FENOMENOLOGIA DELL’ ALESSANDRO   ORSINI, di Massimo Morigi

                      FENOMENOLOGIA DELL’ ALESSANDRO   ORSINI

 

E per la chiarezza concettuale e terminologica e per  iniziare l’indispensabile  percorso già indicato ai lettori in “Regnum Cliens”, (all’ URL  de “L’Italia  e il mondo” https://italiaeilmondo.com/2022/04/24/regnum-cliens-di-massimo-morigi/, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20220424164612/https://italiaeilmondo.com/2022/04/24/regnum-cliens-di-massimo-morigi/; screenshot:  https://web.archive.org/web/20220424164625/http://web.archive.org/screenshot/https://italiaeilmondo.com/2022/04/24/regnum-cliens-di-massimo-morigi/, ed anche su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/regnum-cliens-repubblicanesimo-geopolitico-massimo-morigi-italia e  https://ia801505.us.archive.org/10/items/regnum-cliens-repubblicanesimo-geopolitico-massimo-morigi-italia/REGNUM%20CLIENS%2C%20REPUBBLICANESIMO%20GEOPOLITICO%2C%20MASSIMO%20MORIGI%2C%20ITALIA.pdf )  è ora necessario fare un esempio concreto per instradarci verso una nuova pedagogia nazionale che si contrapponga alle vecchie e divisive narrazioni, iniziando innanzitutto da coloro che possono sembrare affini ma, in realtà, ammettendo pure la loro  buona fede, non fanno altro che seminare confusione nel campo di coloro che si stanno rendendo conto che l’Italia non è nient’altro che un “regnum cliens” degli Stati Uniti. Ci riferiamo al prof. Alessandro Orsini, del quale qui di seguito si indica per punti la complessa e contraddittoria fenomenologia di questo comunque interessante personaggio pubblico. Punto primo della fenomenologia di Orsini. Il professore accusato  –  vigliaccamente e distorcendo le sue parole bisogna sottolineare – di essere  fascista,  anziché rimarcare il ruolo paralizzante del mito della resistenza e dell’antifascismo, denuncia anche giustamente di essere stato volutamente frainteso per le posizioni assunte sulla guerra russo-ucraina e per queste sue  posizioni che si sta operando sulla sua persona una sorta di ridicola e deformante “reductio ad fascem” ma facendo ciò ribadisce la sua fedeltà ai valori paralizzanti di cui sopra e non gli passa nemmeno per l’anticamera del cervello (l’abbiamo già detto,  gli si concede la buona fede) che per l’Italia è fondamentale il passaggio ad una nuova pedagogia nazionale che si lasci completamente dietro di sé, appunto, il miti confusionari, divisivi e sommamente paralizzanti  dell’antifascismo e della resistenza e che risultano essere un fenomenale compattatore delle classi dirigenti e parassitarie italiane e, in prospettiva storica, nient’altro che una mitologia costruita ad hoc da un’Italia che aveva perso il secondo conflitto mondiale e che necessitava di questa mitologia per accreditarsi pubblicamente presso i vincitori come una nazione rinnovata ed affidabile (nella realtà inconfessabile, certamente affidabile perché col mito dell’antifascismo e della resistenza si rinunciava alla propria sovranità persa con la guerra ma rinnovata proprio no, anzi il mito copriva il fatto che le strutture dello stato erano sempre quelle fasciste – e quali avrebbero potuto essere ? – e gli italiani non erano per natura antifascisti ma, per la maggior parte, fascisti che avevano perso la guerra cui faceva gioco raccontare all’estero ed anche al loro foro interiore che erano sempre stati antifascisti). Punto secondo della fenomenologia di Alessandro Orsini. Non c’è praticamente alcuna pubblica dichiarazione del professore dove egli non si professi ammiratore della democrazia degli Stati Uniti (???) e nel contempo non affermi che l’Italia deve rendersi più autonoma da questi e cercando di fare i propri interessi, imitando, per giunta, proprio gli Stati Uniti dal professore ritenuti maestri nel perseguire il proprio interesse nazionale. Si tratta, come è di tutta evidenza, di una posizione in sé fortemente contraddittoria (perché allora rendersi autonomi da una potenza che promana tanta civiltà democratica?) ed anche antistorica, perché se è vero che gli Stati Uniti sanno fare i loro interessi (e anche questo è tutto da dimostrare, meglio dire che gli Stati Uniti  hanno di volta in volta grande capacità di imporre agli alleati e agli stati clienti – per l’Italia abbiamo già detto che questa è la definizione che meglio si attaglia riguardo al suo rapporto con gli Stati Uniti – la loro politica del momento), bisogna vedere cosa significhi, a livello di politica interna degli Stati Uniti, fare i propri interessi, che negli ultima trent’anni – se facciamo eccezione dell’amministrazione Trump – non è mai stato l’interesse di quella che più o meno si può definire una classe media (cosa che si intuisce importa molto al prof. Orsini) ma solo quello delle grandi corporation. Quindi, per farla breve e per essere benevoli, Orsini fortemente succube del mito americano e non andiamo oltre. Punto terzo. Orsini si definisce grande europeista e, purtroppo, c’è da credere alla sua sincerità, ma si tratta di una sincerità che confligge – e anche su ciò diamo credito ad Orsini sulla sua sincerità e quindi sul suo accecamento – con la sua volontà di voler rendere l’Italia più assertiva ed efficace in politica  estera. L’Unione Europea è nata per la volontà degli Stati Uniti di controllare il Vecchio continente uscito con le ossa rotte dal Secondo conflitto mondiale e, come si vede nella vicenda della guerra russo-ucraina, svolge egregiamente questo ruolo e non c’è molto altro da dire se non riflettere sull’ingenuità del prof. Orsini, ed anche, se proprio si vuole aggiungere una postilla, concordare  con il ragionamento di Orsini in merito al fatto che per la Francia l’Unione Europea è un moltiplicatore di potenza, ma anche sottolineare che, a differenza dell’opinione di Orsini, è assolutamente velleitario pensare che questo moltiplicatore di potenza possa valere anche per l’Italia, per il semplice fatto che per moltiplicare potenza, potenza bisogna avere e siccome la potenza internazione dell’Italia è uguale a zero, hai voglia a moltiplicare… . Quarto e ultimo punto. Orsini sostiene che l’Italia è un satellite degli Stati Uniti. Errore, grosso errore, errore da sottolineare con la matita blu. L’Italia non è un satellite degli Stati Uniti, perché com’è noto in astronomia, un satellite esercita una sua forza di gravità sul corpo celeste maggiore che va sotto il nome di pianeta, e usando quindi nella relazione di potenza fra Stati Uniti ed Italia la metafora del satellite, ciò vorrebbe dire che l’Italia esercita una pur minima influenza sugli Stati Uniti, ma questo è empiricamente smentito dai fatti, ricevendo l’Italia passivamente e servilmente i desiderata degli Stati Uniti senza portar un pur minimo contributo autonomo agli stessi (vedi sempre guerra russo-ucraina con la ridicolaggine che l’Italia è letteralmente indemoniata nel dire che bisogna fare a meno del gas russo, dimenticando il piccolo dettaglio che essa è la nazione occidentale che più dipende dallo stesso. In realtà l’Italia non è uno stato satellite degli Stati uniti come possono esserlo la Francia, la Germania o la Gran Bretagna, l’Italia è uno stato cliente degli Stati Uniti, dove, come nell’antica Roma, noi attribuiamo a questo termine il significato di uno stato che ha formale personalità giuridica internazionale e formale libertà di scegliersi al suo interno i propri governanti, ma che non solo in materia di difesa militare ma anche in quella delle scelte economiche vitali per il benessere della sua popolazione non può e non deve avere alcuna parola se non quella che direttamente le viene trasmessa dalla nazione con la quale è formalmente alleata ma, nella realtà, completamente sottomessa militarmente ed economicamente (rinuncia al gas russo per ordine degli Stati Uniti anche se questo può uccidere la nostra economia; aumento, sempre su direttiva degli Stati Uniti, delle spese militari per l’Italia anche se questo rischia di far schizzare la già nostra disastrata spesa pubblica, sempre su ordine diretto degli Stati Uniti, invio di armi all’Ucraina, anche se questo ci espone al rischio di essere la prima vittima sacrificale di una ritorsione nucleare da parte della Russia. I Romani con i regni clientes si comportavano esattamente come gli Stati Uniti con noi italiani: prelevavano soldati per le legioni, depredavano i territori dei regni clientes delle risorse minerarie, agricole ed umane, cioè, oltre ai soldati, imponevano de facto  presso costoro anche la fornitura di schiavi oltre quelli che già si procacciavano con la diretta brutale violenza dagli stati debellati tout court dalla loro forza militare). L’interesse della fenomenologia testé tratteggiata  è data dal fatto che col prof. Orsini ci troviamo di fronte ad uno studioso  –  contrariamente alla stragrande maggioranza  degli esponenti del circo intellettual-mediatico mainstream palesemente in malafede e/o talmente istupidito dal crollo delle ideologie novecentesche che “tout va très bien madame la marquise” –   che pur possedendo realmente una competenza geopolitica e pur volendo sinceramente far valere questa competenza a beneficio della nazione cui appartiene, non è riuscito ad acquisire quella necessaria souplesse che gli consenta di sbarazzarsi con decisione di tutti quegli idola fori  del c.d. Occidente che permettono ai gruppi alfastrategici di questo fantomatico e fantasmagorico Occidente di prevalere senza alcuno sforzo sui gruppi omegastrategici che vengono letteralmente privati della loro capacità critica e di autoconservazione vitale tramite l’uso   parareligioso della mitologia dei diritti dell’uomo e della c.d. democrazia rappresentativa (in Italia, sottomiti e diretta gemmazione del mito principale, mito dell’antifascismo presente anche all’estero ma mito dei vincitori per imporre la loro volontà di potenza agli sconfitti mentre in Italia è il mito degli sconfitti e per imporre la volontà di potenza delle classi egemoni sulle classi subalterne e mito della resistenza, anche questo presente all’estero ma in Italia particolarmente farlocco ed arma di “distrazione di massa” a totale detrimento, come nel primo caso, dei gruppi omegastrategici), democrazia e diritti dell’uomo che, secondo questo racconto mitologico, non solo dovrebbero essere imposti sui popoli che non ne vogliono sentire parlare ma, addirittura, dovrebbero essere la chiave di spiegazione universale per interpretare e giudicare le vicende storiche, culturali ed esistenziali dell’Umanità (e se l’imposizione è segno di mentalità imperialista mai morta, e questo passi,  scagli la prima pietra di chi non è mai stato imperialista magari solo sul piano personale, la spiegazione dell’avventura umana lungo le rotaie dei diritti umani e della democrazia quando non di malafede, è veramente segno di profonda ingenuità). In conclusione. Speriamo che la fenomenologia del prof. Orsini, pur segno a nostro giudizio, di buona volontà e anche di buone conoscenze in fatto di geopolitica, possa subire una sua evoluzione verso posizioni più mature ed adulte, speriamo cioè che il segno molto evidente della “fatica del concetto” rappresentato da questo studioso possa portare ad una Epifania Strategica non solo riservata a gruppi ristretti di intellettuali che pur onesti, si lasciano ancora abbindolare dagli idola fori liberaldemocraticistici lasciatici in eredità dal secondo dopoguerra ma anche ad un aumento dell’intelligenza collettiva che, per quanto non nutrita da approfondite conoscenze nelle masse, avverta  e sappia finalmente riconoscere quando i gruppi alfastrategici  tirano fuori le loro  supercazzole ideologiche per fregare gli omegastrategici nel sempiterno conflitto strategico fra gruppi con diverso livello di potere, una fregatura che oggi potrebbe avere come posta in gioco la distruzione dei gruppi omegastrategici stessi attraverso le prime fasi di un conflitto nucleare, prime fasi verso le quali i gruppi dirigenti avrebbero, c’è da scommetterlo, l’intelligenza e le risorse per mettersi al riparo in tempo mentre per i gruppi omegastrategici non ci sarebbe alcuno scampo se non raccomandare l’anima all’Altissimo (su questo punto Orsini è molto lucido: in polemica con Cacciari, per lui la guerra nucleare non significa distruzione di tutta l’Umanità ma, almeno all’inizio, distruzione delle classi più basse e subalterne della società: opinione banale, se vogliamo, ma di una banalità che è segno anche di anticonformismo e profondo realismo politico e sociale). Intanto, per quanto ci riguarda, teniamoci ben stretto, come il nostro (ed altrui, ce lo auguriamo) bene più prezioso la chiarezza terminologica e concettuale riguardo la condizione dell’Italia: l’Italia è stato cliente degli Stati Uniti e, come precedentemente detto, lungo questa consapevolezza si accettano suggerimenti, e perché no? anche dal nostro simpatico seppur non sempre del tutto conseguente prof. Orsini, al quale, comunque, va tutta la nostra solidarietà per i vili e stupidi attacchi ai quali è stato oggetto che testimoniano della sua libertà di studioso e che, ci auguriamo, porti ad una positiva evoluzione del suo pensiero. 

Stati Uniti! Turbolenze interne e avventure esterne_con Gianfranco Campa

Una amministrazione e una compagine politica in crescente difficoltà. Il tentativo di recuperare una narrazione che riesca ad attirare almeno in parte i consensi nel ceto medio professionale americano migrato ormai nell’area repubblicana. L’impossibilità di far corrispondere alle parole i fatti. La percezione che gli equilibri interni e il dominio degli attuali centri decisori siano ormai scossi definitivamente dal consolidamento della fase multpolare. Un mix esplosivo che sta spingendo i centri decisori verso scelte di vero e proprio avventurismo militare e di pura provocazione. La guerra in Ucraina è solo un momento di uno stillicidio sempre più frenetico. Il viaggio della famiglia reale di Giordania e di Mario Draghi negli Stati Uniti, l’opzione di ulteriore riarmo del Kossovo offrono qualche indizio sulle pedine più solerti e disponibili ad essere utilizzate in questa strategia della tensione continua e sulla geografia di questi futuri esercizi temerari. Le élites stanno cogliendo il punto di svolta e cominciano ad adeguarsi alla nuova realtà e ad approfittare delle nuove opportunità. E’ tempo di sollevare gli sguardi e uscire dall’apatia. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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“NON CE NE SIAMO DIMENTICATI”. Sul discorso del presidente Putin del 27 aprile 2022, di Roberto Buffagni

NON CE NE SIAMO DIMENTICATI”. Sul discorso del presidente Putin del 27 aprile 2022.

 

Il discorso del presidente Putin al “Consiglio dei legislatori” del 27 aprile1 segue immediatamente le dichiarazioni del Ministro della Difesa e del Segretario di Stato americani a Kiev2, che individuano come obiettivo strategico “rendere la Russia incapace di ripetere un’aggressione come quella all’Ucraina“; e la riunione della NATO a Ramstein, con le dichiarazioni del presidente Biden, secondo il quale ci troviamo in un frangente storico analogo al crollo dell’URSS3.

Le dichiarazioni ufficiali americane chiariscono che l’obiettivo strategico statunitense è la distruzione dell’integrità politico-territoriale della Russia, una frammentazione della Federazione russa sul modello jugoslavo analoga a quella che seguì il collasso dell’URSS. Infatti, solo così è possibile “rendere la Russia incapace di ripetere un’aggressione come quella all’Ucraina“. Finché la Russia resta politicamente coesa, essa resterà una grande potenza, che sarà SEMPRE in grado di muovere guerra ad altri paesi. Non lo sarebbe più soltanto quando fosse disgregata in entità politiche troppo piccole e deboli per designare autonomamente un nemico.

Ovviamente, su questa base è assolutamente impossibile ogni trattativa tra Ucraina e Russia, tra paesi occidentali e Russia. Le dichiarazioni ufficiali americane risultano infatti in una chiara minaccia esistenziale per la Russia.

Il discorso del Presidente Putin ne prende atto, e reagisce con fermezza, chiarendo che la Russia è disposta a opporvisi con tutti i mezzi a sua disposizione, e si richiama all’esperienza storica del suo paese:

Non abbiamo dimenticato i barbari piani dei nazisti per il popolo sovietico: scacciarlo. Ricordate, vero? Volevano costringere chi ne fosse in grado a lavorare come schiavi, a fare un lavoro servile, costretti in schiavitù. Chi venisse ritenuto superfluo, andava inviato oltre gli Urali o al Nord, per estinguervisi. Questo progetto è documentato, documentato storicamente. Noi non ce ne siamo dimenticati.

Ricordiamo anche come gli stati occidentali hanno incoraggiato terroristi e criminali nel Caucaso settentrionale nei primi anni ’90 e 2000, come hanno sfruttato i problemi del nostro passato, problemi reali, ingiustizie del passato nei confronti di interi popoli, compresi i popoli del Caucaso. Ma non lo hanno fatto per renderci migliori, nient’affatto. Hanno fatto tutto questo per riportare nel nostro presente i problemi del passato, per incoraggiare atteggiamenti separatisti nel nostro paese, e finalmente dividerlo e distruggerlo. Ecco perché hanno fatto tutto questo. Volevano ricacciarci nell’arretratezza. Molti hanno cercato di fare lo stesso con la Russia, in tutte le epoche.

[…] “Consentitemi di sottolinearlo ancora una volta: se qualcuno intende intervenire dall’esterno e creare una minaccia strategica per la Russia per noi inaccettabile, deve sapere che i nostri attacchi di rappresaglia saranno fulminei. Ne abbiamo gli strumenti, strumenti di cui nessun altro, oggi, può disporre. Non ci limiteremo a minacciare; li useremo, se necessario. E voglio che tutti lo sappiano: tutte le decisioni necessarie, su questo punto, sono già state prese.”

Da quanto sopra risulta che la Russia si dispone a combattere con tutte le sue forze per la propria sopravvivenza, e che è pronta a compiere gli stessi – spaventosi – sacrifici che l’hanno salvata dalla distruzione sia nella Seconda Guerra Mondiale (27 milioni di morti), sia nel più lontano passato, ad esempio contro l’invasione delle forze di coalizione europee guidate dalla Francia napoleonica.

Il 30 maggio 1962, alla Camera dei Lord, il Maresciallo Bernard Montgomery, Viscount El Alamein, disse: “Rule 1, on page 1 of the book of war, is: ‘Do not march on Moscow’.

L’Italia sta per partecipare a una guerra che si propone lo scopo di distruggere la Russia senza darsi neppure la pena di dibatterne in Parlamento. Per il bene dell’Italia, è necessario che tutti gli italiani protestino con la massima fermezza, in tutti i modi possibili e legali, contro questa decisione politica che coinvolge loro e i loro figli in una avventura bellica sciagurata.

2 “We want to see Russia weakened to the point where it can’t do things like invade Ukraine.” (Ministro della Difesa Austin) https://www.pbs.org/newshour/world/blinken-austin-return-from-visit-to-ukraine-say-russia-is-failing-in-war-efforts

Grammatica del costituzionalismo, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

A.A.V.V., Grammatica del costituzionalismo, a cura di C. Caruso e C. Valentini, Il Mulino, Bologna 2021, pp. 338, € 24,00.

Occorre una premessa: il costituzionalismo di cui tratta questa raccolta di saggi non è una dottrina della costituzione quale connotato necessario dello Stato, cioè indipendentemente dalla natura del regime politico, come scrivevano tanti pensatori, a partire da de Bonald per arrivare a Santi Romano. Secondo i quali ogni Stato per il solo fatto di esistere è una costituzione; e se non l’avesse non verrebbe neanche ad esistenza. Ogni Stato così non ha ma è un ordinamento giuridico (Santi Romano).

Come chiariscono gli autori, se “tutti i paesi del mondo hanno una Costituzione, e cioè un regime politico ispirato a taluni principi fondamentali, solo alcuni di essi hanno norme giuridiche fondamentali che riproducono i valori del costituzionalismo”. E quindi un costituzionalismo “ideologico” basato sull’art. 16 della Dichiarazione “dei diritti dell’uomo e del cittadino, secondo cui «la società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata né la separazione dei poteri stabilita, non ha una costituzione» o, meglio, non ha una Costituzione ispirata alle idee e ai principi del costituzionalismo liberaldemocratico”.

Questo era stato rilevato da Carl Schmitt nella Verfassungslehre, che lo riconduceva al concetto ideale di Costituzione, in particolare allo Stato borghese onde “Nello sviluppo storico della costituzione moderna si è affermato un particolare concetto ideale con tale successo che dal XVIII secolo sono indicate come costituzioni solo quelle costituzioni che corrispondono alle richieste della libertà borghese e contengono determinate garanzie di questa libertà”. I principi fondamentali dello Stato borghese di diritto sono la tutela della libertà individuale e dei diritti conseguenti; la distinzione dei poteri – nel senso di Montesquieu – quale principio di organizzazione dello Stato. Questo non esaurisce il “contenuto” dello Stato di diritto: la preminenza della legge (e del principio di legalità); lo stesso concetto di legge come regola generale, astratta o misurabile; l’indipendenza dei giudici, il sindacato del Giudice sugli atti amministrativi, ne sono i corollari fondamentali.

L’insieme dei principi (e corollari) crea l’architettura costituzionale avente il comune denominatore e scopo nell’istituire dei limiti al potere. Distinzione dei poteri, controllo giurisdizionale, indipendenza dei Giudici, concetto borghese di legge sono i pilastri (e i tramezzi) che danno forma alla limitazione del potere pubblico, pur riconoscendone la necessità ed insostituibilità.

Ciò stante il lavoro degli autori del volume, così attento ed apprezzabile, appare implementabile nella trattazione dei suddetti pilastri e tramezzi. In particolare in relazione alla giustizia amministrativa, alla “parità” delle parti pubblica e privata, all’indipendenza delle Corti.

Nell’auspicio che sia seguito da un’edizione arricchita, se ne consiglia la lettura.

Teodoro Klitsche de la Grange

REGNUM CLIENS, di Massimo Morigi

REGNUM CLIENS

Una precisazione (e per aprire una nuova fase) non solo della nostra discussione ma anche presso coloro che sentono insopportabili gli odierni vincoli internazionali cui è sottoposto il nostro paese, una proposta terminologica : l’Italia non è un paese alleato degli Stati uniti con scarsissima voce in capitolo in merito alle decisioni strategiche che lo riguardano, l’Italia non ha alcuna voce in capitolo non solo riguardo a queste decisioni strategiche, l’Italia non ha nemmeno alcuna voce in capitolo riguardo alle decisioni economico-produttive che impattano direttamente sulla vita dei suoi cittadini e ne configurano il suo assetto nell’economia del c.d. occidente, talché è totalmente fuorviante sostenere che l’Italia è il membro più debole di un’alleanza dove gli Stati unti sono il fratello maggiore, l’Italia non può quindi essere definito un alleato più o meno sottomesso vista questa disparità di forze ma la giusta definizione é Ital ia stato cliente degli Stati uniti, recuperando così la definizione di “regnum cliens” impiegato dai Romani, col la quale essi designavano quegli stati che formalmente avevano una vita politica autonoma (potevano avere una loro autonoma gerarchia politica purché non si mettesse di traverso a Roma) ma dovevano versare tributi a Roma e, all’occorrenza, fornire manovalanza militare. E si sottolinea un ulteriore fatto. Tale stato di “clientelaggio” dell’Italia verso gli Stati uniti è un’assoluta novità, anche se, ovviamente , le premesse c’erano tutte nella natura di un’alleanza squilibrata che, dopo, la fine della guerra fredda non poteva che evolversi, in mancanza di una reale discussione ed elaborazione da parte dei centri strategici nazionali (figurarsi!, vero La Grassa?) sulla mutata situazione internazionale (da questo punto di vista l’odierna situazione italiana è peggiore, molto peggiore, di quella preunitaria, laddove in quel periodo della nostra stor ia l’Italia era divisa in piccoli stati, alcuni clienti dell’Austria, ma altri, vedi il Piemonte e lo Stato della Chiesa avevano una loro individualità che, sebbene a fatica, si opponeva, se necessario e talvolta con estrema violenza, ai diktat della potenza egemone sul nostro territorio). Per concludere e per porre chiaramente una nostra primazia, nostra dell’ “Italia e il mondo”, voglio dire. La conclusione è che l’Italia adottando le scriteriate sanzioni antirusse imposte dall’America si è definitivamente trasformata da alleata degli Stati uniti in un “regnum cliens” degli stessi. La primazia che l’ “Italia e il mondo” deve rivendicare rispetto non solo alle pseudoriviste di geopolitica, magari molto scaltrire promozionalmente ma la cui funzione è simile a quella che una volta si diceva della filosofia, cioè che la filosofia è quella cosa con la quale e senza la quale tutto rimane tale e quale, ma soprattutto rispetto a tutti coloro, che nel passato come ancora oggi (oggi per la verità sempre più sparuti) si definiscono “sovranisti”, dove il problema non è tanto essere sovrani rispetto a tutto un resto del mondo che viene percepito ingenuamente come nostro nemico , ma il problema è, unicamente, uscire dalla condizione di “regnum cliens” degli Stati uniti. Chiarezza terminologica e chiarezza di obiettivi. Si accettano da tutti suggerimenti in proposito, ma dalla chiarezza concettuale e terminologica è indispensabile iniziare il percorso

L’energia non è una merce, ma una infrastruttura pubblica_di Davide Gionco

L’energia non è una merce, ma una infrastruttura pubblica
Tutti i danni che subiamo dalle privatizzazioni nel mercato dell’energia
Davide Gionco
21.04.2022

L’acqua, le infrastrutture pubbliche e l’energia
Nel 2011 gli italiani votarono a larga maggioranza (95,8%) a favore del referendum per il mantenimento del controllo pubblico sui servizi idrici.
La maggioranza degli italiani aveva capito che l’acqua è un bene comune fondamentale, senza del quale non possiamo vivere, la cui disponibilità non può dipendere dagli interessi economici di soggetti privati.
Senza acqua non possiamo sopravvivere come esseri umani e non possiamo produrre il cibo che mangiamo. Senza acqua molte aziende dovrebbero fermare la loro produzione, non avremmo il turismo, non avremmo i servizi pubblici. Senza acqua non potremmo neppure produrre energia elettrica tramite la combustione di gas, idrocarburi o carbone.
Se venisse a mancare l’acqua in un certo territorio del paese, quel territorio si spopolerebbe in brevissimo tempo, obbligando gli abitanti ad emigrare verso altri territori.
La disponibilità di acqua è un bene comune, una infrastruttura fondamentale da cui dipende la vivibilità e la sostenibilità economica del nostro Paese.

Analogamente alla disponibilità di acqua, un paese moderno non può sussistere senza disporre dell’accesso comune, a prezzi abbordabili, ai prodotti alimentari fondamentali, ad una rete stradale, ai servizi sanitari, all’istruzione di base, alle telecomunicazioni.
L’accessibilità ai servizi energetici, intesi come disponibilità di energia elettrica e come disponibilità di combustibile per produzione di energia termica, è con ogni evidenza una questione fondamentale per la sussistenza del nostro paese.
Senza energia, infatti, non possiamo garantire livelli di comfort accettabili nelle abitazioni, ma soprattutto non possiamo garantire la produzione di beni e servizi di cui abbiamo bisogno per vivere, dalla produzione di cibo, ai servizi sanitari, alla scuola, alla sicurezza, alle costruzioni, ecc.

La lungimiranza dei politici della Prima Repubblica
La classe politica che guidò l’Italia nel secondo dopoguerra, portandola dalle rovine della guerra al miracoloso boom degli anni ’60-’70, aveva le idee molto chiare riguardo al ruolo fondamentale delle infrastrutture pubbliche nello sviluppo del Paese.
A titolo esemplificativo richiamiamo le motivazioni espresse nel 1962 (“Nota aggiuntiva”) da Ugo La Malfa riguardo alla creazione dell’ENEL (Ente Nazionale per l’Energia Elettrica), tramite la nazionalizzazione di 11 aziende private del settore.
Il problema di fondo da risolvere era in primo luogo che le 11 aziende private miravano unicamente a realizzare i propri profitti, per cui tendevano a creare degli oligopoli o addirittura dei monopoli, per poi massimizzare i prezzi di vendita, non avendo gli acquirenti privati delle alternative. E questo fattore risultava penalizzante per la competitività delle aziende che si trovavano obbligate a pagare prezzi troppo elevati per l’energia elettrica.
In secondo luogo quelle aziende private del settore elettrico non avrebbero mai esteso il servizio alle zone più arretrate del Paese, in quanto non redditizio per i loro bilanci. Ma nessuno sviluppo economico delle aree arretrate del Paese sarebbe mai stato possibile senza avere accesso alla rete elettrica.

La soluzione ovvia, per la lungimirante classe politica del tempo, fu l’acquisizione di quelle aziende private e la loro nazionalizzazione. Dopo di che vi fu un piano nazionale di investimenti, con la realizzazione delle linee ad alta tensione, dei collegamenti con le nazioni estere e, infine, la decisione del 1967 di mettere l’ENEL sotto la sorveglianza diretta del CIPE (Comitato Interministeriale di Programmazione Economica), di concerto con il Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato.

Era chiaro a tutta la classe dirigente del tempo che l’energia elettrica non era una merce come tante altre, che poche aziende private potevano vendere per realizzare i propri profitti. Tali profitti, infatti, sarebbero stati ben poca cosa rispetto ai danni economici per mancata crescita causati all’intero Paese.
Il fatto di garantire a tutti, su tutto il territorio ed ad un prezzo “politico”, uguale per tutti e non esposto alle (inevitabili) manovre speculative dei rivenditori privati era un requisito fondamentale affinché decine di migliaia di imprese private potessero sviluppare la loro capacità di produrre beni e servizi di ogni genere.
La decisione del 1962 fu probabilmente fra le più determinanti per innescare l’incredibile boom economico italiano degli anni 1960.

Per ragioni del tutto analogo Enrico Mattei rifondò l’ENI stringendo tutta una serie di accordi internazionali, che consentirono all’Italia di approvvigionarsi di petrolio in modo continuo ed a prezzi controllati, senza essere esposti alle azioni speculative delle famose “sette sorelle” del petrolio (Exxon, Mobil, Texaco, Socal, Gulf, Shell, BP). Con molta probabilità questa azione fu la causa principale della morte in dinamiche mai chiarite dello stesso Mattei. Con la stessa logica i successori di Mattei alla guida dell’ENI stipularono accordi per la fornitura di gas con la Russia, con l’Algeria e con la Libia. L’obiettivo era sempre lo stesso: assicurare all’Italia un adeguato approvvigionamento di energia a prezzi abbordabili.

Il fondamento teorico di questa visione politica furono con ogni probabilità le pubblicazioni dell’economista Paolo Sylos Labini, il quale nel suo libro del 1956 “Oligopolio e progresso tecnico” spiegava come l’esistenza di poche imprese oligopoliste su fattori produttivi chiave, come ad esempio la distribuzione di energia, potesse di fatto impedire lo sviluppo di molte altre aziende. La soluzione proposta è che fosse lo Stato a prendere il controllo delle aziende distributrici di energia, in modo da eliminare l’obiettivo del massimo profitto e finalizzandole a garantire a tutti la fornitura di base dell’energia.

Non il prezzo più basso, ma prezzi stabili e approvvigionamento certo
Siccome il mercato internazionale dell’energia, in particolare del petrolio (dato che l’Italia decise presto di svincolarsi dal carbone) è sempre stato soggetto a speculazioni e fluttuazioni in conseguenza di cambiamenti geopolitici, ENEL ed ENI avevano il mandato di operare, per quanto possibile, per garantire prima di tutto l’approvvigionamento certo di energia, fondamentale per non rischiare l’arresto delle attività produttive. Il secondo obiettivo, per quanto possibile, era quello di garantire prezzi il più possibile stabili. Tale obiettivo era importante, perché anche le eccessive fluttuazioni dei prezzi dell’energia possono creare dei problemi al settore produttivo. Infatti l’eccessiva fluttuazione del costo dell’energie rende difficile la determinazione dei costi di produzione e, quindi, anche la pianificazione industriale.
Questo significa che, a livello politico-economico, è meglio per le industrie avere un prezzo dell’energia mediamente un po’ più altro, ma stabile, piuttosto che un prezzo dell’energia fortemente altalenante, anche se mediamente inferiore.
Per questo motivo l’ENI, che si occupava dell’approvvigionamento di energia primaria, tendeva a stipulare con i soggetti esteri dei contratti di fornitura di 20-30 anni, a prezzi concordati.
Questo tipo di contratti, peraltro, risultavano convenienti anche per i fornitori esteri, i quali potevano essere certi di ammortizzare i loro investimenti, come ad esempio quelli necessari per realizzare un gasdotto di 4000 km dalla Siberia settentrionale all’Italia.

I geni dell’Unione Europea e le liberalizzazioni
Fatte salve le eccezioni del 1974 (crisi energetica causata dalla guerra del Kippur) e del 1979-80 (crisi energetica causata dalla rivoluzione in Iran e poi dalla guerra Iran-Irak), nelle quali le oscillazioni dei prezzi dell’energia furono inevitabilmente scaricate sugli utilizzatori, il meccanismo dell’energia pubblica a prezzo controllato ha dimostrato di funzionare bene per diversi decenni.

Dopo di che, nel 1992, l’Italia sottoscrive il Trattato di Maastricht di istituzione dell’Unione Europea ed i successivi trattati che hanno via via ceduto sempre più poteri alle istituzioni europee.
Le prime richieste, già degli anni ’90, messe in atto convintamente da personaggi dal nome di Romano Prodi e Mario Draghi, furono quelle di privatizzare le grandi compagnie energetiche nazionali.
Tutto questo senza grandi analisi economiche, ma sulla base dell’assioma neoliberista per cui “privato è più efficiente e costa meno”.
Da quel momento ENI ed ENEL pensarono sempre di meno a garantire energia a prezzo controllato a cittadini e imprese in Italia e sempre di più a realizzare utili per i propri azionisti, come tutte le altre multinazionali del mondo.

Non stiamo dicendo che, quando ENI ed ENEL erano pubbliche, non ci fossero sprechi ed inefficienze. Ma stiamo dicendo che, come la storia ha dimostrato, gli obiettivi “statutari” di garantire l’approvvigionamento di energia a tutti gli italiani ed a prezzi controllati venivano assicurati, senza ridurre sul lastrico delle famiglie e senza portare alla chiusura le fabbriche a causa di un eccessivo aumento dei costi dell’energia.

L’aumentare del grado di privatizzazione nel settore dell’energia ha portato dapprima alla moltiplicazione del numero di rivenditori, portando in Italia non alla riduzione dei prezzi, ma soprattutto ad una riduzione della trasparenza nel settore, con la moltiplicazione di truffe e dei contratti-capestro venduti telefonicamente ad ignari consumatori e responsabili di piccole imprese, che non potevano essere specialisti di contratti energetici.

Il livello di privatizzazioni ha raggiunto il suo culmine la scorsa estate 2021, con l’attualizzazione della finanziarizzazione del mercato europeo del gas naturale.
Da allora il prezzo di vendita al dettaglio del gas non viene più determinato dai prezzi dei contratti di fornitura a lungo termine sottoscritti dall’ENI (o società omologhe di altre nazioni) con Russia, Algeria & c., ma dalle contrattazioni giornaliere presso la borsa TTF (Title Transfer Facility) di Amsterdam, dove centinaia di soggetti privati scambiano quantitativi virtuali di gas, con liquidazione attuale o differita (futures).

Il risultato di queste “riforme” non è stata la diminuzione del prezzo del gas in Europa, ma è stato un aumento medio del prezzo unito a fortissime oscillazioni del prezzo.

Le conseguenze del provvedimento europeo, dopo un anno di “liberalizzazioni”, dovrebbe portare immediatamente a fare retromarcia, essendo evidente che le dinamiche della finanza speculativa si adattano molto male ad un mercato fatto di rigidità strutturali come quello del gas naturale.
Ma non lo faranno, perché probabilmente l’obiettivo delle lobbies finanziarie che la fanno da padrone negli uffici di Bruxelles era proprio l’aumento delle rendite finanziarie nel settore dell’energia. Le rendite finanziarie vengono garantite sia dagli alti prezzi, sia dalle frequenti fluttuazioni dei prezzi.
Per questi soggetti l’energia è una merce come tante altre, mentre per cittadini ed imprese è quasi come l’aria che respiriamo, di cui non possiamo fare a meno.

I contratti oil-link e gas-to-gas
Per spiegare le ragioni delle disfunzionalità delle liberalizzazioni europee nel mercato dell’energia, in particolare del gas naturale, dobbiamo prima di tutto comprendere le tipologie di contratti di acquisto del gas naturale.
Siccome oltre il 40% dell’energia elettrica prodotta in Italia è generata dalla combustione di gas naturale, il prezzo del gas naturale incide direttamente sul prezzo dell’energia termica (riscaldamento, produzione industriale), sia indirettamente, causando un aumento del prezzo dell’energia elettrica.

La quasi totalità del gas naturale importato in Italia è acquistato all’ingrosso da 3 operatori: ENI, Enel ed Edison. Questi operatori hanno stipulati dei contratti a lungo termine (durata 20-30) per grandi quantitativi di gas. Vengono definiti “oil-link” in quanto generalmente il prezzo di acquisto del gas è modulato in funzione dell’andamento del prezzo del petrolio (oil in inglese).
La caratteristica più importante di questi contratti non è solo la relativa stabilità del prezzo, ma è il fatto che gli ordinativi di grandi quantità di gas vengono fatti tenendo conto delle previsioni di consumo dell’Italia (famiglie, imprese e produzione di energia elettrica) e tenendo conto delle possibilità di stoccaggio del gas in Italia. I fornitori esteri, per il fatto di utilizzare condotte del gas di un certo diametro, hanno una capacità di punta di consegna del gas limitata, quindi prevedono la consegna anticipata del gas durante i periodi a bassa domanda (primavera, estate, autunno) in modo da fare fronte alla domanda di picco invernale. Un’altra caratteristica di questi contratti è il “take or pay” ovvero che il gas ordinato deve essere pagato, anche se poi non ne viene richiesta la consegna, per il fatto che il fornitore non può garantire di essere in grado di consegnare la stessa quantità in seguito, a causa dei limiti di capacità dei gasdotti.
Il concetto di fondo di questi contratti è la pianificazione, la quale consente di ottimizzare l’uso degli impianti sia lato paese fornitore, sia lato paese consumatore, nonché di tenere abbastanza sotto controllo i prezzi.
Pianificazione è ciò che è necessario per assicurare ad un paese di 60 milioni di abitanti, famiglie e industrie, il necessario approvvigionamento di energia.

Questo tipo di contratti sono stati la norma dagli anni ’70, con le prime forniture di gas dall’estero, fino allo scorso anno 2021. Dopo di che l’Unione Europea ha “liberalizzato” il mercato del gas naturale, consentendo a molti piccoli soggetti di stipulare dei “mini-contratti” di acquisto di gas, con il prezzo di acquisto slegato dal prezzo del petrolio e per questo denominati “gas-to-gas”.
Il prezzo di acquisto del gas viene quindi stabilito dal fornitore sulla base degli ordinativi che riceve.
Il prezzo di vendita del gas sul mercato europeo viene deciso dalle contrattazioni giornaliere presso la sopra citata borsa TTF di Amsterdam, con il meccanismo del prezzo marginale.
In sostanza, nelle regole di incontro fra domanda e offerta, i prezzi di vendita del gas vengono gradualmente aumentati fino a soddisfare tutta la domanda di gas, dopo di che il prezzo della “quota finale” di gas venduta per soddisfare la richiesta degli ultimi acquirenti di gas viene utilizzato come prezzo di vendita di tutto il gas.
Facciamo un esempio per spiegare meglio: se il 50% del gas viene acquistato dai venditori a 25 €/MWh e poi un altro 45% al prezzo di 50 €/MWh e infine il restante 5% viene acquistato al prezzo di 75 €/MWh, tutto il gas messo in vendita viene prezzato a 75 €/MWh, consentendo grandi utili a chi lo ha acquistato a 50 €/MWh e ancora di più per chi lo ha acquistato a 25 €/MWh.
Fra i venditori di gas non ci sono soltanto i produttori (Gazprom & c.), ma ci sono anche tutti gli investitori che hanno acquistato precedentemente gas ad un prezzo inferiore che ora lo rivendono ad un prezzo superiore.
Così come fra gli acquirenti di gas non ci sono soltanto coloro che poi lo distribuiscono a famiglie e imprese, ma ci sono anche coloro che lo acquistano oggi, per poi rivenderlo a domani ad un prezzo superiore.
E, come sempre avviene nei mercati finanziari, ci sono coloro che guadagnano sulle vendite allo scoperto e sui futures, scommettendo sulle variazioni future dei prezzi del gas.

Data la possibilità di realizzare grandi utili finanziari, la domanda di gas verso i pochi produttori di gas reale è stata “drogata” dalla stipula di moltissimi contratti a breve termine, definiti contratti “spot”, della durata di poche settimane o addirittura di un solo giorno.
Lo scopo di questi contratti non è garantire l’effettiva consegna di gas agli utenti finali, ma unicamente realizzare dei profitti finanziari.
Quindi, senza la minima pianificazione, i produttori di gas hanno ricevuto dei contratti di acquisto di gas “spot” che non tenevano per nulla conto della capacità di consegna fisica del prodotto.
Di conseguenza hanno fissato dei prezzi di vendita molto elevati, sia per fare maggiori utili, sia per scoraggiare questo tipo di contratti totalmente disfunzionali per il loro mercato.
Anche perché in questi contratti di breve termine “gas-to-gas” non esiste l’impegnativa al ritiro della merce, se non viene pagata.
Il risultato è stato che questi prezzi “marginali” relativi a contratti di ordinativi di gas “teorici”, gas che in molti casi non è mai stato né pagato né consegnato, hanno determinato il prezzo marginale del gas naturale nella borsa di Amsterdam e, quindi, il prezzo di vendita del gas a livelli mai visti sul mercato europeo.
Naturalmente le incertezze sulle future forniture di gas, a causa del conflitto in Ucraina e delle sanzioni europee alla Russia, hanno ulteriormente esasperato queste dinamiche che erano in atto già a partire dalla scorsa estate.

Per chi fosse interessato ad approfondire ulteriormente la questione consigliamo la lettura di questo articolo.

I danni causati all’economia italiana
Queste disfunzionalità derivanti dal cambiamento dei metodi di quotazione del gas in Europa hanno già causato e stanno causando danni immensi all’economia italiana.
Stiamo parlando di un “furto”, tutt’ora in corso, del valore di alcune decine di miliardi di euro a carico delle nostre famiglie e delle nostre imprese.
Alcune imprese particolarmente energivore (acciaierie, fonderie, vetrerie, ceramica, cemento, legno e carta) hanno già ridotto o addirittura arrestato la produzione, in quanto con questi prezzi dell’energia non sono in grado di produrre a prezzi che i loro clienti possano sopportare.
Questo ci costa fin d’ora un aumento della disoccupazione.

Il rincaro del gas naturale e dell’energia elettrica (prodotta bruciando gas) ha già portato ad un aumento considerevole dei prezzi al consumo, così come alla riduzione dei margini di guadagno di moltissime imprese.
Non essendoci le condizioni per un aumento dei salari, questo porterà ad un aumento della povertà in Italia (oltre agi attuali 5 milioni di poveri assoluti).

Ma i danni peggiori ci arriveranno dalla mancanza di pianificazione.
Stanti gli attuali alti prezzi di acquisto del gas e stante la perdita di quote di mercato da parte dei grandi distributori storici, come ENI, in questo momento nessuno ha interesse ad acquistare gas a prezzi elevati per immagazzinarlo in vista del prossimo inverno.
Il rischio reale è che il prossimo inverno ci ritroviamo con scorte insufficienti di gas, perché non ce ne sarà abbastanza per soddisfare la domanda di punta del prossimo inverno.
A quel punto Mario Draghi, per coprire il misfatto, ci dirà che “abbiamo deciso” di applicare delle sanzioni alla Russia per la guerra in Ucraina, per cui dovremo “fare sacrifici” e rinunciare ad una parte rilevante (20-25%) delle forniture di gas, per “punire Putin”.
Questo mentre in realtà la vera causa della carenza di gas del prossimo inverno saranno le dinamiche speculative e prive di pianificazione del mercato del gas europeo.

Il risultato, inevitabile, sarà un ulteriore aumento dei prezzi del gas in Italia, questa volta a causa della scarsa disponibilità di fronte alla domanda. Il tutto unito al razionamento del gas, per cui molte imprese dovranno forzatamente ridurre la propria produzione e licenziare del personale.
Lo stesso avverrà con l’energia elettrica, dato che con la scarsa disponibilità di gas sarà necessario razionare anche l’energia elettrica (prepariamoci a delle interruzioni periodiche), oltre al fatto che la pagheremo a prezzi mai visti.

Tutto questo lo scriviamo ora, che siamo ancora in tempo a cambiare le regole di determinazione dei prezzi e per reintrodurre dei criteri di pianificazione nelle forniture di gas.
Che qualcuno intervenga, prima del disastro nel nostro Paese, a preservare l’infrastruttura pubblica che è l’energia.
Le autorities dell’energia o  la Magistratura.

PACE E GUERRA IN UCRAINA, di Teodoro Klitsche de la Grange

PACE E GUERRA IN UCRAINA

Quanto si legge e si vede sulla “liceità” della guerra in Ucraina presenta quasi sempre lo schema argomentativo seguente:

  1. a) si prende un manuale di diritto internazionale e se ne ricavano le norme ed i concetti applicabili (sovranità, guerra, aggressione)
  2. b) li si applica alla situazione concreta
  3. c) e ne consegue inevitabilmente la condanna della Russia aggressore e trasgressore del diritto internazionale

Questo nei casi meno bellicosi; negli altri, in cui la condanna dell’aggressore è caricata di valori i quali incrementano il sentimento d’ostilità, il nemico diviene criminale, macellaio, genocida ecc. ecc.

Nulla da obiettare per la prima categoria: è chiaro che la Russia è aggressore e la ricorrenza di circostanze attenuanti (come gli scontri pluriennali nel Donbass – quasi, a leggere certi “pezzi”, una guerra a bassa intensità) non vale ad escludere l’aggressione.

Tuttavia tale ragionamento, esclusivamente giuridico non esaurisce la riflessione politica (e filosofica) sulla “giustificazione” della guerra. Se sostituiamo all’armamentario lessicale e concettuale giuridico quello politico e filosofico e alla coppia lecito/illecito (o legale/illegale) quella opportuno/inopportuno (e quanto ne consegue) il risultato è diverso.

In effetti da secoli il contrasto tra ciò che è lecito e ciò che è opportuno (tra “dovere” ed “essere”) è uno dei temi ricorrenti del diritto pubblico, non solo internazionale. Il prezzo da pagare per rispettare il diritto può consistere perfino nella distruzione dell’esistenza politica (e financo fisica) di una comunità; e nessun governante (che sia tale) è disposto a pagarlo, non foss’altro perché il principio del rapporto tra politico e giuridico è proprio l’inverso: salus rei publicae suprema lex.

Il che ha comportato una diversa valutazione della condotta. Ad esempio la guerra di aggressione. L’opinione dei teologi-giuristi della seconda Scolastica (e non solo) è che bellum defensivum semper licitum. Che lo fosse anche quello d’aggressione, non dipendeva solo dall’essere gli Stati sovrani titolari dello jus belli, ma anche da avere delle fondate ragioni per iniziare guerre scegliendo tempi e modi: guerre per lo più preventive.

Come scriveva Montesquieu (tra tanti) il diritto di difendersi comporta talvolta la necessità di attaccare, laddove indispensabile a salvare la comunità, (De l’ésprit des lois, X, 2). Ciò riprendeva le considerazioni di Suarez che “anche la guerra d’aggressione non è sempre di per se illecita (malum) ma può essere onesta e necessaria”. E al concetto di justa causa belli (cioè di giusta causa) va ricondotto il diritto di contrastare/reprimere i torti (iniuriae), dato che tra gli Stati non c’è un’autorità che possa decidere sul diritto né eseguire le decisioni, come all’interno delle unità politiche.

Diritto, esistenza, potenza (più gli ultimi che il primo) sono i criteri per l’esercizio legittimo del diritto di (muovere) guerra. La questione si complica poi, quando l’ostilità non assume la forme classiche  dell’invasione, del blocco navale, dell’interdizione di vie di comunicazione, ma quelle più sfumate, fino ad arrivare al c.d. soft power. Peraltro chiamato in causa spesso nella vicenda ucraina, quale causa dell’aggressione russa, attribuendo a Putin il terrore che un’Ucraina democratica, rispettosa dei “diritti comuni” ecc. ecc. avrebbe potuto indurre i russi a sbarazzarsi del regime autocratico del (nuovo) zar.

Ma chi lo sostiene non ha pensato che la convinta adesione alla NATO ed all’ “area” occidentale di ex satelliti sovietici come Ungheria e Polonia non ha affatto impedito agli stessi di essere assai critici nei confronti dell’U.E., di cui fanno parte e di cui criticano proprio il concetto di “Stato di diritto”, un po’ ristretto e molto strabico nel pensiero della nomenklatura europea. D’altra parte polacchi e ungheresi sono per motivi assai più seri – perché suffragati dalla storia – i più ostili alle pretese russe (un tempo sovietiche) di egemonia nell’Europa orientale. Tra chi avanza titolo di essere considerato difensore della libertà per il sangue versato nelle rivolte e guerre antisovietiche del XX secolo o in quelle anti-russe di quello precedente e chi predica i “diritti umani” chi è più credibile? I popoli che hanno pagato col sangue l’amore per l’indipendenza e la loro (scomoda) situazione geografica o chi sculetta nei gay-pride?

Pertanto appare secondario sia il (preteso) timore di Putin per l’appetibilità della democrazia liberale versione Bruxelles sia, ancor di più, la capacità attrattiva della suddetta versione.

Piuttosto, guardando una cartina geografica, e ricordando quanto capitò sessant’anni fa durante la crisi di Cuba – a parti invertite – è comprensibile che Putin, come  a suo tempo Kennedy – non voglia al proprio confine meridionale uno Stato aderente ad una alleanza potenzialmente avversa, esteso dalla Moldavia al Kuban e il cui confine settentrionale è a circa seicento chilometri da Mosca. Distanza non indifferente, ma ricordiamo che la Wermacht con i mezzi e la situazione di allora assai più propizie alla difesa, fu in grado di percorrerla in un paio di settimane. E senza ricordare che l’Ucraina – o almeno la parte orientale – fa parte della “civiltà” russa (Toynbee e Hungtinton). Ragioni che appaiono assai più rilevanti dell’attrattiva resistibilissima degli ideali U.E.

Teodoro Klitsche de la Grange

Ucraina, una realtà rimossa_con Max Bonelli

Poiché il Team di You Tube ha rimosso il video, l’unico link disponibile è quello di rumble. D’ora in poi si suggerisce di privilegiare tale accesso

La realtà della situazione in Ucraina fatica pesantemente ad emergere non ostante alcune crepe che qua e là cominciano ad emergere nel sistema mediatico nazionale. Una cappa opprimente comune a tutti i paesi europei, ma che in Italia sta raggiungendo i vertici della disinformazione più dozzinale. Negli Stati Uniti, come testimoniato anche dal filmato iniziale di questa conversazione, la situazione è in buona misura diversa e più favorevole. Merito soprattutto dello scontro politico aperto fra le compagini politiche e all’interno degli stessi centri decisori; grazie anche al fatto che quanto avviene in Europa e nell’Ucraina stessa non è solo la conseguenza, ma l’esito diretto di decisioni statunitensi prese sul campo con una catena di comando sempre più diretta. E le decisioni, per essere prese e per renderle efficaci, hanno bisogno di una relativa trasparenza nella fase di elaborazione. I paesi europei sono sempre più, con rare eccezioni, soggetti passivi di queste scelte. La mediocrità tragicamente banale del ceto politico e della classe dirigente italiani, a cominciare dai nostri due presidenti, ne sono l’emblema più disarmante e sconfortante. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/v116vrq-ucraina-una-realt-negata-con-max-bonelli.html

Potenza come griglia di lettura n. 12 di RAFPHAEL CHAUVANCY

Preferendo l’amministrazione delle cose al governo degli uomini, i nostri contemporanei hanno accarezzato il sogno di un villaggio globale pacifico. Gli interessi incrociati dovevano sostituire le relazioni di dominio. Il clamoroso ritorno della storia ha spazzato via questo sogno. Le interdipendenze non impediscono gli scontri. Il Cremlino sviluppa le sue armi avanzate con componenti europei; gli americani fabbricano i loro aerei con minerali cinesi rari mentre gli ucraini si riscaldano con il gas dei russi che uccidono i loro figli.

Il puro interesse materiale e le ideologie non sono quindi riusciti a pacificare il mondo né a spiegarne le convulsioni. Quindi dobbiamo cercare altrove il motore del sistema strategico globale. Criticata da autori come Bertrand Badie, la cui fragilità concettuale nasce dalla sfida insostenibile di voler spiegare le relazioni internazionali senza parlare di strategia, la nozione di potere e i suoi meccanismi offrono proprio una griglia di lettura globale e coerente. Dobbiamo ancora essere d’accordo sulla sua definizione.

Il potere è una relazione strategica

L’uomo è un essere sociale proiettato nel tempo. Vale a dire, un animale politico e storico la cui azione collettiva sposa le forme della strategia. Organismi collettivi organizzati, le società perseguono i propri obiettivi, il primo dei quali è garantire la sostenibilità e la prosperità di una comunità definita in un determinato territorio. La loro moltiplicazione ha portato gradualmente i loro interessi a incrociarsi, a scontrarsi.

Leggi anche: Cos’è il potere? Riflessioni incrociate. Serie speciale Conflitti

L’area mondiale si è così convertita in un sistema strategico animato da rivalità di potere, questo rapporto sfaccettato e sinergico che è, tenuto conto della necessità, l’effetto della proiezione nello spazio e nel tempo di una volontà strategica ragionata sull’ambiente materiale e immateriale .

La potenza è una relazione comparativa a somma zero. In un mondo che cambia, una potenza che non progredisce corre il rischio di una regressione meccanica. Per questo non può essere pensata al di fuori delle condizioni della sua crescita in un quadro di competizione, contestazione o confronto tra gli unici attori che ne raccolgono tutte le caratteristiche, gli Stati.

I meccanismi del potere si basano su tre principi uguali e senza tempo comuni a tutte le sfere culturali: necessità, volontà e legittimità. Si suddividono in fattori ed elementi.

La necessità è il peso dei dati di partenza, degli elementi quantificabili. Obiettivo, riunisce dati fisici e cognitivi. Copre la geografia, la demografia o le risorse economiche di un paese e determina i concreti equilibri di potere. Lei è il braccio.

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Principio guida, la volontà è la capacità di concepire un piano strategico, determina l’obiettivo da raggiungere, detta la procedura da seguire e avvia l’azione. Sfrutta le opportunità, supera i vincoli, aggira gli ostacoli o forza la resistenza. Lei è la testa, con tutto ciò che la mente umana ha di razionalità, ma anche di errori o imprevisti.

Infine, la legittimità assicura la coesione di una società attorno a valori o convinzioni condivisi e le dà la sensazione di compiere un’azione giusta, bella, buona o quantomeno necessaria. Riguarda le forze morali. Lei è il cuore.

Mappatura e dinamica della potenza

È possibile mappare cinque tipi principali di rilievi di potenza.

Al vertice c’è la ristretta cerchia delle superpotenze, come l’URSS ieri, gli Stati Uniti oggi, la Cina domani. Hanno tutte le carte in mano per imporre la loro direzione nel mondo.

Poi arrivano le potenze medie a vocazione globale come la Francia o l’Inghilterra, a cui un giorno potrebbero unirsi l’India o la Germania. Se la storia ha talvolta offerto loro l’illusione di una possibile egemonia, hanno imparato a misurare il peso della necessità e a conoscerne i limiti.

Il terzo piano riunisce potenze regionali, come il Brasile o l’Australia, difficili da aggirare in una sfera delimitata.

Questi livelli raggruppano i poteri attivi. Le pianure e le valli successive sono il dominio dei poteri passivi.

Vi troviamo le nazioni deboli, ma prospere, attaccate solo ai loro interessi immediati, come molti paesi europei. Per mancanza di volontà, costituiscono una semplice posta in gioco tra i grossi che contestano i clienti.

Il livello più basso è quello degli Stati deboli e poveri, che hanno solo interessi locali. Le loro carenze in tutte le aree sono tali da formare solo una landa desolata dove le grandi potenze si oppongono più o meno liberamente; ci sono un certo numero di paesi dell’Africa nera, dell’America Latina e dell’Asia.

Naturalmente entrano in gioco altri fattori. Potrebbero riguardare il clima di potere. I poteri freddi sono conservatori. Hanno interesse a congelare in misura maggiore o minore la scena mondiale e sono per definizione stabilizzanti, come la Francia o il Marocco, che perseguono politiche di sovranità, influenza ed equilibrio.

Al contrario, i poteri caldi sono revisionisti. Hanno aspirazioni imperiali, globali nel caso delle superpotenze, o regionali per stati come la Turchia .

Questa mappatura può essere dettagliata o orientata in base alle esigenze analitiche. Facilita la comprensione delle forze coinvolte e delle dinamiche di potere naturali o accidentali.

Il movimento di correnti calde o fredde porta meccanicamente a perturbazioni, come l’incontro dell’espansionismo turco e del conservatorismo francese nel Mar Egeo. I fenomeni naturali di erosione del potere, di cui la Russia ha notato l’importanza dopo la caduta dell’URSS, richiedono accordi o azioni più o meno riuscite per mantenere un ambiente favorevole; quando blocchi importanti si sono staccati dal corpo centrale come fa l’Ucraina, il volontarismo si oppone alla forza di gravità con le conseguenze che abbiamo visto.

Alcuni movimenti tettonici sotterranei preannunciano quindi tsunami, che possono verificarsi durante i grandi cambiamenti demografici: ci si può quindi interrogare sulla sostenibilità sociale degli Emirati Arabi Uniti dove il 10% dei cittadini annega in una massa del 90% di estranei.

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Le dinamiche di ascesa o declassamento obbediscono a determinate regole e provocano naturalmente depressioni o tempeste. Se i geografi sono stati in grado di parlare di riscaldamento globale, il riscaldamento geopolitico è una realtà molto preoccupante che richiede l’adozione di misure per mitigarlo, se possibile, per prepararci sicuramente.

Lo stratega è quindi simile al geografo. La conoscenza dei meccanismi del potere gli permette di comprendere i fenomeni indotti e di anticiparli, individuando tendenze o probabilità in assenza di certezze fuori portata.

Equilibri e squilibri

La tettonica dei poteri potrebbe essere approssimativamente riassunta come un equilibrio che viene continuamente perso e perennemente ritrovato.

I periodi di anarchia sono quelli in cui la rottura è tale che il riequilibrio è impossibile, come dopo la caduta dell’Impero Romano. Le crisi maggiori sono l’espressione di una violenta oscillazione del pendolo per contrastare un cambiamento troppo brutale per essere digerito gradualmente. Nel 1914, la guerra non derivava tanto dal desiderio di combattere del Reich quanto dalla dinamica creata dal fantastico aumento della sua potenza demografica, economica e militare a partire dal 1870. La forza di gravità costruita attorno al potere germanico non poteva che dislocare il edificio internazionale.

I movimenti strutturali sono più durevoli del frutto degli scontri cinetici. Non fu Waterloo che spinse la Francia al secondo rango di potenza nel 19° secolo . È il processo di unificazione tedesca che ha progressivamente ridotto il suo peso relativo nel concerto europeo. Inoltre, lo schiacciamento militare totale della Germania nel 1945 non le ha impedito di riprendere gradualmente e naturalmente la leadership europea.

La legge del ritorno all’equilibrio significa che i poteri che contano sono generalmente rimasti gli stessi nel corso dei secoli. È eccezionale che una nazione esca dal cerchio che gli è proprio, ma quando ciò accade è ancora più raro che riesca a ritrovarla.

Le evoluzioni che possono causare squilibri hanno ritmi molto vari. Nel regno della necessità, sono generalmente lenti, salvo incidenti come la scoperta di materie prime vitali o di alto valore: gli idrocarburi hanno trasformato una piccola nazione remota in uno degli stati più prosperi del globo all’inizio degli anni ’70.

È in termini di volontà che le rotture sono più rapide e l’influenza del libero arbitrio individuale o collettivo è decisiva. Personalità forti come i Presidenti Putin o Erdogan hanno segnato le Relazioni Internazionali contemporanee; la resilienza collettiva del popolo ebraico ha permesso loro di superare due millenni di dispersione e persecuzione per ricreare finalmente uno stato in pochi anni.

I criteri di legittimità generalmente conoscono solo evoluzioni progressive e sotterranee. Ma quando l’architettura delle credenze è cambiata, è difficile tornare indietro. La Corte di Versailles lo scoprì a suo danno nel 1789 prima che il mondo intero ne rimanesse sconvolto.

Sebbene i cambiamenti creino opportunità, non tutti vale la pena coglierli. Uno squilibrio troppo grande a favore di un attore provoca in cambio una reazione virulenta e coordinata dei suoi avversari, dei suoi partner, persino dei suoi alleati. Uno Stato deve porsi anche la questione della sua capacità di assorbire un forte aumento di potere. La rana non vince volendo essere più grande del bue…

Modellazione piuttosto che shock

Altri meccanismi derivano dalle contraddizioni interne di qualsiasi stato, sistema, situazione. Mao ha anche teorizzato il suo sfruttamento strategico. Gli Stati Uniti, ad esempio, hanno difficoltà a conciliare la propria identità democratica e la propria natura imperiale. All’interno della stessa alleanza formata dalle democrazie, una forte antilogia distingue la visione francese del multilateralismo, considerato come un’opportunità per creare spazio di manovra, e l’approccio americano, che lo vede come una minaccia al suo status di iperpotenza.

Un paradosso è che la potenza trattenuta è maggiore della potenza impiegata. Quest’ultima, infatti, è una spesa in conto capitale il cui beneficio resta da dimostrare. L’Inghilterra ha costruito il suo dominio assistendo alle grandi conflagrazioni europee molto più che partecipando ad esse. Mentre i suoi avversari si esaurivano in futili litigi, accumulò capitali, costruì navi mercantili, estese le sue reti finanziarie e liberò le terre vergini dell’America e dell’Oceania che offriva al suo vigore demografico e pionieristico.

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Se la manovra di Vladimir Putin in Crimea nel 2014 è un caso da manuale dell’uso strategico dei movimenti naturali al lavoro, l’aggressione in Ucraina nel 2022 illustra i misfatti di uno sterile degrado. Il potere militare, politico e diplomatico russo è stato ridotto e le sue risorse economiche sono state gravemente colpite. Allo stesso modo, l’abuso del diritto di veto da parte dei russi all’ONU è il modo migliore per mettere in discussione il principio stesso. Come contrappunto, la Francia è attenta a non usare la propria per evitare che la sua legittimità venga contestata, il che contribuisce al suo status di potenza globale responsabile.

Sorprendentemente contraddittoria, una saggia politica di potere può consistere nel… favorire l’aumento di quelli di altri attori. È improbabile che un paese come la Francia possa aumentare notevolmente le proprie risorse oltre certi limiti. D’altra parte, potrebbe mirare a rafforzare gli stati subordinati a scapito dei suoi concorrenti.

Se vuoi la pace, prepara la guerra. La debolezza uccide, lo dimostrano i telegiornali. Una griglia di lettura interessata solo agli scontri tra rivali, invece, mancherebbe il punto. L’esperienza delle due guerre mondiali, la deterrenza nucleare e la sempre più marcata riluttanza dell’opinione pubblica a versare il proprio sangue hanno provocato un cambiamento nelle rivalità di potere.

Il confronto, cioè la guerra aperta tra nemici, ha perso la sua centralità a vantaggio della contesa indiretta tra avversari e, ancor più, della competizione globale tra tutti i giocatori, anche tra gli alleati.

Mentre, anche a livello militare, conta sempre meno brillare sul campo di battaglia che durare, i percorsi contemporanei del potere emarginano le nozioni di vittoria e sconfitta. Alfa e omega del pensiero delle relazioni internazionali fino al secolo scorso, sono diventate obsolete. La vittoria riflette solo una momentanea pressione volontaristica contro la natura delle cose o l’equilibrio del potere. Inoltre i suoi risultati svaniscono rapidamente. Sarebbe esagerato paragonarlo a un’illusione?

Il potere di uno Stato non risulta da una determinata situazione, ma da un approccio integrato e da un equilibrio sostenibile tra risorse, volontà e legittimità. È perché è globalmente equilibrato internamente che la Francia è una potenza di bilanciamento esternamente. Al contrario, una Russia volontarista, povera e troppo armata può solo svolgere un ruolo destabilizzante.

Nonostante l’apparente contraddizione tra i due termini, il potere può essere equiparato al consenso, anche se è ovviamente fabbricato. Questo consenso è dovuto all’influenza di un modello sociale, prestigio politico, credibilità militare, prosperità economica, attrattiva culturale, ecc. termine di uno stato percepito come utile nel peggiore dei casi, generalmente necessario, ammirevole nel migliore dei casi.

Se l’arte della tattica dominava quando i principi misuravano il proprio potere con il metro di una provincia conquistata, è oggi emarginata da quella della strategia e della pianificazione ambientale. Quest’ultimo consiste nell’occupare spazi lacunari, rinchiudere i rivali in una fitta rete di dipendenze strutturali sotterranee e assicurarsi un margine di manovra sovrano. Possiamo così completare la cartografia dei poteri con quella delle loro dipendenze materiali e immateriali.

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Un gigante economico, la Germania, per esempio, sta pagando il prezzo dell’ingenuità, divisa tra la sua sottomissione energetica a Mosca e la sua dipendenza dalla sicurezza da Washington. Nazione prospera amministrata liberamente, scopre con stupore di non essere sovrana per mancanza di libertà di manovra. Un paese può essere uno stato di diritto, anche senza sovranità. D’altra parte, non ha più la capacità di decidere sul suo futuro e di attuare le sue scelte, che è la definizione stessa di libertà politica e la ragion d’essere della democrazia.

Conclusione

La storia è una linea spezzata. Non ha un significato particolare, ma ripercorre le avventure di competizione tra gruppi umani. Ogni confronto è, soprattutto, un movimento e un’interazione creativa le cui conseguenze non sono tutte negative.

Il mondo contemporaneo ha comunque rotto con la nozione di pace. Militari o meno, la guerra infuria tra le nazioni. Non si oppone più solo agli apparati statali come in passato, ma alle società stesse nel loro insieme.

Nulla ora sfugge al gioco dei poteri. Mark Galeotti ha pubblicato a gennaio 2022 un libro dal titolo evocativo: L’armamento di tutto . Tutto diventa strumento di combattimento. Tutto diventa un’arma.

Questo nuovo sistema globale, come abbiamo visto, non è così anarchico come si potrebbe pensare a prima vista. Se riserva naturalmente sorprese, obbedisce a regole e meccanismi accessibili alla comprensione umana.

Leggi anche: Potenza ed economia: gli impasse della Francia

Gli europei in generale ei francesi in particolare non sono stati in grado di anticipare crisi sanitarie, economiche o militari che sono comunque ampiamente prevedibili. L’obsolescenza di griglie di lettura terribilmente restrittive, siano esse quella economica liberale o quella consistente nel confinare le Relazioni Internazionali a una forma di sociologia, è costata loro cara.

In un’epoca di effetti combinati e scontri interni, questi echi del passato interessano solo alla ricerca storica. Il futuro è irto di minacce e richiede strumenti concettuali in grado di conciliare l’analisi dei rapporti di potere grezzi, tenendo conto dell’imprevedibilità delle decisioni collettive o individuali e del ruolo delle forze morali. Vale a dire la necessità, la volontà e la legittimità.

https://www.revueconflits.com/raphael-chauvancy-puissance/

La conclusione del programma ASTRID: un caso di studio della scomparsa dello Stato stratega, di Yves Brechet

Qui sotto un interessante articolo del sito https://revue-progressistes.org/ riguardante le prospettive di sviluppo del nucleare in Francia e le pesanti responsabilità dell’uscente Presidente Macron nella penalizzazione del settore. Spesso Macron ha preferito indossare con veemenza la retorica della grandezza francese, nella veste però di trascinatrice della costruzione europea così come configurata dalla Unione Europea. Una retorica  di fatto pesantemente mistificatrice per due aspetti fondamentali. Nella contraddizione stridente con il suo curriculum di ministro e presidente nel momento in cui è stato l’artefice della vendita a General Electric del fondamentale settore delle turbine, indispensabile, tra i vari settori, al settore nucleare e a quello della difesa militare; ha declassato spingendo sino a pochi mesi fa verso un secco ridimensionamento del nucleare civile francese; ha rischiato di compromettere pesantemente Airbus, frenato in questo solo e fortunosamente dalla improvvisa e concorrente crisi di Boeing, legata al flop del 747. “Meriti” analoghi ha acquisito nel settore dell’agricoltura e in numerose altre occasioni. Un’aura di “sovranista” quindi del tutto ingiustificata che è servita tutt’al più a coprire le intenzioni di assumere una leadership europea nell’ambito di una indiscussa subordinazione agli Stati Uniti. Una cortina fumogena sempre meno adatta a coprire la postura reale del Presidente. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Yves Bréchet, membro dell’Accademia delle scienze, ci racconta il suo pensiero dopo la decisione della Francia di interrompere la ricerca scientifica per i reattori nucleari del futuro. Un testo semplice, in esclusiva per la rivista Progressisti. 

di Yves Brechet*

L’elettricità ha svolto un ruolo fondamentale nelle nostre società per un secolo e fornire l’accesso ai suoi benefici è una firma dello sviluppo industriale e sociale di un paese. Ne consegue naturalmente che non può essere considerato come una merce tra le altre, sia perché è difficile da stoccare, sia perché richiede ingenti investimenti per produrlo, trasportarlo e distribuirlo. Per questo nel dopoguerra la Repubblica francese decise di farne una missione sovrana. Questa decisione ha consentito l’elettrificazione del Paese, lo sviluppo dell’energia idroelettrica e, in risposta alla crisi petrolifera degli anni ’70, il dispiegamento del programma nucleare francese. Grazie a funzionari statali esemplari come Marcel Boiteux, abbiamo ereditato una flotta di generatori e una rete di distribuzione eccezionale che, inoltre, posiziona la Francia ai massimi livelli nella lotta al riscaldamento globale. Una certa ideologia ha voluto uscire da questa dinamica, che nasceva dall’esigenza di un bene comune, e assoggettare il tutto alle leggi del mercato secondo il dogma che il mercato porta necessariamente a soluzioni ottimizzate.

Un giorno bisognerà fare il punto su questa ingiunzione dottrinaria, ma una caratteristica delle ideologie, qualunque siano i loro colori, è che sono resistenti al confronto con i fatti. Il disaccoppiamento tra produzione e distribuzione dovuto alla concorrenza europea, la necessità di garantire l’accesso al parco idroelettrico anche quando è indispensabile e appena sufficiente per stabilizzare la rete elettrica minata dalla penetrazione forzata di energie intermittenti e, più recentemente, la sconcertante scelta di separare dalla nostra industria delle turbine, in un paese in cui l’energia elettrica è per il 90% nucleare o idraulica, dovrebbe essere sufficiente per dimostrare fino a che punto lo Stato ha cessato di essere uno stratega statale per diventare un sughero galleggiante sull’acqua, la corrente dominante è il bilancio logica, e turbolenza, effetti moda e pressioni elettorali, che ci porta lontano dai big che hanno reindustrializzato la Francia nel dopoguerra. Questi esempi ci mostrano anche, senza poterci rassicurare, fino a che punto questa tendenza di fondo trascenda i partiti politici. La recente decisione del governo di fermare il progetto del reattore a neutroni veloci ASTRID è un caso da manuale delle dimissioni dello Stato, in una visione a breve termine di cui ci si può ragionevolmente chiedere cosa superi il disinteresse per l’interesse comune o la palese ignoranza della scienza e aspetti industriali della questione. senza che ciò possa rassicurarci, fino a che punto questa tendenza di fondo trascenda i partiti politici. La recente decisione del governo di fermare il progetto del reattore a neutroni veloci ASTRID è un caso da manuale delle dimissioni dello Stato, in una visione a breve termine di cui ci si può ragionevolmente chiedere cosa superi il disinteresse per l’interesse comune o la palese ignoranza della scienza e aspetti industriali della questione. senza che ciò possa rassicurarci, fino a che punto questa tendenza di fondo trascenda i partiti politici. La recente decisione del governo di fermare il progetto del reattore a neutroni veloci ASTRID è un caso da manuale delle dimissioni dello Stato, in una visione a breve termine di cui ci si può ragionevolmente chiedere cosa superi il disinteresse per l’interesse comune o la palese ignoranza della scienza e aspetti industriali della questione.

UN IMPIANTO ELETTRICO ROBUSTO E COERENTE

All’inizio del millennio, i nostri predecessori ci hanno lasciato un impianto elettrico di alta qualità. La Francia ha una centrale nucleare di 58 reattori che contribuisce per il 75% alla sua produzione di elettricità: un caso esemplare di elettricità senza emissioni di carbonio al 90%! – e che rende il Paese uno dei migliori studenti del pianeta nella lotta al riscaldamento globale. Con l’elettricità già decarbonizzata al 90%, verrebbe da pensare che una vera politica ambientale per combattere il riscaldamento globale potrebbe utilizzare risorse statali oltre a cercare di decarbonizzare l’elettricità già decarbonizzata! Si potrebbe addirittura pensare che l’elettrificazione dei trasporti e il risanamento termico degli edifici possano essere una priorità.

L’energia nucleare richiede un bene non inesauribile, l’uranio, che genera scorie durevoli. A queste due domande, i reattori a neutroni veloci forniscono una risposta tecnicamente provata: l’allevamento, consentendo di utilizzare il plutonio dal ritrattamento del combustibile esaurito, e l’uranio impoverito, un sottoprodotto dell’arricchimento, dividerebbe per 10 il volume dei rifiuti prodotti , e garantirebbe la nostra autonomia in termini di risorse di uranio e autonomia energetica per ben mille anni al tasso di consumo attuale.

Attualmente, e contrariamente a quanto afferma la green doxa, nessuno è in grado di dire quale proporzione di energie carbon free non nucleari sia compatibile con le nostre società industriali. Non è una questione di costo delle rinnovabili, che è in costante calo, è una questione di fisica. Non sappiamo quali siano le realistiche capacità di stoccaggio, non conosciamo le modifiche essenziali alla rete di distribuzione, non sappiamo quale quota di produzione e consumo localizzato sia compatibile con un dato mix energetico, e infine la produzione da combustibili fossili carbonio- elettricità gratuita resa possibile dallo stoccaggio di massa di CO 2è ancora oggi un pio desiderio. In questa situazione, scommettere che possiamo fare a meno del nucleare è più il metodo Coué che una sana gestione politica. La Francia dovrebbe rimanere, almeno per i decenni a venire, un Paese con una forte componente nucleare, ed è quanto più volte ripetuto dal presidente Emmanuel Macron. Ma non sembra ovvio, almeno alla luce delle ultime decisioni, che la coerenza sia una delle principali virtù dell’attuale politica energetica.

CONSEGUENZE IMPEGNATIVE PER UN NUCLEARE SOSTENIBILE: CHIUDERE IL CICLO

La presenza di una componente significativa dell’elettricità nucleare rende necessario affrontare due problemi: la gestione dei rifiuti (a valle del ciclo) e la gestione delle risorse. La politica di “chiusura del ciclo delle materie nucleari”, chiave di volta della politica elettronucleare responsabile da quasi cinquant’anni, mira ad evitare l’accumulo di scorie nucleari, la cui principale scoria è il plutonio pur essendo un ottimo combustibile, fissile, e estrarre la massima energia dalle materie prime derivate dal minerale di uranio. Questa chiave di volta è stata ideata da uno Stato stratega ansioso di garantire al Paese, sulla scia della crisi petrolifera degli anni ’70, l’indipendenza energetica.

È anche una condizione per un nucleare sostenibile e responsabile, ed è questo il problema… C’è chi vorrebbe che il nucleare fosse insostenibile, il che sarebbe un ottimo motivo per uscirne, e hanno capito perfettamente il punto difficile che gli attuali governanti sembrano avere qualche difficoltà a capire. Si scopre che i reattori a neutroni veloci (FNR) sono in grado di bruciare tutti gli isotopi del plutonio, e quindi di trasformare questi rifiuti in una risorsa. Possono anche bruciare uranio naturale e uranio impoverito. Gli FNR possono quindi trasformare i rifiuti, in particolare il plutonio, in una risorsa e consumare tutti i materiali fissili della miniera. Così facendo, di fatto, gli FNR consentono una gestione razionale della risorsa “sito di stoccaggio profondo”. Tra le varie possibilità tecniche per ottenere la chiusura del ciclo, il reattore veloce raffreddato al sodio è l’opzione tecnologica più matura. Fermare il programma RNR sulla base di alternative è nel migliore dei casi avventuroso, nel peggiore dei casi disonesto.

Non chiudere il ciclo alla fine condannerebbe l’energia nucleare nel nostro paese. Rinunciare a questa opzione senza dirlo costringerebbe la decisione politica in modo disonesto, conferendo di fatto al nucleare uno status di energia di transizione. Mantenere l’opzione di chiusura del ciclo, invece, consente di utilizzare l’energia nucleare nella proporzione che sarà necessaria perché in ogni momento il flusso di materiali in entrata e in uscita sarà bilanciato, senza accumulo, come avviene attualmente con i rifiuti non definitivo. Non chiudere il ciclo significa rendere insostenibile o responsabile l’energia nucleare: facendo questa scelta oggi, domani priviamo i politici di spazi di manovra e, di fatto , “decidiamo” al loro posto.

Mi direte che aver fatto la scelta del nucleare negli anni ’70 porta anche a scegliere “invece” le generazioni successive, tanto è difficile la gestione del lungo periodo in questo campo industriale. Ma fu una scelta operata dai politici dell’epoca in risposta a una grave crisi (lo shock petrolifero). Al contrario, la scelta attuale non ha nulla a che vedere con la ben più grave crisi globale del riscaldamento globale. L’IPCC, per quanto restio a tessere allori sul nucleare, ha dichiarato nel 2018 che nella lotta al riscaldamento globale l’energia nucleare giocherà un ruolo essenziale. Sembra che questo capitolo del rapporto dell’IPCC stia lottando per trovare la sua strada verso l’ufficio dove sono scritti i discorsi infuocati dei nostri cavalieri bianchi del clima.

La chiusura del ciclo è una condizione essenziale per un nucleare sostenibile e responsabile, qualunque sia la proporzione. Gli FNR di sodio sono la tecnologia più matura per ottenere questa chiusura. È il prezzo dell’uranio che determinerà la cinetica di dispiegamento di questa risorsa. E quando il prezzo dell’uranio lo consentirà, l’industria che è pronta con una tecnologia collaudata avrà un notevole vantaggio competitivo. Ma devi avere un’idea davvero unica di cosa sia un settore industriale per pensare di poterti posizionare in questa corsa accontentandoti di studi su carta che per qualche miracolo si sarebbero incarnati in un oggetto industriale quando sarà il momento. Un’idea del genere non può germogliare quando negli intrecci di neuroni di alti funzionari che, per usare le parole feroci di Rivarol, hanno ” il terribile vantaggio di non aver mai fatto niente  ”. Questo è, tuttavia, ciò che significa fermare il programma ASTRID: rinunciare a costruire, pur pretendendo di mantenere il set di abilità.

INTANTO, ALTROVE NEL MONDO…

A costo di una piroetta retorica, chiudere il ciclo del carburante rimane la politica ufficiale della Francia. Per buona misura, offriremo alcuni studi su soluzioni tecnologicamente meno mature (per essere sicuri che non passino mai alla fase di industrializzazione), fingeremo di fare multi-riciclaggio in REP (mentre i problemi di rettifica isotopica del plutonio sono in gran parte non -banale e che i decisori industriali lo sappiano… o dovrebbero saperlo), e con ammirevole arroganza rinunceremo a chiudere il ciclo pretendendo di preservarlo. Si può ammirare la manovra in termini di comunicazione politica senza considerare che è degna di statisti.

Intanto il mondo continua a girare… e le grandi potenze impegnate in campo nucleare, e che hanno scelto come politica la chiusura del ciclo del combustibile (sull’esempio della Francia), si impegnano sulla via del realizzazione concreta di reattori a neutroni veloci raffreddati al sodio (seguendo la Francia in questa scelta, ma non imitandola nelle sue esitazioni e nelle sue incongruenze).

Il primo calcestruzzo del reattore cinese FNR-Na CDFR-600 (China Demonstration Fast Reactor da 600 MWe) è stato versato il 29 dicembre 2017 a Xiapu, nella provincia di Fuijan. Questo reattore è progettato e costruito dalla CNNC (China National Nuclear Corporation). L’attuale programma prevede la sua messa in servizio nel 2023. Questa costruzione sta avvenendo come estensione del programma sugli FNR raffreddati al sodio che si stava svolgendo presso il CIAE (China Institute of Atomic Energy), vicino a Pechino. È in questo centro che nel 2010 è stato costruito e messo in servizio il reattore CEFR (China Experimental Fast Reactor), un FNR-Na da 65 MWt/20 MWe. Questo reattore è stato acquistato dalla società russa OKBM Africantov che ne ha assicurato la progettazione e la produzione. Alcuni anni fa, Erano state inoltre avviate trattative ad alto livello per l’acquisto di due reattori BN-800 identici a quello commissionato nel 2016 a Beloyarsk, in Russia. Questo piano per l’acquisto di reattori BN-800 sembra essere stato abbandonato. Tuttavia, le relazioni tecniche tra Cina e Russia sugli SFR rimangono molto forti e ben sviluppate. La CNNC annuncia che gli SFR saranno la principale tecnologia impiegata in Cina a metà di questo secolo. Hanno in programma una serie di cinque CDFR-600 da costruire entro il 2030, seguiti dal progetto commerciale CFR-1000 già allo studio. Per quanto riguarda il carburante, la CNNC annuncia che il CDFR-600 utilizzerà carburante misto di uranio e plutonio (MOx FNR) con prestazioni di 100 GWd/t di burnup.

Se dobbiamo muoverci verso orizzonti culturalmente più vicini a quelli dei principi che ci governano, prendiamo l’esempio della società TerraPower di Bill Gates. Negli Stati Uniti TerraPower sta promuovendo un concetto Na-FRN chiamato Traveling Wave Reactor, le cui ultime evoluzioni di design sono in definitiva molto vicine a un classico Na-FRN. TerraPower e CNNC hanno creato una joint venture nell’ottobre 2017 per il co-sviluppo della TWR.

Il volontariato cinese, così come il forte coinvolgimento della Russia o gli sviluppi sostenuti da Bill Gates sembrano indicare che “il treno sta partendo”. Gli stessi giapponesi furono in gran parte coinvolti nel programma ASTRID, testimoniando ancora una volta uno stratega statale. Questo treno, quello dei reattori a neutroni veloci, beneficia del lavoro svolto in Francia dal 1957 con il reattore sperimentale Rapsodie di Cadarache, operativo nel 1969. , un reattore che porta allo sviluppo di combustibile MOx per utilizzare almeno in parte il plutonio, questo lavoro ancora qualche anno fa ci posizionava alla testa delle maggiori nazioni industrializzate su questo tema. Ma sembra che,

COME SIAMO ARRIVATI QUI ?

Mentre la necessità di mantenere, almeno per qualche decennio, una grande centrale nucleare sembra compresa dai vertici, le conseguenze di una tale decisione non sembrano essere state prese in considerazione. Le argomentazioni contro il nucleare: stoccaggio di grandi quantità di scorie e dipendenza dalle importazioni di uranio, sono razionalmente vincolanti quando ci siamo privati ​​della soluzione dei reattori a neutroni veloci che permette di risolverli. Ma perché privarsi di questa soluzione? Come diceva Bossuet, “  Dio ride degli uomini che si lamentano degli effetti di cui amano le cause  ”.

L’argomento per rinunciare al settore FNR è semplice, se non semplicistico: la necessità di utilizzare l’uranio impoverito come combustibile non è a breve termine (ci vorrebbe una triplicazione del prezzo dell’uranio perché gli FNR diventino redditizi come reattori di potenza rispetto a PWR standard). Più scaltramente, la questione della riqualificazione dell’uranio impoverito come rifiuto, che è la logica conseguenza dell’arresto del settore dei neutroni veloci, si porrà solo per i successori di coloro che hanno preso la decisione. E, in attesa che i reattori veloci diventino economicamente necessari, scommettiamo che le energie rinnovabili avranno preso il sopravvento. Il calo del costo delle energie rinnovabili, ignorando le questioni irrisolte dello stoccaggio massiccio e del rafforzamento della rete che controbilanciano queste prospettive allettanti, serve come argomento per affermare che l’eliminazione graduale dell’energia nucleare è inevitabile e che si troverà effettivamente una soluzione a condizione che i finanziamenti adeguati siano dirottati dalla ricerca nucleare alla ricerca sulle rinnovabili. In altre parole, saltiamo dall’aereo sperando di poter agganciare il paracadute prima di schiantarci a terra.

Il ragionamento dei cinesi, che stanno sviluppando massicciamente anche le energie rinnovabili, beneficiando molto degli investimenti europei in questo campo, è il seguente: se il nucleare si sviluppa (e si sta sviluppando massicciamente in Cina, in particolare nel quadro di una partnership… con Francia), il fabbisogno di combustibile sarà tale che coloro che padroneggiano le tecnologie dei reattori a neutroni veloci avranno un notevole vantaggio competitivo. È una scommessa sulla necessità di un contributo significativo del nucleare nella lotta al riscaldamento globale. Questo è sicuramente falso poiché sono cinesi e le nostre élite politiche sanno sempre tutto meglio di chiunque altro! E che importa visto che tra trent’anni potremo, se necessario, comprate loro questa tecnologia di cui eravamo i padroni. Non c’è dubbio che, grati, ce lo offriranno a un prezzo basso!

È ancora un po’ difficile vedere nella posizione attuale del governo qualcosa di diverso da un esercizio contabile o un calcolo politico per rendere più verde la sua immagine. Rinunciando al settore RNR, gli azionisti saranno felici che l’elettricista francese non si impegni in spese per un futuro troppo lontano (il futuro, ecco un termine molto strano…). Per aver dimenticato la coerenza complessiva della centrale nucleare, dei suoi reattori e dei suoi combustibili e dell’intero ciclo materiale, è il bene comune che stiamo, consapevolmente o meno, distruggendo.

Ammettiamolo e chiamiamo picche: il giudizio di ASTRID è una sciocchezza storica, lo spreco di settant’anni di investimenti della Repubblica, quasi 1 miliardo di euro andato in fumo… Ma questo n suo è solo un indicatore tra altri del degrado del tessuto industriale del nostro paese e della decrepitezza del servizio statale.

COME SONO POSSIBILI TALI DECISIONI?

Affinché uno possa andare in tali vagabondaggi, deve essere soddisfatto un certo numero di condizioni. Quando i decisori hanno un ragionamento esclusivamente contabile, quando immaginano di avere una strategia quando hanno solo una visione, quando pensano di conoscere un argomento quando sanno come farne un discorso, quando credono che un decreto basta lanciare, fermare o rilanciare un settore industriale perché non hanno più la minima idea di cosa sia uno strumento industriale, è una scommessa sicura che le decisioni saranno poco informate. Nel caso della decisione di fermare il programma ASTRID, non contenta di svendere decenni di investimenti nel Paese, si cerca di minimizzare la decisione affermando che, ovviamente, non si costruirà altro che le competenze nel proseguimento degli studi . Come se non fosse ovvio, osservando le battute d’arresto del settore industriale negli ultimi anni, che conserviamo le competenze industriali solo continuando a costruire e che è l’assenza per vent’anni di una scala progettuale nucleare che ha portato alla situazione attuale. Bisogna avere una concezione molto singolare delle competenze per immaginare che siano preservate dagli “studi cartacei”: una tale concezione può essere appresa solo nelle più prestigiose scuole di formazione delle nostre élite, e da assidui corridoi di frequenza dei ministeri. che conserviamo le competenze industriali solo continuando a costruire e che è l’assenza da vent’anni di un progetto nucleare su larga scala che ha portato alla situazione attuale. Bisogna avere una concezione molto singolare delle competenze per immaginare che siano preservate dagli “studi cartacei”: una tale concezione può essere appresa solo nelle più prestigiose scuole di formazione delle nostre élite, e da assidui corridoi di frequenza dei ministeri. che conserviamo le competenze industriali solo continuando a costruire e che è l’assenza da vent’anni di un progetto nucleare su larga scala che ha portato alla situazione attuale. Bisogna avere una concezione molto singolare delle competenze per immaginare che siano preservate dagli “studi cartacei”: una tale concezione può essere appresa solo nelle più prestigiose scuole di formazione delle nostre élite, e da assidui corridoi di frequenza dei ministeri.

Se possiamo perdonare i politici per aver perso questa visione, e per aver sacrificato una strategia a fini elettorali, almeno hanno la scusa di non sapere. Ma quando sono serviti da alti funzionari che, non avendo mai praticato scienza e tecnologia, combinano un’incompetenza enciclopedica sugli aspetti scientifici e industriali con una mentalità di cortigiani che immaginano che obbedire ai principi sia sinonimo di servire lo Stato, gli ultimi baluardi contro l’assurdo le decisioni cedono.

CONCLUSIONE: UN CASO DA LIBRO DI TESTO DALLO STATO STRATEGICO ALLO STATO CHAMELEON

Al di là dell’errore strategico costituito dall’abbandono del reattore a neutroni veloci e dall’ipocrisia – o ignoranza – consistente nel pretendere di mantenere la politica di chiusura del ciclo, il nucleare torna a servire, per sua sfortuna, un caso da manuale per misurare il degrado dei le capacità dello Stato stratega.

Supponendo, a beneficio del dubbio, di non trovarsi di fronte a un caso di totale cinismo e calcoli elettorali dietro le quinte, dobbiamo ammettere che lo Stato, al più alto livello decisionale, è incapace di avere una visione globale della la questione energetica in generale e la questione nucleare in particolare. Questa incapacità deriva dall’illusione di sapere quando stiamo solo grattando la superficie, che rende i nostri decisori incapaci di beneficiare di analisi scientifiche e tecniche di cui non sentono nemmeno il bisogno.

Lo stato stratega, che negli anni ’70 ha disegnato una politica energetica che garantisse l’indipendenza del Paese attraverso un uso ottimale delle risorse, ha lasciato il posto a uno stato camaleontico, che ha reso il Paese dipendente dalla Cina per il fotovoltaico e lo mette nelle mani della Russia per la fornitura di gas…, mentre si auto-autorizza dalla lotta contro il riscaldamento globale quando nulla in questa lotta giustifica la diminuzione dell’energia nucleare.

Questa accumulazione di interpretazioni errate conferisce agli attuali leader, attraverso questa decisione di fermare il progetto ASTRID, il dubbio privilegio di passare alla storia non per le dimensioni dei progetti che potrebbero lanciare ma per l’incapacità di comprendere il valore dei progetti che hanno ereditato e di cui decretano la fine con confusa leggerezza.

Per carità, possiamo imputarla all’inesperienza, ma poi ricordiamo le parole dell’Ecclesiaste: “Guai alla città il cui principe è un bambino. »

*YVES BRÉCHET è membro dell’Accademia delle Scienze.

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Di …

Cos’è il progetto ASTRID?

L’obiettivo del progetto ASTRID era progettare e costruire un reattore a neutroni veloci di 4a generazione da 600 MWe al fine di effettuare una dimostrazione industriale delle opzioni innovative selezionate per questo reattore e avere un feedback quando sarà il momento. un settore industriale più affidabile. Il progetto si basava su due pilastri: ricerca e sviluppo e studi di ingegneria. Anche se il principio della tecnologia è lo stesso del Superphénix (a sua volta fermato dal governo Jospin, per motivi politici), ASTRID ha dovuto adeguare la progettazione dei precedenti reattori ai più moderni standard di sicurezza, anche tenendo conto di la fase di progettazione delle lezioni apprese dall’incidente di Fukushima. Dovrebbe anche consentire di prendere il tempo per il feedback sull’esperienza operativa prima dell’implementazione industriale e sfruttare questo feedback sull’esperienza per migliorare le prestazioni, ad esempio del carburante, in modo da migliorare la competitività di una futura Facoltà. Prima delle richieste del governo di tagli al budget, il progetto ha coinvolto circa 300 dipendenti a tempo pieno al CEA e altrettanti dalla parte dei 14 partner industriali, in particolare quella che oggi è Framatome, ma anche Bouygues, Alstom e altri, con un budget annuale tra 80 e 100 milioni di euro. Alla fine del 2017 erano già stati stanziati oltre 800 milioni di euro per questo programma. Il progetto, guidato da un team di circa 30 persone presso il CEA, è iniziato nel 2010. Il progetto preliminare di base è stato completato a fine 2015 e il progetto preliminare di dettaglio è stato avviato a inizio 2016.

Cos’è la chiusura del ciclo?

Questa strategia consiste nell’utilizzare il plutonio insieme all’uranio impoverito, per farne un combustibile che, nel reattore, rigenera il plutonio e porta infine al consumo del solo uranio impoverito che diventa una risorsa dai rifiuti. Il ciclo attuale esegue quello che viene chiamato riciclo unico (questo è carburante MOX) ma non può eseguire il riciclo multiplo, il ciclo del reattore veloce doveva essere in grado di riciclare multiplo il plutonio. L’attuale flotta di 60 GWe, basata sull’attuale ciclo con mono-riciclaggio in un reattore ad acqua pressurizzata sotto forma di MOX, consuma 8000 t di uranio naturale ogni anno, portando a 6900 t di uranio impoverito, 940 t di ritrattamento dell’uranio, 40 tonnellate di rifiuti finali (immobilizzati in matrici vetrose), 120 tonnellate di combustibile MOX esaurito (attualmente stoccato in una piscina) contenente 7 tonnellate di plutonio. La stessa potenza fornita da un parco di Fast Neutron Reactor può funzionare con uranio impoverito già disponibile (a una velocità di 40 t/anno, l’attuale stock di 300.000 t) e quindi non richiede importazioni minerarie (per 7.500 anni!). E la quantità di rifiuti finali rimane 40 t/anno e 10 volte meno rifiuti a vita lunga (di cui il plutonio è il più abbondante). Con il suo “ciclo chiuso”, il reattore veloce utilizza la risorsa naturale circa 100 volte meglio dei reattori ad acqua leggera come i PWR, stabilizza l’equilibrio del plutonio e non degrada il bilancio dei rifiuti da vetrificare. La stessa potenza fornita da un parco di Fast Neutron Reactor può funzionare con uranio impoverito già disponibile (a una velocità di 40 t/anno, l’attuale stock di 300.000 t) e quindi non richiede importazioni minerarie (per 7.500 anni!). E la quantità di rifiuti finali rimane 40 t/anno e 10 volte meno rifiuti a vita lunga (di cui il plutonio è il più abbondante). Con il suo “ciclo chiuso”, il reattore veloce utilizza la risorsa naturale circa 100 volte meglio dei reattori ad acqua leggera come i PWR, stabilizza l’equilibrio del plutonio e non degrada il bilancio dei rifiuti da vetrificare. La stessa potenza fornita da un parco di Fast Neutron Reactor può funzionare con uranio impoverito già disponibile (a una velocità di 40 t/anno, l’attuale stock di 300.000 t) e quindi non richiede importazioni minerarie (per 7.500 anni!). E la quantità di rifiuti finali rimane 40 t/anno e 10 volte meno rifiuti a vita lunga (di cui il plutonio è il più abbondante). Con il suo “ciclo chiuso”, il reattore veloce utilizza la risorsa naturale circa 100 volte meglio dei reattori ad acqua leggera come i PWR, stabilizza l’equilibrio del plutonio e non degrada il bilancio dei rifiuti da vetrificare.

https://revue-progressistes.org/2019/09/22/larret-du-programme-astrid-une-etude-de-cas-de-disparition-de-letat-stratege/

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