Governo Lega – M5Stelle: come andrà a finire?, di Roberto Buffagni

Governo Lega – M5Stelle: come andrà a finire?

 

Ci vuole una bella faccia di tolla per fare previsioni su come andrà a finire una cosa che ancora non è iniziata, ma per Vs. fortuna io ce l’ho. Ecco quanto ho divinato.

1) Prima valutazione, in ordine di verisimiglianza secondo il Manuale del Piccolo Politico, pagina 1, capitolo I. Per la Lega, questa è un’abile manovra tattica e un grave errore strategico. Abile manovra tattica, perché batte lo stratagemma (oltre il limite del lecito) di Mattarella, volto a instaurare un nuovo “governo tecnico” (= UE) sotto il nome ossimorico, offensivo per il vocabolario e l’intelligenza, di “governo neutro”. Grave errore strategico perché a) spacca il fronte del centrodestra b) libera le mani a Silvio che non ne vedeva l’ora, fornendogli il pretesto per il voltafaccia c) stende un tappeto rosso a Renzi e al suo progetto neomacroniano di “governo della nazione” d) e ovviamente, di solito formare un governo con un alleato che ha il doppio dei tuoi voti nuoce gravemente alla salute.

2) Seconda valutazione, in ordine di importanza e verisimiglianza secondo il MdPP, pagina 732, capitolo LVI. Se l’operazione governo con i 5* è volta a un rapido ritorno alle urne (= entro un anno, in coincidenza con le europee 2019), dopo il varo di provvedimenti magari epidermici ma propagandisticamente efficaci e graditi all’elettorato, in particolare del Sud, ed eventualmente di una nuova legge elettorale che garantisca la governabilità al vincente, è possibile che l’errore strategico venga evitato, e anzi l’abile manovra tattica si raddoppi in audacissima manovra operativa, perché: a) si evita il governo neutro b) si costringono FI e PD ad affrontare il giudizio elettorale in condizioni di grave difficoltà, senza aver avuto il tempo di consolidare il progetto “Partito della Nazione” neomacroniano. Continua il travaso di voti da FI a Lega, il PD continua a perdere elettori c) gli elettori 5* che provengono da sinistra si allontanano dal Movimento e disperdono molti voti (difficile rientrino in casa PD) d) gli elettori 5* che provengono da destra sono tentati di spostarsi verso la Lega che interpreta più schiettamente le loro propensioni, e qualcuno (non so quanti) lo farà. e) La coincidenza delle elezioni politiche con le elezioni europee avvantaggia chi ha una posizione molto chiara sulla UE, cioè la Lega.

E’ più verisimile che si verifichi quanto al punto 1, abile manovra tattica, grave errore strategico. Però Salvini è un politico che sa il fatto suo, e quindi non ritengo affatto inverosimile che stia tentando l’ipotesi 2, abile manovra tattica seguita e raddoppiata da audacissima manovra operativa. Se la manovra gli riesce, dal Cielo il feldmaresciallo Erich von Manstein gli manderà a dire “Ben fatto”. Do 70% all’ipotesi 1, 30% all’ipotesi 2.

That’s all, folks.

 

 

Il 25 aprile nulla da festeggiare, di Max Bonelli

 

Il 25 aprile nulla da festeggiare.

 

Alla stanchezza fisiologica che si accompagna alla primavera (con l’ondata di pollini e le  allergie connesse) si sente nel bel paese un’altra stanchezza che scaturisce da una data rossa sul calendario dove in teoria dovremmo festeggiare la liberazione dall’occupazione tedesca avvenuta dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943.

I festeggiati i circa 20.000 partigiani e i “liberatori” americani, sono venuti piano, piano a mancare negli anni ma non solo per un motivo fisiologico di morte degli stessi ma per la trasformazione di questi e dei loro discendenti morali in occupanti e collaboratori degli occupanti. Questa è la situazione ad oggi  in data 25 aprile 2018. Certo non come liberatori si possono indicare  gli  USA che hanno scalzato l’occupante tedesco per sostituirlo con un nodo da “cravattaro” che si fa di ogni anno più stretto. Nuove basi aprono sul nostro territorio, impunità dei loro soldati per i crimini commessi sul nostro suolo (Cermis docet) ed imposizioni in politica estera sempre più lesioniste dei nostri interessi (Libia).

Riguardo i collaboratori degli occupanti PD=PD-L: la prima parte dell’equazione rappresentano gli eredi immorali dei partigiani comunisti.  Il PCI almeno fino alla famigerata svolta  fatta con il viaggio di Napolitano negli USA era l’unico partito che si professava sovranista in Italia (volevano un Italia neutrale fuori dalla Nato). Già riecheggiano le urla dei “destrorsi” che dicono “non è vero ci volevano nel patto di Varsavia”. Illazioni mai provate dalla Storia e dette spesso per giustificare  il servilismo dell’MSI nei confronti della Nato e dei suoi apparati senza contare la scarsa propensione storico dinamica dell’URSS all’espansione geopolitica.

Ora il pronipote è rappresentato dal PD renziano, collaborazionisti degli USA ,fedeli servi che fanno della lotta alle timide istanze sovraniste della Lega e di Fratelli d’Italia la loro ragione di esistere.

I loro antenati morali si stanno rivoltando nella tomba,chi siede a botteghe oscure è un servo del capitalismo e traditore della Patria.

La seconda parte dell’equazione è composta dagli odiosi opportunisti spesso alto borghesi benestanti che diedero avvallo allo squadrismo degli anni venti per fermare l’avanzare del socialismo e tradirono il fascismo quando fu chiaro che era ormai cavallo perdente. Anche  essi fedeli servi del più forte ed in questo caso della bandiera a stelle strisce.

 

L’occupazione militare è solo un espressione di un’altra occupazione che subisce il paese: quella economica dell’Europa a conduzione tedesca.

Presenza ancor più pesante di quella militare descritta in precedenza, perchè sta uccidendo l’Italia, il suo substrato manifatturiero, quello che

l’ ha reso  una piccola potenza economica.

La moneta unica sta uccidendo la nostra economia che non avendo in mano lo strumento della svalutazione è costretta a riversare sul lavoro le leve per attuare concorrenza dei prodotti, precarizzando le condizioni degli occupati a tutti i livelli e non ultima la classe della piccola borghesia impiegatizia.

Questa occupazione a 360|gradi Germano-Americana la stiamo vivendo in tutta la sua implacabile stretta nel mandato del presidente  Mattarella al secondo schieramento per numero di eletti il M5S con il preciso intento di unirsi al PD uscito perdente dalle elezioni. Tutto dettato dal pericolo populista sovranista che Lega e Fratelli d’Italia si fanno espressione seppur in maniera timida. Se analizziamo le parole espresse dal PD “si al dialogo con il M5S se cessano di dialogare con la Lega” si capisce a quale padrone rispondono, lo schiavo perdente che vuole prendersi in carico l’addestramento del nuovo il M5S.

Il peccato della Lega? Il timido accenno di ribellione all’occupazione. Proprio ora che Salvini parla non più di Padani, ma di Italiani e da partito secessionista timidamente fa passi verso il Sovranismo patriottico rappresentato dall’On. Bagnai e nelle loro file eletto?

 

Questa rinnovata lotta tra occupanti e loro collaborazionisti da una parte e dall’altra  patrioti che con diversi colori,contraddizioni emergono nel paese si rinnova e ci dovrebbe far riflettere che non c’è niente da festeggiare in questa data. Ci sono ragioni per una ribellione, per una lotta contro l’occupazione. Bisognerebbe rileggersi le figure di veri eroi come :

Bottai

https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Bottai

 

Mattei https://it.wikipedia.org/wiki/Enrico_Mattei

 

ed altri patrioti sovranisti  sconosciuti che in silenzio rifiutarorno di versare sangue italiano

http://www.conflittiestrategie.it/il-25-aprile-nel-ricordo-di-mio-nonno-gigi-ed-altre-storie-sconosciute-ai-piu-di-max-bonelli

 

e rivolsero le loro energie contro gli occupanti.

Eroi  che rifiutarono  la logica dei Guelfi e Ghibellini che porta ad ammazzarci con facilità tra di noi italiani e  che indicarono una strada:

rivolgere le nostre energie ad una vera lotta di liberazione perchè questa è rimasta incompiuta.

Bisognerebbe far partire un tavolo di conciliazione nazionale che parta da una base comune data di tanti patrioti che dopo l’8 settembre decisero di combattere da una parte e dall’altra i due occupanti il tedesco e l’americano senza  versare sangue italiano. Per fare questo occorre potare sia a destra che sinistra la faziosità partitica e far rimanere centrale il fusto su cui si poggia l’Italia la Patria fatta di lavoratori e piccola media borghesia con l’attività produttiva incentrata nei confini nazionali.

 

Max Bonelli

 

 

 

La trattativa con la realtà, di Roberto Buffagni

La trattativa con la realtà

 

Ho appena letto della sentenza sulla trattativa Stato-Mafia, con le pesanti condanne inflitte agli ufficiali dei Carabinieri. Evito di diffondermi sul messaggio (trasversale?) che i giudici mandano alle FFOO: “Prima di tutto coprirsi le spalle e altre parti del corpo”, all’antica quieta non movere, alla moderna don’t  rock the boat. Evito di diffondermi anche sul fatterello che le FFOO non “trattano con la Mafia” in proprio ma per conto terzi, cioè per conto dei governi (nel caso in oggetto, governi di sinistra e non berlusconiani, ma sono dettagli). Evito di diffondermi sul fatto, incontestabile, che le trattative si fanno con gli avversari e/o i nemici, con gli amici ci si mette d’accordo con le gambe sotto il tavolo e il bicchiere in mano. Evito di diffondermi sul tempismo cronometrico della sentenza, che influisce sulla delicata dialettica politica in corso, favorendo un governo 5*-PD e/o un governo 5*-Lega che spaccherebbe il centrodestra e farebbe lo scherzo dell’Anaconda a Salvini. Evito di diffondermi persino sul fatto storico, anch’esso incontestabile, che le trattative con la Mafia le faceva anche Giovanni Giolitti, un politico italiano di grande statura e specchiata onestà personale che si beccò la definizione di “Ministro della malavita” da Gaetano Salvemini.

Mi diffondo invece (poco, niente paura) su un tema che mi interessa di più.

E’ il tema della grande fiaba desinistra dei “servizi deviati” e dell’inattingibile ”terzo livello della Mafia”, in pillola: la DC un tempo, in seguito Berlusconi, insomma i destrogiri, sono complici della Mafia e in genere delle Forze Oscure della Reazione, solo grazie a questa complicità assurgono a un immeritato e altrimenti inspiegabile potere, conculcano e sbeffeggiano le Forze Sane del Progresso e fanno dell’Italia, che sarebbe tanto brava, un paese anormale ove spadroneggiano impuniti e sfacciati gli evasori fiscali, i furbetti del cartellino, gli analfabeti d’andata e ritorno, i fans di Padre Pio, Berlusconi e Lucio Battisti, gli assessori che scialacquano i risparmi degli italiani in coca troie aragoste e mutande a rete come il celeberrimo Batman, i guidatori di SUV parcheggianti in posto riservato invalidi, etc.; e questo infausto destino durerà nei secoli dei secoli sinché non andrà al governo con larga maggioranza prima il PCI, poi il PD o altri avatar del Bene levogiro tipo 5*, e allora sì che cambierà tutto: in meglio, s’intende, il dopo è sempre meglio del prima, sennò che fine fa il progresso, dove andiamo a finire, torniamo indietro?

Archetipo della suddetta fiaba, il mitico sceneggiato anni Settanta in milletrecentosei puntate La piovra, che diede fama imperitura a Michele Placido, da allora trasfigurato nell’icona immortale del “Commissario Cattani”; il quale  – nota a margine per i più piccini – aveva anche lui la moglie straniera e incontentabile come il suo più tardo avatar Commissario Montalbano, pure lui eroe desinistra sebbene pelato. Bene: colgo l’occasione per formulare anche io una sentenza, la seguente: la fiaba desinistra sulla Mafia è una fiaba.  Questa fiaba desinistra può essere raccontata bene, anche molto bene (le prime serie de La piovra sono belle o belline); e sarà sempre interessante non perché sia interessante la sinistra italiana che francamente non lo è, sotto il profilo spettacolare e drammaturgico il mito dell’onestà, del rigore, del pagamento al centesimo delle tasse, della superiorità morale, dell’eguaglianza tous azimuts, delle vacanze intelligenti, insomma il mito delle professoresse piddine entusiasma come un accertamento fiscale o una seduta dal dentista. Sarà sempre interessante perché è interessante la Mafia, che furbescamente la sinistra italiana parassita per incrementare il suo indice di gradimento spettacolare. La Mafia è interessante per due motivi: uno, che il Male è sempre più immediatamente interessante del Bene, provate a creare un personaggio integralmente buono che non sia un pesce lesso e ve ne accorgerete subito, l’ultimo che ha avuto successo è Gesù Cristo che d’altronde negava recisamente di essere buono (v. tutti i sinottici, es. Mt. 19,17);  lo spericolato Dostoevskij ci ha provato ma ha truccato le carte facendone L’idiota, troppo facile l’espediente del buono perché matto.  E’ un fatto che può dare occasione a spunti di riflessione teologica ed estetica di grande profondità che qui ometto, sarà per un’altra volta. Due, che la Mafia è interessante perché la criminalità organizzata è l’immagine analogicamente più prossima a quella di uno Stato che agisca in condizioni di reale sovranità politica, dunque non l’Italia del dopoguerra: il che rende più ghiotto ed emozionante il surrogato Mafia, quando non c’è il caviale le uova di lompo fanno venire l’acquolina in bocca. La Mafia infatti vive e opera in un mondo nel quale non esiste un terzo imparziale in grado di promulgare e applicare la legge, e dunque in un mondo che somiglia come una fotocopia al mondo delle relazioni internazionali, in cui operano gli Stati: un mondo nel quale non si può andare dal giudice o dal poliziotto se qualcuno ti fa un torto, in cui non ci si può ritirare a vita privata estraniandosi dai conflitti di vario genere che turbano sonni e digestione, in cui di punto in bianco può spuntare nel tuo orizzonte qualcuno che per motivi tutti suoi ti vuole ammazzare, te e i tuoi cari, e non solo ne ha l’intenzione ma pure i mezzi e il know-how. E’ insomma il mondo in cui chi ha il potere è costretto a prendere decisioni di vita e di morte che non solo decidono della vita e della morte fisica, ma della salvezza o della dannazione dell’anima – ognuno traduca la formula religiosa nel suo linguaggio – anzitutto la propria ma anche le altrui. Un esempio davvero magistrale di svolgimento di questo tema sono i primi due film della serie Il padrino, di F. F. Coppola, che senza alterare di molto la trama del mediocre romanzo di Mario Puzo, vi indovinò con grande intelligenza la struttura drammaturgica di una tragedia storica shakespeariana, sfuggita al superficiale romanziere.

Per concludere: la Mafia è interessante perché la Mafia è tragica, e con tragedia intendo la situazione in cui legge, costume, istituzioni, telefono amico non ti forniscono una soluzione precostituita al tuo serio dilemma di vita e di morte. Ci sei tu che sei solo, c’è il mondo che è grande, c’è il cielo che è lontano, e stop: incipit tragoedia. Questa è la tragedia, e questo è anche, nel linguaggio politico, lo stato di eccezione, che definisce chi è il sovrano.

Ecco perché la fiaba desinistra sulle Forze Oscure della Mafia & della Reazione è interessante, ed ecco anche perché è una fiaba.

E’ una fiaba nella parte desinistra, col Commissario Cattani/Montalbano che si batte per il PCI/PD +  il popolo buono che paga le tasse e raccoglie la cacca del cane con la paletta, e in quanto fiaba non intrattiene alcun significativo rapporto con la realtà effettuale, al massimo con la realtà psicologica che vuole a) sentirsi dalla parte giusta b) mettere dalla parte sbagliata chi ci sta antipatico c) vincere + avere ragione d) in attesa di c, perdere + avere ragione e) come minimo, giustificare la propria sconfitta dandone la colpa agli altri che vincono perché sono cattivi e viceversa, v. sub b.

E’ interessante invece, e sul serio, nella parte tragedia, perché la tragedia, sebbene dedestra, quella sì che intrattiene un significativo rapporto con la realtà effettuale, anzi mi sento di spararla grossa e affermare pubblicamente che qualora non si introduca nel quadro un’audace prospettiva soprannaturale & provvidenziale, la tragedia è la realtà effettuale, proprio la realtà effettuale che il pensiero (si fa per dire) desinistra non coglie, per difetto genetico dell’apparato visivo, mai. E non c’è neanche bisogno di tirare in ballo il Politico e lo stato di eccezione come ho fatto prima: perché nella realtà effettuale, anche nella realtà effettuale piccola e modesta delle nostre vite, di fronte alle cose veramente decisive come la gioia e il dolore e la scelta e la morte “ci sei tu che sei solo, c’è il mondo che è grande, c’è il cielo che è lontano, e stop: incipit tragoedia.”

Da quanto precede deriva anche un più equilibrato giudizio sulla famosa trattativa Stato-Mafia, questo. Che la Mafia è una realtà, una realtà non solo criminale ma sociale e politica, con vasto consenso in alcune, non piccole, zone del paese, forza militare non trascurabile, abbondanti finanze, embrione e qualcosina in più che embrione di struttura politica, efficiente amministrazione giudiziaria, fiscalità senza evasori, legami internazionali importanti. Sradicarla si può, come no, almeno per ora lo Stato italiano disporrebbe della forza militare sufficiente. Basterebbe rifare la “guerra al brigantaggio”, però stavolta contro i briganti veri invece che contro i legittimisti borbonici. Però i Commissari Cattani o Montalbano non bastano. Bisognerebbe anche varare un avatar della “Legge Pica” d’antan, cioè sospendere le elezioni democratiche e le garanzie giuridiche agli individui almeno nelle zone di maggior radicamento mafioso, istituire tribunali speciali e comminare condanne amministrative, meglio se anche a morte, impiegare le FFAA non per posare come belle statuine nelle piazze e nelle stazioni ma per fare i rastrellamenti, attivare una vasta campagna di eliminazioni di dirigenti mafiosi (senza processo), e scontare l’inevitabile quota di sbavature cioè innocenti che ci vanno di mezzo + atrocità assortite, dura repressione di eventuali moti popolari a sostegno della Mafia in nome dell’identità locale, ritorsioni anche terroristiche del nemico, e così via. Per me si può cominciare anche domani, ma non mi sembra che il programma qui delineato sia proprio un programma democratico e desinistra, tipo fiaccolata contro la Mafia e celebrazioni di Falcone e Borsellino nei licei con l’oratore di turno che dice “E’ tutta una questione culturale, la scuola ha il compito primario eccetera”.

Insomma: la Mafia è una realtà effettuale, e con la realtà effettuale, volenti o nolenti, tutti dobbiamo aprire una trattativa, anche lo Stato. Poi certo, le trattative possono andare meglio o peggio. Questa per lo Stato è andata bene, per la Mafia no e per gli ufficiali dei Carabinieri neanche; ma del resto, anche la fiaba desinistra ha assunto, nei cuori e nelle menti degli italiani che detto per inciso votano anche in base alla loro psicologia, una sua forma, se si vuole distorta, di realtà effettuale. E dunque, per salvare il Commissario Cattani e il Commissario Montalbano, per non sporcare la loro immagine tanto cara a tanti italiani e poter aggiungere un altro centinaio di puntate al serial Italiamoraledesinistra vs. MafiaForzeOscuredellaReazione, i giudici si sono visti costretti ad appioppare qualche decina d’anni di galera ai Carabinieri, che essendo persone concrete e non archetipi non possono aspettarsi indulgenze plenarie e resurrezioni, e del resto sono usi a obbedir tacendo, tacendo morir (per ora, poi vedremo).

That’s all, folks.

 

IL BUCO NERO_ IL RE (UE) E IL MATTO (M5S), di Roberto Buffagni

Sulla situazione politica italiana e sulle novità funamboliche del Movimento Cinque Stelle il blog ha già dedicato numerose pagine.

Riproponiamo un articolo ancora attuale di Roberto Buffagni, già apparso nel 2016 su http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2016/12/la-politicaitaliana-secondo-shakespeare.html

Un testo attuale, propedeutico a quanto scriveremo una volta che si delineerà più chiaramente la dinamica che ci porterà al varo di un nuovo governo e della conseguente maggioranza_Giuseppe Germinario

La crisi  europea e  italiana… secondo  William Shakespeare 

Il Re e il suo Matto

di Roberto Buffagni

Why, ‘some are born great, some achieve greatness,
and some have greatness thrown upon them
.
(il Matto Feste, Twelfth Night, Atto V, Scena 1)

Winning will put any man into courage.
(il Matto Cloten, Cymbeline, Atto II, Scena 3)

In questo inverno del nostro scontento (59,11% di NO nel referendum appena votato), nella situazione politica italiana non si capisce niente, tranne una cosa: che dopo questo terremoto, tra le rovine dei partiti di maggioranza e opposizione, resta in piedi ed anzi si consolida un solo partito, o meglio un solo Coso: il Movimento 5 Stelle. Il problema è che non si sa che cosa sia il M5S, questo Buco Nero. Populista, si dice. Sì, è populista: ma il populismo è uno stile, non un’identità politica, e neanche un contenuto programmatico. Insomma: che cos’è questo Coso?

Come faccio sempre quando non ci capisco niente, ho consultato il Bardo, che di politica e d’altro se ne intende assai; e come sempre il Bardo mi ha cortesemente risposto la verità, raccomandandomi però di dirla in fretta, perché “La verità è simile ad un cane/che deve restar chiuso in un canile;/va ricacciato lì dentro a frustate.” (il Matto, Re Lear, Atto I Scena 4).

Obbedisco, e ve la dico subito: il M5S è il Matto che rivela la verità sul Re.

Il Bardo, però, ama la sintesi estrema, perché è un grande poeta amico dei simboli e degli enigmi, e un grande uomo di teatro nemico delle lungaggini e della noia. A me, tocca spiegare. Spiego, scusandomi sin d’ora se dovrò esser lungo.

Chi è il Re? Il Re è l’Unione Europea. E qual è la verità che rivela il Matto sul Re? Che il Re è un usurpatore, un falso Re.

Facciamo un passo indietro, come nei romanzi d’appendice, e vediamo un po’ che cos’è quest’altro Coso o Buco Nero: l’Unione Europea, il Mostro Buono, come lo chiamava H.M. Enzensberger.

Nella grammatica politica, esistono soltanto gli Stati nazionali, che possono in varia forma e misura confederarsi, cioè unirsi in modo revocabile: v. il progetto gaulliano di “Europa delle nazioni”; e gli Imperi, in cui l’unità è federale, cioè irrevocabile: v. per antifrasi la guerra di secessione USA tra Nord federale e Sud confederale. L’Europa non può essere o diventare uno Stato nazionale, perché se esiste una civiltà europea, non esiste una nazione europea. L’UE non è una confederazione: se lo fosse, il quadro giuridico dei rispettivi poteri e competenze di Stati nazionali e istituzioni confederali sarebbe chiaro e politicamente legittimato, e l’unione revocabile.

Dunque, l’UE è un progetto federale imperiale (in corso d’opera). Per federare un insieme di Stati in un organismo istituzionale maggiore, Stato-nazione o Impero che sia, ci vuole un federatore (v. il ruolo di Piemonte e Prussia nelle unificazioni italiana, nazionale, e tedesca, imperiale, del XIX sec.). I requisiti essenziali del federatore sono l’indipendenza politica e la forza egemonica (senz’altro militare, nel caso migliore anche economica e culturale). Nel progetto di federazione imperiale UE, invece, non c’è un federatore: lo Stato più forte, la Germania, difetta di entrambi i requisiti (ospita sul proprio territorio basi militari non europee, è economicamente ma non culturalmente egemone).

In realtà, il progetto federale imperiale UE ha due federatori a metà: un federatore politico (gli USA, che hanno l’indipendenza politica, della forza militare, e in certa misura dell’egemonia culturale in Europa) e un federatore economico (la Germania). Nessuno dei due “federatori a metà”, né il politico né l’economico, può/vuole portare a compimento la sua opera. Gli Stati europei non possono federarsi politicamente con gli USA, diventando il cinquantunesimo, cinquantaduesimo, settantottesimo, etc., Stato della federazione nordamericana. Né gli Stati europei possono federarsi intorno all’egemonia economica tedesca, perché il vantaggio economico del “federatore a metà” tedesco implica lo svantaggio economico senza contropartita politica della maggior parte dei federandi, che com’è logico alla fine si ribellano: ma né gli USA per evidente assenza di legittimazione, né la Germania per evidente difetto di mezzi atti allo scopo, possono far uso della forza per ricondurli all’unità.

Ora, nessun federatore agisce gratis et amore Dei nell’unica preoccupazione dell’interesse dei federati; ma perché l’operazione sia politicamente vitale, tra federatore e federati deve sempre avvenire uno scambio, più o meno equo e immediato, di reciproci vantaggi: anche quando la federazione avvenga per conquista sul campo di battaglia. Ad esempio, nell’unificazione italiana, allo svantaggio economico patito dal Meridione – sconfitto con le armi in due campagne militari, la seconda delle quali, la “guerra al brigantaggio”, particolarmente crudele – corrispondono i vantaggi politici dell’accrescimento di potenza dello Stato, così liberato dalle ingerenze straniere, dell’integrazione tra territori culturalmente e linguisticamente affini, e, seppur tardivamente e imperfettamente, un riequilibrio/compensazione delle disparità economiche e sociali tra Nord e Sud, aggravate o almeno non appianate dall’unificazione.

Nel caso dell’UE, invece, la federazione non può essere portata a compimento né dal “federatore a metà” politico, gli USA, né dal “federatore a metà” economico, la Germania. Ne risulta non solo un impaludamento del processo di federazione, ma:

  1. a) un grave danno politico per tutte le nazioni europee: l’UE risulta in un dispositivo di neutralizzazione politica dell’Europa nel suo complesso, del quale si avvantaggia il “federatore a metà” statunitense
  2. b) un grave danno economico per tutte le nazioni europee tranne la Germania e i suoi satelliti, che invece si avvantaggiano del danno altrui.

La contropartita di questi due danni, politico ed economico, è zero. Ripeto e sottolineo due volte: zero.

Per l’Italia – Stato, nazione, popolo italiani – la contropartita di questi due danni, politico ed economico, è meglio esprimibile con un valore algebrico negativo. Esempio politico. Regnante la UE, per due volte l’Italia ha fatto uso della forza contro uno Stato straniero, su indicazione del “federatore a metà” USA e contro il proprio manifesto interesse nazionale: contro la Jugoslavia e contro la Libia (nel caso jugoslavo, l’Italia già che c’era ha fatto anche l’interesse economico della Germania). Esempio economico. Dall’ingresso nell’euro, che è una macchina per svalutare il marco e favorire il mercantilismo tedesco ai danni anzitutto dell’Italia, che della Germania è tuttora il principale concorrente economico europeo, l’Italia ha perso il 25% della sua base industriale, con la disoccupazione di massa che ne consegue.

Quanto all’Unione Europea in generale, poi, lo squilibrio tra intenzioni (almeno esplicitamente dichiarate) e risultati effettuali dell’UE è talmente grande che minaccia di provocare, più prima che poi, una implosione/disgregazione totale del progetto federale, in modi e con effetti imprevedibili e potenzialmente catastrofici.

Come sentenziato dal Bardo, insomma, l’Unione Europea è un usurpatore, un falso Re.

Ma come è giunto a conquistare il trono questo usurpatore, questo falso Re? Quali grandi Casate nobiliari l’hanno sostenuto nella sua impresa, e perché?

Le grandi Casate nobiliari che hanno posto la corona sul capo del falso Re (“uneasy lies the head that wears a crown”, dice Bolingbroke nell’Enrico IV) sono le classi dirigenti europee e statunitensi: liberals, cattolici, socialdemocratici; gli eredi legittimi delle classi dirigenti antifasciste che hanno vinto, sul campo di battaglia o nelle urne elettorali, la Seconda Guerra Mondiale e il dopoguerra. Dalla grande alleanza antifascista mancano solo i comunisti sovietici, ma sono rappresentati dai loro eredi: eredi legittimi anche loro, anche se dopo l’estinzione del ramo principale è un ramo cadetto (i maligni dicono, un ramo bastardo) a portare il titolo.

Dopo la grande vittoria comune di settant’anni fa, queste grandi Case si sono aspramente combattute per decenni. Oggi governano insieme il Consiglio della Corona del (falso) Re e la Camera dei Lord dell’Unione Europea. Come hanno fatto ad accordarsi? Per il potere, si dirà. Certo, per il potere: ma questa risposta, che è sempre vera, non spiega tutto, e anzi forse non spiega niente. Qual è il minimo comun denominatore che ha consentito alle grandi Case, un tempo in lotta per il potere, di trovare un durevole accordo, e così porre la corona sul capo del falso Re?

Il minimo comun denominatore delle grandi Casate americane ed europee che sostengono il falso Re (l’Unione Europea) è l’universalismo politico.

L’universalismo è una cosa sul piano delle idee, dei valori, della spiritualità (nella cristianità europea, l’istituzione delegata a incarnarlo era la Chiesa, il primo “sole” del De Monarchia dantesco). Se tradotto sul piano politico, però, l’universalismo non può che incarnarsi in forze inevitabilmente particolaristiche: perché esistono solo quelle, nella realtà effettuale.

Volendo, chiunque se ne senta all’altezza può parlare in nome dell’universale umanità; ma non può agire politicamente in nome dell’universale umanità senza incorrere in una contraddizione insolubile, perché l’azione politica implica sempre il conflitto con un nemico/avversario.

Senza conflitto, senza nemico/avversario non c’è alcun bisogno di politica, basta l’amministrazione: “la casalinga” può dirigere lo Stato, come Lenin diceva sarebbe accaduto nell’utopia comunista. A questa contraddizione insolubile si può (credere di) sfuggire solo postulando come certo e autoevidente l’accordo universale, se non presente almeno futuro, di tutta l’umanità: “Su, lottiamo! l’ideale/ nostro alfine sarà/l’Internazionale/ futura umanità!” (il “governo mondiale” è un surrogato o avatar della “futura umanità” dell’inno comunista).

Lenin, e in generale il movimento comunista (o anarchico) rivoluzionario, vuole risolvere la contraddizione con la forza. Nella classificazione machiavelliana, Lenin è un “leone”.

L’universalismo politico delle grandi Casate nobiliari nordamericane ed europee che sostengono l’UE non è meno radicato di quello leniniano, perché discende dalla stessa radice illuminista. Esse però vogliono/devono risolvere la contraddizione con l’astuzia; Machiavelli le definirebbe “volpi”. Scrivo “devono”, perché a prescindere dalle intenzioni soggettive, le grandi Case non potrebbero essere altro che “volpi”: entrambi i “federatori a metà”, USA e Germania, non possono portare a compimento con la forza la loro opera.

Come l’URSS comunista, anche l’UE postula l’accordo universale, se non presente almeno futuro: accordo anzitutto in merito a se medesima, e in secondo luogo in merito al governo mondiale legittimato dall’umanità universale, che ne costituisce lo sviluppo logico, e giustifica eticamente sin d’ora l’obbligo di accogliere un numero indeterminato di stranieri, da dovunque provenienti, sul suolo europeo. Per questa ragione è impossibile definire definitivamente i confini territoriali dell’Unione Europea, che qualcuno pretende di estendere alla Turchia, e persino a Israele: perché ha diritto di far parte dell’UE chi ne condivide i valori universali (cioè virtualmente tutti, dal Samoiedo al Gurkha al Masai), non chi ne condivide i confini storici e geografici.

Il passaggio tra il momento t1 in cui l’accordo universale è soltanto virtuale, e il momento t2 in cui l’accordo universale sarà effettuale, non avviene con il ferro e il fuoco della “volontà rivoluzionaria”. Le volpi oligarchiche UE introducono invece nel corpo degli Stati europei, il più possibile surrettiziamente, dispositivi economici e amministrativi – anzitutto la moneta unica – che funzionano, secondo la celebre definizione di Mario Draghi, come “piloti automatici”. Questi piloti automatici provocano crisi politiche e sociali, previste e premeditate, all’interno degli Stati e delle nazioni, ai quali impongono o di insorgere in aperto conflitto contro la Corona, o di addivenire a un accordo universale in merito al “sogno europeo”: per il bene degli europei e dell’umanità, naturalmente, come per il bene dei russi e dell’umanità Lenin ricorreva al terrore di Stato, alle condanne degli oppositori per via amministrativa, etc.

A quest’opera va associata, inevitabilmente, una manipolazione pedagogica minuziosa e su vasta scala, in altri termini una lunghissima campagna di guerra psicologica. La dirigenza UE conduce questa campagna di guerra psicologica da una posizione di ipocrisia strutturale formalmente identica a quella della dirigenza sovietica, perché non è bene e vero quel che è bene e vero, è bene e vero quel che serve alla UE o alla rivoluzione comunista: in quanto Bene e Verità = accordo dell’intera umanità, fine dei conflitti, pace e concordia universali. Le élites, necessariamente ristrette, di “pneumatici” e di “psichici” che conoscono questo arcano della Storia, hanno il diritto e anzi il dovere morale di ingannare e manipolare, per il loro bene, le masse di “ilici” che invece lo ignorano.

Il leone Lenin accetta solo provvisoriamente il conflitto politico, e anzi lo spinge a terrificanti estremi di violenza, in vista dell’accordo universale futuro: dopo la “fine della preistoria”, quando diventerà reale il “sogno di una cosa” comunista e ogni conflitto cesserà nella concordia, prima in URSS poi nel mondo intero. Le volpi UE celano l’esistenza effettuale del conflitto (in linguaggio lacaniano lo forcludono), e da parte loro lo conducono, solo provvisoriamente, con mezzi il più possibile clandestini, in vista dell’accordo universale futuro, quando diventerà reale il “sogno europeo” e ogni conflitto cesserà nella concordia, prima in Europa poi nel mondo intero.

In questo grande affresco romantico proposto alla nostra ammirazione con la colonna sonora dell’Inno alla Gioia (forse non è un caso che il Beethoven delle grandi sinfonie fosse anche il compositore preferito di Lenin) c’è solo una scrostatura: che nella realtà, l’accordo universale di tutta l’umanità non si dà effettualmente mai. Ripeto e sottolineo due volte: mai, never, jamais, niemals, jamàs, etc.

E’ questa cosa, l’usurpatore, il falso Re: il Re del Mondo di Domani che non ha né la forza, né l’autorità, né la legittimità per governare il suo regno di oggi.

E il Matto? Il Matto Movimento 5 Stelle? In che modo ci rivela la verità sul suo e nostro falso Re?

Il M5S è un caso esemplare di universalismo politico spinto fino alle estreme conseguenze dell’assurdità, del ridicolo, insomma del grottesco. La sua scelta di non allearsi con alcuna forza politica se non su singoli provvedimenti definiti “tecnici” o “concreti” consegue, infatti, direttamente dal rifiuto pregiudiziale e preliminare del conflitto politico: dire che tutti sono avversari o nemici è identico a dire che nessuno lo è; dall’individuazione del nemico/avversario, infatti, consegue quali siano gli amici politici, che non si scelgono in base alla comunanza dei valori o all’affinità intellettuale e sentimentale, ma ci vengono imposti dalla comune inimicizia.

E chi è il nemico o l’avversario del Movimento 5 Stelle? La destra? La sinistra? Il centro? Il PD? La Lega? L’Unione europea? I nemici dell’Unione Europea? L’ISIS? L’America?  Il sistema solare? Il riscaldamento climatico? I corrotti? I bugiardi? I ricchi? I poveri? Il Resto del Mondo finché non si converte e non s’iscrive alla piattaforma Rousseau?

Il M5S rinvia tutto al momento magico in cui, da solo, prenderà il 51% dei voti, metterà in opera un progetto di democrazia diretta elettronica totale, e gradualmente persuaderà tutti della bontà e verità della propria azione, che non si caratterizza per la rispondenza a interessi ben definiti di ceti, classi, istituzioni, etc., ma per qualità d’ordine prepolitico come l’onestà, la trasparenza, la freschezza, etc.: qualità in merito alle quali tutti saranno costretti ad accordarsi, se non vogliono autodefinirsi corrotti, bugiardi, marci, etc.: “… honesty coupled to beauty is to have honey a sauce to sugar.” (il Matto Touchstone, As You Like It, Atto III, Scena III)

Una posizione simile condurrebbe, per sua logica interna, al Terrore giacobino; se non fosse che a) il M5S è sprovvisto dei mezzi per metterlo in opera b) il M5S agisce in un quadro di sovranità nazionale limitata (dalla UE) c) il M5S è un Matto, e il Matto può impugnare lo scettro e la spada, ma lo scettro è di cartone e la spada di gomma: più piccoli, ma per il resto identici al (finto) scettro e alla (finta) spada del suo (falso) Re.

Il M5S è, insomma, è un microcosmo che rispecchia il macrocosmo UE: un Matto buffo, piccolo, gobbo, sguaiato, vestito come il Re, e che parla, gesticola, si atteggia, promette e minaccia (a vuoto) come il Re. Come l’Unione Europea, è un organismo politico affatto disfunzionale, ispirato a un universalismo politico che non ha la forza di imporre, e il contenuto delle sue proposte politiche si autodefinisce come “la miglior soluzione tecnica, oggettiva, per il bene di tutti, di problemi concreti”. Poi, certo: il Re ha  un vasto stuolo di tecnici professionisti ben pagati che sfornano impeccabili soluzioni tecniche a tonnellate, 24/7, mentre il Matto ha una squadretta parrocchiale di geometri, ragionieri, laureati per corrispondenza che lavorano nei ritagli di tempo e fanno quel che possono. Ma la somiglianza – anzi, diciamolo col Bardo: la parodia c’è tutta.

Come l’UE in grande, cioè in Europa, così il M5S in piccolo, cioè in Italia, sortisce principalmente due effetti: neutralizza politicamente l’Italia, che a causa dell’ “elefante nel salotto” M5S si impaluda nella paralisi politica; e non pronunciandosi mai chiaramente in merito alla UE – perché per esistere, il Matto ha bisogno del Re, anche se può punzecchiarlo – gioca e fa giocare agli italiani un incessante ping-pong mentale tra la UE realmente esistente (falsa e cattiva) e la UE possibile (vera e buona); tra il Re com’è oggi, e il Re come sarà in futuro, in quel mondo migliore che i Matti chiamano Paese di Cuccagna, Schlaraffenland, Terra di Jaunja, Land of Plenty, Pays de Cocagne, etc.

Concludo. Rispondendo alla mia domanda sul Movimento 5 Stelle, il Bardo mi ha bonariamente rimproverato, invitandomi a disturbarlo solo quando devo fargli domande veramente difficili. “Aiutati che io t’aiuto”, m’ha detto scherzosamente. Ci ho riflettuto un attimo, e arrossendo gli ho presentato le mie scuse. In effetti, ci potevo arrivare anche da solo. Non c’è forse un Matto di professione, alla guida del Movimento Cinque Stelle? Non reca forse cinque stelle, la bandiera del Matto, come ne reca dodici la bandiera del Re (proposta dall’Araldo capo d’Irlanda)? Il dodici, che nella Cabala simboleggia “Il bene sopra tutto. La virtù non è solo pensiero ma anche azione. L’agire senza lucro e senza calcolo.” E il cinque, che simboleggia: “Fugate le nere ombre della notte, l’alba porta con sé i colori vivi della primavera e prepara l’arrivo del sole.”

Che sciocco sono stato, a non accorgermene subito. E’ proprio vero che  “The fool doth think he is wise, but the wise man knows himself to be a fool.” (il Matto Touchstone, As You Like It, Atto I, Scena 5).

 

Roberto Buffagni

IL BUON LAVORO, IL BUON SINDACATO_ di Giuseppe Germinario

Il 30 e 31 gennaio scorso la CGIL ha organizzato una conferenza di programma, il “BUON LAVORO”, sul tema delle implicazioni dei processi di digitalizzazione ed informatizzazione sull’organizzazione del lavoro delle imprese, sul mercato del lavoro, sulla contrattazione e sull’organizzazione sociale delle comunità.

Una iniziativa quanto mai necessaria nel mondo sindacale ma dal carattere ancora drammaticamente estemporaneo. Arriva, infatti, a circa trenta anni dall’avvio dei primi significativi processi di riorganizzazione delle attività produttive e di impresa, nonché della vita e dei sistemi di controllo delle varie formazioni sociali.

Un ritardo che si è manifestato in tutta la sua gravità nella qualità della relazione del Segretario Generale, Susanna Camusso e nella gran parte degli interventi, in una iniziativa per altro ancora unica nel mondo sindacale.

http://www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2018/01/20180129relazione-conferenza-programma.pdf

http://www.radioarticolo1.it/jackets/cerca.cfm?str=Buon+lavoro&contenuto=audio

La natura del potere sindacale, decisamente più contrattuale e di condizionamento che decisionale, giustifica solo in parte tale riflesso; contano soprattutto l’impostazione culturale e le chiavi interpretative di una classe dirigente sindacale impegnata a conciliare in qualche maniera gli stereotipi dell’attuale sinistra con il retaggio sempre più vago e oscuro di una visione di classe.

Nella fattispecie la relazione e le conclusioni di Susanna Camusso, nelle approssimazioni, incongruenze e alcune volte addirittura salti logici ivi contenuti, rappresentano il portato evidente di questo limite e dell’incapacità di offrire ai ceti popolari la possibilità di una difesa efficace delle proprie condizioni e un ruolo attivo in un eventuale progetto di sviluppo e di recupero di autorevolezza del paese.

È il momento, quindi, di addentrarsi nei contenuti di essa.

Il contrasto alle diseguaglianze è il filo conduttore dell’iniziativa e di tutto l’impegno sindacale.

Una ambizione caratterizzante il progressismo democratico e di sinistra cui appartiene a pieno titolo il sindacato confederale.

Quando però dalla enunciazione e dagli slogan taumaturgici si passa all’analisi e agli obbiettivi politici iniziano a sorgere i problemi e le incongruenze.

SULLE DISUGUAGLIANZE RISPETTO A CHI

Intanto diseguaglianze rispetto a chi e tra chi?

Camusso riprende pigramente le analisi modaiole di Piketty; l’1%, detentori, per di più bianchi, della ricchezza equivalente posseduta da 3,7 miliardi di persone restanti, quindi, rispetto al resto della popolazione. Un 1% costituito soprattutto da esponenti della finanza e delle banche.

Questa prima affermazione si presta a numerose obiezioni di varia rilevanza.

Sul colore della pelle, visto l’emergere di nuove potenze economiche, soprattutto in Asia e di relativi nuovi patron.

Il dato del 1% è un giochino statistico, dal vago sapore demagogico, realistico nel solo caso in cui tale immane ricchezza dovesse rimanere immobilizzata e tesaurizzata; una condizione legata a specifici cicli economici e fasi geopolitiche. Di regola rappresenta un sistema di drenaggio e riallocazione di risorse in settori e spazi geografici seguendo dinamiche economiche legate a strategie geopolitiche; un sistema, quindi, comunque di redistribuzione e di reinvestimento. Rappresentato come una cupola dominante gli affari e le peripezie del globo terreste, in grado di svuotare e sterilizzare l’azione politica, verrebbe da chiedersi come possa una organizzazione, delimitata territorialmente e circoscritta alla difesa degli interessi del lavoro dipendente, contrastare efficacemente e realisticamente questa divaricazione.

L’implicazione delle più gravi ed evidenti di tale escamotage nell’analisi politica e socioeconomica è infatti l’appiattimento del restante 99% di popolazione in un confuso calderone dagli ingredienti indistinti che impedisce di vedere le articolazioni sociali e le diversità di interessi e rappresentazione dei vari gruppi sociali.

Un’altra grave implicazione riguarda l’incapacità di analizzare e spiegare la conflittualità politica, presente in tutti gli ambiti compreso quello economico, sempre più accesa tra centri di potere in aperta competizione e del tutto incompatibile con una visione totalitaria e verticale dell’azione politica. In questa dinamica i centri economico-finanziari sono solo parte dei vari centri decisionali in competizione e conflitto ai quali partecipano a pieno titolo élites operanti in altri ambiti, dal militare all’accademico, alla sicurezza interna, all’amministrativo; compresi quindi quelli presenti nelle varie istituzioni pubbliche e statali.

La conseguenza di tale impostazione è la formulazione di orientamenti ed obbiettivi politici quantomeno velleitari o mal posti.

DISUGUAGLIANZE TRA CHI

La prospettiva di diseguaglianza interna al blocco del 99% si rivela se possibile ancora più inadeguata. La constatazione ricorrente è quella di una condizione sempre più generalizzata di precariato e di peggioramento dei livelli di sfruttamento e di condizione economica.  Più che di diseguaglianza si tratterebbe quindi di appiattimento generalizzato al ribasso delle condizioni di vita e di lavoro.

Le vie di fuga consentite da queste chiavi di interpretazione sono alla fine scontate.

Si parte dalla aspirazione di un Governo Mondiale che dovrebbe controbilanciare lo strapotere di questa grande cupola, per consolarsi via via con la costituzione degli Stati Uniti d’Europa e ridursi infine ad una generica azione di controllo dei Governi attraverso soprattutto la tassazione; il tutto corroborato e sostenuto dall’azione di un presunto movimento sindacale e di opposizione internazionale.

Sarebbe sin troppo facile sfrucugliare sulle possibilità reali di direzione unitaria di tale movimento, laddove dovesse prender piede e sul fallimento di tali aspirazioni nei momenti più drammatici di conflitto di questi ultimi due secoli. Non è però l’aspetto centrale della questione.

Le ultime vicende legate alla manipolazione di dati dei colossi della comunicazione e alla crisi economica finanziaria degli ultimi dieci anni hanno rivelato la rivalità accesa di questi centri, l’aperta innervazione di essi con gli apparati e i centri di alcuni stati in via di rafforzamento e di altri in via di indebolimento, la loro stessa dipendenza dalle scelte e dal controllo di questi apparati.

Non si tratta quindi di un generico recupero del controllo pubblico, quanto di quello delle prerogative di quegli stati che volenti o nolenti vi hanno rinunciato attraverso la realizzazione di strategie particolarmente complesse ed articolate.

Susanna Camusso invece non trova di meglio che lamentarsi del cosmopolitismo e della libertà di circolazione a senso unico auspicati e perseguiti da questa cupola; applicati quindi ai capitali ma non alla manodopera e alle popolazioni, soggette queste ultime sempre più alle limitazioni dei muri e di vari tipi di barriere. Da qui la conferma di una veemente condanna delle politiche protezioniste, per altro comunque esistenti in varie forme selettive, foriere di guerre e disastri. Una accorata difesa di libertà, costituita nella prosaica realtà da pratiche selettive che hanno garantito il predominio pluridecennale della formazione americana, ma anche l’emergere di nuove potenze sempre più in grado di sostenere la competizione politico-economica. Un vero e proprio accecamento ideologico che impedisce di vedere la natura del conflitto tra centri globalisti e centri strategici più disposti ad accettare una condizione multipolare; di individuare di conseguenza l’interesse che hanno anche gran parte degli strati più popolari e subalterni a veder frenati e strettamente controllati i processi di migrazione e i flussi economici.

Quel che appare una visione universalistica in grado di interpretare adeguatamente la realtà globale e gli interessi della varia umanità, si rivela in realtà una proiezione di una condizione e di un processo riguardante un mondo occidentale in declino o comunque costretto a circoscrivere la propria azione.

La crisi, il diradamento e il depauperamento dei ceti medi, ad esempio, contrariamente alla rappresentazione catastrofica offerta dal Segretario Generale, è un processo che riguarda soprattutto le formazioni occidentali in declino, in netto contrasto con il loro sviluppo nelle formazioni emerse ed emergenti quali la Cina, l’India, la Russia, l’Indonesia ed altre. La competizione e il declino, a volte relativo a volte assoluto delle formazioni occidentali, rende poco sostenibile il sistema di funzioni, di redistribuzione di rendite e redditi che ha contribuito a rimpolpare e garantire lo status di ampi settori di ceti intermedi.

Un processo reso ingovernabile e ulteriormente destabilizzante da due altri fattori a loro volta globali, i quali hanno un influsso diverso su formazioni in via di sviluppo e formazioni sulla via del declino; su formazioni con una folta presenza di ceti medi numerosi ed articolati e formazioni con ceti da creare partendo da una base iniziale più ristretta e meno articolata e diffusa:

  • da processi di mondializzazione delle filiere produttive e dei servizi con la conseguente migrazione di interi comparti produttivi, più o meno evoluti;
  • da processi potenti di robotizzazione e digitalizzazione i quali stanno trasformando radicalmente, più che azzerando, il livello e le gerarchie di competenze professionali nonché la definizione di funzioni e ruoli necessari alla formazione e alla stratificazione dei ceti intermedi sotto mutate spoglie

Per una associazione la quale costitutivamente fonda la propria ragione d’essere sul rapporto più o meno conflittuale tra capitale e lavoro dipendente è molto facile scivolare e proiettare le proprie dinamiche politiche e rivendicative in una visione universalistica di fatto subordinata, grazie all’impostazione dualistica dei rapporti di potere tra capitalisti (ormai finanziari) e salariati (masse diseredate), alle strategie globaliste tipiche invece di centri strategici che ambiscono all’egemonia unipolare. A meno che l’organizzazione non disponga di una classe e di un gruppo dirigente talmente saldo politicamente da essere in grado di ricondurre le dinamiche ed i conflitti di classe, le rivendicazioni settoriali all’interno delle dinamiche geopolitiche che si stanno consolidando.

LE IMPLICAZIONI POLITICHE

Questo gruppo dirigente non appare assolutamente in grado di elaborare una analisi e condurre un’operazione politica di tale portata; di conseguenza non appare in grado di opporre una difesa efficace ed unitaria degli interessi popolari.

Sembra, al contrario, rimuovere dal proprio bagaglio personale quel patrimonio culturale duramente acquisito sino ai primissimi anni ’70 ed utilizzato con buona efficacia per una brevissima stagione, sino a quando, cioè, non prevalsero definitivamente e tardivamente le pulsioni egualitariste più esasperate tipiche dell’operaio-massa e, in forma ancora più avulsa, di ampi settori del pubblico impiego.

L’enfasi con la quale la CGIL, più in generale l’insieme del mondo sindacale, pone l’accento sulle diseguaglianze è il segno della gravità della frammentazione e polverizzazione del mondo del lavoro dipendente e collaterale, ma anche dei gravi limiti dell’attuale azione sindacale.

La precarizzazione della condizione economica e dei diritti dei salariati, degli autonomi e di buona parte dei ceti professionali è la conseguenza pressoché diretta del drastico ridimensionamento dell’apparato produttivo e di servizi del paese, frutto a sua volta di una intrinseca debolezza politica della classe dirigente del paese. Il confronto tra le forze sociali, tra esse il confronto sindacale, si fonda quindi su basi e su margini più ristretti; la forza contrattuale degli strati più fragili e deboli risulta pregiudicata. L’esigenza inderogabile di ammodernamento e riorganizzazione produttiva delle attività superstiti e la perdita di controllo nazionale di gran parte delle imprese più rilevanti hanno per altro sconvolto le basi del sistema di contrattazione e dei rituali sindacali consolidati sino a fine secolo.

Non a caso l’azione più importante su cui è impegnato questo sindacato riguarda la rielaborazione del sistema dei contratti collettivi e individuali di lavoro e il varo di una carta dei diritti. Una azione alla quale, però, manca ormai una sponda politica ed istituzionale, una volta garantita dai partiti operai e popolari, in grado di sostenerla; tanto più necessaria, quanto più e polverizzato il quadro sociale operativo del sindacato.

Si tratta, però, di una operazione di stampo prettamente legalitario, di fatto elitaria che prescinde dal contesto economico e dai rapporti ormai consolidati. Lo sviluppo esponenziale dell’economia informale, una tara storica del paese Italia, è tutta lì a rivelarne la debolezza e la parzialità. Una fragilità rispetto alla quale le modalità di contrasto delle diseguaglianze prospettate da questo gruppo dirigente appaiono distorsive e fuorvianti.

L’aspetto centrale del problema è invece l’appiattimento retributivo ed anche normativo riservato a tante categorie più professionalizzate e specializzate.

Senza porre al centro questo aspetto, difficilmente il sindacato potrà contare sull’apporto delle forze più competenti, più forti e più tenaci del mondo del lavoro; rischia, piuttosto, di essere soggetto al meglio alle vampate e alle fibrillazioni senza respiro dei settori più degradati e meno capaci di sostenere confronti prolungati.

Le cause di questa condizione sono molteplici:

  • la mancata coltivazione ed incentivazione di un ceto imprenditoriale e manageriale nazionale interessato e capace di investimenti strategici, di sviluppo di grandi imprese;
  • la distruzione e l’annichilimento progressivo di quella parte di classe dirigente della nazione in grado di sostenere una collocazione internazionale del paese sufficiente ad offrire spazi e condizioni a questo sviluppo;
  • la destrutturazione piuttosto che la riorganizzazione di gran parte degli apparati e delle strutture necessari a garantire queste politiche;
  • una condizione delle strutture produttive che richiede qualificazioni complesse ma fuori mercato;
  • un serbatoio di manodopera inoccupata del tutto sproporzionato

Da qui lo spreco di competenze e di qualificazioni che sta portando ad un degrado progressivo degli stessi centri di formazione dal costo ormai sempre più insostenibile e meno giustificabile dagli sbocchi.

I primissimi anni ’70 furono i momenti di maggiore forza e lucidità del movimento sindacale. Fu la breve fase nella quale il sindacato godeva dell’apporto militante dei settori più professionalizzati del mondo del lavoro dipendente. In quegli anni maturò la politica del cosiddetto “nuovo modello di sviluppo”, velleitaria e spesso fumosa, ma indicativa delle ambizioni unitarie e generali del movimento. Contestualmente si elaborò la classificazione del personale in un inquadramento unico che tentava da una parte di far corrispondere il salario al livello professionale e di competenza dei dipendenti, siano essi operai, che impiegati, che tecnici, che quadri; dall’altra di riordinare i sistemi di incentivazione individuali. Una epopea che si concluse rapidamente nell’inerzia delle posizioni egualitariste più radicali portate avanti dai settori meno qualificati e/o più istituzionalmente garantiti da un sistema di regolamentazione pubblica proprio degli apparati burocratici ed amministrativi sino all’apoteosi velleitaria del salario considerato “variabile indipendente”. Posizioni via via prevalenti negli ambienti sindacali.

A cosa si sia ridotta progressivamente la cittadella sindacale e la composizione di gran parte dei cortei è sotto gli occhi di chi vuol vedere.

LE OMISSIONI ED I RITARDI

La relazione di Susanna Camusso e la stessa azione sindacale sono lontani da un cambiamento di impostazioni altrimenti indifferibile.

  • Nella relazione non c’è traccia della necessità di tutelare e sviluppare un complesso di grandi imprese, a controllo e di espressione nazionale in grado di garantire adeguate piattaforme industriali nei settori sperimentali e strategici, in grado di competere ma anche di partecipare con pari dignità al sistema di compartecipazioni e di fusioni internazionali.
  • Non c’è traccia del ruolo preminente cui sono chiamati gli stati nazionali nello scacchiere geopolitico e nei sistemi di alleanza che si vanno prefigurando non ostante la vulgata sovranazionale ancora predominante in questi ambienti. Sistemi propedeutici al varo di politiche industriali e alla formazione di grandi complessi di imprese paragonabili a quelle americane, cinesi e in alcuni ambiti russe;
  • lo stesso ruolo pubblico si limita, nella rivendicazione, ad una politica di massicci investimenti e di riordino normativo e organizzativo tesi a favorire le condizioni e le opportunità di mercato. Una politica velleitaria nelle dimensioni, perché inquadrata nei vincoli comunitari; essa non farebbe che assecondare per altro i processi “naturali” di mercato i cui indirizzi sono decisi altrove; di fatto in altri centri politici decisionali estranei al paese ma ben presenti in altre formazioni e apparati statali.

SINDACATO E INDUSTRIA 4.0

Risulta gravemente inficiato, di conseguenza lo stesso approccio alla problematica dell’industria 4.0 tentato nel convegno.

Non sorprende nemmeno il sostegno acritico ed entusiasta al provvedimento “Industria 4.0” varato dal Ministro Calenda nel 2016 concesso dalle tre confederazioni nel 2017.  http://www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2017/03/Doc-Unitario-CGIL-CISL-UIL-del-13-marzo-2017-INDUSTRIA-4_0-1.pdf

In proposito si veda quanto espresso a suo tempo da questo blog. http://italiaeilmondo.com/?s=i+buoi+oltre

Nella relazione vi sono solo un paio di accenni critici in proposito, quasi del tutto irrilevanti.

Si sottolinea il carattere fuorviante del titolo che induce a focalizzare l’attenzione ai soli processi industriali di digitalizzazione e robotizzazione. In una successiva intervista Susanna Camusso, bontà sua, tende a sottolineare ulteriormente che i processi riguardano ampiamente anche il settore dei servizi e le amministrazioni pubbliche.  Questo a distanza di quasi trent’anni dai primi processi avviati, già con ritardo, nel settore bancario. http://www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2017/06/Idea_Diffusa01-2018-1.pdf

Si indulge sulla constatazione dell’insufficienza degli investimenti, in particolare pubblici, nel settore della ricerca e sulla necessità, sulla carenza, espressa in modo generico, di una concertazione tra le parti nella messa in opera e valorizzazione degli stessi.

Glissa del tutto sull’articolazione e sugli aspetti dei quattro ambiti, pur enunciati abbastanza chiaramente nel provvedimento governativo e posizionati gerarchicamente, entro i quali agiscono i processi di intelligenza artificiale (IA), di digitalizzazione e robotizzazione.

Critica blandamente il punto di vista legato esclusivamente ai processi di automazione degli impianti, ma solo per addentrarsi a grandi linee con un grande balzo spericolato sulla problematica dell’introduzione di queste tecnologie nei beni di consumo e di servizio. Nella fattispecie sulle implicazioni positive legate alle possibili estensioni della gamma e della qualità di servizi e beni alla persona, in particolare quelli connessi allo stato sociale; su quelle negative legate al controllo e alla sicurezza dei dati personali.

Su questo aspetto, nessuna attenzione all’enorme e cruciale problema di sicurezza e di dipendenza legato ai processi di raccolta, filtraggio e trasmissione dei dati rilevati dai prodotti e dai processi industriali connessi in rete. Processi in mano quasi integralmente a compagnie americane.

Un problema che sembra preoccupare seriamente cinesi e russi, tant’è che vi stanno investendo copiosamente; non sembra gran che tormentare i sonni degli europei, tanto meno degli italiani. Nel suo piccolo la Camusso offre il suo contributo al torpore. Si guarda bene dallo spingere il Governo e gli imprenditori italiani a cercare e promuovere sinergie e collaborazioni analoghe, specie in ambito franco-tedesco, per varare analoghe strutture di servizio. Tutto l’afflato si riduce ad una accorata esortazione ad un controllo democratico, per iniziativa di governi ed istituti sovranazionali, della corretta gestione dei dati.

Ci si sarebbe aspettato una particolare attenzione, connaturata alla missione del sindacato, sulle implicazioni dei processi di digitalizzazione, robotizzazione e IA sulla organizzazione del lavoro e sui vari livelli di qualificazione e professionalità richiesti. Un aspetto cruciale fondativo della contrattazione nazionale ed aziendale. Anche in questo caso, la premura con la quale la relazione sottolinea il fatto che ci si trova di fronte a processi di lungo periodo e reiterati pare più un alibi per giustificare i ritardi di comprensione e di azione che un appello ad attrezzarsi ad una sorta di contrattazione permanente e con cognizione di causa in un quadro di politica industriale.

Non una parola, anche in questo caso, sulle pecurialità dell’industria italiana, nella quasi totalità fatta ormai di aziende di medie e piccole dimensioni le quali impediscono di acquisire all’interno gran parte delle nuove competenze richieste, obbligandole ad affidarsi a figure esterne. Da qui il fenomeno abnorme di professionisti esterni, spesso mal pagati e vessati, perché non organizzati in ordini professionali riconosciuti, dallo Stato. Nemmeno una parola sui processi di progressiva assimilazione delle competenze professionali in programmi modulari propedeutici ad un ulteriore processo di dequalificazione e precarizzazione del personale richiesto. Anche su questo i margini di azione sarebbero ancora ampi per compensare il calo di livello di specializzazione richiesti con un allargamento della qualificazione riguardante la conoscenza più ampia possibile di cicli operativi. Anche questa una ricerca e un impegno tanto in voga in quegli anni, grazie all’impegno politico e sindacale di tecnici e professionisti, ma caduta pressoché in disuso ai giorni nostri sino a confondere i concetti stessi di specializzazione e qualificazione, invertendone addirittura l’importanza.

Non è un caso che la relazione, non ostante le intenzioni dichiarate, finisce regolarmente per soffermarsi sugli episodi di precarietà, come quelli dei call center, importanti per la loro diffusione ed estensione, ma marginali rispetto a quello che sta accadendo nei gangli vitali dell’industria e dei servizi.

Con questi limiti la classe dirigente sindacale non ha alcuna possibilità di inserirsi validamente in un progetto di rinascita nazionale, condannando ampi strati popolari alla marginalità politica, sociale ed economica.

Lo stesso muro che legittimamente cerca di erigere contro la diffusione di regimi assistenziali slegati dalla condizione lavorativa, siano essi il reddito di cittadinanza o le pensioni sempre più sganciate dai versamenti contributivi o quant’altro, grazie a queste mancanze rischia di sgretolarsi di fronte agli attacchi concentrici e all’attrattiva facile e temporanea offerte da partiti movimentisti come il M5S, da gran commis dello stato, come Tito Boeri e dalle rozze politiche aziendali di gestione del personale.

Di converso la maggiore preoccupazione sembra concentrarsi su una reciproca legittimazione delle parti sociali, quindi in primo luogo con la Confindustria, tesa alla mera sopravvivenza conservativa e autoreferenziale.

Cosa sia attualmente la Confindustria, già dal passato poco glorioso, meriterebbe un capitolo a parte. Pare evidente la sua intenzione di perseguire una politica di adeguamento alle possibilità di sfruttare gli interstizi di mercati determinati da altri. Per ambire a qualcosa di più e di più dinamico occorrerebbe una classe dirigente e un ceto politico di ben altre ambizioni e capacità. La storia dell’IRI, dell’Olivetti, della Montedison sono lì a dimostrare il carattere prevalentemente retrivo e conservatore di questa organizzazione.

 

La ricerca della protezione: appunti sul 4 marzo, di Alessandro Visalli

La ricerca della protezione: appunti sul 4 marzo.

Si può partire da molte cose per spiegare la fragorosa slavina di domenica che ha travolto tutta la sinistra italiana: in primis la sua magna parte era da molto tempo più liberale che socialista, e parteggiava abbastanza chiaramente per la metà tranquilla e garantita della società; la piccola quota di LeU, fattasi ancora minore, è risultata essere in tutte le sue componenti troppo indecisa e in alcune anche compromessa con la formazione di provenienza per essere credibile per l’altra metà del cielo; del resto anche la piccolissima, ai conti ancora più del previsto, PaP si è rivelata troppo confusa e sotto troppi profili inadeguata per rappresentarla, ed anche questa alla fine ha finito per guardare solo il proprio ombelico. In tutto non è arrivata al 25% degli elettori, cioè a poco più del 15% degli elettori.

Uscendo da questa spiegazione politicista si può anche partire da guardare al nesso tra movimenti sociali e culture politiche; cioè tra quello scivolamento verso il basso almeno del 20% che non si percepisce più classe media (per cui oggi possono sentirsi tranquilli solo il 40% ca, e invece si sentono deboli almeno il 50% della popolazione). Dunque dalla molla che nel silenzio si stava caricando, come dice Bagnasco, e che alla fine è scattata.

Come sta avvenendo in tutto l’occidente, anche in Italia continua insomma quella che Spannaus ha chiamato la rivolta degli elettori. Dal 2016 abbiamo avuto prima la brexit, poi l’elezione di Trump, quindi il preavviso non ascoltato delle elezioni italiane del 2013 e dell’esplosione del M5S, un evento che nel 2014 in “trovare la forma” mi sembrava indicare, ‘come in uno specchio’ il sorgere di un nuovo assetto, un nuovo equilibrio che sorgeva da qualche parte ed iniziava ad aggregarsi. Poi abbiamo avuto il referendum italiano che ha spezzato la traiettoria di Renzi; le elezioni francesi nelle quali la Le Pen è stata fermata (ma solo al ballottaggio), ma al contempo è emersa una sinistra nuovamente attenta alle ragioni del socialismo in Mélenchon (come in Inghilterra in Corbyn e in USA in Sanders), separandosi chiaramente da un centro liberale ricostituito in Macron; persino quelle tedesche, in cui le formazioni centrali sistemiche sono ulteriormente arretrate.

Siamo quindi da qualche anno su quello che si potrebbe chiamare “un crinale”, la pallina sta andando una volta di qua ed una volta di là.

 
Elezioni 4 marzo: rapporto tra reddito pro capite e consenso al M5S

Commentando questi eventi Carlo Formenti parla dell’esplosione della rabbia delle ‘periferie’, cioè di classi subordinate schiacciate dal riassetto sistemico in corso e incazzate in particolare con la sinistra, “che le ha consegnate alla repressione del capitale globale preoccupandosi solo di difendere i diritti civili di minoranze colte e benestanti”. Le sinistre di tradizione socialista sono, insomma, diventate esclusivamente liberali e ormai difendono ostinatamente un insediamento sociale, erroneamente considerato maggioritario, riconducibile solo a classi medie ‘riflessive’, urbane, sempre più anziane. Ne è chiara immagine il multiculturalismo e la difesa della cosiddetta “società aperta” (e competitiva) ed anche il cosmopolitismo di marca borghese spacciato per internazionalismo. Del resto anche le sinistre più o meno ‘radicali’, come LeU e soprattutto PaP scontano un complessivo e radicale disorientamento strategico; l’incapacità di individuare gli snodi essenziali della situazione e di impostare un discorso politicamente e socialmente coerente. In queste condizioni il 15% del corpo elettorale è una dimensione più che appropriata (ma può ancora scendere).

Lo sfondo è chiaro: la fase di rilancio dell’accumulazione, attraverso la finanziarizzazione, l’interconnessione e l’aumento della dipendenza, e l’estensione del dinamismo che si è avuta nel trentennio dal 1980 al 2010 si è risolta in un 66% degli italiani che (indagine Demos, 2016) reputa “inutile fare progetti per il futuro”. La scheletrica ed irresponsabile antropologia del pensiero liberista non ha capito che l’incertezza ed il rischio non sono pungoli che rendono più attivo e produttivo l’uomo; se superano una certa soglia si sopportabilità, al contrario, lo spengono. Un “futuro incerto e carico di rischi”, come quello percepito incombente e minaccioso da due nostri compatrioti su tre, induce infatti quello che Mullainthan e Safir, in un bel libro del 2013 “Scarcity”, chiamano “effetto tunnel”. La scarsità percepita “cattura la mente”, inducendola a concentrarsi solo sull’assoluto presente. Ma non si tratta di ottimizzazione, come presume tanta letteratura scritta nel chiuso dei propri dipartimenti da ricchi professori: è al contrario una “inibizione”. Gli psicologi chiamano con questa parola (per questo tra virgolette) quella capacità della mente di eliminare le possibilità alternative, rendendole invisibili. In altre parole, concentrarsi su una cosa urgente e vitale (come affrontare un predatore, o pagare la prossima bolletta della luce) “ci rende meno capaci di pensare ad altre cose che contano”; è quella che si chiama “inibizione dell’obiettivo”. Tutti i fini e le considerazioni che sarebbero altrimenti importanti (migliorare la propria competenza con un corso professionale, fare quell’investimento che pure indurrebbe grandi risparmi, curare le relazioni sociali per aumentare le proprie opportunità, …) scompaiono dalla nostra stessa vista. Mentre nei paper dei vari Lucas o quelli di Prescott, si immagina che il consumatore definisca sempre ‘aspettative razionali’ sul futuro, calcolando tutte le implicazioni di ogni politica e anticipandole nella sua azione, la maggioranza di essi è invece concentrata sul “tunnel”. La mente non è, cioè, occupata a fare complessi calcoli costi-benefici ma dalle scadenze.

È questo che alla fine impedisce qualunque progettualità, inclusa la ribellione, che spinge a vivere in un eterno attimo presente, carico di angoscia e risentimento inespresso.

Ma improvvisamente il 4 marzo, in fondo inaspettatamente, questo fondo magmatico si è espresso. L’umore nero del paese profondo, quello che la sinistra neppure riesce ad immaginare e per il quale non ha proprio le parole (risolvendosi a reiterare stanchi cliché come ‘razzismo’, ‘populismo’, ‘nazionalismo’, anche ‘fascismo’) si è improvvisamente addensato come una sorta di nuovo popolo che si separa nel paese, mettendo a punto un linguaggio, dei blocchi emotivi, nei bar, nelle strade, nei negozi, negli uffici, nelle piazze. Un ‘popolo’ che si è identificato nei ‘non’, nelle differenze dal potere, dalla politica, dalla finanza, dalla grande impresa, dalla globalizzazione, dalla tecnologia industriale, dalle <caste>, dal denaro. Anche dai meridionali, dagli immigrati, dagli altri ed estranei,

Chiaramente questa “cultura” appare agli occhi ed alle orecchie di quelli che una volta sarebbero stati chiamati <gli integrati>, cioè dei colti e formati, dei tranquilli, di chi non cambia spesso lavoro, di chi ha l’orizzonte sereno di un percorso tracciato, o delle risorse per farsi il futuro che si vuole, strana ed un poco aliena. Appare sconnessa, contraddittoria, mal costruita, oscura e per certi versi temibile; sembra pericolosa.

Questa reazione, di cui tutte le sinistre sono espressione (anche quelle ‘radicali’) non capisce nulla e non si vede che in questo c’è del nuovo. Rischia, più o meno tutta insieme, di fare la fine di De Maistre con la Rivoluzione Francese, cioè slittamento per slittamento, di trovarsi alla corte di Alessandro di Russia.

Questa reazione al plebeismo di questa ‘rivolta’ (che non è ancora una ‘rivoluzione’, di qualunque segno, e forse mai lo sarà), per ora identificabile come un ‘momento Polanyi’ con singolari e rischiose analogie con gli anni trenta (quando intellettuali allora di sinistra, come Sombart, indicarono la svolta), porta in altre parole molti a cercare di arroccarsi entro il sistema sfidato. La scelta di LeU, di utilizzare i profili istituzionali dei Presidenti di Camera e Senato e di enfatizzare in ogni occasione la propria ‘responsabilità’ suona infatti a molte orecchie come chiara scelta del campo. Un campo affollato e in via di restringimento, nel quale non c’è spazio e nel quale il 3% raggiunto appare già come un risultato notevole.

Ma anche PaP, che ha inteso restarvi fuori, rigetta il plebeismo. Invece di fare tesoro della ‘tecnica della spugna’ del M5S, della capacità di addensare i sentimenti, le parole, le pulsioni e di solidificare i vapori diffusi, ha ripetuto i suoi slogan identitari. Peraltro divergenti in modo radicale gli uni dagli altri, a causa di un rassemblement costruito necessariamente troppo in fretta e senza un vero centro.

Del resto se anche fosse vero, ma credo che questo sia parte del problema, che come scrive il mio amico Riccardo Achilli “ogni crisi e ogni fase di transizione generano, nel nostro popolo, sottoprodotti di scarto, come il giustizialismo, il plebeismo, il qualunquismo, l’avventurismo, l’anarco-individualismo”, bisogna comunque chiedersi in modo più attento perché tutto questo si è risolto nel 55% dei consensi alle forze antisistema rappresentate da M5S (32%), Lega di Salvini (17%) e la più tradizionale Fratelli d’Italia (4,5%), il primo, terzo e quinto partito, mentre le forze responsabili che hanno guidato la seconda repubblica sono scese al 40%, con il PD (18%) e Forza Italia (14%), insieme all’appendice, e considerata tale, di LeU (3%).

Ci sono naturalmente molte, diverse, spiegazioni, ma torniamo agli “snodi della situazione”; in sostanza mi pare di poter dire che la sinistra liberale (tra cui va annoverata anche LeU, che ne è solo la propaggine più radical) fatica a confrontarsi con le conseguenze de:

  • la nuova ‘piattaforma tecnologica del capitalismo’ e con le sue conseguenze sul mondo del lavoro e la distribuzione,
  • l’accelerazione dei processi di disarticolazione che ne sono parte e dei fenomeni di mobilità, con le loro radicali e crescenti conseguenze (qui viene rigettato, in nome di un cosmopolitismo verniciato di internazionalismo il tema dirimente dell’immigrazione, su cui abbiamo di recente letto Sahra Wagenknecht),
  • l’Europa nel contesto del processo di ricomposizione egemonica in corso (che avevamo chiamato “la grande partita”),
  • lo smottamento della base sociale della democrazia e l’attacco al suo ‘carisma’.

Certo chiunque fatica a confrontarsi davvero con queste forze. Tanto più quanto cerca di leggerle con gli occhiali costruiti per altre ‘piattaforme tecnologiche’ (quella fordista in primis, ma anche quella post-fordista che si sta radicalizzando andando oltre se stessa e revocando via via anche i compromessi che la costituivano, come la flessibilità in cambio del lavoro), per società ancora solide che si stanno rivelando stremate e per un progetto internazionale che presumeva un’omogeneità politica e culturale prospettica che si allontana verso modelli multipolari di difficile interpretazione. Lo smottamento della base sociale della democrazia è solo il necessario suggello a questa molteplice frana.

Dunque il 4 marzo è venuta giù la slavina che seguiva al disgelo lento di forze accumulate nel lungo tempo degli ultimi trenta anni.

Il sud Italia si è unito, come mai si era visto in precedenza, garantendo maggioranze che si possono definire ‘bulgare’ al M5S, che in alcuni territori ha superato il 60% dei consensi. Il nord Italia ha visto l’affermazione impetuosa della Lega, che è cresciuta di oltre quattro volte, portandosi ad un’incollatura dal secondo partito, in caduta libera.

Quelle espresse dal M5S al sud e dalla Lega al nord sono, a tutta evidenza, due diverse forme di politica ‘maggioritaria’ (secondo la definizione che ne dà un manifesto della politica elitaria e tecnocratica come “Lo Stato regolatore” di Majone) e di ricerca di protezione, armate l’una contro l’altra.

Il miracolo del 4 marzo è cioè figlio dell’improvviso manifestarsi, ad un livello qualitativamente superiore, di quella che Laclau chiamerebbe due diverse “faglie di antagonismo”, entrambe originate dalla sofferenza e dalla paura che la metà inferiore della piramide sociale vive. Quindi da due diverse domande di protezione. Sinteticamente dalla protezione dal mercato, da una parte, e dallo Stato tassatore (eventualmente anche europeo), dall’altra.

Il lavoro che il M5S, da una parte, e Salvini dall’altra (gli indiscutibili vincitori), hanno fatto è per entrambi di identificare, in qualche modo nominare, un obiettivo centrale per orientare le energie disattivate dalla crisi. Questo ha consentito a molti di trovare la ragione per oltrepassare l’inibizione che la pressione insopportabile dell’incertezza e della scarsità porta con sé nell’identificazione chiara di un colpevole. Si tratta di un’operazione, non ha molta importanza qui se cosciente o ‘trovata’ solidificando vapori diffusi, propriamente politica (che anzi ne è il proprio) di costruzione di egemonia. La creazione di un profilo individuale nella rappresentazione politica.

La sfida che questo ‘doppio popolo’, manifestatosi nelle urne, pone in primo luogo nella modalità della sua costruzione, alla logica razionale del discorso liberale corrente è tutto in questo ‘eccesso’. Majone ci insegna che la politica ‘madisoniana’ (per la cui radice storica rimando a questo testo di Alan Taylor) nella quale abbiamo vissuto in particolare gli ultimi trenta anni è necessariamente parsimoniosa nella ricerca del consenso, anzi in sostanza ne fa a meno. Cerca di legittimarsi da un’altra fonte (ed infatti proliferano i meccanismi per ottenere la licenza d’uso a buon prezzo, con meno voti possibili, con i più diversi trucchi ‘maggioritari’), come dice il politologo italoamericano nella credibilità dei risultati anziché nella delega della maggioranza. La fonte della legittimità, per la generazione di politici cresciuta negli ultimi decenni, non è davvero il consenso degli elettori, e la responsabilità verso i Parlamenti, ma la verità della tecnica ed i risultati, in ultima analisi il successo. Non è affatto un caso che l’Unione Europea sia quello che è: di questa logica è il distillato più puro al mondo. In essa si ha un netto e pulito rovesciamento, perché a ben vedere sono i governi che controllano i Parlamenti attraverso gli schermati organismi europei (come gli Eurogruppi o il Consiglio Europeo), cfr. Majone, cit. p.168. E per farlo ricorrono anche a ‘fiduciari’ (dei mercati-sovrani, non certo dei cittadini) che non sono legati da vincoli di mandato ma sono “indipendenti”, il migliore esempio è la BCE (di cui presto avremo notizie). La mossa vincente è disperdere il potere fra istituzioni differenti (una mossa antica ed in effetti fondativa dell’assetto politico moderno, come si vede dal libro di Taylor sulla democrazia americana delle origini) il più possibile al sicuro dall’opinione dei cittadini.

La questione non è astratta, perché c’è un nesso forte e sistematico tra la possibilità di politiche redistributive (che necessitano di uno Stato forte, ‘gestore’ come dice, e di politiche attive ed energiche) e la loro legittimazione, che deve necessariamente passare per maggioranze politiche altrettanto attive ed energiche. Indebolirle, frammentando il potere e portandolo oltre le braccia degli elettori (cioè passare allo “Stato [solo] regolatore”) implica una diversa fonte di legittimità, ancorata non al voto della maggioranza ma all’efficacia credibilmente rivendicata, cioè al sapere tecnico. Questi organismi sono quindi in effetti “creati deliberatamente in modo da non renderli direttamente responsabili verso l’elettorato o i rappresentanti elettivi” (Majone, cit. p.169).

Allora quel che anche la liberale LeU non ha capito davvero è che la questione del populismo democratico non è aggirabile, in particolare se si vuole pensare a politiche redistributive e di protezione. Nella logica corrente queste non sono possibili, e per ragioni sistematiche che vanno anche oltre il mero economico.

Quando si conferma l’abbandono delle politiche ‘populiste’ (o ‘maggioritarie’, ovvero volte a ricercare il consenso delle maggioranze, della plebe) è necessario restringere la politica in favore di un potere amministrativo che trae altrove la sua legittimità (in una idea di “ragione” posta prima del discorso stesso, in qualche modo nelle cose e nei saperi tecnici che le rappresentano).

Se, invece, si corre il rischio dell’eccesso si può ricostruire un politico. È quello che hanno fatto davanti ai nostri occhi stupefatti sia il M5S sia Salvini.

Non c’è alcuna speranza per la sinistra se non supera se stessa e impara.

LA CRISI DELLA SINISTRA FRA IPOCRISIA, METAMORFOSI E IMPOTENZA, di Francesca Donato

Il dibattito mediatico sorto in seguito al risultato del voto del 4 marzo si avvita in
questi giorni attorno a due interrogativi fondamentali: le ragioni del crollo della
sinistra, nelle sue varie declinazioni partitiche, e quelle del trionfo dei due partiti
“populisti” Lega e M5S.
Entrambi i quesiti faticano ad ottenere risposte convincenti da parte degli
esponenti dei partiti sconfitti, e le spiegazioni fornite dai vari giornalisti, opinionisti
e politologi che sono cresciuti nutrendosi degli slogan funzionali al sistema di
governo sino a ieri in forze, risultano altrettanto inconcludenti.
Per effettuare una corretta analisi della crisi della sinistra italiana, è necessario
partire da un esame obiettivo dello stato di salute della sinistra in Europa, visto che
facciamo parte dell’Unione europea, ma anche dall’esame della situazione politica
d’oltreoceano, dato che viviamo in un mondo “globalizzato”.
Contrariamente a quanto affermato da vari commentatori, la débâcle della sinistra
in Europa non è affatto omogenea.
Al di là dei casi di Germania, Austria e Paesi dell’est, in cui le forze politiche di
destra o centrodestra sono cresciute a spese delle sinistre locali, vi sono altri Paesi
in cui invece la sinistra, nella sua veste più “estrema” (cioè tradizionale), ha
ultimamente guadagnato molte posizioni rispetto alle elezioni precedenti.
Gli esempi più recenti sono quelli dell’inaspettato successo di Mélenchon in
Francia (su cui è calata una coltre di nebbia subito dopo l’elezione di Macron) e
quello di Corbyn nel Regno Unito, ma non si può dimenticare il risultato di
Podemos in Spagna, né tantomeno il trionfo di Tsipras in Grecia. Successi ai quali
gli stessi politici che oggi si difendono dietro ad una presunta crisi generale della
sinistra in Europa, facevano riferimento millantando presunte affiliazioni o comunità
di intenti, in realtà inesistenti.
La vittoria di Trump negli USA, che molti attribuiscono a fattori pittoreschi fra i quali
– facendo proprio la ridicola versione clintoniana della vicenda – l’ingerenza russa,
dipende in grandissima parte proprio dal fatto che la sfidante Hillary Clinton è stata
imposta dal Partito dei DEM sull’altro candidato Bernie Sanders, con modalità a dir
poco opache (per non dire fraudolente), che gli stessi elettori DEM hanno
vivacemente contestato. Se il candidato DEM alla presidenza uscito dalle primarie
USA fosse stato Sanders invece che Hillary Clinton, l’esito del voto avrebbe potuto
essere diverso.
Per capire il perché di suddette disomogeneità, è sufficiente dare uno sguardo ai
requisiti identitari dei vari partiti di sinistra stranieri: laddove essi si configurano in
senso tradizionale, cioè essenzialmente anticapitalista e socialista, gli stessi
guadagnano consensi; dove invece essi si propongono come fautori delle
“riforme” o promuovono obiettivi neoliberisti o europeisti, crollano. Quest’ultimo,
infatti, è stato il caso della sinistra nostrana.
La risposta all’interrogativo iniziale, a questo punto, diventa intuitiva: la causa del
declino inarrestabile della sinistra “progressista”, da noi come altrove, è la
deviazione dai suoi contenuti e connotati storici: l’anticapitalismo;
l’antimperialismo; la tutela dei diritti dei lavoratori e del welfare; l’affermazione del
ruolo dello Stato nell’economia, a difesa delle classi più deboli ed a garanzia di
uguaglianza sociale. In una parola sola: il socialismo.
Oggi la sinistra in Italia è diventata, invece, la prima testimonial del sistema
eurocentrico basato sulle cessioni di sovranità dei singoli Stati europei e governato
da una commissione fatta di soggetti non eletti, ma nominati fra una ristrettissima
élite di uomini di potere, e da una Banca centrale europea, con un board composto
dai governatori delle banche centrali nazionali, sotto la presidenza di un superbanchiere
benedetto dalle big Banks americane. Entrambe queste istituzioni
detengono interamente il potere politico e decisionale di governo in UE, e la BCE
indirizza e definisce precisamente e direttamente le politiche finanziarie degli Stati
membri dell’eurozona.
Ergendosi a garante del sistema così configurato, la sinistra è passata dall’essere
lo schieramento politico che per eccellenza tutelava le classi più deboli (il
proletariato, composto da operai e contadini) in opposizione agli interessi delle
classi più agiate (nobiltà e borghesia), al divenire la roccaforte degli intellettuali,
nobili o altoborghesi (non a caso definiti “radical chic”), con una metamorfosi
integrale che certamente ai ceti medio-bassi non è passata inosservata.
A ciò si aggiunto il suo atteggiamento infinitamente ed esacerbatamente tollerante
e di sconcertante minimizzazione verso il fenomeno drammatico dell’immigrazione
clandestina, con persistente cecità sia di fronte all’insostenibile entità del
fenomeno, esploso negli ultimi anni, che davanti alle prove del suo configurarsi
quale brutale traffico criminale di esseri umani, da destinarsi ad attività illecite e
lavoro nero o sottopagato.
Questa “upper class” che costituisce oggi la sinistra italiana, inoltre, mentre si
riempie la bocca di plausi alla “società aperta” e di richiami ad un’elevazione del
livello culturale nel nostro Paese, di fatto rifiuta ogni confronto od obiezione,
benché fondata ed argomentata, chiudendosi a riccio nel proprio mondo blindato e
colmo di pregiudizi, false sicurezze, autocompiacimento e paternalismo verso il
“popolo bue”, circondandosi così di un’aura di superiorità elitaria che ne segna
definitivamente la distanza siderale dal resto della popolazione.
Il PD, che è il partito principale di questa sinistra, rappresenta quindi la visione del
mondo di questa “splendida minoranza”, il che cozza frontalmente con la
possibilità per lo stesso di ottenere consenso da parte della maggioranza della
popolazione, che con la stessa non può certamente identificarsi, in assenza di
alcun obiettivo condiviso. Finché, infatti, gli argomenti cari al PD e suoi vari satelliti
restano primariamente “le riforme”, “l’Europa”, i “migranti” e i “diritti civili”, non c’è
da sorprendersi se la maggioranza degli Italiani non si sente rappresentata, anzi si
ritiene più propriamente dimenticata o, peggio, messa da parte a vantaggio degli
interessi di altri soggetti, ovvero i cosiddetti “poteri forti”: le grandi multinazionali,
bancarie e non, le classi privilegiate (“la casta”), e non ultimi, gli immigrati.
A chi obiettasse a tale interpretazione il successo iniziale del governo Renzi, vanno
ricordati due dati di non poco conto: Renzi ha governato sempre con i voti di
Bersani, che si era presentato al suo elettorato con un programma molto meno
Yuppie-friendly di quello renziano; inoltre, la famosa vittoria del PD di Renzi con il
40% alle elezioni europee, era stata ottenuta in presenza di un’astensione altissima
(dovuta alla diffusa percezione dell’inutilità del Parlamento europeo) ed in una fase
in cui il nuovo premier si poneva come “il rottamatore”, cioè il “nuovo” rispetto sia
ai vecchi volti della politica di sinistra (come Prodi), sia rispetto ai precedenti
governi “tecnici” (Monti e Letta) che avevano molto rapidamente destato il rigetto
della popolazione, implementando le politiche di austerità imposte proprio dalla UE
via BCE.
Ma presto Renzi si è accreditato come il premier dell’imprenditoria “vincente”,
dell’economia “4.0”, e amico (troppo amico) delle banche, specie toscane, con
tutti gli scandali connessi al bail-in di Banca Etruria e ai salvataggi di MPS.
Gli slogan con l’hashtag davanti ed i selfie a profusione non sono bastati a
nascondere ai cittadini martoriati dalle tasse sempre in aumento, da una crisi
economica interminabile, da un welfare smantellato pezzo dopo pezzo e da un
precariato divenuto la regola, la miseria della propria condizione e l’incubo di un
futuro di disoccupazione o sottooccupazione per i giovani. L’emigrazione dal
nostro Paese verso mete fino a un decennio fa impensabili (Albania, Portogallo)
oltre a Germania e Regno Unito, è aumentata esponenzialmente; la natalità è
crollata e la povertà si è allargata a fasce di popolazione prima immuni.
In tale contesto di abbandono a se stesso del Popolo italiano da parte della
sinistra, con un atteggiamento di sufficienza e avulsione dai problemi reali che ha
dell’incredibile, è stato facile e comodo per la destra (o per il partito anomalo dei 5
stelle) raccogliere l’eredità giacente dei suoi valori e delle sue lotte storiche per farli
propri e diventarne garante presso i Cittadini, i quali – dopo le ovvie reticenze
dovute allo smarrimento ideologico – si ritrovano oggi finalmente ascoltati nelle loro
istanze fondamentali e, quindi, rappresentati da tali soggetti.
L’opera mediatica di derisione o, peggio, demonizzazione delle destre e dei
“populisti” in genere, non ha fatto che acuire la contrapposizione fra il Popolo e la
sinistra, la quale ha comunque mostrato di non accorgersene, o di non curarsene
affatto.
Oggi, dunque, i sostenitori e gli elettori dei partiti di sinistra si sono ristretti ad una
classe “colta” o presunta tale, ma più propriamente privilegiata, in quanto ancora
immune dal disagio economico profondo patito dal resto della popolazione colpita
dalla crisi e dalla recessione, composta da cattedratici, professionisti di grido,
banchieri od operatori finanziari; dipendenti statali di alto livello, artisti o
personaggi dello show-business di successo, o mega-imprenditori con
cointeressenze economiche significative con i partiti di sinistra.
Per continuare a governare il Paese, la sinistra odierna non ha che un mezzo:
evitare il confronto elettorale. Per questo, coloro che fra le file della sua classe
dirigente lo hanno ben compreso, guardano all democrazia con evidente sospetto
e malcelata insofferenza e tifano per un governo sovranazionale europeo,
composto dalle élite di cui fanno (o credono di poter fare) parte.
E per questo, coloro che nell’ambito della sinistra tentano di riproporre un ritorno
alle origini, vengono dipinti come “reazionari” e sostanzialmente isolati e sabotati:
qualsiasi posizione sgradita al gotha degli “illuminati” non merita spazio in un
sistema siffatto.
Dovrà quindi sbrigarsi, questa sinistra europeista, in accordo e sinergia con le altre
sinistre eurocentriche, ad eliminare del tutto il residuo margine di influenza del voto
democratico sugli assetti di governo nazionali, per non venire travolta presto ed
inesorabilmente dalla rivolta del nuovo proletariato che essa stessa ha creato ed
esasperato sempre più, anno dopo anno, negli ultimi vent’anni e specialmente dal
2008 ad oggi.
Solo se questo piano delle élite fallirà – e perché ciò avvenga, il ruolo
dell’informazione libera ed indipendente è fondamentale – i Popoli potranno
nuovamente vedere al governo i propri rappresentanti e sperare in una tutela dei
propri interessi. Diversamente, il mondo dipinto da Orwell nel suo più noto
romanzo, già divenuto realtà sotto molti aspetti, sarà compiuto e a noi cittadini
dell’Eurasia non resteranno che i cinque minuti di odio per sfogare la nostra inutile
e inerme rabbia, verso i capri espiatori che il regime stesso ci darà in pasto.

http://www.progettoeurexit.it/la-crisi-della-sinistra-fra-ipocrisia-metamorfosi-e-impotenza/

LE PAGELLE DI UNA CAMPAGNA ELETTORALE, di Giuseppe Germinario

Tempo di pagelle alla vigilia dell’esame e del verdetto!

Due mesi di campagna elettorale serrata seguita ad oltre un anno di guerra di posizione e di campagna elettorale strisciante hanno rivelato molto sulla condizione dei partiti, sulle loro mutazioni e sulla qualità dei loro gruppi dirigenti. C’è chi riesce a brillare nelle piazze. Meno il M5S rispetto agli anni scorsi, di più la Lega e Fratelli d’Italia rispetto al recente passato. I più avveduti sanno da tempo ormai che non esiste necessariamente corrispondenza diretta tra piazze piene e pienone di voti. La partecipazione ad esse infatti non comporta adesione automatica della stessa folla nelle urne; il voto di interesse e di opinione segue inoltre infiniti altri canali di espressione e subisce numerose altre modalità di influenza. Dopo questo breve preambolo qui di seguito un giudizio sui principali partiti con una precisazione: il voto non deve indurre ad una previsione del responso elettorale ad esso corrispondente. Sono due livelli di analisi diversi.

MOVIMENTO 5 STELLE: voto 8

Il suo gruppo dirigente è stato il protagonista di un ragguardevole miracolo al limite del funambolismo. È riuscito a mimetizzare quasi completamente una radicale operazione trasformistica del proprio programma e del proprio sistema di relazioni cercando di intaccare il meno possibile il totem costitutivo della propria forza persuasiva: la formulazione dal basso nelle decisioni e nell’elaborazione della piattaforma politica. A partire dal referendum sulle riforme istituzionali del dicembre 2016 è partita la caccia al grande sconfitto: il PD renziano. Da quel momento è partita la campagna di costruzione del personaggio Di Maio-uomo di governo. Una campagna per nulla estemporanea; costruita sapientemente passo dopo passo, con un dispendio di mezzi considerevole e con una inedita capacità, rispetto agli altri contendenti, di utilizzo dei sistemi mediatici tradizionali e più innovativi. È stato certamente agevolato dall’esistenza di un alter ego, Alessandro Di Battista, tutto intento a rassicurare e vellicare le pulsioni dell’anima movimentista del M5S. Ha potuto altresì godere dell’assenza di interlocuzione e di confronti diretti con i propri avversari. Un primo banco di prova che avrebbe potuto mettere a nudo le sue effettive capacità di sostenere uno scontro politico. Ha approfittato dello scarso spessore degli attacchi tutti incentrati sull’onerosità del programma economico, paragonabile a quella degli altri partiti e sulla scarsa moralità e sull’incompetenza del gruppo dirigente, quasi a voler trascinare tutti pretestuosamente nello stesso girone infernale. Un atteggiamento distruttivo, quello degli avversari, in realtà autolesionistico e incapace di offrire una prospettiva positiva al paese. Sta di fatto che il successo mediatico e la capacità di imporre i temi e di rovesciare la posizione di difesa dagli attacchi sono inequivocabili. Di Maio, soprattutto lo staff che ha sapientemente organizzato la campagna, è riuscito sin da subito a smontare i possibili argomenti di critica e di attacco più insidiosi. Recandosi negli Stati Uniti ha cercato sostegni e investiture nei circoli che indirizzano e condizionano la politica italiana. Un pellegrinaggio ostentato e evenemenziale da parte sua, assiduo e discreto da parte del suo staff, soprattutto il suo mentore Casaleggio. Portandosi, successivamente, nelle sedi dei “poteri forti” finanziari e istituzionali europei con un intento rassicurante riguardo alle proprie intenzioni. Costruendosi, in televisione, nei suoi numerosi viaggi mirati nelle realtà produttive del paese, persino nei rari comizi, l’aplomb di “uomo delle istituzioni”, sino al vero e proprio colpo di teatro della presentazione dell’eventuale governo in caso di vittoria elettorale. Una costruzione dell’immagine alla quale ha corrisposto un progressivo e per quanto possibile discreto spostamento degli originari indirizzi politici radicali in materia di politica estera, riguardo all’atteggiamento verso l’Unione Europea, la NATO, la Russia e di politica economica, sempre più di stampo meramente keynesiano, velleitaria rispetto agli attuali vincoli sottoscritti, ma compatibili col dogma del sedicente libero mercato sul quale si fonda l’attuale edificio europeista. È stato il modo quasi geniale con il quale si sono smontati sul nascere gli argomenti di critica degli avversari; sia di quelli ortodossi rispetto alla vulgata europeista e occidentalista sia di quella eretica, ma paralizzata dalla scelta di appartenenza allo schieramento di centrodestra. Si vedrà se tale modo di conduzione porterà al partito i frutti sperati. Di certo questi frutti si riveleranno ancora una volta avvelenati per il paese e rimanderanno ancora una volta la possibilità di costruzione di una classe dirigente capace di tirare fuori la nazione dalle sabbie mobili nelle quali è sempre più impantanata. Non si può nemmeno dire che si tratti di una vera e propria operazione trasformistica; consiste, piuttosto, in un adeguamento pressoché fisiologico degli indirizzi e obbiettivi politici alla visione di fondo del movimento legata alla illusione partecipativa predominante dal basso, al decentramento esasperato, alla sopravvalutazione delle tematiche dell’economia circolare e dell’ecologia, ad una visione dello sviluppo tecnologico slegato dal ruolo delle grandi imprese e delle strategie politiche dei centri di potere, per non parlare della questione dell’immigrazione. Tutti approcci perfettamente compatibili, anche nel loro velleitarismo, con gli attuali assetti istituzionali in Europa e nel mondo occidentale. Una strategia che ha condotto fisiologicamente il confronto elettorale verso i temi più congeniali, ma anche fuorvianti, al movimento: la moralità, l’onestà. La composizione del governo proposta da Di Maio è tutta lì ad attestare questo assestamento. Personaggi di seconda linea, scelta pressoché obbligata, visto il rischio personale di tale esposizione così azzardata. Personalità in parte legate al mondo della cooperazione internazionale; alcune con legami espliciti con le fondazioni di Soros e dei centri finanziari più potenti, altre con i centri culturali di emanazione europeista, altre ancora di centri universitari di seconda linea ma con legami internazionali e orientamenti spesso espliciti. Figure che danno una impronta di governo tecnico gestibile efficacemente solo grazie all’autorità assoluta del capo politico del Governo, pena l’eterodirezione della compagine. Una qualità tutta da dimostrare e sinora rimasta quanto meno in ombra nel leader emergente. Il voto è limitato ad otto per un motivo semplice quanto essenziale. Il completo successo di immagine avrebbe dovuto comportare la trasformazione di Di Maio e del Movimento in un soggetto capace di “dominare” autorevolmente le masse piuttosto che di esserne o fingerne di essere imbevuto dalle masse. “Le phisique du role” del personaggio è tutto lì a svelarne i limiti. Le conseguenze di queste impronte sono prevedibili. Un movimento sempre più terra di conquista di interessi particolaristici e di piccoli potentati locali; una direzione sempre più bisognosa di investiture esterne, piuttosto che di capacità egemoniche proprie. Il progressivo disvelamento dell’anima sinistrorsa più deleteria della dirigenza di quel movimento, legata all’antiberlusconismo moralistico, più volte segnalata negli anni da questo sito, è tutta lì a tracciare la direzione delle future scelte politiche del movimento. Taluni assimilano questa ascesa all’esperienza di Macron in Francia. L’opacità dei centri ispiratori, l’assenza di forti centri di potere endogeni promotori sono lì invece ad attestarne limiti e diversità.

LEGA DI SALVINI: voto 7

Le capacità tribunizie sono indubbie, come pure quella di trascinare il partito verso la costruzione di una immagine “nazionale”. La Lega infatti ha riscoperto, almeno nel Centro-Nord del paese, una capacità di mobilitazione ormai riservata ai ricordi della vecchia dirigenza. Il limite, però, è visibile nell’atteggiamento compiaciuto di “buon padre di famiglia” assunto, in realtà probabilmente connaturato al leader. Una veste che rende per il momento poco credibile la sua rivendicazione di uomo di governo, se non addirittura di Stato, portatore di una svolta radicale praticabile. Il retaggio della Lega Nord, con le sue impronte identitarie localistiche, antinazionali e spesso razziste, è ancora particolarmente pesante all’interno e presente nella memoria del paese. Il ripiego di fondare il partito nazionale sulla base di una alleanza dei “popoli italici” è di una tale ambiguità da compromettere ancora la solidità del nuovo edificio e da far rientrare dalla finestra i demoni accompagnati alla porta del nuovo partito. Un percorso analogo a quello che sta percorrendo il Fronte Nazionale francese. L’accordo elettorale nel centrodestra, un passo probabilmente obbligato dalla condizione interna del partito, si sta rivelando un capestro che ha impedito di mettere a frutto la diversità e l’alternatività di buona parte dei punti presenti nel programma elettorale rispetto agli avversari dichiarati del PD ed occulti interni del centrodestra e rispetto ai competitori del M5S. Le occasioni per smarcarsi e qualificarsi, anche in questa campagna elettorale, non sono mancate, a cominciare dai fatti di Macerata, della ritirata ingloriosa della nave dell’ENI dalle coste di Cipro, dalle pesanti intromissioni dei vertici della UE; ma non sono state colte se non parzialmente e in maniera inadeguata rispetto alla postura che Salvini vorrebbe assumere. Le oscillazioni, si vedrà se tattiche o strategiche, ma comunque tendenti alla normalizzazione, rispetto alla politica estera, alle politiche comunitarie, a quella industriale, come pure l’impronta data alle politiche di riforma istituzionale ne minano la credibilità. Denotano ancora una volta una colpevole sottovalutazione, comune per altro a tutte le forze di opposizione organizzate, del fatto che conquistare voti, prendere la maggioranza elettorale, assumere le redini del governo non significa conseguentemente avere la possibilità di esercitare effettivamente il potere e mettere in opera i programmi, per quanto ben intenzionati e costruiti. A controbilanciare parzialmente questi limiti e questa deriva rimangono alcune candidature significative come quella di Bagnai, ma ad una condizione: l’acquisizione di credibilità attraverso la rottura postelettorale della coalizione con Forza Italia e l’assorbimento di una parte delle sue spoglie. È probabilmente questo il motivo per il quale Salvini spera in una dèbacle solo parziale del PD e nella formazione di un governo di unità nazionale a lui estraneo, ma comprensivo di Berlusconi o del M5S. In alternativa si assisterà al rapido declino dell’ennesima promessa del firmamento politico italiano non proprio esaltante

FRATELLI d’ITALIA: voto 6

Valgono in buona parte le stesse valutazioni su Salvini ma con un margine più positivo rispetto alla coerenza politica ed autonomia di giudizio rispetto a Berlusconi ed uno più negativo rispetto al carattere un po’ casereccio della conduzione e dell’immagine, solo in parte compensato da figure come Crosetto, ma gravemente compromesse da quelle come Larussa.

FORZA ITALIA e PARTITO DEMOCRATICO: voto 5

La prima paga il segno evidente del declino irreversibile fisico, morale e di credibilità del leader Berlusconi. Un tramonto non legato alla moralità e alle vicende giudiziarie, spesso di carattere persecutorio, del personaggio. Collegato soprattutto alle scelte opportunistiche, di vera e propria sottomissione e trasformismo, sfociato in collusione, delle sue scelte di politica estera, comunitaria ed interna specie a partire dal 2010. Sta coronando il senso della sua esistenza, ormai al limite dell’inverecondia e un po’ penosa, viste le condizioni della persona, con l’estremo tentativo di bloccare l’affermazione di forze, ancora troppo premature da definire sovraniste, ma quantomeno più autonome e reattive nelle scelte politiche di conduzione del paese. Ormai si avvicina sempre più alla funzione del nobile decaduto ormai impegnato ad orientare, eterodiretto, la suddivisione delle proprie spoglie politiche in cambio di una probabile parziale salvaguardia di quelle economico-finanziarie. Da qui la conduzione di una campagna incapace di imporre i temi, un filo conduttore unitario e con lunghe pause di lucidità.

La sopravvivenza della dirigenza del PD e il suo possibile procrastinarsi al responso elettorale è ormai legata alla suddivisione di queste spoglie. Il tandem ipotizzato tra la forza tranquilla espressa da Gentiloni e Minniti e l’atteggiamento d’assalto e ultraottimistico di Matteo Renzi si è rivelato in realtà una corsa in parallelo tra due atleti. Tanto più che la riconduzione alla passiva ortodossia europeista e la rapida constatazione della inconsistenza della forza dei pugni battuti da Renzi al tavolo di Bruxelles ha privato il leader, ormai opaco e debilitato, della prospettiva di cui è stato capace Macron in Francia. Quelo che pareva un destino parallelo con il leader francese, appare ormai come un surrogato caricaturale che non porterà niente di buono al paese. La campagna elettorale è apparsa motivata più da ragioni pretestuose nei confronti degli avversari, che dall’offerta di una prospettiva credibile al paese, comprensiva dei successi e dei tanti insuccessi e risultati nefasti. Si tratta di una lotta ormai per la vita o la morte. C’è l’ambizione di rigenerarsi parzialmente raccogliendo le spoglie di chi sta ancora peggio; c’è però il rischio evidente di diventare esso stesso una preda, sia nelle parti nobili che in quelle in via di putrefazione. I travasi che si stanno verificando, specie nel Mezzogiorno, come pure le alleanze elettorali, come con la Bonino prodiga di finanziamenti e di impegno specie nei collegi esteri, segnalano ben poco di buono.

LIBERI e UGUALI: voto 4

La realtà politica ha rivelato rapidamente la sua natura. Una sommatoria di sigle in declino ed incerte sugli indirizzi concreti. Hanno nascosto la condizione dietro una sommatoria di rivendicazioni sindacali e redistributive con il cappello dei diritti umani, del legalismo giudiziario e della fantomatica lotta ai poteri forti finanziari dietro i quali giustificare le solite alleanze politiche sia internazionali, in specie con il Partito Democratico americano, che interne. Un manifesto pretestuoso utile a mascherare l’intenzione di logorare il PD renziano e di riproporsi tra i commensali dell’arco costituzionale. Una ambiguità che sta impedendo loro di recuperare la gran parte del popolo sinistrorso e di offrire una rappresentazione scialba e spesso infantile della propria identità a beneficio esclusivo, nemmeno certo, delle carriere al tramonto e pittoresche di personaggi come Boldrini o malinconiche e nostalgiche, quali quelle di d’Alema e Bersani. Il resto è pura appendice.

Questi sono i voti, del tutto personali. A presto l’esito degli esami, quello più oggettivo.

VOTARE: PERCHÉ SÌ, di Elio Paoloni

Qui sotto un’accorata filippica di Elio Paoloni con un appello finale. Lo scopo precipuo di questo sito è fornire uno spazio ad analisi e riflessioni politiche tese ad alimentare un dibattito partendo però da chiavi di interpretazione sufficientemente definite. Un dibattito che si spera possa aprire varchi anche negli ambienti più chiusi e ostili a questi punti di vista. Non è un sito di lotta politica legato alle scelte immediate e contingenti in particolare elettorali; il paese, il suo contesto politico sono ancora molto lontani da poter esprimere un ceto politico sufficientemente maturo e determinato nell’individuare e perseguire obbiettivi corrispondenti ai punti di vista espressi qui e in poche altre realtà che questo blog ha l’ambizione, per la verità, di mettere a confronto. E’ il motivo principale per il quale il blog evita di dare indicazioni esplicite di voto, anche se l’esplicitazione delle analisi lascia intuire il giudizio e la direzione delle scelte personali dei corrispondenti. Sulla stessa scelta di voto e sull’opportunità stessa di parteciparvi, come pure sul peso da dare all’azione nel carosello elettorale rispetto ad un’azione politica più complessa, i giudizi per altro divergono. Non sono, questi ultimi, certo punti di vista dirimenti per l’economia del blog e per l’ambizione, probabilmente la presunzione che ci anima nel poter contribuire alla formazione di un nuovo ceto politico e di una nuova classe dirigente con indirizzi e chiavi operative idonee ad affrontare con maggiore autonomia e convinzione un agone multipolare dai molteplici rischi, ma anche dalle molteplici opportunità a beneficio della condizione del paese e dei suoi componenti. Una traccia e una intenzione ben presente anche nel testo di Elio Paoloni. Giuseppe Germinario 

VOTARE: PERCHÉ SÌ

Elio Paoloni

La scorsa volta non ho votato. Non per convinzione ma per disgusto, disperazione: non tolleravo che si aggiungesse al danno la beffa, tutto qui. Non ne ho mai menato vanto, né ho fatto proselitismo, ho anzi ironizzato sugli amici che lo elevavano a fulgido atto politico,  clamorosa ed efficace protesta. La mancata partecipazione, sostenevano – e sostengono – avrebbe delegittimato i governi. Pia illusione: non riusciremo mai, nemmeno nelle più rosee previsioni, a raggiungere le percentuali di astensione delle storiche democrazie occidentali, i cui governi non si sentono per questo delegittimati anzi si considerano autorizzati a mettere a ferro e fuoco il pianeta. Figuriamoci se i nostri politici, che hanno la faccia come il …., perdono il sonno perché pinco pallino non li ha legittimati.

La vecchia ricetta del meno peggio, tuttavia, quella che tutti finiscono per adottare nel giorno fatidico, non mi convinceva. Il meno peggio non era individuabile. Sembra non ci sia neanche adesso: comunque vada questo voto – qui, credo, ne siamo tutti convinti – certo non vincerà il sovranismo. Gli scenari sono stati analizzati su questo sito ben più seriamente e dettagliatamente, ma la sostanza balza agli occhi di qualsiasi profano: quand’anche fosse eletto Bagnai nella Lega, che cosa si potrà concludere con un Berlusconi afferrato per gli attributi già da anni e pronto a tutto pur di evitare processi a sé e alle sue imprese? Un Berlusconi così ‘antieuropeo’ da ventilare un Draghi premier? Con una Meloni che nessuno, credo, oserebbe definire una statista di rango? Un improbabile governo pentastellato, d’altro canto, non si sognerebbe mai di uscire da questa Europa, per non parlare di affrancarsi dalla NATO (l’ortottero designato è già volato a rassicurare tutti i poteri che contano). Sul nostro suolo, come sempre, si svolgono tanto sanguinose quanto accuratamente celate battaglie di potenze opposte. Quelli che vediamo in TV sono quasi sempre burattini o utili idioti, privi di consistenza propria. Interscambiabili. Questo il motivo che spinge molti di noi a non votare.

MA.

Non è vero che sono tutti ugualmente dannosi. Le differenze saranno pure minime ma c’è una macroscopica discriminante: solamente il PD (insieme alle false alternative d’area: Insieme, Liberi e uguali, la criminosa + Europa) è davvero coeso, pervicace, determinato. I suoi componenti hanno una mission, sono addestrati da decenni a distruggere questo paese. Molti tra loro, probabilmente, credono davvero in una intrinseca superiorità morale. Nessun’altra formazione ha mai mostrato, o fa presumere, altrettanto accanimento nel perseguire quell’opera di distruzione del nostro tessuto sociale che va dalla svendita delle imprese statali e dei beni culturali all’abbandono dei settori strategici, dall’educazione gender alla distruzione della scuola, dall’immigrazione incontrollata alla persecuzione dei cittadini, dalla adesione bovina a tutte le spedizioni militari contro i nostri interessi alla imposizione di folli sanzioni a chi potrebbe solo aiutare la nostra economia. Il disinteresse per le sorti dei malati, dei terremotati, dei giovani lavoratori schiavizzati non è privo di precedenti ma sconcerta per la mancanza di mascheramento. Sono ascari della globalizzazione e se ne vantano. L’autorazzismo ha raggiunto vette di isteria che hanno probabilmente sgomentato i loro stessi burattinai.

Confrontiamoli con il centrodestra: da quella parte, tra tante anime, qualche patriota ci sarà, alcuni avversari dell’eurolager ci sono di certo, qualche sostenitore convinto della famiglia anche, di sicuro qualcuno che mastica economia. Potrebbe addirittura nascondersi tra loro qualcuno che conosca la storia e abbia una visione strategica. Per quanto possano in seguito tacere e mettersi d’accordo, non riesco a immaginare una reale compattezza su temi caldi.

E i grillini? Una marmaglia priva di cultura, di esperienza, di capacità. Ma, proprio perché “marmaglia”, ovvero coacervo di provenienze, di convinzioni, di “colori”, mancano di compattezza nel far danno. Non sono scafati, non ancora, non del tutto, e, se questo li rende facilmente manovrabili, può anche rendere molti di loro restii al peggio. L’inconsistenza del loro programma politico li renderà dannosi più per assenza di interventi che per azioni decise e irrevocabili. La quantità di questioni ‘da vedersi’, da sottoporre a referendum o a parere internettico dei militanti o a capriccio del momento potrebbe riservare qualche piacevole sorpresa o, almeno, lasciare in stallo questioni che i piddini forzerebbero di sicuro. Qualche pentastellato potrebbe anche capire davvero cosa sia il fiscal compact e smettere di contare i soldini della paghetta sulla punta delle dita.

Insomma, esiste un solo vero nemico, erede dei Ciampi, dei Prodi, dei Monti. Composto da maggiordomi diplomati, incapaci di opporsi non solo ai principali mandanti ma a chiunque faccia la voce grossa, si chiami Macron, Erdogan, Netanhyau. Il più insignificante dei burocrati europei li fa marciare come marionette.

Il PD può essere rimpiazzato, è ovvio: bastone e carota sono già stati apprestati per ogni candidato di questa tornata. Il tunnel non finisce qui. Non sarà uno scarabocchio sulla scheda a capovolgere le sorti del paese. Ci vuole ben altro. Saranno lacrime e sangue. Ma occorre sbarazzarsi  di certi slogan, di una insopprimibile arroganza, della neolingua che ci vanno imponendo.

L’astensione premia il PD, che ha il suo zoccolo duro di beneficati e di nostalgici convinti di votare ‘a sinistra’. Ogni voto dato ad altri, invece, ne diminuisce il peso.

 

APPENDICE

Dovendo scegliere

A – C’è un partito apprezzabile verso il quale dovrei, naturaliter, propendere: il Popolo della famiglia. Ma è un partito destinato all’insignificanza: anche se apparentemente destinato a grandi consensi per la sua trasversalità, un movimento con obiettivi limitati è destinato a squagliarsi, proprio come Aborto? No, grazie di Giuliano Ferrara, fondato al solo scopo di opporsi all’aborto. Fine lodevolissimo e inevitabile flop: un partito deve dare risposte alla globalità dei problemi. Gli obiettivi del programma di Adinolfi sono sacrosanti, li condivido interamente: reddito di maternità, aumento degli assegni familiari, incremento fondi per disabili e, ovviamente, abrogazione del divorzio breve, unioni civili e biotestamento oltre che lotta al gender e all’aborto. Ma come si propone di reperire le risorse per il suo ottimo programma? Con le solite favole belle: lotta all’evasione fiscale, alla corruzione e agli sprechi; dulcis in fundo confische alla mafia e ricorso ai sussidi europei. O non ha capito niente o non ha il coraggio di opporsi seriamente.

B – Esistono almeno due partiti dal programma davvero sovranista: il 90% del loro programma è identico benché i fronti siano fieramente opposti. Li definirebbero opposti estremismi. A me paiono ragionevoli convergenze.

 

A CARTE COPERTE_ Renzi, Berlusconi, Di Maio, Salvini al 5 marzo, di Giuseppe Germinario

Nel grande luna park elettorale, tra funamboli, illusionisti e fattucchiere cominciano a delinearsi nell’ombra, sotto traccia, alcuni punti fermi.

I PROTAGONISTI

Matteo Renzi all’avvio della campagna elettorale sceglie di incontrare in Europa Emmanuel Macron, Presidente della Repubblica Francese nonché fondatore di “En Marche” e in Spagna Albert Rivera, Presidente di Ciudadanos ed emulo spagnolo di Macron. Due leader affermatisi sulle ceneri dei partiti repubblicano e popolare e soprattutto di quelli socialisti dei rispettivi paesi. Non è un caso. Renzi dimentica di incontrare i leader superstiti del Partito Socialista Europeo. Tra i transfughi della diaspora socialista europea avrebbe potuto scegliere in una vasta gamma di esponenti di successo. L’ultimo è il rieletto Presidente Ceko Milos Zeman, dalle propensioni filorusse e particolarmente tiepido verso NATO e UE. Con ogni evidenza non è certamente questo il cerchio di amicizie ambito.

L’attenta selezione delle candidature non è la sanzione definitiva del PdR, del partito personale di Renzi. È una interpretazione troppo riduttiva. Il Rottamatore ha semplicemente e definitivamente liquidato la componente di derivazione pciista e con essa le corrispondenti modalità di militanza e di decisione, le prassi di formazione della classe dirigente ad essa legate. Un processo avviato consapevolmente con l’avvento di Veltroni e conclusosi irrimediabilmente con la recente scissione in seno al PD.  È soprattutto la scelta obbligata necessaria a rendere possibile una svolta ben più radicale e per questo Renzi è disposto a sacrificare il residuo voto di sinistra.

Il modello da imitare è quello di Macron, ma le condizioni di applicazione sono ormai largamente compromesse. A differenza dello “Jupiteriano”, il Monarca di Rignano dovrebbe assumere la duplice improbabile veste di rifondatore del Partito Democratico e nell’eventualità di suo liquidatore in un contesto di grave logoramento della sua credibilità. Macron ha potuto assecondare rapidamente l’operazione di destabilizzazione dei partiti tradizionali e di rinnovamento radicale della rappresentanza perché aveva ed ha il sostegno e la copertura di solidi centri di potere ed amministrativi, a cominciare dall’ENA, i quali gli garantiscono la piena copertura e funzionalità nell’esercizio delle prerogative. In Italia i centri di potere sono molto più frammentati e meno efficaci; buona parte di essi sono per di più apertamente eterodiretti.

La visione europeista di Macron può offrire ai francesi il miraggio di una guida condominiale francotedesca della UE con pari dignità; una guida che per perpetuarsi prevede l’ulteriore sacrificio della terza potenza economica del continente, l’Italia. L’europeismo di Renzi di conseguenza rischia di ricadere nella solita cortina retorica necessaria a nascondere l’accettazione supina delle politiche più deleterie. Il recente incontro di Macron a Roma non ha fatto che confermare questa propensione anche nei passaggi in cui si sono spacciati come decisioni comunitarie alcuni atti unilaterali del Governo Italiano in materia di immigrazione.

In buona sostanza Renzi tre anni fa poteva ambire al ruolo di capitano e di timoniere; oggi fatica a mantenere il ruolo di capitano, avendo perso prestigio ed autorevolezza tra l’equipaggio e sicuramente ha perso il ruolo di timoniere ormai nelle mani del navigatore più esperto e smaliziato, Berlusconi, sempre che disponga delle forze necessarie. http://italiaeilmondo.com/2017/11/12/revival-berlusconi-si-berlusconi-no-_-di-giuseppe-germinario/   

http://italiaeilmondo.com/2016/10/19/i-paradossi-del-referendum-di-giuseppe-germinario/

Il profilo di Berlusconi può in effetti rappresentare la luce necessaria ad alimentare le speranze di sopravvivenza del Rottamatore a sua volta ormai a rischio di rottamazione.

Anche l’ex-Cavaliere ha iniziato praticamente la campagna elettorale andando in Europa, più precisamente presso i vertici della UE e del PPE (Partito Popolare Europeo). È andato a garantire il pieno rispetto dei vincoli e degli accordi sottoscritti. Un impegno perfettamente in linea con il Berlusconi conosciuto negli ultimi dieci anni, quello dell’intervento in Libia, del Governo Monti, del sostegno surrettizio ai successivi governi di centrosinistra. In effetti è riuscito a “cadere in piedi”, con qualche pesante umiliazione personale, ma senza necessità di rialzarsi. Un impegno che stride fortemente con i proclami del principale alleato di coalizione.

I più affezionati alle classiche logiche di schieramento lo ritengono più che altro un sotterfugio teso soprattutto a guadagnare tempo nei confronti del vecchio establishment europeista. Potrebbe anche essere; ma sarebbe un’attesa confidata esclusivamente all’eventuale successo di una politica estera americana tesa a dissestare completamente l’attuale Unione Europea. Un successo ancora del tutto ipotetico ma che di per sé rappresenterebbe assolutamente non una garanzia, ma una semplice opportunità per l’Italia di acquisire un ruolo più autonomo e spregiudicato. Ad una condizione imprescindibile: disporre di una classe dirigente idonea ed attrezzata.

Il curriculum di Berlusconi, con i suoi voltafaccia, anche terribilmente meschini negli ultimi otto anni, ha dimostrato di essere piuttosto di tutt’altra pasta.

Il programma sottoscritto dai tre leader del centrodestra si presta, come naturale tra forze ormai così eterogenee, a varie interpretazioni; oltre al contenuto, però, offre la possibilità di giocare anche e soprattutto sui tempi. L’esito delle elezioni determinerà sicuramente le modalità dello scontro interno al centrodestra ma quello che appare certo è che si assisterà ad una guerra di logoramento piuttosto che a un rapido conflitto risolutivo interno allo schieramento.

La compagine è destinata quindi a diventare l’epicentro di un movimento tellurico che riprodurrà schieramenti più corrispondenti al nocciolo dei problemi politici. Una faglia destinata ad attraversare i tre partiti ma che potrebbe estendersi anche ai nuovi arrivati del M5S. Al momento il protrarsi delle ambiguità non fa che rallentare il processo di decomposizione del Partito Democratico e offrirgli qualche ulteriore chance per presentarsi come il paladino esclusivo dell’attuale Unione Europea.

La candidatura di Alberto Bagnai nella Lega è il segno evidente di questa divaricazione e delle intenzioni bellicose, come pure le continue stizzite puntualizzazioni di Salvini tese a correggere le forzature di Berlusconi. Intenzioni, per la verità,  rese meno praticabili dal pesante intervento giudiziario sui conti del partito. Altre volte le vicende italiche ci hanno trascinato in ingloriose conversioni badogliane; ma più il dibattito si accende e si focalizza su questioni che vanno al di là di mere politiche redistributive, più gli eventuali voltafaccia costerebbero caro ai funamboli. Su questo Berlusconi ha ben poco da perdere e la sua funzione di traghettatore verso una opzione macronista sarà sempre più evidente. Per Salvini e Meloni il prezzo sarebbe decisamente salato ed un eventuale scambio tra una politica redistributiva di facciata ed antiimmigrazionista e un cedimento sulla Unione Europea e sulla NATO sarebbe insufficiente a salvaguardarli.

Rimane il problema di una evidente sottovalutazione delle implicazioni complesse e rischiose di una scelta coerentemente antiUE ed antiestablishment dominante; una questione che si è infranta più volte sugli scogli dell’effettivo controllo delle leve di potere, ma che si potrà porre con più determinazione e precisione una volta semplificati gli schieramenti.

GLI APPARENTI OUTSIDER

Dalla mappa è rimasto sino ad ora fuori il M5S, il movimento sul quale si stanno concentrando i consensi e le attenzioni di buona parte degli indignati, dei moralisti e degli scontenti.

In questi ultimi trenta anni la denuncia e l’azione ossessiva contro la corruzione non hanno portato niente di buono al paese. Ha distrutto una classe dirigente decadente, in piccola parte legata ad una migliore difesa degli interessi nazionali, surrogata da un’altra senza alcun serio radicamento in interessi forti e strategici del paese. Si è trattato di un’onda partita puntualmente da iniziative di precisi centri di potere statunitensi, compreso un centro anticorruzione fondato da una quarantina di giornalisti quasi tutti legati al Partito Democratico americano utile a destabilizzare gli scenari politici di mezzo mondo e che ha saputo raccogliere un discreto consenso in gran parte dei casi. Il M5S è stato il catalizzatore ultimo di questo stato d’animo. Da qui una collaborazione strisciante con gli ambienti istituzionali che hanno gestito e assecondato questi processi. A questo aggiunge una politica ambientalista che dà per scontato l’applicazione su larga scala industriale di tecnologie dubbie o che richiederanno programmi di investimento ultradecennali ed una politica redistributiva fondata su un reddito minimo garantito utile a coltivare una plebe precaria e l’assistenzialismo piuttosto che una comunità di produttori. I programmi di accompagnamento all’occupazione sono dei meri slogan che poggiano su dei falsi reiterati da anni come quello che segnala che la disoccupazione sia un problema di sfasamento tra qualificazione dell’offerta e qualificazione della domanda di lavoro. Un problema che riguarda solo poche centinaia di migliaia di opportunità rispetto alla marea di milioni di persone, anche qualificate, disoccupate e sottopagate. Sono solo tre aspetti, oltre alla improvvisa conversione sulla politica europeista, di un programma dai contenuti prevalentemente demagogici ed enunciativi. Beppe Grillo del resto lo aveva detto chiaramente, un paio di anni fa. Il suo movimento era nato per contenere nell’alveo democratico, tradotto nell’attuale sistema partitico e consociativo, un movimento che poteva assumere connotati radicali e sovranisti. Un cambiamento serio non può quindi che partire da una crisi anche di questo movimento in modo che anche gli “onesti” comincino a guardare ad altre parti.

UNA QUESTIONE STRATEGICA

Il Sole24Ore del 21 gennaio titolava, a proposito della campagna elettorale: ”Economia reale e industria a bassa priorità per i partiti”. Solo Carlo Calenda, Ministro dello Sviluppo Economico e Marco Bentivogli, sindacalista della CISL in un articolo http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2018-01-11/un-piano-industriale-l-italia-competenze-222533.shtml?uuid=AEcQ5JgD si sono soffermati lungamente sull’argomento. Lo hanno fatto però con tutti i limiti di una politica industriale del tutto indifferente al vero e proprio esodo all’estero del controllo e della proprietà delle maggiori e medie realtà industriali del paese e di incentivazione nella sua totalità senza alcuna selezione dei settori strategici. Aspetti già segnalati in questo articolo http://italiaeilmondo.com/2017/01/22/203/ . E infatti, ad oltre un anno di distanza, il Ministro vanta il grande successo degli investimenti nei vari settori industriali e lamenta un insufficiente sviluppo della ricerca, della ricerca applicata e della nascita e sviluppo di start-up qualificate. Calenda presenta il dato come un semplice accidente risolvibile con ulteriori finanziamenti ed una migliore organizzazione dei “competence center” e dei centri di ricerca universitari. Vedasi il suo intervento al per altro interessante convegno a Napoli del 11 gennaio scorso. In realtà si tratta di un limite strutturale legato alla ormai quasi totale assenza di adeguate piattaforme industriali nazionali necessarie a favorire la nascita, lo sviluppo e il consolidamento delle attività sperimentali. La conseguenza è che nel migliore dei casi la ricerca e il rischio delle scarse applicazioni industriali sono a carico degli investimenti pubblici e privati nazionali, il più sicuro e remunerativo consolidamento finisce in mano alle grandi piattaforme industriali straniere. Uno degli ultimi esempi riguarda l’ECM, azienda operante nell’alta tecnologia ferroviaria, un settore nel quale era presente, sino a pochi mesi fa e da diversi decenni Finmeccanica http://iltirreno.gelocal.it/pistoia/cronaca/2018/01/05/news/ecm-diventa-americana-arriva-caterpillar-1.16315568 . Per il resto il dibattito è tuttora assente a parte qualche vaga enunciazione sul mantenimento del controllo delle aziende strategiche fatta da Salvini e Meloni.

È vero che i bacini elettorali sono considerati ormai un mercato segmentato secondo semplici e sofisticate tecniche di comunicazione e costituiti da cittadini consumatori piuttosto che da cittadini partecipi e produttori del bene comune. La politica industriale, nei suoi particolari, deve avere necessari caratteri di riservatezza. Essa, comunque, rappresenta uno dei pilastri imprescindibili sui quali costruire non solo il benessere di una comunità, ma anche la forza e la autorevolezza di una nazione organizzata in uno stato.

L’assenza di dibattito sul tema rivela le reali intenzioni di uno degli schieramenti che si andranno a formare dopo le elezioni, ma anche le debolezze intrinseche che l’altro dovrà superare pena l’estinzione o il trasformismo più deleterio.

Questi paiono i tre aspetti sinora emersi nel dibattito. Si spera che la convulsione dei prossimi giorni aiuti a farne emergere altri ancora più dirimenti. Si vedrà. Rimangono nell’ombra, nell’articolo altre forze politiche. Tra esse “Liberi e Uguali”. Il simbolo più evidente della decadenza e dell’estinzione di una classe dirigente, ma non per questo meno importanti. Non mancherà l’occasione di parlarne. Nel frattempo andate a leggervi il programma. Non sembrano crederci nemmeno loro.

 

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