Fratelli d’Italia: eredità neofascista, populismo e conservatorismo, di Marco Tarchi

Fratelli d’Italia: eredità neofascista, populismo e conservatorismo

Un nuovo partito o l’ultimo capitolo di una lunga storia?

Il 25 settembre 2022 Fratelli d’Italia ha vinto le elezioni politiche italiane all’interno di una coalizione di destra (nota in Italia come coalizione di centro-destra) composta da Forza Italia di Silvio Berlusconi e dalla Lega di Matteo Salvini. Questa vittoria ha portato all’investitura del governo guidato da Giorgia Meloni.

Il successo elettorale di Fratelli d’Italia, che era stato anticipato, ha suscitato nel mondo accademico un rinnovato interesse per il partito, in particolare per l’identità di questa forza politica. Si tratta dell’ultima manifestazione di una famiglia politica che affonda le sue radici nell’esperimento fascista iniziato un secolo fa, oppure di una destra radicale populista in ascesa in Europa dagli anni Novanta, o ancora di un nuovo partito ibrido che combina elementi della vecchia estrema destra neofascista, del populismo di destra e del conservatorismo contemporaneo?

Marco Tarchi fa il punto sul dibattito in corso, analizzando le origini e la storia di questa forza, nonché gli elementi di continuità e di rottura con i partiti che l’hanno preceduta e che provengono dallo stesso filone politico, ovvero il Movimento Sociale Italiano (MSI) e Alleanza Nazionale (AN). Il politologo fa luce anche sui fattori che hanno determinato l’ascesa al potere di Fratelli d’Italia e sulle sfide ideologiche, organizzative ed europee che il partito si trova ora ad affrontare.
ora affrontate.

Marco Tarchi,

Professore di Teoria politica e Comunicazione politica presso la Scuola di Scienze Politiche Cesare Alfieri dell’Università di Firenze.

Introduzione

Come prevedibile, il successo delle elezioni politiche italiane del 25 settembre 2022 (26% dei voti, 118 deputati e 66 senatori eletti) e la nomina del suo leader Giorgia Meloni a primo ministro hanno scatenato l’interesse accademico per lo studio del partito Fratelli d’Italia (FdI), ben oltre l’attenzione dei media. Fino a un anno prima di questo evento elettorale, la produzione di libri e articoli sul tema si era limitata a lavori giornalistici, non esenti in alcuni casi da intenti apologetici o propagandistici1 , e all’autobiografia della principale protagonista2 dell’ascesa di un partito che, almeno fino al 2019, era stato considerato dagli osservatori come marginale e destinato a svolgere un ruolo secondario non solo all’interno del sistema politico italiano, ma anche all’interno della coalizione di centrodestra, allora guidata dalla Lega di Matteo Salvini.

In ambito accademico, le citazioni erano state poche e limitate a brevi cenni in articoli di carattere più generale3. La formazione del governo guidato da Giorgia Meloni ha invece dato il via a un’importante fioritura di contributi – libri e articoli pubblicati su riviste internazionali4 – che ha aperto una prima serie di dibattiti sulla storia ancora breve del partito, sulle ragioni della sua nascita e sui fattori che gli hanno permesso di diventare, in meno di dieci anni, il partito preferito dagli italiani.

Parte
Il dibattito sull’identità politica di Fratelli d’Italia

Il dibattito si è concentrato sull’identità di FdI, sui fondamenti ideologici del suo discorso politico e sui contenuti dei suoi programmi. Con una domanda di fondo: siamo di fronte a un partito almeno in parte nuovo, o semplicemente al rappresentante più recente e moderno di una tradizione che affonda le sue radici in un capitolo della storia italiana iniziato un secolo fa con l’avvento del fascismo? O, per dirla in altro modo, Fratelli d’Italia appartiene ancora all’ambito del neofascismo o va visto come un rappresentante della destra radicale populista? Oppure deve essere visto come l’espressione di un genere nuovo, ibrido, che combina alcuni aspetti della vecchia estrema destra, altri del nazional-populismo fiorito in quasi tutti i Paesi europei a partire dagli anni Novanta5 e altri ancora del conservatorismo?

I sostenitori della prima ipotesi fanno notare che molti dei dirigenti del partito – il suo presidente, più di tre quarti dei membri degli organi direttivi, numerosi rappresentanti in parlamento e nei consigli regionali e comunali – provengono dal Movimento sociale italiano (MSI) o da Alleanza nazionale (AN), che gli è succeduto nel 1995, e che nei discorsi ufficiali della sua presidente, anche da quando è capo del governo, sono frequenti i riferimenti alla “lunga storia” di cui FdI è erede. Inoltre, l’attuale sede del partito ha lo stesso indirizzo dei suoi predecessori, in via della Scrofa 39 a Roma, e anche nel resto d’Italia, in molti casi, le sue federazioni e sezioni sono rimaste o sono tornate nei locali dove si trovava Alleanza Nazionale. Per alcuni osservatori, questi elementi sono sufficienti a stabilire un rapporto di sostanziale continuità tra il presente e il passato. E anche il primo accademico ad affrontare in modo scientifico lo studio del Msi, nel 1989, il politologo dell’Università di Bologna Piero Ignazi, esaminando i documenti e i programmi di Fratelli d’Italia, sostiene questa interpretazione.

Nella postfazione alla recente nuova edizione del suo libro più noto, Il polo escluso, in cui cerca di riassumere gli sviluppi della “destra nazionale” italiana negli ultimi trentatré anni (dal 1990 al 2022), Ignazi afferma che il partito di Giorgia Meloni non è altro che il prodotto di nostalgici del MSI6 che, senza dichiararlo apertamente, mirano semplicemente a far risorgere Alleanza nazionale (AN). Le tappe del suo percorso dal dicembre 2012 a oggi sono viste come tanti passi sulla “strada di un nostalgismo più o meno velato, cosparso di abbondanti dosi di sovranismo euroscettico e di pulsioni xenofobe e securitarie”. Secondo Ignazi, le tesi espresse nella mozione del secondo congresso del partito nel 2017 (su cui torneremo più avanti) “denotano un’intima sintonia sentimentale e ideologica con il neofascismo, di cui rivendicano una continuità ideale”. E di questo “rapporto irresoluto con il passato” il partito non si libererà nemmeno nel decennio successivo, continuando a manifestare una “visione populista e cospirativa” e un “substrato illiberale”, che il “seducente utilizzo della figura di Giorgia Meloni, rappresentante politica devota, convinta e appassionata, ma traboccante di sentimenti materni e amicali” serviva solo a nascondere.

Piero Ignazi riconosce che FdI ha subito un cambiamento nel passaggio da un ruolo di opposizione a quello di responsabilità di governo, ma ritiene che questo cambiamento possa essere “strumentale e congiunturale”. E così, nella sua interpretazione, evidenzia quello che considera il “tono revanscista, addirittura nostalgico, tipico di una comunità che si sente ancora fedele all'”Idea”, cioè all’ideologia fascista, più o meno ricalibrata nel dopoguerra”, discorsi che avrebbero caratterizzato la convention con cui Fratelli d’Italia, il 14 dicembre 2022, ha celebrato i suoi primi dieci anni di vita e la “continuità politico-ideale con il Msi, idealizzato come partito democratico” quando, scrive l’accademico, esso “era stato giustamente definito dal maestro di scienza politica Giovanni Sartori un partito ‘antisistema’”7 .

Un altro argomento spesso citato nel dibattito sulle connotazioni ideologiche di Fratelli d’Italia è la presenza nel suo simbolo della fiamma tricolore, che il Msi adottò fin dall’inizio e che, nonostante il forte dibattito interno e le pressioni esterne, Alleanza Nazionale mantenne fino a quando il suo leader Gianfranco Fini decise di scioglierlo e di fondersi con il Popolo della Libertà, l’effimero partito unico di centro-destra voluto e guidato da Silvio Berlusconi. Anche chi riconosce l’evoluzione del partito nei dieci anni della sua esistenza non può fare a meno di notare che, sempre per questa caratteristica, FdI non manca di essere descritto come “il terzo partito della fiamma “8 e quindi legato, in qualche misura, alle vicende del neofascismo italiano. Questa affermazione è senza dubbio condivisibile, ma per capire se Fratelli d’Italia sia riuscita a emanciparsi dalla storia a cui appartiene, e se sì, come e perché, è necessario esaminare la complessità della traiettoria dei suoi “antenati” nell’Italia del dopoguerra.

IIParte
La lunga marcia della “destra” italiana dal 1945 a oggi

Per oltre cinquant’anni, il termine “neofascismo” è stato utilizzato quasi esclusivamente in Italia per caratterizzare quella corrente politica che, in altri Paesi, veniva chiamata “estrema destra”. Con questa denominazione si intendeva circoscrivere il fenomeno a un desiderio di rivalsa, o almeno di vendetta, da parte di coloro che erano stati sconfitti nella guerra civile che aveva insanguinato il Paese dal settembre 1943 all’aprile 1945 e che si sentivano, nel nuovo Stato repubblicano, nella condizione psicologica di “esuli in patria “9 .

1
La strategia di integrazione nella destra: il Movimento sociale italiano (MSI)

Con la caduta definitiva del fascismo e la morte di Mussolini, non restava che coltivare la nostalgia per un’epoca passata o isolarsi nel risentimento e nel vano desiderio di vendetta. Il 26 dicembre 1946, la nascita del Movimento sociale italiano offrì una casa a quelle decine di migliaia di ex militari che erano stati dalla “parte sbagliata”, quella perdente, durante la guerra civile, pur non riuscendo, fin dalle prime elezioni politiche del 18 aprile 1948, a conquistare i voti della maggior parte dei tanti italiani che avevano manifestato il loro sostegno a Mussolini fino alla caduta del regime – e che, alle prime avvisaglie della guerra fredda, avevano deciso di appoggiare la Democrazia Cristiana (CD) per creare una “diga” contro il comunismo. La CD riuscì a dare a questa nicchia di irriducibili seguaci postumi del Duce una rappresentanza istituzionale, portando in Parlamento un manipolo di deputati e senatori.

Il crollo del fascismo, tuttavia, ebbe un altro effetto politico cruciale: spazzò via la destra “costituzionale”, erede di una delle tante tradizioni politiche che avevano animato il Risorgimento, i cui rappresentanti, di fronte all’impetuosa avanzata dei fascisti e all’instaurazione dello Stato autoritario, si erano ritirati dalla vita pubblica o avevano accettato un ruolo di sostenitori del regime. Accusati di essersi compromessi con la dittatura o di averne favorito l’avvento, i liberali e i conservatori moderati erano quasi scomparsi dalla scena. Il sistema politico repubblicano fu quindi impostato su nuove basi, basate principalmente su un partito centrista di maggioranza relativa, la Democrazia Cristiana (DC), un partito di opposizione chiaramente di sinistra, il Partito Comunista Italiano (PCI), il Partito Socialista Italiano (PSI), meno radicale e meno forte, e un piccolo numero di partiti minori, tra cui i repubblicani e i socialdemocratici, destinati a svolgere il ruolo di alleati o rivali della Democrazia Cristiana a seconda delle circostanze e delle convenienze del partito di maggioranza. Formazioni più o meno effimere – dal Fronte dell’Uomo Qualunque, primo rappresentante della ricca progenie del populismo italiano10, ai vari partiti monarchici11 – si inserirono progressivamente nel ristretto spazio della destra, senza mai riuscire a esercitare una reale influenza sulla dinamica governativa. Solo a costo di numerose discussioni interne, spaccature e scissioni, provocate dal rifiuto di molti suoi esponenti di concludere accordi con i “traditori” che, nel 1943, avevano preferito il Re a Mussolini, o di ammorbidire l’ostilità verso gli ex nemici d’oltremare in nome della “difesa dell’Occidente” e di accettare l’adesione dell’Italia alla NATO, il MSI riuscì a integrarsi in questo spazio all’inizio degli anni Cinquanta.

Per mezzo secolo, il MSI ha così esercitato un sostanziale monopolio sullo spazio politico ed elettorale della destra, senza tuttavia riuscire a liberarsi dell’etichetta di estremismo che i suoi avversari gli avevano affibbiato. Gli sforzi del suo leader moderato Arturo Michelini (che rimase alla guida del partito dal 1954 al 1969) per stringere un’alleanza con i liberali e i monarchici e dare vita alla cosiddetta “Grande Destra” fallirono, così come i tentativi di inserirla, in funzione anticomunista, nelle coalizioni di governo dominate dalla DC. In alcune occasioni, la Democrazia Cristiana accettò i voti del MSI in Parlamento per controbilanciare la temporanea defezione di alcuni alleati di governo e riuscire ad approvare leggi controverse, ma quando l’appoggio di deputati e senatori del MSI si rivelò indispensabile per il varo del monocolore guidato da Fernando Tambroni nella primavera del 1960, la Democrazia Cristiana preferì costringere il capo del governo alle dimissioni e spianare la strada alla prima coalizione di centro-sinistra con i socialisti. Il timore di essere accusati di collusione con i fascisti era troppo grande.

Questi fallimenti diedero origine a forti polemiche all’interno del MSI, portando talvolta a spaccature tra le componenti più radicali. Tuttavia, nessuno dei gruppi che nel corso dei decenni tentarono di sfidare il dominio del MSI sul suo abituale “terreno di caccia” riuscì mai a conquistare una solida base sul territorio o un numero significativo di elettori (e pochi di essi tentarono di superare la prova delle urne), il che portò la maggior parte di essi a ricorrere a forme di azione violenta o a coltivare piani per un colpo di Stato. Gli anni Settanta, noti come “anni di piombo”, videro alcuni di questi piccoli movimenti coinvolti nella cosiddetta “strategia della tensione”, tra episodi terroristici e collusioni con settori “deviati” dell’apparato di sicurezza dello Stato.

A partire dagli anni Sessanta, il MSI cercò di accentuare i suoi riferimenti alla destra, al punto da cambiare nome e simbolo nel 1971 per diventare Movimento Sociale Italiano Destra nazionale (MSI-DN), al fine di assorbire ciò che rimaneva dell’ultimo partito monarchico. Pur continuando a conquistare rappresentanti in parlamento e nei consigli comunali a ogni elezione e attenuando sempre più i riferimenti palesi al fascismo, ormai limitati alla retorica usata negli incontri con la base militante e nei congressi, non riuscì a uscire dalla sua marginalità nello scenario politico italiano. Anche il rinnovamento militante introdotto dalla segreteria di Giorgio Almirante (che durò dal 1969 al 1987) non riuscì a rompere il suo isolamento, che lo confinò a un sostegno elettorale di circa il 5-6% – con la sola eccezione dell’8,7% del 197212 – in un momento in cui il partito si trovava in una situazione di crisi, 7% nel 197212 – in un momento in cui altri Paesi europei cominciavano a rinnovare i loro programmi e ad allargare la loro base elettorale, con partiti politici che avevano origine nell’estrema destra, come il Front National di Jean-Marie Le Pen in Francia e il Freiheitliche Partei Österreichs di Jörg Haider in Austria. Questo lungo periodo di stallo diede vita a nuovi scontri interni, questa volta con la corrente più moderata che voleva trasformare il partito in una “normale” formazione liberal-conservatrice di destra, sfociando nella scissione, alla fine del 1976, di metà dei membri dei gruppi parlamentari di Camera e Senato e nella nascita di Democrazia Nazionale, destinata a scomparire dopo soli tre anni, a causa dell’irrisorio 0,6% ottenuto nelle elezioni del 197913. Da allora fino ai primi anni Novanta, il Msi attraversò una lunga fase di stagnazione politica ed elettorale, pur subendo due cambi di segretario nazionale (Gianfranco Fini dal 1987 al 1990, Pino Rauti nel 1990-1991, poi di nuovo Fini)14 .

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La strategia di rifocalizzazione. Gianfranco Fini e Alleanza Nazionale

C’è voluta la crisi dei partiti tradizionali seguita allo scandalo di Tangentopoli (la scoperta da parte della magistratura milanese di una vasta rete di corruzione amministrativa e di un sistema di finanziamento illecito dei partiti) per cambiare questo stato di cose e inaugurare un nuovo capitolo della storia della destra in Italia. Il discredito dei partiti che avevano governato il Paese per quasi cinquant’anni ha trasformato quella che era stata la debolezza del Msi, la sua lunga distanza dai luoghi del potere, in un punto di forza, consentendogli di rivendicare le sue “mani pulite” di fronte alla disonestà del resto della classe politica. Grazie ai primi notevoli successi elettorali in una serie di elezioni comunali nel 1993, il partito, che aveva sempre sofferto del peso della sua “identità illegittima “15 , riuscì finalmente, un anno dopo, dopo l’entrata in scena di Berlusconi come federatore di un ampio fronte di forze ostili alla sinistra e l’adozione di una nuova legge elettorale, a ottenere un ruolo all’interno del governo, cambiando poi nome in Alleanza nazionale e accentuando ulteriormente la sua distanza dal fascismo16.

Mentre questo accadeva in Italia, in altri Paesi europei prendeva forma quella che Ignazi proponeva di chiamare “estrema destra post-industriale”, in contrasto con l’estrema destra “tradizionale” ancora legata alla memoria e al culto del fascismo. Pur continuando a ritenere che alcuni tratti antisistema e un’ideologia delegittimante la democrazia liberale siano presenti nei partiti appartenenti a questa famiglia, Ignazi ritiene che essi non possano essere visti come “una rivitalizzazione del ‘mito della palingenesi’ del fascismo [perché] offrono una risposta ai conflitti della società contemporanea (è questa la chiave del loro successo)”. Per questi gruppi, “la difesa della comunità naturale contro la presenza degli stranieri (da cui razzismo e xenofobia) è soprattutto una risposta identitaria all’atomizzazione e alla spersonalizzazione; l’invocazione della legge e dell’ordine, l’appello diretto al popolo e l’irritazione per i meccanismi rappresentativi rispondono al bisogno di autorità e di guida in una società in cui l’autorealizzazione e l’individualismo hanno lacerato le maglie protettive dei legami sociali tradizionali; il recupero dei valori morali tradizionali è la risposta al libertarismo post-materialista17 “.

Secondo Ignazi, Alleanza Nazionale, diretta discendente del MSI, non aveva adottato questa forma innovativa, rimanendo nel limbo di un “post-fascismo” dai contorni ancora incerti18 e che solo in seguito avrebbe portato a una vera e propria evoluzione rispetto alle posizioni originarie. La sua comparsa, tuttavia, ha posto fine al lungo periodo di monopolio del neofascismo sull’estrema destra e ha rivelato uno scenario caratterizzato da tre distinti e concorrenti percorsi di sviluppo di quello che la letteratura accademica ha definito radicalismo di destra19 : fondamentalismo ideologico combinato con populismo e conservatorismo nazionale.

Dal Congresso di Fiuggi del gennaio 1995, quando si decise lo scioglimento del MSI, la prima di queste strade è stata seguita da tutti i gruppi che hanno rifiutato di abbandonare l’identificazione con l’esperienza fascista e che, nonostante la continua e intensa mobilitazione della loro base militante, non sono riusciti a rompere il cordone sanitario eretto dalle altre forze politiche, né a emergere dai margini. La palese inconsistenza della loro base elettorale (le liste collegate a questo campo politico, nel complesso, non hanno superato l’1,3% nelle elezioni legislative del 2018) ha segnato la definitiva sconfitta di questa opzione. Le altre due hanno dovuto attendere l’affievolirsi dell’ondata iniziale di Alleanza Nazionale per potersi delineare più chiaramente.

Tra il 1995 e il 2009, lo spazio elettorale della destra nel sistema italiano si è ampliato fino a superare la soglia del 15% (15,7% nel 1996, più lo 0,9% dei concorrenti del Movimento Sociale-Fiamma Tricolore, un piccolo partito nostalgico guidato dall’ex segretario del MSI Pino Rauti), ma allo stesso tempo la sua influenza politica, che all’inizio di Tangentopoli era sembrata in forte crescita (l’Msi era riuscito a superare il 30% alle elezioni comunali di Roma e Napoli e a conquistare trentatré amministrazioni comunali in città con più di 15.000 abitanti tra la primavera e l’autunno del 1993). 000 abitanti tra la primavera e l’autunno del 1993) si è ridotta. Pur essendo stata ammessa nella coalizione che Berlusconi aveva creato nel 1994 per sconfiggere l’unione delle forze di sinistra, Alleanza Nazionale ha sofferto fin dall’inizio di essere un “junior partner” in questa alleanza, a causa della maggiore forza elettorale di Forza Italia e soprattutto della preponderanza del personaggio mediatico del premier. Se l’ingresso nel governo con cinque ministri e dodici sottosegretari di Stato è stato un successo importante, che ha segnato la fine dell’esclusione dei neofascisti dai giochi di potere, la gestione dei rapporti con gli alleati non si è rivelata facile. Le maggiori frizioni si ebbero con la Lega Nord, il cui programma federalista – espressione di un’ideologia secessionista – contrastava nettamente con il nazionalismo e il centralismo di Alleanza Nazionale, ma anche con la componente ex democristiana e con Forza Italia, dove di tanto in tanto sorgevano dei contrasti.

Già nel 1996 si manifestarono alcune differenze strategiche tra i membri della coalizione. Fini, che tendeva sempre più a personalizzare la sua leadership e a governare da solo il partito, avvalendosi degli amplissimi poteri conferitigli dallo statuto, senza tenere conto delle istanze – spesso divergenti – delle correnti interne, si oppose alla scelta di Berlusconi di consentire la nascita di un governo tecnico sostenuto da quasi tutti i gruppi presenti in Parlamento e preferì indire elezioni politiche anticipate, nella speranza di ottenere un risultato che mettesse in discussione la posizione del fondatore di Forza Italia come leader assoluto della coalizione. La manovra è fallita, ma AN ha ottenuto un risultato storico, con il 15,7% dei voti espressi, e il suo presidente ha poi deciso di rendere ancora più evidente la competizione diretta con Forza Italia. Per farlo, scrive Ignazi, “ha enfatizzato una certa distanza e separazione dal proprio partito per massimizzare politicamente il successo della propria immagine20 ” e ha moltiplicato le occasioni di contestazione. In altre parole, per evitare di subire le conseguenze della sua immagine di membro estremo dell’alleanza, ha deciso di avvicinare il suo partito al centro. La risposta di Berlusconi fu quella di radicalizzare la critica alla sinistra, con cui Fini cercava di dialogare per arrivare a una riforma condivisa delle istituzioni in senso presidenziale, presentandosi come il vero baluardo contro la conquista del potere da parte degli ex comunisti21.

Da quel momento in poi, anche i rapporti personali tra i due uomini cominciarono a inasprirsi, mentre all’interno del partito si accentuò il divario tra un’ispirazione liberale, favorevole alle privatizzazioni e alle leggi del mercato, e un’ispirazione “sociale”, in cui persisteva la diffidenza verso il capitalismo. La strategia di Fini subì due sconfitte nel 1999; in primo luogo nel referendum sulla legge elettorale che, eliminando definitivamente l’assegnazione proporzionale di una parte dei seggi parlamentari, avrebbe reso Alleanza Nazionale indispensabile – e quindi influente – in qualsiasi futura coalizione di centrodestra; in secondo luogo nelle elezioni europee, dove Alleanza Nazionale rinunciò al proprio simbolo per presentare una lista comprendente esponenti del Partito Popolare, erede della DC, e del Partito Radicale, noto per le sue posizioni progressiste, perdendo così un terzo degli elettori conquistati cinque anni prima.

Nonostante il successo del centrodestra alle elezioni legislative del 2001 (49,6% dei voti espressi) e il ritorno al governo, in cui a Fini è stata affidata la vicepresidenza, il progetto coltivato dal presidente di Alleanza Nazionale non ha fatto passi avanti. Il suo partito è sceso al 12%, mentre il reintegro della Lega Nord nella coalizione, dopo il duro confronto degli anni precedenti, complica ulteriormente gli accordi sulla linea politica ed economico-sociale da seguire. Gli scontri tra i due partiti diventano frequenti, costringendo Berlusconi a cambiare la composizione dell’esecutivo nel luglio 2004 e a chiedere nuovamente al Parlamento il voto di fiducia. Nel frattempo, il leader di Alleanza Nazionale trovò nuovi modi per sottolineare la sua distanza dalle idee a cui la maggioranza del suo partito era rimasta legata: Gianfranco Fini propose di concedere agli immigrati il diritto di voto alle elezioni amministrative, poi, durante un viaggio in Israele, di descrivere il periodo successivo al 1938 del regime fascista, in particolare le sue leggi razziali, come “male assoluto”, e di difendere la procreazione medicalmente assistita contro il parere del Vaticano. Queste proposte suonavano come una rottura con la tradizione ideologica e culturale da cui AN era emersa, e così furono viste da molti membri della direzione del partito, accentuando la spaccatura interna. Senza cedere agli appelli dei dissidenti, Fini proseguì sulla strada dell’avvicinamento agli ambienti liberal-conservatori europei, citando José María Aznar, Nicolas Sarkozy e David Cameron come modelli di una destra moderna, anche se questo significava provocare una scissione più significativa delle precedenti, quella de La Destra, che alle elezioni politiche del 2008 ottenne il 2,8%.

Il ritorno al governo dopo il successo della coalizione di centro-destra alle elezioni del 2008 non ha favorito la situazione. Nel novembre 2007, Fini ha minacciato pubblicamente di abbandonare l’alleanza, denunciandone l’incapacità di affrontare le questioni più urgenti del momento. Lo stesso giorno, Berlusconi ha risposto annunciando, senza alcuna consultazione preliminare, la creazione di un nuovo partito, il Popolo della libertà (PdL). Inizialmente la reazione di Fini è stata dura e ha incluso il tentativo di creare un partito alternativo, l’Alleanza per l’Italia, ma la caduta del governo Prodi ha impedito che l’operazione andasse a buon fine e, visti i tempi stretti dell’imminente campagna elettorale, lo ha costretto ad aderire al cartello voluto dal Cavaliere. Nel frattempo, la fondazione Fare Futuro, creata dall’ala liberale del partito, continuava a stabilire contatti con esponenti di spicco del centro e della sinistra moderata, con l’obiettivo di trovare interlocutori disposti a legittimare Fini come successore di Berlusconi alla guida del campo moderato. Scegliendo di farsi eleggere Presidente della Camera dei Deputati, l’ex Presidente di Alleanza Nazionale ha voluto assumere un profilo super partes, contrapponendosi in modo sempre più evidente alla controversa figura dell’alleato-avversario lontano dal “bon ton” istituzionale. Gli scontri divennero così frequenti che i rapporti tra i due uomini si incrinarono definitivamente: dopo un’accesa lite, Fini fu espulso dal PdL e costituì prima un proprio gruppo parlamentare e poi un partito, Futuro e Libertà per l’Italia (FLI), nel tentativo, non riuscito, di sfidare il governo a cui aveva partecipato. Molti deputati e senatori di Alleanza Nazionale, però, non lo hanno seguito e FLI è sopravvissuto ai margini del sistema fino alle elezioni del 2013, quando ha subito una clamorosa sconfitta, ottenendo solo lo 0,47%, pur facendo parte della coalizione centrista guidata dal premier uscente Mario Monti.

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La strategia populista: la Lega di Matteo Salvini

Proprio l’infelice conclusione dell’esperimento di governo tecnico di Monti, sostenuto dal centrodestra e dal centrosinistra ma fortemente impopolare a causa delle misure di austerità economica attuate, ha inaugurato una nuova fase del percorso della destra italiana, quella populista, incarnata principalmente dalla Lega tra il 2013 e il 2018.

Già considerata un partito della destra radicale populista da Hans-Georg Betz nel suo studio del 1994 e inclusa nella stessa categoria da Cas Mudde tredici anni dopo22 , la Lega ha subito una lunga serie di riadattamenti ideologici, tattici e strategici nel corso della sua storia. Fondata con il nome di Lega Nord nel 1989 per riunire in un’unica organizzazione diversi movimenti autonomisti che si erano sviluppati nelle regioni settentrionali del Paese in polemica contro l’eccessiva centralizzazione dell’amministrazione statale, le procedure burocratiche farraginose, il peso della tassazione, la corruzione dei partiti e l’inefficienza del Parlamento23 , inizialmente rivendicava un’identità liberale, soprattutto in ambito economico. Il crollo della Prima Repubblica, tuttavia, ha costretto la Lega ad abbandonare il ruolo di mero portavoce della “voce del Nord” e ad accettare la logica delle alleanze, pur considerandole sempre precarie e provvisorie. La breve esperienza di governo del 1994-1995, tuttavia, dimostrò la sua incapacità di abbandonare gli attacchi all’establishment, e la fase pro-indipendenza che seguì mostrò ancora più chiaramente la sua mentalità populista.

Oltre alle campagne contro l’immigrazione e la partitocrazia, temi sempre presenti nei suoi programmi, da quel momento in poi attaccò anche l’Unione Europea e i “poteri forti”, l’alta finanza e la grande industria, ricorrendo talvolta ad argomentazioni complottiste, oltre a difendere la famiglia e le tradizioni dalle istanze progressiste, a rifiutare l’omosessualità, a chiedere misure protezionistiche in economia, a opporsi alla delocalizzazione dei processi produttivi e a denunciare le conseguenze negative della globalizzazione. Queste posizioni gli hanno permesso di diventare il partito più amato dagli elettori della classe operaia nel 1996. Dopo l’11 settembre 2001, la denuncia della minaccia islamica in Europa e gli appelli alla costruzione di un fronte comune euro-americano per difendere la civiltà occidentale dalle insidie del terrorismo islamico si sono inseriti in questo quadro. Tutte caratteristiche che hanno permesso alla Lega di entrare nella famiglia dei partiti populisti della destra radicale.

Tuttavia, nel 2012, dopo un periodo di crisi interna innescato dallo scandalo della cattiva gestione dei fondi pubblici, che ha portato all’allontanamento del leader storico del partito Umberto Bossi – già menomato da un ictus nel 2004 – l’ex ministro dell’Interno, divenuto presidente del partito, è stato costretto a dimettersi, Dopo aver ottenuto il peggior risultato elettorale della storia del partito (4,1% dei voti espressi), la Lega è riuscita a risollevarsi, eleggendo Matteo Salvini come segretario e adottando pienamente l’agenda nazional-populista.

Sfruttando appieno le possibilità offerte dai social network24 e sfoggiando il linguaggio aggressivo e talvolta volgare di un “uomo del popolo”, Salvini ha scelto come bersagli polemici la classe politica e l’Unione Europea, accusate di non aver risposto efficacemente alla crisi economica del 2008-2011, gli intellettuali, accusati di appoggiare tutte le proposte progressiste in materia di diritti civili (matrimonio e adozione per gli omosessuali, maternità surrogata, ecc. ) e soprattutto l’immigrazione, considerata una fonte di concorrenza sleale per i lavoratori autoctoni e una minaccia per la coesione culturale del Paese e per lo stile di vita della popolazione. Insistendo su questo pericolo e facendone il fulcro delle campagne elettorali, Salvini ha portato la Lega da una dimensione regionale a una nazionale, sostenendo un credo nazionalista, ultraconservatore e xenofobo. La sua ammirazione per la Russia di Putin e per le idee di Trump lo ha portato a stringere legami con altri partiti della destra radicale europea e ad aderire al gruppo Europa delle Nazioni e delle Libertà di Marine Le Pen al Parlamento di Bruxelles, poi diventato Identità e Democrazia. Nonostante questa caratterizzazione ideologica radicale, la nuova Lega, grazie ai suoi successi elettorali (17,4% alle elezioni politiche del 2018 e 34,3% alle elezioni europee del 2019), è riuscita a conquistare il primato all’interno della coalizione di centrodestra, a scapito di Forza Italia, e ha potuto così rendersi autonoma, formando un governo con l’altra formazione populista di protesta, il Movimento 5 stelle (M5S).

Per poco più di un anno, dal giugno 2018 all’agosto 2019, questa coalizione di forze anti-establishment è stata indicata come il caso di maggior successo della strategia messa in atto dai partiti populisti di destra radicale sul palcoscenico europeo e ha suscitato grande preoccupazione nella Commissione europea e in molti governi stranieri. Tuttavia, nell’agosto 2019, Salvini ha commesso il grave errore di voler porre fine all’accordo con il M5S, nella speranza di poter ripetere o estendere il successo registrato alle elezioni europee in elezioni politiche anticipate, che il Presidente della Repubblica non avrebbe concesso. È così che Salvini ha rapidamente trasformato un trionfo in un disastro. Non appena ha lasciato il governo, la Lega ha iniziato a vedere calare le intenzioni di voto a suo favore nei sondaggi e da allora non è più riuscita a invertire questa tendenza. Allo stesso tempo, gli elettori che avevano abbandonato la Lega, ritenendo Salvini inaffidabile, hanno spostato le loro simpatie su Fratelli d’Italia. La pandemia Covid-19, che ha visto Salvini a lungo incerto sulla posizione da assumere su contenimento e vaccini, poi desideroso di entrare nel governo guidato da Mario Draghi – un banchiere, e quindi una delle figure storicamente più odiate dalla Lega e in generale da tutti i populisti – ha accentuato questo processo di rapida dissoluzione del capitale elettorale della Lega, che in poco più di tre anni è sceso dal 34,3% delle elezioni europee del 2019 all’8,9% delle elezioni politiche del 2022.

Questo risultato ha segnato la sconfitta (almeno temporanea) di un nazional-populismo che sembrava destinato a inaugurare un ciclo di egemonia nello spazio della destra e ha rilanciato, con molta più forza e su nuove basi, il progetto nazional-conservatore che si era incarnato tra il 1995 e il 2009 in Alleanza nazionale.

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Dalla scissione del Popolo della Libertà al potere: la fulminea ascesa di Giorgia Meloni

Il protagonista di questa nuova fase della storia della destra italiana è senza dubbio Fratelli d’Italia (FdI). Nel giro di quattro anni, Fratelli d’Italia è passata dal 4,4% al 26% dei voti alle elezioni politiche. Dopo un anno di governo guidato dal suo leader, Fratelli d’Italia ha ora il 30% dei voti, secondo i sondaggi, e rappresenta il punto di arrivo provvisorio della metamorfosi della destra. Sebbene più volte definito dagli osservatori come estremo, radicale o neofascista, per superare il deficit di legittimazione che lo aveva sempre penalizzato e conquistare le simpatie dei segmenti moderati dell’opinione pubblica italiana, Fratelli d’Italia è stato portato a moderare sempre più le sue idee, i suoi comportamenti e i toni della sua espressione, accettando di socializzarsi alla democrazia compiendo quello che Ignazi ha definito “il lungo viaggio nelle istituzioni”.

La sincerità di questa presa di distanza di FdI, dei suoi dirigenti e dei suoi militanti dalle simpatie e dalle nostalgie fasciste coltivate da molti di coloro che avevano militato nei due precedenti “partiti-fiamma” è stata oggetto di un ampio dibattito fin dalla comparsa della nuova sigla sulla scena politica italiana. Consapevole dei dubbi esistenti al riguardo, Giorgia Meloni ha deciso di pubblicare il suo libro autobiografico per chiarire la sua visione del mondo e i suoi obiettivi. Come già accennato, le dichiarazioni dei rappresentanti del partito e i suoi documenti ufficiali sono stati oggetto di numerose analisi. Gli autori sono giunti a diverse interpretazioni: c’è chi ha osservato un’evoluzione rispetto al suo passato neofascista, chi lo ha collocato – insieme alla Lega – nella famiglia della destra radicale populista e chi continua a considerarlo di estrema destra. Ognuna di queste interpretazioni contiene elementi e considerazioni interessanti che meritano un attento esame. Tuttavia, per verificare la solidità dell’insieme, è necessario ricostruire, in modo sintetico, il percorso compiuto da questo raggruppamento politico fino ai giorni nostri: un percorso che è stato meno lineare di quanto sostengono i suoi sostenitori e che ha attraversato diverse tappe, segnate da posizioni piuttosto diversificate.

Quasi tutte le analisi convergono su un punto: quando il partito è stato creato il 16 dicembre 2012, l’intenzione dei suoi fondatori non era semplicemente quella di riunire i reduci di Alleanza nazionale delusi dal progressivo logoramento del Popolo della Libertà. I tre principali promotori – Giorgia Meloni, ex presidente di Azione giovani, l’organizzazione giovanile di Alleanza nazionale, già vicepresidente della Camera dei deputati e poi ministro della Gioventù; Ignazio La Russa, attivista fin dagli anni Sessanta all’interno del Msi e a lungo dirigente di quel partito e di Alleanza nazionale; Guido Crosetto, proveniente da Forza Italia ed ex sottosegretario al Ministero della Difesa – avevano in mente un progetto più ambizioso: ricostruire l’intero centrodestra su nuove basi. Centrodestra Nazionale era il nome scelto da La Russa per il partito che intendeva fondare quando decise di separarsi dal Popolo della Libertà in reazione alla decisione di Berlusconi di far risorgere Forza Italia. A unirli è stata la comune avversione per la decisione del leader del PdL di sostenere il governo Monti e di revocare le elezioni primarie organizzate per determinare il suo successore alla guida del “partito unico”. Per ribadire le intenzioni iniziali dei fondatori, a quasi un anno dalla nascita di Fratelli d’Italia, Crosetto formulò una chiara domanda retorica in occasione della festa di Atreju, una sorta di fiera del partito: “Chi può rappresentare il centrodestra, se non noi?25”.

Il programma elaborato in fretta e furia per le elezioni del febbraio 2013 usa toni sommessi e si limita a proporre un pacchetto di riforme in linea con quanto sostenuto in più occasioni dagli ex esponenti di Alleanza Nazionale confluiti nel Popolo della Libertà: elezione diretta del Presidente della Repubblica, abolizione del bicameralismo perfetto, riduzione del numero dei parlamentari; riduzione del debito e della spesa pubblica; lotta agli sprechi e promozione di una nuova etica pubblica; riduzione della pressione fiscale; separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri; sostegno alla natalità per combattere il declino demografico. Solo alcune proposte riecheggiano le tesi nazional-populiste: una critica qualificata all’euro, che “funge da amplificatore delle disfunzioni degli Stati nazionali”, e l’affermazione “crediamo nell’Europa dei popoli, ma non nell’Europa della finanza e delle oligarchie”. Anche sull’immigrazione le formule scelte sono caute: “Governare i flussi, controllare le frontiere, far rispettare lo Stato di diritto significa garantire l’accoglienza, l’integrazione e la solidarietà”, pur precisando che “parallelamente alla lotta intransigente all’immigrazione clandestina, deve essere perseguito con lo stesso ritmo il percorso di piena integrazione dei nuovi cittadini” e che “devono essere considerati aventi diritto coloro che completano il ciclo completo della scuola dell’obbligo e dimostrano piena integrazione e volontà di ottenere la cittadinanza “26.

La risposta alle urne è stata un modesto 1,96%. Questo risultato, inferiore alle aspettative, permise comunque al partito, in quanto “miglior perdente” della coalizione di centro-destra, di eleggere nove deputati, che portarono ad alcuni cambiamenti. Crosetto, che era stato nominato presidente del partito al momento della sua fondazione, passò il testimone a La Russa e, soprattutto, si cercò di ottenere il simbolo della fiamma tricolore dalla Fondazione Alleanza Nazionale, che ne deteneva i diritti di utilizzo. Una volta riuscita l’operazione, la scritta “Centrodestra Nazionale” fu rimossa dal simbolo a favore della fiamma e del nome della Meloni. Un altro gesto che indica chiaramente il reinserimento nella storia del MSI è stata la decisione di tenere il secondo congresso nazionale (dal 7 al 9 marzo 2014) a Fiuggi, luogo in cui più di diciannove anni prima si era svolta la cerimonia di fondazione di Alleanza Nazionale, e di fare della vedova di Giorgio Almirante l’ospite d’onore. Tuttavia, il programma elaborato per le successive elezioni europee, lungi dal collocarsi nella tradizione post-fascista, era decisamente orientato verso i temi cari alle formazioni nazional-populiste, che si stavano affermando in molti Paesi: uscita dall’euro e dai trattati fiscali e di bilancio dell’UE, riduzione dell’ingerenza delle istituzioni di Bruxelles nelle politiche nazionali, “protezionismo intelligente”, cooperazione europea contro l'”immigrazione incontrollata”, difesa delle radici cristiane del continente e della sacralità della famiglia, regole europee contro la finanza speculativa27. Più che allinearsi alle posizioni di partiti come il Rassemblement National, il Freiheitliche Partei Österreichs (FPÖ) o l’Alternative für Deutschland (AfD), con i quali non c’è ancora una collaborazione organica, la scelta di queste proposte suggerisce la volontà di competere con la Lega Nord, nel momento in cui si presenta sotto la guida di Salvini, per conquistare un elettorato euroscettico che i sondaggi danno in costante crescita.

Tuttavia, la sfida lanciata da Giorgia Meloni, recentemente divenuta presidente di FdI, al suo alleato e rivale non ha avuto immediato successo. Alle elezioni europee del 2014 i risultati elettorali sono stati in crescita, superando il milione di voti, ma il risultato del 3,7% non ha permesso al partito di superare la soglia per eleggere i membri del Parlamento europeo. Il primo obiettivo del nuovo Presidente è quindi quello di ristrutturare l’organizzazione in modo da poter fare efficacemente proselitismo e propaganda in tutta Italia, mentre l’Officina per l’Italia, laboratorio di idee aperto a intellettuali di varia estrazione, è chiamata da diversi mesi a definire la piattaforma politica e culturale su cui costruire il nuovo centrodestra. Gli ostacoli non sono mancati, anche al suo interno, dal momento che il relativo fallimento delle elezioni europee aveva scontentato una parte dei quadri intermedi, portando a una nuova scissione nel novembre 2015 e alla nascita del movimento Azione Nazionale28 , ma la coesione del gruppo dirigente, La candidatura di Giorgia Meloni a sindaco di Roma nel 2016, pur non essendo sostenuta da Forza Italia, ha rappresentato un momento di rilancio mediatico e politico: con il 12,3% ottenuto, la giovane leader di FdI ha aumentato la propria credibilità e popolarità, in un momento in cui Berlusconi – sempre più invischiato in cause giudiziarie e scandali – stava ottenendo i peggiori risultati nella storia del suo partito.

Gli indici di gradimento della Meloni erano ora più alti di quelli dei leader dei partiti alleati29 . Tuttavia, non erano sufficienti per ottenere un sostegno più ampio. Il partito si è quindi affidato a una linea ideologica più aggressiva, radicalizzando le posizioni precedenti al secondo congresso nazionale del dicembre 2017. Il leitmotiv del programma presentato in quell’occasione – il nazionalismo, definito con un po’ di pudore “patriottismo” – non rappresentava una novità rispetto al tono con cui veniva enunciato. Infatti, allo slogan “prima gli italiani” si accompagnava l’espressione di una “filosofia dell’identità” da cui derivavano la critica all'”universalismo radicale”, l’accusa rivolta all’ONU di volere una “sostituzione etnica” in Europa ispirata a un “astratto principio multiculturalista”, e la richiesta di misure rigorose per arginare i flussi migratori e contrastare il rischio di islamizzazione del continente30. Sono queste posizioni, contenute nella mozione approvata dai delegati (le tesi di Trieste), che hanno portato alcuni analisti a classificare Fratelli d’Italia come parte della destra radicale populista. Tuttavia, la lettura di questa mozione-manifesto rivela che accanto a queste posizioni, altre idee si ispiravano a una filosofia conservatrice destinata, nel tempo, a prevalere sulla cultura politica del partito: il recupero della tradizione e la critica al culto del progresso; la riaffermazione del ruolo centrale dell’autorità nella società e nello Stato; l’elogio della ruralità; il rifiuto della teoria del gender; la valorizzazione del patrimonio storico italiano: arte, archeologia, paesaggio e natura. Anche in politica estera si cerca un equilibrio tra conservatorismo e radicalismo: Se da un lato si afferma che “l’Italia fa parte dell’Occidente, è naturalmente alleata delle nazioni europee, degli Stati Uniti e degli altri popoli di cultura europea e occidentale” e che l’Alleanza Atlantica è il suo “ambito naturale di alleanza militare”, dall’altro si sostiene che l’Italia non condivide “la logica di ostilità nei confronti della Federazione Russa”, con la quale si ritiene “necessaria e proficua una stretta collaborazione sul piano economico e strategico”, anche nella lotta al terrorismo.

Per il momento, i benefici di questa accentuazione dei tratti ideologici anti-establishment del partito sono stati limitati. La concorrenza del M5S e della Lega era troppo forte. Questi due partiti sono emersi come vincitori delle elezioni generali del marzo 2018. Il M5S, con il 32,68%, non solo ha confermato la sua posizione di primo partito italiano, ma è anche riuscito a consolidare la supremazia acquisita cinque anni prima. La Lega, con il suo spettacolare balzo al 17,35%, ha superato per la prima volta Forza Italia, relegata al 14%. Il risultato ha lasciato a Salvini le mani libere per trovare alternative all’ormai classica coalizione di centrodestra (che non aveva abbastanza membri in parlamento per formare un governo indipendentemente dal sostegno degli altri partiti). Il leader della Lega ha colto l’occasione per accettare l’idea di un “contratto di governo” con il Movimento 5 stelle, basato su un programma in cui spiccano alcuni dei temi più cari ai populisti, come politiche più dure contro l’immigrazione o una drastica riduzione del numero dei parlamentari.

Di fronte a questo nuovo scenario, Fratelli d’Italia, che era tornato a guadagnare leggermente ottenendo il 4,35% e triplicando il numero di seggi in Parlamento (19 deputati e 7 senatori), sembrava non avere altra scelta che continuare ad accettare un ruolo secondario all’interno del centrodestra. Tuttavia, Salvini, che da tempo gode di un buon rapporto personale con Giorgia Meloni, ha cercato di convincerla a entrare nel governo guidato da Giuseppe Conte, avvocato e professore universitario, un outsider politico proposto dai sostenitori di Beppe Grillo. Se Fratelli d’Italia avesse fatto parte della maggioranza, la Lega avrebbe avuto un alleato per inserire nell’agenda di governo le misure a cui teneva particolarmente. La risposta, però, è stata negativa: Giorgia Melon ha ritenuto che l’esecutivo “giallo-verde” (i colori simbolo del M5S e della Lega) fosse troppo eterogeneo e troppo di sinistra. Questo rifiuto era un’espressione pratica delle tesi triestine: il populismo poteva essere un antidoto alla degenerazione dei legami sociali in un contesto in cui “i legami di appartenenza vengono scientificamente spezzati per costruire una massa di cittadini-consumatori senza storia, radici, identità, patria, comunità, religione o genere”, ma a condizione che i partiti adottassero un programma identitario. Il “populismo giustizialista e demagogico che si è diffuso in Italia”, cioè quello del M5S, era destinato a fare solo danni. Era quindi meglio restare fuori dal governo e concentrare le proprie energie sullo sviluppo delle strutture organizzative locali del partito.

Questa scelta ha dato i suoi frutti nel febbraio 2019, alle elezioni regionali in Abruzzo. Grazie anche all’indebolimento di Forza Italia, Fratelli d’Italia è riuscita a far accettare ai suoi alleati la candidatura di un suo esponente, Marco Marsilio, alla presidenza della Regione, che ha vinto con il 48,3%. La novità è stata notevole: per la prima volta Fratelli d’Italia ha conquistato la guida di un’istituzione, pur ottenendo molti meno voti della Lega (6,5% contro 27,5%), che aveva sfruttato l’effetto propulsivo dell’azione di Salvini come Ministro dell’Interno e il suo alto profilo mediatico.

Tre mesi dopo, le elezioni europee hanno confermato la straordinaria efficacia della strategia di “nazionalizzazione” e svolta populista che il segretario aveva imposto alla Lega: il 34,33% ottenuto alle urne (oltre 9 milioni di voti) è un risultato che nessuno immaginava possibile, né tra i sostenitori né tra gli avversari. Il ciclone Lega non ha però spazzato via Fratelli d’Italia, né Forza Italia, scesa all’8,79%, e il M5S, che ha visto quasi dimezzare il suo risultato (17,07%) rispetto alle elezioni politiche dell’anno precedente. Con il 6,46%, la lista che continua a portare il nome della Meloni in evidenza nel suo simbolo ha eletto cinque europarlamentari, un risultato che si rivelerà molto utile in seguito.

Tra i cinque eletti c’è Raffaele Fitto, giovane ma esperto politico – è stato presidente della Regione Puglia e ministro dal 2008 al 2011. Esponente di Forza Italia, vanta una vasta rete di relazioni personali, costruita durante i due mandati da europarlamentare nel gruppo del PPE. Grazie a lui, nel novembre 2018 Fratelli d’Italia è stata accolta nel gruppo parlamentare dei Conservatori e Riformisti europei (ECR), dominato dal PiS polacco. A Fitto è stata affidata la co-presidenza di questo gruppo.

I “governi del Presidente” compaiono quando il governo ha perso il sostegno della sua maggioranza parlamentare e il Presidente della Repubblica cerca di convincere i leader dei partiti a formare una nuova coalizione di maggioranza in grado di sostenere un governo alternativo senza dover ricorrere a nuove elezioni parlamentari.

L’adesione ai Conservatori ha permesso a FdI di dissipare, almeno in parte, il sospetto di essere rimasto un partito post-fascista di facciata e di dimostrare di non soffrire dell’isolamento a cui sono stati condannati i partiti populisti del gruppo Identità e Democrazia al Parlamento di Strasburgo. È stato quindi compiuto un primo passo verso l’obiettivo più ambizioso di raggiungere una posizione influente a livello internazionale. Ciò significava rafforzare gradualmente le relazioni con gli ambienti conservatori extraeuropei. In quest’ottica, nel febbraio 2020 Meloni ha ottenuto un invito alla National Prayer Breakfast di Washington, un importante raduno di conservatori americani. Lì ha elogiato la presidenza di Donald Trump. Due anni dopo, è stata invitata a parlare al CPAC, la più importante conferenza politica del mondo conservatore. Nel settembre 2020 le è stata affidata la carica di presidente del partito politico Conservatore e Riformista Europeo (CRE), che ricopre tuttora, essendo stata riconfermata a fine giugno 2023.

Nel frattempo, Matteo Salvini, a metà estate 2019, aveva deciso, come abbiamo detto, di interrompere la collaborazione con il M5S e il primo governo Conte, scommettendo che nuove elezioni lo avrebbero reso arbitro della politica italiana, da solo o in coalizione con alleati molto più deboli della Lega, o forse in un’alleanza ristretta ai soli Fratelli d’Italia – con i quali le differenze programmatiche si erano ormai fortemente ridotte. Il risultato delle elezioni europee lasciava presagire che il tandem Lega-FdI potesse raggiungere la soglia del 40% dei voti, il che faceva sperare in una maggioranza di seggi in Parlamento. Tuttavia, il Presidente della Repubblica ha respinto la richiesta di elezioni politiche anticipate, decidendo di affidare la guida del Paese a un governo tecnico. Questo governo non vedrà mai la luce a causa dell’accordo tra il M5S e il Partito Democratico per formare un secondo governo Conte, questa volta “giallo-rosso”. I piani di Matteo Salvini così rovinati hanno causato il suo forte declino.

L’estinzione della stella di Salvini è stata seguita quasi immediatamente dall’apparizione di quella della Meloni, che i sondaggi davano in forte ascesa. Ma è stato l’emergere della pandemia Covid-19 a dare a questa inversione di tendenza proporzioni ben maggiori.

Fin dall’inizio della crisi, Fratelli d’Italia ha espresso una forte opposizione al confino e all’imposizione del green pass, criticando le scelte del governo e dell’Unione Europea, schierandosi a difesa delle libertà individuali e chiedendo urgenti misure di sostegno economico per le categorie produttive colpite duramente dai divieti e dalle restrizioni. Dal canto suo, la Lega ha seguito una linea altalenante, oscillando tra la richiesta di maggiore fermezza nella lotta all’epidemia e il sostegno alle manifestazioni contro i vaccini.

Questo ha permesso a Giorgia Meloni di apparire più coerente e credibile e di recuperare il tempo perduto nel mondo dei social media, dove il numero dei suoi follower è aumentato notevolmente. La sua carta vincente, però, è stato il rifiuto categorico di entrare nell’esecutivo guidato dall’ex presidente della Banca Centrale Europea, Mario Draghi, dopo la caduta del secondo governo Conte. Mentre Forza Italia e, dopo qualche esitazione e dissidio interno, la Lega, hanno accettato l’invito a entrare nel governo di “salvezza nazionale” con i propri ministri, Fratelli d’Italia ha denunciato l’imposizione al Paese di un ennesimo esecutivo che non aveva ricevuto il consenso elettorale e ha guidato un’opposizione flessibile nelle scelte concrete (approvando misure che sembravano ragionevoli) ma inflessibile nella retorica e nella comunicazione. I sondaggi d’opinione, in costante aumento nel 2021-2022, mostravano che questa scelta era elettoralmente vantaggiosa.

Allo stesso tempo, si è rafforzata la tendenza a identificare il partito con il suo Presidente. Il suo successo agli occhi dell’opinione pubblica ha contribuito a contenere l’emergere di correnti interne. Qui troviamo una tendenza tipica dei “partiti di fiamma” a circondare il leader di un’aura di incontestabilità, e tanto più evidente nelle fasi di successo. Giorgia Meloni non dovette tenere un congresso, a causa delle condizioni imposte dalla pandemia, né occuparsi degli affari interni, che vennero affidati al vasto gruppo di collaboratori fidati, lasciandola libera di concentrarsi sul rapporto con l’opinione pubblica. Cercò di consolidare la sua immagine nell’immaginario collettivo degli italiani come una giovane donna, forte e coerente, intransigente nei suoi principi e allo stesso tempo materna e compassionevole. È questa, infatti, l’immagine che emerge dalla sua autobiografia, un vero e proprio successo editoriale. Ne sono state vendute quasi duecentomila copie. Anche i suoi avversari hanno involontariamente contribuito a questo sforzo di personalizzazione della sua immagine: per esempio, hanno prodotto un video ironizzando sul tono enfatico di uno dei comizi della Meloni (“Sono Giorgia, sono una donna, sono italiana, sono cristiana. Non possono togliermi questo”), un meme molto popolare sui social network che, invece di ridicolizzare la leader di Fratelli d’Italia, ha aumentato ulteriormente la sua popolarità. Tanto che, alla fine, il successo elettorale di Fratelli d’Italia nel settembre 2022 è apparso a tutti come un successo personale della leader. Nessuno ha contestato la sua nomina a Presidente del Consiglio, né tra i suoi alleati né tra i suoi avversari.

È nel periodo di più diretta competizione con la Lega, dal momento in cui Salvini ha fatto fallire il primo governo Conte e quando la sua popolarità ha iniziato a crollare, che Giorgia Meloni ha utilizzato maggiormente il suo repertorio stilistico populista, selezionando alcuni temi e attenuandone altri. La denuncia delle élite, che era stata il pilastro della sua retorica negli anni precedenti, si è limitata ad accuse più generiche e meno frequenti. La volontà popolare è stata invocata solo per incoraggiare il ricorso alle urne e per chiudere il capitolo dei “governi del Presidente” (della Repubblica)31 , senza abbandonare quell’esaltazione delle virtù della gente comune che è uno degli indicatori più chiari della mentalità populista. Pur ricordando lo stretto legame tra popolo e nazione, è su quest’ultima che si concentra la carica emotiva dei discorsi del leader. La stessa critica virulenta all’immigrazione è spesso sovrapposta agli appelli per il ritorno delle tradizioni culturali offuscate dall’ondata progressista scatenata dal movimento di protesta del 1968. L’attacco alla “lobby LGBT” e alla “follia” della teoria dell’intercambiabilità dei sessi – che in alcune occasioni, come i raduni organizzati in Spagna per sostenere i candidati del partito gemello Vox, sono emersi con particolare vigore – ne ha offerto un esempio lampante.

Tuttavia, dal giugno 2021, quando Fratelli d’Italia ha superato la Lega nei sondaggi e ha iniziato a intravedere la possibilità di prendere le redini della coalizione e quindi di guidare il futuro governo, queste dichiarazioni radicali sono state sempre più accompagnate da atteggiamenti più moderati e da una maggiore apertura al dialogo, soprattutto nelle sedi istituzionali, per dare al partito un’immagine più responsabile.

Il programma presentato per le elezioni del 2022 ha rispecchiato questo processo di “rimodellamento”, adottando toni più pacati, correggendo alcune posizioni precedenti e passando dalle solite accuse a critiche più ragionate, ampliando al contempo la portata dei temi trattati. Invece di denunciare i “tecno-burocrati di Bruxelles”, ad esempio, questo programma esprime l’intenzione di “rilanciare il sistema di integrazione europea, per un’Europa delle nazioni, basata sugli interessi dei popoli e capace di affrontare le sfide del nostro tempo”. Anche sul tema dell’immigrazione le intenzioni sono meno bellicose. Le proposte si limitano a chiedere “la difesa delle frontiere nazionali ed europee come previsto dal Trattato di Schengen e come richiesto dall’UE, con controlli alle frontiere e il blocco degli approdi per fermare, in accordo con le autorità nordafricane, il traffico di esseri umani” e la stipula di accordi tra l’UE e gli Stati di provenienza dei migranti illegali per gestire i rimpatri. Allo stesso tempo, il programma chiede la massima intransigenza contro il fondamentalismo islamico, ma anche contro ogni forma di antisemitismo e razzismo.

Vengono mobilitati altri strumenti per contrastare le accuse di estremismo da parte degli oppositori, come l’attenzione alla condizione femminile e alla dignità dell’individuo. Ciò include la promozione della “lotta contro tutte le forme di discriminazione, la promozione e il sostegno dei modi per emancipare le donne dagli stereotipi culturali che le pongono in una posizione subordinata”, nonché la lotta contro “tutte le discriminazioni basate sulle scelte sessuali e sentimentali delle persone”. Anche le questioni ambientali sono prese in considerazione. Tuttavia, se da un lato si sostiene la necessità di aggiornare e rendere operativo il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici e di attuare la transizione ecologica prevista dal Piano nazionale di ripresa e resilienza, dall’altro si sottolinea la necessità di proteggere il sistema produttivo dai prevedibili effetti negativi delle politiche ambientali, “con particolare attenzione ai settori industriali difficilmente riconvertibili (ad esempio l’industria automobilistica)”. Considerando questi passaggi e l’allargamento degli orizzonti programmatici ad altri temi trascurati in passato, o liquidati in poche righe – a partire da quelli economici – è chiaro che questo programma riassume il compito che attende il partito quando si troverà alla guida del Paese.

Numero di volte che Fratelli d’Italia è stato eletto alle elezioni politiche ed europee, dalla sua fondazione fino alle elezioni del 2022

Source :

*Le elezioni parlamentari del 25 settembre 2022 sono state le prime a tenersi in seguito alla riforma che ha ridotto il numero dei deputati da 630 a 400 e quello dei senatori da 315 a 200.

Cronologia dei risultati elettorali dei tre “partiti fiamma” (MSI, AN, FdI) alle elezioni della Camera dei Deputati e del Parlamento Europeo (in %)

Source :

Salvatore Vassallo et Rinaldo Vignati, Fratelli di Giorgia. Il partito della destra nazional-conservatrice, Il Mulino, Bologne, 2023, p.222

IIIPartie

Qual è la situazione oggi in termini ideologici, organizzativi ed europei?

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Sul fronte ideologico

Come era facile prevedere, assumendo le redini del governo come partito più forte della coalizione, Fratelli d’Italia è entrato in una nuova fase della sua storia, che lo costringe a trovare un equilibrio tra l’immagine saliente che gli ha fatto guadagnare tanti consensi negli anni dell’opposizione e quella molto più moderata e responsabile che si addice a tutti coloro che occupano i ruoli istituzionali più importanti. Gli osservatori che hanno descritto FdI come un partito populista di destra radicale semplicemente analizzando il contenuto dei suoi programmi o le dichiarazioni pubbliche dei suoi esponenti hanno recentemente trovato difficoltà a trovare dati a sostegno della loro tesi, anche se hanno cercato di evidenziare la persistenza di un certo “scivolamento” verbale tra gli attivisti ora assegnati a incarichi di governo, Come nel caso del rischio di “sostituzione etnica” dovuto all’eccessiva immigrazione citato dal ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, che è anche cognato di Giorgia Meloni, o di alcune dichiarazioni ambigue sul regime mussoliniano da parte di La Russa, nel frattempo eletto presidente del Senato.

Di fronte a sfide inedite, il partito sembra obbligato a sciogliere i nodi residui che ne limitano i movimenti nell’attuale spazio politico e ideologico, e non solo in Italia. Le dure invettive contro l’Unione Europea, ancora presenti nell’autobiografia di Meloni, che la descriveva come “un parco giochi per tecnocrati banchieri che banchettano sulle spalle dei popoli “32 e come un’istituzione “utopica e potenzialmente tirannica “33 , hanno lasciato il posto a generiche proposte volte a riformare le istituzioni di Bruxelles. Nonostante la persistenza di una forma di opposizione all’immigrazione e la richiesta che l’UE adotti misure efficaci per contrastarla, non si parla più del blocco navale per impedire lo sbarco dei migranti, di cui si parlava molto spesso. D’altra parte, le critiche alle argomentazioni progressiste in materia di “questioni etiche” sono ancora frequenti: sebbene le unioni civili tra persone dello stesso sesso siano state accettate nel manifesto elettorale del 2022, la maternità surrogata, l’adozione da parte di persone dello stesso sesso e le teorie “gender” continuano a essere respinte.

Il profilo di Fratelli d’Italia nel 2024 sembra quindi essere quello di un soggetto politico la cui identità è ancora in via di definizione, in quanto risponde alle opportunità e alle sfide presentate dal contesto in cui si sta evolvendo. Saldamente ancorato alla destra dello spettro politico e con una concezione bipolare delle dinamiche sistemiche, il partito utilizza un mix di idee conservatrici e nazionaliste, presentate come “patriottismo sovranista”, come ingredienti di base del suo messaggio. Diffidente nei confronti del populismo – che contrasta con il culto dell’autorità statale dei suoi esponenti di punta ed è accusato di essere nient’altro che la versione contemporanea della demagogia34 – quanto del globalismo e del cosmopolitismo, la sua stella polare è un’idea di nazione che, pur mostrando alcuni tratti nativisti, non reca più alcuna traccia delle inclinazioni espansionistiche e bellicose che avevano caratterizzato fascismo e neofascismo. E l’antisemitismo era totalmente assente dai suoi riferimenti ideologici. I dirigenti del partito, guidati da Meloni, non perdevano occasione per manifestare il loro attaccamento alla democrazia, per ribadire la loro fedeltà all’Alleanza Atlantica in nome dei valori dell’Occidente liberale e per prendere le distanze dall’esperienza fascista35. La formula più appropriata per definire FdI oggi sembra quindi quella scelta da Vassallo e Vignati: un partito nazional-conservatore, formato, soprattutto ai vertici, da “democratici afascisti”, cioè da persone che si sono ormai lasciate alle spalle le grandi divisioni del Novecento e vedono nella frattura culturale tra conservatorismo e progressismo la linea di conflitto fondamentale dell’epoca attuale.

De-radicalizzare un partito che fino a poco tempo fa ha fatto del radicalismo verbale la sua arma più efficace, e rendere sempre meno estremisti i suoi programmi e la sua immagine, è dunque la scommessa che Giorgia Meloni e Fratelli d’Italia sono ora costretti ad accettare, se non vogliono vivere a loro volta il brutale declino che Salvini e la Lega hanno subito tra il 2019 e il 2022. Allo stesso tempo, si tratta di tracciare un percorso di successo per i partiti fratelli in altri Paesi europei. L’obiettivo è rendere il Partito Popolare Europeo più di destra per cambiare le politiche dell’Unione Europea.

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A livello organizzativo

Da questo punto di vista, Fratelli d’Italia si trova di fronte a una serie di sfide: consolidare la propria struttura organizzativa per completare il processo di istituzionalizzazione iniziato da pochi anni, accrescere il proprio capitale di legittimità a livello internazionale, stabilizzare i rapporti con gli alleati di coalizione per evitare il rischio di logoramento dell’azione di governo.

Sui primi due punti, la strada sembra ancora lunga e piena di insidie. La crescita rapidissima del suo risultato elettorale in proporzioni inaspettate ha posto Fratelli d’Italia in una situazione paradossale, simile a quella vissuta dalla Lega nel 2018-2019: ottenere un gran numero di cariche elettive a livello locale – consiglieri comunali e regionali, sindaci e vicesindaci – senza avere il personale adatto a ricoprirle e senza disporre di una rete di collegamenti organici con associazioni e gruppi di interesse in grado di garantire la collaborazione di esperti e tecnici di fiducia.

Orientamento politico delle coalizioni alla guida dei governi regionali

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Nota: i numeri sulla mappa si riferiscono ai nomi delle regioni nella tabella della pagina seguente.

La presenza di Fratelli d’Italia nei consigli regionali

Nei primi anni della sua esistenza, in molte città di piccole e medie dimensioni, il partito non disponeva nemmeno di locali in cui allestire le sedi delle sezioni comunali e delle federazioni provinciali. Al momento della fusione con il Popolo delle Libertà, i locali appartenevano ad Alleanza Nazionale ed erano stati affidati a una fondazione che ne deteneva l’uso esclusivo. Solo una parte dei locali è stata affittata a Fratelli d’Italia. Il secondo congresso nazionale del 2017 ha cercato di porre rimedio a questi problemi avviando una nuova fase organizzativa. Nel 2019 è stato modificato lo statuto. Sono state stabilite regole più precise per il funzionamento della struttura interna, tra cui l’obbligo per tutti i membri eletti, a tutti i livelli, di versare un contributo finanziario.

L’organigramma elaborato in questa occasione è, sulla carta, molto complesso; riproduce la classica struttura dei partiti burocratici di massa. Il presidente, eletto dal congresso, è circondato al massimo livello da una serie di organi politici: l’assemblea, la direzione, il coordinamento politico, l’esecutivo e i dipartimenti tematici. Altri organi sono responsabili di compiti burocratici: la Commissione di garanzia, la Segreteria amministrativa e il Comitato amministrativo. In tutti questi organi, alcuni membri sono nominati direttamente dal Presidente, mentre gli altri sono eletti. Lo stesso schema si ripete, in forma semplificata, a livello locale, confermando la natura fortemente gerarchica del partito, ereditata dalla tradizione del MSI e di Alleanza Nazionale. Come hanno scritto Vassallo e Vignati, la struttura di Fratelli d’Italia “è guidata dal leader e dall’esecutivo nazionale”. I presidenti e i coordinamenti regionali sono strutture dipendenti da questo centro: “agiscono in base alle direttive nazionali del movimento “36 .

In teoria, il partito è caratterizzato da una forte democrazia interna. La selezione dei candidati alle cariche istituzionali si basa sul criterio delle elezioni primarie aperte ai sostenitori. Ma nella pratica le cose vanno diversamente. Dopo il 2017 non si è tenuto alcun congresso nazionale. Giorgia Meloni è stata scelta come Presidente per acclamazione. I membri dell’Assemblea e dell’Esecutivo sono stati eletti in blocco da una lista presentata dalla Presidenza. Lo stesso vale per i dirigenti regionali e provinciali, quasi tutti nominati dalla direzione nazionale, mentre alcuni di quelli eletti dai militanti furono sostituiti d’autorità dagli organi nazionali37.

Di fatto, il modello organizzativo di FdI sembra riprodurre il centralismo plebiscitario38 già sperimentato da MSI e AN: è un “partito del presidente”, la cui personalizzazione è ulteriormente accentuata dal fatto che Giorgia Meloni fa largo uso dei social media. Questo le permette di bypassare il filtro degli organi interni – che raramente vengono convocati – e di rivolgersi direttamente a iscritti e sostenitori, così come la sua costante abitudine di usare il pronome “io” anziché “noi” nei suoi discorsi pubblici, assumendo così la rappresentanza esclusiva del partito. Se questa accentuata leadership ha finora dato i suoi frutti in termini di risultati elettorali, ha certamente rallentato l’istituzionalizzazione del partito e la responsabilizzazione dei suoi quadri intermedi, dando adito a diffusi dubbi – più volte ripresi da stampa e osservatori – sul reale grado di competenza e capacità della classe dirigente su cui il Presidente può contare.

3
A livello europeo

Per quanto riguarda il problema della legittimazione internazionale, necessaria per un partito la cui storia affonda le radici nell’eredità neofascista, gli sforzi di Giorgia Meloni e dei suoi più stretti collaboratori, in particolare Guido Crosetto e Raffaele Fitto, sono stati intensi. Si è puntato soprattutto a confermare la vocazione atlantista e occidentale di Fratelli d’Italia, cancellando ogni precedente traccia di simpatia per la Russia di Putin, affermando il sostegno incondizionato all’Ucraina, ribadito in ogni occasione, e attenuando fortemente, ma non abbandonando, le critiche all’Unione Europea. Per affermare le credenziali conservatrici di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni ha fatto leva soprattutto sul suo ruolo di presidente del partito dei Conservatori e Riformisti europei, incontrando negli anni i rappresentanti dei partiti alleati, a partire dal polacco Morawiecki, dallo spagnolo Abascal e dall’ungherese Orbán. Questa scelta strategica l’ha portata a prendere sempre più le distanze dalle formazioni nazional-populiste del gruppo Identità e Democrazia, che comprende la Lega di Salvini, suo partner di governo, e il Rassemblement National. Questo allontanamento da Marine Le Pen è stato particolarmente marcato. Fino al 2017, Giorgia Meloni sosteneva di condividere con lei gli stessi ideali e la stessa linea politica, “per un’Europa dei popoli, delle patrie e delle sovranità “39 . La presidente di Fratelli d’Italia ne ha poi preso progressivamente le distanze, fino a non fare mistero della sua preferenza per Éric Zemmour come candidato alle elezioni presidenziali del 2022. Nonostante Marine Le Pen gli abbia espresso pubblicamente le sue congratulazioni e la sua gratitudine all’indomani del suo successo elettorale, nel settembre dello stesso anno, la frattura ha continuato ad approfondirsi, culminando nell’annuncio, nel febbraio 2024, dell’adesione di Nicolas Bay, unico eurodeputato di Reconquête! all’Assemblea di Strasburgo, al gruppo dei Conservatori e Riformisti Europei (ECR). Questa mobilitazione è dovuta senza dubbio all’azione dell’eurodeputato Vincenzo Sofo, che è passato dalla Lega a Fratelli d’Italia nel 2021, lo stesso anno in cui è diventato marito di Marion Maréchal.

Questa affiliazione ha destato molto stupore tra i commentatori politici italiani, in quanto ritenuta in contraddizione con l’ambizione di Fratelli d’Italia di far parte della nuova maggioranza del Parlamento europeo dopo le elezioni del 6-9 giugno 2024 e, di conseguenza, di influenzare la scelta del Presidente della Commissione attraverso un accordo con il PPE. L’adesione del partito di Zemmour potrebbe rafforzare numericamente il gruppo conservatore e forse garantirgli un numero maggiore di eletti rispetto ai concorrenti di Identità e Democrazia, ma l’immagine di estremismo che Reconquête! si è creata all’estero, in particolare per il radicalismo delle sue idee sulla lotta all’immigrazione e all’Islam, potrebbe costituire un serio ostacolo al progetto di alleanza con i moderati e i centristi. Sappiamo che questa scelta non è stata condivisa da alcuni quadri di FdI. Evidentemente Giorgia Meloni ha deciso di tentare una nuova scommessa, dopo le tante che hanno segnato la sua ascesa politica, convinta di vincere. Il voto europeo, che per Fratelli d’Italia si preannuncia positivo, comporta quindi seri rischi per il capo del governo italiano.

Annexe I

Histoire de la droite italienne
Synthèse chronologique depuis 1922

Annexe II

Chronologie des gouvernements italiens depuis 1946

Note : La couleur indique le parti d’appartenance du chef du gouvernement.

 

Notes

Lorenzo Castellani, Eminenze grigie, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Lorenzo Castellani, Eminenze grigie, Liberilibri, Macerata 2024, pp. 167. € 16,00.

Lorenzo Castellani è particolarmente attento ai rami intermedi del potere; già nel saggio “L’ingranaggio del potere” (Liberilibri 2020) aveva valutato il ruolo  e il “peso” sia dell’organizzazione del potere che dei collaboratori dell’apice; tenendo presente la lezione di Carl Schmitt, in particolare del saggio, tradotto in italiano sul Behemoth n. 2 da A. Caracciolo col titolo “Colloquio sul potere e l’accesso al potere”. Com’è noto il giurista tedesco pone a fondamento del potere il rapporto di comando-obbedienza “Per il solo fatto che si trovano uomini che prestano obbedienza ad un altro uomo, essi procurano a questo il potere, Se non gli obbediscono più, cessa allora il suo potere”; perché hobbesianamente “Chi non ha il potere di proteggere uno, non ha nemmeno il diritto di pretendere da lui obbedienza. E viceversa: chi cerca protezione e la ottiene, non ha nemmeno il diritto di rifiutare l’obbedienza”. Tuttavia anche il potente è vincolato dai limiti della natura umana. Se poi deve governare realtà particolarmente grandi e complesse, come gli Stati, deve fare affidamento su resoconti, informazioni, giudizi dei propri consiglieri. I quali perciò sono partecipi del potere, per cui, scriveva Schmitt: “ogni potere diretto è… sottoposto a influssi indiretti”.

Tra i quali Castellani, nel saggio, tratta sia del tipo di potere indiretto che del collaboratore del potente. La cui caratteristica – per distinguerlo dagli altri aiutanti – è di essere più un partecipe del potere che un ingranaggio della catena di comando cui è delegato (e istituzionalizzato) in un ambito decisionale, una “competenza” delimitata.

Invece il proprio delle eminenze grigie è di indurre, influenzare comportamenti e risoluzioni di vertice più che provvedere in materie delegate.

Castellani lo fa ricordando dodici “eminenze grigie” (a partire dell’eponimo della categoria, padre Giuseppe) e – brevemente – i rapporti con il potere diretto e formale da loro influenzato, al di là della carica loro conferita.

L’autore formula anche regolarità dei poteri indiretti: aumentano con l’incremento di complessità, partecipazione e ampiezza dell’organizzazione politica. E una seconda che, al contrario del potere diretto, non hanno una necessità di legittimazione democratica. Comprovato anche, come ricorda l’autore, dai modesti risultati ottenuti dalle eminenze grigie presentatesi alle elezioni.

Questo, pur mantenendo la loro scarsa o nulla visibilità, concentrata sul potere diretto. La conclusione è che non è possibile fare a meno delle eminenze grigie, neanche nei regimi più trasparenti e democratici. Sono come gli Arcana Imperii, connaturali ad ogni potere perché necessitato a servirsene.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Giovanni Sallusti, Mi mancano i vecchi comunisti, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Giovanni Sallusti, Mi mancano i vecchi comunisti, prefazione di Giuliano Ferrara, Liberilibri, Macerata 2024, pp. 120, € 16,00.

Chi scrive ha da anni la convinzione che nel cambio tra la vecchia sinistra pre 1989 e la contemporanea radical-chic, si è caduti, almeno per certi versi, dalla padella nella brace. Qualcuno, anche se non con la coerenza e l’approfondimento di Sallusti, ritiene che il marxismo avesse degli aspetti, per dirla à la Spengler, faustiani, ossia di apprezzamento – a tratti di vera e propria esaltazione – di quello che l’occidente e la sua ultima versione, cioè il capitalismo borghese (dal XIX secolo) aveva realizzato.

I vecchi comunisti, scrive Sallusti, “accettavano la Rivoluzione industriale come fatto storico-economico, dandone persino un giudizio positivo il che già li collocherebbe tra gli eretici, al tempo in cui la sinistra continentale vota compatta all’Europarlamento una surreale legge per il Ripristino della natura, motivo più che sufficiente per giustificare il rimpianto inconsolabile dell’autore” (è la prima tesi “eretica”). Credevano nell’autonomia della politica… “sia come oggetto di studio che come tecnicalità (anche troppo) spiccia, la consideravano un valore acquisito da Machiavelli (due). Infine, scusate se è poco, il Vecchio Comunista riconosceva appunto l’esistenza, la specificità e addirittura l’eccezionalità di un’entità meta-storica a sé stante, una postilla chiamata Occidente. Non voleva cancellare la nostra cultura, intendeva celebrarne i fasti nella Società Perfetta” (siamo a tre).

Invece i sinistri odierni, scrive Sallusti “Aboliscono la storia, questo è il punto di fondo, in favore di una posticcia metafisica buonista. Per questo sono ancora più pericolosi”, e hanno sostituito alla società senza classi, la “salvezza del pianeta”.

Analizzando le tre principali fratture elencate, quanto al produttivismo, l’autore evidenzia anche altri punti di incontro tra pensiero marxista e liberale-libertario. Tra i quali la polemica antiburocratica e antiparassitaria, iniziata dal giovane Marx con una rappresentazione, tuttora insuperata, della Weltaschauung del burocrate nella “Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico”. E della centralità della fabbrica (e dei consigli di fabbrica) nel pensiero di Gramsci.

Quanto al realismo, Sallusti ricorda la polemica di Marx ed Engels contro il socialismo utopistico (Fourier, Saint Simon): ora si passa dalla “nuova Gerusalemme” della società senza classi al “vitello d’oro” (ma non sarà ottone?) del gretinismo planetario, cioè la salvezza dell’ambiente, E sostanzialmente con la negazione della politica – e del “politico”, salvaguardata (eccome) dalla prassi del comunismo vintage, che la nuova sinistra occulta o non considera. E così tende ad eliminare il conflitto e la lotta (cioè l’amico-nemico), senza – ovviamente – riuscirci perché fa parte della condizione umana e perché crea, insieme dei nemici nuovi, negandoli (l’industriale inquinatore, la partita IVA, l’evasore) favorendo così una tecno-burocrazia di cui è la chiassosa (e subordinata) banda.

L’occidentalismo del vecchio comunista è evidente “Marx rimane hegeliano fino alla fine, dunque non cessa mai di essere occidentalista”; per cui “non si sognerebbe mai di rimuovere il padre, e di celebrare questo suicidio culturale chiamato Cancel Culture”. Per cui, contrariamente alla cultura Woke “Ogni volta che c’è occidentalizzazione c’è civilizzazione, è il teorema di Marx, ed è una spettacolare, a lungo occultata ma definitiva stroncatura ante litteram della lagna (auto)colpevolizzante Woke”. L’irrazionalismo stigmatizzato da Lukacs è oggi incarnato nella cultura Woke.  Questa (scrive Sallusti) non sfugge alla dialettica amico-nemico, anzi è il nemico “nemico implacabile, perché più ancora che la Ragione (qui saremmo ancora a Lukacs) sente di avere i Buoni Sentimenti dalla sua, è Wokista”. É nemico interno e il suo abito mentale è l’oicofobia (Scruton). Cioè il rifiuto della (propria) civiltà occidentale.

Per cui conclude l’autore nostalgicamente sui vecchi comunisti: “li rimpiango amaramente, non è nemmeno più nostalgia struggente, è un appello disperato, è una seduta storico-spiritica, sono un vedovo inconsolabile dei Vecchi Comunisti”; mentre i nuovi sinistri “non perseguono la sintesi dell’uguaglianza, non hanno una meta, vivono in un eterno presente ringretinito e perseguono l’apocalisse petalosa, la mera e benpensante distruzione della ragione, della (nostra) storia, della (nostra) civiltà”. C’è ancora tempo per fermarli: ma di danni, purtroppo, ne hanno già fatti tanti.

Teodoro Klitsche de la Grange

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tutto a sinistra, di Michael Watson

È una domanda semplice: Come può essere “Queers for Palestine”, lo slogan sui cartelli di protesta dei manifestanti pro-Palestina (o anti-Hamas)? (L’omosessualità è stigmatizzata e criminalizzata nei territori palestinesi, mentre in Israele è legale e negli spazi laici non è stigmatizzata. In pratica, si preferisce essere gay a Tel Aviv piuttosto che a Khan Yunis).

Per rispondere a questa domanda, bisogna considerare l’ideologia di funzionamento dell’attivismo di sinistra, che, in mancanza di un termine migliore, potrebbe essere chiamata “Tutto a sinistra”.

Un’ideologia e una struttura

Tutto il sinistrismo opera su due livelli, come ideologia e come struttura istituzionale. Come ideologia, è una corruzione o un derivato dell’intersezionalità. Così come l’intersezionalità considera tutte le identità oppresse come collegate in dimensioni composte, il Tutto-Sinistra considera tutti i problemi del centro-sinistra come collegati in dimensioni composte.

Per la Sinistra Tuttofare, quindi, tutte le questioni sono reciprocamente dipendenti. In quest’ottica, gli interessi delle persone 2SLGBTQI+ negli Stati Uniti dipendono dalla sovranità palestinese, che dipende dalla decarbonizzazione radicale dell’economia, che dipende dall’accesso diffuso all’aborto finanziato dai contribuenti, che dipende dall’apertura di fatto delle frontiere, che dipende da ogni altra questione del manuale progressista.

Come struttura istituzionale, Tutto il Sinistrismo rende operativa questa ideologia negli spazi filantropici e governativi. Le organizzazioni caritatevoli e i gruppi di difesa che cercano il sostegno della Grande Filantropia istituzionale di sinistra saranno spinti ad allinearsi con Tutto a Sinistra non solo su ogni singola questione, ma su tutte , o almeno a tacere sulle questioni su cui non sono allineati. Nel frattempo, dove e quando le amministrazioni allineate con la Grande Filantropia deterranno il potere, useranno la loro discrezionalità nella concessione di sovvenzioni governative, nelle politiche di regolamentazione e nelle decisioni giudiziarie per attuare i principi di Tutto a Sinistra. L’amministrazione Biden ha annunciato e messo in atto una serie di programmi di “governo integrale” legati a tutto il sinistrismo, in particolare per quanto riguarda la diversità, l’equità e l’inclusione (DEI) e il cambiamento climatico.

Tutto il sinistrismo in pratica

Tutto ciò che è di sinistra è molto più facile da vedere che da definire. I gruppi associati a cause di centro-sinistra a volte si limitano a “twittarlo”, con grafici nel tipico stile pastello corporativo-liberale che dimostrano come tutte le questioni siano reciprocamente dipendenti.

Considerate la seguente immagine della Drug Policy Alliance, un gruppo per la legalizzazione delle droghe legato a George Soros e finanziato da lui e da numerosi altri importanti finanziatori istituzionali liberali:

Credito: Drug Policy Alliance. Fonte: https://twitter.com/DrugPolicyNerds/status/1742991582075494542.

A volte gli elenchi di temi di gruppi che si suppone siano monotematici mostrano le profondità di tutto il sinistrismo. Il Sunrise Movement è apparentemente un gruppo di campagna per un taglio immediato e severo delle emissioni di carbonio per fermare la presunta “crisi climatica”. Ma la sua lista di “richieste” include “posti di lavoro sindacali per tutti”, “abolire la polizia” e “garantire che le comunità indigene abbiano risorse adeguate e siano sicure”. Il Sunrise Movement sostiene che queste posizioni di sinistra sono intrinseche alla sua missione ambientale, ma in realtà sono estranee.

Nello spazio sindacale, questo è il motivo per cui la United Auto Workers (UAW), spinta a scioperare in parte a causa delle conseguenze del passaggio alla produzione di veicoli elettrici guidato dalla guerra alle auto dei governi americani e internazionali, sostiene la “giusta transizione” dai carburanti convenzionali. I sindacati sono stati per molti versi i pionieri del “sindacalismo di giustizia sociale“. Dopo che John Sweeney, un membro dei Democratic Socialists of America (DSA) allineato con i sindacati dei lavoratori pubblici e con la sinistra radicale del sindacalismo, ha sostituito il regime di centro-sinistra Truman-LBJ di George Meany-Lane Kirkland all’AFL-CIO negli anni ’90, hanno trasformato le loro casse finanziate dalle quote sociali in salvadanai generici per i movimenti economici e sociali di sinistra.

In un certo senso, la politica intersezionale di tutta la sinistra del DSA ha sostituito la vecchia politica industriale di Meany, Kirkland e del loro predecessore di fine Novecento Samuel Gompers. Queste politiche di classe industriale possono essere state di sinistra – hanno dato all’America il Movimento Progressista, il New Deal e la Great Society, che avevano tutti molti problemi politico-economici. Ma erano anche patriottici e riconoscibilmente americani nel loro liberalismo, come dimostra la resistenza di Gompers ai socialismi europei del suo tempo e il lavoro del regime Meany-Kirkland contro il comunismo internazionale durante la Guerra Fredda. Ma nella nuova era post-Sweeney, il Big Labor si è unito agli Everything Leftists, sostenendo cause più a sinistra del liberalismo dell’amministrazione Biden, e così l’UAW chiede che Israele non sconfigga Hamas in battaglia.

Riflessioni conclusive

Una volta introdotto il concetto di “Everything Leftism”, è facile trovare degli esempi. Dare la colpa della scelta scolastica a “razzismo, omofobia e xenofobia“? Tutto a sinistra. Chiamare tutto “giustizia x” – “giustizia razziale”, “giustizia ambientale”, “giustizia economica”, “giustizia algoritmica“? Tutto ciò che è di sinistra. La California offre cambi di sesso finanziati dal governo agli immigrati clandestini? Tutto di sinistra.

La conoscenza dell’Everything Leftism, così come quella del sindacalismo della giustizia sociale ad esso collegato, dovrebbe insegnare che non c’è alcuna prospettiva di allineamento a lungo termine con la sinistra per una concessione moderata su una singola questione. Per un esempio reale, chiedete ai gruppi repubblicani e conservatori che si sono alleati con i liberali per un moderato allentamento delle politiche di giustizia penale se si aspettavano che i loro ex partner si buttassero a capofitto nel disboscamento della polizia e nella legalizzazione de facto della criminalità di massa in nome della “giustizia razziale”.

Ma la Rivoluzione Permanente è l’esigenza di tutta la sinistra, quindi la mossa di abolire la polizia era inevitabile. Questo era l’obiettivo finale di molti gruppi di sinistra, ed è stato pubblicato sul New York Times come tale.

Quindi, per rispondere alla domanda iniziale, come può essere una cosa “Queers for Palestine”? Tutto ciò che è di sinistra ha visto l’opportunità di combinare due o più identità presumibilmente oppresse in un’inedita combinazione intersezionale e l’ha colta. Questo accade spesso e in tutte le questioni.

I conservatori che cercano di lavorare con (o peggio, di placare) una fazione di sinistra facciano attenzione.

Vincenzo Costa, “Categorie della politica. Dopo destra e sinistra”, a cura di Alessandro Visalli

Vincenzo Costa, “Categorie della politica. Dopo destra e sinistra”

 

 

 

Quando mi sono affacciato all’età adulta sentivo l’urgenza di definirmi rispetto al mondo. Una delle primissime cose che mi sembravano urgenti era di pensarmi nella collocazione del campo polare tra sinistra e destra. D’altra parte, si potrebbe ricordare a parziale giustificazione di questa riduzione, si era negli anni Settanta terminali. La mia famiglia non dava un’indicazione univoca, se pure esprimeva una tendenza. Ma percepivo la cosa in questo modo: la sinistra è quell’atteggiamento verso il mondo che ne critica le ingiustizie e la destra le difende. Messa così la cosa la scelta era già fatta.

Ma orientarsi significa, nella sua essenza, classificare da un dato momento in poi (da quando si decide, perché questa è stata, almeno per me, una decisione) ogni fatto della vita come “di destra” o “di sinistra”. Quindi identificare uno dei due come parte del nemico.

Cosa si acquista in tal modo? E cosa si perde?

 

Sinossi

Il libro di Vincenzo Costa[1] cerca una risposta. Ovviamente la cerca oggi, perché non esistono domande esterne al tempo ed al luogo, e questa è, in modo molto profondo, una domanda del tempo presente. Una domanda sulla quale mi sono anche io spesso interrogato e alla quale, nei diversi tempi della mia vita e contingenze avrei certamente dato risposte diverse.

L’autore scrive che lo scopo del libro è “sgombrare il campo [del discorso politico] da un ordine concettuale”. E il motivo di questa operazione di sgombero di macerie è che questo ordine, “invece di orientarci” (l’esigenza dei miei anni giovanili), “ci disorienta nella comprensione di ciò che sta accadendo”. Questo termine della metafisica implicita del nostro linguaggio, dis-orienta, è quindi uno di quelli da interrogare. In che senso ci dis-orienterebbe? E in quale renderebbe impossibile la com-prensione di ciò che sta, di fatto, accadendo oggi? Ma, quindi, cosa sta accadendo oggi?

Questa è la chiave di interpretazione che, di nuovo, lo stesso autore propone, e sul quale chiede di essere giudicato: “se [la proposta] descrive un movimento e un dinamismo del reale o se lo fraintende[2]. Per tale ragione nei primi capitoli il testo descrive in modo sintetico, ma perspicace, il tono del discorso politico pubblico e delle sue categorie degli ultimi cinquanta anni, a partire dalla storica frattura manifestatasi tra gli anni Settanta finali e Ottanta medi. Ciò con riferimento alle sinistre e destre politiche storiche e, nel secondo capitolo, anche alle sinistre radicali. Successivamente, individua quelle influenti rappresentazioni della diade destra/sinistra che hanno accompagnato e segnato la trasformazione delle culture politiche del primo Novecento in quelle che oggi troviamo ad occupare la scena.

Sarà dal quarto capitolo in avanti che i semi di questa interpretazione orientata cominciano a germogliare, e nel quale viene mostrato come l’opposizione Destra/Sinistra possa, in un diverso contesto, sviluppare una funzione egemonica che Gramsci avrebbe chiamato di ‘rivoluzione passiva’, ovvero di neutralizzazione delle forze effettivamente in campo (o potenzialmente in campo) imponendo variazioni meramente formali. Il neoliberismo, attraverso la falsa opposizione polare D/S (da ora, Destra/Sinistra), vince la sua battaglia neutralizzando qualsiasi alternativa effettiva. Questa interpretazione è messa alla prova descrivendo le sfide che la situazione attuale pone, ed il fabbisogno di interpretazione della sua articolazione concreta. È qui che, soprattutto, vale la sfida dell’autore. Qui si vede se la descrizione fraintende.

L’ipotesi finale, chiaramente un abbozzo che attende maggiore sviluppo, è di passare da una rappresentazione binaria, che forza ogni fatto della vita ad essere giudicato per la semplice vicinanza o lontananza da un ideale, ad un modello topologico fondato su coppie orientative (Differenze/indifferenziato; Identità/differenza; Occidente/Oriente; Tradizione/emancipazione; Inclusione/esclusione; Amico/nemico; Ospitalità/Ostilità).

 

La polarità morale

C’è un ordine sottostante a questo discorso, una precondizione di natura direi morale: è la differenza, fatta anche di alterità organica direi, tra ‘classi dominanti’ e ‘popolo’ (se pure negata come alternativa all’avvio). La ripresa cioè, nel cuore del dispositivo, di qualcosa di profondamente Novecentesco (peraltro con esplicito richiamo alle posizioni di don Sturzo, da una parte, e Antonio Gramsci, dall’altra). Per comprendere la tesi per la quale la diade D/S, rappresenterebbe ormai niente di più di un’articolazione interna alle ‘classi dominanti’ bisogna dare uno sguardo a questo punto.

Un livello di superficie è quello per il quale ogni élite forza il mondo reale, quello dell’esperienza comune e ‘della vita’, entro categorie e strutture poste a priori e possedute in esclusiva. Un dover-essere che si riconduce alla fine ad una violenza. A che cosa in sostanza? Direi alla persona inserita sempre originariamente e organicamente in una comunità. Connessa e legata a beni che Charles Taylor chiama sociali e non riducibili[3], come la cultura, la lingua, o le solidarietà. Beni che sono costitutivamente sociali; non sono riducibili a pura strumentalità e funzionano sempre in contesti di reciprocità. Quando ci si riferisce a tali beni bisogna comprendere il tessuto connettivo dei significati implicati, i quali rimandano sempre a collettività e ad una totalità di rimandi.

Cosa si intenda per ‘popolo’ è il punto per me centrale del testo. E si tratta chiaramente di un tema di tremenda difficoltà. Mettere insieme Sturzo e Gramsci non è sufficiente. Perché si tratta della questione, in entrambi, della trascendenza. Percepisco in Costa una sorta di tensione tra l’idea del radicamento nella terrosità di una tradizione, vista come intrinsecamente popolare con tutti gli avvertimenti del caso, e la difesa dell’universalismo di una ragione in ultima analisi riaffermata. Una ragione, peraltro, indispensabile per l’esercizio della techné della filosofia.

Esiste nel testo una critica frontale al marxismo, condotta con ragioni piuttosto buone, dirette contro il suo nucleo archeo-teleologico (che condivide, peraltro, con tutta la traiettoria della cultura ‘borghese’ Occidentale) e la riserva per le élite (nuove); ovvero per lo sforzo razionalista di mettere in forma qualcosa che, di per sé non lo ha, portandolo dall’esterno. Accusa più appropriata per il leninismo che per il lavoro specifico di Marx[4]. Perché in effetti delle due occorre scegliere una: o si determina uno scorrere immanente del movimento storico che contiene il proprio avvenire, secondo una tradizione che affonda le sue radici nell’escatologia Occidentale e perviene alla fine ad Hegel, per cui è nel ‘popolo’ che questa coscienza esiste, se pure da suscitare. Oppure, la coscienza non esiste e va portata nel progetto (determinando una rottura costruttivista, di fatto incompatibile). Queste diverse impostazioni attraversano diagonalmente ed interamente la storia del marxismo, ma anche di ogni movimento critico.

È pur vero che, come ritiene il nostro, il kairos è stato perso alla critica marxista. Tuttavia, qui rivive la profonda questione delle diverse possibili interpretazioni del progressismo come ‘furia del dileguare’ verso il tradizionalismo come interpretazione recuperante (e non come essenzialismo illusorio). Nel mio “Classe e partito[5], si cerca di far valere le intuizioni di Benjamin in questa direzione, come anche la critica interna di un autore troppo poco studiato come Antonio Labriola. Come scriveva il nostro, per attivare il potenziale della formazione e della trasformazione della società servono condizioni, ma serve anche la forza di intenderle come mutabili. Non basta, occorre capire come. Il soggetto del cambiamento non è nel modo di produzione capitalista in quanto tale, ma neppure dentro la tradizione. Compare al punto di congiunzione, scrivevo, della volontà e della necessità, del progetto e delle condizioni[6]. Quindi occorre rifuggire dalle impostazioni provvidenzialistiche (che si possono nascondere molto bene anche nella sfocata nozione di ‘popolo’, come nella famosa ‘socializzazione delle forze produttive’[7]), ma per questo compare in primo piano la questione del rapporto tra intellettuali e masse, tra partito e classe, tra le culture. O tra evento e condizioni.

 

Aiuta la diade D/S ad orientarsi in queste questioni? O quella, appunto élite/popolo?

 

Linee di faglia

La proposta centrale di Costa è di organizzare il discorso politico piuttosto intorno ad una pluralità di linee di faglia sensibili alla situazione, linee che debbano essere considerate contestualmente. Per cui è possibile che un dato attore esprima, in uno specifico contesto, una tendenza alla valorizzazione della differenza, e all’identità culturale occidentale, ma senza far passare l’emancipazione per la distruzione della tradizione e articolando un’inclusione non totalitaria, sapendo essere ospiti. È di Destra o di Sinistra? Probabilmente attraversa diagonalmente i ‘cataloghi’ (se intesi astrattamente).

Ma si allontana certamente da quella versione della ‘sinistra’ che la Wagenknecht[8] descrive come fatta da ‘moralisti senza empatia’, per i quali è più importante distinguersi, mostrando un comportamento moralmente irreprensibile che cambiare le cose (perché, in fondo, vanno bene così). Una ‘sinistra alla moda’ che vuole solo trovare conferma di sé e della propria superiorità[9]. Una ‘sinistra’ compiutamente liberale (ma nel senso assunto dal termine negli anni Ottanta e Novanta) che riduce le classi subalterne, ovvero l’insieme del ‘popolo’ essendosene loro sdegnosamente estraniati, a “mera particolarità”, a fronte dei valori “universali” difesi dai ‘ceti medi riflessivi’. È qui concepita come ‘particolarità’, in effetti, ogni e qualsiasi forma di radicamento o attaccamento, siano esse ad un territorio specifico o a tradizioni e culture locali. Ma anche ogni solidarietà concreta (a fronte delle forme di solidarietà astratta e normativa, sbandierate con grande trasporto in ogni occasione pubblica). Come è concepita quale risposta da condannare, in quanto opposta alle forze del progresso necessario ed allo sviluppo, ogni protezione dalla concorrenza e relativi stili di vita. Tutto quello che non collima con questa visione irenica di una vita avventurosa e ricca di energia, aperta al sempre nuovo e ad ogni rischio (per il quale aiuta avere adeguati capitali relazionali e materiali) è dalla ‘sinistra’ individuata come ‘reazione’. Quindi scompare sullo sfondo sia il conflitto capitale/lavoro (che, semmai, è riletto con opposta polarità) sia il ruolo delle classi subalterne. Emancipazione è sostituita da crescita.

 

Neocontrattualismo e nuova forma della politica

In uno dei più interessanti snodi del testo è illustrata la funzione che, nel dibattito filosofico e politico degli anni Ottanta ebbe la proposta neocontrattualista di John Rawls[10], con la sua enfasi neokantiana sulla ‘giustizia’ ed i ‘diritti individuali’ che, a parere di Costa, nascondeva il mascheramento dell’interesse particolare delle classi colte e abbienti come generale. Tutto il complesso meccanismo di Rawls, in polemica con l’utilitarismo[11], si riassume, secondo il suo critico forse principale, Michael Sandel, nel seguente enunciato:

 

“la società, essendo composta da una pluralità di persone, ciascuna con i propri fini, interessi e concezioni del bene, è meglio ordinata quando è governata da principi che di per sé non presuppongono alcuna particolare concezione del bene; ciò che giustifica soprattutto questi principi normativi non è il fatto che essi massimizzano il benessere sociale o promuovono altrimenti il bene, quanto piuttosto che siano conformi al concetto di diritto, una categoria morale data che precede il bene ed è indipendente da esso”[12]

 

Sandel obietta che i limiti di questa concezione, e dunque del genere di liberalismo proposto, sono meramente concettuali, vuoti, e riguardano lo stesso ideale. O, in altre parole, che l’idea di giustizia è imperfetta e incompleta sin nella sua aspirazione[13]. Infatti, come afferma lo stesso Rawls “i diritti assicurati dalla giustizia non sono soggetti al calcolo degli interessi sociali”, ma funzionano “come briscole nelle mani degli individui”. Si tratta di una neutralità fattualmente e materialmente impossibile in società ineguali, e trascura la natura sociale dell’uomo stesso. Anzi, in sostanza, neutralizza i valori di altruismo e benevolenza, risultando una sorta di giustizia del tutto astratta e disincarnata.

 

Quel che si impone in questo discorso, malgrado alcune voci contrarie[14], anche di parte anarcolibertaria[15], è uno sguardo da nessun luogo che di fatto elimina le differenze e tutta la dialettica sociale. Per come viene percepita dalla cultura politica della ‘sinistra’ allora tutte le differenze (comunità, tradizioni, identità collettive, appartenenze di classe) diventano in linea di principio di ‘destra’.

 

Per come la mette Costa:

 

“Il neocontrattualismo vive del miraggio di un punto di vista sottratto alla storia, ma lo fa proprio perché la sua funzione è proprio quella di presentare uno specifico sguardo, radicato in una determinata concretezza e che propone una precisa prospettiva (quella delle classi dominanti), come se fosse lo sguardo da nessun luogo, imparziale, che ha messo da parte cultura e interessi”[16].

Viene sistematicamente occultato attraverso la ricerca del “moral point of view”, il fatto ineludibile che ogni giudizio dipende dal contesto interpretativo e dalla posizione. Neutralizzandoli in effetti si delegittima il conflitto tra le posizioni e si articola quella che si manifesterà nel tempo come una postura chiaramente antidemocratica. Una sorta di bullismo verso le classi subalterne che devia sistematicamente l’attenzione su individui e singole diversità (purché non di classe).

 

Il socialismo

È questo il contesto nel quale alla fine Costa chiama in causa la tradizione socialista, presa in blocco ed alquanto da lontano (per evidenti ragioni di spazio), “da Owen a Marx, fino a Lenin”, come viziata dalla medesima frattura. Quella tra le avanguardie e le masse popolari. “Alla fine si ha la sensazione che debbano essere le classi dominate ad accettare di divenire organiche agli intellettuali”[17]. E se non lo fanno ricevono lo stigma di essere ‘piccolo-borghesi’ (immagino da parte di Lenin). In questo modo, però, vengono schiacciate tra di loro cose molto diverse: la teologia negativa[18] di Marx e la comprensione costruttivista dell’impossibilità della parusia di Lenin. L’idea che la classe sociale subalterna, alla quale si estorce il valore che si distribuisce alle classi dominanti nella loro articolazione (tramite profitto, interesse e rendita), possa mutarsi direttamente in classe universale che ha il compito necessario ed inscritto nella storia stessa (dei modi di produzione) di disalienare integralmente il mondo sociale di Marx, da una parte, e la radicale relativizzazione ed estensione del conflitto all’insieme dei popoli oppressi dall’imperialismo in Lenin, dall’altra. Le applicazioni del ‘marxismo’ alle lotte di liberazione concrete (e alle lotte per la difesa delle tradizioni popolari).

 

La sinistra aristocratica

Nella sua critica alla sinistra ‘antagonista’, se possibile ancora più aspra, si vede ancora meglio questa trasformazione che cessa di individuare il soggetto da emancipare nelle classi lavoratrici e lascia svanire con esse l’intera questione dell’eguaglianza. Quel che guadagna il centro della scena, mentre la stessa composizione sociale muta, è il “desiderio dissidente”.

Qui avviene un radicale rovesciamento: le classi popolari e la ‘gente comune’ divengono “il potere” dal quale emanciparsi. Nel senso che si tratterebbe di coloro che opprimono le diverse forme di diversità e desiderio con la loro normatività. Le tradizioni culturali sono identificate direttamente con l’oppressione sull’individuo, perdendo la circostanza che queste, nella loro umana imperfezione, sono di fatto il radicamento stesso e l’essere stesso delle classi popolari.

 

“Le tradizioni sono forme di legame, e le lotte del movimento operaio furono sempre lotte per resistere alla dissoluzione del legame: è questo il nucleo di cui si nutrono le rivendicazioni di giustizia sociale e le lotte per porre un limite al dominio del capitale, poiché il capitale non conosce limiti alla sua volontà di valorizzazione, mentre le classi popolari rivendicano il loro diritto al legame”[19].

 

Il punto è che la classe non esiste in sé (come affermo anche nel mio Classe e Partito), né sono definite solo dal loro complesso rapporto con i mezzi di produzione, né esistono solo nella lotta, ma esistono, per Costa, “come un’articolazione di relazione umane, come una struttura di legami”. La produzione eventuale e non necessaria, di un “noi”, è un effetto che non è determinato dalla posizione comune rispetto ai mezzi di produzione o da comuni interessi economici. Aspettarselo ha condotto ad un’inutile attesa e deviato le forze (ma qui la lezione del Labriola, ripresa da Gramsci, aiuterebbe). Inoltre, ha condotto in un cono di ombra il fatto che le strutture di legami, di socializzazione, le culture e la tradizione sono distrutte dal capitalismo (che non ha alcuna componente socializzante intrinseca, come vorrebbe sul punto Marx, che intendeva sfuggire al volontarismo della tradizione messianico-comunistica storica ed alle forme di rimestaggio nelle bettole del futuro dei socialisti utopisti[20]).

 

Terzo passaggio, il post-moderno. La nuova macchina interpretativa si fonda sulle categorie di “dispositivo disciplinare”. In questo modo:

 

“il potere non sta nello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, non consiste in un’ingiusta ripartizione del prodotto sociale che crea rapporti di subordinazione e in un modo di produzione che crea ineguaglianza e dominio. Il potere consiste invece nei dispositivi disciplinari, uno dei cui nuclei è che ‘nel sistema disciplinare non si è, secondo le circostanze, a disposizione di qualcuno, ma si è perpetuamente esposti allo sguardo di qualcuno e, in ogni caso, nella condizione di poter essere costantemente osservati’”[21].

 

Si tratta, quindi, di un dispositivo anonimo e pervasivo che fa perdere ogni possibilità di distinguere tra emancipazione ed assoggettamento, portando l’attenzione verso un impossibile (e controfattuale) liberarsi di ogni legame. In questo modo, si potrebbe dire secondo un eterno prolungarsi della adolescenza, la genealogia si tramuta in una farsa. Si tratta, ancora per Costa, di una “idea eccessiva”, radicata in una cultura che non può chiamarsi se non aristocratica e individualista. Questa idea diviene il concetto guida di una sinistra “antisistema” che si incontra di fatto con la destra aristocratica e l’anarchismo individualista di Nozick (che ho conosciuto personalmente e posso confermare come gentilissima ed aristocratica persona).

In sostanza l’esclusione (che sarebbe all’origine della stessa società) sostituisce lo sfruttamento, creando una nuova teologia negativa di grande potenza. Foucault (il cui orientamento è noto), per Costa, propone la propria specifica prospettiva come emancipazione.

Anche per questa via si afferma l’idea che la lotta per migliorare le proprie materiali condizioni di vita è di fatto ignobile e l’unica lotta degna è quella per il ‘rango’. Con questa ripresa di motivi espressamente aristocratici e premoderni (molto presenti in George Bataille) la stessa lotta di classe diventa ignobile, se non per la distruzione materiale che può provocare. Si tratta di un anarchismo estetizzante del tutto estraneo alle classi popolari. Il popolo diventa anzi chiaramente il nemico, ad esempio in Deleuze, e solo la cultura alta è chiamata ad opporsi al potere del ‘normale’. Si forma una sorta di “tribù di intellettuali-ribelli, salda nella convinzione di essere illuminata, sovversiva, eversiva e unica, di essere la comunità dei desti, contrapposta alla massa dei dormienti”[22].

 

Lotta alla tradizione

Nella prospettiva della sinistra progressista, come in quella della radicale, dunque, la nozione di eguaglianza si lega ormai a quella di lotta alla tradizione e per i diritti individuali. Realizzare l’eguaglianza è, in definitiva, abbandonare la tradizione. Si tratta di contestare il mondo da un punto di vista universale, del tutto disincarnato e da nessun luogo, rimuovendo la storia. È in questo senso che la diade D/S si traduce in un’operazione egemonica che svolge la funzione di impedire l’affermazione di altre opposizioni. Sono possibili altre linee di frattura che si presentano diagonalmente alla D/S, per come oggi si presenta, come capitalismo/anticapitalismo, alto/basso, popolo/élite, tradizione/innovazione, natura/cultura, …

Oltre a quella socialista, tradizione che non è di sinistra[23], anche quella di Sturzo è una vicenda politica e culturale che non si conforma allo schema D/S, perché si muove in un orizzonte di significato del tutto diverso. Ad esempio, gerarchia e uguaglianza non sono in opposizione reciproca, tradizione ed emancipazione sono parti di un solo movimento e la mobilità sociale non è competizione, ma resta connessa al concetto e la pratica di ‘servizio’. Lo scopo generale dell’azione politica, in linea con l’evoluzione storica, è di inserire le classi popolari nella storia nazionale[24]. Il medesimo obiettivo lo pone Gramsci[25].

 

Il populismo

Né il cosiddetto ‘populismo’, che abbiamo attraversato in versioni ‘di destra’ (dominanti) e ‘di sinistra’ negli ultimi anni, è la soluzione. Anche esso è un’articolazione entro il movimento delle élite, in quanto produce formazioni verticistiche, che raccolgono consenso volatile e meramente negativo, sconnesse con il popolo. Rappresenta al più il “nomadismo” di una massa di arrabbiati che si lasciano accumulare in “banche dell’ira”. “Banche”, inoltre create dai social media, i quali sono ben lungi dal rappresentare un reale. Essi, letteralmente, lo “fanno accadere”. In sostanza essi, seguendo una dinamica autoconsistente, disfano continuamente e creano aggregazioni effimere intorno a singoli temi. Ma qui c’è un punto da leggere con attenzione: non si tratta di parvenza, lontana dal mondo della vita. In effetti le esperienze significative, almeno alcune, sono ormai fatte nel mondo dei social. Questi creano un “mondo della vita mediatizzato”, che contaminano in modo crescente esistenze e identità politiche prima separate, nel contesto di una sorta di “epidemia di idee”. Con tutti i suoi limiti si tratta di un nuovo modo di “essere insieme nel mondo”, nel quale ad essere scambiate sono soprattutto emozioni.

 

L’Altro dall’Occidente.

Un altro grande tema affrontato nel testo, che può essere letto anche come un catalogo delle questioni di senso poste dal presente, è il rapporto da intrattenere con l’altro dall’Occidente. La tendenza dell’Occidente ad egemonia anglosassone (ovvero l’Occidente realmente esistente) è di sostituire il legame sociale, determinato da tradizioni e ragione, con il consumo. Contrariamente a quanto ritenuto da Marx (il quale, però, aveva davanti alla sua esperienza la transizione dal mondo protoindustriale dell’epoca illuminista alla prima industrializzazione, mentre noi abbiamo il passaggio dalla terza alla quarta rivoluzione industriale), la produzione di merce, la sua distribuzione ed i fenomeni di consumo non socializzano, ma isolano. La promessa di socializzazione del capitalismo maturo è fondata essenzialmente sulla disponibilità di tempo e ricchezza per ciascuno, ovvero sulla libertà di accedere a percorsi di vita scelti individualmente, avendone le risorse. Chiaramente tale promessa di salvezza[26], idolatra in senso tecnico, è costantemente tradita dal sistema sociale. Ma, nel contesto di un indebolimento progressivo (o parziale) delle forme tradizionale di legame sociale, la promessa di salvezza secolare raggiunge – anche per effetto dell’estendersi delle relazioni di scambio e di penetrazione del capitale finanziario – strati ‘borghesi’ in ogni paese, creando le condizioni di crescenti conflitti interni. Molto spesso è proprio la religione ad assumere il ruolo, non solo in questi paesi, di resistenza.

Sulla base dello schema interpretativo e categoriale prima descritto, a questo punto la sinistra antagonista e quella istituzionale, concordi, si impegnano a condannare le resistenze come arretratezza e ‘fascismo’, e la mondializzazione come soluzione dei problemi dell’umanità. Ovvero come destino di salvezza. In primo luogo, è l’impero americano che viene identificato come l’alfiere di questa trasformazione che porterà all’avvenire di pienezza. La differenza è che le letture post-operaiste o trotskiste individuano questo movimento tendenziale come la via per la rivoluzione mondiale sincronizzata, mentre le letture della sinistra istituzionale direttamente come la strada che senza scossoni porta alla pienezza della libertà e della prosperità.

 

Tuttavia non sta andando così. Piuttosto si assiste nell’ultimo decennio ad un arretramento della mondializzazione e all’emergere, nei conflitti anche militari, di un mondo multipolare. In questo contesto l’altro diventa in mostruoso e l’Occidente ancora di più la spada della verità. Acciaio della spada è l’universalismo astratto che nega in radice il pluralismo delle culture. La posizione di Costa in questo difficile incastro è di liberarsi di questa autorappresentazione celebrativa ed etnocentrica. Ma lo fa in un modo particolare, impostato in un libro precedente, L’assoluto e la storia[27], sul quale ho fatto un recente post di lettura[28]. La tesi è che “la sinistra progressista non difende l’Occidente: difende l’universalismo, davanti al quale si deve cancellare, in quanto particolare, la stessa cultura occidentale”[29], ovvero la cultura occidentale storicamente tramandata (che è fatta risalire all’apertura greca). Tecnicamente la cultura della sinistra progressista esclude, in altre parole, che l’universalità sia un rapporto con la particolarità e la immagina in senso astratto come un confluire di tutto su un modello in sé perfetto e dato. Il neocontrattualismo ne è stato un esempio.

Contrapposto a questa idea di ‘universalismo astratto’, orientato ad un modello posto, Costa propone un movimento di ‘contaminazione’ (termine che assorbe da Derrida[30]), ovviamente tra differenti. Una sorta di “universalismo storico” che presuppone la capacità di decentrarsi.

 

“A questo serve la capacità di decentrarsi, senza la quale l’Occidente perde la sua vocazione all’universalismo storico e diventa soltanto una cultura tra le altre, solo con la pretesa – esorbitante e boriosa – di dovere abolire tutte le altre”[31].

 

Sinceramente qui mi pare di rintracciare nelle parole adoperate un residuo dello spirito di maestro che parte della cultura stessa dell’Occidente, proprio dall’apertura greca, contiene. Gli occidenti sono una cultura tra le altre, alla fine, e da questo non si può scappare. Uno degli effetti del tempo, o, se vogliamo, uno degli spiriti emergenti del mondo che si cerca di far tornare nella bottiglia a furia di bombe, è che i paesi ‘non bianchi’ emerge alla consapevolezza che la pluralità di civiltà e culture esistenti ha pieno diritto di considerarsi pari con quella occidentale. La quale, ha pienamente ragione Costa, è a sua volta pluralità. Le civiltà cinese, indiane e islamica, alcune storiche radici delle culture russa[32] e sudamericana (il ‘buen vivir’), per dire solo alcune mentre andrebbero ricordate anche le civiltà africane e quelle del pacifico orientale, rifiutano crescentemente la visione gerarchica lungo il maggiore o minore ‘avanzamento’, o ‘modernità’. Ciò non significa rovesciarla, presumendosi più ‘avanzati’, o più ‘civili’.

 

Diramazione

Il concetto è stato espresso da Xi Jimping nel 2019 con queste parole: “le civiltà comunicano attraverso la diversità, imparano l’una dall’altra attraverso gli scambi e si sviluppano attraverso l’apprendimento reciproco[33] e, in un discorso del 2014, richiamando il concetto di ‘armonia senza conformità[34] che riconosce il mutuo apprendimento, senza gerarchia o maestri, come la forza motrice del progresso dell’umanità. Più profondamente qui ‘razionale’ e ‘vero’ sono concepiti come prodotti del ‘vivente’ (Dao) che è immerso in una totalità di relazioni, anziché come in occidente, come attributi oggettivati dell’essere (interpretati da un potere).

Apprendimento che implica tre principi:

–        le civiltà sono varie e rappresentano, ciascuna, la memoria collettiva dei diversi paesi, tutte sono frutto del progresso dell’umanità.

–        Le civiltà sono eguali nel valore e ciascuna ha punti di forza e debolezza, “non esiste al mondo una civiltà perfetta, né una priva di merito. Le civiltà non si dividono in superiori e inferiori, buone o cattive”[35].

–        Solo l’inclusione rende grandi, se ogni civiltà è unica la cieca imitazione è estremamente dannosa, “tutti i traguardi delle diverse civiltà meritano rispetto, tutti devono essere tenuti in gran conto”.

Quindi bisogna concluderne che i popoli di tutto il mondo sono interdipendenti, “io sono in te, tu sei in me” e formano un “destino comune”. Il pensiero strategico cinese è pieno di questa concettualizzazione; invece di agire per dominare (e uniformare il mondo) punta a che tutto, secondo la sua propensione, si trasformi (hua). Cerca di restare “sotto il cielo” per individuare “dove va la luce”, accompagnando la situazione al suo massimo potenziale ed effetto. Nel concetto di tianxia (spesso tradotto in “la via del cielo”) è incluso questo particolare universalismo concreto, che implica una dialettica dell’inclusione, e concepisce la razionalità come prorompere da una situazione collettiva accettata senza coercizione (anziché essere radicata nel cogito individuale), e la verità come prodotto dell’armonia. È in questo senso che il mondo è di tutti, 大道之行也天下為公, “quando prevarrà la Grande Via, l’Universo apparterrà a tutti”, un verso del testo confuciano “I riti”, ripreso da Qing Kang Youwei e dal Sun Yat-sen nell’espressione “Tian xia wei gong”.

 

La reciproca fecondazione delle culture può essere illustrata attraverso un episodio della storia delle idee: nel 1953 Martin Heidegger in “La questione della tecnica[36] dichiarò che l’essenza della tecnologia moderna non è a sua volta tecnologica, ma filosofica, nel senso che consiste nell’imporre una trasformazione della relazione tra uomo e mondo per la quale ogni essere è ricondotto ad essere ‘fondo’ o ‘riserva’, ovvero è ridotto ad oggetto che può essere misurato, calcolato e sfruttato. Questa linea di riflessione, che può essere compresa come riferita alla tecnica nella modernità (in quanto la tecnologia è antica come l’uomo, ma questi ha vissuto per quasi tutto il suo tempo in un mondo ‘incantato’ al quale sarebbe temerario proiettare le nostre categorie e comprensioni[37]) è stata pensata come propria dell’Occidente. In questo modo il passaggio dalla techné come poiesis, che porta alla luce delle relazioni, alla tecnologia come gestell che appresta in una sorta di telaio è letta come conseguenza necessaria della metafisica occidentale. Si tratta di un destino inscritto nell’origine. Questa critica, pur nei suoi limiti, fu accolta da diversi pensatori orientali, in particolare nella Scuola di Tokyo e nella critica daoista della razionalità tecnica. In quest’ultima il gelassenheit (serenità, tranquillità, opposta alla volontà di potenza[38]) heideggeriano viene riletto come wu wei (non-azione).

La trascrizione di questo pensiero deriva, in entrambi i paesi, dallo sconcerto per gli effetti destabilizzanti e distruttivi della tecnica (in occidente guerra, industrializzazione di massa ed estensione degli effetti anomici del consumo, in oriente le rapide trasformazioni industriali ed il loro effetto sulla cultura tradizionale e popolare).

 

Del wu wei, Stanza 47 del Dao[39].

  1. Non serve varcare la porta di casa
  2. per comprendere ciò che sta sotto il Cielo;
  3. né dalla finestra scrutare
  4. per comprendere il dao del Cielo.
  5. Più esci e più t’allontani,
  6. meno comprendi.
  7. Il Saggio, pertanto, comprende [le cose] senza muoversi [verso di loro],
  8. [le cose] nomina, senza bisogno di averle prima scorte.
  9. [Agli esseri] assicura piena realizzazione, senza farne oggetto delle proprie mire.

 

Il termine zhi, che ricorre più volte in questo brano (conoscere, sapere, agire nel mondo) indica un esperire integralmente, dislocando la vera conoscenza (che passa anche per il linguaggio) attorno e non dentro il soggetto, perché nel Laozi a questo, al soggetto, non è riconosciuto il privilegio di detenere un sapere in senso esclusivo. Più che comprendere oggetti, secondo la tradizione Occidentale, qui si tratta dell’insieme delle relazioni che rendono gli oggetti tali, in un circolo che comprende il soggetto. Il Dao (il mondo nella sua totalità di destini che interagiscono) è esperibile solo perdendosi ed abbandonandosi. Il riferimento al “senza muoversi”, indica una forma di comprensione che non dipende né da esperienze cognitive precedenti o da dati empirici; una comprensione che deriva dall’essere connessi al Dao.

Per questo il ‘Saggio’ si può dedicare al governo del mondo secondo una caratteristica linea di non-ingerenza, la quale, proprio per questa profonda immersione (ma originaria) assicura la piena realizzazione delle predisposizioni delle cose stesse. L’immobilismo produce contemporaneamente il massimo di armonia. E’ così che il saggio può ‘nominare’ (v. 8) le cose.

 

Il punto è che tutte le polarizzazioni proprie della razionalità occidentale-greca, come uomo/dio, invisibile/visibile, eterno/mortale, certo/incerto, permanente/mutevole, potente/impotente, puro/misto, certo/incerto non sono presenti in Cina[40], e la tecnica corrisponde a relazioni diverse con gli dei, gli umani ed il cosmo. Agisce una sorta di ‘risonanza’ (ganying) che genera un sentimento in relazione ad un’obbligazione morale (sia in senso sociale che politico), effetto della unità tra l’umano ed il cielo. Ovvero dell’umanizzazione del divino avvenuta in Cina (mentre in occidente avviene il movimento opposto di separazione). Ganying implica un’omogeneità tra tutti gli esseri e un’organicità delle relazioni tra parte e parte e parte/tutto. Nel contesto della tecnica questa unificazione agisce tenendo insieme Qi (strumenti) e Dao. Si tratta di una diversa focalizzazione, come propone di considerare Mou Zongsan, tra noumeno e fenomeno[41].

 

 

L’Occidente stesso, d’altra parte, ha formato sé stesso e la sua propria autocomprensione nella scoperta dell’altro, durante il 500, proprio quando, anche per effetto di questo subitaneo e potente allargamento di visione e drenaggio di enorme ricchezza (precondizione della stessa ‘rivoluzione industriale’) si accorse della propria differenza[42]. Sfortunatamente lo ha fatto nel contesto di una stagione di violenza e sopraffazione, proiettando quale giustificazione della violenza praticata[43] la propria superiorità e l’autoattribuito destino di civilizzazione. Prima delle fabbriche della prima ‘rivoluzione industriale’ vi fu l’economia di piantagione, innervata da scambi commerciali a lungo raggio che interessavano le materie prime e le merci umane (schiavi neri per lo più) a rendere ricca l’Europa.

Nel mettere a fuoco questa autocomprensione ha progressivamente oscurato (in parte in anni proprio recenti) le origini plurime e cooperative, ed i prestiti, della impresa tecnico-scientifica moderna, e, d’altra parte, tutte le tradizioni razionaliste presenti nelle altre culture (in quella araba, intanto, e poi anche in quella indiana[44]). In Orizzonti, libro recente di James Poskett[45], viene raccontato il contributo della medicina azteca, della scienza islamica, del rinascimento ottomano, dell’astronomia africana o cinese, ed indiana, dei navigatori del pacifico, delle relazioni di Newton con gli scienziati russi, dei naturalisti occidentali con quelli Tokugawa, del dawinismo Meiji o Qing, della ingegneria ottomana e della fisica giapponese, dei viaggi di Einstein in Cina e delle genetiche indiane, russe. La scienza moderna segue il mito di essere stata inventata da poche menti e tutte europee, tra il 1500 ed il 1700. Copernico riprende procedimenti matematici che individua in testi arabi e persiani, mentre astronomi ottomani percorrevano l’Europa per scambiare visioni e teorie.

D’altra parte, la scienza occidentale è anche debitrice della tradizione ellenistica, III secolo a.C., cosiddetta “Alessandrina”, dove lavorarono Euclide, Ctesibio, Erofilo di Calcedonia, contemporanei del fondatore della teoria eliocentrica, Aristarco di Samo. Ad Alessandria studiò anche Archimede, Eratostene. Crisippo invece ad Atene, mentre bisogna ricordare anche Filone di Bisanzio, Apollonio di Perga e Ipparco di Nicea del secolo successivo[46]. Tutto questo fervore terminò con la conquista romana[47], anche se tracce si registrarono fino al tardo impero ed alla vittoria del cristianesimo. Questa scienza non riguarda oggetti concreti ma enti teorici specifici, ha struttura rigorosamente deduttiva, si applica con regole di corrispondenza. Questa struttura non è presente nella tradizione filosofica classica (Platone ed Aristotele), ma si addensa a partire dalla conquista macedone della Persia e dell’Egitto. Questa è la tesi di Russo, in quanto al momento della conquista la superiorità tecnica delle ben più antiche civiltà mesopotamica ed egiziana era notevole. Le civiltà più antiche erano state in costante contatto con la civilizzazione greca, Talete e Pitagora hanno debiti riconosciuti con l’Egitto (il secondo anche con il più lontano oriente), ma quando i macedoni dovettero gestire economie e tecnologie enormemente più complesse, con metodi gestionali e di analisi razionale in parte propri, compare una nuova capacità di connessione tra il livello astratto delle teorie e l’azione concreta.

La ripresa della prospettiva scientifica, in un nuovo e più potente contesto e sotto motivazioni molto più forti (siamo negli anni in cui l’Europa si allarga al mondo, ed ha bisogno di mettere a frutto il dominio che si presenta e via via consolida) avviene nei ‘rinascimenti’ anche come riscoperta, spesso tramite manoscritti arabi, dell’ottica, delle maree e gravitazioni, delle cosmologie, etc. ellenistiche[48].

La cultura è trasmissione e contaminazione. Negarlo è uno specifico dispositivo di potere, che si affaccia ogni volta si viene sfidati.

 

L’apertura ed il punto di vista dell’altro

Torniamo al punto, se, dunque, per Costa “non siamo più in Occidente, e il compito primario politico è tornare ad abitarlo”, è necessario decentrarsi ed assumere il punto di vista dell’altro. E continua:

 

“il che non significa rinunciare all’universalismo che caratterizza la cultura europea, né accettare un realismo geopolitico spicciolo che riduce tutto a rapporti di forza. Tra le forze della storia vi sono anche i processi di incremento di riflessività e analisi razionale. Si tratta solo di lasciarsi alle spalle la versione astratta e astorica dell’universalismo, declinandolo storicamente”.

 

In questa formulazione fa problema, dal mio punto, il termine “incremento”, che sembra alludere ad una prospettiva ancorata o ad un naturalismo o ad una filosofia della storia sottostante. È chiaro che si tratta di formule sintetiche le quali non vanno prese in parola. L’autore è più che attrezzato per non scivolarvi[49] e la formula va compresa nel contesto delle attuali discussioni nel ‘mondo della vita’ frequentato.

La questione cui mira l’autore è di filosofia politica, non certo di ontologia culturale. Non esistono solo i diritti delle persone, come vorrebbe una influente tradizione che va da Hobbes in avanti, ma anche i diritti delle tradizioni e delle collettività.[50]

 

In questa prospettiva lo scontro si dà tra chi è radicato in una storia, e cerca di rinnovarla, e chi ha perso ogni memoria e quindi ha in odio ogni cultura ed ogni differenza. La ragione è che ogni contenuto non proprio è percepito come una catena. Invece, “per colui che le vive come contenuti interiori sono vincoli che legano insieme la sua anima, sé con gli altri, dunque la polis, e la città come luogo in cui una particolarità si apre a tutti gli altri”[51]. Se manca questo da una parte cresce la necessità del normativismo, dall’altra le sensazioni sono l’unico metro e svanisce la storia come responsabilità.

In Identità/differenza si tratta di aprirsi alle altre tradizioni, al loro pluralismo, e quindi sapere che ciò significa restare disponibili ad una ricerca in comune di una verità che si sottrae. Per cui la tensione all’intesa va compresa piuttosto come disponibilità al reciproco mostrarsi aperti alla verità (sapendola inafferrabile) ed alla contaminazione reciproca. Ad un confronto trasformante.

Nella coppia Occidente/Oriente, bisogna riconoscere che non si tratta di pensarsi come verità, quanto di rapportarsi ad essa come cammino e distanza. Restando aperto all’altro e disponibile a lasciarsi interrogare dalle credenze. Se l’Occidente, al suo meglio, è interrogazione, allora non può essere riassorbito dall’universalismo astratto, che è possesso (della verità).

Se si guarda alla coppia Tradizione/emancipazione si deve riconoscere che una tradizione è sempre il modo in cui una comunità storicamente data si apre al problema dell’Assoluto. Perché non c’è apertura alla verità se non a partire dall’essere situato. In altre parole, l’avvenire si nutre del passato (come voleva Benjamin[52]).

In Inclusione/esclusione si torna al tema della contaminazione, ha luogo quando le identità si formano e trasformano nell’incontro. Allo stesso modo in Amico/nemico è questione di riconoscere che l’amicizia è sempre relazione tra diversi, e in Ospitalità/ostilità è questione di riconoscere di avere da ricevere per essere ospitali. Il problema dell’Occidente è che non pensa di avere da ricevere nulla, ma di essere il maestro (a volte severo) di tutti.

 

Note conclusive

Nel post precedente sul testo di Costa, L’assoluto e la storia, avevamo concluso ricordando che se il proprio di ogni cultura è quello di non essere identica a sé stessa (perché la sua stessa nozione è il risultato di una lotta provvisoriamente vinta, di una egemonia e delle sue necessarie astrazioni), allora questa non si può dare senza l’altro da sé; senza specchiarsi in esso. Questa apertura all’altro da sé è, d’altra parte possibile perché il sé proprio, e quello con cui ci si specchia, sono entrambi rimandi di riflessi di ‘altro’.

 

La ricerca vana di una mai presente purezza è, a fronte di ciò, solo un situarsi che nasconde una hybris.

 

Riesce il testo nel suo compito di sgombrare il terreno dalle macerie della diade D/S? E farlo senza terminare nel relativismo apolitico, per cui tutto va bene e resta solo il potere nudo, rintracciando un movimento di ricerca insieme al suo oggetto impossibile (la tradizione, o l’identità)? A me pare che si muova sul crinale di alta montagna, nel quale l’aria leggera, pura ma rarefatta, fa da contraltare al rischio costante di mettere il piede su una malferma pietra. Tuttavia, il passo va affrontato.

La tradizione, come l’identità, non è identificabile quale campo di conflitti a partire dalla diade D/S, ma solo nel confronto con l’altro da sé. A condizione, però, che questo confronto non sia già risolto nello schema di ruolo maestro/allievo. In esso, tentazione costante del non-dialogo polare tra D e S, ogni identità (inclusa quella del mitico Occidente) è infatti congelata in astrazione. Non ritengo che ciò significhi, nel testo di Costa, che le tradizioni politiche critiche, sulla linea che emana dalle grandi rivoluzioni (plurali al loro interno e nella loro essenza contingenti[53]), ovvero quella socialista e democratico-radicale, siano da oltrepassare insieme alla diade criticata. Non è difficile rintracciare nella discussione sulle coppie di orientamento (e nella loro stessa scelta) proposta dall’autore una loro chiara presenza.

Quello di Costa è un richiamo, piuttosto, a tornare al popolo. Dove ciò significa allontanarsi con decisione da quei ‘moralisti senza empatia’ e ‘aristocratici senza popolo’ che sono divenuti nel tempo le sinistre (sia istituzionali sia radicali). A tale scopo è mobilitato un apparato di notevole interesse ed estensione, ricostruiti i passaggi storici ai quali abbiamo assistiti negli ultimi quaranta anni, e criticato anche l’essenzialismo incorporato nella tradizione critica marxista. I due punti sui quali ho concentrato la discussione in questo non brevissimo testo sono questa critica, corretta ed ingenerosa al tempo, e la questione del nostro tempo: il riposizionamento della cultura occidentale di fronte alla sfida del mondo multipolare. L’attacco portato all’universalismo astratto mi trova pienamente in accordo, e questo è tanta parte della presa di distanza dall’astratta diade D/S per come si presenta concretamente oggi in campo.

Nel produrre un pensiero politico, ovvero rivolto all’azione, si propone di sostituirlo con un movimento storico e reciproco di contaminazione. Che Costa chiama “universalismo storico”. Il termine “storico”, nella mente occidentale influenzata inevitabilmente dalla freccia del tempo, riletta nella tradizione escatologica ebraica e cristiana come cammino della salvezza e del compimento, fa però problema. Varrebbe lasciarlo, insieme a quello ‘universalismo’. Non esistono valori, principi e culture universali, se non per effetto di una decisione, di una imposizione. In primo luogo interna, volta a ridurre la pluralità e la storia dei conflitti che sono stati dati. A far tacere il suono dei morti.

 

E’ proprio per questo, per dimenticare l’universalismo ma non la tensione all’apertura, che si possono usare le coppie proposte, per riattivare la loro voce e riprendere la lotta.

[1] – Costa, V., Categorie della politica. Dopo destra e sinistra, Rogas Edizioni, Roma 2023.

[2] – Tutti questi riferimenti da un post dell’autore su Facebook, 20 novembre 2023.

[3] – Taylor, C., Philosophical arguments, Harvard University Press, Cambridge, 1995, cap.7.

[4] – Marx non è un autore compiutamente coerentizzato. Nella sua opera convivono strettamente, in ogni momento, l’apertura di un filosofo di scuola hegeliana, di uno scienziato al senso dell’Ottocento ipnotizzato dalla purezza delle leggi newtoniane, e della fascinazione empirista, e di un politico che vuole trasformare il mondo (e non solo capirlo). Tuttavia, la liberazione diventa possibile, per Marx, solo perché è immanente nella situazione concreta (ovvero in quel che chiama “modo di produzione” capitalistico). Si tratta di una teleologia, e quindi di una impostazione archeo-teleologica, che conduce alla socializzazione delle forze produttive verso un esito nel quale si avrà una società interamente individualizzata nella quale ognuno troverà spontaneamente il proprio posto.

[5] – Visalli, A., Classe e partito. Ridare corpo al fantasma del collettivo, Meltemi, Milano 2023.

[6] – Visalli, cit., p. 288

[7] – Termine che indica l’aumento progressivo e necessario, implicato nella stessa crescita del contenuto tecnico-scientifico del produrre e del lavoro, del controllo cosciente dei lavoratori sulle modalità meramente sociali e tecniche della produzione stessa. Per questa ragione, molto profonda, il comunismo è l’esito immanente e terminale del processo di socializzazione capitalistico. Per questa ragione ciò che rallenta lo sviluppo delle forze produttive allontana il momento in cui l’avvenire si manifesterà.

[8] – Wagenknecht, S., Contro la sinistra neoliberale, Fazi Editore, Roma 2022, p.43.

[9] – Si veda anche l’eccellente Friedman, J., Politicamente corretto. Il conformismo morale come regime, Meltemi, Milano 2018.

[10] – Si veda almeno John Rawls, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano 1981 (ed. or. 1971), e John Rawls, Liberalismo politico, Edizioni di Comunità, Milano 1994 (ed.or. 1993).

[11] –  Ovvero alla presunzione che in fondo una politica sia da considerare giusta quando, semplicemente, produce la maggiore felicità per il maggior numero di membri della società. Una formulazione così semplice è giudicata da alcuni ovvia (Hare, 1994) mentre da altri completamente difettosa (Williams, 1985). L’utilitarismo è infatti una teoria parsimoniosa, apparentemente semplice e naturale che si può riassumere in una frase: ogni azione è giudicabile solo per le sue conseguenze e queste lo sono per la somma dei benefici in termini di utilità.

[12] – Sandel, M., Il liberalismo e i limiti della giustizia, Feltrinelli Milano 1994 (ed. or. 1982), p. 11.

[13] – Per questa ricostruzione si veda “Michael Sandel, il liberalismo ed i limiti della giustizia”, Tempofertile, giugno 2019.

[14] – Sono quelle dei cosiddetti “comunitari”, ovvero tra i più rilevanti: Alasdair MacIntyre, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, Feltrinelli Milano 1988 (ed. or. 1981), e Michael Walzer, Sfere di giustizia, Feltrinelli Milano, 1987 (ed. or. 1983).

[15] – Nozick, R., Anarchia, stato e utopia. Quanto stato serve?, Il Saggiatore Milano 2000 (ed. or. 1974).

[16] – Costa, V., cit., p. 25

[17] – Costa, V., cit., p. 39

[18] – Si veda, oltre a Visalli, A., Classe e partito, op.cit., Dussel, E., Le metafore teologiche di Marx, Inschibboleth, Roma 2018 (ed.or. 1993).

[19] – Costa, V., p. 63

[20] – Si può vedere su questo punto, su tanti, l’interpretazione di Costanzo Prece o quella di Gregory Clayes. Preve, C., Storia e critica del marxismo, La città del sole, Napoli 2007. Clayes, G., Marx e il marxismo, Einaudi, Torino 2020 (ed. or. 2018).

[21] – Costa, V., p. 67. Cit. Foucault, M., Follia e psichiatria. Detti e scritti, 1957-84, Cortina Milano 2006, p. 55.

[22] – Costa, V., p. 85

[23] – Su questo si veda il lavoro di Jean-Claude Michéa. Ad esempio, Michéa, J-C., I misteri della sinistra. Dall’ideale illuminista al trionfo del capitalismo assoluto, Neri Pozza, Vicenza 2013 (ed.or. 2013); Michéa, J-C., Il nostro comune nemico. Considerazioni sulla fine dei giorni tranquilli, Neri Pozza, Vicenza, 2018 (ed. or. 2017); Michéa, J-C., L’impero del male minore. Saggio sulla civiltà liberale, Scheiwiller, 24 Ore Motta cultura, Milano 2008 (ed. or. 2007).

[24] – Il grande fatto della politica dell’avvio secolo è l’irruzione delle masse nella vita sociale e politica, per effetto dell’estensione del suffragio, dell’urbanizzazione, della mobilitazione determinata dalla guerra.

[25] – Si veda Paolo Desogus, “La questione meridionale di Gramsci dall’economico-corporativo all’etico-politico”, in AAVV, A partire da Gramsci. Aspetti e problemi della questione meridionale oggi, Consecutio Rerum, Anno VII, n. 14, 2/2022-2023.

[26] – Su questo punto capitale si veda la ricostruzione della critica posta dalla teologia della liberazione in Visalli, A. Classe e partito, op.cit., cap. 3, p. 118 e seg. Oppure Assmann, H., Hinkelammert, F., Idolatria del mercato. Saggio su economia e teologia, Castelvecchi 2020 (ed. or. 1989); Dussel, E., Filosofia della liberazione, Queriniana, Brescia 1992 (ed or 1972); Gutiérrez, G., Teologia della liberazione, Queriniana, Brescia 1972 (ed. or. 1971).

[27] – Costa, V., L’assoluto e la storia. L’Europa a venire, a partire da Husserl, Morcelliana, Brescia 2023.

[28] – Visalli, A., “Vincenzo Costa, L’assoluto e la storia. L’Europa a venire, a partire da Husserl, Tempofertile, dicembre 2023.

[29] – Costa, V, Categorie della politica, op.cit., p. 150

[30] – Derrida, J. “Margini della filosofia”, Einaudi, Torino, 1997 (ed.or. 1972).

[31] – Costa, V., Categorie della politica, op.cit., p. 150

[32] – Si veda, per avvicinarsi alla complessità e pluralità intrinseca della cultura russa, Kappeler, A., La Russia. Storia di un impero multietnico, Edizioni Lavoro, Roma 2006 (ed. or. 2001).

[33] – Xi Jimping, “Gli scambi ed il mutuo apprendimento rendono le civiltà più ricche e variopinte”, discorso al quartier generale dell’Unesco, 27 marzo 2014, in Xi Jimping, “Governare la Cina”, Giunti Editore 2016.

[34] – Dialoghi di Confucio, “Zilu”. Si veda anche Lunyu 13,24, “he er bu tong”, dove “he” indica la corrispondenza tra i suoni, nella quale ognuno esprime pienamente la propria potenzialità articolandosi in perfetta sintonia con gli altri, questa parola implica consenso (gongshi) che tiene tutti in gioco. Esclusione e conflitto sono l’opposto del concetto di ‘armonia’ (una traduzione possibile di “he”) che implica l’impegno di mediazione tra tutte le parti in gioco allo scopo di realizzare una società che incontri il massimo consenso di tutti, dando ascolto anche ad istanze diverse e contraddittorie, senza indulgere né nell’autoritarismo di sceglierne una né nel libertarismo di lasciarle senza armonia. La tensione tra ordine (zhi) e disordine (luan), sia a livello sociale sia individuale e spirituale, è alla radice del perseguimento dell’armonia nella ricerca costante del miglior punto di equilibrio tra le forze in gioco.

[35] – Xi Jimping, cit., p. 324

[36] – Heidegger, M., Saggi e discorsi, Mursia 1991, “La questione delle tecnica”.

[37] – Su questo si veda, ad esempio Taylor, C., L’età secolare, Feltrinelli, Milano 2007 (ed. or. 2007).

[38] – Heidegger, M., L’abbandono, Il melangolo, Genova, 1983

[39] – Laozi, Daodejing. Il canone della Via e della Virtù, Einaudi, Torino, 2018, p. 127 e seg.

[40] – Hou, Y., Cosmotecnica, Nero 2021 (ed.or. 2016), p. 27

[41] – Hou, op.cit., p. 43

[42] – Si veda Greengrass, M., La cristianità in frantumi. Europa 1517-1648, Laterza, Bari-Roma 2014 (ed.or 2014).

[43] – Tra tanti si veda, ad esempio, Gosh, A., La maledizione della noce moscata. Parabole per un pianeta in crisi, Neri Pozza, Vicenza 2022 (ed. or. 2021); Dalrymple, W., Anarchia, Adelphi, 2022 (ed. or. 2019); Todorov, T., La conquista dell’America. Il problema dell’altro, Einaudi, Torino 1984 (ed. or. 1982); Galeano, E., Le vene aperte dell’America Latina, Sperling & Kupfer, 2015 (ed.or., 1997); Reinhard, W., Storia del colonialismo, Einaudi, Torino 2002 (ed. or. 1966); Hochschild, A., Gli spettri del Congo. Storia di un genocidio dimenticato, Garzanti, Milano 2022 (ed. or. 2020); Green, T., Per un pugno di conchiglie. L’Africa occidentale dall’inizio della tratta degli schiavi all’Età delle rivoluzioni, Einaudi, Torino 2021 (ed. or. 2019); Lowell, J., La guerra dell’oppio e la nascita della Cina moderna, Einaudi, Torino 2022 (ed. or. 2011); French, H., L’Africa e la nascita del mondo moderno, Rizzoli, 2023 (ed. or. 2021).

[44] – Si veda Sen, A., L’altra India. La tradizione razionalista e scettica alle radici della cultura indiana, Mondadori, Milano 2005, (ed. or. 2005)

[45] – Poskett, J., Orizzonti. Una storia globale della scienza, Einaudi, Torino 2022 (ed. or. 2022).

[46] – Russo, L., La rivoluzione dimenticata. Il pensiero scientifico greco e la scienza moderna, Feltrinelli, Milano 1996.

[47] – Russo, L., Il tracollo culturale. La conquista romana del Mediterraneo (146 -145 a.C.), Carocci, 2022.

[48] – Russo, L., La rivoluzione dimenticata, op.cit., p. 401 e seg. Si veda anche, Russo, L., Santoni E., Ingegni minuti. Una storia della scienza in Italia, Feltrinelli, Milano 2010.

[49] – Tra i testi che mi pare possano individuare, se non altro per rendere più complessa da costituzione di questo enunciato c’è la “Introduzione” a Husserl, E., Fenomenologia dello spazio e della geometria, Morcelliana, Brescia 2021 (a cura di Vincenzo Costa); Costa, V., Esperienza e realtà. La prospettiva fenomenologica, Morcelliana, Brescia, 2021; Costa, V., Husserl, Carocci, Roma 2009; Costa, V., Il movimento fenomenologico, Morcelliana, Brescia, 2014; Costa, V., Distanti da sé. Verso una fenomenologia della volontà, Jaca Book, Milano 2011; Costa, V., Fenomenologia dell’intersoggettività. Empatia, socialità, cultura, Carocci, Roma 2010.

[50] – Costa, V., Categorie della politica, op.cit., p. 151

[51] – Costa, V., cit., p. 153

[52] – Cfr. Visalli, A., Classe e partito, op.cit., cap. 1, p. 39 e seg.

[53] – Cfr. Visalli, A., Classe e partito, op.cit., cap 2.

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Vincenzo Costa, “L’assoluto e la storia. L’Europa a venire, a partire da Husserl”_a cura di Alessandro Visalli

Il libro di Costa è del 2023, decisamente un anno di crisi.

Legge questa crisi attraverso la rilettura, tagliente e militante, di un altro libro della Crisi. La “Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale[1] di Husserl, determinando a sua volta un testo difficile, costantemente in bilico, che cerca la traccia di una lettura, la quale al contempo tradisce/rispetta il testo. Nel quale testo è, in altre parole, cercato un filo interno in grado di leggerlo alla luce del più alto presente al prezzo di qualche tradimento. Mi pare che la chiave sia la tensione a muoversi su un confine esile, un’aporia chiaramente espressa. È, insomma, un libro politico dall’inizio alla fine.

Si tratta degli unici libri che vale la pena di leggere.

Tutto il testo è compreso nell’impossibile obiettivo iniziale: “interrogarsi sull’Europa significa, da un punto di vista filosofico, chiedersi quale sia la sua identità, che cosa la distingua da altre culture[2]. Domanda pienamente legittima, chiaramente, ma dalla risposta quanto mai difficile. Ora, l’interpretazione di Husserl a questa domanda (alla quale si potrebbe rispondere, semplicemente, che a distinguerla è la sua storia, ovvero che non si distingue) riecheggia temi del tempo: “l’Europa non è una storia, ma è la domanda stessa sulla storia”.

 

Incontrare un testo (nella fattispecie “La Crisi” di Husserl) significa avvertirne il distacco e l’alterità, la distanza, e proporre al lettore quali domande ci siano nel frattempo diventate estranee, ma, al contempo, lasciarsi attraversare dal testo. In modo che, riguardando l’oggi a partire dalla traccia degli anni presenti nelle pagine ri-lette, sia possibile esserne dislocati.

L’obiettivo della lettura di Costa, ovvero la dislocazione che intende provocare, è quindi ben chiaro. Si tratta di svuotare quella idea di un senso che si dipana nella Storia, che fa tanta parte della tradizione Occidentale (provenendo dall’escatologia ebraica e poi cristiana, molto più che dai greci, a mio parere) e che trova una sistemazione nella narrazione teleologica hegeliana (formatosi come teologo, come si sa) e poi marxiana. Il problema è che se si oltrepassa l’escatologia, anche nella forma secolarizzata, diviene vuoto l’avvenire. Per questo la nazione più intensamente religiosa dell’Occidente, la più fondamentalista, è anche quella che si aggrappa con tutte le forze al suo avvenire, rischiando di precipitare il mondo intero nel vortice delle guerre pur di non rinunciarvi.

 

Questo obiettivo rilegge/tradisce lo stesso testo della “Crisi”, in quanto ancora implicato, se pure con alcuni spostamenti, con quella idea che interessa l’intero Ottocento europeo (secolo di massima forza del continente), per il quale la stessa Europa è il luogo nel quale la Ragione si dispiega.

La mossa più semplice, davanti a questa hybris, è quella di Lévi-Strauss, in “Razza e storia[3], che senza esitazioni la qualifica come ‘eurocentrismo’. Un’accusa la quale si dispiega in una diversa temperie storica, a partire da quegli anni Cinquanta del Novecento in cui la sconfitta del continente nelle due guerre mondiali definì la perdita della centralità ed il confronto con l’orrore dell’olocausto. Inoltre, anni in cui prese forza il movimento decoloniale, in parte spinto e favorito dalla lotta tra i due blocchi[4].

Il Levi-Strauss citato da Costa afferma infatti nel 1952 che ‘progresso’ e ‘storia cumulativa’ hanno senso solo se le civiltà seguono lo stesso percorso, la stessa direzione. Se risultassero orientate diversamente e in tale direzione accumulassero esperienze, allora apparirebbero rispettivamente stazionarie. La linea di sviluppo che una perseguirebbe non significherebbe nulla per l’altra. Ad esempio, una civiltà che valorizza lo sviluppo tecnico vedrebbe come statica una che attribuisse valore alla consapevolezza del rapporto con la natura, e viceversa.

Ma a questa cruciale obiezione dell’antropologo, che inclina, come Boas e Mead[5], a forme di relativismo culturale per le quali ogni civiltà è semplicemente diversa ed unica, e può essere giudicata solo nei propri specifici termini, vanificando qualsiasi possibilità di giudizio di valore, Costa obietta, in quello che mi pare in fondo il centro del testo (con uno straordinario “e tuttavia,” di incipit):

 

“e tuttavia, negare la teleologia non è senza rischi, poiché non si può abbandonarla senza pagare un prezzo: quello di scadere in un cieco empirismo e abbracciare un mero relativismo storico al cui interno ogni cultura va bene. All’interno di questo relativismo l’incontro stesso tra le culture non può neanche accadere perché culture differenti sono incommensurabili, e quindi, l’incontro deve semplicemente fare spazio a una sorta di indifferenza culturale e di tolleranza negativa. Non esiste la storia, allora, ma soltanto uno zoo di culture.

La negazione dell’idea di teleologia si risolve allora in una dissoluzione della nozione di verità e di ragione. A essere più precisi, essendo essa stessa eurocentrica, non deve essere la nozione di verità a guidare l’incontro tra culture. Il prezzo da pagare quando si abbandona la nozione di teleologia consiste nel rendere impossibile ogni critica razionale, persino la nozione stessa di dialogo razionale, dato che ogni cultura è un sistema chiuso e incommensurabile rispetto ad altre culture”[6].

 

 

Da qui muove la proposta che Costa recupera in Husserl. La teleologia, che non si può abbandonare senza affrontare l’horror vacui, può essere solo intesa al modo di Hegel come dynamis, nel quale la meta è contenuta nell’origine? Quando un seme contiene la pianta, e l’incompiuto deve compiersi attraverso sia pure conflitti e negazioni? Non è possibile intenderla come possibilità?

Se la potenza non è un atto che deve compiersi, ma, piuttosto, un ambito di virtualità al quale si può attingere, se, in altre parole, “l’atto fa essere la potenza”. Allora, storia e verità sarebbero in un diverso rapporto tra di loro, contingente.

Recupera significa anche tradisce, perché come immediatamente avverte l’autore, in Husserl ci sono abbondanti tracce di una visione del destino come compimento, ovvero di una storicità pura, che non si può che qualificare come etnocentrica. Per sfuggire bisogna tradire il testo nel punto in cui immagina la storia come un processo cumulativo e come approssimazione alla verità. Nel punto in cui, recuperando la tradizione scientifica che imbibisce ogni aspetto della cultura Ottocentesca nella quale Husserl si è formato, alla fine la verità è oggetto e rappresentazione e le teorie sono comunque rispecchiamento della realtà, pur non adeguandosi mai completamente ad essa.

 

Una concezione che, seguendo la critica del testo, presuppone inevitabilmente una ragione antistorica e quindi indipendente dai modi di espressione. Viceversa, “ogni cultura determina l’orizzonte teleologico a seconda da ciò che essa pone come modello di civiltà”[7]. La teleologia è, dunque, essa stessa un prodotto storico (un prodotto non solo di ogni ‘civiltà’, quando di ogni epoca storica, e, si potrebbe aggiungere, di ogni prospettiva pratico-disciplinare entro essa, se non si temesse di disintegrare l’oggetto – come forse merita – ). Se ogni epoca ha la sua storia (ed ogni civiltà ne ha una), allora ci si riavvicina a Boas e Levi-Strauss, restando distanti solo per una sorta di umanesimo che innerva l’intero testo. Ovvero per l’assenza di quel pessimismo radicale ed anti-antropocentrico, anti-umanistico e irreligioso, che caratterizzava il grande studioso belga. Certo, l’eliminazione della storia determinata da un proprio telos, in favore della contingenza (ma di una contingenza a sua volta necessaria, in quanto piena e capace di autoconferma) e del caso, impedisce di riconoscerlo ex ante, ma lo consente solo ex post (qui si potrebbe richiamare il Lukacs della “Ontologia[8]).

Il telos è, nella lettura della “Crisi” di Costa, tuttavia costantemente indeterminato, privo di un criterio ultimo, e di unità e necessità. È per questo che “è possibile interpretare il testo husserliano senza assumere una prospettiva archeo-teleologica”. Ed è possibile scegliere la traccia di questa lettura, tradendo altri contenuti del testo e la stessa “intenzione” dell’autore e del suo tempo, ovvero “trascurando molti passi testuali che contesterebbero la nostra lettura e confermerebbero l’appartenenza di Husserl alla metafisica della presenza, del senso e dell’identità tra ragione e storia”[9]. Qui si aprirebbe, insomma, una contraddizione nel testo tra l’idea tradizionale che l’uomo, in quanto essere razionale, perviene a sempre maggiori gradi di auto-riflessività (per cui, ad esempio, il nostro grado di auto-riflessività sarebbe superiore a quello delle generazioni che ci hanno preceduto, sarebbe a dire greci inclusi), dall’altra quella che il telos si vede solo a cose fatte e non può essere determinato anticipatamente; per cui in assenza di un criterio astorico non resta che l’interpretazione prima ricordata.

Ma allora, che cosa rende possibile l’unità di ragione e storia, senza l’idea di progresso? Per Costa la verità è sempre assente e differita, e quindi la ragione è solo la ricerca di un obiettivo che si sottrae. Più esattamente è la coscienza di questo impossibile afferrare ciò che si differisce costantemente. Ovvero è la coscienza della distanza dalla verità, dell’impossibilità di padroneggiare, una volta e per sempre, questo differirsi. Ma questa coscienza sarebbe l’Europa.

 

Con le parole stesse del testo:

 

“l’Europa sarebbe allora la coscienza del sottrarsi della verità, del suo infinito differirsi, e proprio in questo consisterebbe il suo valore ‘universale’. Al contrario, essa ricade al di qua di sé stessa (ricade nel mito) tutte le volte che si autorappresenta come depositaria di valori universali e come punta avanzata della storia della ragione. La coscienza della distanza dalla verità diviene presunzione di essere la depositaria della verità.”[10]

 

 

E’ del tutto palese, in questa posizione, estratta a forza, per così dire, dal testo della “Crisi”, l’obiettivo che si spende nei conflitti del presente. In questa fase in cui l’universalismo Occidentale, di derivazione escatologica, si fa parodia di se stesso nello sforzo di sovraestendersi in una posa imperiale. L’accusa che Costa dirige a questa postura, e che sarà più chiara nel suo successivo e più esplicito libro “Categorie della politica[11], è di tradire lo stesso Occidente, ovvero la sua segreta identità più autentica. Lungi dall’essere la difesa dei valori occidentali contro l’aggressione di civiltà ‘autoritarie’, la postura che un declinante potere imperiale anglosassone ha preso e prende verso la richiesta di protagonismo[12] avanzata dal resto del mondo è un tradimento dello stesso Occidente più autentico.

Lo scopo politico è farla finita con la vecchia, in verità antica, idea che solo l’Occidente è la casa della ragione e gli altri sono ‘barbari’ che possono divenire solo noi, se vogliono evolvere. L’idea, in altre parole, che la storia universale è quel processo in cui alla fine tutti sono europei (o, con Hegel, prussiani). Invece, per Costa, la storia universale (già questo singolare fa problema) è un processo (altro singolare) in cui si dà contaminazione, innesti, dialoghi, scontri e incontri, davanti alla ricerca a volte cooperativa di una verità che si sottrae per tutti. Il punto di attacco, che rende intelligibile ed anche condivisibile il libro, è che il nuovo eurocentrismo si presenta come quella forma di universalismo che, in quanto astratto, si impone dissolvendo tutte le tradizioni culturali, a partire da quella stessa dell’Occidente ben inteso.

 

Resta poco chiaro, un residuo husserliano direi, perché questa descrizione della consapevolezza del sottrarsi sarebbe europea, anzi sarebbe il lascito dell’Europa al mondo. Poco chiaro in due sensi: perché richiama l’Europa ad un’idealizzazione di alcuni pensatori aristocratici greci del IV secolo a.c.[13], riletta attraverso il lungo medioevo islamico ed europeo ed il filtro dell’Ottocento tedesco (che aveva il problema di sottrarsi al latino); perché, oltre a dimenticare il cristianesimo e il lascito romano, questa idealizzazione trascura le altre grandi culture che hanno rapporti con la verità altrettanto complessi. Peraltro, per fare una battuta su problemi di altissima complessità (e specializzazione), anche gli arabi sono ‘greci’ e, in ogni caso, i ‘greci’ non sono europei (in quanto sono contaminati assai profondamente dalle grandi culture antecedenti, egiziana e persiana[14], oltre che indiana).

 

Lo stesso Costa lo ricorda quando scrive “dobbiamo chiederci se questa caratteristica [la ricerca della verità che si sottrae] sia riservata alla cultura europea o se, in forme differenti, non costituisca l’orizzonte di ogni cultura”[15]. La mia risposta è . Rispondere no, peraltro, fa ricadere inevitabilmente nella posizione eurocentrica; se non altro attraverso il sottile velo del maieuta (già in Socrate orientato sottilmente allo scopo di ricondurre l’altro della democrazia al discorso degli aristoi). Ovvero del maestro che conduce i popoli bambini alla comprensione adulta. D’altra uscire da se stessi è sempre difficile, anche lo stesso Levi-Strauss fu criticato da Edward Said perché senza volere descrive le altre culture usando la sua tecnica che è intrinsecamente etnocentrica[16].

 

Il testo di Husserl è interessante perché reca in sé il travaglio di un momento di messa in questione della forma prima di universalismo imperiale europeo, innestato sul monopolio presunto e rivendicato del progresso tecnico-scientifico che rappresenta la crescita in sé evidente. Un processo quindi di tecnicizzazione della ragione e di sua unità. La crisi di cui parla il libro degli anni Trenta è quindi in primo luogo la disgregazione di questa unità e naturalezza. Unificazione dei tre trascendenti di Vero, Bello e Bene e dell’orizzonte di attesa, ovvero dell’escatologia (idea tratta dal mondo ebraico-cristiano, tuttavia). Quel che accade nel crogiuolo della crisi europea (ovvero del disastro delle due guerre civili e della perdita della centralità, con il sorgere di potenze extraeuropee, come gli Usa e il Giappone) è la perdita del senso della direzione. O, in altre parole, degli orizzonti di attesa.

Qui la soluzione si affaccia come mantenersi desti nella differenza, capire la crisi come oblio (dell’identità autentica dell’Europa) anziché tramonto (alla Spengler). Non concepirsi come privi di legami e quindi liberi, ma situati in una tradizione che radica la libertà oltre il mero principio di piacere. Oltre quell’orgiastico che reagisce alla perdita di senso in una fuga aristocratica (Costa tornerà su questo tema nel libro successivo) alla Bataille.

Come accade con la cultura cinese, con l’antica nozione di Dao, o a quella indiana con Brahma, non si tratta di raggiungere un fine, quale esso sia, ma restare aperti alla ricerca sapendola sempre relativa e incompleta. Il punto è che se si trascura questo dinamismo e si confonde il sapere con la verità, immaginandosi in possesso della chiave dell’universale una volta e per tutte, si ricade nel mito. Si perde l’origine e si dimentica se stessi.

 

Ciò che stiamo facendo è dunque dimenticarci.

 

Il telos (ora lasciamo pure perdere se è Europa, o se questo è un nome per designare un atteggiamento ed un lascito che non è solo ‘nostro’) sarebbe dunque la coscienza della differenza tra sapere e verità.

Questo telos che sarebbe proprio della fondazione greca. O, per meglio dire, della dinamica più propria dell’esperienza greca. Anzi, dell’esperienza della filosofia greca post-socratica. Ma “Grecia”, avverte il testo, “non significa una cultura determinata ma un atteggiamento”, essa “allude a uno strato di esperienza presente, in maniera latente, in ogni cultura”[17].

Lasciando da parte la domanda che scaturirebbe ovvia a questo punto, perché chiamare questo idealtipo con innumerevoli applicazioni “Grecia”, quando questa si dissolve avvicinandosi[18], il punto è che noi non rappresentiamo il mondo come è, ma viviamo piuttosto nella sua apertura. Ovvero abitiamo nel sistema di differenze che lo costituisce. Ricordando Hegel e la nozione di negazione determinata, e quello di contesti di volta in volta determinati, noi stessi dobbiamo concludere l’essere costituiti quali nodi di una certa epoca. La ragione stessa non è dunque assimilabile ad una sorta di Grande Dibattito (come forse vorrebbe Habermas), ma piuttosto un movimento dei mondi storici concreti, che situa esistenze, rende possibili natura e cultura di volta in volta situate, apre il senso e crea lo spazio nel quale si gioca. L’idea di verità è solo l’apparire, ogni volta in forme diverse e sotto diverse urgenze e soggettività, del mistero dell’essere (per usare un gergo filosofico) nella sua inesauribilità. La verità è, quindi, rapporto ad un’alterità.

Ma questa posizione, che gioca sul crinale sottile tra un sempre possibile relativismo e il rifiuto delle sue conseguenze, implica anche che, come ogni discorso, la Giustizia dipenda dal contesto.

 

Passando per una decostruzione della nozione di storia universale e di Europa nella prospettiva hegeliana, Costa nega in fondo che, come voleva Derrida, Husserl sia sulla stessa lunghezza d’onda. Per la quale in sostanza l’Occidente è la ragione stessa che si impone al mondo e alla quale tutti gli altri popoli possono partecipare solo nella misura in cui accettano la forma della razionalità che ha trovato forma al termine del percorso della storia, nell’Europa germanica. Quella storia che è unità e dispiegamento e passaggio dalla potenza all’atto. Lo ‘svolgimento’ sarebbe, allora, solo uno srotolarsi di un sé già presente nell’origine e coincidente con la logica. Il Geist (lo spirito) sarebbe insieme razionalità vivente e dinamismo della ragione, ma in esso sarebbe del tutto presente e necessaria la gerarchizzazione delle culture. Qui la famosa tesi dei ‘popoli senza storia’, nei quali lo spirito non ha direzione e quindi resta incapace di crescita.

 

La differenza è che in Husserl “la nozione di verità corrode quella di totalità”, mentre in Hegel:

 

“il telos allude a un incompiuto che vuole compiersi, per cui la teleologia sembra implicare un volontarismo intenzionale, una metafisica secondo cui la realtà pulsa verso una meta. Pertanto, la storia ha un senso solo se vi è un fine/una fine della storia, e si può parlare di telos solo a partire dall’intero, dalla chiusura di questo movimento della fine della differenza tra sapere e verità”[19].

 

 

Ma se, come vorrebbe ancora Husserl, la verità è sempre irraggiungibile, allora ogni epoca ha il suo scopo ultimo e vive nell’anticipazione. La potenza, il nucleo della razionalità, lo stesso movimento del dispiegarsi, e quindi il telos, il destino, viene quindi costruito retroattivamente in ogni epoca del mondo e secondo il suo concetto. Secondo il concetto di emancipazione che serba. Resta ancora una sorta di teleologia, ma senza compimento. In sostanza, se resta un fine dalla storia di cui si può dire, questo è tenere aperta la differenza.

 

Stiamo tornando a Levi-Strauss, ed all’antropologia culturale della sua generazione? In effetti, si articola una forma di relativismo, ma sotto condizioni specifiche. La verità è inattingibile, storica e temporale, dipende dall’epoca, ma non è relativa nel senso individuale. Non è questione di desiderio (come vorrebbe una cultura diffusa in Occidente a partire dal secolo scorso e normalmente etichettata come post-moderna), piuttosto “sono i contesti e non le opzioni soggettive e arbitrarie a fissare le coordinate”[20]. È possibile quindi giudicare in relazione a queste coordinate.

Certo, resta il problema pratico di chi determina le coordinate anche se storicamente date, se qui-ed-ora. Resta il problema che l’apertura è un campo di conflitti. Che le sfide alle quali bisognerebbe rispondere, perché poste dall’epoca, sono centralmente interpretazioni e sono la materia stessa del conflitto per lo spirito del tempo. La sfida che individua la nostra epoca del mondo è quella per l’estensione della libertà del mercato e della razionalità liberale, come vorrebbe una forte linea di interpretazione anglosassone? Oppure è la contaminazione e l’apertura alla pluralità dei mondi in un contesto di legittimazione reciproca? L’emancipazione alla quale tendere è quella degli individui dalle strutture collettive, in modo che sia il mercato a definire il proprio di ciascuno, o delle comunità che sono libere di definirsi secondo i propri specifici termini?

E la storia è sviluppo di questa idea centrale, della democrazia di mercato, o stratificazione di diversi modi di stare in rapporto e di riconoscersi situati? Le diverse forme particolari di questo stare in rapporto con la tradizione, e di restare aperti alla differenza tra i saperi e la verità, tra il giusto e le forme della socialità, sono implicate con il relativismo necessariamente? Per sfuggire all’antitesi tra universale e particolare è sufficiente che si ridefinisca l’universale come apertura all’altro da sé ed al riconoscimento del sé come altro?

 

È possibile che in questo modo si disperda ogni possibile idea di ragione, e ogni forma immaginabile di universalismo. O, forse, che in tal modo ciò che si perde sia solo l’universalismo astratto. D’altra parte, la ‘ragione universale’ è il centro della filosofia occidentale, o della sua antropologia filosofica, e Husserl l’ha sempre tenuta per ferma. Inoltre, l’ha sempre localizzata in Europa, dove la filosofia sarebbe cominciata come “non conoscenza”. Costa qui ricorda l’importante critica che negli anni Sessanta, non per caso nel contesto dei movimenti decoloniali, ha individuato nella filosofia Occidentale stessa la “mitologia bianca”. Una critica che da Derrida non manca di investire direttamente anche lo stesso Husserl, “per Husserl, come per Hegel, la ragione è storia e non c’è storia se non della ragione”[21]. Ed ancora,

 

“la metafisica – mitologia bianca che concentra e riflette la cultura dell’Occidente: l’uomo bianco prende la sua propria mitologia, quella indoeuropea, il suo logos, cioè il mythos del suo idioma, per la forma universale di ciò che egli deve ancora voler chiamare Ragione. Il che non accade senza conflitti”[22].

 

 

Ha ragione Derrida, nel volere mitologica ed etnograficamente definita questa pretesa dell’Occidente di parlare la lingua dell’umanità tutta, o ha ragione Husserl, che individua nella filosofia e nella scienza “il movimento storico della rivelazione universale innata, come tale dell’umanità”? Per il nostro non ci sono alternative, o nella storia europea (non già in quella indiana o cinese, non in quella araba, non altre) si dispiega la ragione stessa, oppure c’è il relativismo culturale. Precisamente scrive: “solo così sarebbe possibile decidere se l’umanità europea rechi in sé un’idea assoluta o se non sia un mero tipo antropologico empirico come la ‘Cina’ o l’’India’”[23]. Per cui in un certo senso l’universale vive nel particolare, in noi.

La ragione che Husserl difende è un capolavoro di etnocentrismo e di centralità della propria specifica posizione nella storia: la ragione e la verità universali si incarnano in Europa perché solo in essa si comprende razionalmente il reale tramite la filosofia. Le altre culture non conoscono la filosofia, quindi non hanno accesso al reale e alla totalità. All’obiezione circa l’evidente presenza di testi ‘filosofici’ in altre culture, avanzata al suo tempo da Georg Misch, lo stesso Husserl replicò, come riporta Costa, che “bisogna evitare che la generalità meramente morfologica occulti le profondità intenzionali, non bisogna diventar ciechi di fronte alle differenze essenziali e di principio”. La filosofia occidentale inizierebbe infatti con una “dichiarazione di non conoscenza” e con lo stupore verso un inconoscibile senza rimedio, oltre che con l’apparire della idealità. Ovvero con Platone e Socrate. Momento della storia della cultura greca che segnerebbe “la specificità del nostro essere occidentali”. Questo perché in Grecia nascerebbe la “teoria”, ovvero l’atteggiamento teoretico, un modo di essere del tutto non-pratico, una mera esigenza di verità sviluppata in vista di nessuna utilità.

Piuttosto singolare come spiegazione, nel momento in cui sembrerebbe essere piuttosto il contrario[24]. Ad esempio, il taoismo bisogna orientarsi alla scoperta della legge latente ai mutamenti delle cose, legge che si sottrae alle constatazioni empiriche ma impregna l’universo. L’intima unione con il Tao (o Dao) avviene proprio con il distacco, la rinuncia alle passioni, la Via che non agisce, che è inattiva, non forza la sorte. Oppure la dottrina del maestro Mo Ti (479-381 a.C.), contemporaneo di Socrate, contrapposta a quella di Confucio e del suo allievo Mencio, che prediligeva il culto del Cielo, l’amore universale e la non aggressione e pace tra tutti i popoli in un’epoca di guerra civile[25].

 

Dunque, la storia universale coincide con l’europeizzazione di tutta l’umanità. Ovvero, con l’estensione del modo di abitare il mondo che sarebbe proprio dell’Europa. Con quel modo dell’abitare che sarebbe, cioè, abitato dallo stupore. Quell’atteggiamento che consisterebbe nel rapportarsi a sé stesso come un altro e nutrirsi del decentramento.

Ma, e qui affonda la sua critica Derrida, accolta da Costa se pure con alcune timidezze, “il proprio di una cultura è di non essere identica a sé stessa”; la nozione stessa di “cultura” è un’astrazione e il risultato di una lotta provvisoriamente vinta, di una egemonia. Allora l’identità stessa è provvisoria ed è contaminata. Oppure, in altre parole, “ciò non significa che la cultura non ha una identità, ma semplicemente che una cultura può identificarsi solo attraverso l’altro; non vi è identità senza il gioco delle differenze”[26].

 

Allora cosa si può dire, che rispettare il particolare non può significare altro che tradire l’universale? Come sfuggire a questa aporia. Se si può porre una qualche identità data, quindi un fine, un telos, e se questi hanno un valore universale, allora non ci sono vie di uscita dall’etnocentrismo (in Europa sarebbe un eurocentrismo, altrove sarebbe la pretesa di una via all’umano di volta in volta braminica, cinese, islamica, o sudamericana, e via dicendo). Se, invece, non c’è la possibilità di rivendicare un telos propriamente umano e valido quindi per tutti, allora bisognerebbe concludere che una cultura vale l’altra. Resterebbe preclusa la critica e la cooperazione andrebbe affidata a meccanismi non verbalizzati (come il mercato, o la semplice forza). Con che diritto potremmo intervenire in un’altra cultura che apparisse a noi strana o ripugnante, oppure, ed è lo stesso, con che diritto gli altri sulla nostra?

È certo un problema enorme, e per percepirlo basta entrare in contatto con qualche “altro”, spiando dal pertugio della porta il modo in cui lui vede noi. O, ancora meglio, accorgersi che in ogni ‘altro’ ci sono tutti i conflitti che ci attraversano. Nel più volte condannato mondo persiano, ovvero iraniano, vive un conflitto secolare tra istanze di secolarizzazione, che guardano in parte anche all’Occidente, e istanze religiose nelle quali la tradizione viene continuamente rinnovata. La storia del paese, negli ultimi cinque secoli almeno, è attraversata da questo conflitto ciclico. Si sono succeduti periodi di “modernizzazione” a periodi “tradizionalisti”. Abbiamo quindi il diritto di scegliere per loro quale deve prevalere questa volta? Abbiamo quello di sforzarci di farlo vincere?

Quale è l’identità pura e quale quella contaminata, da loro come da noi?

 

Probabilmente ciò che andrebbe fatto è, qualunque sia l’etichetta che vogliamo dargli, decentrarsi, assumere il punto di vista dell’altro e immaginare il suo mondo. Lasciare anche che questi immagini il nostro e guardarsi nell’immagine.

Per concludere questa breve lettura, l’Occidente idealizzato, ma devo dire davvero difficile da rintracciare (casomai è più facile trovarlo a Teheran o a Pechino), di Costa è quindi quello che è cosciente che il proprio modo di pensare è solo uno tra i molti possibili ed è disponibile a cambiare direzione. È quello che resta cosciente della differenza incolmabile tra interpretazione e verità, ma non per questo cessa di cercarla. E comprende che la ricerca è possibile solo nel decentramento e nella coltivazione dello stupore per l’apertura all’altro da sé, che è possibile perché anche il sé è un altro. Da scoprire.

 

Si potrebbe dire che l’Occidente è migrato via dall’Occidente.

 

 

[1] – Husserl, E., “La Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale”, Il Saggiatore, Milano, 1986 (ed. or. 1954).

[2] – Costa, V., “L’assoluto e la storia”, Morcelliana, Brescia, 2023, p. 6.

[3] – Lévi-Strauss, C., “Razza e storia”, Einaudi, Torino, 2001 (ed. or. 1952).

[4] – Rimando al mio Visalli, A., “Dipendenza”, Meltemi, Milano, 2020.

[5] – Si veda King, C., “La riscoperta dell’umanità”, Einaudi, Torino, 2020 (ed. or. 2019).

[6] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 10, citato Boas, F. “The mind of primitive man”, The MacMillan Company, New York, 1938, p. 159.

[7] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 12

[8] – Lukacs, G., “Ontologia dell’essere sociale”, Meltemi, Milano, 2023 (ed. or. 1984).

[9] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 15

[10] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 16

[11] – Costa, V., “Categorie della politica. Dopo destra e sinistra”, Rogas Edizioni, Roma, 2023.

[12] – Si veda “L’allargamento dei Brics, l’alba di un mondo nuovo?”, Tempofertile, 27 agosto 2023.

[13] – Per un inquadramento dell’insegnamento seminale di Socrate nel contesto del suo tempo, si veda Luciano Canfora, “Il mondo di Atene”, Laterza, Roma-Bari 2011.

[14] – Si veda, ad esempio, Diego Lanza, “Dimenticare i Greci”, in AA.VV. “I greci. Storia, cultura, arte e società”, vol. 3, Einaudi, Torino, 2001, p. 1462.

[15] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 17.

[16] – Said, E. “Orientalismo”, Feltrinelli, Milano, 1999 (ed. or. 1978); “Cultura e imperialismo”, Feltrinelli, Milano, 2023 (ed. or. 1993).

[17] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 58

[18] – Ogni osservazione più ravvicinata dissolve questa idealizzazione, per la quale, come vorrebbe in pratica ogni filosofo occidentale formato alla sua scuola, nel IV secolo a.c., all’incirca, si è creata improvvisamente una coscienza nuova, e questa in sostanza in una città di venticinquemila cittadini liberi attraversata da un radicale conflitto tra ‘democratici’ e ‘aristocratici’ ed in scontro con altre città-stato. Tutto ciò trascurando fastidiosi particolari come l’appartenenza di tutti i filosofi tramandati al partito aristocratico (Crizia, autore del colpo di stato contro la democrazia ateniese, appartiene alla cerchia intima di Socrate e ne è parente), e quindi la dipendenza del discorso sul “non sapere” da un diretto utilizzo politico, oppure i legami della cultura greca con le fonti siriane, egizie, fenicie, o nordafricane come la cultura Kush e Aksum. O, per il tramite a volte di queste ultime, con il mondo indiano e oltre.

[19] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 102

[20] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 104

[21] – Derrida, J. “Margini della filosofia”, Einaudi, Torino, 1997 (ed.or. 1972), p.167.

[22] – Derrida, cit., p. 280

[23] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 120, cit. Husserl, “La Crisi”, p.45.

[24] – Per questa interpretazione si vedano i testi di Francois Jullien, “Trattato sull’efficacia”, Einaudi, Torino, 1998 (ed. or. 1996); “Pensare l’efficacia in Cina e in Occidente”, Laterza, Torino, 2006 (ed. or. 2005).

[25] – Si veda Granet, M., “Il pensiero cinese”, Adelphi, Milano, 2018 (ed. or. 1971).

[26] – Costa, “L’assoluto”, cit., p. 131.

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Il saggio obbligatorio di fine anno. Ma fatemi un favore: leggetelo lo stesso, di AURELIEN

Il saggio obbligatorio di fine anno.
Ma fatemi un favore: leggetelo lo stesso.

AURELIEN
27 DIC 2023
Questo è l’ultimo saggio del 2023, e non solo i termini di servizio di Substack mi impongono di scrivere un pezzo di fine anno, credo, ma anche due delle ultime tre carte dei Tarocchi che ho consultato per la meditazione quotidiana sono state la n. XX, “Giudizio”, che incoraggia la riflessione e il bilancio. Ok ragazzi, posso accettare un suggerimento.

Non c’è molto da dire a livello pratico. Ho deciso di attivare i pagamenti qualche mese fa e sono rimasto piacevolmente sorpreso dalla disponibilità delle persone a lanciarmi qualche moneta e a offrirmi un caffè. (Non ho intenzione di offrire un livello separato a pagamento, mai, e quindi continuerò a rendere tutto gratuito). In realtà sono stato ancora più piacevolmente sorpreso dai gentili messaggi di sostegno che ho ricevuto, ed è questo, alla fine, più che qualsiasi somma di denaro, che mi incoraggia a continuare. Se avete mai insegnato (e io l’ho fatto, saltuariamente per decenni, e a volte in posti davvero molto strani), sapete che il più grande complimento che possiate ricevere è che qualcuno vi dica: “Prima non capivo, ma ora capisco”. Da qui, in parte, il nome che ho dato a questo sito. E grazie anche ai molti di voi che hanno scritto commenti così lunghi e riflessivi.

Detto questo, ho intenzione di continuare a scrivere essenzialmente su ciò che so, e di privilegiare l’analisi e l’interpretazione rispetto alla polemica. C’è comunque troppa polemica in giro, e la trovo noiosa da leggere, difficile e poco gratificante da scrivere. Inoltre, richiede una fede nella propria superiorità morale che non sono sicuro di avere. Allo stesso modo, anche se scrivo molto sugli affari di sicurezza e ho trascorso molto tempo con le forze armate, non sono qualificato per analizzare le ultime battaglie in Ucraina, così come una certa quantità di tempo trascorso in Medio Oriente mi dà automaticamente il diritto di essere ascoltato come esperto di Gaza. D’altra parte, ho trascorso una vita nella sala macchine della politica e della sicurezza in vari Paesi, ho visto come si fa la salsiccia e a volte ho avuto un piccolo ruolo nel farla. Sono stato nei posti più economici per alcuni dei principali eventi degli ultimi quarant’anni, e in alcuni casi in quelli un po’ meno economici. Il mio punto di vista è quello di chi fa davvero il lavoro e fa accadere le cose, anche se non ho mai avuto un grande ufficio e un grande staff personale. Sono stato, come si diceva, a distanza di sicurezza dalla superficie del carbone per molto tempo. Le cose che credo di aver imparato, quelle che credo di aver capito e quelle su cui credo di avere qualcosa di utile da dire, continuerò a scriverle, oltre a dedicarmi di tanto in tanto ad altri argomenti che mi interessano. Per esempio, nel corso del prossimo anno avrò molto da dire sulla Francia, dove ho vissuto e lavorato a lungo, e sull’Europa e le sue manifestazioni istituzionali.

Bene, allora. (Ci sono scrittori molto organizzati, che hanno piani dettagliati di ciò che scriveranno e li rispettano. Io non ci riesco: Preferisco pensare che qualsiasi cosa io stia scrivendo, da un articolo breve o un racconto a un libro, esista già, completamente formata, e che se inizio a scrivere, arriverà. Di solito è così: ero a un quarto del primo libro che ho scritto, circa trent’anni fa, quando all’improvviso ho capito che il libro voleva parlare di qualcosa di un po’ diverso e mi stava segnalando di cambiare rotta, cosa che ho fatto. Così con questi saggi: raramente ho un’idea precisa di ciò che dirò prima di iniziare e, cosa forse più importante, di come i vari temi si svilupperanno e interagiranno tra loro nel corso delle settimane. Così, senza rendermene conto, mi accorgo di aver sviluppato una tesi coerente, soprattutto nell’ultimo anno.

Credo che si possa riassumere, sorpresa, sorpresa, in tre punti. Si può considerare una sorta di sillogismo, se si vuole, o un tipo di progressione dialettica.

Il mondo occidentale si trova di fronte a una serie di sfide pratiche, politiche, economiche ed esistenziali gravi come mai nella sua storia, che richiedono governi, Stati e settori privati altamente competenti per affrontarle con successo.

Ma la capacità di tutti i settori sopra menzionati è già insufficiente e sta peggiorando, e non c’è un modo evidente per correggerla.

Pertanto, le cose stanno andando verso sud.

Se si accettano le prime due proposizioni (e credo che siano indiscutibili), ne consegue inevitabilmente la terza. Naturalmente non vogliamo crederci, ed è per questo che le persone sono piene di “Se solo potessimo”, “Sicuramente possiamo”, “Questo nuovo aggeggio” e “Questa idea intelligente”. Ma, come ho sostenuto la scorsa settimana, non è possibile ricostruire strutture e capacità altamente complesse che hanno richiesto generazioni per essere create e che sono state lasciate marcire o addirittura deliberatamente distrutte. Per questo motivo, i miei scritti del prossimo anno si concentreranno su come sarà il prossimo crollo e su cosa possono fare gli individui e i gruppi per gestirlo ed evitare le conseguenze peggiori. Gran parte del lavoro pratico del governo in passato è consistito nel mettere il dito nella fossa e sperare di poter risolvere il problema del momento entro la fine della settimana. (Per quanto sia doloroso dirlo, credo che dovremo sempre più escludere i governi e le organizzazioni internazionali come attori utili per il futuro: il degrado è semplicemente andato troppo oltre e la diga si sta visibilmente sgretolando.

Piuttosto che accumulare il malinconico a questo punto dell’anno, ho pensato che sarebbe stato meglio esporre le argomentazioni di cui sopra in modo un po’ più esteso, rimandando a saggi che ho scritto nell’ultimo anno o giù di lì. In questo modo, il numero considerevole di persone che hanno scoperto questo sito di recente, e in molti casi si sono iscritte, avranno un link diretto ai saggi che espongono queste idee in modo più approfondito.

Non ho intenzione di affrontare in questa sede i temi del cambiamento climatico e delle malattie infettive, sui quali non sono un esperto e sui quali è già stato scritto molto. Ma ho discusso, ad esempio, gli effetti corrosivi di quarant’anni di neoliberismo sulle strutture e sulle fondamenta stesse della nostra società, compreso il concetto di cittadino, o sull’onestà di base, o sulle idee anacronistiche di “dovere” e “servizio”, da cui la Società di Me dipende di fatto, se solo se ne rendessero conto. Ho sostenuto che una società di questo tipo non sopravviverà ancora a lungo, a meno che non impari ad adattarsi, ma questo sembra molto improbabile, senza il tipo di strutture intermedie, come i partiti politici di massa e i sindacati che un tempo lavoravano per il cambiamento politico. In effetti, la presa del modello estrattivo sul nostro sistema è tale che il sistema potrebbe finire per mangiarsi da solo, mentre la nostra società cade vittima di una violenza che non ha alcuno scopo o ragione discernibile. Allo stesso modo, non è scontato che l'”Europa”, in qualsiasi senso istituzionale organizzato, sopravviva.

Naturalmente, uno dei problemi principali da affrontare sarà quello delle conseguenze a lungo termine della guerra in Ucraina. Ho suggerito che l’Occidente, e in particolare l’Europa, è ora vulnerabile militarmente in modi inediti e inaspettati. Ciò non sorprende, poiché la natura della guerra è cambiata, mentre nessuno guardava, e l’Occidente ha preso una serie di decisioni sbagliate su come spendere i propri soldi. Il risultato è che la capacità militare dell’Occidente è l’ombra di ciò che era un tempo e le possibilità che si riarmino per essere in condizioni di parità con la Russia non sono molte. Anche mantenere in vita l’Ucraina è di fatto impossibile. Ciò significa anche che l’Occidente sarà sempre più incapace di proiettare potenza al di fuori del proprio territorio. E a sua volta, la mancanza di hard power significa che i tentativi di usare il soft power saranno molto più difficili.

In teoria, alcuni di questi problemi sono recuperabili, se solo avessimo persone e istituzioni decenti. Eppure i leader e i funzionari occidentali credono abitualmente a cose stupide. Le nostre élite non solo sono incapaci, ma sono essenzialmente infantilizzate, vivono in un mondo di finzione infantile e reagiscono con odio isterico a chiunque, come quel cattivone di Putin, metta in discussione i loro luoghi comuni liberali semidigeriti. (Anche se questo odio è esso stesso, in parte, un’esternazione dell’odio che la nostra casta professionale e manageriale prova per il resto di noi e per gli altri). E questo include sia una completa ignoranza anche dei fatti più elementari sulla guerra moderna, sia un’abitudine generale a vedere il mondo intero come una proiezione del loro fragile ego.

Ma ho anche cercato di fornire qualche raggio di speranza, se non necessariamente di ottimismo. Penso (e questo sarà un argomento per il prossimo anno) che il fallimento a cascata delle istituzioni a cui assistiamo ora ci imporrà di trovare risorse per noi stessi, che dovranno essere tanto psicologiche, e persino spirituali, quanto pratiche. Qualche tempo fa ho sostenuto che l’integrità invernale dell’esistenzialismo, con la sua severa etica della responsabilità per le proprie azioni, è forse utile in questo momento, così come alcuni tipi di buddismo. Ho anche suggerito che il relativismo morale è solo un dato di fatto e che non c’è nulla da temere. Infine, ho suggerito alcuni libri che potrebbero aiutarci a capire meglio il mondo, nonché alcuni che forniscono indicazioni pratiche su ciò che potremmo fare.

Beh, credo che sia sufficiente da parte mia. Grazie a tutti e arrivederci all’anno prossimo.

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Stati Uniti! Isterismo, istigazione,esecuzione Con Gianfranco Campa

Gli Stati Uniti si stanno candidando ad entrare a pieno titolo nel gruppo nutrito delle repubbliche delle banane. Qualcuno in Centro America lo ha prontamente fatto notare; gente che evidentemente sa bene di cosa si parla. Una sorta di nemesi, di ritorsione della storia. Il dispositivo della Corte Suprema del Colorado ai danni di Trump sta dando un contributo decisivo alla credibilità e alla presentabilità della DEMOCRAZIA per antonomasia. Se non stoppato in tempi rapidi dalla Corte Suprema Federale potrà servire da precedente per altri stati. Colpi di mano che si accompagnano alla progressiva perdita di credibilità di qualsiasi candidato interno o esterno al partito, alternativo a Trump. Da qui l’allarmismo crescente giustificato dalle argomentazioni più inverosimili; l’istigazione ad atti inconsulti. Una isterica fibrillazione di un ceto politico e di una classe dirigente disposta a fomentare lo scontro fisico pur di salvaguardare la propria permanenza al potere. Un vuoto che sta innescando una accelerazione decisamente ostile del confronto geopolitico senza una dirigenza lucida, in grado di assumere apertamente la responsabilità di decisioni così laceranti. L’ingresso di truppe ed armamenti statunitensi in Finlandia, l’eventualità di colpi di mano in Moldova, zeppa di agenti statunitensi, il conflitto sempre più esteso nel Vicino Oriente sono ulteriori micce pronte ad innescare il peggio in un contesto sempre più temerario che vede stati belligeranti candidarsi all’ingresso nella Unione Europea; quella stessa Unione che nell’articolo 42 del trattato, si allinea pedissequamente ai voleri e ai vincoli della NATO. Un altro tabù, rigorosamente rispettato nella fase bipolare, che cade; altri popoli europei disposti a sacrificare, con la compiacenza delle proprie classi dirigenti, le proprie vite agli interessi egemonici anglostatunitensi. Una parodia che si tramuta in farsa e in tragedia. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Cosa è la Sinistra… E cosa resta?_di Aurelien

Cosa è la Sinistra… E cosa resta?
Un tentativo (probabilmente fallito) di fare un po’ di chiarezza.
AURELIEN
13 DICEMBRE

Questi saggi saranno sempre gratuiti, e potete sostenere il mio lavoro mettendo like e commentando, e soprattutto passando i saggi ad altri, e ad altri siti che frequentate.

Ho anche creato una pagina Buy Me A Coffee, che potete trovare qui.☕️ Grazie a tutti coloro che hanno già contribuito.

Grazie anche a coloro che continuano a fornire traduzioni. Le versioni in spagnolo sono disponibili qui, e alcune versioni italiane dei miei saggi sono disponibili qui. Marco Zeloni sta pubblicando anche alcune traduzioni in italiano.

Il saggio della scorsa settimana ha suscitato (non per la prima volta) una grande discussione sulla “sinistra”, sul fatto che certi partiti e certe idee possano essere considerati “di sinistra” e sul fatto che abbia importanza. Alcune persone sono state così gentili da suggerirmi di esprimere alcune riflessioni sull’argomento, e così, ecco qui.

Come tutti questi saggi, anche questo è principalmente un tentativo di spiegazione. Non sono interessato a polemizzare sul perché la mia definizione di sinistra sia migliore della vostra, né ad assegnare un voto su dieci a partiti o ideologie per quanto sono di sinistra. Tra l’altro, non sono uno storico né (fortunatamente) un politologo. Ma penso che ci siano alcune cose utili e pragmatiche da dire su questa questione che potrebbero aiutare a dissipare un po’ la confusione. Strutturerò questo saggio stabilendo i punti su cui credo che la maggioranza delle persone sia d’accordo, per poi esaminarne le conseguenze pratiche.

In primo luogo, possiamo concordare sul fatto che negli ultimi due secoli è esistita una tendenza politica chiamata sinistra. Le origini del termine sono interessanti, perché ci danno un indizio sulla natura della sinistra stessa. Come tutti sanno, è apparso all’epoca della Rivoluzione francese, quando i membri dell’Assemblea nazionale che sostenevano la continuazione della monarchia e dello status quo sedevano generalmente alla destra del Presidente, mentre quelli che sostenevano la Rivoluzione, nel senso più ampio del termine, sedevano a sinistra. La stessa distinzione di massima fu utilizzata negli anni confusi e conflittuali che seguirono, anche se i confini precisi si spostarono un po’.

Questo ci ricorda che la distinzione originaria tra Sinistra e Destra emerse da una lotta sulla futura forma di governo del Paese e sulla conseguente distribuzione del potere. A destra, i puristi ritenevano che la distribuzione del potere dell’Ancien régime (essenzialmente una monarchia assolutista con alcuni poteri regionali e locali di contrasto) fosse perfetta e non dovesse mai essere cambiata, perché ordinata da Dio. Col passare del tempo, i membri più pragmatici della Destra erano ancora desiderosi di mantenere il sistema, ma erano disposti a fare qualche modesto accomodamento, per condividere il potere in modo un po’ più equo. La sinistra si estendeva da coloro che erano favorevoli a una monarchia costituzionale sul modello britannico, a coloro che volevano una Repubblica con il potere nelle mani delle classi medie, fino a coloro che volevano mettere tutto il potere nelle mani della gente comune. Con la rapida evoluzione del sistema politico, emerse una nuova classe di “moderati” o “centristi”, che ritenevano che la Rivoluzione si fosse spinta abbastanza in là, o anche un po’ troppo in là, e che le cose dovessero ora fermarsi al punto in cui erano. Queste distinzioni pragmatiche, in gran parte indipendenti dalla teoria, avrebbero plasmato la natura della politica per più di un secolo. La questione fondamentale della politica collettiva era allora (e lo è ancora, direi): chi ha il potere? A seconda di dove fosse il potere, quindi, etichette come Sinistra, Destra e Centro erano sempre relative e potevano spostarsi parecchio.

In secondo luogo, è stato solo nel corso del tempo che questi modelli ideologici hanno effettivamente prodotto partiti politici formati. (In ogni caso, i partiti politici formati in assenza di elezioni sono un po’ superflui). Le lotte politiche precedenti erano state contese tra diverse forme di organizzazione politica: la famosa trilogia di tirannia, oligarchia e democrazia in Grecia, la lotta tra le grandi famiglie e i repubblicani a Firenze, e così via. Anche in Grecia e a Roma, dove esistevano istituzioni politiche rappresentative, il concetto di partito, o addirittura di carriera politica professionale, non era ben sviluppato. In Gran Bretagna, dove le cose sono successe prima e dove il Parlamento è sempre stato un centro di potere indipendente, già nel XVIII secolo esisteva qualcosa di simile ai partiti politici organizzati, ma essi rappresentavano costellazioni di interessi più che idee politiche astratte. Paradossalmente, è stato solo con l’avvento di un ragionevole livello di democrazia, nonché con lo sviluppo della tecnologia e quindi di una classe operaia industriale urbana, che i partiti di massa organizzati della sinistra sono diventati effettivamente realizzabili, spesso, anche se non sempre, con “socialista” o “comunista” come parte del loro nome.

In terzo luogo, la distinzione originaria tra sinistra e destra non riguardava solo chi avrebbe avuto il potere, ma anche chi avrebbe dovuto averlo (cioè l’ideologia) e questo vale ancora oggi. Ecco perché le lotte della Rivoluzione francese, e delle altre che l’hanno seguita, riguardavano essenzialmente il miglior sistema di governo. Per molti francesi comuni nelle campagne, dove viveva la stragrande maggioranza, il sistema in vigore era quello ordinato da Dio e basta. Si sollevarono quindi in difesa di un sistema divinamente ordinato e contro coloro che consideravano poco meno che atei. I loro eserciti improvvisati combatterono con lo slogan “Per Dio e per il Re”, sottolineando che stavano difendendo una particolare posizione ideologica. A sua volta, il governo rivoluzionario inviò le truppe per reprimere sanguinosamente le rivolte, in nome della propria ideologia, con conseguenze che si sono protratte fino ai giorni nostri.

Ciò contribuisce a spiegare il paradosso (apparente) delle persone che sostengono un partito politico quando i loro interessi economici suggerirebbero di sostenerne un altro. Le opinioni profonde sul tipo di società che si desidera sono spesso più potenti della promessa di benefici economici immediati. Molto spesso, inoltre, le persone sostenevano i partiti di destra perché temevano il cambiamento: il presente poteva non essere perfetto, ma il futuro, se la sinistra avesse preso il potere, avrebbe potuto essere peggiore. Dopotutto, non c’è nessuno più reazionario dell’individuo che è riuscito a salire un po’ di livello sociale e ora guarda con disprezzo i suoi ex-uguali. La paura di perdere il piccolo vantaggio acquisito, o il timore di non essere più in grado di distinguersi facilmente dalla classe operaia, sono potenti incentivi a votare per la destra, poiché ciò preserva la situazione, e quindi il proprio piccolo vantaggio.

Quindi le ragioni per cui le persone hanno storicamente votato per la sinistra o per la destra (a prescindere dalle etichette transitorie dei partiti) non sono necessariamente finanziarie, e in effetti il potere finanziario e quello politico non sono sempre andati di pari passo. È stato così finché la ricchezza era legata più o meno esclusivamente alle rendite derivanti dalla proprietà della terra, ma lo sviluppo di una classe media urbana e l’avvento della rivoluzione industriale hanno fatto sì che in molti Paesi il potere dell’aristocrazia (spesso relativamente povera) fosse sempre più contestato, a volte in modo violento. È inoltre riconosciuta la tendenza dei proprietari di immobili in qualsiasi Paese a votare in modo sproporzionato per la destra, perché si identificano psicologicamente con le tradizionali strutture di potere basate sulla proprietà. (È interessante notare come la qualificazione della proprietà sia stata uno dei passi intermedi verso la piena democrazia in alcuni Paesi).

In quarto luogo, come sarà ormai evidente, la sinistra è necessariamente una festa mobile, e in qualsiasi momento esisterà in forme diverse con opinioni diverse su come esattamente il potere dovrebbe essere distribuito e chi dovrebbe avere cosa. Inoltre, poiché la sinistra è stata storicamente una forza insurrezionale che cercava di sconvolgere lo status quo, c’era molto spazio per le discussioni sul modo migliore per promuovere una più ampia distribuzione del potere. In linea di massima, questo si risolse in un conflitto tra i gradualisti, che credevano in riforme frammentarie e nel vincere lentamente la battaglia delle menti e delle idee, e i rivoluzionari che credevano che il sistema nel suo complesso non potesse essere riformato e dovesse essere rovesciato. Per un certo periodo, e soprattutto dopo il 1945, sembrava che i gradualisti avessero la meglio, anche se oggi questo sembra meno chiaro.

Era ovvio che entrambe le politiche non potevano essere perseguite allo stesso tempo, e che anzi erano in contrasto l’una con l’altra. Soprattutto dopo la Rivoluzione russa e la fondazione dell’Internazionale comunista, le due tendenze si scannarono a vicenda. Ciò ebbe conseguenze disastrose: L’insistenza di Stalin sul fatto che la sinistra non comunista (“socialfascisti” era uno dei termini più gentili) fosse di fatto uguale alla destra, impedì qualsiasi cooperazione tra partiti comunisti e socialisti. Questo fu un problema soprattutto in Germania, dove i comunisti si rifiutarono di sostenere la Repubblica di Weimar, accelerando così la sua caduta e tutto ciò che ne seguì. Quando Stalin cambiò idea nel 1936, era già troppo tardi e in ogni caso, dove era importante, come in Spagna, i comunisti passarono gran parte del loro tempo a spazzare via la concorrenza di sinistra.

Pertanto, la sinistra sarà intrinsecamente divisa sia sugli obiettivi strategici che sulle tattiche, poiché non esiste una formula matematica concordata per calcolare la distribuzione ideale del potere, né un modo sicuro per raggiungerla. Storicamente, i partiti di sinistra hanno quindi spaziato da quelli che cercano un cambiamento politico ed economico radicale, senza escludere la violenza, a quelli che credono che il sistema attuale possa essere catturato e fatto funzionare meglio. Si va da coloro che aborriscono qualsiasi forma di potere centralizzato e favoriscono la democrazia diretta, a coloro che credono che se le persone giuste controllano il sistema esistente, questo può essere fatto funzionare nell’interesse generale. Storicamente, ciò che univa la sinistra era la convinzione che il potere fosse concentrato nelle mani sbagliate, e a volte questo era tutto ciò che la univa. Oggi la situazione è più complicata, come vedremo tra poco.

In quinto luogo, una volta che i partiti di massa della sinistra si sono organizzati, sono stati inevitabilmente guidati e gestiti in modo sproporzionato da socialisti di formazione borghese. Sebbene ci fossero molti leader della classe operaia di spicco, gran parte del lavoro passava inevitabilmente nelle mani di coloro che avevano il tempo libero, l’istruzione, le capacità organizzative e professionali e che potevano operare efficacemente in parlamento e con i media. Questo aspetto fu notato molto presto da Robert Michels, un funzionario del Partito Socialista Tedesco, che scrisse di quella che chiamò “Legge di ferro dell’oligarchia”, secondo la quale in qualsiasi organizzazione poche persone finiscono per dominare. In effetti, negli anni Cinquanta, la maggior parte dei partiti di sinistra era in pratica guidata a livello nazionale da leader della classe media con formazione universitaria, mentre a livello locale la maggior parte del potere era ancora detenuta dai membri dei sindacati, il cui sostegno era essenziale per mantenere una base politica di massa.

Questo non era necessariamente un problema, perché la maggior parte dei dirigenti della classe media condivideva un impegno genuino per rendere il mondo un posto migliore: Hugh Gaitskell, probabilmente il miglior Primo Ministro che la Gran Bretagna abbia mai avuto, era figlio di un produttore benestante, ma si era convertito al socialismo dopo aver visto le condizioni miserevoli della classe operaia intorno a lui. Il problema si è aggravato con la massiccia espansione dell’istruzione universitaria a partire dagli anni Sessanta, che ha prodotto una nuova classe di membri del partito con una laurea, che svolge un lavoro da “colletti bianchi”, spesso nel campo dell’istruzione, dei media o in ambiti simili, e che è fisicamente e intellettualmente molto lontana dalla base tradizionale del partito. Con il passare del tempo e la progressiva deindustrializzazione dei Paesi occidentali, queste persone hanno iniziato a dominare. Erano meno preoccupati degli obiettivi tradizionali della sinistra – dopo tutto, negli anni Sessanta la società era diventata molto più equa, il potere era molto più diffuso e la povertà e la disoccupazione erano cose del passato – e molto più preoccupati delle questioni etiche e dei problemi del mondo. Nella maggior parte dei Paesi si sono fatti strada con la guerra del Vietnam, dopodiché hanno iniziato a fare campagne su temi come l’ambiente, l’apartheid in Sudafrica e la povertà nel mondo: cause che, pur con tutte le loro virtù intrinseche, non erano le principali preoccupazioni della loro base elettorale. Inoltre, tendevano ad avere opinioni socialmente molto più liberali di quelle della base operaia naturalmente conservatrice del partito.

A sua volta, il potere nei partiti politici, rispetto all’apparato di governo, era spesso ancora detenuto dai tradizionali leader sindacali. Ciò è avvenuto soprattutto in Gran Bretagna, dove la conferenza annuale del Partito Laburista era dominata dai sindacati e la politica del partito era, almeno in teoria, dominata dal voto di blocco di milioni di iscritti esercitato dai leader sindacali. Questo ha prodotto un’enorme instabilità e divisioni all’interno del Partito Laburista: James Callaghan, l’ultimo Primo Ministro laburista prima di Blair, paragonò le riunioni settimanali del Comitato esecutivo nazionale del partito a un “calvario”. I leader dei sindacati si resero impopolari, anche presso i loro stessi iscritti, con i loro interventi spesso maldestri in politica, e la loro cattiva immagine pubblica tendeva a minare il Partito Laburista e a oscurare gran parte del buon lavoro che i sindacati effettivamente svolgevano. I tentativi del governo di Harold Wilson negli anni Sessanta di porre le relazioni industriali su una base giuridica adeguata furono sconfitti dall’opposizione dei sindacati: la prima tappa del suicidio della sinistra britannica. Con il precipitoso declino del potere dei sindacati a partire dagli anni ’80 e la scomparsa della base di massa del partito, la presa dei colletti bianchi su tutti gli aspetti del partito è necessariamente aumentata.

Lo stesso è accaduto nella maggior parte dei Paesi occidentali, soprattutto con il declino dei partiti comunisti precedentemente potenti e ben organizzati dopo la Guerra Fredda. La natura naturalmente frammentaria dei partiti di sinistra, unita alle tensioni economiche degli anni Settanta, aveva già iniziato a spaccarli. L’esempio più catastrofico si ebbe, ancora una volta, in Gran Bretagna, dove gran parte dell’élite borghese del Partito Laburista, stanca dei sindacati e stufa delle frange trotzkiste e delle loro tattiche di ingresso, se ne andò in fretta e furia per fondare il Partito Socialdemocratico, che non fu mai in grado di ottenere una grande rappresentanza in Parlamento, ma riuscì a distruggere le possibilità del Partito Laburista di formare esso stesso un governo per tutti gli anni Ottanta e la maggior parte degli anni Novanta, finché alla fine si disintegrò a sua volta.

Mi soffermo un attimo su questo esempio, perché la vittoria dei conservatori alle elezioni del 1979 viene spesso considerata come l’inizio di uno spostamento a destra a livello mondiale e di un rifiuto del consenso economico del dopoguerra. Le politiche del governo conservatore della Thatcher, così come erano, furono rapidamente riprese altrove, con il sostegno entusiasta dei ricchi, di gran parte dei media occidentali e dei sistemi bancari e finanziari, in quanto promettevano ricchi guadagni dalla privatizzazione dei beni pubblici e dalla progressiva distruzione del settore pubblico. Ad esempio, quando François Mitterrand fu eletto primo Presidente socialista della Quinta Repubblica nel 1981, le sue politiche sensate e impeccabili di consenso postbellico si scontrarono con il muro di mattoni che si stava frettolosamente costruendo sulla base della vittoria della Thatcher e, più che altro, sul senso di disperazione e di sconfitta che si era rapidamente impadronito dei partiti di sinistra di tutto il mondo negli anni Ottanta.

Ma tutto questo non era necessario. Nel 1979, la Thatcher ottenne una vittoria casuale, essenzialmente grazie a un voto di protesta. Un lungo e rigido inverno, costellato da vertenze industriali e scioperi, e un governo incerto e con una maggioranza risicata si combinarono per produrre un’elezione imprevista e una risicata maggioranza conservatrice. Ma un’elezione nell’ottobre 1978, che James Callaghan era stato fortemente consigliato di tenere, avrebbe probabilmente portato a un Parlamento senza maggioranza complessiva, o con una maggioranza risicata per la Thatcher. La decisione di non indire le elezioni fu probabilmente il più grande errore della politica britannica del XX secolo. Tuttavia, la catastrofe economica provocata dalle politiche economiche dei conservatori avrebbe dovuto portare alla vittoria dei laburisti nel 1983, e lo avrebbe fatto, se non fosse stato per la scissione appena descritta, che in pratica equivaleva al taglio della gola da parte della sinistra britannica.

Quindi l’apparente trionfo della destra e l’apparente sconfitta della sinistra, in Gran Bretagna e altrove, è stata in gran parte contingente e persino in parte un’illusione ottica. L’opinione pubblica della maggior parte dei Paesi occidentali si è in realtà spostata a sinistra negli anni ’80, se intendiamo il termine “sinistra” nel senso tradizionale qui utilizzato di ricerca di una più equa distribuzione del potere e della ricchezza. Sondaggio dopo sondaggio è emerso che, quando si chiedeva ai cittadini occidentali non quale partito sostenessero o quale etichetta gradissero, ma quali politiche favorissero, le politiche tradizionali della sinistra rimanevano popolari presso la maggioranza dell’elettorato.

È proprio a questo punto, però, che la sinistra tradizionale si è arresa ed è diventato sempre più difficile trovare partiti che sostenessero effettivamente una società migliore e più giusta. Alla fine, la sinistra non ha opposto una vera e propria resistenza, né tantomeno ha reagito. Coloro che hanno controllato sempre più la sinistra dagli anni ’80 in poi hanno commesso due errori. Hanno scambiato un momento politico transitorio per un grande cambiamento strutturale nel pensiero dell’elettorato, si sono arresi completamente e si sono sdraiati nel fango davanti al rullo compressore aspettando rassegnati di essere schiacciati. (Qui, ovviamente, vediamo il tradizionale masochismo della sinistra e il suo amore per le sconfitte). All’epoca c’era un mercato considerevole in vari Paesi per i libri che sostenevano che la sinistra era finita, che non avrebbe mai più avuto il potere e che il meglio che poteva fare era emulare la destra, ma con un volto un po’ meno disumano. Questa generazione di sinistra era molto più influenzata dall’opinione dell’élite, dai media e dalle persone che conoscevano socialmente che non dal comune gregge di elettori, che continuava ostinatamente a sostenere le idee tradizionalmente associate alla sinistra. Ricordo una figura tipica dell’epoca che riteneva che la sinistra dovesse cambiare in questo modo: Martin Jacques, esponente del partito comunista e redattore di Marxism Today con un dottorato in economia, che per tutti gli anni Ottanta scrisse una serie di articoli autolesivi sulla fine della sinistra in Gran Bretagna, prima di cambiare idea dopo la vittoria laburista del 1997.

Il secondo errore fu di immaginazione. All’inizio del suo regno, la Thatcher era una figura talmente divisiva e per molti versi ridicola (era soprannominata “Attila la gallina” a Whitehall per i suoi scatti d’ira) che sembrava impossibile che potesse durare a lungo. E in effetti, se non fosse stato per una grande dose di fortuna e per l’assoluta incompetenza dell’opposizione, non ce l’avrebbe fatta. Quando i suoi nemici politici si sono resi conto che lei e la sua cricca facevano sul serio, la macchina era ormai sciolta e si stava scatenando nel Paese, distruggendo tutto e invadendo altri Paesi.

In sesto luogo, le idee della sinistra non sono la stessa cosa delle idee del liberalismo, e non lo sono mai state. In passato, questa distinzione non avrebbe sorpreso né la sinistra né i liberali, che spesso erano acerrimi nemici. La differenza fondamentale è che la sinistra si è sempre interessata al bene della società nel suo complesso, mentre il liberalismo si concentra sugli interessi del singolo. Il liberalismo è sorto prima dell’era della democrazia di massa – anzi, è antipatico ad essa – e l’argomentazione di alcuni liberali secondo cui la somma dei diritti individuali può sommarsi a un diritto collettivo è chiaramente errata. La maggior parte dei “diritti” sono in realtà rivendicazioni sul tempo e sul denaro di altre persone, e inevitabilmente coloro che hanno più successo nel far valere queste rivendicazioni saranno quelli che hanno il potere e il denaro. Filosofi come John Rawls, che hanno tentato di costruire società liberali ideali – ad esempio basandosi sulla sua ipotesi del velo di ignoranza – stanno in realtà scrivendo fantascienza, piuttosto che teoria politica.

Il liberalismo è nato, dopo tutto, come risposta della classe media al potere della monarchia in vari Paesi. Non è stato concepito come un movimento politico di massa e non ha mai avuto l’intenzione di svilupparsi. (Un movimento politico di massa di individualisti in competizione è comunque un concetto curioso). Era contro la concentrazione del potere in troppe poche mani e contro l’idea di un governo forte e capace, ma molto favorevole all’idea di ottenere più potere per sé. In effetti, possiamo definire la differenza tra le idee della sinistra e quelle del liberalismo in senso lato come la differenza tra democrazia e oligarchia. Montesquieu lo notò nel suo famoso inno alle virtù del sistema politico britannico. Il potere in Gran Bretagna, sosteneva, era condiviso tra le diverse parti dell’establishment, in modo che nessuna parte diventasse troppo potente, come era diventata la Corona in Francia. Ma è proprio nella differenza tra separazione dei poteri e diffusione del potere che si trova il contrasto tra questi due sistemi di pensiero.

Per fare una semplice analogia, consideriamo una società gestita dai liberali come una famiglia di classe medio-alta che discute su cosa fare della casa dei genitori, che comincia ad avere bisogno di manutenzione e potrebbe essere venduta. Un figlio, forse, è un politico, un altro un banchiere, un altro lavora nei media, un quarto è un avvocato, un quinto è un medico. Quindi potrebbero commissionare uno studio a un architetto o a un costruttore per aiutarli a decidere, ma non si sognerebbero mai di chiedere il parere del giardiniere o della donna delle pulizie. Pertanto, i principali partiti liberali della storia hanno sempre avuto un problema strutturale nell’attrarre un elettorato di massa. Non era ovvio perché la classe operaia dovesse votare per partiti che diffidavano dell’azione e della spesa del governo (tranne che per la polizia e i tribunali) e predicavano le virtù della libertà economica, che ovviamente avvantaggiava i più forti. (Come ha osservato il grande socialista britannico RH Tawney, “la libertà per il luccio è la morte per il pesce piccolo”). Inoltre, quando le due tendenze entrarono in collisione, i liberali, in quanto movimento fondamentalmente elitario, si schierarono con la destra. È il caso più noto della Francia del 1871, quando il governo repubblicano di Adolphe Thiers, appena insediato, inviò l’esercito a massacrare i comunardi che avevano preso il controllo di Parigi e tentato di instaurare una vera democrazia.

In una certa misura, questo conflitto fu celato da un grado di interesse comune con la sinistra che non è del tutto morto. Per esempio, i partiti liberali in Europa tendevano a opporsi a un ruolo politico della religione organizzata (anche se era pragmaticamente utile per tenere i poveri al loro posto), tendevano a essere favorevoli a un certo grado di istruzione, perché avevano bisogno di una forza lavoro istruita per le fabbriche e gli uffici, tendevano a essere contrari alle guerre e al militarismo, in quanto spreco di risorse pubbliche, e in generale erano felici di aumentare la percentuale di popolazione che poteva votare, almeno fino a un certo punto. Sostenevano una tassazione più elevata per i ricchi, perché non erano essi stessi molto ricchi. Col tempo si sono convertiti a un ruolo più ampio dello Stato (ad esempio in settori come la sanità e l’istruzione) perché hanno potuto constatare che ciò contribuiva a rendere i loro Paesi più competitivi dal punto di vista economico. Inoltre, data la vacuità ideologica del liberalismo stesso, i liberali tendevano spesso ad assumere la colorazione politica dell’epoca. Nel XIX secolo, in alcuni Paesi i liberali furono fortemente influenzati dalla religione evangelica, con il suo impegno per il benessere sociale, e in Francia adottarono le idee repubblicane, compresa l’uguaglianza. Per gran parte del XX secolo hanno seguito le concezioni socialdemocratiche prevalenti, tanto più che temevano le attrattive elettorali dei partiti comunisti. Inoltre, molti liberali appartenevano a quella comoda classe media che si considerava moralmente superiore ad altre parti della società, e molti frequentavano la chiesa o si impegnavano in attività benefiche. Nella mia giovinezza, essere un politico liberale era quasi un sinonimo di “simpatico”, anche se in definitiva inefficace, e dalla stessa parte, in definitiva, dei partiti di sinistra. È solo nell’ultima generazione o giù di lì, quando tali accomodamenti non sembrano più necessari, che i guanti sono stati tolti.

Inoltre, i liberali avevano, e in gran parte conservano, il grande vantaggio politico della custodia della parola “libertà”. Dopo tutto, chi non vorrebbe essere “libero”? Chi potrebbe ragionevolmente votare per un partito che promette di rendervi meno liberi? Ma come Tawney aveva notato, e come George Orwell sottolineava spesso, “libertà” è un concetto molto scivoloso. (È un utile esercizio retorico sostituire “incontrollato” o “non regolamentato” con “libero” in un discorso liberale e osservare i risultati). La sinistra, d’altra parte, ha sempre sottolineato che la “libertà” normativa o dichiarativa non ha alcun valore se non vengono messe in atto misure specifiche per garantire che la libertà teorica diventi effettiva e che non venga poi abusata dai ricchi e dai potenti. Perciò qualcosa come gli accordi di Schengen, parte della “libera circolazione dei popoli” tanto amata dall’UE, è una classica misura liberale. In teoria tutti sono liberi di viaggiare ovunque, anche se in pratica la maggior parte degli europei va all’estero meno di una volta all’anno, e solo per le vacanze. Molti non lasciano mai il proprio Paese di nascita. D’altra parte, Schengen facilita il trasferimento dei lavoratori, non da ultimo degli immigrati non qualificati, da un Paese all’altro verso il luogo in cui i datori di lavoro hanno bisogno di loro: non è tanto la libera circolazione dei popoli quanto la libertà di spostare i popoli. Ma nulla di tutto ciò è davvero sorprendente: come aveva acutamente osservato Anatole France qualche tempo prima, in una società liberale “la legge proibisce a ricchi e poveri di dormire sotto i ponti, di chiedere l’elemosina per strada e di rubare pagnotte”.

Tuttavia, l’assenza di una vera e propria filosofia liberale che non sia la ricerca della gratificazione dell’ego produce un curioso paradosso: un’ideologia che si presume sia incentrata sulla libertà personale consiste, in pratica, in infinite regole e norme come modo per riempire il vuoto esistenziale. Al posto della religione organizzata – o delle opere di Marx, se preferite – abbiamo organismi di diritto contrattuale. Un esempio di ciò è stata l’effettiva criminalizzazione della vita quotidiana: la sostituzione dell’abitudine, della tradizione, delle buone maniere e del buon senso con norme infinitamente dettagliate e complesse per regolare il comportamento personale (si veda una qualsiasi università occidentale). Per contro, la maggior parte delle varianti del pensiero di sinistra enfatizza la necessità e i vantaggi del fatto che le persone elaborino e applichino le proprie regole, come hanno fatto storicamente i sindacati e i club di lavoratori.

Un’ultima, ma sostanziale, differenza è che la sinistra ha generalmente ripreso e attuato la parte dell'”uguaglianza” della rubrica della Rivoluzione francese, che non significa tanto che le persone debbano essere uguali (un’impossibilità effettiva), ma piuttosto che devono essere trattate in modo uguale, e quindi che le regole, le leggi e i diritti devono essere universali. Il liberalismo, invece, cerca di universalizzare il proprio insieme di assunti in gran parte aprioristici sulla libertà personale incontrollata, non solo a livello nazionale ma ovunque abbia il potere di farlo, e di cercare di contenere il caos che ne deriva attraverso regole e leggi sempre più dettagliate e coercitive. In altre parole, il liberalismo è bloccato nella contraddizione senza speranza di promuovere la libertà teorica di ognuno di essere diverso, mentre in pratica costringe tutti a essere gli stessi attori economici robotizzati che massimizzano i valori, tutti con lo stesso insieme limitato di opinioni accettabili. A differenza della tradizione della sinistra, che vede i diritti come universali, il concetto liberale di “diritti”, la cosa più vicina a una religione per il liberalismo, porta inevitabilmente al conflitto tra gruppi identitari autodefiniti che chiedono un trattamento speciale, di solito sulla base del fatto che non sono stati “uguali” in passato.

Riassumendo, e parlando della “sinistra” in generale, piuttosto che di gruppi, tendenze o ideologie specifiche, possiamo dire che la sinistra cerca una società in cui il potere e la ricchezza siano ampiamente distribuiti e in cui le decisioni siano prese il più vicino possibile alla gente comune, nell’interesse della società nel suo complesso, e non di qualche gruppo contraddistinto da ricchezza, posizione o identità. Queste idee non sono nate nel vuoto e sono state collegate a concetti di come sarebbe stata una società migliore (anche se non necessariamente ideale) e i movimenti politici sono stati fondati per contribuire alla realizzazione di tale società. Ma poiché la sinistra si occupava essenzialmente della direzione che la società avrebbe dovuto prendere, piuttosto che dei dettagli del percorso e della destinazione, ci furono molte discussioni su dove andare esattamente e sulle tattiche migliori per arrivarci, che ebbero l’effetto di indebolire la sinistra nel suo complesso. Inoltre, le tensioni interne si sono sviluppate man mano che i partiti della sinistra perdevano la loro base operaia e la loro leadership originaria, per essere sempre più controllati da professionisti con una formazione universitaria e altre priorità. Questo processo tendeva a oscurare le profonde e importanti differenze tra il pensiero di sinistra e il liberalismo, nonostante alcune coincidenze di interesse: un problema che esiste ancora più fortemente oggi.

Per questo motivo, oggi viviamo in una società che ha poco a che fare con le aspirazioni e i valori tradizionali della sinistra e, soprattutto, in cui nessuno dei principali partiti politici occidentali abbraccia veramente l’idea di una politica redistributiva, né di una società e di un’economia gestite a beneficio di tutti. Piuttosto, il governo è diventato più distante, meno capace ma più potente, e nuovi attori non eletti come l’Unione Europea e vari tribunali nazionali e internazionali si sono inseriti in ciò che rimane dei processi democratici. Sebbene la ricchezza non conferisca automaticamente potere, abbiamo comunque assistito a un aumento senza precedenti delle disparità di ricchezza nella maggior parte delle società occidentali. Inoltre, gran parte di questa ricchezza è concentrata nelle mani di attori commerciali che svolgono un lavoro che un tempo era svolto dallo Stato e quindi, in pratica, nessuno è effettivamente responsabile nei confronti dell’elettorato per la corretta fornitura della maggior parte dei servizi che rendono possibile la nostra vita. Il concetto di diritti universali è stato disaggregato in una serie di “diritti” asseriti per qualsiasi gruppo che si autodefinisca tale. (Non esistono “diritti degli omosessuali”, per esempio: esiste il diritto universale degli omosessuali di essere trattati in modo uguale agli altri e quindi di non essere discriminati). Infine, “libertà” e “tolleranza” sono state reinterpretate per significare coercizione e intolleranza, nel caso in cui lobby politicamente potenti trovino qualcosa di cui lamentarsi.

Obiettivamente, nulla di quanto descritto corrisponde alle preoccupazioni e agli obiettivi tradizionali della sinistra: non si tratta di un giudizio di valore, poiché è evidente che molte persone e molti partiti politici sono di fatto soddisfatti di tutto ciò, e sosterrebbero che è giusto e necessario, ma semplicemente di un fatto pragmatico. Nella misura in cui esistono ancora partiti politici che sostengono l’idea tradizionale che le decisioni debbano essere prese il più vicino possibile al cittadino comune e il più possibile nell’interesse generale, essi si trovano per lo più in quella che viene definita la destra, se non l’estrema destra. Tuttavia, probabilmente non è una buona idea entusiasmarsi troppo per questo, o cercare di erigere teorie ambiziose sulla base di esso. Dopotutto, i partiti tradizionali della sinistra, ora gestiti da politici manageriali di comodo, di formazione universitaria e benpensanti, quasi del tutto separati dalle preoccupazioni del mondo reale ma fortemente influenzati dalla teoria, si comportano semplicemente come ci si aspetterebbe da loro, un po’ come i gestori di fondi speculativi che hanno rilevato un’azienda di famiglia. In effetti, è utile pensare ai partiti tradizionali della sinistra come a famose aziende (forse la Disney?) rilevate e rovinate da estranei che ne traggono solo vantaggi. In effetti, la lunga lotta tra la sinistra e il liberalismo è stata ormai vinta, con il secondo che si è infiltrato nel primo come un parassita, mantenendo però alcuni dei punti di riferimento e dei discorsi esterni. Non ha senso, quindi, dire che “la sinistra controlla le università”. Tutto ciò che si può forse dire è che lo fanno gruppi spesso identificati con partiti che un tempo erano di sinistra ma ora non lo sono più. Questi sono i partiti che ho sempre descritto come la Sinistra fittizia.

Temo molto che la vera sinistra possa rivelarsi una fase irripetibile nell’evoluzione delle società politiche. Si basava su ingiustizie chiare ed evidenti che dovevano essere affrontate, su obiettivi politici ed economici chiari ed evidenti che dovevano essere attaccati, su una base operaia di massa, su comunità organizzate intorno al posto di lavoro, su un discorso di solidarietà di classe e di giustizia economica, su sostenitori della classe media e su politici vicini alle preoccupazioni della gente comune. Tutto questo oggi non esiste.

Il che non significa che il liberismo senza palle di oggi abbia “vinto” in un senso importante. Anzi, la sua intrinseca incoerenza e la sua inevitabile guerra interna fanno sì che venga messo da parte dalla prima forza organizzata che lo affronterà. È abbastanza chiaro che questa forza sarà un tipo di populismo radicale, forse nozionalmente identificato con la destra, semplicemente perché la sinistra fittizia si rifiuterà di avere a che fare con essa. Ma coloro che rendono impossibile la vittoria della sinistra, renderanno inevitabile la vittoria della destra. Spero che saranno contenti del risultato.

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Negli ultimi mesi, il malcontento di lunga data per le politiche migratorie dei governi occidentali, e soprattutto europei, si è fatto più acuto. I partiti che fanno dell’immigrazione un problema hanno ottenuto buoni risultati alle elezioni (da ultimo nei Paesi Bassi), i politici che prima tergiversavano sono costretti ad accettare che il problema (o i problemi) esistono davvero, e il problema si sta facendo strada nei media, nelle statistiche dei sondaggi d’opinione e si collega alle preoccupazioni per la crescente illegalità e violenza nelle città europee. Ma l’aspetto più sconcertante dell’intera situazione è che i governi, da cui ci si aspetterebbe che si accorgano di una causa politica popolare quando questa salta su e giù e agita le mani davanti a loro, si sono trovati in uno stato di catatonica negazione assoluta dell’esistenza di qualsiasi problema. Ecco quindi il tentativo di spiegare perché ritengo che ci sia un enorme divario tra i governanti e i governati.

Ed è un divario enorme. La cosa curiosa del “dibattito sull’immigrazione” è che si tratta di un non-dibattito, un dibattito che non deve avere luogo. Le grandi linee del dialogo dei sordi degli ultimi dieci anni circa possono essere schematizzate come segue:

Le persone: Per favore, qualcuno si accorga dei problemi causati dalla massiccia immigrazione dell’ultima generazione e faccia qualcosa.

Le élite. Non c’è nessun problema. Vergognatevi anche solo per aver suggerito che ci sia. Solo i nazisti vogliono parlare di immigrazione.

E non sto esagerando. L’immigrazione e i problemi che ne derivano sono diventati come uno di quegli argomenti di cui i miei genitori non volevano parlare quando ero giovane, perché “non era bello”. Leggete, ad esempio, questo magistrale resoconto dei retroscena dei recenti “disordini” di Dublino, pubblicato su Naked Capitalism da un residente e osservatore di lunga data. Oppure guardate la prosa e il ragionamento contorto di questo articolo del Grauniad sull’incredibile impennata dei crimini con armi da fuoco in Svezia, ora il Paese più pericoloso d’Europa ad eccezione dell’Albania, e che non ha nulla, assolutamente nulla, a che fare con l’immigrazione, anche se la violenza è in gran parte opera di bande di immigrati e ha luogo in aree ad alta penetrazione di immigrati. Si tratta invece di povertà e disuguaglianza che, come sappiamo, sono infinitamente peggiori in Svezia che, ad esempio, in Romania.

Dal punto di vista della politica pratica, questo è folle. Rifiutarsi di parlare di immigrazione non è una politica e, secondo il più cinico dei calcoli, lascia uno spazio aperto a coloro che sono pronti a pronunciare la parola e a suggerire che l’immigrazione ha prodotto problemi che devono essere affrontati dai governi. In Francia è diventato un luogo comune dire che i principali partiti politici non potrebbero fare di più per garantire la vittoria di Marine Le Pen alle elezioni del 2027 se ci provassero, ma questo non lo rende meno vero. Come si spiega allora il silenzio quasi suicida sull’argomento da parte dell’establishment occidentale? Vorrei fare una serie di proposte, dalle più banali a quelle estremamente tendenziose, e vedere cosa ne pensate.

In primo luogo, ovviamente, sarebbe necessario un grande sforzo. Bisognerebbe riconoscere gli errori, trovare i soldi, reclutare il personale, portare avanti la costruzione e così via. Soprattutto, qualcuno dovrebbe assumersi la responsabilità. È molto più facile, alla fine, lasciare che le cose continuino ad andare alla deriva, e lasciare che siano un problema di qualcun altro, potendo al contempo assumere una posizione moralmente superiore. Per i governi che non fanno più nulla, e anzi mancano sempre più della capacità di base di fare qualcosa, questa è praticamente la soluzione di default. Ma non credo che questo spieghi molto da solo. Dopo tutto, ai governi non costerebbe nulla riconoscere almeno l’esistenza di un problema, ma non lo fanno nemmeno. Anzi, sprecano capitale politico e danneggiano le loro prospettive politiche facendo il contrario. Cosa sta succedendo?

Forse può essere d’aiuto considerare la principale spiegazione che è stata avanzata per la volontà, o addirittura la smania, dei governi occidentali di adottare una politica di immigrazione di massa nell’ultima generazione o giù di lì. Non c’è bisogno di soffermarsi sull’invecchiamento della popolazione: l’alto tasso di disoccupazione tra le persone in età lavorativa significa che ci sono già molti lavoratori, e ce ne saranno anche nel prossimo futuro. È vero, naturalmente, che gli europei hanno storicamente richiesto cose come salari e condizioni di lavoro decenti, protezione dell’occupazione e così via, mentre gli immigrati, che non hanno scelta, di solito possono essere costretti ad accettare di peggio. Ma l’idea che l’immigrazione di massa fosse solo la ricerca di una forza lavoro flessibile e sfruttabile non regge.

Tanto per cominciare, anche se foste il tipico datore di lavoro avido e arraffone che cerca di risparmiare sui costi del personale, non vorreste almeno una forza lavoro in grado di fare il proprio lavoro? Diciamo che gestite una catena di supermercati a basso prezzo e che impiegate molta manodopera immigrata in ruoli umili. Ebbene, secondo le statistiche del governo francese dello scorso mese, solo il 50% circa dei quattordicenni nelle scuole francesi sa leggere e scrivere a un livello accettabile. (Circa il 20% è analfabeta funzionale e questo è vero da alcuni anni). Inevitabilmente, queste cifre sono molto peggiori nelle aree più povere e tra la popolazione immigrata. Forse non è importante se diventerai un influencer di YouTube o un artista rap. Ma se non lo sei? Se non sai leggere e scrivere correttamente, non puoi lavorare come cassiere, non puoi passare il test per guidare un camion, non puoi nemmeno impilare la merce sugli scaffali giusti. Allo stesso modo, un numero crescente di immigrati arriva come minore non accompagnato e non impara mai a parlare correttamente il francese, perché non sono mai state destinate risorse all’insegnamento della lingua. Dopodiché le prospettive di lavoro sono, diciamo, non ottimali. Il risultato è che in molti quartieri medio-bassi un quarto o un terzo della classe non riesce a parlare il francese abbastanza bene da seguire correttamente le lezioni, il che rovina le cose per tutti. Ma non parliamo di questo.

Ora, per quanto stupido sia il datore di lavoro medio o il politico di destra, deve essergli venuto in mente che avere una forza lavoro flessibile e a basso costo non ha alcun valore se i lavoratori non sono in grado di svolgere il proprio lavoro. Infatti, è comune incontrare datori di lavoro che in privato deplorano il fatto di non riuscire a trovare personale qualificato per il lavoro, a prescindere da quanto lo paghino. Allo stesso modo, è noto che la maggior parte degli hotel delle principali città europee impiegano cameriere provenienti dall’Europa dell’Est che non parlano la lingua locale e cercano di cavarsela con qualche parola di inglese. (Sarebbe stato bello se qualcuno avesse previsto questi problemi una generazione fa e avesse investito denaro per risolverli, o addirittura per evitare che si verificassero). Non credo quindi che le spiegazioni economiche siano sufficienti, tanto più che ora ci sono più potenziali lavoratori a basso costo e disperati che posti di lavoro, e ne arrivano sempre di più.

Quindi cos’altro potrebbe essere? E in particolare, perché le persone che non traggono vantaggi economici dall’immigrazione di massa la sostengono comunque? Una ragione, suggerisco, è il fascino dell’esotico. Quando ero giovane, si accettava che ci fossero ampie parti del mondo che non si sarebbero mai viste, a meno che non si fosse ricchi o si avesse un lavoro che comportava viaggiare o lavorare all’estero. Oggi non è così diverso come si potrebbe pensare, soprattutto in questi tempi di insicurezza, ma la gente non lo accetta più così facilmente, perché le immagini del mondo intero sono a portata di mano e ci sono potenti interessi economici che cercano di farci credere che possiamo permetterci di andarci. E per la maggior parte di quello che io chiamo il Partito Esterno (la parte subalterna della Casta Professionale e Manageriale, la PMC) la vita è in realtà piuttosto monotona e noiosa, e le vacanze significano Grecia o forse Disneyland con milioni di altre famiglie a un costo esorbitante. Ma se non puoi andare in India o in Thailandia, e non vuoi andare in Afghanistan, beh, forse loro possono venire da te, sotto forma di ristoranti, negozi, cibi esotici al supermercato, sushi di tanto in tanto, questo genere di cose. E per molti membri del Partito Esterno, questa è praticamente la somma totale delle loro interazioni con le comunità di immigrati, ad eccezione, forse, di quel brillante e laborioso figlio di un medico indiano che è amico di vostro figlio o figlia, e i cui genitori incontrate a volte.

Forse il silenzio più strano in tutto questo è quello dei partiti della sinistra fittizia che, si potrebbe pensare, sarebbero ben consapevoli dell’impatto dell’immigrazione sul loro nucleo di elettori e starebbero facendo qualcosa per mitigarne gli effetti. Invece no: i leader di questi partiti fanno a gara per difendere quelli che definiscono i diritti degli immigrati, in particolare degli immigrati clandestini, e per abusare e demonizzare chiunque provi anche solo a sollevare l’argomento. Perché? E al contrario, i partiti della Sinistra Nozionale prestano pochissima attenzione alle politiche che fornirebbero un aiuto concreto agli immigrati, come l’istruzione, la sicurezza o la fornitura di alloggi a prezzi accessibili. Perché?

Il punto di partenza, a mio avviso, è il ben noto cambiamento di proprietà dei partiti della vecchia sinistra nell’ultima generazione o giù di lì. È noto che sono stati presi in mano da professionisti della classe media, disinteressati a continuare a costruire una base politica di massa e a governare (quando governavano) con espedienti e focus group. Ma cosa c’entra tutto questo con gli immigrati? Beh, una volta i partiti di sinistra erano fortemente sostenuti dagli elettori immigrati, perché fornivano loro assistenza pratica, e in Francia, ad esempio, molti leader di spicco della sinistra avevano origini immigrate. Conoscevo un anziano francese di origine armena, i cui genitori erano giunti in Francia dopo la Prima guerra mondiale, come molti altri, per sfuggire ai turchi. Ricordava che uno zio, arrivato un po’ più tardi, gli aveva raccontato che gli armeni erano stati accolti a Marsiglia dal Partito Comunista locale, con tessere di iscrizione al Partito e ai sindacati, e che poi si erano presi cura di loro. Oggi sembra tutto così pittoresco e superato. Ma cosa è cambiato?

Dobbiamo capire che i partiti della sinistra nozionistica sono ora controllati non da leader provenienti dai sindacati o dal governo locale e dalle comunità locali, ma dai discendenti (e a volte dagli stessi personaggi) di quei noiosi gruppi di marxisti che si trovavano nelle università negli anni Settanta, che non facevano altro che urlarsi addosso e litigare su cosa avesse detto Marx nel 1853, di ecologisti che volevano far esplodere le centrali nucleari o di femministe che ti sputavano in faccia se gli aprivi una porta. Gruppi come questi – e ce n’erano altri, ma tre sono sufficienti – non cercavano il sostegno popolare. Si consideravano gruppi d’avanguardia, seguendo la logica del pamphlet di Lenin del 1905 Che cosa bisogna fare? Lenin, si ricorderà, sosteneva che i tentativi di politici come Jaurès di prendere il potere pacificamente attraverso le urne e i sindacati erano destinati al fallimento. Era necessario un gruppo affiatato di rivoluzionari professionisti, che avrebbero preso il potere in nome della classe operaia. In effetti, i bolscevichi riuscirono dove i movimenti popolari di massa avevano fallito, generando una corrente di pensiero elitaria, dalla Scuola di Francoforte alla Nuova Sinistra degli anni Sessanta, che riteneva che la gente comune fosse stupida e quindi incapace di organizzarsi e portare avanti una rivoluzione. Ma gli attivisti illuminati, di classe media e con una formazione universitaria, sapevano cosa era bene per la classe operaia, per le donne, per i bambini, per l’istruzione, per l’ambiente e per una dozzina di altre cose, e non c’era appello contro i loro giudizi. Soprattutto, come ricordo che i militanti del partito laburista dicevano negli anni ’80, non si poteva parlare di “placare l’elettorato”.

Questa è la mentalità, e queste sono alcune delle stesse persone, che hanno controllato i partiti della sinistra nozionistica in tempi moderni. E tutto ciò che è accaduto è stato l’estensione dell’atteggiamento paternalistico nei confronti delle classi inferiori ignoranti, anche agli immigrati. Così ora la sinistra fittizia pretende di parlare per loro e di sapere cosa vogliono e di cosa hanno bisogno. Hanno bisogno di marce contro il razzismo e di ONG, ma non di istruzione o lavoro. Hanno bisogno di protezione contro il “razzismo istituzionale” della polizia, ma non contro la criminalità di cui le loro comunità soffrono in modo sproporzionato. In Francia, ad esempio, dove si piange e si stridono i denti per la violenza tra coniugi, è difficile denunciare i maschi di origine immigrata, per paura di scatenare polemiche politiche, anche se tutti riconoscono che i problemi maggiori sono in quelle società. Le associazioni di donne musulmane che protestano contro la violenza domestica o le molestie sessuali non vengono ascoltate: anzi, le femministe hanno incoraggiato queste donne a tacere, per paura di “stigmatizzare” la loro comunità.

Per generazioni, gli immigrati hanno votato per i partiti di sinistra perché erano rappresentati in modo sproporzionato tra i poveri e gli indigenti e avrebbero beneficiato dei governi di sinistra. In una misura considerevole, l’inerzia fa sì che lo facciano ancora, ma alla sinistra fittizia di oggi non importa. Il suo messaggio alla comunità degli immigrati, così come al resto dei suoi tradizionali sostenitori, è: “Zitti e votate per noi”: Zitti e votate per noi, e non aspettatevi nulla. Così, l’anno scorso, un gruppo di donne delle pulizie che lavoravano per il gruppo Accor Hotels in un hotel in una delle zone più malfamate di Parigi ha ottenuto una vittoria sulla retribuzione e sulle condizioni dopo un lungo sciopero. Quasi tutte provenivano da comunità di immigrati. Eppure non c’è stato un solo antirazzista, una sola femminista, un solo intersezionista che abbia sposato la loro causa o che ne abbia parlato. La loro vittoria è stata riportata in poche righe dai media vicini al PMC.

E questo viene notato. A livello locale, i partiti della sinistra nozionistica non cercano più di fare appello alle comunità di immigrati in quanto tali. Stringono accordi con i “leader delle comunità” locali, spesso figure religiose, ma a volte, diciamo, individui legati alla criminalità, che portano voti in cambio di posti di lavoro in municipio e sovvenzioni per le loro organizzazioni. Anche questo viene notato, ed è per questo che in molti Paesi europei il voto degli immigrati si sta spostando a destra, mentre la sinistra fittizia abbandona qualsiasi politica che possa convincerli a continuare a sostenerla. Dopo tutto, se la principale politica pubblicizzata dal partito della sinistra nozionistica locale alle elezioni è una campagna contro la “transfobia” nelle scuole, perché mai i pii immigrati di prima generazione, da poco naturalizzati, provenienti da un Paese musulmano dovrebbero votare per loro?

A lungo termine, e anche per il più arrogante dei partiti d’avanguardia, questo è un suicidio. Ma a breve termine, permette ai partiti della sinistra fittizia di continuare a usare le comunità di immigrati come serbatoio di voti, attraverso pressioni morali e accordi conclusi in stanze segrete. Inoltre, permette loro di imporre un discorso particolare sulle questioni dell’immigrazione che si adatta ai loro obiettivi. Nel loro discorso, gli immigrati sono figure deboli e indifese, sempre vittime, vittime della discriminazione e dell’emarginazione e incapaci persino di esprimere le proprie rimostranze, per non parlare di cercare di porvi rimedio. Solo i salvatori bianchi possono farlo. Soprattutto, non è ammessa alcuna critica a qualsiasi aspetto del comportamento delle comunità di immigrati, nemmeno da parte di membri di queste comunità, poiché ciò non farebbe altro che rafforzare l’estrema destra e consegnare il Paese nelle mani dei fascisti. O qualcosa del genere.

Ma accettando il fatto che la politica è spesso cattiva, cinica e arrivista, mi sembra che nell’atteggiamento della sinistra nozionistica verso gli immigrati ci debba essere qualcosa di più di questo. Ho un suggerimento, che comporta una deviazione sul tema degli imperi, ma non nel modo in cui probabilmente vi aspettate.

La mente occidentale moderna ha una comprensione bizzarra del concetto di Impero: tanto più che gli Imperi sono stati la principale forza motrice e il principale sistema di organizzazione politica fino a tempi molto recenti. Gli imperi classici (assiro, persiano, romano, moghul, Qing, arabo, ottomano, ecc.) erano essenzialmente imperi di espansione da una regione di origine imperiale, attraverso la guerra e la conquista, e in qualche misura l’assimilazione. Il motivo era spesso l’accaparramento di ricchezze e territori, e in molti casi gli imperi combattevano tra loro, e al controllo di un territorio da parte di uno seguiva il controllo di un altro. La stragrande maggioranza dei Paesi del mondo di oggi erano territori imperiali non più di un secolo fa.

Ma quando oggi si parla di “imperi”, di solito si ha un’impressione poco chiara degli effimeri imperi britannico e francese in Africa, le cui origini sono molto più complesse e in realtà molto più interessanti. Gli imperi marittimi dipendono, ovviamente, dalle navi e fu lo sviluppo di questa tecnologia a consentire i primi imperi europei in America Latina, il cui scopo originario era semplicemente l’accumulo di oro. In seguito i portoghesi stabilirono quello che viene spesso descritto come un “Impero”, ma che in realtà era più che altro una serie di stazioni commerciali, con relazioni politiche molto limitate con i regni africani dell’entroterra. La “Colonia del Capo” olandese era in realtà solo un porto in acque profonde a Simon’s Town, dove le navi olandesi delle Indie Orientali potevano fare rifornimento e riposare. Anche quando gli inglesi sottrassero la “Colonia” agli olandesi, durante le guerre napoleoniche, volevano solo la base navale.

Mi dilungo un po’ su questo punto perché, come dimostrano alcune utili mappe di Wikimedia, fino a circa centocinquant’anni fa la principale potenza coloniale in Africa era di fatto l’Impero Ottomano, e la cultura araba e l’Islam erano stati diffusi lungo la costa orientale dell’Africa dai commercianti provenienti dal Golfo. In confronto, l’impronta europea in Africa era piccola e in gran parte legata al commercio. Le ragioni di questo cambiamento sono state oscurate dalla continua influenza del movimento anticolonialista degli anni Sessanta e dalla relativa letteratura che sosteneva che l’Africa era stata “saccheggiata” dalle potenze coloniali. (In realtà, è vero più o meno il contrario: gli imperi sono stati un pozzo di denaro senza fondo). Ora, tra i motivi reali c’era sicuramente l’avidità: Cecil Rhodes è solo il più famoso degli imprenditori che promisero ai loro governi che le colonie sarebbero state redditizie, per poi essere salvati da quegli stessi governi quando fallirono. E alcuni individui hanno fatto fortuna in seguito, ad esempio con le miniere d’oro in Sudafrica. Ma la storia reale del trionfo delle idee imperiali alla fine del XIX secolo è molto più complessa e variegata di così.

Alcune motivazioni erano economiche e strategiche. Gli inglesi, ad esempio, la cui economia dipendeva dal commercio marittimo, cercavano possedimenti strategici dove poter sostenere la loro Marina, soprattutto dopo il passaggio al carbone, e un approvvigionamento sicuro di materie prime per l’industria. I francesi, dopo il 1870, vedevano nei possedimenti imperiali una riserva di manodopera e di risorse per la successiva guerra con la Germania. Entrambi avevano ragione e gli imperi hanno probabilmente salvato la Gran Bretagna e la Francia in entrambe le guerre del XX secolo.

Ma alcuni erano più strettamente politici. La vasta ricchezza creata in Gran Bretagna, Francia e Germania dalle loro rivoluzioni industriali creò la possibilità di acquisire colonie sia per sostenere l’industria (come già detto), ma soprattutto come simbolo di prestigio e status nel mondo. Avere delle colonie, ad esempio nel 1895, era l’equivalente di avere armi nucleari e di essere un membro permanente del Consiglio di Sicurezza un secolo dopo. Così, i tedeschi, arrivati tardi alla festa dopo l’unificazione, dovettero accontentarsi della Namibia, del Tanganica e del Ruanda per il loro “posto al sole”, a cui pensavano di avere diritto grazie al loro potere economico.

Ma anche se la storia completa dell’ascesa e del declino dell’imperialismo come dottrina è affascinante, e raramente gli viene data sufficiente importanza, in questa sede mi occupo di uno degli aspetti dell’interazione occidentale con l’Africa e il Medio Oriente – che va quindi ben oltre gli imperi in quanto tali – che non viene quasi mai trattato: la dimensione umanitaria. E qui cominciamo ad avvicinarci al nucleo del rapporto tra il pensiero occidentale sulle parti meno fortunate del mondo di un secolo fa e il pensiero occidentale sugli sfortunati immigrati di oggi. E le corrispondenze, in termini di ideologia, strutture e tipo di persone coinvolte, sono piuttosto sorprendenti.

Il primo tipo di interazione, oggi poco ricordato, è quello del lavoro missionario: le fondazioni missionarie, spesso ben finanziate e politicamente influenti, erano le ONG del loro tempo. Naturalmente il lavoro missionario precede di molto l’imperialismo moderno: sono ben note le attività dei missionari cattolici in America Latina e in Giappone a partire dal XVI secolo. Ma il vero impulso è arrivato con l’ascesa del cristianesimo evangelico nelle nazioni protestanti nel XVIII secolo. L’impulso domestico a portare il Vangelo ai poveri e agli indigenti, ad agire per migliorare le condizioni di lavoro e le riforme sociali in patria, si trasformò naturalmente in una preoccupazione per le condizioni del resto del mondo. Le Chiese avevano già inviato “missioni” per sostenere le piccole comunità di coloni e commercianti europei in tutto il mondo, ma dalla fine del XVIII secolo vennero create organizzazioni missionarie (come la famosa London Missionary Society) per portare la Parola di Dio in tutto il mondo. Fin dall’inizio, i missionari hanno posto l’accento sull’istruzione e sull’azione umanitaria, imparando le lingue locali e traducendo la Bibbia. Il loro lavoro li portò spesso a scontrarsi con altri occidentali presenti per motivi più mercenari.

Anche se oggi sembra difficile da accettare, ci sono stati tempi in cui la politica era dominata da persone moralmente serie. In Gran Bretagna, il movimento evangelico ha avuto una grande influenza sulla politica, dato che alcuni politici famosi – tra cui Gladstone, il grande primo ministro riformatore – sono stati profondamente influenzati dalle sue idee. Le riforme dell’epoca – istruzione, condizioni di lavoro, diritto di voto – erano accompagnate dal desiderio di essere ciò che i governi successivi avrebbero definito “una forza per il bene” nel mondo. Gli evangelici erano stati estremamente influenti negli sforzi per porre fine alla tratta degli schiavi nei possedimenti britannici e successivamente avevano contribuito a persuadere Londra a istituire l’Africa Squadron, che pattugliava le coste dell’Africa occidentale, cercando di intercettare i mercanti di schiavi e di liberare gli schiavi. Questi gruppi di pressione si sovrapponevano agli appassionati di opere missionarie e di opere di bene in Africa e altrove. Anche più tardi, quando fu istituito l’Impero britannico formale, gli amministratori coloniali che andarono a gestirlo parteciparono dello stesso fervore morale profondamente serio che portò alle riforme politiche, sociali e governative in Gran Bretagna.

Pur non avendo la stessa tradizione evangelica, i francesi non tardarono a seguire gli inglesi nella diffusione del cristianesimo. Non appena i francesi ebbero strappato il controllo dell’Algeria agli Ottomani e riuscirono a pacificarla, iniziarono a costruire la basilica di Notre Dame d’Afrique, che ancora oggi domina lo skyline di Algeri. Sotto Napoleone III ci furono spedizioni e iniziative coloniali private, ma fu dopo la fondazione della Terza Repubblica nel 1871 che la colonizzazione divenne una causa popolare. Come in Gran Bretagna, fu sostenuta da un gran numero di PMC dell’epoca, come il famoso socialista Jules Ferry, l’architetto di gran parte dell’Impero francese in Africa, che sosteneva nel vocabolario standard dell’epoca che “le razze superiori hanno il dovere di civilizzare le razze inferiori”. (Tuttavia, questa idea fu osteggiata da molti esponenti della destra, che temevano che avrebbe interferito con il buon funzionamento dei mercati).

I francesi, naturalmente, avevano il vantaggio dei principi repubblicani universali risalenti alla Rivoluzione, e proprio l’universalità di questi principi significava che potevano essere applicati con sicurezza a qualsiasi situazione, ovunque. Condividevano anche lo zelo modernizzatore degli inglesi (abolendo la schiavitù, diffondendo l’istruzione e cercando di migliorare lo status delle donne, ad esempio).

Per circa tre generazioni, l’apparato formale degli imperi di Gran Bretagna e Francia, tanto stravagantemente elogiato all’epoca quanto stravagantemente demonizzato in seguito, distolse l’attenzione da molte delle realtà quotidiane che avevano più effetto sulla vita della gente comune. Oltre alle annessioni, alle invasioni, alle ribellioni, alle scoperte di risorse naturali, ai trattati e a tutto il resto, c’erano amministrazioni coloniali che lavoravano alacremente, cercando di introdurre quello che oggi definiremmo “buon governo”. Scrissero leggi, istituirono strutture formali di governo locale, abolirono la schiavitù, cercarono di “modernizzare” società e costumi, costruirono strade e ferrovie e mandarono giovani nativi promettenti a studiare nella madrepatria. E oltre a loro, c’erano grandi reti di insegnanti, medici, ufficiali militari, specialisti tecnici e altri, attratti da un’intera gamma di motivazioni, dalle più elevate alle più mercenarie.

Il che significa che un amministratore coloniale o un missionario che si fosse addormentato cento anni fa e si fosse svegliato oggi, si sarebbe sorpreso di quanto poco fossero cambiate le cose. Come in passato, la concentrazione dei media sugli elementi più noti del rapporto tra Occidente e Resto del mondo può far sembrare che si tratti di un conflitto. In realtà, come in passato, la maggior parte di questa relazione consiste in un potere “morbido” piuttosto che “duro”, ed è gestita oggi dai ministeri dello sviluppo e dalle organizzazioni internazionali. È impressionante, per usare un eufemismo, vedere l’enorme volume di attività finanziate da queste organizzazioni in quasi tutti i settori che si possono pensare: riforma giudiziaria, diritti delle donne, gestione del settore pubblico, redazione legale, media indipendenti, responsabilità della polizia, trasparenza del bilancio, formazione anticorruzione e centinaia di altri. Se dubitate di me, visitate i siti web dell’UE, delle Nazioni Unite, dell’OCSE e dei principali donatori come Canada, Svezia, Germania e altri, e ammirate le pagine e pagine e pagine di progetti che coprono ogni aspetto della vita laggiù. Ci sono persino società di consulenza che vi aiutano a trovare i progetti e newsletter che vi guidano, soprattutto a Bruxelles. Oppure guardate i siti di alcune agenzie di sviluppo nazionali e stupitevi dell’arroganza neocoloniale di funzionari senza alcuna esperienza reale che ingaggiano consulenti senza alcuna esperienza reale per mettere insieme squadre di persone che interferiscano nelle aree più sensibili dei Paesi di altri popoli.

Se vi recate in un’ambasciata di un Paese occidentale di medie dimensioni nel Sud del mondo, scoprirete che, a parte l’ambasciatore e alcuni membri della cancelleria, il personale consolare e forse un addetto alla difesa e uno specialista del commercio, il grosso degli sforzi dell’ambasciata si concentra su questioni vagamente definite “sviluppo”, “governance”, “riforme”, “prevenzione dei conflitti” e “diritti umani”, che sono un codice collettivo per i tentativi di imporre un’agenda PMC al Paese. Ci saranno un paio di giovani entusiasti distaccati dal Ministero dello Sviluppo, che avranno bisogno di interpreti, un po’ di personale assunto localmente che ha studiato all’estero e che parla inglese, che è la lingua in cui l’Ambasciata dovrà in pratica lavorare, e la maggior parte del lavoro effettivo sarà appaltato a ONG locali con personale giovane che ha studiato all’estero e che parla anche inglese. L’argomento più importante sarà probabilmente il genere: l’Ambasciata potrebbe avere un consigliere a tempo pieno per il genere, un ambizioso programma per il genere, sponsorizzare seminari di giovani donne istruite all’estero e assegnare ogni anno un premio speciale a una donna che ha avuto un successo particolare negli affari. (La condizione reale delle donne comuni, soprattutto al di fuori della capitale, non sarà una priorità: i problemi sono comunque troppo grandi). E poi c’è un colpo di stato o una guerra che nessuno ha visto arrivare perché stava facendo altre cose.

Se tutto questo suona come un’accusa un po’ stizzita al fatto che non è cambiato molto negli atteggiamenti dall’epoca coloniale, beh, in un certo senso è così. E probabilmente è peggiorato: cento anni fa, gli amministratori e i missionari coloniali erano più informati e meno invadenti dei loro discendenti. Ma è importante capire due cose. Uno è che, come nel periodo della colonizzazione formale, le persone vengono coinvolte per i motivi più disparati e molte hanno forti imperativi ideologici o morali per quello che fanno. Il Primo Segretario (Sviluppo) medio di un’Ambasciata probabilmente crede di “fare del bene”. E questo a sua volta significa che, come il resto dell’agenda della PMC, i loro progetti sono intrinsecamente virtuosi e non possono mai fallire, possono solo essere falliti. Come ho sempre detto, non c’è nessuno più pericoloso di un idealista.

Ma il secondo punto, direttamente collegato all’epoca coloniale, è forse più importante. Durante quell’epoca, c’era una completa distinzione tra chi lavorava sul campo e chi lavorava nelle organizzazioni e nei governi del Paese d’origine. L’Ufficio per l’Africa a Londra era gestito da persone che in quasi tutti i casi non avevano mai visitato il continente. Allo stesso modo, il personale in loco tornava solo occasionalmente nella madrepatria: un membro del Servizio Civile Sudanese, un’organizzazione governativa molto rispettata all’epoca, poteva essere assunto a Londra, ma avrebbe trascorso tutta la sua vita lavorativa in Sudan, con il diritto forse a una visita in patria qualche volta nella sua carriera. (Il padre di George Orwell, ad esempio, tornava a casa dall’India una volta ogni sette anni). Allo stesso modo, i funzionari delle Società Missionarie o delle numerose organizzazioni di volontariato che inviavano medici e insegnanti all’estero, raramente lasciavano il loro paese.

Non è così bizzarro come sembra. Cento anni fa, per andare da Londra a Khartoum, passando per Alessandria, potevano volerci settimane e costare una fortuna. Oggi, il funzionario del Ministero degli Esteri responsabile per il Medio Oriente può fare un tour introduttivo in dieci giorni. Un secolo fa ci sarebbero voluti sei mesi. In pratica, i responsabili delle politiche, i finanziatori e i leader politici avevano solo una vaga idea di ciò che accadeva sul campo, e chi era sul posto spesso faceva ciò che gli sembrava meglio. Spesso le due cose erano in conflitto, dato che i missionari e gli amministratori coloniali erano sul campo.

Con il passare delle generazioni, naturalmente, la serietà morale di quell’epoca si è affievolita. Il senso del dovere di portare il “buon governo” o la “Parola di Dio” alle popolazioni native è stato sostituito dal desiderio meccanico, e spesso aggressivo, di obbligare altre parti del mondo a ricostruirsi a nostra immagine e somiglianza. Il fervore repubblicano che animava personaggi come Ferry è oggi considerato con imbarazzo in Francia, che ha completamente inghiottito l’ideologia liberale di stampo PMC. Ciò che rimane è proprio questa ideologia liberale vuota e incoerente, e il desiderio di imporla agli altri attraverso il potere politico e finanziario, spesso per motivi carrieristici e per avere un’influenza non riconosciuta su settori sensibili dei governi stranieri. E rimane anche, in forma degenerata, il desiderio di sentirsi bene con se stessi, di far compiere all’estero una serie di atti performativi che confermino che siamo persone meravigliose.

Eppure la globalizzazione offre ogni sorta di nuove opportunità per iniziative performative e autocelebrative. Anziché limitarci a inviare persone laggiù, possiamo portare qui la materia prima del nostro senso di orgoglio e di virtù, in modo da assumere ulteriori pose morali. In effetti, i nostri leader hanno importato le colonie nei nostri Paesi, in modo da poter patrocinare la loro gente come facevamo cento anni fa. Naturalmente, la PMC non si sporcherà le mani con i dettagli pratici, così come non lo facevano un tempo la London Missionary Society o il Ministère des Colonies. Vivono distaccati dagli ingredienti performativi che hanno portato con sé quasi quanto i loro antenati ideologici di un secolo o più fa. Lasciano la gestione concreta della situazione alle forze dello Stato, spesso mal pagate e non considerate (personale del municipio, assistenti sociali, polizia, personale medico e insegnanti, che sono quotidianamente all’opera) e alle organizzazioni caritatevoli, che sono completamente sopraffatte dalla portata dei problemi. Nel frattempo, i PMC nelle loro zone chic delle città si congratulano compiaciuti di quanto siano virtuosi e superiori, e di quanto sia malvagio e spregevole chiunque critichi le loro politiche di immigrazione, o voglia anche solo parlarne.

E questo, forse, è il beneficio finale dell’attuale politica di immigrazione incontrollata: la superiorità morale, che questa volta non deriva da qualcosa che hai fatto, ma solo da ciò che pensi. Ci sono pochi piaceri più squisiti e delicati, dopo tutto, che sedersi a giudicare moralmente gli altri, senza dover fare nulla di concreto. Alcuni decenni fa, Michel Rocard, allora primo ministro di François Mitterrand, disse notoriamente che la Francia non poteva “accogliere tutta la miseria del mondo”. Fu criticato furiosamente per questa affermazione, ma un attimo di riflessione dimostra che aveva ragione: quanto tempo ci vorrebbe, ad esempio, per trovare, trasportare in Francia, ospitare, nutrire e vestire le centinaia di milioni di persone indigenti nel mondo? L’errore di Rocard è stato quello di trattare il linguaggio performativo e normativo come se fosse destinato ad applicarsi al mondo reale, come se si trattasse di una questione di ciò che dovremmo fare, in contrapposizione alla questione molto più importante di ciò che dovremmo dire. Ed evidentemente la PMC non si sta affrettando a offrire ai miserabili del mondo un posto in casa propria. (Diffidate sempre di chi dice “dobbiamo” quando in realtà intende “dovete”).

E ora, credo, ci sono segnali che indicano che questo abile teatrino della superiorità morale sta iniziando a crollare. Come sempre, è impossibile dire a quale velocità avverrà, ma è chiaro che il processo è in corso. Arriva un momento in cui l’intimidazione normativa non funziona più. Per ironia della sorte, basterebbe ascoltare le stesse popolazioni immigrate. Non vogliono marce contro il razzismo e appelli per il disboscamento della polizia. Vogliono posti di lavoro, opportunità e un’istruzione decente per i loro figli, sicurezza nella loro vita quotidiana e libertà dall’influenza delle bande di droga e degli estremisti religiosi. (Qualsiasi amministratore coloniale del 1900, riportato in vita, avrebbe visto esattamente cosa c’era da fare).

Forse in un futuro non troppo lontano organizzeranno una marcia antirazzista e anti-islamofobia, ma non verrà nessuno.

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