UN MUTAMENTO DECISIVO DI PROSPETTIVA, di Gianfranco la Grassa

UN MUTAMENTO DECISIVO DI PROSPETTIVA
Già effettuato, ma da ribadire
1. Nei modelli teorici si parte spesso da una presupposta situazione di equilibrio, che si sa bene servire soltanto da base per studiare poi i processi di non equilibrio. Ad es. Marx prende le mosse dalla <<riproduzione semplice>>, con crescita nulla del sistema, che resterebbe di ciclo in ciclo sempre eguale a se stesso. Schumpeter immagina invece un <<flusso circolare>>, che in genere prevede una crescita ma sempre secondo eguale proporzione tra le varie parti del sistema. Dalla <<riproduzione semplice>> si passa a quella <<allargata>> con il reinvestimento di una quota del plusvalore ottenuto da parte dei capitalisti (proprietari dei mezzi produttivi); mentre dal <<flusso circolare>> si passa allo <<sviluppo>> grazie all’attività innovativa di specifici imprenditori.
Nella marxiana <<riproduzione allargata>> si può pensare alla semplice crescita, con allargamento del sistema produttivo secondo le medesime proporzioni dei vari settori o branche; allargamento consentito anche da una semplice accumulazione del capitale investito secondo quote sempre percentualmente eguali in questi vari settori e senza un particolare processo innovativo o, quanto meno, con innovazioni di <<processo>> che innalzino la produttività in modo uniforme nelle varie branche del sistema complessivo. Nello <<sviluppo>>, in quanto fenomeno di rottura del <<flusso circolare>>, è invece impossibile che non si verifichino processi innovativi di vario genere – fra cui le innovazioni di <<prodotto>> che complicano il reticolo intersettoriale – poiché è proprio la proporzione tra i vari settori ad uscirne alterata, con avanzamento di quelli interessati da innovazioni o addirittura nuovi a scapito degli altri più tradizionali (di passate epoche innovative, ormai divenuti di routine o maturi).
E’ però possibile affrontare il problema da una prospettiva diversa, in un certo senso opposta: presupporre lo <<squilibrio>> come processo <<fondante>> il sistema. Senza lo <<squilibrio>>, in quanto base dell’analisi relativa all’evolversi di dati processi (ad esempio quello produttivo), non sarebbe possibile una corretta individuazione e valutazione prospettica circa il verificarsi degli stessi. Si badi bene: non si tratta affatto di una supposizione che pretenderebbe di riprodurre più esaurientemente <<la realtà così com’essa è>>. In ogni caso, il teorico è consapevole di stare costruendo mappe interpretative che con il “reale” intrattengono sempre un rapporto di ipotesi di certi andamenti con verifica delle stesse, correzione delle mappe mediante nuove ipotesi, e così via in un processo senza fine mai in grado di attingere <<la realtà così com’essa è>>. Tuttavia, si ritiene preclusa la strada di un’analisi che serva all’azione (alla pratica) nel mondo “reale” se non si pone all’inizio la presenza dello <<squilibrio>>.
E’ in fondo la strada percorsa da Lenin (non so con quale consapevolezza teorica) nello studio e valutazione della fase imperialistica, che non avrebbero prodotto effetti “pratici” se non fossero stati basati sullo <<sviluppo ineguale>> dei diversi capitalismi (paesi con questo sistema di rapporti sociali), tesi abbastanza simile a quella che presuppone la priorità dello <<squilibrio>>. Senza questa presupposizione, non sarebbe stata possibile la previsione circa l’<<anello debole>> della “catena imperialistica”. E ancor meno il dirigente bolscevico avrebbe dimostrato la sua grande duttilità, legata alle esigenze della prassi politica, nel ricercare le alleanze tra grandi raggruppamenti sociali (operai e contadini) adeguate al fine di concentrare l’azione trasformativa (rivoluzionaria) su detto anello debole.
2. Per quanto non sia immediatamente “visibile”, il problema dell’alternarsi di epoche monopolari (un paese con assai larga sfera di influenza mondiale) e multipolari (più paesi in conflitto per le sfere di influenza; l’imperialismo fu una di queste) può essere trattato con modalità assai diverse a seconda della priorità assegnata all’equilibrio o allo squilibrio nel “modello” teorico utilizzato per l’interpretazione della “realtà”. Vi sono correnti, penso alla scuola dell’economia-mondo (e annessi e connessi), che di fatto fondarono la loro analisi sul passaggio dal predominio di una grande “potenza” alla supremazia di un’altra (Spagna, Olanda, Inghilterra, Stati Uniti, solo come elementare esempio). I periodi di passaggio (multipolari appunto), pur non studiati certo con modalità deterministiche, restarono (nella teoria dell’economia-mondo) in definitiva subordinati a quelli (monopolari) di preminenza di una nazione, di uno Stato, di un paese. L’attenzione del teorico era soprattutto attratta dalla “potenza” preminente, d’epoca in epoca, e questo non può non influenzare la ricostruzione storico-teorica delle epoche di transizione che, appunto, non è la riproduzione della realtà così com’essa è, ma solo un’interpretazione in grado poi di promuovere, sia pure tramite molte mediazioni, una determinata prassi oppure un’altra, ecc.
In effetti, la potenza predominante avrebbe – e non solo per ragioni economiche, ma di assai varia natura (quindi anche politico-militari, ideologico-culturali, ecc.) – possibilità di realizzare una certa regolazione dell’insieme. Chi analizza l’epoca di una predominanza – fosse anche limitata ad un’area mondiale, come lo fu la supremazia del capitalismo statunitense tra il 1945 e il 1989-91 – si accorge di un qualche ordine esistente in quell’area; non a caso si suppose, nel periodo storico considerato, la fine delle “grandi crisi” capitalistiche e l’affermarsi, pur nel “libero” mercato, di una economia (pur assai relativamente) regolata, in potenziale continuo sviluppo solo interrotto da brevi crisi sistemiche (dette “recessioni”), tutto sommato normali e controllabili. Non vi è dubbio che il mondo bipolare – la Cina vi restava estranea, malgrado la rilevanza del suo peso politico – è stato la fonte di questa interpretazione teorica.
Esisteva, da una parte, il “socialismo” – per i suoi critici un mondo comunque ostico da decifrare, tanto che spesso ci si semplificò il compito dell’analisi con l’ormai evidentemente errata tesi del “capitalismo di Stato”; tesi comunque meno aberrante di quella del “socialismo di mercato” nella Cina attuale – e, dall’altra, il capitalismo tout court, che veniva criticato e magari combattuto, ma sempre a partire dalla sua considerazione quale blocco unico; o visto come transnazionale o subordinato al centro regolatore statunitense. Non appena uno dei “mondi” crollò e sembrò essere riassorbito nel sistema complessivo, ci fu chi pensò ad un’epoca imperiale (dominata dagli Usa) di durata indeterminata, chi invece preconizzò il declino di questo paese, subito passando però ad immaginare quale sarebbe stata la nuova “potenza” predominante: prima fu il Giappone, errore marchiano, poi si è scommesso sulla Cina. Che questa lo diventi (semmai fra un bel po’ d’anni) oppure no è proprio ciò che interessa di meno. L’importante è capire – via ipotesi aperte all’errore/verifica/correzione in un processo ininterrotto – come si andrà atteggiando lo <<sviluppo ineguale>> nella nuova epoca multipolare (sarebbe meglio non usare più il termine “imperialismo”).
Spero non ci sia bisogno di spendere altre parole affinché il lettore attento afferri le maggiori possibilità di incorrere in errori (da correggere poi con grande difficoltà), accettando l’idea che l’aspetto fondamentale dell’evolversi degli eventi storici sia rappresentato dal monopolarismo, una versione della priorità analitica dell’<<equilibrio>>, che infine entrerebbe in crisi in attesa del confronto per la nuova preminenza monopolare. Mentre lasciare in sospeso quale sarà la nuova potenza a sostituire gli Stati Uniti – in declino, anche se solo iniziale al momento – vuol dire porre in primo piano le epoche multipolari, cioè le fasi dello <<squilibrio>>. Da quest’ultimo, che è per certi versi lo <<sviluppo ineguale>>, si originano – certamente dopo opportuna maturazione del processo – le crepe in grado di fessurare il sistema in dati punti, non prevedibili all’inizio del processo, che non è deterministico, ma prevalentemente caotico; questi punti (paesi in definitiva) saranno in futuro gli <<anelli deboli>> di una catena di rapporti internazionali, così come li definì Lenin.
Ecco perché sistemi teorici, tipo quelli dell’economia-mondo, non mi sembrano più riproponibili. Non dico che non abbiano avuto i loro meriti. Tuttavia, è l’impostazione generale che va accantonata. Oggi deve prevalere l’attenzione per le epoche multipolari, in definitiva per lo <<squilibrio>> come del tutto prioritario rispetto all’<<equilibrio>>. Lo ribadisco: non prioritario perché più vicino alla “realtà” – che cerchiamo di conoscere mediante l’ipotesi di alcune soltanto delle variabili della sua complessa dinamica, ritenute quelle fondamentali – ma perché abbiamo bisogno di seguire le alterne vicende mondiali riassunte nella denominazione di <<sviluppo ineguale>> dei diversi paesi capitalistici, senza più concessioni alla sciocchezza della fine degli Stati nazionali, cioè di fine delle “potenze”, proprio mentre alcune sono in crescita e ci si avvia intanto al multipolarismo, fase d’avvio dell’epoca in cui dovrà necessariamente prodursi il conflitto policentrico acuto per la supremazia mondiale.
3. Puntare sulla priorità dell’<<equilibrio>>, e dunque delle fasi di monopolarismo, ha ulteriori effetti negativi. Indubbiamente Lenin – tutto preso dalle necessità della fase storica in cui visse e in cui riuscì con il gruppo dirigente bolscevico ad approfittare della rottura della catena imperialistica nell’<<anello debole>> russo – non poté portare a compimento la necessaria “rivoluzione” anche in campo teorico. La tesi dello <<sviluppo ineguale>> si arrestò alle soglie di quest’ultima in omaggio alla pretesa di essere l’ortodosso del marxismo in lotta contro il revisionismo kautskiano (socialdemocratico), mentre la realtà era proprio l’opposto. Solo che Lenin, per ragioni storiche oggettive, rimase a mezza strada nel suo effettivo “revisionismo”. Possiamo ben dire che la tesi dell’imperialismo quale ultimo “stadio” del capitalismo gli precluse l’altra “mezza via”.
Per molto tempo, il “marxista” cristallizzato ha cercato infantilmente di sostenere che ultimo non significava finale, bensì ultimo in ordine di tempo. Non è vero, ogni marxista ha sempre stabilito analogie tra l’organismo sociale e quello biologico, con le sue fasi di nascita, giovinezza, maturità, vecchiaia e infine morte per rinascere in altra forma. L’imperialismo è stato sempre trattato quale senescenza, vecchiaia, del capitalismo. L’errore fondamentale non era però questo; non a caso ho sottolineato “stadio” e non ultimo. E’ necessario abbandonare l’idea degli stadi. Dagli anni ’90 in poi, ho più volte formulato la tesi delle “ricorsività” e non degli “stadi”, per evitare di pensare sempre alla fine di date formazioni sociali in una visione unilineare dell’evoluzione storica, tesa ineluttabilmente verso le ben note “magnifiche sorti e progressive”.
In realtà, la “ricorsività” andrebbe meglio intesa quale <<fase di transizione>> a nuove forme dei rapporti sociali, senza però pensare alla fine del capitalismo tout court; semplicemente finì il capitalismo inglese (da definirsi “borghese”), la cui forma è quella analizzata da Marx mentre era al suo apogeo. I marxisti hanno continuato a parlare di capitalismo mentre invece esistono i capitalismi. E così, mentre si vaneggiava circa l’ultimo stadio capitalistico e sulla rivoluzione che avrebbe condotto al comunismo (tramite la fase socialistica), ha invece prevalso il capitalismo statunitense che tuttora predomina nel mondo. Anche per questo va data priorità allo <<squilibrio>>, che persiste durante l’epoca della preminenza centrale di una data “potenza” e alla fine logora il sistema solo apparentemente “regolato”. Il suo lavorio appare “in superficie” nelle crisi “sistemiche”, sia pure di non drammatica intensità, ma in genere non si dà ad esso la giusta rilevanza. Alla fine esso inizia a dissolvere la coesione tra le varie parti del sistema (in definitiva le diverse formazioni <<particolari>>, i paesi, nazioni, ecc.); e ci si avvia allora verso la fase multipolare dove il conflitto, sempre unito (ma in funzione subordinata) all’alleanza e cooperazione (appunto per la conduzione del conflitto), diventa via via più acuto fino alla necessità della resa dei conti tra blocchi di “alleanze”: stabilite per pura convenienza e che quindi lasciano sempre sussistere la tensione che è <<squilibrio>>.
Tuttavia, le ricorsività di mono e multipolarismo appaiono nelle loro forme più generali, ma ogni fase multipolare (di crescente affermazione dello squilibrio) è anche senza dubbio di specifica transizione ad una nuova forma dei rapporti sociali. L’imperialismo lo fu dal capitalismo “borghese” a quello dei “funzionari del capitale” con predominanza statunitense. Per vari motivi piuttosto economicistici, di rilevanza delle forme del mercato e dell’impresa nel sistema produttivo, parliamo sempre di capitalismo; tuttavia cominciamo almeno a declinarlo al plurale (“i capitalismi”). Adesso, la nuova fase multipolare (ancora all’inizio) – considerata quale anticipazione del “policentrismo conflittuale acuto”, con scontro decisivo per la supremazia – potrebbe annunciare una nuova “transizione” in cui giocherà, in lotta con la formazione capitalistica (USA) tuttora in auge, un nuovo capitalismo le cui forme, in quest’epoca storica assai mobili e soprattutto mal conosciute, sono soprattutto (o almeno così sembra attualmente) quelle delle formazioni <<particolari>> russa e cinese; tutto sommato risultato – pur attraverso le complesse vicende di più di un secolo e con l’estensione territoriale in paesi e quindi società diverse – della <<Rivoluzione d’ottobre>>, che si conferma perciò, ma con modalità di impossibile comprensione mediante il marxismo ossificato, uno dei grandi eventi storici, al pari della <<Rivoluzione (francese) del 1789>>.
Quando, liberatici infine degli “ismi” del XX secolo ancora per null’affatto superati, riusciremo a capire meglio le “transizioni” rappresentate dalle fasi multipolari – e in particolare quella fondamentale tra capitalismo “borghese” e dei “funzionari del capitale”, avvenuta nell’epoca dell’imperialismo, giacché la successiva è appena agli inizi – saremo pure in grado di decidere se vale ancora la pena di usare il termine “capitalismo” (declinato però al plurale) oppure se, superando l’economicismo delle forme mercantili e imprenditoriali, ci si dovrà decidere per una diversa opzione. Non è però questo il problema che ci assilla oggi. Si deve cominciare con il superamento di teorie vergognosamente cristallizzate, sterili, ormai giocattoli per bambini utilizzati da adulti che si limitano ai birignao della loro infanzia.
A questo serve la tesi della <<priorità dello squilibrio>>, non a pretendersi capaci di riprodurre la <<realtà così com’essa è>>. La marxiana “riproduzione del concreto nel cammino del pensiero” (“Introduzione del 1857”) lasciamola tra gli “arnesi” (teorici) di un secolo e mezzo fa; certo importante com’è ogni “arnese” utile all’analisi dell’evoluzione storica della nostra conoscenza, che non può saltare a piè pari determinati gradini, però sapendo che quell’“arnese” conosce, dopo un determinato periodo di tempo, il suo superamento.
E’ chiaro il discorso o si devono sempre ripetere le stesse cose? Gli sclerotizzati non capiranno; allora, per favore, lasciamoli perdere. Tanto più che in parte si tratta di imbroglioni, che ingannano alcuni giovinastri cercando di ripetere il ’68, ma sono al servizio dei capitalismi più reazionari. Vediamo oggi meglio quale funzione stiano assolvendo questi intellettuali cialtroni. Non si discuta più con loro; non ha alcun senso, sono in genere al servizio dei peggiori gruppi dominanti italiani e stranieri (statunitensi in testa).
4. Ancora alcune considerazioni conclusive. Bisogna ben capire il senso della priorità dello <<squilibrio>>. Nessuna menzogna relativa al fatto che saremmo più vicini alla “verità” rispetto a coloro che partono dal presupposto “iniziale” dell’<<equilibrio>>. La scelta è solo relativa alla maggiore utilità dello strumento interpretativo (del passato) e previsivo ai fini di una prassi (politica), che non ne discende tuttavia in modo immediato e con filiazione diretta. Lunga, anche in termini temporali, è la catena dei passaggi intermedi tramite i quali si sviluppa il processo di <<ipotesi/prova/errore/nuova ipotesi>>, ecc. Lo <<squilibrio>>, inoltre, vieta di pensare ad un troppo lontano futuro poiché ci obbliga ad accorciare il tiro dei nostri “obici teorici”. In più, ci impedisce di fissarci su una sola conclusione – ad esempio, quale sarà la nuova “potenza” centrale, predominante – poiché l’importante è seguire l’evoluzione dello <<sviluppo ineguale>> assai più da vicino, con atteggiamento di grande flessibilità e adattamento a situazioni estremamente mutevoli, quali sono quelle della fase multipolare.
Vi è però un mutamento ancor più sostanziale, che esito a definire metodologico, termine che mi sembra assai limitativo. Chiamatelo come volete. Se si parte dalla <<riproduzione semplice>>, dal <<flusso circolare>>, ciò che viene pensato come passaggio a quella <<allargata>> o alla <<innovazione di rottura>> lo è sempre quale attività razionalmente tesa ad uno scopo di efficienza, di “economico” impiego delle risorse. Una parte del plusvalore viene reinvestita (accumulata), ma seguendo il criterio del conseguimento del massimo profitto, il che implica l’applicazione del principio del <<minimo mezzo>> o <<massimo risultato>> (cioè minimo costo o massimo ricavo). L’innovazione implica creatività, ma sempre in vista dello stesso risultato. L’esistenza della razionalità limitata (ad es. quella di Herbert Simon), della non trasparenza assoluta dei mercati, ecc. sono semplicemente la solita manfrina di coloro che a Galilei avrebbero obiettato: ma dove mai esiste un moto senza attrito e da potersi definire “rettilineo uniforme”? A simili effettivamente limitati pensatori hanno anche assegnato premi Nobel, ma tanto sappiamo meglio adesso come questi vengono vinti. Non badiamoli nemmeno, non sanno uscire dal vero errore commesso nel valutare il carattere del capitalismo, forma <<storicamente specifica>> di una caratteristica generale di ogni formazione sociale.
Naturalmente, si tiene conto che il massimo profitto è ottenuto in una competizione (lotta) concorrenziale; tuttavia, quest’ultima è secondaria (logicamente) rispetto al fine prioritario del profitto. La concorrenza è dunque un mezzo, obbligatorio nella forma capitalistica dei rapporti sociali (però di produzione), per raggiungere la finalità suprema del capitalista proprietario dei mezzi produttivi: il profitto appunto. Ecco allora che – supponendo la ben nota dinamica capitalistica che conduce alla scissione della società in una classe di ormai sostanziali rentier, da una parte, e nella classe dell’intero corpo lavorativo produttivo (“dall’ingegnere all’ultimo manovale”), controllore in collettivo dei mezzi di produzione, dall’altra – diventerebbe possibile pensare al recupero sociale della razionalità produttiva del capitalista concorrenziale. Il “Robinson collettivo” (vedi primo capitolo de “Il Capitale”, paragrafo sul feticismo della merce) userebbe ancora il principio del “minimo mezzo” per realizzare l’utilità sociale complessiva. La produzione potrebbe essere pianificata dalla collettività dei produttori in possesso dei mezzi produttivi in base allo stesso principio messo in primo piano dalla scienza economica dei dominanti, solo che in quest’ultima riguarda i singoli capitalisti, i proprietari dei mezzi di produzione.
In fondo, il “Robinson collettivo” utilizzerebbe i mezzi scarsi – adibiti alla produzione dei diversi beni utili a soddisfare i vari bisogni stabiliti dalla collettività con decisione comune – in base al principio del minimo mezzo; almeno fino a quando non si fosse realizzato il pieno comunismo, che implicherebbe la fine della scarsità dei beni in relazione ai bisogni (“a ciascuno secondo i suoi bisogni”, infatti). Il tutto in armonia e cooperazione. Una volta eliminato il controllo “individuale” (anche di gruppi di capitalisti evidentemente) dei mezzi produttivi, l’uso di questi – e i bisogni da soddisfare tramite i beni con essi prodotti, utilizzando la forza lavoro fornitrice del pluslavoro/plusvalore – non dipenderebbe più dalle decisioni di singoli “individui” in base al massimo profitto (con tutte le limitazioni possibili dovute agli “attriti”, pensati da cervelli poco adusi all’astrazione scientifica).
Da simili distorte concezioni sono poi dipese sia le improprie conclusioni sugli extraprofitti di monopolio, in teorie che eliminano anche gli squilibri (secondari) legati alla competizione concorrenziale; sia le altre, ancora peggiori, concernenti il detestato consumismo, anch’esso imposto da quelle “cattivone” di imprese monopolistiche, magari multinazionali, ecc. Banalità su banalità, ancora diffuse con “sapienzialità” da sciamani premiati quali grandi pensatori sociali, mentre sono vecchioni (anche quando giovani d’età) rimbambiti, pagati dai media di una classe dominante ormai degenerata nell’ambito della formazione dei <<funzionari del capitale>>; questa sì arrivata attualmente alla sua senescenza. Dopo quest’epoca di “transizione”, dovremmo trovarci in una nuova <<formazione sociale>>; di cui oggi mi sembra assurdo pensare (“da indovini”) alle specifiche caratteristiche.
Porre in prima posizione lo <<squilibrio>> spazza via tutta questa cianfrusaglia ormai odorante di stantio e perfino di putrefazione. Il profitto (plusvalore) è mezzo, non fine. Quest’ultimo è invece la <<supremazia>>, che viene raggiunta tramite un conflitto permanente (che sempre esige le alleanze tese a tal fine), in cui si usa in prevalenza il “calcolo” strategico, differente <<per natura>> da quello di efficienza, di economicità. Se è possibile, e fin quando possibile, viene certo usato questo criterio calcolistico del minimo mezzo, ma solo se non contravviene alla conquista della <<supremazia>> tramite uso delle <<strategie di conflitto>>. E tali strategie appartengono al <<campo generale della politica>>; sia che vengano impiegate nella sfera propriamente politica o invece economica, e in ogni dove si esplichi azione umana. Il capitalista non è il mero proprietario, è invece lo <<stratega>>; ciò era già in parte implicito nella teoria manageriale di Burnham (il più avanzato conoscitore della nuova formazione capitalistica affermatasi negli Usa), ma ancora con riferimento predominante alla sfera economica e restando invischiati nella problematica della lotta tra management e proprietà, in cui il primo avrebbe infine prevalso definitivamente; mentre invece le forme giuridiche, in auge nella mera sfera economica, possono essere congiunturalmente variabili, perché il conflitto, nella sua reale dimensione di <<strategia>> per conquistare la <<supremazia>> nella società nel suo complesso (a “più sfere”), è l’elemento generale e cruciale.
Un simile mutamento (di paradigma? Definitelo come volete) comporta il completo rivolgimento dell’intera prospettiva teorica; sia delle teorie dei dominanti sia di quella marxista, da cui il sottoscritto prende pur sempre le mosse. Si deve però andare avanti, servono mutamenti teorici decisivi. Qui volevo solo far notare che questi ultimi devono, fra le altre cose, prendere le mosse dall’inversione della priorità tra <<equilibrio>> e <<squilibrio>>. E tanto basti, al momento.

NB_Tratto da facebook

LA RICCA EUROPA E’ IL PREMIO DEL CONFRONTO, di Antonio de Martini

LA POSTA IN GIOCO NON E’ L’UCRAINA MA LE FORNITURE DI GAS ALL’ EUROPA E LA PELLE DELLA RUSSIA CHE SPERA NELLA CINA CHE GUARDA AGLI USA…

ANTEFATTO N 1

Nikita khrushev, pur essendo nato in altra parte dell’impero, fece tutta la sua carriera di funzionario del partito comunista russo in Ucraina. Diventato segretario generale del PCUS ( partito comunista della Unione Sovietica), ebbe un occhio di riguardo per i suoi vecchi compagni, assegnando alla loro regione l’amministrazione della Crimea ( il luogo all’epoca più desiderato per le vacanze della nomenclatura e per i cittadini) e incluse ben 17 milioni di russi nei confini della Ucraina , che all’epoca era una regione dell’URSS.

Di qui nascono una serie di guai in cui sono incappati i suoi successori.

Una volta sciolta l’Unione sovietica e smantellato il patto di Varsavia, i governanti statunitensi lasciarono intendere al presidente BORIS YELTSIN di non avere mire sull’est Europa, ma mentre Yeltsin e il suo ministro degli esteri Eduard Shevarnadze si accontentarono di assicurazioni verbali a mezza bocca ( i verbali sono stati desegretati dagli USA un paio di anni fa e accennano a numerosi brindisi), gli americani – vedendo risorgere la potenza sovietica sotto la pelle della nuova Russia- decisero di sfruttare l’ingenuità combinata di Khrushev e di Yeltsin per iniziare a cooptare i paesi dell’est Europa nella loro sfera di influenza e accerchiare la Russia con una catena di basi che lasciassero aperta ogni opzione di possibili attacchi in maniera da creare incertezza strategica sulle intenzioni dello zio Sam. Attratti dalla prospettiva di essere ricoperti d’oro dalla Unione Europea, dal mare del nord al mar nero, prima o poi, abboccarono tutti.

Più difficile l’azione nelle Repubbliche ex sovietiche di cultura turca ( i quattro stan) dove un momentaneo successo della segretaria di Stato Hillary Clinton fece credere di poter disporre di un paio di basi , ma la pronta reazione russa si affermò facilmente.

Al sud, Iran e Afganistan , dove comunque gli USA sono riusciti a costruire un paio di infrastrutture strategiche logistiche che vanno verso la frontiera russa, il problema é ancora indeciso per via dell’ostinazione iraniana e della sua inimicizia con Israele e l’Arabia Saudita che sono le potenze regionali rivali e i più sicuri, per ora, alleati degli USA.

ANTEFATTO 2

La strategia principe degli USA nella seconda guerra mondiale consistette nello strangolamento del Giappone con il controllo delle materie prime e sopratutto del petrolio.

Una volta entrati in guerra, adottarono la stessa strategia nei confronti della Germania e la stessa resa dell’Italia fu considerata positivamente per l’opportunità di utilizzo offerta dagli aeroporti pugliesi per bombardare i pozzi petroliferi di Ploesti in Romania.

Controllando le fonti principali di petrolio del pianeta, senza il quale, navi, aerei e carri armati restano fermi, la vittoria non fu che questione di quando, non di se. La carne da cannone la misero i russi e i dominions.

Nel caso della Russia, ricchissima in petrolio ed ogni sorta di materie prime, il problema non é più consistito nel controllo delle fonti , ma nell’impedirne ai russi lo sfruttamento che é il principale sostegno finanziario dell’economia russa il cui PIL equivale a quello del Benelux. Un vantaggio aggiuntivo é l’opportunità di sostituire la Russia come fornitore della ricca e decadente Europa. Il rifornimento avviene via mare ( con navi e con l’onere di costruire impianti di rigasificazione dato che viene liquefatto per agevolare il trasporto. Ci sono attualmente in Europa sette impianti di rigasificazione in progetto- costruzione)

Il ruolo chiave dell’Ucraina in questa vicenda di scontro di interessi strategici e commerciali tra la potenza marittima per eccellenza e la controparte di terra, é esemplificato dalle due cartine che vedete. L’Ucraina serve agli Stati Uniti per strangolare, come fece col Giappone, ogni velleità espansionistiche – sui mercati o i territori, poco importa – della Russia.

Dalla carta ” di terra” é evidente la parte del Leone che fa l’Ucraina nel veicolare gas e petrolio versa la ricca Europa e nella “carta di mare” il fatto che gli Stati Uniti stanno già acquisendo il cliente Europa cui é già sono fornito il 26% della produzione di gas di scisti, molto più costoso sua per le modalità di estrazione che per quelle di trasporto.

Negli anni ottanta, una manovra analoga fu fatta con l’oro, sacrificando gran parte dell’oro Inglese e canadese , oltre che americano, per far scendere il prezzo sui mercati e privare l’URSS di questo introito importantissimo per la sopravvivenza del regime.

L’ingresso sul mercato dell’India , l’acquirente più grande del prezioso metallo e di altre neo potenze asiatiche , ha consentito la ripresa della Russia di Putin dopo il crollo dell’URSS. L’Afganistan fu un infortunio politico importante ma non decisivo come questo.

Come vedete da questo breve riassunto di una situazione ingarbugliata, l’Ucraina lucra da anni la protezione americana per esigere royalties sempre maggiori per il passaggio delle pipelines sul proprio territorio, la Russia cerca di diversificare le linee di accesso all’Europa attraverso il NORD STREAM uno e due o attraverso la Turchia .

L’Europa, e in particolare l’Italia, galleggiano su un mare di petrolio e di gas dell’est mediterraneo ( Leviathan e Tamar nei mari della Grecia, Libano, Israele e Siria) nel mediterraneo centrale ( le acque profonde dell’Egitto da cui hanno cercato di schiodarci con l’affare Regeni), nelle acque della Sirte e le coste delle Cirenaica ( ormai rese insicure da taglieggiamenti endemici alle fazioni in lotta)e l’Algeria che ha saputo resistere solo a prezzi elevatissimi di sangue. L’Iran e il Venezuela ci sono stati interdetti con il pretesto che non sono democrazie.

Come se il Katar e l’Arabia Saudita e la Guinea Equatoriale, lo fossero….

A tutte queste opportunità, vanno aggiunte le coste pugliesi – alla prospezione delle quali si oppone, non si sa a che titolo, una americana di origine italiana che dice di insegnare in una università della Florida, ma opera in Puglia; al largo di Rimini abbiamo giacimenti trovati da ENI e Gulf italiana negli anni settanta e subito richiusi ” per non danneggiare il turismo”, senza contare i giacimenti in Basilicata e quelli storici della val padana.

In altre parole viviamo su un sottosuolo intriso di gas e petrolio, ma lo compriamo all’estero in cambio di protezione data alla banda di ladruncoli che si accontenta – oltretutto- delle briciole.

La chiamano democrazia, suo marito é il “libero mercato” ( che non é né l’uno né l’altro) e dicono che Al Capone era italiano.

https://corrieredellacollera.com/2022/02/20/la-ricca-europa-e-il-premio-del-confronto/

Adversvs Tristi Bestie: Repvblicanisvs Geopoliticvs Fontes Origines et Via (PARTE PRIMA DI 3)_di Massimo Morigi

Massimo Morigi

Adversvs Tristi Bestie: Repvblicanisvs
Geopoliticvs Fontes Origines et Via
(PARTE PRIMA DI 3)

Presentazione
Nella prima decade di questo nuovo millennio ebbi modo di partecipare a vari
convegni internazionali di filosofia politica e i miei contributi furono sempre
incentrati sull’estetizzazione della politica nei regimi autoritari del XX secolo e
ho più volte sottolineato quanto questi iniziali studi sull’estetizzazione della
politica e sulla politicizzazione dell’estetica (la contromossa di Walter Benjamin
all’estetizzazione della politica dei regimi autoritari di destra) siano stati
centrali nella successiva elaborazione della Weltanschauung del
Repubblicanesimo Geopolitico. In seguito, nel 2014, decisi di riunire in un unico
documento questi interventi sotto il titolo di Repvblicanisvs Geopoliticvs Fontes
Origines et Via che poi caricai autonomamente su Internet Archive e quindi
consultabile e scaricabile all’URL
https://archive.org/details/RepvblicanismvsGeopoliticvsFontesOriginesEtViaMa
ssimoMorigiGeopolitics_436. Oggi, dopo aver deciso che le mie aurorali
incursioni nella storia filosofica e nella filosofia politica pubblicate sull’ “Italia e
il Mondo” e che vanno sotto il titolo di La Loggia “Dante Alighieri” nella Storia
della Romagna e di Ravenna nel 140° anniversario della sua fondazione (1863-
2003) e di Ancora in avvicinamento al Nuovo Gioco delle Perle di Vetro del
Repubblicanesimo Geopolitico: Pombalina et Inactualia Archeologica potevano
aiutare a ricostruire la genealogia del Repubblicanesimo Geopolitico, a questo
appello non potevano mancare questi interventi e che ora vengono proposti con
una leggera modifica nel titolo rispetto al documento immesso autonomamente
su Internet Archive, aggiungendo, appunto, Adversus Tristi Bestie. Come non è
difficile comprendere si tratta di un diretto riferimento ai bestioni di vichiana
memoria, ma in questo caso le nostre Tristi Bestie sembrano non preludere ad
alcuna Epifania Strategica ma solo ad un definitivo degrado antropologico e
culturale connotato dalle due opposte ma equivalenti superstizioni scientifiche
ed antiscientifiche delle ultime cronache virali su cui mi sono più volte
soffermato e di cui ho accennato anche in Ancora in avvicinamento al Nuovo
Gioco delle Perle di Vetro del Repubblicanesimo Geopolitico: Pombalina et
Inactualia Archeologica. Un avviso alla fruizione del documento. Il file a suo
tempo caricato su Internet Archive è un file Word al cui interno vi sono anche
contenuti multimediali che non possono essere utilizzati nel formato PDF
pubblicato dall’ “Italia e il Mondo”: si tratta di URL che rimandavano a video
musicali allora presenti su YouTube che per paura che venissero, come poi è
stato, rimossi, erano stati inseriti direttamente nel file Word in questione.
Quindi chi vuole vedere questi contenuti multimediali non deve far altro che
andare al documento Word caricato su Internet Archive. Inoltre, si avverte che
per mantenere la linearità del discorso sull’estetizzazione della politica
sviluppato in queste conferenze il presente documento contiene anche Aesthetica
Fascistica II, già pubblicato in Ancora in avvicinamento al Nuovo Gioco delle
Perle di Vetro del Repubblicanesimo Geopolitico: Pombalina et Inactualia
Archeologica ma che nel documento di questa antologia immessa
originariamente autonomamente in Rete prende il nome di Gesamtkunstwerk Res
Publica. La Leitbild in frontespizio è Warrington Colescott, Picasso at the Zoo,
from the series A History of Printmaking, 1978, collage su carta, Smithsonian
American Art Museum, dove la trista bestia è evidente come pure la tecnica
della citazione, molto praticata da quell’eroe dell’estetizzazione della politica,
della politicizzazione dell’estetica e dello stato di eccezione permanente (e
quindi, all’insegna del suo iperdecisionismo antesignano – assieme ad Antonio
Gramsci con la sua filosofia della prassi – del paradigma olistico-dialetticoespressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico) che va sotto il nome di Walter Benjamin.
Massimo Morigi – IX Febbraio 2022

ADVERSUS RIFATTO PARTE PRIMA

Il dominio dei migliori, di Roberto Buffagni

In Canada, il governo blocca i C/C dei dissenzienti. Domanda: sono dei fasci? sono dei comunisti? Sotto la risposta.
NON sono dei fasci. NON sono neanche dei comunisti. Sono dei liberal-progressisti. Il contenuto ideologico che impongono con la coercizione è il liberal-progressismo, del quale fa parte integrante l’ingegneria sociale (questo è un esempio preclaro di ingegneria sociale condotta con metodi coercitivi). La distinzione è molto importante perché altrimenti non si capisce più niente. Va tenuto presente che l’ordine internazionale unipolare a guida USA non è “agnostico”, ma ha un contenuto ideologico obbligatorio, che è appunto il liberal-progressismo. La ratio di questo contenuto ideologico è che a) il liberal-progressismo è il regime sociale più avanzato e migliore in assoluto b) se tutto il mondo diventa liberal-progressista si raggiungerà, in futuro, la concordia universalis, basta guerre, basta conflitti c) non si vedono motivazioni (se non malattie psichiatriche o arretratezza culturale) per opporsi al liberal-progressismo in nome di altre ideologie quali il fascismo (sconfitto, eticamente inaccettabile) il comunismo (sconfitto, eticamente meno inaccettabile del fascismo ma inaccettabile anche lui perché conculca l’individuo) il nazionalismo (eticamente inaccettabile perché arretrato, bellicista e incompatibile con la concordia universalis). Poi, siccome NON è vero che tutti sono d’accordo con il liberal-progressismo, il quale, anzi, specie dove viene imposto con le armi, suscita forti dissensi e resistenze (per tacere dei morti e dei disastri); e persino nei paesi di lunga tradizione liberal-progressista, quali gli USA, esso suscita endemici dissensi per i suoi effetti collaterali sgraditi (caduta del tenore di vita per l’esposizione diretta ai mercati, perdita di identità, immigrazione di massa, diseguaglianze stratosferiche); ne consegue che il liberal-progressismo, e le trasformazioni anche culturali che esso esige, andranno realizzate con un di più di coercizione, ovviamente “per il bene dell’umanità”. Le somiglianze con il fascismo stanno soltanto nell’imposizione autoritaria delle norme sociali, mentre il contenuto delle norme liberal-progressiste non potrebbe essere più lontano dal fascismo. La somiglianza con il comunismo è invece più prossima perché come il liberal-progressismo, il comunismo è universalista, ossia è (era) persuaso che il comunismo fosse in assoluto il migliore e definitivo regime sociale, che, una volta instaurato in tutto il mondo, avrebbe condotto alla concordia universalis, basta guerra, basta conflitti, la casalinga che dirige lo Stato, la fine della preistoria dell’umanità eccetera. Il contenuto ideologico imposto dal liberal-progressismo è però diverso dal contenuto ideologico imposto dal comunismo perché il liberal-progressismo è PIU’, molto più individualista del comunismo (il liberal-progressismo è il trionfo dell’individuo assoluto, la sua teodicea, un Valore con tripla maiuscola in nome del quale si possono anche fare sacrifici umani aztechi). Il comunismo insomma è un parente del liberal-progressismo, ma non è affatto la stessa cosa, cià la fissa delle classi, della Teleologia della Storia, insomma roba vecchia . La parentela liberal-progressismo/comunismo si vede chiara come il sole se si pensa a che sarebbe successo se dalla Guerra Fredda fosse uscita vincitrice l’URSS. Se l’URSS avesse vinto la guerra fredda, avrebbe sicuramente costruito un ordine internazionale unipolare con un contenuto ideologico obbligatorio (il comunismo), esattamente come gli USA hanno costruito un ordine internazionale unipolare a contenuto ideologico obbligatorio (il liberal-progressismo). Gli americani però hanno fatto i conti senza l’oste (l’oste è la storia + la logica di potenza) e sono sorte, negli ultimi decenni, due grandi potenze, Cina e Russia, che hanno tutto l’interesse e la capacità di costruire un ordine internazionale multipolare; e l’ordine unipolare USA, sia per questo, sia perché esso provoca conflitti endemici anche al proprio interno, è in crisi (grazie a Dio, auguriamogli un pronta eutanasia e magari anche un suicidio assistito).

Mali: gli eteri ideologici spiegano lo sfratto della Francia, di Bernard Lugan

Due vicende ormai lontane tra loro. Il massacro di Gheddafi e la distruzione dello stato libico nel 2011; il pressante invito della giunta militare del Mali alle truppe francesi di abbandonare immediatamente il territorio nazionale. Proprio nel momento in cui si tiene a Ginevra, con qualche ironia della sorte, la conferenza congiunta tra l’Unione Europea e l’Unione Africana. Non siamo alla conclusione di una parabola, ma ci siamo ormai vicini. L’avventura libica avrebbe voluto essere l’atto di affermazione di un nuovo ruolo assertivo della Francia in Africa Settentrionale. Erano ben altre le forze in azione dietro le quinte. Ha innescato una dinamica che al contrario sta accelerando e sancendo il ridimensionamento definitivo della Francia e delle sue ambizioni neocoloniali in quell’area. In un ultimo sussulto teso a difendere i propri caposaldi, ha cercato di coinvolgere altre forze europee, in particolare italiane e tedesche, nell’avventura. Come in altre occasioni, il nostro ceto politico, privo di ogni respiro strategico e di una qualche cognizione di interesse nazionale, si è accodato supinamente a queste scelte, dilapidando ulteriormente il patrimonio di credibilità e di rispetto guadagnatosi per due decenni a partire da Mattei. L’ennesima svolta che sta maturando in Libia, con il probabile avvicinamento della Turchia all’Egitto, se a buon fine, sancirà l’estromissione definitiva dell’Italia da quell’area così prossima con tutte le nefande conseguenze che ne deriveranno; ma anche per la Francia, con il suo ruolo di mosca cocchiera nell’avventura libica, si prospetta una sorte simile, visto il suo progressivo arretramento anche in Algeria e gli esiti incerti in Tunisia. Tra Ucraina e Nord-Africa la tenaglia che stringe l’Europa amorfa, vittima accondiscendente dell’avventurismo statunitense, si stringe in una morsa ormai destabilizzante lo stesso continente. Giuseppe Germinario

Venerdì 18 febbraio 2022, la giunta militare al potere a Bamako ha chiesto che la partenza delle forze “Barkhane” avvenisse immediatamente, e non per tappe, come aveva annunciato il presidente Macron. Come siamo arrivati ​​a una tale situazione ea una tale rottura?

Come dico e scrivo da anni, soprattutto nel mio libro Le guerre del Sahel dalle origini al presente , in Mali i decisori francesi hanno sommato gli errori derivanti da una falsa analisi consistente nel vedere il conflitto attraverso il prisma dell’islamismo. Ma qui l’islamismo è prima di tutto la superinfezione di ferite etnorazziali millenarie che nessun intervento militare straniero è stato per definizione in grado di chiudere.

Inoltre, in un momento in cui sempre più africani rifiutano la democrazia in stile occidentale, la Francia si sta, al contrario, rafforzando questa ideologia vista in Africa come una forma di neocolonialismo. Più che mai, i vertici francesi sarebbero stati quindi ispirati a meditare su questa profonda riflessione che il Governatore Generale dell’AOF fece nel 1953: “Meno elezioni e più etnografia, e tutti ne troveranno qualcosa per trarne vantaggio”… uno parola, il ritorno al vero africano e non l’incantesimo a ideologie appiattite.

Questa è la grande spiegazione di questo nuovo fallimento francese in Africa. Per non parlare del concreto rifiuto di mettere in discussione semplicemente le argomentazioni della giunta maliana. Immediatamente messa alla berlina da Parigi, che non le ha lasciato alcun margine di manovra, quest’ultima è stata automaticamente costretta a una corsa massimalista a capofitto per non perdere la faccia. I piccoli marchesi che plasmano la politica africana della Francia dovrebbero però sapere che in Africa la priorità assoluta quando si entra in contenzioso è non far perdere la faccia al proprio interlocutore. Ma questo non si può imparare a Science-Po…

Infatti, dopo il colpo di stato del colonnello Assimi Goïta in Mali, Emmanuel Macron ha letteralmente strangolato il Mali economicamente imponendo sanzioni del tutto inopportune e improduttive a questo Paese, che hanno finito per opporre l’opinione pubblica maliana alla Francia.

Accecato dal suo presupposto democratico, Emmanuel Macron non vedeva che il colpo di stato del colonnello Goïta era un’occasione di pace. Poiché questo Minianka, ramo minoritario del grande gruppo Senufo, non ha contese storiche con i Tuareg e i Fulani, i due popoli all’origine del conflitto, potrebbe quindi aprire un discorso di pace attorno a una nuova organizzazione costituzionale e territoriale, così che Tuareg e Fulani non sono più automaticamente esclusi dal gioco politico dalla democrazia, che è diventata una semplice etnomatematica elettorale.

Al contrario, accecati dal loro imperativo democratico, dall’ideologia dei “diritti umani”, del “buon governo” e dello “stato di diritto”, tutte nozioni almeno localmente surreali, i leader francesi hanno considerato l’apertura di negoziati tra Bamako e alcuni gruppi armati del nord come provocazione. Mentre l’operazione sarebbe stata del tutto proficua perché avrebbe consentito di chiudere il fronte settentrionale per concentrare le risorse di Barkhane nella cosiddetta regione dei “Tre Confini”.

Frutto della reazione francese, presa per la gola, la giunta si lanciò in una corsa a capofitto consistente nell’adulare la propria opinione pubblica designando la Francia come capro espiatorio. Questo spreco ha anche permesso alle élite locali che hanno sistematicamente saccheggiato il Mali di nascondere sei decenni di corruzione, appropriazione indebita, incapacità politica, in una parola, incompetenza. Risultato, dopo la Repubblica Centrafricana, la Francia si vede “espulsa” dal Mali mentre i suoi soldati vi sono caduti per garantire l’incolumità delle popolazioni abbandonate dal proprio esercito…

L’altro grande errore francese è non aver fatto la differenza tra i vari gruppi armati. Dal 2018 al 2019, l’intrusione del DAECH attraverso l’EIGS (Stato Islamico nel Grande Sahara) ha cambiato profondamente i fatti del problema. E’ scoppiato un conflitto aperto tra l’EIGS ei gruppi etno-islamisti che affermano di appartenere al movimento di Al-Qaeda, accusandoli di favorire l’etnia a spese del califfato. Parigi poi non ha visto, mentre io non ho smesso di inviare note ai funzionari interessati, che i due principali leader etnoregionali della nebulosa di Al-Qaeda, ovvero il tuareg ifora Iyad Ag Ghali e il Fulani Ahmadou Koufa, leader del Katiba Macina, più etno-islamista che islamista, aveva deciso di negoziare una via d’uscita dalla crisi.

Non volendo una tale politica, Abdelmalek Droukdal, leader di Al-Qaeda per tutto il Nord Africa e per la striscia del Sahel, ha poi deciso di prendere il controllo e imporre la sua autorità, sia su Ahmadou Koufa che su Iyad ag Ghali. Fu poi “neutralizzato” dalle forze francesi informate dai servizi di Algeri preoccupati di vedere che lo Stato Islamico si avvicinava al confine algerino. L’Algeria, che considera il nord-ovest della BSS come il suo cortile di casa, ha infatti sempre “sponsorizzato” gli accordi di pace lì. Il suo uomo del posto è Iyad ag Ghali la cui famiglia vive nella regione di Ouargla. Questa ifora touareg è contraria allo smembramento del Mali, una priorità per l’Algeria che non vuole un Azawad indipendente che sia un faro per i propri Touareg.

Parigi non lo capiva. E non più il fatto che il ritorno al gioco politico dei Tuareg radunati alla guida di Iyad ag Ghali, e di quelli dei Fulani al seguito di Ahmadou Koufa, avrebbe consentito di concentrare tutti i mezzi sull’EIGS, e quindi pianificare a termine un soccorso di Barkhane, quindi il suo spostamento verso la regione peri-ciadica dove gli elementi della futura destabilizzazione in atto eserciteranno nel prossimo futuro pesanti minacce su Ciad e Camerun, il tutto alimentato dall’intrusione turca in Libia.

Fin dall’inizio, e come ho sempre suggerito, abbiamo dovuto andare d’accordo con questo capo Ifora con cui avevamo contatti, interessi comuni e la cui lotta è l’identità prima di essere islamista. Per ideologia, rifiutando di tener conto delle costanti etniche secolari, coloro che fanno la politica africana francese hanno ritenuto al contrario che fosse l’uomo da uccidere… Proprio di recente, il presidente Macron ha persino ordinato ancora una volta alle forze Barkhane di eliminarlo. E questo proprio nel momento in cui, sotto il patrocinio algerino, le autorità di Bamako stavano negoziando con lui una pace regionale… E siamo sorpresi dalla reazione della giunta maliana…

In un modo che definirei insolito come “carità”, l’Eliseo ha persistito nell’accumularsi di false analisi. Emmanuel Macron, quindi, non ha voluto vedere – torno a un episodio essenziale di cui ho parlato sopra – che, il 3 giugno 2020, è scomparsa l’algerino Abdelmalek Droukdal, leader di Al-Qaeda per tutto il Nord Africa e per la regione del Sahel, uccisa dalle forze francesi, ha cambiato radicalmente le definizioni del problema. La sua eliminazione diede autonomia ai Tuareg Iyad ag Ghali e al Peul Ahmadou Koufa. Dopo quelli degli “emiri algerini” che avevano guidato a lungo Al-Qaeda nella regione, quello di Abdelmalek Droukdal appunto e che ha segnato molto chiaramente la fine di un periodo, Al-Qaeda non è più guidata lì dagli stranieri, dagli “arabi”, ma da “regionali”. Questi capi regionali, però, hanno obiettivi etnoregionali radicati in un problema millenario nel caso dei Tuareg, laico in quello dei Fulani. La mancanza di cultura e i presupposti ideologici dei leader francesi impedivano loro di vederla

In questo nuovo contesto, nell’agosto 2020 è avvenuto in Mali un primo colpo di stato militare che ha permesso di avviare negoziati tra Bamako e Iyad Ag Ghali, che hanno amareggiato Parigi. Il 24 ottobre 2020 ho pubblicato un comunicato stampa sull’argomento dal titolo “Mali: serve il cambio di paradigma”. Ma, ancora una volta, Parigi non ha preso la misura di questo cambio di contesto, continuando a parlare indiscriminatamente di una lotta globale al terrorismo. Inoltre, contro quanto sostenuto dai vertici militari di Barkhane, Parigi ha quindi persistito in una strategia “all’americana”, “toccando” indiscriminatamente i GAT (Gruppi terroristici armati), e rifiutando qualsiasi approccio “buono”… “alla francese”. ..

In conclusione, da questo nuovo e amaro fallimento della politica francese in Africa si dovrebbero trarre quattro grandi insegnamenti:

– La priorità urgente è sapere cosa stiamo facendo nel BSS, dobbiamo quindi definire finalmente, e molto rapidamente, i nostri interessi strategici attuali e a lungo termine per sapere se dobbiamo disimpegnarci o meno, e se sì, a cosa livello e senza perdere la faccia.

– In futuro non dovremo più intervenire sistematicamente e direttamente a beneficio degli eserciti locali che abbiamo addestrato instancabilmente e invano dagli anni ’60 e che, ad eccezione di quello del Senegal e della guardia presidenziale ciadiana, sono incompetente.

– Sarà necessario favorire interventi indiretti o azioni rapide e specifiche realizzate dalle navi, che eliminerebbero il disagio dei diritti territoriali percepiti localmente come una insopportabile presenza neocoloniale. Sarà quindi necessaria una ridefinizione e un aumento di potenza dei nostri mezzi marittimi dispiegabili.

– Infine e in primo luogo, dovremo lasciare che l’ordine naturale africano si dispieghi. Ciò implica che i nostri intellettuali capiscano finalmente che gli ex governanti non accetteranno mai che, attraverso il gioco dell’etnomatematica elettorale, e solo perché sono più numerosi di loro, i loro ex sudditi o affluenti ora sono i loro padroni. . Ciò sconvolge le concezioni eteree della filosofia politica occidentale, ma tale è nondimeno la realtà africana.

C’è stato un “contratto” messo dalla NATO sulla testa del colonnello Gheddafi?

La Francia, allora guidata da Nicolas Sarkozy, ha una pesantissima responsabilità nella disintegrazione della Libia con tutte le conseguenze locali e regionali che sono seguite e che ancora seguono. Ma perché è entrata così direttamente in una guerra civile in cui non erano in gioco i suoi interessi? Perché anche la NATO ha interferito così profondamente in questa guerra? L’alibi umanitario citato da BHL non fornendo una risposta soddisfacente, restano ancora due domande senza risposta:

– La Francia è all’origine della guerra contro il colonnello Gheddafi?

– L’obiettivo di questa guerra era la morte di quest’ultimo?

Esistono elementi di risposta che sottolineo in occasione della ristampa aggiornata da parte di Éditions du Rocher del mio libro ” Storia della Libia dalle origini ai giorni nostri ” e che sono riportati nel seguente comunicato:

Domanda 1: La Francia è all’origine della guerra contro il colonnello Gheddafi?

Durante i lavori della Commissione Speciale del Congresso degli Stati Uniti d’indagine sull’attacco alla missione americana a Bengasi nel settembre 2012, attacco costato la vita all’ambasciatore americano Christopher Stevens, sono state prodotte e-mail riservate di Sidney Blumenthal, consigliere di allora- Il segretario di Stato Hillary Clinton.

Secondo questi documenti, la DGSE (Direzione generale per la sicurezza esterna) francese avrebbe organizzato, su ordine di Nicolas Sarkozy, incontri segreti con gli oppositori libici a partire dal febbraio 2011, quindi proprio all’inizio dei fatti.

In una di queste note intitolata ” Come i francesi hanno creato il Consiglio nazionale libico ” si legge che gli agenti francesi avrebbero ” dato denaro e consigli ” e che questi agenti parlando a nome di Nicolas Sarkozy ” hanno promesso che non appena il (Consiglio ) è stato progettato, la Francia lo riconoscerà come il nuovo governo libico” .

In un’altra nota datata 20 marzo questa, si legge che Nicolas Sarkozy “si aspetta che la Francia guiderà gli attacchi contro (Gheddafi) per un lungo periodo di tempo” .

Se fosse autentico, e allo stato attuale del fascicolo, non vi è motivo di dubitarne, tale documento stabilirebbe quindi che, appena tre giorni dopo il voto sulla risoluzione 1973 risoluzione 1973 del 17 marzo 2011 del Consiglio di Sicurezza del le Nazioni Unite che prevedevano solo l’istituzione di una no-fly zone intorno alla sola città di Bengasi, il presidente Sarkozy avrebbe pianificato una guerra totale contro la Libia, cosa non prevista dalla suddetta risoluzione.

Domanda 2: Lo scopo della guerra era la morte del colonnello Gheddafi?

Martedì 16 dicembre 2014, a Dakar, in occasione della chiusura del Forum sulla pace e la sicurezza in Africa , acclamato dai partecipanti, il presidente ciadiano Idriss Déby ha sganciato una vera bomba quando, alla presenza del ministro della Difesa francese, ha ha dichiarato che andando in guerra in Libia: “(…) l’obiettivo della Nato era quello di assassinare Gheddafi. Questo obiettivo è stato raggiunto “.

Se è vero quanto affermato da questo intimo conoscitore del caso libico, tutta la storia di una guerra dalle conseguenze devastanti va dunque riscritta. Tanto più che questo conflitto razionalmente inspiegabile si è innescato quando, paradossalmente, il regime libico era diventato l’alleato degli europei, sia contro il jihadismo che contro le reti di immigrazione.

Torniamo indietro. :

 Il 13 gennaio 2011, dopo 42 anni al potere, il colonnello Gheddafi ha dovuto affrontare manifestazioni che si sono trasformate in un’insurrezione.

 Il 23 febbraio, per sostenere gli insorti, la Francia ha chiesto all’Unione Europea “la rapida adozione di sanzioni concrete” contro il regime libico. In Francia è stata poi orchestrata una grande mobilitazione dal “filosofo” Bernard-Henri Lévy per per “salvare” la popolazione di Bengasi.

– Il 17 marzo Alain Juppé, ministro degli Affari esteri francese, ha strappato al Consiglio di sicurezza dell’ONU la risoluzione 1973[1] , che ha consentito l’apertura delle ostilità[2]. Questa risoluzione autorizzava semplicemente e solo la creazione di una no-fly zone sulla Libia , non l’intervento nel conflitto.

Tuttavia, di fronte all’incapacità dei ribelli di minare le difese del regime, Parigi intervenne gradualmente nella guerra civile, impegnandosi anche sul campo, in particolare a Misurata dove ebbe luogo un’operazione dei Navy Commandos, e a Jebel Nefusa. Una cosa tira l’altra, violando la risoluzione 1973 del 17 marzo 2011 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la Francia e la NATO hanno condotto una vera guerra, prendendo di mira direttamente e ripetutamente lo stesso colonnello Gheddafi.

L’attacco più sanguinoso è avvenuto il 1 maggio 2011 quando gli aerei della Nato hanno bombardato la villa di suo figlio Saif al-Arab mentre lì si teneva una riunione di famiglia, alla presenza del colonnello e di sua moglie. Dalle macerie della casa sono stati rimossi i cadaveri di Saif al-Arab e tre dei suoi figli piccoli. Reagendo a quello che ha definito un omicidio, Mons. Martinelli, Vescovo di Tripoli, ha detto: “Chiedo, per favore, un gesto di umanità verso il colonnello Gheddafi che ha protetto i cristiani di Libia. È un grande amico”. Tale non era evidentemente l’opinione di coloro che avevano ordinato questo bombardamento chiaramente inteso a porre fine al capo di stato libico.

I capi di stato africani che si erano opposti quasi all’unanimità a questa guerra e che avevano tentato senza successo di dissuadere il presidente Sarkozy dall’intraprenderla, pensavano di aver trovato un risultato accettabile: il colonnello Gheddafi si sarebbe dimesso, il potere provvisorio era assicurato dal figlio Saif al -Islam Gheddafi e questo, per evitare un posto vacante favorevole al caos. Questa opzione è stata rifiutata dalla CNT portata a condizioni di mercato dalla Francia. Di conseguenza, il colonnello Gheddafi si è trovato assediato nella città di Sirte, che è stata oggetto di intensi bombardamenti NATO.

È stata quindi preparata un’operazione di esfiltrazione verso il Niger. Tuttavia, ben informati (da chi?), i miliziani di Misurata si tesero in agguato sull’asse che da Sirte portava al Fezzan e da lì al Niger. Il 20 ottobre 2011, il convoglio di diversi veicoli civili del colonnello Gheddafi è riuscito a lasciare la città. Sebbene non costituisse un obiettivo militare, fu subito preso di mira dagli aerei della NATO e in parte distrutto. Catturato, il colonnello Gheddafi è stato brutalmente messo a morte dopo essere stato sodomizzato con una baionetta: in rete è visibile il video della sua cattura e del linciaggio. Suo figlio Moatassem Gheddafi è stato evirato, poi gli sono stati cavati gli occhi, le mani e i piedi tagliati. I loro resti sanguinanti furono poi esposti nell’obitorio di Misurata. La NATO non aveva quindi lasciato alcuna possibilità al colonnello Gheddafi e a suo figlio.

Fatte queste premesse, le accuse del presidente Deby assumono quindi tutto il loro valore. In retrospettiva, lo svolgersi degli eventi potrebbe infatti essere paragonato a un “contratto” posto sulla testa del colonnello perché non gli fu offerto alcun onorevole risultato diplomatico e tutte le sue proposte di pace furono rifiutate…

[1] Su questo argomento si veda il testo della conferenza stampa di Alain Juppé a New York ( www.ambafrance-at.org ).

[2] Su richiesta di Francia, Regno Unito e Libano, la risoluzione 1973 è stata adottata, ai sensi del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, dal Consiglio di Sicurezza con 10 voti (10 favorevoli, 0 contrari, 5 astenuti tra cui Russia, Cina e Germania). La Russia si è astenuta dal voto all’ONU, poi Mosca ha denunciato gravi violazioni della risoluzione 1973.

Trattativa difficile e pericolosa_di Roberto Buffagni

Perché la trattativa in corso tra USA e Russia sull’Ucraina è così difficile e pericolosa?
Se gli USA accettano la richiesta russa di un impegno formale a non far entrare nella NATO l’Ucraina, le riconoscono implicitamente il ruolo di interlocutore alla pari, e contraddicono il presupposto dell’ordine mondiale unipolare liberal che hanno costruito dopo il crollo dell’URSS.
In questo ordine mondiale unipolare a guida USA, non esistono interlocutori alla pari, e non esistono modelli sociopolitici alternativi alla democrazia liberal-progressista (di qui l’esportazione della democrazia, con le armi o con le destabilizzazioni tipo “rivoluzioni colorate”)
Il punto più delicato, dunque, non è l’effettivo ingresso dell’Ucraina nella NATO. Gli USA hanno già chiarito che non sono disposti a difendere l’Ucraina con le armi, e che l’ingresso dell’Ucraina nella NATO non è all’ordine del giorno o dell’anno.
Il punto veramente delicato è il diritto esclusivo degli USA di stabilire l’ordine mondiale unipolare.
Per di più, questo ordine mondiale unipolare non è “agnostico”, ossia non è privo di contenuto ideologico obbligatorio. Esso invece è sia unipolare ( = nel mondo, non esiste interlocutore alla pari degli Stati Uniti) sia universalista ( = non esiste alcuna forma di regime sociopolitico accettabile per il leader mondiale, al di fuori della democrazia liberal-progressista di tipo americano).
I problemi che si presentano agli USA sono due: a) negli ultimi decenni, sono sorte due grandi potenze, la Russia e la Cina, che esigono di essere interlocutori alla pari degli USA b) la democrazia liberal-progressista congiunta all’ordine mondiale unipolare provoca dissenso endemico, non solo all’estero ma anche negli Stati Uniti (perdita posti di lavoro, tenore di vita in calo, perdita di identità, immigrazioni di massa con relativi conflitti).
Il terzo problema, ovviamente, è la necessità di dividere Russia e Cina, che insieme pongono loro un problema e una sfida serissima.
Ecco perché questa trattativa USA_-Russia sull’Ucraina è della massima importanza, ed ecco perché è tanto delicata e pericolosa.

Lorenzo Castellani, Sotto scacco_recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Lorenzo Castellani, Sotto scacco, Liberilibri, Macerata 2022, pp. 115, € 14,00.

Il profilo più interessante di tale saggio, è che, contrariamente a quanto di solito generalmente praticato (anche da studiosi), riconduce a concetti, categorie, intuizioni che sono patrimonio da secoli del pensiero politico, le vicende d’attualità.

Così è per la pandemia. Il libro esordisce “Il potere politico si fonda sulla paura. E il caso della pandemia non costituisce eccezione… La paura, scaturita dal rischio posto dalla pandemia, è stato il carburante di legittimità politica per far accettare scelte di governo, restrizioni e norme che altrimenti mai sarebbero state considerate ricevibili dalle popolazioni delle democrazie occidentali” (e naturalmente il riferimento è, in primis, a Hobbes) “per paura si deve intendere anzitutto l’insicurezza collettiva e per politica il controllo autoritario e assolutista di tale insicurezza”. Dato che “secondo Luhmann, il sistema politico-giuridico opera come una struttura normativa di selezione delle alternative. Diritto e potere politico tracciano dei confini per i comportamenti individuali e sociali costringendo le possibilità di scelta tra innumerevoli alternative”, onde “Il sistema di potere, in definitiva, definisce quali rischi coprire e quali lasciar correre, quali paure sopire e quali far circolare”.

L’inconveniente, noto, è che per farlo, necessita di potere/i enormemente superiore, nello Stato moderno, a quello necessario a forme politiche meno impegnative.

Anche se esercitato attraverso un ordinamento amministrativo costituito da burocrazie professionali specializzate, il potere politico non rinuncia alla dinamica antichissima “dell’insondabilità e dell’inconoscibilità dei segreti su cui si fonda la decisione: “A certe istituzioni si obbedisce proprio perché non si possono comprendere le basi sulle quali poggiano le loro scelte”, comunque rimesse all’autorità di esperti, illuminati dal sapere. Anche in ciò nulla di nuovo: l’incremento del potere attraverso il mistero e l’inconoscibilità (ai più) è una costante da millenni. Kojéve la fa risalire alla teoria dell’autorità di Aristotele fondata sulla superiorità e sulla capacità di prevedere del superiore, e così (anche) dei dotti sugli inesperti (e ignoranti).

Ciò sarebbe anche conforme al pensiero istituzionale moderno, uno dei connotati del quale è la razionalizzazione, anche e soprattutto del potere politico (e lo Stato ne è il risultato). Solo che data la complessità dell’essere umano e delle società “c’è sempre un’incrinatura” che si frappone nella saldatura tra tecnica e potere, perché “Non c’è razionalismo capace di trasformare una società umana in una macchina e la politica in ingegneria”.

Da questa e da altre affermazioni del saggio deriva che, cambiando situazione e giustificazioni, la sostanza rimane – in larga parte – la stessa: a seguire Hauriou, le fond è il medesimo. Con la conseguenza che, dato il carattere prevalente e decisivo in politica della competizione e conservazione del potere, la pandemia è (e può esserlo ancora di più) la giustificazione dell’incremento dei poteri pubblici. I quali, nell’attualità possono avere due versioni; da una parte “c’è il tecno-autoritatismo cinese, nel quale le stesse tecnologie sono messe al servizio di un sistema esplicitamente totalitario, il cui aspetto più inquietante risiede nel fatto che differisce dal nostro soltanto per la sua intensità: una questione di misura più che di sostanza”. Mentre in occidente è il verde, le politiche green: “proposte dalla classe politica occidentale per gestire un altro stato di emergenza che subentrerà, o meglio appare già in compresenza a quello pandemico”.

Con la prospettiva di arrivare al Leviatano climatico: “lo stratagemma usato dall’alleanza tra capitalismo clientelare, finanza e politica per rilanciare lo sviluppo globale senza rinunciare a forme di centralismo economico, di moralismo pedagogico e di azioni disciplinanti sui singoli individui”.

Castellani ne individua i connotati già nella nota profezia di Tocqueville sul dispotismo mite: un potere fondato su un controllo generalizzato, un potere assoluto, pervasivo, previdente e dolce, che fiacca la volontà e riduce la comunità a un gregge “di cui il governo è il pastore”. È il dispotismo mite quello peculiare alla decadenza occidentale “securitario e centralista, in cui lo spirito d’iniziativa individuale e collettivo, la società civile, i beni comuni, le libertà negative e positive vengano mortificati e sacrificati sull’altare di un nuovo dirigismo e della sua pianificazione”. A questo l’autore contrappone il recupero di “forme di azione riflessiva, decentrata e consensuale … ancora possibili invece di pensare a forme di delegittimazione ed esclusione dell’avversario. L’auctoritas prevarrebbe sull’imperium, l’amicizia sull’inimicizia, la rule of law sul potere di polizia… ci sarebbe invece un rifiuto della sorveglianza come idea-guida dell’organizzazione sociale”; perché “la politica sapiente è l’arte di rinvigorire la società, e non di alimentare burocrazie, e la libertà di tutti è un privilegio la cui difesa compete alla classe dirigente”. Ciò sarebbe sicuramente aspirazione largamente maggioritaria. Speriamo che sia pure largamente percepita; perché lo diventi, si consiglia la lettura di questo saggio.

Teodoro Klitsche de la Grange

Stati Uniti! Piromani in azione_con Gianfranco Campa

L’epilogo del contenzioso, qualunque esso sia, sancirà formalmente l’ingresso nella fase multipolare. Putin ha posto agli Stati Uniti due questioni in una: il limite di avvicinamento del dispositivo militare offensivo della NATO al confine russo; il riconoscimento, per meglio dire, la presa d’atto della Russia come stato sovrano indipendente con cui trattare con pari dignità. Ha posto esplicitamente i termini di un accordo al leader degli Stati Uniti, non a quello ucraino e nemmeno ai governanti europei, suoi vicini di casa. Non ha nemmeno risposto alle profferte ucraine. Sardonicamente ha offerto asilo all’ex presidente ucraino Poroshenko, evidentemente in disgrazia e a rischio della vita nella democratica Ucraina, perdonandolo dei suoi “errori”. E’ probabile che la sua magnanimità si estenda ad Artem Sytnyk, direttore dell’Ufficio Nazionale Ucraino dell’Anticorruzione, complice del tentativo di coinvolgimento di Trump in un gioco di finanziamenti ed affari americani in Ucraina e insabbiatore del ruolo di Hunter, rampollo di Biden, e di alcuni diplomatici statunitensi tornati in auge con l’insediamento della nuova amministrazione alla Casa Bianca, in corposi traffici similari; prossimo evidentemente a cadere in disgrazia con tutte le implicazioni possibili in quel paese. https://twitter.com/realsaavedra/stat… . La conversazione continua ad offrire analisi ed informazioni partendo da un punto di vista negletto da quasi tutto il sistema di informazione europeo e italiano in particolare: quello dello scontro di potere interno ai centri decisori e politici americani all’interno del quale sono sussunte e spesso forzate le scelte di politica estera. La geopolitica definisce il sistema di relazione tra i paesi; la cultura, la storia dei popoli e delle loro élites tracciano le onde lunghe e la ricorrenza della storia. Sono però i conflitti, le rivalità contingenti e quotidiane, i “capricci” e i colpi bassi dei soggetti politici e dei centri decisori a determinare la variabilità e la rottura più o meno temporanea di questi perimetri. La classe dirigente statunitense è aggrappata ad ambizioni di egemonia globale; i suoi passi sembrano il viatico migliore, per quanto involontario, al multipolarismo nella sua forma più conflittuale ed imprevedibile. Lo scontro politico in corso da anni negli Stati Uniti, ivi comprese le carte bollate  

https://www.justice.gov/sco/press-release/file/1433511/download sarà un interessante caso di studio affidato ai posteri. Sempre che ci sia un futuro.  Per concludere, una chiosa ai tanti sostenitori acritici della indipendenza dell’Ucraina. Un paese ha certamente tutto il diritto di scegliere la propria strada. Se decide però di affidarsi ad una classe dirigente, in gran parte aliena, piombata all’occasione nel proprio paese; se fonda la propria ragione di esistere sulla ostilità aperta e dichiarata verso la Russia e sorda verso i momentanei alleati, vicini di casa; se costruisce la propria identità sull’ostilità nei confronti di una buona metà della propria popolazione non può pretendere la benevolenza del vicinato. Rischia di essere lo strumento e la vittima stupida di scelte estranee. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

 

https://rumble.com/vuxqio-piromani-in-azione-negli-usa-con-g-campa.html

 

 

I nodi al pettine, di Roberto Buffagni

Crisi ucraina. È arrivato al pettine il nodo dell’espansione NATO verso Est.
È stato un errore strategico di prima grandezza che George Kennan, l’architetto della politica di contenimento dell’URSS nel secondo dopoguerra, definì “the most fateful error of American policy in the entire post-Cold War era.” La Russia potrebbe accettare la presenza di un’alleanza militare a guida USA ai propri confini solo se fosse una colonia americana, guidata da un governo fantoccio, e/o si disgregasse in entità politiche troppo deboli per opporsi alla volontà degli USA (è il caso dell’Europa dopo la IIGM). Ve ne fu la possibilità nel 1991, con l’implosione dell’URSS; ma dopo un periodo di terribile sfacelo, la Russia ha ritrovato una direzione politica capace di difendere la sovranità nazionale.
La situazione è molto semplice. Nel 1832, gli Stati Uniti pubblicano la Dottrina Monroe: il Nord e il Sud del continente americano non sono più aperti alla colonizzazione. Nessun paese del continente americano può stringere alleanze militari con potenze straniere. La dottrina Monroe formalizza una regolarità strategica. Ogni potenza deve, per sopravvivere e conservare la propria autonomia, avere una zona d’influenza che la protegga. Chi non ha una propria zona d’influenza fa parte di una zona d’influenza altrui, e gli è subalterno (in forme diverse, dalla colonia all’alleanza).
La Russia, che è una grande potenza, per restarlo ha bisogno di una zona d’influenza, e dunque non può accettare la presenza di un’alleanza militare straniera ai propri confini. Probabilmente ha scelto questo momento per iniziare il rollback della NATO perché ritiene che a) la riforma delle sue FFAA e l’adozione di sistemi d’arma innovativi le aprano una finestra di opportunità in caso di guerra b) gli Stati Uniti siano in difficoltà (conflitti interni endemici, ripetute sconfitte militari) c) in caso di scontro diretto, gli Stati Uniti rischierebbero una guerra su due fronti, se la Cina decidesse di cogliere l’occasione per occupare Taiwan; o addirittura su tre fronti, se anche l’Iran ne approfittasse.
L’errore strategico dell’espansione a Est della NATO forma una coppia infernale con l’altro errore strategico di prima grandezza commesso dagli USA, stavolta rispetto alla Cina.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti non avevano più alcun interesse a conservare l’alleanza con la Cina, che il presidente Nixon aveva opportunamente costruito in funzione antisovietica. Gli USA, invece, hanno infittito i rapporti economici e politici con la Cina, e addirittura hanno delocalizzato colà importanti settori della loro manifattura, alcuni dei quali direttamente collegati alla sicurezza nazionale; così aiutando fattivamente la Cina a sviluppare potenza economica, scientifico-tecnologica, militare, e a divenire insomma una grande potenza capace di minacciare la loro egemonia nel continente asiatico. Secondo logica capitalistica questa è stata una mossa razionale (teoria dei costi comparati di Ricardo). Secondo logica geopolitica è stata una follia suicida.
La ratio della politica americana verso la Cina nei decenni seguenti l’implosione dell’URSS è conforme all’ideologia liberal-progressista. I dirigenti americani si sono raccontati che se la Cina fosse divenuta un paese ricco, si sarebbe trasformata in una democrazia liberal-capitalistica; e siccome le democrazie liberal-capitalistiche non fanno la guerra ma il pacifico commercio, la Cina sarebbe divenuta un utile e simpatico partner nel mondo a guida americana.
In questa favola che i dirigenti americani si sono raccontati per addormentarsi meglio, e per incassare, da svegli, montagne di dollari, ci sono due elementi tolti di peso dal genere fantasy: 1) che quando un paese diventa ricco si trasforma automaticamente in una democrazia liberal-capitalistica, come se la tradizione culturale dei popoli contasse zero 2) che le democrazie liberal-capitalistiche non facciano la guerra ma il pacifico commercio (basta leggere un manuale di storia degli Stati Uniti per capire che non è vero).
Oggi, gli Stati Uniti si sono resi conto che la Cina è il loro principale avversario. La mossa obbligata sarebbe dunque dividere Russia e Cina, stabilendo buoni rapporti con la Russia: il che implicherebbe anzitutto il rollback della NATO. Però, da un canto gli USA temono di perdere, così, l’egemonia sull’Europa, e che si realizzi l’incubo di Mackinder (coesione tra Germania e Russia, dominio sull’Heartland). Dall’altro, temono che un avvicinamento alla Russia sia inteso dai cinesi come un segno di debolezza, e li spinga a occupare Taiwan. Per di più, gli Stati Uniti dovrebbero smentire tutta l’ideologia liberal-capitalistica che da trent’anni è la base della loro propaganda: e a quanto pare, a questa ideologia liberal-capitalistica credono sul serio anche i dirigenti americani.
Non è la prima volta che una persuasione ideologica in diretta contraddizione con le realtà geopolitiche provoca una sconfitta strategica. Ad esempio, la sincera fede cattolica di Filippo II gli impedì di accettare ogni proposta di un minimo di tolleranza religiosa nelle Fiandre, così alimentando una guerra infinita che impaludò gli eserciti e prosciugò le risorse imperiali, provocò indirettamente la sconfitta spagnola nel conflitto con l’Inghilterra, inaugurò la fine dell’egemonia spagnola in Europa (vittoria francese a Rocroi) e nel mondo (Inghilterra e Paesi Bassi iniziano a dominare gli oceani).
In teoria, l’Europa avrebbe tutto l’interesse a stare alla finestra, profittando dei conflitti in corso e della crisi dell’egemonia americana. Ma l’Europa fa parte della zona d’influenza americana, e non ha alcuna autonomia strategica. Quindi, i vari Stati europei chiacchierano a vanvera, e vengono ascoltati dalle potenze in conflitto per pura cortesia diplomatica. Gli europei poi, e in particolare gli italiani, commentando questa crisi ucraina danno prova di una tragicomica confusione mentale. Probabilmente, gli sviluppi di questa crisi, con la possibile, anzi probabile catena di reazioni e controreazioni tra USA e Russia che provocherà, faranno gradualmente chiarezza. La lezione ci costerà molto cara.

Leggi tutto! No. Evacuazione militare statunitense degli americani dall’Ucraina in caso di guerra!_di gilbert doctotow

Leggi tutto! No. Evacuazione militare statunitense degli americani dall’Ucraina in caso di guerra!

di gilbert doctorow

Nella sua prima intervista televisiva del 2022 rilasciata a NBC News il 10 febbraio, Joe Biden ha esortato tutti gli americani a lasciare l’Ucraina ora tramite voli commerciali perché le forze armate statunitensi non entreranno per evacuarli. Perchè no? Per evitare qualsiasi possibile impegno militare diretto con le previste forze di invasione russe:

“È una guerra mondiale quando gli americani e la Russia iniziano a spararsi l’un l’altro. Non è che abbiamo a che fare con un’organizzazione terroristica. Abbiamo a che fare con uno dei più grandi eserciti del mondo. È una situazione molto diversa e le cose potrebbero impazzire rapidamente”.

Questa dichiarazione apparentemente non eccezionale è sicuramente la dichiarazione più importante di Biden relativa alla crisi al confine tra Ucraina e Russia da quando ha affermato all’inizio di dicembre 2021 che gli Stati Uniti non invieranno un solo soldato ad assistere l’Ucraina nel caso in cui si trovassero in combattimento militare con la Russia.

In un mondo politico statunitense che molto tempo fa è andato oltre i fatti per crogiolarsi in qualche fantasia interiore, quello che abbiamo qui nell’ultima dichiarazione di Biden è l’inizio di una presa di coscienza dei fatti sul campo, vale a dire che la Russia non è “una stazione di servizio mascherata da un paese”, come ha detto il famoso senatore John McCain, visceralmente anti-russo, né è un paese con solo armi nucleari scadute nel suo arsenale, armi che per loro natura non possono essere usate senza portare il Giorno del Giudizio per tutti noi.

A questo proposito, sembra che la guerra psicologica condotta da Vladimir Putin contro gli Stati Uniti e la NATO stia cominciando a dare i suoi frutti. Ora c’è una consapevolezza del pericolo rappresentato dalle forze militari convenzionali russe, un pericolo abbastanza grande da giustificare la misura in più di cautela che vediamo nelle osservazioni di ieri del presidente Biden.

Naturalmente, l’analisi della crisi da parte dell’amministrazione americana rimane semplicistica, con i binari della diplomazia o della guerra, dell’invasione o della non invasione. Ora è più che probabile che il Cremlino non organizzerà un’invasione su vasta scala. In effetti, potrebbe non dover sparare un colpo. Il signor Putin è impegnato in una guerra psicologica e sta facendo progressi lenti ma costanti nell’applicare pressioni sempre maggiori sull’Ucraina e, attraverso l’Ucraina, sugli Stati Uniti e sui suoi alleati della NATO.

Abbiamo sentito parlare molto dei 100.000 soldati russi al confine russo con l’Ucraina, a nord-est di Kharkiv. Impariamo ogni giorno su unità specializzate per il trasporto di carburante, banche del sangue e altri distaccamenti che arrivano in questo territorio e consentono un’invasione nel caso si verificasse. Ora sentiamo anche parlare delle esercitazioni militari congiunte bielorusso-russe iniziate ieri appena a nord del confine bielorusso con l’Ucraina ea meno di 100 km dalla capitale ucraina, Kiev. Ciò include più di 30.000 soldati russi e una grande quantità di nuovo equipaggiamento militare che probabilmente rimarrà indietro dopo che le esercitazioni termineranno il 20 e le truppe russe torneranno alle loro posizioni di origine.

La novità di oggi è un resoconto dettagliato sui crescenti distaccamenti navali russi che arrivano per le proprie esercitazioni militari in mare appena al largo della costa ucraina. Sì, potrebbero facilitare lo sbarco di truppe e carri armati se la Russia desidera impadronirsi di Odessa o di altre città sulla costa con una grande popolazione etnica russa. Tuttavia, come spiega un articolo di Amy Mackinnon sulla rivista Foreign Policy datato 10 febbraio, le forze russe hanno ora proibito la navigazione, sia commerciale che militare, durante le proprie esercitazioni, stabilendo di fatto un blocco navale sull’Ucraina. Se tale blocco dovesse essere mantenuto dopo la data di chiusura delle esercitazioni, potrebbe effettivamente strangolare il commercio estero ucraino.

Nessuno sa se questa sia semplicemente una dimostrazione di forza ai fini di una discussione rafforzata in qualsiasi negoziato con Kiev sull’attuazione degli accordi di Minsk o se verrà utilizzata per danneggiare sufficientemente l’economia ucraina per portare a un cambio di regime a Kiev. In entrambi i casi, la Russia non infliggerebbe una sola vittima al suo avversario con tali PsyOps.

Fin qui tutto bene. Con un po’ di fortuna, sia gli americani che i russi continueranno a mostrare moderazione nell’uso della forza e ci risparmieranno una guerra cinetica che potrebbe sfuggire al controllo nel senso inteso ieri da Joe Biden.

©Gilbert Doctorow, 2022

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