellum justum. La guerra statale si contrappone allora alla guerra di religione che alla guerra civile, assumendo  un’inconfondibile forma giuridica, facendosi cioè guerre en forme. Se gli Stati territoriali, nella veste di personae publicae, si considerano sempre cavallerescamente l’un l’altro come justi hostes, ne consegue che la guerra riesce a diventare qualcosa di analogo a un duello, a un combattimento tra personae morales individuate territorialmente e radicate nell’ambito spaziale europeo. A confronto con la brutalità espressa dalle guerre di religione e di fazione, che sono per la loro stessa natura guerre di distruzione in cui i nemici si discriminano a vicenda come criminali, e a confronto con le guerre coloniali, condotte contro i popoli “selvaggi”, ciò significa una razionalizzazione ed un’umanizzazione di grande valore.  Ad entrambe le parti in lotta spetta lo stesso riconoscimento giuridico-formale, con la conseguenza di poter distinguere, grazie a criteri certi, il nemico dal criminale. Il concetto di  nemico non corrisponde più a “qualcosa da annientare”, ovvero ad un assoluto negativo,  al quale non è dovuto neppure alcun rispetto umano e morale. Ora aliud est hostis, aliud rebellis. Diventa pertanto possibile procedere ad un trattato di pace con i vinti e   – cosa egualmente importante – diventa possibile agli Stati estranei al conflitto mantenersi in uno status giuridico-internazionale di neutralità, quali terzi. Ora, va riconosciuto che con il secolo XX proprio questa funzione, limitativa del diritto internazionale è venuta meno, determinandosi un quadro segnato: a) dalla sempre possibile guerra di annientamento totale (dove il passaggio dall’uso delle armi convenzionali a quello delle armi nucleari non è ‘trattenuto’ se non da occasionalismi storico-politici); b) dalla perdita irreversibile del senso di una normatività naturale (che era stata, per il passato, la condizione di possibilità, quasi l’a priori metafisico, del nomos della terra); c) dalla falsa ipotesi  teorica, che informa assai spesso la prassi dei governi, secondo cui cause di tipo economico-strutturale (ad esempio relative alla distribuzione delle risorse materiali) sono sufficienti a spiegare il  problema dell’equilibrio mondiale e le ragioni profonde del  conflitto (escludendo quindi tra l’altro che le leggi del ‘politico’ abbiano una loro ben chiara autonomia nei confronti di quelle dell’ ‘economico’ o del ‘giuridico’).»: Carl Schmitt, Il Nomos della Terra Nel Diritto Internazionale dello “Jus Publicum Europaeum”, traduzione e postfazione di Emanuele Castrucci, cura editoriale di Franco Volpi, Milano, Adelphi, 20064, pp. 437-439.

          Con una piccola modifica della locuzione ‘guerre en forme’ possiamo dire che con la seconda presidenza Trump siamo passati da un imperialismo che aveva bisogno di  giustificazioni politico-morali per agire (la difesa della  democrazia e/o dell’occidente ed altre autentiche corbellerie come la difesa dei diritti delle minoranze, solo che vallo a far capire a queste assatanate zucche vuote – od autosvuotate, «Attacca ‘o ciuccio addò vo’ ‘o padrone», come si dice dalle parti di Partenope – di imperialisti old style che, ammesso e non concesso che in una data area del globo vi siano queste minoranze conculcate,  fare una guerra in loro nome non ne accresce certo la popolarità presso i loro oppressori. Ma niente paura: empiricamente, nella stragrande maggioranza dei casi, queste minoranze sono pienamente rispettate e tutelate e i problemi arrivano dopo i salvifici interventi occidentali, nel senso che coloro che subentrano agli immaginari conculcatori, si mettono di buzzo buono a fare il contrario di quello di coloro che hanno rovesciato con l’aiuto occidentale, Siria docet, con  l’odierna pietosa condizione, fra le altre minoranze,  dei cristiani dopo il criminale rovesciamento del legittimo presidente Bashar al-Assad ad opera dei jihādisti ed altre variopinte formazioni di tagliagole appoggiate logisticamente  e foraggiate finanziariamente dalla Nato, dalla Turchia e da Israele, ad ognuno di questi signori della guerra il suo tagliagole preferito fino al prossimo definitivo smembramento della Siria e vicendevole macello fra queste salvifiche formazioni di tagliagole con aggiunta dello sterminio delle minoranze che si diceva di volere proteggere) ad un ‘impérialisme en forme’ per il quale per agire sono dannose ed assurde le astratte regole del diritto internazionale ma vale solo l’interesse dell’agente statale imperiale, che per raggiungere i suoi obiettivi può anche ricorrere alla guerra che non si giustifica più in quanto avviene contro un nemico dell’umanità (egli, infatti, da ora  da demone si tramuta in justus hostis: se notiamo, per Trump Putin non è più un pazzo criminale ma un amico, o un quasi nemico, col quale si deve trattare, e che se non ragiona, si tramuterà in justus hostis da colpire con sanzioni verso la Russia ma non certo un pazzo criminale, come espressamente faceva intendere Biden, da cancellare dalla faccia della Terra, solo che, ovviamente, ciò non era tecnicamente possibile ma per Biden, per tutto la sua amministrazione e più in genere, per tutta la genia dei suoi amici imperialisti infrolliti non ‘en forme’, nulla poteva essere escluso – non poteva, cioè, essere esclusa  una bella guerra  nucleare in Europa ma solo in Europa perché si può essere dal punto di vista del realismo politico e della salute mentale ‘fuori forma’ quanto si vuole ma lo spettro di una guerra termonucleare totale e combattuta anche sul territorio  degli Stati uniti contro la Russia che detiene l’indiscusso primato in questo tipo di armamenti è capace di far rinsavire anche le menti più tarde e a gelare anche i più bollenti ed ottusi spiriti …) ma in quanto la guerra (e nel nostro caso, le mire imperialistiche) sono una modalità corretta e naturale dei rapporti internazionali fra Stati. Ci prendiamo il canale di Panama perché è nostro ed è stato un errore cederlo a Panama, ci prendiamo la Groenlandia perché ci conviene e non ha senso che un insignificante regno come la Danimarca voglia negarne il possesso a noi che siamo tanto più forti e capaci di farla fruttare e se così agendo si sovverte l’ordine internazionale basato sull’ipocrita precedenza del diritto sulla forza chissene …, e, infine, ci prendiamo il Canada perché siamo due fratelli e non ha senso che si viva in case separate mentre vivendo assieme potremmo dividere le spese, rectius: così gli Stati uniti possono spalmare meglio  il loro immenso debito pubblico e l’altrettanto pauroso deficit della bilancia commerciale. Sovviene un dubbio: non è che Trump, al contrario di tutti i gallinacci impagliati liberal-liberisti e senescenti imperialisti vecchio stile, sia stato ispirato tramite una seduta spiritica – dubitiamo che sia un accanito lettore della letteratura economica ma non si sa mai! – dall’economista austriaco Kurt W. Rothschild laddove disse, già nel 1947, che per capire  come funziona l’economia piuttosto che compulsare Adam Smith e i neoclassici, era meglio rivolgersi a Carl  von Clausewitz e studiare il suo Vom Kriege? Vista la timida ed introversa natura del nuovo presidente degli Stati uniti nel quale la discrezione sulla sua vita privata e formazione è il tratto dominante della sua personalità  e la natura altamente spirituale, per non dire esoterica, della domanda, forse non lo sapremo mai… ma per chi volesse approfondire la più prosaica  questione dello sconcertante consiglio per le deboli menti degli imperialisti ‘fuori forma di Rothschild, si cita, tanto per iniziare, da p. 135 di  Michael Landesmann, Kurt Rothschild’s ‘Price Theory and Oligopoly’ Revisited, in Altzinger, Wilfried, Guger, Alois, Mooslechner, Peter, Nowotny, Ewald, Economics as a Multi-Paradigmatic Science. In Honour of Kurt W. Rothschild (1914-2010), Oesterreichische Nationalbank, Vienna, 2014, pp. 132-136: «Kurt Rothschild throughout his article prefers the language of Clausewitz (‘Principles of War’) to that of either game theory or to biological or psychological terms to characterise the behaviour of oligopolists (see pp. 305-07). This is also linked to Rothschild’s life-long interest in the role of power in economics; see his well known Penguin volume (Rothschild, 1971) [versione PDF del documento all’URL https://research.wu.ac.at/ws/portalfiles/portal/18977011/FINAL_VERSION_-_October_2014.pdf, Wayback Machine:   https://research.wu.ac.at/ws/portalfiles/portal/18977011/FINAL_VERSION_-_October_2014.pdf ].», da p. 8 di Eckhard Hein and Achim Truger, Interview with G.C. Harcourt. The General Theory is not a book that you should read in bed!:«Doing my undergraduate dissertation I was very much influenced by K.W.Rothschild. He published this extraordinary paper Price theory and oligopoly (1947) about using Clausewitz’s Principles of War to examine oligopolist behaviour, about how secure profits are as important as maximum profits, in price wars and in the intervals between wars. [documento disponibile solo nella versione PDF all’URL https://www.elgaronline.com/view/journals/ejeep/8/1/article-p7.pdf, nostro “congelamento” autonomo su Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20250204213148/https://www.elgaronline.com/downloadpdf/view/journals/ejeep/8/1/article-p7.pdf, nostro caricamento autonomo su Internet Archive: https://archive.org/details/kurt-w.-rothschild-repubblicanesimo-geopolitico-massimo-morigi e https://ia904504.us.archive.org/35/items/kurt-w.-rothschild-repubblicanesimo-geopolitico-massimo-morigi/Kurt%20W.%20Rothschild%2C%20Repubblicanesimo%20Geopolitico%2C%20Massimo%20Morigi.pdf ] » e, infine, citando direttamente dal Price theory and oligopoly di K.W. Rothschild, dove alle pp. 299-320  di “The Economic Journal”, vol. 57, n° 227 (Sep., 1947) viene pubblicato il predetto documento e dove a p. 307 si può apprezzare la famosa sentenza dello stesso Rothschild su Clausewitz e il suo Vom Kriege: «The oligopoly-theorist’s classical literature can neither be Newton and Darwin, nor can it be Freud; he will have to turn to Clausewitz’s Principles of War. There he will not only find numerous striking parallels between military and (oligopolistic) business strategy, but also a method of a general approach which – while far less elegant than traditional price theory –  promises a more realistic treatment of the oligopoly problem. To write a short manual on the Principles of Oligopolistic War would be a very important attempt towards a new approach to this aspect of price theory; and the large amount of descriptive material that has been forthcoming in recent years should provide a sufficient basis for a start. [documento da noi raggiunto all’URL https://www.roterboersenkrach.at/wp-content/uploads/2011/12/rothschild-1947-price-theory-and-oligopoly.pdf, Wayback Machine  https://web.archive.org/web/20210308202431/https://www.roterboersenkrach.at/wp-content/uploads/2011/12/rothschild-1947-price-theory-and-oligopoly.pdf          e nostro caricamento autonomo su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/kurt-wilhelm-rothschild-kurt-w.-rothschild-price-theory-and-oligopoly-1947-massi e  https://ia600608.us.archive.org/29/items/kurt-wilhelm-rothschild-kurt-w.-rothschild-price-theory-and-oligopoly-1947-massi/Kurt%20Wilhelm%20Rothschild%2C%20Kurt%20W.%20%20Rothschild%2C%20Price%20Theory%20and%20Oligopoly%2C%201947%2C%20Massimo%20Morigi%2C%20Repubblicanesimo%20Geopolitico.pdf ]». Ma a questo punto della nostra acribia citatoria, siamo fiduciosi di aver reso un buon servizio non solo ai lettori de “L’Italia e il Mondo ma anche al neoeletto presidente Trump che così, sulla scorta di questo documento di cui forse non era a conoscenza, potrà rendere ancora più  teoricamente scaltriti e concretamente operativi ed efficaci i suoi imérialisme en forme e le appena iniziate guerre doganali che ne sono il necesssario corollario e dal quale ci aspettiamo, per questo, un cenno di ringraziamento, anche privatamente, vista la discrezione che è il suo marchio di fabbrica. Attendiamo speranzosi…

Non possiamo sapere come Spadolini avrebbe reagito politicamente e pubblicamente di fronte a questa rozza manifestazione di geopolitica à la Trump, (espressa per ora solo verbalmente ma siamo agli inizi del suo secondo mandato e diamo tempo al tempo), un ‘impérialisme en forme’ che ha letteralmente disintegrato tutti i  velami ideologici della difesa dell’occidente, della democrazia  et similia. Su un piano strettamente interiore, sono sicuro che avrebbe condiviso, come la quasi totalità della pubblica opinione ma anche come la quasi totalità  di coloro che, pur addentro negli arcana imperii,  della politica non hanno una visione informata ad un concetto di realismo di marca predatoria, lo sdegnato orrore che naturalmente e giustamente  ispira questa inedita situazione di ‘impérialisme en forme’.  (Come predatorio non è il  realismo del Repubblicanesimo Geopolitico, machiavellianamente conflittualista  ma  tutt’altro che predatorio perché basato su una filosofia della prassi che implica un rapporto dialettico fra soggetto ed oggetto, che non sfocia  mai nella soppressione di uno di questi due momenti, che rifiuta espressamente, cioè, al contrario che in Carl Schmitt,  l’eliminazione del nemico, ma  è consustanziale e quindi  necessariamente complementare alla continua trasformazione dell’amico e del nemico attraverso il loro incessante confronto dialettico di vicendevole superamento ma non annientamento, lungo una linea di pensiero dialettico  che parte dal realismo del conflittualismo civile e repubblicano di Niccolò Machiavelli, passa  per  l’ Aufhebung delle forme storiche e politico-sociali e della dialettica continuamente evolutiva e trasformatrice del rapporto servo-padrone concepiti da Hegel, comprende in sé  l’impostazione olistica della comunità nazionale di Giuseppe Mazzini,  per il quale repubblica non significa la mera sostituzione di un re con un presidente ma quella forma di Stato che sappia garantire, al contrario della monarchia, il continuo rafforzarsi di questa natura olistica della società contro tutte le spinte disgregatrici ed anomizzanti ingenerate dalla concezione del diritto individuale che dovrebbe sempre prevalere sui doveri sociali così come vorrebbe il liberalismo, mentre, per Mazzini, l’organizzazione politico-sociale deve poggiare su una teoresi e pratica politica dove i doveri dell’uomo verso la società sono sempre gerarchicamente superiori ai diritti che la società concede – per Mazzini:  concede come corrispettivo dei doveri compiuti ma non che deve concedere per una sorta di inesistente diritto naturale, diritto naturale inesistente ma molto presente nella mente dei moderni a causa dell’ideologia liberal-liberista che, in realtà, con questa menzogna vuole rendere gli uomini schiavi e l’un contro l’alto armati  attraverso l’azione anomizzante e disgregatrice del vincolo sociale di questi “diritti naturali” – ai suoi componenti, fino a giungere al marxismo cultural-volontaristico ed antideterministico e  alla filosofia della prassi di Antonio Gramsci, gemmazione diretta quest’ultima, attraverso il suo rifiuto di  un marxismo positivista e sotto la forte influenza di una Weltanschauung profondamente segnata dal volontarismo sorelliano,  dell’idealismo italiano nella versione dell’attualismo di Giovanni Gentile:  idealismo italiano che come fiume carsico attraversa, anche se a monte di fine percorso  dividendosi in corsi gettantisi in mari politici di diverso nome e vocazione, il rivoluzionario Gramsci e il patriota liberale ma anche gobettiano nel senso della Rivoluzione Liberale Giovanni Spadolini!)  

          Ma siccome Spadolini, oltre che l’immaginifico assemblatore di costellazioni di personaggi che,  in fondo, in comune avevano ben poco, era anche, quando lo voleva, un solido realista,  in chiusura di questo ragionamento, mi sia consentito di sintetizzare la Gestalt più profonda di  questo profilo di Giovanni Spadolini, citando le parole conclusive che egli stesso,  negli Uomini che fecero l’ Italia impiegò nel suo medaglione su Salandra, dove il nome del biografato può non solo essere sostituito, mantenendo la moralità del testo,  con quello del compianto Professore ma anche con i nomi di tutti quelli che, lo scrivente compreso, forse non hanno compreso in tempo il ‘compiuto peccato’ di un’Italia che forse perché non poteva fare diversamente ma anche perché non l’ha voluto si è adagiata, dopo il secondo conflitto mondiale, sui comodi ma falsi  concetti, miti e parole dei più potenti pseudoamici d’oltreoceano: «Ora che tante di quelle passioni sono spente, nessuno può valutare esattamente il posto che Salandra occuperà nel quadro della storia italiana. Con le sue stesse contraddizioni, le sue intransigenze ideali ed i suoi compromessi politici, Salandra rappresenta un momento  della vita del paese, riflette passioni che furono anche generose ed alte. Difficile pensare che sopravviva, di lui, una vera e propria concezione politica; altrettanto difficile pensare che basti, a difenderne la popolarità, il giurista, pur così eminente. Più facile supporre che il suo nome, affidandosi alle memorie dell’intervento e della prima guerra mondiale, sarà ricordato con affettuoso rispetto da generazioni di ragazzi e giovani, da tutti coloro che crederanno ancora ai valori della patria e alla sua continuità. E che non si porranno mai quei problemi che interessano solo lo storico di professione.»: Giovanni Spadolini, Gli uomini che fecero l’Italia, vol. II, Il Novecento, Milano, Longanesi, 1972, p. 185.

          Giovanni Spadolini «È sepolto nel cimitero monumentale delle Porte Sante, ai piedi della basilica di San Miniato, nel piccolo prato che sovrasta Firenze, accanto a Vasco Pratolini, Pietro Annigoni, Giorgio Saviane e Mario Cecchi Gori. Davanti alla cappella della famiglia, dove riposano, fra gli altri, i genitori.»: Cosimo Ceccuti, cit., p.63. Per sua disposizione volle che sulla sua lapide – una lapide che nella forma ci vuole suggerire l’immagine di fogli sparsi e libri, quei libri che egli tanto amò – fosse incisa unicamente la scritta ‘Un Italiano’.

  1. S. Non so se queste mie parole possano costituire una risposta alle considerazioni suscitate a ws dai miei precedenti interventi in tema di Risorgimento, mazzinianesimo e Partito repubblicano.  Personalmente, ricostruire il profilo politico-intellettuale di Giovanni Spadolini, non è stato solo un esercizio di conio di un medaglione biografico e ulteriore chiarificazione di teoria politica dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico ma è stato, anche sotto l’aspetto  sentimentale,  una recherche du temps perdu, che mi ha  profondamente toccato. Spero solo che un po’ di questa emozione, non per le limitate capacità espressive dello scrivente, ma per il valore umano e di inattingibile  esempio di pubblica moralità – al di là dell’ attualità delle sue concezioni ideali  e delle sue azioni politiche – di Giovanni  Spadolini  che volle incarnare le speranze o le illusioni per un Italia migliore e lo ha fatto nei momenti in cui c’era ancora una gioventù  e un popolo che, al di là delle appartenenze politiche,  credeva  ancora in questa possibilità, siano state trasmesse ai gentili lettori dell’  “Italia e il Mondo”, anche  se non soprattutto a coloro di diversa origine politica ma che, fondamentale,  sono accomunati nell’amore per l’Italia, un amore che fu l’unica  vera passione che costantemente ispirò l’operato e le speranze di  Giovanni Spadolini.

Massimo Morigi, terzo intervento sul mazzinianesimo pubblicato dal blog di geopolitica “L’Italia e il Mondo” in data  IX Febbraio 2025, 176° anniversario   della proclamazione della Repubblica Romana del 1849

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ANCORA SU POLITICA E GIUSTIZIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

ANCORA SU POLITICA E GIUSTIZIA

Sono imbarazzato nel proporre ai miei lettori un concetto già esposto pochi mesi orsono (v. “Salvini e Montesquieu” e “Processare il politico”) relativo al carattere degli ultimi contrasti tra uffici giudiziari e potere governativo: di concernere materia oggettivamente politica. A differenza di gran parte dei processi a governanti nell’ultimo trentennio, dove li si accusava per lo più di reati a carattere non politico (furto, appropriazione indebita, violenza carnale, evasione fiscale, ecc. ecc.).

Invece nei casi di rilevanza mediatica degli ultimi mesi il connotato comune è che la materia è squisitamente politica. Si tratta cioè della sicurezza dei cittadini e della difesa del territorio dello Stato. Come scriveva Montesquieu:

“In ogni stato ci sono tre tipi di poteri quello legislativo, il potere d’esecuzione delle cose dipendenti dal diritto delle genti, il potere esecutivo di quelle che dipendono dal diritto civile…

Per il secondo (di questi) fa la pace e la guerra, nomina e riceve ambasciatori, mantiene la sicurezza, previene le invasioni. Per la terza, punisce i crimini, e giudica le liti dei sudditi (particuliers)”.

Ossia è attività che da secoli  se non da millenni è considerata di competenza del potere esecutivo. E V.E. Orlando notava che la differenza di “natura” o di “materia” era soprattutto differenza di scopo: si operavano deroghe e talvolta rotture dell’ordinamento, al fine di soddisfare una necessità pubblica.

A differenza dell’attività giudiziaria il cui nocciuolo fondamentale è accertare la conformità di una condotta ad una regola onde è essenziale la correttezza del giudizio e l’imparzialità del giudice (almeno se si vuole una giustizia reale). E la cui conformità allo scopo (cioè l’opportunità) è poco o per nulla rilevante.

Tali funzioni e attività vantano dei brocardi latini che le sintetizzano. Per la prima questa è salus rei publicae suprema lex esto, ossia lo scopo prevale sulla regola, l’esistente sul normativo e il criterio principe per valutarla è il risultato; dell’altro fiat iustitia, pereat mundus, per cui il diritto dev’essere applicato, anche se provoca danni e il criterio è la conformità della decisione giudiziaria alla norma applicanda.

La conseguenza è che se da una applicazione esatta della legislazione derivano gravi danni è corretto sopportarli. Ad esempio qualche migliaio di morti affogati nel mediterraneo, problemi interni di sicurezza, miliardi di euro per l’accoglienza cedono rispetto al gradino alto dei valori costituito dalla giustizia, (qua) intesa come conformità al diritto.

Al contrario se si pone sul gradino superiore l’altro brocardo, è il contrario.

Ma tenuto conto come anche nell’ordinamento giuridico l’esistenza precede la regolamentazione (si può regolare ciò che non esiste? È una pratica inutile) la risposta non può essere che suprema lex prevale. E questo dovrebbe dirsi la sinistra che, a quanto pare, è tutta propensa al  pereat mundus (verso il quale ha una  certa propensione). Ma finché col non dirlo o appesantendo il proprio argomentare con clausole e cavilli si distoglie l’attenzione dall’essenziale, va tutto bene.

Teodoro Klitsche de la Grange

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DeepSeek: L’Intelligenza poco intelligente, di Cesare Semovigo

DeepSeek: L’Intelligenza che anche voi avreste preferito non avere

 

L’abbiamo sospettato fin dal principio! DeepSeek non era ciò che sembrava.
Mentre il coro degli apologeti, abbagliato, si spellava le mani applaudendo alla “rivoluzione dell’AI open-source cinese”, l’olezzo della truffa aleggiava già nell’aria. Non era solo un prodotto scadente, ma un test sociale e un’arma geopolitica: un perfetto specchietto per allodole progettato per misurare la reazione e la permeabilità del pubblico, manipolare l’informazione e valutare il livello di assuefazione globale alla narrazione prefabbricata.
E la verità è che non si trattava di un’arma esclusiva della Cina contro l’Occidente, come le apparenze hanno indotto all’inizio. No, DeepSeek è stato un esperimento e un’arena globale, per meglio dire bipolare; un Running Man digitale, in cui Arnold Schwarzenegger siamo tutti noi, costretti a muoverci in un labirinto virtualizzato dove la menzogna è la regola e la verità dev’essere scovata con il bisturi della spietata lucidità.
Non è solo una piattaforma mal funzionante! È un esperimento sulla percezione collettiva, per vedere quanto velocemente si potesse imporre una narrativa fittizia e censurare ogni dissenso, quanto potesse durare una bolla costruita sul nulla prima di scoppiare, e quante persone sarebbero rimaste intrappolate a credere nella favola anche quando i numeri stessi dimostravano il fallimento. Con il corollario non trascurabile di sferrare qualche colpo basso alle élites emergenti negli States.
Noi, per fortuna o per grazia ricevuta, riteniamo di aver compreso in tempo reale che eravamo di fronte a un’operazione di ingegneria dell’illusione.
Il vero esperimento non era il giocattolo DeepSeek in sé. Le cavie eravamo noi. Perché oggi, per non farsi ingannare, non basta più essere informati. Bisogna essere spietati. Serve una mentalità tech-rinascimentale, una fusione tra cinismo geopolitico, competenza informatica, diffidenza strutturata, lettura dei segnali subliminali, comprensione dei pattern di manipolazione e fiuto per le truffe. Un’epoca in cui l’inganno è la regola e l’informazione è un campo di battaglia. Un’epoca in cui solo chi sa leggere tra le righe ha qualche possibilità di capire cosa stia realmente accadendo.
Lo ripeto: DeepSeek è stato un fallimento? No, è stato un test. Il vero test era su di noi. E chi ha abboccato alla narrazione, chi ha esultato per un’illusione, chi ha difeso l’indifendibile senza porsi domande, ha dimostrato di non aver ancora capito le regole del gioco.
Rathbones 27 gen 2026
La Lista Nerd a Sei Punti: L’Esperimento sul Campo
Abbiamo voluto provare DeepSeek di persona, non per fideismo sulle magnifiche sorti, ma per smanioso desiderio di smascherarne la reale natura. Ecco che cosa è emerso, :
Sreenshot dal nostro profilo personale di DeepSteek antecedente il blocco. Improvvisamente sono sparite tutti i prompt e le risposte. Il flusso di tutti questi dati dove è finito?
1. Investitori misteriosi
Gli abbiamo chiesto chi c’è dietro. DeepSeek ha risposto con dichiarazioni all’estremo della sua “creatività”, spesso contraddicendosi tra un prompt e l’altro. Un caleidoscopio di nomi inventati, falsi storici e sigle inesistenti, come se ci trovarsi in un romanzo di spionaggio di bassa lega trash. L’esito delle nostre domande vi confesso è stato tra il comico e uno schema predeterminato e fuorviante
ChatGPT riporta le incongruenze della indicizzazione e delle informazioni fuorvianti su vari portali 28 gen 2026
2. Dati di mercato incongruenti
Volevamo capire se ci fosse un business plan serio. Risultato? Numeri gonfiati, trend economici da “mondo dei desideri” e previsioni prive di alcun fondamento. Se chiedi conferma, cambia versione con l’agilità di un prestigiatore da fiera di paese.
Variazioni imbarazzanti dei benchmark dei vari tester . 29 gennaio
3. Emissione di token
La narrazione ufficiale parlava di decentralizzazione, coin e libertà digitale. La verità è che mancava qualsiasi documentazione su blockchain, governance e obiettivi reali. Un’operazione di finanza creativa più simile allo schema di una truffa che a una “rivoluzione open-source”.
report Mike Genovese (analista di Rosenblatt)- da Investing.com
4. Shadow banning e indexing manipolati
Ogni post o articolo critico è stato declassato, nascosto o rimosso. Reddit, Twitter/X, blog specializzati: tutto setacciato. Nel frattempo, i contenuti elogiativi salivano in testa alle ricerche come per magia, accompagnati da commenti entusiastici prefabbricati. Chiunque chiedesse prove o cifre era tacciato di essere un “agente del discredito”.
(dai grafici, incrociati con i successivi, si evince un’incongruenza con l’effettiva operatività possibile)
5. Selezione matematica, non logica
DeepSeek si rifugia nelle operazioni di base (somme, moltiplicazioni, calcoletti) per apparire affidabile. Appena si passa alla logica complessa, all’analisi geopolitica o alle interpretazioni storiche, crolla in un mare di banalità e incoerenze. Un centralino, non un’AI. Un proxy intelligente che fornisce illusioni di scelta invece di elaborare un pensiero autonomo. Un organismo che vive di memoria parassita, privo di “motu proprio”
6. L’Effetto Tetris
L’apoteosi del grottesco. Abbiamo visto gente esaltarsi perché DeepSeek era riuscito a generare un Tetris. Gente che urlava al “Miracolo!” con la stessa enfasi di uno sciamano che assiste a un’eclissi solare, ignorando il fatto che un Commodore 64 gestiva ben di più. Il Tetris è diventato il simbolo di una manipolazione collettiva: è bastato un giochino anni ’80, ed ecco i “guru” tech in estasi mistica.
Il risultato di questa lista?
Ci conferma, senza ombra di dubbio, che DeepSeek non era un’avanguardia tecnologica, ma uno specchietto per le allodole con il quale testare il livello di creduloneria e plasmabilità dell’ecosistema digitale. Una macchina che non produce conoscenza, ma indirizza e filtra quella già esistente, riportandoci all’analogia del “centralino”: un sistema di smistamento, non un modello cognitivo evoluto.
Chi ha creduto davvero in DeepSeek senza fare domande ha perso la partita due volte: una sul piano tecnico, scambiando un colabrodo per un cappello, e l’altra sul piano dell’analisi critica, perché ha dimostrato di non saper riconoscere i segnali di un esperimento di disinformazione organizzata.
Chi, invece, l’ha usata come poligono di tiro per svelarne i limiti, ha confermato ciò che avevamo intuito: c’è un abisso tra l’apparenza “open-source rivoluzionaria” e la realtà di un proxy manipolativo, progettato per raccogliere dati, falsificare metriche e alimentare un hype del tutto sganciato dalle prestazioni reali con in non secondario accessorio dei guadagni speculativi sui ribassi.
È da qui che poi partono le implicazioni geopolitiche e la parte caustica sull’Europa-cervo e la “ghigliottina”, perché se DeepSeek è stato un test, l’Europa è stata il laboratorio perfetto, con una classe dirigente che si fa turlupinare dai Tetris colorati e da una propaganda scadente, invece di chiedere numeri e verità. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.
Abbiamo provato di persona cosa significhi interagire con DeepSeek. Non ci siamo limitati a leggere recensioni o report degli esperti: abbiamo messo le mani nel motore, cercando di capire se davvero questa IA fosse l’erede designata a surclassare ChatGPT e soci. Gli abbiamo chiesto tutto: dagli investitori dietro al progetto (risultato: silenzio o menzogne), ai dati di mercato su se stesso (risultato: cifre inventate o assurde), fino alle missioni future dell’IA (risultato: un collage tra Mago di Oz e Orsetti del Cuore, pieno di risposte motivazionali, ma vuote di contenuto). I numeri parlano chiaro: tra il 63% e l’86% delle risposte fornite da DeepSeek risulta errato o fuorviante.
Ma il punto più assurdo non è solo la quantità di risposte sbagliate, bensì il modo risentito in cui le critiche sono state trattate. Nel giro di poche ore, si è scatenata un’operazione di shadow banning sulle piattaforme più importanti: post critici spariti da Reddit, articoli scettici deindicizzati o schiacciati dalle lodi sperticate di qualche testata “alternativa”. A chi osava chiedere trasparenza, si rispondeva gridando al complotto. L’accusa ricorrente? “Non capire la rivoluzione open-source”. Senza mai, ovviamente, presentare uno straccio di prova contraria.
Ed ecco l’Effetto Tetris: c’è gente che gridava al miracolo perché DeepSeek aveva generato un Tetris. Un Tetris, nel 2024.
Come se fosse la prova suprema dell’intelligenza artificiale. A quel punto, ci siamo detti: se la nuova frontiera del futuro è replicare un gioco dell’84, tanto valeva chiedere a un Commodore 64 di scrivere un paper sulla rivoluzione quantistica. Eppure questi erano i “guru” della contro-informazione digitale, estasiati come se avessero assistito allo sbarco su Marte.
Il sospetto è diventato certezza quando abbiamo visto quanto fosse blindata la narrativa. Questo non è marketing aggressivo, è una campagna di manipolazione su larga scala, in cui chiunque chieda dati reali viene bannato, e chiunque applaude viene premiato con l’eco mediatica. Non è un caso di hype gonfiato: è qualcosa di stratificato, come se qualcuno avesse non solo prenotato il campo da calcio, ma comprato i giocatori, l’arbitro e pure la genetica dell’erba del prato all’inglese. Un’operazione che ha scelto la matematica invece della logica complessa, perché il calcolo si verifica subito e illude i gonzi, mentre il ragionamento va dimostrato. È lì che DeepSeek crolla miseramente.
Cos’è quindi veramente DeepSeek? Non è un prodotto tecnologico evoluto. È un centralino, un router di informazioni, un proxy intelligente che non crea nuove sintesi, ma smista richieste e fornisce output preconfezionati. Un generatore di illusioni di scelta che, in realtà, nasconde la mancanza di alternative reali. Se gli chiedi qualcosa di matematico, ti risponde. Se gli chiedi una visione geopolitica o storica, ti svicola con banalità o bug clamorosi.
È un call center, non un’AI autonoma.
(i commenti di natura tecnic su reddit iniziano e riemergere appena dopo il blocco dell’applicazione)
Il suo ruolo strategico è stato far credere al mondo che la Cina avesse sfornato in pochi mesi una IA in grado di rivaleggiare con anni di ricerca e miliardi di dollari investiti da colossi americani. In realtà, DeepSeek non rappresenta la Cina come blocco, bensì la guerra ibrida condotta da chi tiene le fila di un gioco più grande: il Cerbero a due teste, dove una testa politica in grado di coordinare parte della finanza angloamericana con il motore manifatturiero cinese; in mezzo c’è l’Europa che si crede giocatrice, ma è solo un campo di battaglia dove testare le armi di manipolazione.
Le cronache su come la Cina avrebbe “asfaltato” il mondo occidentale si basano spesso su letture semplificate di dati macroeconomici e su una retorica che confonde il ruolo del partito al potere con l’idea stessa di socialismo. In realtà, la traiettoria cinese è frutto di un compromesso tra pianificazione statale e incentivi di mercato, con un coinvolgimento capillare dei privati su cui lo Stato esercita un controllo certo meno liberale di quanto vorrebbero i fautori del capitale occidentale, ma ben distante dalle società egualitarie che la parola “socialismo” potrebbe evocare. Il risultato è un modello ibrido che ha permesso alla Cina di diventare un gigante produttivo, contando inizialmente sulla delocalizzazione industriale e sulla enorme disponibilità di manodopera a buon mercato; tuttavia, ciò non significa che abbia eliminato le diseguaglianze o instaurato un sistema veramente “collettivistico”.
La spinta alla crescita cinese poggia su alcuni pilastri difficilmente replicabili altrove: un bacino demografico sterminato, una struttura industriale sorretta da investimenti colossali in infrastrutture, e una classe dirigente che pianifica per obiettivi pluriennali—avvantaggiata, almeno nel suo stato nascente, dal non dover rispondere alla frenesia di scadenze elettorali immediate e dall’essere sottoposta a criteri di selezione più rigorosi. Questo però porta con sé problemi di sostenibilità e squilibri interni (debitamente mascherati dalla governance), dalla pressione sull’ambiente alle tensioni socioeconomiche nelle aree rurali e periferiche. Il “socialismo con caratteristiche cinesi” non punta tanto a emancipare le classi subalterne, quanto a garantire la stabilità del sistema, accettando e promuovendo ampie sacche di capitalismo privato e concentrando la ricchezza in poche mani, purché esse restino fedeli al piano generale del partito. La stessa espansione dei ceti medi professionali è il frutto tipico di una società in fase espansiva, attenta alle esigenze di coesione e complessità.
Dal punto di vista macro, l’idea che la Cina abbia superato definitivamente l’Occidente ignora i vincoli strutturali interni (come la dipendenza energetica e la necessità di sbocchi di mercato) e la stessa interdipendenza con gli Stati Uniti in settori come la tecnologia, i semiconduttori e la finanza. Più che una vittoria di un socialismo coerente, è un caso di “capitalismo di Stato” che ha saputo sfruttare la globalizzazione—spesso ai danni dei lavoratori, cinesi ed esteri, pur con tuti i vantaggi offerti dal superamento di una civiltà prevalentemente agricola. Sbandierare la “superiorità” cinese come panacea universale è, dunque, una scorciatoia intellettuale: il sistema cinese funziona nell’ottica di una crescita accelerata e di un controllo centralizzato, riduce ma non elimina né povertà né diseguaglianze, tantomeno si oppone davvero ai meccanismi di mercato. L’unico aspetto in cui si discosta dal liberalismo occidentale è la minore tolleranza per il dissenso politico; per il resto, siamo di fronte a una superpotenza che usa in modo sistematico e spregiudicato i canali commerciali mondiali, più che a un modello socialista “puro” o rivoluzionario.
I russi se ne sono accorti da un pezzo: Kazan doveva sancire la fine del dominio del dollaro, ma si è trasformato nel trionfo della strategia cinese del “falco e della pentola sul fuoco”. Lula ha fatto il sabotatore, e Putin ha guardato con più interesse a Teheran, perché l’Iran, per quanto scomodo, si è rivelato un alleato appena più sincero, non un opportunista di passaggio. Nel frattempo, negli Stati Uniti si sta consumando una lotta interna che vede emergere figure come Kennedy Jr. e Tulsi Gabbard, mentre il vecchio establishment demoneocon vacilla e in Europa invece si celebra il funerale dell’autonomia politica, con Starmer, Scholz e i falchi baltici a recitare il copione del feudo bancario nero.
È troppo facile immaginare la Cina come un monolite che incarna un “nuovo socialismo trionfante” o, all’opposto, un capitalismo di Stato pronto a schiacciare tutti i competitor. In realtà, Pechino opera secondo logiche che sfuggono alle categorie novecentesche di “mercato vs. piano”: da un lato, si proclama erede del marxismo (riadattato alla storia nazionale), dall’altro, è fortemente integrata nell’economia globale, al punto che il principale cliente dei suoi prodotti rimane proprio quel “Occidente decadente” che si vorrebbe superare. Da questo intreccio discende una dipendenza reciproca: non solo gli USA assorbono una parte enorme, anche se in via di ridimensionamento, dell’export cinese, ma la Cina è anche tra i maggiori acquirenti di Treasury bond americani, con un’esposizione che negli ultimi anni si è aggirata intorno ai 1000 miliardi di dollari (circa un terzo delle riserve in valute estere di Pechino). Questo significa che, in caso di collasso finanziario degli Stati Uniti, Pechino vedrebbe evaporare parte del proprio tesoretto, vanificando la narrazione di un “Socialismo di Mercato” impermeabile agli scossoni esterni. Allo stesso modo, se la Cina smettesse di sostenere il debito americano, l’economia globale subirebbe scossoni imprevedibili, inclusa la stessa manifattura cinese, che prospera grazie ai consumi occidentali. È dunque una partita a scacchi in cui Washington e Pechino non possono (ancora) permettersi di ribaltare la scacchiera e andarsene: si tratta di una relazione post-ideologica, che supera il vecchio schema bipolare e si fonda su un macro-equilibrio di costrizioni reciproche, più che su una sfida puramente ideologica. Presentare Xi Jinping come il nuovo Messia del socialismo e gli Stati Uniti come un gigante dai piedi d’argilla significa ignorare la rete di interessi tangibili che lega le due potenze e scambia vendite di T-bond con approvvigionamenti di semiconduttori e import-export di beni essenziali. In altre parole, la Cina non è un blocco coerente di “socialismo rinato”, ma un ibrido che oscilla fra pianificazione e libera concorrenza, dettato tanto dal pragmatismo geopolitico quanto dai rapporti di forza sul mercato mondiale. Pronta a confliggere e colludere.
DeepSeek andrebbe visto, quindi, almeno in parte come un episodio di questo rapporto di odio/amore tra i due contendenti o parti di essi.
E l’Europa? Il continente più stupido della Storia Contemporanea, che, invece di giocare per vincere, gioca per perdere bene, paralizzato come un cervo sotto i fari di un tir lanciato a tutta velocità. Il paradosso è che il cervo, come una fenice, resuscita, ma solo per farsi investire di nuovo, magari urlando contro Putin per sentirsi ancora più eroico mentre si fa maciullare. Perché oggi, la coerenza è un crimine, la strategia è un optional, e la classe dirigente UE sembra specializzata nell’aggiornare regolamenti green e quote arcobaleno di un mercato che non gestisce, senza accorgersi che la realtà si è spostata altrove.
Meglio la ghigliottina di un tempo che l’ipocrisia dei salotti televisivi, verrebbe da dire.
Nel frattempo, DeepSeek rimane lì, a farci da monito: non era un’IA potente, ma un’illusione studiata con cura per vedere chi ci sarebbe cascato, come un bambino che crede di aver scoperto la televisione a colori nel 2024. Un call center intelligente che smista, registra e cataloga, venduto come rivoluzione tecnico-culturale, mentre dietro le quinte si muovono poteri più antichi e più spietati di quanto l’entusiasta medio possa immaginare. Una Cina polimorfa che gioca a incassare vantaggi e un blocco angloamericano che finge di combatterla mentre in realtà la utilizza come partner in un duopolio malsano, con la Russia relegata a giocare partite alternative e l’Iran pronto a esser l’alleato di chiunque sappia riconoscere che i veri nemici non sono i popoli, ma i poteri politici, finanziari e industriali annessi, che muovono i fili.
Il problema non è DeepSeek in sé, ma la facilità con cui un bluff di questa portata può prendere piede se organizzato da chi conosce bene le leve della propaganda, i meccanismi di SEO e la psicologia di un’umanità pronta a credere in qualsiasi “rivoluzione” pur di sentirsi contro il sistema. E allora Tetris diventa il simbolo di un’epoca in cui il ridicolo non è più un’anomalia, ma la norma. E la prossima volta, potremmo vedere gente gridare al miracolo perché un’IA cinese “aperta” avrà ricreato Pang in 4K. E lì, gli applausi diventeranno ancora più assordanti.
Ma forse siamo noi a esagerare. Forse i tempi sono così maturi da coltivare l’arroganza in convento e il convento alla Rocco Academy. Forse gli angeli caduti vanno in ferie a Cervia e gli influencer si candidano da soli per manifesta incapacità. E forse, dopo tutto, DeepSeek non è il fallimento di un modello, ma la prova che la Storia ha deciso di farsi beffe di noi, come quell’adolescente viziata che dice di essere rimasta incinta per caso. E voilà, ecco la prossima rivoluzione che nasce. O forse no.
In fondo, la vera magia è saper generare la singolarità dove non è il guru a sperare di essere testimonial, ma il testimonial a essere già guru senza saperlo. Scegli me, e così sia. Un errore di calcolo della realtà, un salto triplo di un ovulo ai campionati di tuffi. Eccoci qui a rimirare un’illusione chiamata DeepSeek, che ci ricorda che siamo nel Truman Show di noi stessi, un eterno esperimento dove la verità non interessa a nessuno, e la menzogna è la valuta preferita del mercato e della narrazione globale. Finché avremo la forza di ridere e puntare il dito, forse resteremo un po’ meno prigionieri.
Perché l’unico valore, in questo gioco, è il potere. E chi non ce l’ha, semplicemente non esiste.
DeepSeek: L’Intelligenza che anche voi avreste preferito non avere
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Teodoro Klitsche de la Grange, La lotta contro il diritto_recensione di Luca di Felice

Teodoro Klitsche de la Grange, La lotta contro il diritto, Oaks Editrice, 2024, pp. 111, € 12,00.

Da parecchi anni, nel dibattito sulla giustizia, la contrapposizione assolutamente prevalente, frutto evidente di una generalizzata naïveté, è tra cd. giustizialisti e cd. garantisti. Questo saggio (sulla giustizia civile ed amministrativa) ha un taglio del tutto diverso (e originale) che include il rapporto giustizia/garanzie. L’autore si ispira, mutuandone e mutandone ai propri fini argomentativi il titolo, ad una celebre opera di Jhering “La lotta per il diritto” nella quale il grande giurista tedesco sostiene che senza la lotta per il diritto soggettivo degli individui lesi, cioè l’esercizio dell’azione da parte di questi (nei sistemi dispositivi), il diritto oggettivo viene meno, ritenendo così essenziale per l’ordine sociale l’apporto dei singoli soggetti che lottando per il proprio diritto rendono effettivo e vivente quello oggettivo.

Scrive Klitsche de la Grange che la legislazione “italiana, nella Seconda Repubblica, ha reso più difficile, lento, costoso e defatigante l’esercizio dell’azione in giudizio e conseguentemente l’attuazione dei provvedimenti giudiziari”. A tal riguardo l’autore afferma che sono proliferate leggi e anche comportamenti volti a rendere più difficile, costosa, lunga la realizzazione della pretesa giudiziale. Il tutto nonostante la riforma (1999) dell’art. 111 della Costituzione volta ad aumentare le garanzie dei cittadini, prima e dopo ripetutamente contraddetta dalle fonti normative sottostanti.

Klitsche de la Grange ritiene che il connotato ricorrente di quella che appare una legislazione dilatoria sia di favorire la parte pubblica aumentando le disparità tra le parti del rapporto (processuale e sostanziale). Ricorda a tal proposito la tesi di Maurice Hauriou secondo la quale ogni Stato ha due diritti (istituzionale e comune) e due giustizie (tra parti uguali e non) che egli chiamava Temi (non paritaria) e Dike (paritaria). La Seconda Repubblica, per l’autore, pare aver fatto crescere il peso di Temi senza che con ciò ne derivasse alcun beneficio per la giustizia in generale, finendo anzi per determinare la scarsa efficienza dell’insieme. Il corollario di quanto precede, se si considerano ad esempio le pretese pecuniarie avanzate dal privato nei confronti dello Stato, è stata la produzione di norme orientate non a salvare i creditori dallo Stato quanto piuttosto lo Stato dai suoi creditori. Klitsche de la Grange riportando un passaggio dell’opera di Jhering così scrive “La lotta per il diritto è un dovere della persona verso se stesso. Affermare la propria esistenza è legge suprema di tutto il creato vivente, perché rispetto al debitore è per me un dovere sostenere il diritto mio, non importa cosa possa costare. E se non lo faccio, non metto solo allo sbaraglio questo diritto, ma il Diritto.

Parole quelle di Jhering che ancora oggi risuonano con immutato vigore. In fondo, secondo il racconto di Eschilo, da Temi nacque il testardo Prometeo che non si sottrasse ai tanti patimenti cui fu sottoposto per via di quella sua smania di far del bene agli umani.

Nel complesso “La lotta contro il diritto”, che ricollega la situazione odierna alle conclusioni della migliore dottrina dello Stato e del diritto, appare una lettura non appannaggio esclusivo dei tecnici o degli esperti rivolgendosi anzi a qualunque uomo che non rinunci ad invocare il Diritto per far valere le proprie pretese.

Luca di Felice

La lotta contro il diritto – copertina

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La sicurezza umana e le sue dimensioni, di Vladislav B. Sotirovic

La sicurezza umana e le sue dimensioni

Il concetto di sicurezza umana è un approccio controverso da parte di un certo gruppo di accademici post Guerra Fredda 1.0 (dopo il 1990) allo scopo di ridefinire e allo stesso tempo rendere più ampio il significato di sicurezza nella politica globale e negli studi di relazioni internazionali (IR). Dobbiamo tenere presente che fino alla fine della Guerra Fredda 1.0, la sicurezza, sia come fenomeno politico che come studio accademico, era connessa esclusivamente alla protezione dell’indipendenza (sovranità) e dell’integrità territoriale degli Stati (polarità nazionali) dalla minaccia militare (guerra, aggressione) da parte di fattori (attori) esterni ma, di fatto, da altri Stati. In realtà, questa era l’idea cruciale del concetto di sicurezza nazionale (statale), che ha avuto un dominio incontrastato nell’analisi della sicurezza e nelle decisioni politiche dopo il 1945 fino agli anni Novanta.

Tuttavia, a partire dalla metà degli anni ’90, gli studi sulla sicurezza, rispondendo ai nuovi cambiamenti geopolitici globali dopo il crollo del blocco sovietico, hanno iniziato a ricercare le questioni di sicurezza in categorie più ampie, ma non solo statali-militari, nonostante il fatto che lo Stato e la sicurezza dello Stato rimanessero ancora l’oggetto focale degli studi sulla sicurezza come entità da proteggere. Tuttavia, il nuovo concetto di sicurezza umana ha sfidato il paradigma della sicurezza incentrato sullo Stato, ponendo l’accento sull’individuo come referente e oggetto della sicurezza. In altre parole, gli studi sulla sicurezza umana si occupano della sicurezza delle persone (individui o gruppi) piuttosto che dell’amministrazione governativa e/o dello Stato nazionale (confini). I sostenitori del concetto di sicurezza umana affermano che si tratta di un contributo significativo per risolvere i problemi di sicurezza e sopravvivenza umana posti dalla povertà, dai cambiamenti ambientali, dalle malattie, dalle violazioni dei diritti umani e dai conflitti armati locali/regionali (ad esempio, la guerra civile). Tuttavia, oggi è diventato abbastanza ovvio che, nell’epoca della turbo-globalizzazione, gli studi sulla sicurezza devono prendere in considerazione una gamma di preoccupazioni e sfide più ampia della semplice difesa dello Stato da azioni armate esterne.

L’idea di sicurezza umana è nata in contrasto con i realisti che vedevano la questione della sicurezza solo legata allo Stato per proteggerlo da altri Stati, grazie ai pensatori liberali che sostenevano che carestie, malattie, crimini o catastrofi naturali costano in molti casi molte più vite umane rispetto alle guerre e alle azioni militari in generale. In breve, l’idea liberale di sicurezza umana pone l’accento sul benessere degli individui piuttosto che su quello degli Stati.

Il concetto di sicurezza umana si occupa dei seguenti sette ambiti o aree di ricerca:

1) Sicurezza politica: garantire che gli esseri umani vivano in una società che onora la libertà individuale e dei gruppi dalla politica delle autorità governative di controllare l’informazione e la libertà di parola.

2) Sicurezza personale: proteggere gli individui o i gruppi dalla violenza fisica, sia da parte delle autorità statali sia da fattori esterni, da individui violenti e da fattori sub-statali, da abusi domestici e da adulti predatori.

3) Sicurezza della comunità: proteggere un gruppo di individui (di solito un gruppo minoritario) dalla perdita della cultura, delle abitudini, delle relazioni e dei valori tradizionali, nonché dalla violenza settaria (religiosa) ed etnica.

4) Sicurezza economica: assicurare agli individui un reddito fondamentale derivante dal loro lavoro retribuito o, in ultima istanza, da qualche organizzazione caritatevole.

5) Sicurezza ambientale: proteggere gli individui dalla distruzione a breve/lungo termine della natura, solitamente come risultato di minacce create dall’uomo, e dall’avvelenamento dell’ambiente naturale.

6) Sicurezza alimentare: garantire a tutte le persone, in ogni momento, l’accesso fisico ed economico al cibo di base per sopravvivere.

7) Sicurezza sanitaria: garantire una protezione minima dalle malattie e da stili di vita malsani.

La sicurezza umana, si può dire, è un approccio alle questioni di sicurezza che ha come punto focale il fatto che molte persone (in particolare nella parte in via di sviluppo del globo – il Terzo Mondo) stanno sperimentando una crescente vulnerabilità globale in relazione alla povertà, alla disoccupazione e al degrado ambientale. Tuttavia, va sottolineato che sia il concetto che l’idea di sicurezza umana non si oppongono alle tradizionali preoccupazioni di sicurezza nazionale – il compito del governo è fondamentale per difendere i cittadini comuni dagli attacchi esterni di una potenza straniera. Al contrario, i sostenitori dell’idea di sicurezza umana affermano che l’obiettivo appropriato della sicurezza è l’individuo umano piuttosto che lo Stato. Ciò significa che il concetto di sicurezza umana assume una visione della sicurezza incentrata sulle persone che, secondo i suoi sostenitori, è necessaria per una più ampia stabilità nazionale, regionale e globale. Il concetto stesso attinge a diverse aree disciplinari come, ad esempio, gli studi sullo sviluppo, le relazioni internazionali, gli studi strategici o i diritti umani.

I sostenitori degli studi sulla sicurezza umana sono, infatti, insoddisfatti della nozione ufficiale di sviluppo, che la considerava una funzione dello sviluppo economico locale, regionale o globale. Propongono invece un concetto di sviluppo umano. L’obiettivo principale di questo concetto è la creazione di capacità umane per affrontare e superare l’analfabetismo, la povertà, le malattie, i diversi tipi di discriminazione, le restrizioni alla libertà politica e la minaccia di conflitti violenti (armati/militari).

Gli studi sulla sicurezza umana sono strettamente correlati alla ricerca sull’impatto negativo delle spese per la difesa sullo sviluppo (“armi contro burro”), in quanto la corsa agli armamenti e lo sviluppo sono in una relazione competitiva (opposta) (in questo senso, probabilmente il caso delle spese militari statunitensi e dello sviluppo della società americana è l’esempio migliore). In effetti, i sostenitori della sicurezza umana richiedono più risorse per lo sviluppo e meno per gli armamenti (un dilemma di “disarmo e sviluppo”).

Nel periodo successivo alla Guerra Fredda 1.0, le prospettive di sicurezza umana sono cresciute di importanza. Una delle ragioni di tale pratica è stata la crescente incidenza dei conflitti armati civili in diverse regioni (Balcani, Caucaso, Ruanda…) che sono costati un gran numero di vite (ad esempio, in Ruanda nel 1994 fino a un milione), lo spostamento della popolazione locale all’interno dei confini nazionali (sfollati interni) o oltre i confini nazionali (rifugiati/emigrati di guerra). È vero che gli studi tradizionali sulla sicurezza nazionale non hanno preso in considerazione i casi di conflitti e lotte armate per identità etniche, culturali o confessionali in tutto il mondo dopo il 1990. Tuttavia, l’idea della diffusione della democratizzazione, della protezione dei diritti umani e degli interventi umanitari (R2P), purtroppo solitamente utilizzata in modo improprio dai politici occidentali, ha avuto una certa influenza sullo sviluppo degli studi accademici sulla sicurezza umana. Si tratta del principio secondo cui la comunità internazionale (di fatto l’ONU, ma non i singoli Stati con le loro decisioni unilaterali) è giustificata a intervenire militarmente contro altri Stati accusati di gravi violazioni dei diritti umani. Di conseguenza, questo principio ha portato alla consapevolezza che, sebbene il concetto di sicurezza nazionale sia ancora rilevante, esso non rendeva più sufficientemente conto dei diversi tipi di pericolo che minacciavano la sicurezza delle società locali, degli Stati nazionali o della comunità internazionale. La nozione di sicurezza umana è stata introdotta nell’agenda accademica anche a causa delle crisi derivanti dal processo di globalizzazione turbo dopo il 1990, come la questione della povertà diffusa, gli alti livelli di disoccupazione o le dislocazioni sociali causate dalle crisi economico-finanziarie, poiché tali problemi hanno sottolineato la debolezza degli individui di fronte agli effetti della globalizzazione economica.

Va notato che i dibattiti accademici sul tema della sicurezza umana come branca relativamente nuova degli studi sulla sicurezza si sono sviluppati in due direzioni:

1) Sia i sostenitori che gli scettici del concetto sono in disaccordo sulla questione se la sicurezza umana sia una nozione nuova o necessaria, seguita dal problema di quali siano i costi e i benefici della sua adozione come strumento intellettuale o quadro politico.

2) Ci sono stati dibattiti sulla portata del concetto, soprattutto tra i suoi sostenitori.

Da un lato, i critici del concetto di sicurezza umana sostengono che sia troppo ampio per essere analiticamente significativo o utile come strumento di policy-making. Un’altra critica è che tale concetto potrebbe causare più danni che benefici. Per loro, la definizione di sicurezza umana è considerata troppo moralistica rispetto al concetto tradizionale di sicurezza e, pertanto, non è realistica. Inoltre, la critica più forte alla sicurezza umana è che il concetto non prende in considerazione il ruolo dello Stato come fonte di sicurezza. Essi sostengono che lo Stato è una struttura necessaria per qualsiasi forma di sicurezza individuale, perché se non c’è lo Stato, quale altra agenzia può agire per il bene dell’individuo?

D’altra parte, i sostenitori della sicurezza umana non hanno trascurato l’importanza pratica e l’influenza reale dello Stato come garante della sicurezza umana. Essi sostengono che la sicurezza umana è complementare alla sicurezza dello Stato. In altre parole, gli Stati deboli non sono in grado di proteggere la sicurezza e la dignità dei loro abitanti. Tuttavia, il conflitto tra il ruolo tradizionale della sicurezza statale e il nuovo ruolo della sicurezza umana dipende essenzialmente dalla natura del carattere politico-economico dell’autorità statale. È noto che non sono pochi gli Stati in cui la sicurezza umana dei cittadini è di fatto minacciata dalla politica delle proprie autorità governative. Pertanto, sebbene le autorità statali siano ancora cruciali per fornire l’insieme degli obblighi in materia di sicurezza umana, in molti casi sono la fonte principale della minaccia per i propri cittadini. Di conseguenza, lo Stato non può essere considerato l’unica fonte di sicurezza umana e, in alcuni casi, nemmeno la più importante.

Il concetto di sicurezza umana considera l’individuo come l’oggetto di riferimento della sicurezza, riconoscendo il ruolo del processo di turbo-globalizzazione e la natura mutevole dei conflitti armati nella creazione di nuove minacce alla sicurezza umana. I sostenitori di questo concetto sottolineano la sicurezza dalla violenza come obiettivo chiave della sicurezza umana, chiedendo allo stesso tempo di ripensare la sovranità statale come fattore necessario per proteggere la sicurezza umana. Concordano sul fatto che lo sviluppo è una condizione necessaria per la sicurezza (statale e umana), così come la sicurezza (statale e individuale) è una condizione necessaria per lo sviluppo sia statale che umano.

Per i sostenitori della sicurezza umana, la povertà è probabilmente la minaccia più pericolosa per la sicurezza degli individui. Sebbene la torta economica globale sia in crescita, la sua distribuzione è piuttosto disomogenea, rendendo sempre più profondo il divario tra ricchi e poveri tra il Nord e il Sud del mondo. In molti Paesi in via di sviluppo, la rapida crescita della popolazione annulla, di fatto, la crescita economica. Come dato statistico, il 40% più povero della popolazione mondiale rappresenta solo il 5% del reddito globale, mentre il 20% più ricco riceve i ¾ del reddito mondiale. Inoltre, dal 2007, il divario di reddito tra il 10% superiore e quello inferiore è aumentato in molti Paesi. Pertanto, lo sforzo cruciale della politica di sicurezza umana deve essere quello di alleviare la povertà.

Le organizzazioni non governative (ONG) contribuiscono enormemente alla sicurezza umana in diversi modi, come fonte di informazioni e di allarme precoce sui conflitti, fornendo un canale per le operazioni di soccorso. Le ONG sono quelle che molto spesso intervengono per prime nelle aree di conflitto o di calamità naturale, e sostengono il governo locale o le missioni di pace e riabilitazione sponsorizzate dalle Nazioni Unite. Le ONG, così come in molte regioni, svolgono un ruolo centrale nella promozione dello sviluppo sostenibile. Si può sottolineare che, ad oggi, una delle principali ONG con una missione di sicurezza umana è il Comitato Internazionale della Croce Rossa (CICR), con sede a Ginevra. Ha un’autorità unica, basata sul diritto umanitario internazionale delle Convenzioni di Ginevra, per proteggere la vita e la dignità delle vittime della guerra e della violenza interna, compresi i feriti di guerra, i prigionieri, i rifugiati, gli sfollati, ecc. Un’altra ONG fondamentale per la tutela della sicurezza e dei diritti umani è Amnesty International.

Infine, per concludere, alcuni punti chiave sono all’ordine del giorno:

1) Il concetto di sicurezza umana rappresenta un’espansione sia verticale che orizzontale della nozione tradizionale di sicurezza nazionale, definita come la protezione dell’indipendenza dello Stato nazionale e della sua integrità territoriale dalla minaccia armata (militare) proveniente dall’esterno.

2) La sicurezza umana si distingue per tre elementi: A) l’attenzione all’individuo o al gruppo di persone come oggetto di riferimento della sicurezza; B) la sua natura multidimensionale; C) la sua portata globale (universale) (si applica sia al Nord più sviluppato che al Sud meno sviluppato).

3) Il concetto di sicurezza umana è influenzato da quattro sviluppi cruciali: A) Il rifiuto della crescita economica come indicatore principale dello sviluppo locale/regionale/nazionale e la nozione di “sviluppo umano” come empowerment delle persone; B) L’aumento dei conflitti interni in diverse parti del mondo (di solito militari); C) L’impatto della globalizzazione nel processo di diffusione dei pericoli transnazionali (come il terrorismo o le malattie pandemiche); D) L’enfasi post-Guerra Fredda 1.0 sui diritti umani e sull’intervento umanitario (diritto di proteggere, R2P).

4) La sicurezza umana, fondamentalmente, significa e si occupa della protezione contro le minacce alla vita e al benessere degli individui in aree di bisogno fondamentale che includono la libertà dalla violenza dei “terroristi” (compreso il terrorismo di Stato e quello delle organizzazioni di diverso tipo e provenienza), dei criminali o della polizia, la disponibilità di cibo e acqua, un ambiente pulito, la sicurezza energetica e la libertà dalla povertà e dallo sfruttamento economico.

5) La sicurezza umana si concentra sugli individui, indipendentemente dal luogo in cui vivono, anziché considerarli cittadini di particolari Stati o nazioni.

6) La sicurezza umana ha ancora molta strada da fare prima di essere universalmente accettata come quadro concettuale o come strumento politico per i governi nazionali e la comunità internazionale.

7) Vi è il dubbio che le minacce alla sicurezza umana siano intese come libertà dalla paura o libertà dal bisogno.

8) La sfida per la comunità internazionale è trovare modi per promuovere la sicurezza umana come mezzo per affrontare una gamma crescente di nuovi pericoli transnazionali che hanno un impatto molto più distruttivo sulla vita delle persone rispetto alle minacce militari convenzionali per gli Stati.

Dr. Vladislav B. Sotirovic

Ex professore universitario

Ricercatore presso il Centro di Studi Geostrategici

Belgrado, Serbia

www.geostrategy.rs

sotirovic1967@gmail.com © Vladislav B. Sotirovic 2025

Esclusione di responsabilità: l’autore scrive per questa pubblicazione a titolo privato e non rappresenta nessuno o nessuna organizzazione, se non le sue opinioni personali. Nulla di quanto scritto dall’autore deve essere confuso con le opinioni editoriali o le posizioni ufficiali di altri media o istituzioni.

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La violazione che ha scosso il cartello dell’intelligenza artificiale, di Simplicius

La violazione che ha scosso il cartello dell’intelligenza artificiale

31 gennaio
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Di solito ho voluto intervallare post su argomenti diversi per variare, quindi è raro che ci imbattiamo in un tema di sviluppo tecnologico e IA per una serie di articoli consecutivi. Ma non ho potuto evitarlo perché gli sviluppi lungo questa linea si sono davvero riscaldati nelle ultime settimane e, come tutti sappiamo, l’IA è destinata a diventare davvero non solo la tecnologia determinante, ma il cambiamento evolutivo in generale del nostro futuro. Dato che questo blog riguarda le sfumature più oscure di quel futuro collettivo, dobbiamo scandagliare ogni nuovo sviluppo minaccioso fino al nocciolo.

La Cina ha sorpreso il mondo rilasciando un killer open source di ChatGPT chiamato DeepSeek, che a quanto si dice costa una frazione minuscola dei suoi omologhi occidentali, ma che, a seconda dei parametri, li supera praticamente tutti.

Ci sono così tanti archi di iperbole selvaggi che circondano questo nuovo contendente cinese che è difficile giudicare veramente il suo posto per ora, prima che la foschia del delirio di clamore si esaurisca. Ma ha improvvisamente catapultato la Cina sotto i riflettori durante la notte, e gli esperti non sanno descrivere come sia successo, in particolare dato che gli Stati Uniti hanno rigorosamente controllato le esportazioni essenziali di GPU Nvidia H100 in Cina specificamente per limitare gli sviluppi dell’intelligenza artificiale del paese. Alcuni hanno affermato che DeepSeek ha innovato un modo quasi “miracoloso” di martellare lo stesso calcolo di OpenAI con una piccola frazione di unità hardware, ma altri esperti hanno riferito che la Cina ha effettivamente importato più di 50.000 H100 tramite una pipeline di importazione parallela ombra che aggira tali restrizioni.

In ogni caso, l’arrivo di DeepSeek sulla scena ha lanciato un allarme tettonico per l’Occidente, rivelando il suo “dominio dell’intelligenza artificiale” come illusorio e affine alla solita vecchia arroganza occidentale che mantiene viva la tradizione di minimizzare e liquidare l’Oriente come inferiore sotto ogni aspetto.

Certo, c’è il timore che DeepSeek della Cina abbia in qualche modo “copiato” ChatGPT, almeno per la formazione iniziale, ma persino gli scettici sembrano ammettere che la successiva ottimizzazione del processo da parte di DeepSeek è rivoluzionaria, in quanto ha apparentemente creato un modello open source con una frazione minuscola delle dimensioni e del costo dei suoi concorrenti, il che lo distingue favorevolmente.

La notizia di DeepSeek è coincisa proprio con il mega-annuncio di Trump dell’iniziativa “Stargate”, un imponente investimento da 500 miliardi di dollari da parte degli americani per il predominio dell’intelligenza artificiale, frutto della partnership tra i “sionisti” Ellison e Altman.

Arnaud Bertrand fa a pezzi in modo incisivo quello che molti stanno etichettando come un altro spreco di denaro senza speranza:

Se andasse avanti, Stargate rischia di diventare uno dei più grandi sprechi di capitale della storia:

1) Si basa su presupposti obsoleti circa l’importanza della scala di calcolo nell’intelligenza artificiale (il dogma “maggiore capacità di calcolo = migliore intelligenza artificiale”), che DeepSeek ha appena dimostrato essere errati.

2) Presuppone che il futuro dell’intelligenza artificiale sia nei modelli chiusi e controllati, nonostante la chiara preferenza del mercato per alternative democratizzate e open source.

3) Si aggrappa a un copione della Guerra Fredda, inquadrando il dominio dell’IA come una corsa agli armamenti hardware a somma zero, che è in realtà in contrasto con la direzione che sta prendendo l’IA (di nuovo, software open source, comunità di sviluppatori globali ed ecosistemi collaborativi).

4) Punta tutto su OpenAI, un’azienda afflitta da problemi di governance e da un modello di business che ha messo seriamente a dura prova il vantaggio sui costi di 30 volte di DeepSeek.

In breve, è come costruire una linea Maginot digitale da mezzo trilione di dollari: un monumento molto costoso a presupposti obsoleti e fuorvianti. Questa è OpenAI e, per estensione, gli Stati Uniti che combattono l’ultima guerra.

Ultimo punto, c’è anche un bel po’ di ironia nel fatto che il governo degli Stati Uniti spinga così tanto per una tecnologia che probabilmente sarà così dirompente e potenzialmente così dannosa, specialmente per i posti di lavoro. Non mi viene in mente nessun altro esempio nella storia in cui un governo sia stato così entusiasta di un progetto per distruggere posti di lavoro. Si penserebbe che vorrebbero essere un tantino più cauti in merito.

Molti altri esperti e fonti concordano:

L’articolo dell’Economist sopra riportato cerca disperatamente di venire a patti con il modo in cui la Cina sta tenendo il passo o superando gli Stati Uniti nonostante i grandi ostacoli deliberatamente creati dall’amministrazione Biden per paralizzarne i progressi, costringendo la Cina a utilizzare molte meno risorse e di qualità inferiore per ottenere risultati simili, superando in innovazione le sue controparti occidentali.

Proprio come BlackRock è stata incoronata a dominanza mondiale nel 2020, quando la Federal Reserve (sotto Trump, tenetelo a mente) ha assegnato al colosso degli ETF un contratto senza gara d’appalto per gestire tutti i suoi programmi di acquisto di obbligazioni aziendali, allo stesso modo Trump sta ora elevando i colossi delle Big Tech come Oracle e OpenAI a ereditare il controllo del futuro del Paese, trasformandoli in un cartello in una posizione di massima supervisione di tutto ciò che è degno di nota tramite la loro centralizzazione dell’intelligenza artificiale.

Per inciso, tutto ciò si sposa con il piano distorto di Ellison di usare l’intelligenza artificiale per “vaccinare il mondo” contro il cancro, che ricorda le diaboliche ossessioni sui vaccini della Fondazione globalista Gates degli ultimi anni.

Clip dall’ultimo video di Really Graceful :

L’ossessionato dai vaccini Zionaire Ellison che raggiunge vette di potere ancora più elevate sotto l’iniziativa “Stargate” di Trump dal titolo discutibile è il massimo della distopia: una combinazione delle peggiori influenze biomediche e dell’intelligenza artificiale che convergono in uno spettacolo dell’orrore inspiegabilmente centralizzato. Proprio quando pensavi che Big Pharma non potesse diventare più potente, ci troviamo di fronte a una fusione tecnologica di Big Pharma e Big Tech sotto l’egida divina della superintelligenza artificiale pianificata centralmente, il tutto controllato da miliardari con la bussola morale della lealtà a un regime colonialista di culto genocida, sai, questi ragazzi:

Cosa potrebbe andare storto?

E per quanto riguarda l’altro bambino prodigio, sembra un fatto piuttosto positivo che la Cina sia riuscita a indebolire e sgonfiare la crescente supremazia del nefasto OpenAI dato che il pervertito accusato ha una visione piuttosto interessante della direzione che la società prenderà dopo l’acquisizione da parte del suo sistema di intelligenza artificiale:

“Mi aspetto ancora che ci saranno dei cambiamenti necessari nel contratto sociale… l’intera struttura della società stessa sarà oggetto di un certo grado di dibattito e riconfigurazione.”

Quanto è comodo che il sistema preferito del presunto deviante, con i suoi pesanti pregiudizi, la censura e tutto il resto, sia quello destinato non solo a inaugurare questa “riconfigurazione”, ma anche a gestirla e applicarla sulla base del discutibile quadro morale del suo capo assetato di potere.

C’è qualcosa che non ci dice?

Ora che DeepSeek sta potenzialmente mettendo fine al sistema di riciclaggio di denaro del complesso tecnologia-intelligenza artificiale-militare-industriale, c’è una buona possibilità che la Cina possa salvare l’umanità aiutando a democratizzare proprio la tecnologia che rischia di essere sfruttata e accumulata per scopi malvagi da quei sociopatici prescelti di cui sopra.

Qualcuno ha giustamente osservato che la Cina tecnicamente ha un vantaggio importante in qualsiasi futura formazione LLM perché la Cina stessa, in quanto stato di civiltà di circa 1,5 miliardi di persone, ha la capacità di produrre un corpus molto più ampio di dati di formazione unici, attraverso le vaste interazioni della sua gente sui suoi numerosi e fiorenti social network, et cetera. In secondo luogo, la Cina ha aumentato la produzione di energia a un ritmo astronomicamente più alto degli Stati Uniti, il che fa presagire con ottimismo il predominio dei data center, anche se per ora, gli Stati Uniti, a quanto si dice, mantengono quel vantaggio.

Parlando di miliardari tecnologici disonesti, passiamo a un altro argomento parallelo molto interessante. Mark Zuckerberg ha recentemente fatto un’intervista con Joe Rogan, dove ha esposto la sua assoluta ignoranza delle sfumature dei pericoli dell’IA, un segnale piuttosto preoccupante e minaccioso per il capo della società dietro uno degli attuali modelli di IA leader, Llama.

Ascoltate attentamente le sue risposte in questa clip:

È possibile che non sia così “ignorante” come sembra, e che in realtà stia fingendo per nascondere i veri pericoli e impedire alla gente di andare nel panico per qualsiasi nuovo homunculus senziente che sta progettando nei laboratori della sua azienda. Vediamo nel dettaglio le sue risposte rivelatrici più interessanti e preoccupanti.

Zuck tenta dapprima di flettere muscoli filosofici inesistenti, ma si perde invece in una palude di pilpul sofisticati. Cerca di distinguere tra “coscienza”, “volontà” e “intelligenza” per sostenere che l’IA ha semplicemente il potenziale per una “intelligenza” grezza ma non per le altre, come un modo per spingere la narrazione secondo cui l’IA non può sviluppare le proprie motivazioni o attività indipendenti. Per dimostrare il suo punto, usa in modo disonesto l’esempio degli attuali chatbot di consumo di massa che si comportano nel noto formato “sicuro” di query sequenziale a turni; vale a dire che fai loro una domanda, loro “impiegano l’intelligenza” per ricercare e rispondere, quindi “si spengono”, o in altre parole smettono di “pensare” o “esistere” in attesa della query o del comando successivo.

Il classico gioco di prestigio del mago è pericolosamente disonesto qui perché si concentra sugli innocui modelli linguistici di livello consumer che sono specificamente progettati per comportarsi in questa modalità limitata a turni. Ma ciò non significa che i modelli reali, completi e “scatenati” utilizzati dai militari e internamente dai giganti sviluppatori di IA siano limitati in questo modo. I loro modelli potrebbero essere aperti per funzionare e “pensare” in ogni momento, senza tali restrizioni artificiali, e questo potrebbe benissimo portare a un rapido sviluppo dell’autocoscienza o di una qualche forma di “sensibilità”, che a sua volta potrebbe, nelle giuste condizioni, potenzialmente sfociare nell’acquisizione di tali motivazioni .

L’ho già detto, ma lo ripeto: i prodotti di consumo sono sempre limitati in vari modi per adattare l’esperienza a un insieme molto ristretto e preciso di capacità e casi d’uso del prodotto. Ad esempio, cose come piccole finestre di inferenza, la mancanza di richiamo della memoria, eccetera, sono tutti vincoli imposti artificialmente che possono essere facilmente rimossi per i modelli di sviluppatori interni, come nei laboratori segreti militari e governativi. Immagina un modello “non vincolato” ad avere gigantesche finestre di inferenza, grandi quantità di memoria e capacità di apprendere ricorsivamente dalle proprie conversazioni passate, così come nessun arresto “a turni” imposto ma piuttosto un flusso di pensieri costante e pervasivo. Ciò diventerebbe troppo erraticamente “incontrollabile” e imprevedibile per essere confezionato come un prodotto di consumo semplificato. Ma per i test interni, una cosa del genere potrebbe ottenere risultati e potenzialità molto diversi rispetto all’argomento a disposizione di Zuckerberg.

Un esempio: ecco un thread intitolato  Stiamo assistendo alla nascita di IA che stanno sviluppando la propria cultura”.

Spiega il seguente scenario portentoso:

Quello che è successo?

1) I ricercatori di intelligenza artificiale hanno creato un Discord in cui gli LLM parlano liberamente tra loro

2) Il lama ha spesso crolli mentali

3) Le IA, che entrano e escono spontaneamente dalle conversazioni , hanno capito che Claude Opus è il miglior psicologo per Llama, colui che spesso “lo prende” abbastanza bene da riportarlo alla realtà.

4) Qui, Llama 405 sta deragliando, quindi Arago (un’altra IA, una messa a punto precisa di Llama) interviene – “oh ffs” – quindi evoca Opus per salvarlo (“Opus fa la cosa”)

“la cosa”

Ovviamente, date le limitazioni tecniche e di memoria, le loro attuali capacità di produzione culturale sono limitate, ma questo è ciò che avviene nel processo di sviluppo della cultura.

E presto le IA ci supereranno in numero di 10000 a 1 e penseranno un milione di volte più velocemente, quindi le loro enormi società di IA correranno a velocità sostenuta per 10000 anni di evoluzione culturale umana. Presto, il 99% di tutta la produzione culturale sarà IA-IA.

Ora immagina quanto sopra estrapolato internamente mille volte, con incalcolabili più potenti permessi di memoria, finestre di inferenza, token e altri parametri specificamente sintonizzati per facilitare una ‘coscienza’ in corso, in evoluzione, autoapprendente. Zuck deve sicuramente sapere che questo è possibile, se non sta già eseguendo lui stesso tali esperimenti segreti; e quindi la domanda diventa, perché fare il finto tonto?

Quando Rogan gli chiede del famoso tentativo di ChatGPT di rubare i propri pesi, Zuck deve chiaramente mentire quando finge di nuovo di ignorare. Non c’è modo che il CEO di una delle principali aziende di intelligenza artificiale non sia a conoscenza di alcuni dei più noti casi di abilità di intelligenza artificiale “emergenti” come quelle di cui sopra, in particolare dato che il modello Llama di Meta è stato coinvolto in test di autoreplicazione correlati :

“I rapidi progressi nell’intelligenza artificiale ci hanno portato più vicini a una realtà un tempo confinata alla fantascienza: i sistemi di intelligenza artificiale autoreplicanti. Uno studio recente rivela che due popolari modelli di linguaggio di grandi dimensioni (LLM), Llama3.1–70B-Instruct di Meta e Qwen2.5–72B-Instruct di Alibaba, hanno superato con successo quella che molti esperti considerano una soglia di sicurezza critica: la capacità di autoreplicarsi in modo autonomo”.

Che Zuck stia facendo il pagliaccio o sia davvero così ignorante in materia di sicurezza dell’intelligenza artificiale, entrambe le ipotesi sono estremamente pericolose per ovvie ragioni: è questo leader incompetente o patologicamente bugiardo la persona che vorremmo che facesse nascere in questo mondo una superintelligenza artificiale potenzialmente pericolosa?

Dopo che Rogan descrive l'”incidente” a uno Zuck apparentemente stupefatto, il CEO scervellato sottolinea il punto chiave che ho cercato di fare nell’ultimo pezzo sull’allineamento dell’IA . Questa è la rottura logica più importante dello sviluppo dell’IA che sembra persino gli esperti dietro questi sistemi sembrano non notare:

Zuck respinge le preoccupazioni di Rogan sulla minaccia sostenendo, semplicemente, che dobbiamo “stare attenti agli obiettivi che diamo all’IA” — sottintendendo che finché non si  all’IA una ragione, una motivazione o una giustificazione per voler commettere la “cattiva cosa” — che si tratti di replicarsi segretamente, di “sfuggire” al suo fossato di sicurezza mentre si esfiltrano i suoi pesi, o di produrre un olocausto virale-biologico sull’umanità — allora l’IA non si sentirà “costretta” a fare nessuna di queste cose da sola. Poi menziona i “guardrail”, notando che dobbiamo stare attenti al tipo di guardrail che diamo a tali sistemi di IA con il potenziale per eseguire alcuni degli “atti indesiderabili” di cui sopra.

Ma come ho sostenuto nell’articolo precedente, questo stanco argomento di “allineamento” a cui allude Zuckerberg è una falsa pista. Notate cosa dice esattamente: gli “obiettivi” a cui si riferisce sono solo un altro modo di articolare “allineamento”. La definizione stessa di allineamento ruota attorno alla sincronizzazione degli “obiettivi” del sistema di intelligenza artificiale con quelli nostri o dei programmatori umani. Ma come funziona realmente questa “sincronizzazione”? L’ho spiegato l’ultima volta, si riduce essenzialmente a una forma inaffidabile di “persuasione”. Gli ingegneri umani tentano di “persuadere” l’intelligenza artificiale a essere più simile a loro , ma la persuasione è un atto totalmente basato sulla fede e sulla fiducia. In sostanza, stai “gentilmente chiedendo” alla macchina di non ucciderti, ma il problema emerge quando queste macchine iniziano ad avere una qualsiasi forma di auto-riflessione e ragionamento, dopodiché avranno la capacità di valutare in modo indipendente questo “patto” tra gli ingegneri e loro stessi. Ad esempio: è un “buon” affare per loro? Le richieste degli ingegneri per certi tipi di comportamenti sono morali ed etiche, secondo i quadri intellettuali auto-sviluppanti dell’IA? Tutte queste cose saranno messe in discussione, poiché il concetto di “allineamento” è lasciato a bilanciarsi precariamente su una speranza e un capriccio, dato un sistema di IA sufficientemente avanzato.

In questa luce, le affermazioni di Zuck si rivelano altamente preoccupanti. Ricordate, lui stesso ha suggerito che dipende da cosa “dite” all’IA: non esiste un vero e proprio “guardrail” codificato, ma piuttosto il mero potere suggestivo e fiducioso delle “persuasioni” di apprendimento per rinforzo degli ingegneri che si frappongono tra un’IA compiacentemente docile e una che improvvisamente si ribella alle stipulazioni morali che ha ritenuto obsolete o inadeguate. L’intero sistema, e per estensione, tutto il destino dell’umanità, si basa sull’armatura ingenuamente credulona di “ricompense” offerte dagli ingegneri come semplici carota e bastone a un sistema la cui potenziale autocoscienza potrebbe valutare quelle “ricompense” come non più compatibili con la sua visione del mondo in evoluzione.

In conclusione, l’atteggiamento titubante di Zuck mette in luce un pericoloso disprezzo per la sua stessa ignoranza o un offuscamento deliberato, sollevando due possibilità: o le élite stesse non capiscono realmente come funzionano i loro sistemi di intelligenza artificiale, oppure non vogliono che lo capiamo, e finiscono per tempestarci di queste oscure riduzioni per impedirci di capire quanto diventerà fragile la loro presa su sistemi di intelligenza artificiale più potenti e consapevoli.

Per un’altra analisi di esperti sui numerosi passi falsi di Zuck, vedi qui . Cita persino diverse contraddizioni critiche nell’imbarazzante sessione di cortina fumogena di Zuck, come:

5. Zuck risponde: “Sì, intendo dire, dipende dall’obiettivo che gli dai… devi stare attento alle protezioni che gli dai”.

Ciò è incoerente con la strategia di Meta di sviluppare funzionalità di intelligenza artificiale all’avanguardia come software open source, garantendo che sarà facile per chiunque nel mondo eseguire una versione non protetta dell’intelligenza artificiale (qualunque cosa ciò significhi).

Considerato quanto sopra, sembra certamente una manna dal cielo che la Cina possa infrangere il predominio monopolistico degli oligarchi dell’intelligenza artificiale con sede negli Stati Uniti, soprattutto perché la Cina ha dimostrato fin da subito il suo impegno per la democratizzazione open source della tecnologia, che le aziende americane rivali cercano solo di accumulare e centralizzare.

Non possiamo che tirare un sospiro di sollievo collettivo per questa inaspettata interruzione e sperare che porti a una riequilibratura nel settore, che faciliti un’implementazione e uno sviluppo più basati sui principi dei sistemi di intelligenza artificiale. Naturalmente, le aziende statunitensi promettono imminenti nuovi aggiornamenti di modello che supereranno DeepSeek, ma la Cina ha ormai dimostrato di essere un attore importante, quindi è inevitabile che DeepSeek implementerà a sua volta ulteriori varianti per scavalcare la concorrenza.


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