I disastri sanitari della gestione della pandemia in Italia, di Davide Gionco

I disastri sanitari della gestione della pandemia in Italia
Davide Gionco
08.04.2021

Dopo 14 mesi di pandemia del covid-19, cerchiamo di fare il punto della situazione sanitaria in Italia. Non dal punto di vista di un medico professionista, ma dal punto di vista di un cittadino che cerca di informarsi e di ragionare su quello che vede.

La prima constatazione è che, pur avendo l’ISTAT registrato un aumento del tasso di mortalità del 15% rispetto agli anni precedenti, l’aumento sarebbe probabilmente passato inosservato, se non ci fosse stato l’amplificatore dei mass media.

Se questo virus fosse arrivano 30 anni fa, nessuno si sarebbe accorto di nulla, in quanto ci sono sempre state delle oscillazioni statistiche sul numero annuale di morti. Chi viene a sapere della morte di una persona cara a motivo di malattia non ha la percezione dell’incremento statistico complessivo del numero di decessi in un intero paese. Se non ci avessero detto nulla, avremmo continuato a vivere normalmente.

Se il coronavirus fosse arrivato 30 anni fa sarebbe stato trattato come una influenza “più virulenta” fra quelle che ciclicamente. La febbre asiatica degli anni ’50 fece molti più danni del covid-19, per intenderci, perché colpì soprattutto i bambini, segnandoli per tutta la vita. Una mia zia, colpita dall’asiatica quando aveva 4 anni, rimase colpita al cervello è rimasta debilitata mentalmente, causando 44 anni di progressivo decadimento fisico e di crescente disabilità, fino alla morte.

La situazione ci è stata presentata come “senza precedenti” dai mass media, i quali l’hanno da subito presentata come una malattia pericolosa e incurabile, tale da giustificare i ripetuti lockdown, con gravissimi danni all’economia e impedendo a molta gente di analizzare in modo ragionevole la situazione.
E’ una delle famose tecniche di manipolazione delle masse: “Crea il problema ed offri l'(unica) soluzione”.

Non ci hanno mai detto che avremmo probabilmente evitato i 3/4 dei morti se:

1) Se avessimo avuto il piano pandemico nazionale aggiornato. Il piano pandemico esistente risaliva addirittura al 2006. E nel 2016 Matteo Renzi aveva fatto chiudere il CNESPS, istituto specializzato nella individuazione tempestiva delle epidemie. Un’azione tempestiva del CNEPS avrebbe probabilmente consentito di confinare l’epidemia fin dagli inizi, evitando che si diffondesse in tutta Europa.

2) Se avessimo avuto come dirigenti presso il Ministero della Sanità (da Roberto Speranza in giù) e presso le aziende sanitarie pubbliche territoriali delle persone assunte per le loro competenze e capacità e non i soliti “amici dei politici”.

3) Se non avessimo tagliato decine di miliardi sulla spesa sanitaria, riducendo i posti letto per le cure, il personale, i macchinari, la formazione.

4) Se non avessimo trasformato i medici di famiglia in passacarte per indirizzare i pazienti verso le strutture specialistiche, mentre una volta erano responsabili delle prime cure domiciliari in caso di malattia.

5) Se non avessimo imposto da qualche decennio il numero chiuso nelle facoltà di medicina e limitato le assunzioni di infermieri, riducendo il numero di personale sanitario disponibile per le cure. Per formare un medico servono 10-15 anni di studi. Non è cosa che si può improvvisare quando arriva una pandemia. Ci si deve pensare per tempo, almeno 10-15 anni prima. Ovvero: abbiamo bisogno permanentemente di più medici e di più infermieri.

6) Se in questi mesi avessimo assunto più personale sanitario, ora dovremmo temere molto meno l’afflusso di persone nelle terapie intensive. E ci sarebbero risorse per curare adeguatamente le persone colpite da altre patologie. E non si trovi la scusa della mancanza di soldi, dato che per il 2020 e il 2021 la UE ha concesso di sforare i limiti al deficit pubblico, per cui per avere soldi basta chiederli alla BCE.

7) Se, dopo oltre un anno dall’arrivo della pandemia, avessimo aggiornato i protocolli di cura domiciliare per le persone con sintomi da covid-19, sulla base delle esperienze di molti medici. Come ad esempio quelli del Movimento Ippocrate, che hanno sviluppato dei protocolli di cura basate sul trattamento precoce della malattia. Purtroppo, dopo oltre un anno di esperienze, i protocolli di cura sono sempre gli stessi, basati sull’attesa dello sviluppo dei sintomi e sui tamponi. Sono i protocolli che hanno portato decine di migliaia di persone nelle terapie intensive ed alla morte. Sbagliare è umano, quando la malattia non è conosciuta, ma perseverare…

8) Se in televisione avessero spiegato ogni giorno, anziché martellare inutilmente la gente con i soliti bollettini di guerra, che il covid-19 si combatte prima di tutto con la prevenzione, fatta di costante assunzione di vitamina C e D, disponibili per tutti a costi molto accessibili, e fatta di permanenza il più possibile all’aria aperta ed al sole (anziché tenere la gente chiusa in casa).

9) Se in televisione ci avessero spiegato la differenza fra le mascherine FFP2 e le mascherine chirurgiche.
Le mascherine FFP2 sono di tipo passivo ovvero “filtrano” l’aria che respiriamo, riducendo del 95% la quantità di agenti patogeni che ci colpiscono tramite la respirazione. Sono mascherine che ci proteggono dal contagio. Ideali per le categorie a rischio di morte per covid (anziani, malati di altre patologie), per ridurre il rischio che vengano contagiati.
Le mascherine chirurgiche, invece, riducono del 95% la quantità di agenti patogeni che emettiamo verso l’ambiente tramite la nostra espirazione. Sono mascherine che riducono la contagiosità verso gli altri delle persone infettate. Ideali per le categorie non a rischio di morte per covid (probabilmente almeno l’80% della popolazione), per ridurre la diffusione della malattia.
Tutto questo non è mai stato spiegato, per cui abbiamo dotato gli anziani di mascherine chirurgiche che non li proteggono dal contagio ed abbiamo dotato molti giovani sani di mascherine FFP2, che non hanno impedito il diffondersi della malattia.

10) Se avessimo spiegato per evitare i contagi per contatto con superfici infettate è opportuno disinfettarsi le mani non solo all’entrata dei supermercati, ma soprattutto all’uscita, per non portarsi dietro i virus raccolti toccando le superfici infettate da altri. Eppure continuiamo a trovare il gel disinfettante solo all’ingresso e non all’uscita dei punti vendita e dei mezzi di trasporto.

11) Se avessimo (dopo un anno) raddoppiato il numero dei mezzi pubblici di trasporto, magari assumendo gli autisti licenziati dei servizi turistici, si sarebbe dimezzato l’indice di affollamento dei mezzi di trasporto pubblico, riducendo i rischi di contagio. Ma non è stato fatto,

Si potrebbe continuare con l’elenco…

La responsabilità di tutto questo, con le decine di migliaia di morti che ne sono seguiti, non è della fatalità, né del popolo italiano. La responsabilità è della classe dirigente che ha governato e che governa tutt’ora il nostro Paese. Persone che, per incompetenza o mala fede, hanno preso le decisioni sbagliate, senza preoccuparsi delle conseguenze e senza farsene carico. Il risultato è stato un tasso per mortalità per covid-19 fra i più elevati d’Europa.

Nel contempo i mezzi di informazione, altrettanto asserviti alla classe di potere, anziché svolgere un corretto servizio di informazione e di controllo critico sul disastroso operato della classe dirigente, hanno dedicato gli ultimi 14 mesi di informazione unicamente a colpevolizzare gli italiani come unici responsabili di quanto accaduto.
Misure di limitazione delle libertà personali prive di fondamento costituzionale e medico-scientifico, come il divieto di uscire di casa fra le 22 e le 5 del mattino o di varcare il pericoloso confine fra una regione e l’altra sono state costantemente sostenute come “normali” dai mezzi di informazione. Questo mentre paesi “normali” e guidati da politici più seri, come la vicina Svizzera, hanno giustamente vietato unicamente gli assembramenti fra persone estranee e non gli spostamenti. Il contagio, infatti, non avviene quando le persone si spostano, ma solo quando si avvicinano fra loro.
Ci hanno trattati da bambini, come se fossimo un popolo di pecore.

Per quale motivo fra le soluzioni molteplici prospettate non ce n’è nessuna di quelle sopra elencate, ma si propone come una via di uscita possibile la vaccinazione di 60 milioni di italiani, fra i quali almeno 50 milioni di persone sane, che non correrebbero alcun rischio ad essere contagiate dal virus, se curate per temo.
Non era mai storicamente accaduto che venissero isolati i sani per proteggere i malati.
Non era mai storicamente accaduto che si vaccinasse una intera popolazione somministrando dei prodotti sperimentali di ingegneria genetica (quelli di Pfizer & c. non hanno nulla a che vedere con i vaccini tradizionali). Sperimentali, perché non c’è stato il tempo di testarli.
Non era mai accaduto che si sottoponesse una intera popolazione sana ai rischi della vaccinazione, con una malattia avente un tasso di mortalità molto basso fra le persone non a rischio.

(Fonte: Dati ISS)

Non era mai accaduto che si volesse imporre agli operatori sanitari (e in futuro forse a tutta la popolazione) di assumere un vaccino che non riduce in alcun modo i rischi di contagio verso altri. Gli attuali vaccini garantiscono (probabilmente) un decorso sostenibile della malattia, ma non evitano la trasmissione verso terzi nel caso si sia contagiati.

Ricordiamoci di tutto questo, la prossima volta che andremo a votare.

E, nel frattempo, chiediamoci il perché di tutto questo.

NB_apparso anche su https://www.sovranitapopolare.org/2021/04/08/i-disastri-sanitari-della-gestione-della-pandemia-in-italia/

L’OCCASIONE E IL CONFLITTO SECONDO MACHIAVELLI, di Teodoro Klitsche de la Grange

L’OCCASIONE E IL CONFLITTO SECONDO MACHIAVELLI

A seguito delle manifestazioni contro le chiusure del Covid, per la sopravvivenza delle imprese e dei lavoratori autonomi, siamo tornati a intervistare il nostro Machiavelli che ci ha ricevuto con la consueta gentilezza.

Caro Segretario, che ne pensa delle manifestazioni contro le restrizioni?

Che è poco crederle dovute (solo) alla pandemia e che nuocciano alla libertà: gli è che i tumulti fanno bene alle repubbliche, almeno a quelle ben ordinate, come era Roma, sicché ho scritto “coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma, e che considerino più a’ romori ed alle grida di tali tumulti nascevano, che a’ buoni effetti che quelli partorivano”.

Ma i manifestanti hanno fatto dei danni, rimosso le transenne, resistito alla polizia.

E con ciò? A Roma facevano anche di peggio ed hanno comunque conquistato il mondo, mantenendo la loro libertà: “i desiderii de’ popoli liberi rade volte sono perniziosi alla libertà, perché e’ nascono o da essere oppressi, o da suspizione di avere ad essere oppressi”.

Ma li accusano di essere degli incompetenti e di far politica con la pancia e non con il cuore. Di essere fuorviati da demagoghi e da fake news.

E per tutelare la verità, vogliono impedirne la diffusione! Come dicono a Vinegia “pezo el tacon del buso” E quando queste opinioni fossero false e’ vi è il rimedio delle concioni, che surga qualche uomo da bene che orando dimostri loro come ci s’ingannano. Gli è che non essendo i vostri vecchi governanti degni di fede, non potendo convincerle con le loro parole cercano d’impedire agli altri di parlare. Sanno bene che il popolo non chiede loro neppure l’ora, perché s’aspetta che cerchino anche in ciò di truffarlo.

E come biasimare il popolo: negli ultimi trent’anni è stato il più impoverito d’Europa e forse del pianeta. Dove stavano i vostri governanti? Su Marte o al potere?

Ma i governanti avevano fatto i piani per la ricostruzione, per la next-generation, per una nuova ripartenza.

E sono gli stessi – o i loro, meno degni, successori – che hanno lasciato quello che si fa per quello che si dovrebbe fare; sono andati dietro all’immaginazione della realtà, piuttosto che alla verità effettuale. Parlo dei comunisti. Volevano cambiare la natura umana ma gli uomini sono sempre gli stessi: per questo nei miei scritti ho ragionato sulle cose d’Italia prendendo a criterio le azioni degli antiqui. E non ho errato: i Romani che non s’illudevano sugli uomini e avevano tanta virtù, hanno costruito  un impero durato in occidente cinque secoli, e in oriente assai di più. I vostri post – o neo-comunisti sono arrivati – al massimo – a governare settant’anni, e il loro  impero è crollato da solo. Bel risultato! Invece della fine della storia, ne hanno realizzato un caso unico. Un misero esito per un vasto programma. Onde quanto sostengono, deve tener conto della loro credibilità – modestissima.

Ma almeno certe illusioni servono a temperare la crisi, a  evitare sconvolgimenti dolorosi.

Come se le crisi non facciano parte della storia, la quale è, come diceva un mio allievo mezzo francioso, il cimitero delle élite. Le vostre, pensano alla crisi come il loro cimitero. E dato che hanno di mira il loro particolare, ne sono terrorizzati. Ma la crisi non significa solo fine: ma anche nuovo inizio, come scrivevo nei Discorsi. Se un ordinatore di repubblica fonda uno Stato, lo fonda per poco tempo perché nessun rimedio può farci a fare che non sdruccioli nel suo contrario. Credere d’ordinarla in eterno è opera non umana, ma divina. Ma il Padreterno non ha voluto mai realizzarla. Rassegnatevi: come scrisse un filosofo, le costituzioni nascono dal sangue e dalla lotta. Cercate di evitare se possibile il sangue. Ma non lo è schivare la lotta. Chi sostiene ciò vuole evitare la lotta, quella dei suoi nemici. E lui vuol fare la guerra, ma spuntando le armi dell’avversario.

Bisogna quindi “ritornar al principio”?

Anche, ma soprattutto, più la fortuna batte, più occorre virtù, più uomini che ne sono dotati hanno l’occasione per emergere.

La crisi è l’opportunità per domare la fortuna; e gli uomini e le comunità virtuose non la possono tralasciare. A trascurarla si prolunga solo la decadenza e se ne ampliano gli effetti. Voi è almeno da trent’anni che decadete. E tutti i Paternostri recitati dai vostri governanti servivano solo ad occultarla; col solo risultato di prolungarla. Ma per batterla occorre tanta virtù: più in basso siete caduti più ne occorre per rialzarsi. Ma la troverete? Ai miei tempi no, Spero che i vostri siano più fausti.

Teodoro Klitsche de la Grange

LA PUGLIA DALLA CALIFORNIA DEL FUTURO AL TERRITORIO CONTROLLATO DALLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA, a cura di Luigi Longo

LA PUGLIA DALLA CALIFORNIA DEL FUTURO AL TERRITORIO CONTROLLATO DALLA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA

a cura di Luigi Longo

Sul sito www.editorialedomani.it è stato pubblicato, in data 24 marzo 2021, uno stimolante articolo del giovane scrittore Andrea Donaera su La Puglia e il suo negativo, lo storytelling che non viene raccontato. Lo propongo come lettura. A me interessa evidenziare due questioni che si intrecciano: 1) la costruzione ideologica di un territorio, finalizzata, tramite l’arte di raccontare storie, allo sviluppo del settore turistico, che è ritenuto importante per l’economia della Puglia, a prescindere dalla distruzione delle piccole e medie imprese messa in atto strategicamente tramite il covid-19; questa strategia permetterà grandi ristrutturazioni, in un paesaggio complesso e straordinario, a favore delle grandi imprese (soprattutto estere) che produrranno una diversa organizzazione del territorio e un diverso godimento del paesaggio sempre meno accessibile ai più (d’altronde l’Italia non è il giardino dei dominanti statunitensi, russi e cinesi?); 2) il denaro accumulato nelle diverse sfere sociali diventa il mezzo sia del potere sia della fusione del potere legale e del potere illegale (già l’imperatore Vespasiano sosteneva che il denaro non ha riconoscibilità) e diventa difficile distinguere (tranne quando diventa mezzo di conflitto tra gruppi di potere) tra quelli che delinquono legalmente e quelli che delinquono illegalmente perché il sistema sociale, così come è strutturato nelle relazioni di potere e di comando, è una simbiosi di legalità e illegalità sia a livello micro sia a livello macro.

La Puglia non è diventata la futura California italiana, così come ipotizzava Franco Tatò, ma è diventata territorio controllato dalla criminalità organizzata con le sue peculiarità territoriali (Sacra corona unita, quarta mafia, eccetera) e i suoi intrecci nazionali (mafia, camorra e n’drangheta) e mondiali (mafia statunitense, russa e cinese).

Nella provincia di Foggia, la terza provincia più estesa d’Italia con una popolazione di 602 mila abitanti, sono stati sciolti, per infiltrazione della criminalità organizzata, comuni come Cerignola (55 mila abitanti) e Manfredonia (55 mila abitanti), nodi importanti dell’economia e dello sviluppo della Provincia; Monte Sant’Angelo e Mattinata comuni del Gargano dove fino a poco tempo fa la criminalità organizzata veniva interpretata come faida della pastorizia!; la città di Foggia (con una popolazione di quasi 150 mila abitanti) è sotto i riflettori della Commissione del Ministero dell’Interno per la verifica (sic) di infiltrazioni della criminalità organizzata.

Fonte: Direzione Investigativa Antimafia, 2020

 

Manca una conoscenza della penetrazione della criminalità organizzata nelle diverse sfere sociali (economica, finanziaria, politica, istituzionale, culturale e sociale). Si è fermi, nel contrasto alla criminalità organizzata, alla sua sfera militare, che è un aspetto importante dell’accumulazione del denaro, ma non è sufficiente per capire le strategie e gli intrecci tra potere legale e potere illegale (pochi e marginali sono le ricerche in questa direzione).

Siamo in guerra, dichiara il nuovo capo della Protezione civile Fabrizio Curcio, riferendosi alla pandemia (mai dichiarata) da covid-19. E’ il classico lapsus freudiano. Siamo in guerra perché è una guerra batteriologica tra le potenze mondiali per la spartizione del mondo che comporta un riassestamento di nuovi equilibri, di nuove alleanze, di nuovi squilibri sociali e territoriali, di nuovi modelli sociali che avanzano nell’attuale fase di multicentrismo, accelerata dallo strumento covid-19. A livello italiano è una guerra per la spartizione di risorse di gruppi di potere servili che nulla hanno a che fare con un progetto etico-politico che porti all’autodeterminazione nazionale.

Sullo sfondo vi sono le trasformazioni del territorio pugliese che assume un ruolo sempre più importante per le strategie statunitensi nel mediterraneo (territori e città Nato-Usa, approntamento di infrastrutture che collegano i nodi strategici come Foggia e Taranto, eccetera).

La criminalità ha un ruolo consistente nelle fasi multicentrica e policentrica, la storia questo insegna; ricordo il ruolo che la criminalità organizzata ha avuto in Italia nel secondo conflitto mondiale.

Relegare alla Magistratura, che fa parte dei gruppi di potere (altro che separazione dei poteri che lo stesso Montesquieu non ha mai pensato) è il segno dei tempi.

A me basterebbe una rivoluzione dentro il Capitale (inteso come rapporto sociale) con un nuovo principe capace di un moderno progetto etico-politico che desse dignità e autodeterminazione alla povera Italia e che sostituisse questa classe politica di subdominanti servili. Ai miei nipotini lascerei la speranza di un nuovo principe sessuato capace di una rivoluzione fuori dal Capitale.

 

L’INTERMEZZO DI CAPAREZZA

Vieni a ballare in Puglia

I delfini vanno a ballare sulle spiagge
Gli elefanti vanno a ballare in cimiteri sconosciuti
Le nuvole vanno a ballare all’orizzonte
I treni vanno a ballare nei musei a pagamento
E tu dove vai a ballare?
Vieni a ballare in Puglia, Puglia, Puglia
Tremulo come una foglia, foglia, foglia
Tieni la testa alta quando passi vicino alla gru
Perché può capitare che si stacchi e venga giù
Ehi turista so che tu resti in questo posto italico
Attento tu passi il valico ma questa terra ti manda al manico-mio
Mare Adriatico e Ionio, vuoi respirare lo iodio
Ma qui nel golfo c’è puzza di zolfo, che sta arrivando il Demonio
Abbronzatura da paura con la diossina dell’ILVA
Qua ti vengono pois più rossi di Milva e dopo assomigli alla Pimpa
Nella zona spacciano la morìa più buona
C’è chi ha fumato i veleni dell’ENI, chi ha lavorato ed è andato in coma
Fuma persino il Gargano, con tutte quelle foreste accese
Turista tu balli e tu canti, io conto i defunti di questo paese
Dove quei furbi che fanno le imprese, no, non badano a spese
Pensano che il protocollo di Kyoto sia un film erotico giapponese
Vieni a ballare in Puglia, Puglia, Puglia
Dove la notte è buia, buia, buia
Tanto che chiudi le palpebre e non le riapri più
Vieni a ballare e grattati le palle pure tu che devi ballare in Puglia, Puglia, Puglia
Tremulo come una foglia, foglia, foglia
Tieni la testa alta quando passi vicino alla gru
Perché può capitare che si stacchi e venga giù
È vero, qui si fa festa, ma la gente è depressa e scarica
Ho un amico che per ammazzarsi ha dovuto farsi assumere in fabbrica
Tra un palo che cade ed un tubo che scoppia in quella bolgia s’accoppa chi sgobba
E chi non sgobba si compra la roba e si sfonda finché non ingombra la tomba
Vieni a ballare compare nei campi di pomodori
Dove la mafia schiavizza i lavoratori e se ti ribelli vai fuori
Rumeni ammassati nei bugigattoli come pelati in barattoli
Costretti a subire i ricatti di uomini grandi ma come coriandoli
Turista tu resta coi sandali, non fare scandali se siamo ingrati e ci siamo dimenticati di essere figli di emigrati
Mortificati, non ti rovineremo la gita
Su, passa dalla Puglia, passa a miglior vita
Vieni a ballare in Puglia, Puglia, Puglia
Dove la notte è buia, buia, buia
Tanto che chiudi le palpebre e non le riapri più
Vieni a ballare e grattati le palle pure tu che devi ballare in Puglia, Puglia, Puglia
Dove ti aspetta il boia, boia, boia
Agli angoli delle strade spade più di re Artù
Si apre la voragine e vai dritto a Belzebù
Oh Puglia, Puglia mia, tu Puglia mia
Ti porto sempre nel cuore quando vado via
E subito penso che potrei morire senza te
E subito penso che potrei morire anche con te
Silenzio!
Silenzio in aula!
Il signor Rezza Capa è accusato di vilipendio al turismo di massa e di infamia verso il fronte
L’imputato ha qualcosa da rettificare?

 

LA PUGLIA E IL SUO NEGATIVO, LO STORYTELLING CHE NON VIENE RACCONTATO

di Andrea Donaera

 

Esiste un risvolto torbido, in questa regione. Un negativo, un nero che non viene mai illuminato, perché scientemente nascosto sotto il tappeto di una formula comunicativa che si abbranca disperatamente al valore dell’economia turistica e che promette balli, orecchiette e aperitivi sotto il sole.

Non si potrebbe mai ipotizzare una narrazione del tipo “Gomorra pugliese”, perché oggi la Scu [Sacra Corona Unita, mia precisazione] è il territorio, e non ha (più) bisogno di lotte tra bande.

Una pulsione verso il ridimensionamento, un istinto al camuffamento della realtà. Un amore per il luogo natale che è anche un riflesso incondizionato.

Da qualche tempo, complici fiction tv di grande successo e operazioni editoriali adeguatamente confezionate, si è generato una sorta di nuovo desiderio di Puglia. Il tacco d’Italia si configura sempre più come un eden dove la vita semplice e “come una volta” è accompagnata da gastronomie d’eccellenza, il tutto circondato da un panorama sempre meraviglioso a prova di riprese tramite drone. Una sorta di California del bel paese dove al posto delle start-up della Silicon Valley ci sono agriturismi e stabilimenti balneari che promettono estati indimenticabili.

Bene. Eppure, da pugliese, non riesco a non chiedermi: «Ok, ma… tutto il resto? Com’è possibile che l’altra natura di questi luoghi non venga minimamente comunicata? Com’è possibile direzionare in modo così efficace la percezione di un intero territorio?».

 

L’altra superficie

 

Anni fa, quando ancora vivevo a Gallipoli, mi ritrovai (per una serie di eventi assurdi) a cenare con uno dei più potenti boss della Sacra corona unita. Durante la serata, stimolato dal consueto Primitivo con gradazione di 15 gradi, l’uomo mi disse (parafraso, traducendo dal suo dialetto aspro e stretto): «Il mio lavoro non avviene in superficie. Io sono la superficie». Una frase che non potrò mai dimenticare. Perché esatta, verissima, spietata.

La Scu, attualmente, è diventata una forma di criminalità organizzata che rigetta l’estetica delle mafie televisive o la messa in scena di azioni efferate. Non si potrebbe mai ipotizzare una narrazione del tipo “Gomorra pugliese”, perché oggi la Scu è il territorio, e non ha (più) bisogno di lotte tra bande. La Scu è come le spiagge, è come gli ulivi, è come le piazze abbacinanti nel sole estivo. Una criminalità organizzata di questo genere non ha alcuna epica, e non presta il fianco ad alcun riflettore mediatico. Esiste una rete di individui che illegalmente gestisce le operazioni economiche e sociali, ma si prova in ogni modo a esporre della regione solo la faccia più attraente, semplice, innocua: in Puglia ci si diverte, si sta bene, e basta così. Da questa gestione ci guadagnano un po’ tutti. E il silenzio è garantito.

La nota canzone di Caparezza Vieni a ballare in Puglia fu un caso clamoroso di come la narrazione di questa terra sia ormai intossicata da una posa perennemente da showreel: una musichetta allegra e a tratti becera, sotto la quale le parole al vetriolo del rapper venivano soffocate. La gente, durante quella estate in cui il brano era un tormentone, era letteralmente venuta in Puglia solo per ballare: mentre almeno due mostruose fabbriche producevano – e producono – quotidianamente morte e danni ecologici con il ricatto del lavoro a tempo indeterminato (l’arcinota ex-Ilva e la meno famosa centrale elettrica di Cerano); mentre un teatro comunale veniva reso inagibile perché occupato – con uno strano sistema di usufrutti – dalla madre del boss gallipolino di cui sopra, la quale si accasò nei camerini, per viverci fino a oggi.

In Puglia esiste lo splendore della Bari di Lolita Lobosco, ed è giusto che venga narrato attraverso la penna asciutta ed elegiaca di Gabriella Genisi. Esiste anche la Polignano raccontata da Luca Bianchini, con quella umanità tutta novecentesca e con le mani sempre sporche di farina o di terra coltivata.

Esiste però pure la Puglia dove nelle campagne di Lucera i braccianti si suicidano, in zone che rappresentano un disastro umano e nelle quali sembra operare soltanto il coraggioso sindacalista Aboubakar Soumahoro. Un Salento dove nel giro di pochi anni due omicidi vengono compiuti da giovani con il movente dell’invidia – sintomo eclatante, ma mai davvero esposto, di un’intera generazione avvelenata nel profondo, bloccata in un sistema sociale asfissiante dove si è lontani da tutto. Esiste, insomma, un risvolto torbido, in questa regione. Un negativo, un nero che non viene mai illuminato, perché scientemente nascosto sotto il tappeto di una formula comunicativa che si abbranca disperatamente al valore dell’economia turistica e che promette balli, orecchiette e aperitivi sotto il sole.

Per un pugliese tutto questo è doloroso. Mistificare il proprio luogo d’origine, rifiutando di esporre la realtà palpitante e vera, significa allestire una realtà aumentata. Le mie estati pugliesi assomigliano sempre più a un lungo episodio di Black Mirror in salsa mediterranea, dove tutti i cittadini devono recitare in uno show turistico – uno show che, se non risulta convincente, causerà il vero grande male della nostra epoca: l’assenza di profitto.

 

Camuffare d’istinto

 

Conosco molte persone – quasi tutte millennial, quasi tutte laureate – che vivono in Puglia e per lavoro svolgono la mansione di storyteller: il loro compito consiste nel comunicare il territorio pugliese per renderlo, agli occhi di potenziali turisti, una distesa di luoghi incantati da scoprire. Impacchettano l’idea affascinante di vivere in un posto impermeabile alle mutazioni sociali e ai processi che rendono problematiche le altre aree del sud. In sostanza, il loro lavoro consiste nel mentire sapendo di mentire [corsivo mio]. Consiste nel vendere i tramonti, i ristoranti di pesce, le ricette delle nonne, le notti tarantate, facendo di tutto per non far percepire la superficie, l’altra superficie, di cui parlava il boss della Scu.

Questo storytelling, però, non è compito soltanto di chi lo fa in cambio di un compenso. È come se ogni pugliese fosse, a suo modo, uno storyteller, un narratore che difende lo splendore della propria terra. Si tratta di un processo forse intrapsichico, che prende vita senza possibilità di razionalizzazione. Io ne sono un esempio. Quando, durante degli eventi pubblici, racconto la cena con il boss sopracitata, finisco sempre per smorzare il racconto con una qualche battuta («Comunque i gamberi di Gallipoli sono buonissimi anche se li dividi con un capomafia»). Una pulsione verso il ridimensionamento, un istinto al camuffamento della realtà. Un amore per il luogo natale che è anche un riflesso incondizionato.

Un fenomeno inquietante, da questo punto di vista, avvenne alcuni mesi fa quando lo scrittore salentino Omar Di Monopoli pubblicò un articolo, sulle pagine di un quotidiano nazionale, nel quale provava a problematizzare l’omicidio commesso a Lecce dal giovane Antonio De Marco ai danni di una coppia di amici. Di Monopoli connetteva l’odio sistematizzato di De Marco verso la felicità altrui (questo il movente confessato dal ragazzo agli inquirenti) con un “male” che aleggerebbe in quella periferia d’Italia rappresentata dal Salento. Il risultato fu una clamorosa shitstorm di pugliesi che, sui social, ringhiarono frasi come: «Tu non sai niente di questi luoghi», «Sciacquati la bocca prima di parlare del Salento».

Censurare, dunque. Ecco cosa resta a chi prova a narrare la Puglia. Oppure camuffare. Allestire un personaggio piacevole e nazionalpopolare come il vicequestore Lobosco per poter esternare, almeno parzialmente, un qualche risvolto criminale tipico di certo sud. Nascondersi dietro il dito della comicità, come fece Carlo D’Amicis nello splendido romanzo La guerra dei cafoni, per poter delineare la drammatica guerra di classe e generazionale, ancora in corso in molte aree pugliesi, tra benestanti e non. Insomma, usare artifici, ecco cosa resta: ma con la consapevolezza che, probabilmente, il messaggio che il grande pubblico vorrà continuare a ricevere sarà quello della Puglia come location dell’idillio – lo stesso messaggio che la maggior parte dei pugliesi vuole o deve promulgare.

Oltre cinquant’anni fa, il poeta leccese Vittorio Bodini teorizzava l’architettura barocca del Salento come la risposta estetica a una sorta di horror vacui che fa parte naturalmente delle anime di chi vive in quel luogo. Oggi quell’horror vacui c’è ancora, sempre più forte. E al posto del barocco c’è lo storytelling, ci sono i Baci da Polignano, ci sono le fiction. Forse è giusto così. Ma per chi?

 

 

L’Italia al centro del Mediterraneo_con Antonio de Martini

L’incidente ancora in via di soluzione nel canale di Suez dovrebbe contribuire a porre in primo piano la collocazione e il ruolo strategico dell’Italia nel Mediterraneo. I protagonisti esterni al paese hanno dimostrato più volte di esserne ampiamente consapevoli; paradossalmente lo stesso non si può dire riguardo alla classe dirigente italiana, soprattutto l’attuale. E se qualche barlume qua e là dovesse sorgere in proposito mancherebbe ad essa l’ambizione, la volontà e la capacità di utilizzo dei mezzi e delle opportunità che si aprirebbero nei vari frangenti. Dovrebbe essere questo il centro del dibattito politico propedeutico ad una svolta sempre più inderogabile, indispensabile a garantire l’esistenza dignitosa stessa della nazione_Buon ascolto, Giuseppe Germinario

PS_ Luigi Negrelli è nato in Trentino, a Fiera di Primiero

https://rumble.com/vf5l0h-litalia-al-centro-del-mediterraneo-con-antonio-de-martini.html

 

LA TRINCEA DEI CATARROSI, di Antonio de Martini

LA TRINCEA DEI CATARROSI
Oggi è il 28 marzo. Lo commemoro in esclusiva nazionale.
In questo giorno del 1947, l’Italia fu chiamata – assieme agli sconfitti – al tavolo dei vincitori a firmare il trattato di pace in cui ci tolsero anche le mutande e che pose la parola fine alla seconda guerra mondiale,
Tra un mese circa, il 25 Aprile
– festa nazionale- avremo la sfilata celebrativa di commemorazione della nostra vittoria della seconda guerra mondiale.
Due gruppi di italiani, entrambi stupidi e faziosi, celebreranno l’evento da opposti punti di vista, senza rendersi conto di perpetuare così il danno maggiore autoinfertoci che è quello della rottura spirituale dell’Unità nazionale.
La Germania fu divisa in due stati, ma rimase unita spiritualmente. Noi restanmo burocraticamente uniti, ma siamo ancora divisi.
Non è piu il caso di invocare la pacificazione o la concordia, come “ Nuova Repubblica” ha fatto dal giorno della fondazione unendo nell’appello insigni italiani delle due parti.
Si può solo sperare che il Covid faccia il suo lavoro e ci liberi degli ultimi rancorosi delle due parti, affidando le sorti d’Italia alle successive, smemorate, generazioni che credono che la guerra contro la Germania l’abbia vinta Tardelli.
Non so cosa sia peggio.
« GUERRINO SOL CONTRO TOSCANA TUTTA »
Il nuovo governo USA sta delineando la propria fisionomia, caratterizzandosi con una politica che può, al momento, definirsi quella « della suocera di Trump ».
Si guarda all’operato del predecessore e si cerca una rottura di continuità pur nella costanza degli atteggiamenti fondamentali.
Dopo aver dichiarato che non avrebbe brigato un secondo mandato, Biden ha fatto la dichiarazione opposta.
Non è impazzito, ha capito che l’amministrazione – il deep state – ha bisogno di credere che le scelte del presidente siano destinate a durare e ha promesso continuità.
Per ora l’attivismo della macchina di politica estera statunitense é frenetico e omnidirezionale.
Nell’arco di 72 ore gli USA hanno minacciato di sanzioni la Germania, la Russia, l’India e la Cina.
I tedeschi per il gasodotto nord stream, la Russia perché maltratta gli oppositori interni, l’India perché compra il sistema antiaereo russo e la Cina perche bistratta Uiguri e tibetani,due delle 54 minoranze del Celeste impero.
Se a questi si aggiungono i Turchi, l’Iran, lo Yemen, i somali, il Venezuela, il piccolo Libano, l’Afganistan , la Libia, la Siria, l’Irak, (con Myammar e Bielorussia in dirittura di arrivo nella lista dei sanzionandi), anche sottraendo il Sudan – arresosi di recente almeno a parole e l’Africa occidentale subappaltata ai francesi- siamo al contenzioso con quattro miliardi di abitanti del pianeta su sette.
Armatosi di buona volontà, Biden é già venuto a partecipare alla riunione UE per dare un tocco di bonomia personale alle minacce, ha stabilito di ripescare alcuni valori tradizionali della democrazia americana caduti in desuetudine e deciso di attendere gli esiti elettorali del 2022 previsti per una serie di paesi tra cui Italia, Libano, Irak e Turchia.
PRIORITÀ ALLA NATO ?
La seconda visita sarà alla NATO che sta per varare il suo nuovo assessment strategico .
L’organizzazione Nord Atlantica ha acquisito una valenza nuova da quando è ormai l’unico consesso – dopo la Brexit- in cui convivono gli europei continentali con i britannici .
Se si vuole fare la voce grossa coi russi, la NATO è lo strumento indispensabile e l’Italia ha il ruolo chiave.
Lo ha notato il generale Arpino – ex capo di SM della Difesa, della classe 1937 – che ha segnalato con un articolo su “ Formiche” l’interesse dell’Italia a restare nell’alleanza ( dice che chi la pensa diversamente è ingenuo o in malafede) e invita a sfruttare l’occasione per indirizzare l’attenzione verso il sud.
Arpino pensa certamente al fianco destro dell’alleanza che dalla fondazione ad oggi è stato sfondato: l’Iran e l’Irak sono inagibili, la Siria è ormai una caposaldo russo, la Turchia in pericolo e Libano e lo stesso Israele infiltrati.
Siamo destinati a subire il primo urto.
La strategia antirussa USA di sostegno alle repubbliche baltiche dove siamo stati “ costretti” a inviare dei nostri aerei,
cozza contro i nostri interessi strategici ( vigili sul fianco destro) economici ( energia da Egitto e Libia) commerciali ( i mercati del Levante) .
Il generale confida, con cortese incertezza, nella abilità manovriera dei nostri governanti agli incontri tra alleati per ottenere attenzione.
Forse è meglio usare parole brutali ma franche agli alleati: la volta scorsa in cui fummo centrali per l’alleanza, con De Gasperi e Pacciardi, l’Italia ebbe Manlio Brosio ( un politico) nominato segretario Generale dell’alleanza, aiuti militari a fondo perduto e qualche sostegno finanziario.
E rispetto.
Adesso, a parte qualche vaccino, cosa offrono?
Commenti
Alberto Del Buono

a mio parere il candidato ideale sarebbe

Vincenzo Camporini

. Ha l’esperienza e la grinta per fare bene e sottrarremmo un uomo ingenuo alle grinfie di partitanti che ne sfruttano l’onorabilità.

Renzi sarebbe un pericolo serio per l’integrità della lingua inglese e una scelta divisiva.
Antonio de Martini

Caro de Martini, la sua stima mi lusinga, compresa la definizione di ‘ingenuo’ che interpreto nel senso di chi è portato ad avere fiducia nel prossimo. Fortunatamente per me, la sua è un’idea isolata: si immagina lei le vesti strappate e gli alti lai nel caso un Generale venisse designato, o solo proposto per un tale incarico politico? Ce ne sarebbe per far cadere un governo! Grazie in ogni caso per la sua considerazione, che mi fa molto piacere, perché so essere sincera e profonda.

Vincenzo Camporini

caro generale. Apparentemente isolato ho chiesto a giorni alterni l’affidamento dell’epidemia allo Stato Maggiore per un intero anno. Hanno cooptato un generale – fino a ieri impensabile- e presto allargheranno le maglie eliminando …

Altro…
Antonio de Martini

Lei suggerisca l’idea come sa fare e vediamo se qualcuno ascolta.

Una buona notte.

Draghi e ologrammi, di Giuseppe Germinario

Il 10 marzo scorso Mario Draghi ha compiuto il secondo atto significativo del suo ministero, seguito alla sostituzione del vertice della Protezione Civile e del Commissario all’Emergenza Sanitaria: il patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale, sottoscritto con i sindacati confederali “http://www.governo.it/sites/governo.it/files/PATTO_INNOVAZIONE_LAVORO_PUBBLICO_COESIONE_SOCIALE.pdf “.

Di fatto una discontinuità rispetto agli ultimi governi in materia di relazioni sindacali; apparentemente una riedizione di quella concertazione che ha conosciuto il proprio sussulto crepuscolare con il Governo Ciampi, a metà anni ‘90.

I motivi pesanti che hanno spinto e reso necessario questa inversione sono diversi:

  • l’iniziativa fa da necessario corollario al sostegno quasi ecumenico offerto dai partiti al Governo Draghi in un contesto di paralisi e di grande disgregazione e debolezza di questi ultimi. Se il Governo Ciampi si era assunto il compito di preparare l’investitura del PDS/DS, della sinistra in pratica, di un partito graziato da “tangentopoli”, l’unico sufficientemente strutturato, radicato ed autorevole, a direttore di orchestra delle future compagini governative, il Governo Draghi a sua volta dovrà creare le condizioni per una ricostruzione e riconfigurazione di quasi tutti i partiti, alcuni dei quali in fase di evidente disgregazione ed assecondare il riallineamento nello schieramento europeista di quelli riottosi. Non che la condizione dei sindacati confederali sia molto migliore, tanto più che la caratteristica di confederalità, di progettualità e costruzione politica unitaria delle associazioni quindi, si sta ormai affievolendo vistosamente nel corso degli anni; rimangono comunque la sola significativa forza intermedia in grado di assecondare in qualche maniera ordinata i pesanti processi di riorganizzazione in corso e che soprattutto si annunciano nel prossimo futuro

  • la gestione della crisi pandemica, tra i tanti aspetti anche oggettivi dai quali si potrà valutare, si sta rivelando un test attendibile della capacità di affabulazione e di manipolazione della classe dirigente dominante e della reattività e della lucidità di azione di centri alternativi ben lungi ancora da sedimentarsi, ammesso che esistano attualmente. L’enormità dei problemi da affrontare in un contesto drammatico di recessione e ridimensionamento delle basi sociali e produttive è probabilmente la molla principale che sta spingendo questo governo a riproporre un coinvolgimento più stretto delle parti sindacali. Sta accelerando inesorabilmente la dinamica di un gigantesco processo di riorganizzazione, legato alla digitalizzazione e alla ridefinizione delle catene e delle gerarchie di produzione, che riguarderà all’interno i processi produttivi e la qualità dell’organizzazione e delle gerarchie delle varie attività economiche, istituzionali e di comando. Sono la nervatura e la base le quali definiscono le stratificazioni sociali, la conformazione dei ceti e la formazione dei blocchi sociali di una particolare formazione. In Italia assumerà connotazioni ancora più radicali per le caratteristiche proprie della formazione sociale costituita da industria ed attività più polverizzate e mediamente più arretrate tecnologicamente ed organizzativamente e da una pletora di piccola borghesia legata a rendite ed attività interstiziali, ma fondamentale nel garantire la coesione sociale e la stabilità politica.

Mario Draghi è arrivato per gestire al meglio alcune di queste dinamiche senza mettere in discussione la collocazione geopolitica e senza compromettere la collocazione geoeconomica del paese in maniera talmente grave e distruttiva da rischiarne la dissoluzione.

L’accordo quadro affronta un aspetto particolare e fondamentale di questa riorganizzazione; quello del funzionamento e della operatività degli apparati amministrativi fondamentali per il governo di questa riorganizzazione in vista in particolare dell’arrivo dei fondi europei.

Una missione che rende alquanto improbabili le analogie di questo patto con quello sottoscritto a suo tempo con Ciampi: quello intendeva regolare le cadenze contrattuali e la componente salariale della contrattazione interconfederale e di categoria; questo propone uno scambio tra i rinnovi contrattuali, il riconoscimento di aumenti stipendiali contrattuali, al momento per il solo pubblico impiego, in cambio della disponibilità ad affrontare e cogestire i processi di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche. Quello era un accordo che riguardava tutte le categorie di dipendenti, questo riguarda il pubblico impiego allargato, anche se probabilmente, in caso di successo, fungerà da apripista per un sistema di relazioni paragonabile per le altre categorie, ma da gestire più in autonomia con le associazioni datoriali.

Le ambizioni dichiarate in questo accordo sono grandi.

Gli organi di stampa hanno sottolineato soprattutto nell’avvicendamento legato ai prepensionamenti, nella formazione continua, tra i più avveduti nella assunzione di personale e quadri tecnici gli aspetti salienti dell’accordo. I punti essenziali in realtà riguardano ben altro: la possibilità di creare collaborazioni, comitati ed agenzie a conduzione privatistica o mista che gestiscano gli aspetti cruciali dei progetti, che fungano da supporto e da modello da implementare nelle amministrazioni attualmente incapaci di progettare e gestire interventi rilevanti; il cambiamento dello stato giuridico del pubblico impiego e l’intercambiabilità dei quadri dirigenti con il settore privato; una verifica operazionale legata al rispetto della tempistica e al raggiungimento dei risultati piuttosto che al rispetto formale delle procedure. Orientamenti che prendono ad esempio i modelli operativi della burocrazia europea legata per lo più all’utilizzo dei fondi strutturali e in maniera più approssimativa quelli della amministrazione inglese e statunitense.

Non è la prima volta però che si sono manifestate queste ambizioni.

La legge quadro sul pubblico impiego del 1983 è stato sino ad ora il tentativo più organico di riorganizzazione del personale pubblico ad eccezione parziale delle carriere direttive. Quell’articolato non intendeva agire direttamente sulla organizzazione delle amministrazioni pubbliche e sulle fonti che ne determinavano le modalità di funzionamento; definiva la contrattualizzazione collettiva del rapporto di lavoro, i soggetti abilitati a trattare e i criteri di inquadramento professionale; l’obbiettivo era di liberare il rapporto di lavoro pubblico dal legame diretto e dal clientelismo dei politici e dai provvedimenti legislativi dedicati a gruppi specifici, di trasformare il rapporto di lavoro secondo criteri civilistici e attribuire al sindacato del pubblico impiego un ruolo autonomo piuttosto che di mera appendice dei voleri delle fazioni politiche. Obbiettivo raggiunto, ma solo in parte e con qualche implicazione negativa, piuttosto pesante. La principale, che il sindacato oltre ad aver acquisito una propria autonomia operativa e una ragione d’essere costitutiva ha accentuato la sua pervasività nei meccanismi decisionali e operativi sino ad entrare a pieno titolo nelle pratiche di selezione delle promozioni e di occupazione dei centri decisionali diventando di fatto, in particolare la CISL, anche un’associazione lobbistica imprescindibile per il funzionamento. Una prerogativa rimasta anche in quegli ambiti, come quello di Poste Italiane, trasformatisi in aziende a gestione privatistica con tutte le distorsioni e i soffocamenti che ne sono conseguiti.

Il patto proposto e sottoscritto da Draghi è qualcosa di più profondo e strutturale, di più complesso.

Non può prescindere assolutamente da questa realtà informale che sino ad ora è sempre riuscita a neutralizzare i propositi di ridefinizione delle gerarchie sul campo.

L’altra cartina di tornasole in grado di svelare la reale credibilità e positività di quanto sottoscritto è la riorganizzazione istituzionale che definisca chiaramente le gerarchie e le competenze dello Stato centrale e delle amministrazioni periferiche nonché due o tre modelli organizzativi, non di più, ai quali attenersi secondo la missione dei vari ambiti operativi, siano essi aziende di servizio o ordinamenti funzionali. È la via attraverso la quale lo Stato ed il Governo centrali possono assumere il pieno controllo interno della situazione e possono porsi come interlocutori autorevoli e meno permeabili all’esterno, soprattutto in sede di Unione Europea (UE). Una riforma, mancando la quale, rischia in partenza di annacquare le potenzialità del patto o di ricondurlo lungo le dinamiche di disarticolazione ulteriore del controllo centrale e di ulteriore connessione diretta con la burocrazia della UE

Questo non pare rientrare nel programma di governo per due motivi, uno di orientamento strategico, l’altro tattico.

Il primo è che il nostro, essendo paladino di questo europeismo, non ha nessuna intenzione di accettare il fatto che quello della UE è, pur con regole particolari, un campo di azione di stati nazionali sul quale vince chi riesce a preservare meglio le proprie prerogative piuttosto che uno spazio di liquefazione concordata della propria realtà istituzionale; il secondo è che porre sul piatto la questione metterebbe prematuramente in crisi la Lega, soprattutto la componente più convinta nel sostegno a Draghi, ma comunque l’unico partito al momento non in crisi convulsiva, sostenitore del governo almeno sino a quando non si risolverà, se si risolverà, in qualche maniera lo stato confusionale del PD.

Una riorganizzazione istituzionale potrà aver luogo, comunque non in maniera risolutiva, solo nel momento in cui la componente europeista tradizionale dovesse assumere il pieno controllo non solo dei centri decisionali ma anche dell’opinione pubblica.

C’è un altro fattore che impedisce di porre correttamente sia la questione istituzionale che l’impostazione e l’applicazione del Patto. L’atteggiamento gretto e settario della destra radicale che contrappone visceralmente gli interessi e la condizione privilegiata dei ceti “garantiti” a quelli più minacciati dalla crisi pandemica e socioeconomica. Una postura che le impedisce di cogliere la effettiva posta in palio e l’opportunità di entrare nel merito delle questioni. Una ottusità ricorrente che le ha impedito di cogliere gli spazi che le si erano aperti nel mondo del lavoro e negli stessi ambienti sindacali. Una miopia che ad esempio non ha colto, almeno non nella stessa entità, Donald Trump negli Stati Uniti.

Un complesso di fattori ed orientamenti che nell’ipotesi riduttiva di attuazione del Patto rischiano di annichilire le migliori intenzioni riformatrici e di ridurre quel documento ad un mero pretesto per giustificare gli aumenti contrattuali, in quella più estensiva porterà a rendere più efficienti le amministrazioni soprattutto per rendere più fluido e subordinato il rapporto con la burocrazia della UE. Mario Draghi sarà il pendolo che oscillerà tra questi due estremi; se non sarà calamitato su uno dei due versanti, potrà conseguire qualche successo nel breve termine, portare a termine quindi quanto meno il Recovery Plan e la campagna di vaccinazione, ma cadrà ancora una volta nella trappola delle ulteriori duplicazioni di apparati ed amministrazioni che renderanno ancora più inestricabile la matassa istituzionale. La speranza di un afflato nazionale che dia senso e sentimento alla riorganizzazione dipenderà purtroppo da un contesto internazionale che deciderà dei destini della UE e del ruolo egemonico, quantomeno delle sue modalità di esercizio, degli Stati Uniti in questa area, piuttosto che da un irrefrenabile impulso interno al paese; con tutti i costi e i condizionamenti che si dovranno pagare. La stessa unità di Italia del resto è scaturita da un contesto simile; stiamo proseguendo su quella falsariga, ma senza grandi diplomatici, senza politici accettabili e con impulsi sempre più flebili. Le stesse organizzazioni sindacali, uno dei “corpi intermedi” con i quali Draghi cerca di puntellare la propria collocazione, stanno rivelando una tale povertà culturale da rendere impossibile la creazione di un sostrato “propositivo” nei settori che ancora rappresentano. È sufficiente tenere conto della condizione inerme di fronte alle innumerevoli crisi aziendali aperte, della posizione piattamente acritica sulle dinamiche di fondo del Recovery Fund e sulla natura della UE, della incapacità di coniugare il conflitto sociale con una ipotesi di difesa dell’interesse nazionale per comprendere come il carattere interconfederale tenderà sempre più ad affievolirsi in una frammentazione di iniziative giustapposte. La carrellata recente di interviste è alquanto illuminante. L’unica predominante preoccupazione riguarda l’estensione e la regolazione degli ammortizzatori sociali. Per condurre dove, non si sa.

PS_non ho trattato gli argomenti dell’articolo nell’ottica delle relazioni transatlantiche e dell’egemonia USA almeno in Europa, semplicemente perché in Italia il problema non si pone in nessuna delle forze politiche significative

Per paura di morire, abbiamo smesso di vivere_ di Davide Gionco

Per paura di morire, abbiamo smesso di vivere
di Davide Gionco

La perdurante campagna di terrorismo mediatico intorno alla pandemia del covid-19 (perché se fosse informazione corretta, sarebbe un’altra cosa) fa leva sul nostro istinto di sopravvivenza: se so che una certa azione comporta dei rischi per la mia incolumità, la evito. Si tratta di un atteggiamento che funziona bene nel caso di un pericolo immediato, come il rischio di un incidente stradale, ma che non sempre porta dei vantaggi nel caso di situazioni che perdurano nel tempo.
Un esempio classico è quello del fumo: tutti sanno che fumare fa male e che riduce la speranza di vita, tuttavia molti fumano (per la cronaca: non sono un fumatore), perché ritengono che fumare sia un “piacere della vita”, che la rende più piacevole, anche se forse più breve. Tutti sanno che un’alimentazione sana unita ad una regolare attività fisica è qualcosa che può allungare la vita, ma molte persone preferiscono alimentarsi con cibi più saporiti (anche se meno sani) e non affaticarsi a fare sport, preferendo altre attività ritenute più piacevoli. Tutti sanno che è pericoloso viaggiare, tuttavia molte persone viaggiano, perché viaggiare consente di lavorare, di rendere visita a persone care, di gustare qualche splendido angolo del mondo.
Il famoso filosofo Epicuro di Samo (341-270 a.C.) si era giustamente occupato del ruolo del piacere nella vita umana. Non siamo dei vegetali che devono sopravvivere, ma delle persone che desiderano vivere, riempire la propria esistenza di esperienze piacevoli che rendano la vita degna di essere vissuta.
Ho conosciuto una signora che era terrorizzata dai “microbi” che avrebbero potuto far ammalare i suoi figli. Per questo non lasciava mai i figli uscire di casa, per ridurre i rischi di malattie. Alla fine i figli si ammalarono comunque, una volta diventati adulti. E in compenso crebbero come delle persone tristi ed asociali, perché per evitare le malattie avevano sistematicamente evitato di tessere relazioni sociali.

Gli gnu della savana sanno che per vivere (nutrirsi, accoppiarsi, riprodursi) dovranno passare dall’altra parte del fiume, dove li attendono i verdi pascoli. Per questo motivo non esitano ad attraversare il fiume infestato dai coccodrilli. Sanno che qualcuno morirà (il quale lotterà per non soccombere), ma sanno anche che è il prezzo da pagare per continuare a vivere.

E noi essere umani, come ci siamo ridotti dopo un anno di pandemia e di misure di confinamento?
Abbiamo ridotto ai minimi termini le nostre relazioni sociali, proprio noi che siamo la specie sociale per eccellenza: chiusi in casa per evitare i rischi del contagio, senza potere scherzare (o piangere) con gli amici, senza poter corteggiare una ragazza di cui ci siamo innamorati, senza poter partecipare al funerale di una persona cara deceduta (sì, siamo arrivati anche a questo), senza poterci gustare un’opera d’arte o un concerto musicale, senza poter andare al mare a godersi il tramonto sulla spiaggia.
Si tratta di attività definite “non essenziali”, senza le quali, però, nessuno di noi potrebbe vivere. Se i nostri genitori non si fossero innamorati in occasione di attività “non essenziali” (un ballo, una vacanza al mare, in pizzeria, tutte cose oggi rigorosamente vietate in nome del covid…), non ci avrebbero messi al mondo e nessuno di noi oggi esisterebbe. Le attività legate alla socializzazione sono quindi più che mai essenziali per l’esistenza degli essere umani e per la perpetuazione della nostra specie.

Stiamo smettendo di fare all’amore. Secondo uno studio che ha coinvolto 500 italiani fra i 16 ed i 55 anni, lo stress generato al terrore sociale e dalle misure di confinamento ha portato ad un calo del desiderio sessuale, con conseguente riduzione dei rapporti. Fare all’amore con la persona che si ama è una attività essenziale o non essenziale?

Stiamo smettendo di fare figli. Nel 2020 ci sono stati circa 80 mila morti in più rispetto alla media, ma nessuno ha fatto notare come ci siano stati 160 mila nati in meno rispetto al 2010 (nostra stima, in attesa dei dati ufficiali ISTAT per il 2020). Questo processo di denatalità è peraltro in atto da molti anni, probabilmente causato dalle paure e dalle incertezze della persistente crisi economica, perché sempre meno giovani coppie osano investire nel futuro. Se giustamente intendiamo salvare dal covid-19 le persone anziane che abbiamo a cuore, per quale motivo abbiamo rinunciato a dare origine a nuove vite? Il fatto di non mettere al mondo dei figli, che certamente saprebbero riempire di gioia la vita degli adulti, oltre che garantire un futuro alla nostra società, significa privarsi di affetti fondamentali per la nostra esistenza, probabilmente molto di più di quanto lo siano gli affetti verso le persone anziane delle quali prolungheremo la vita grazie alle misure anti-covid.
Anche se, ovviamente, non si tratta di numeri comparabili, vale di più prolungare di qualche anno la vita delle persone anziane o mettere al mondo dei nuovi bambini che le sostituiscono, secondo come ha previsto Madre Natura? Che senso ha attuare misure di restrizione sociale anti-covid (unite al terrorismo mediatico) che consentono di salvare alcune decine di migliaia di vite di persone anziane, se poi questo ci costa, socialmente parlando, una riduzione del numero delle nascite di nuovi bambini? Oltre a danni sociali difficilmente misurabili in tutta la società.

Ogni anno in Italia muoiono circa 70 mila persone per le conseguenze del fumo (il “piacere della vita” sopra citato). Nessuno se ne scandalizza, eppure potremmo evitare queste morti con un ferreo divieto del fumo in Italia, che sarebbe certamente molto meno devastante, dal punto di vista sociale, delle limitazioni imposte per evitare un numero eccessivo di morti per covid-19.
Ogni anno muoiono in Italia circa 40 mila persone per le conseguenze dell’alcolismo. Nessuno se ne scandalizza. Perché non si vieta in modo assoluto il consumo di alcool? Non lo si fa, perché l’alcool, se assunto con moderazione, è uno dei piaceri della vita, ma un divieto assoluto dell’alcol sarebbe socialmente meno dannoso dell’attuale lockdown.

Con le restrizioni anti-covid abbiamo sostanzialmente sospeso ogni iniziativa di tipo economico: chi mai può pensare (a parte Jeff Bezos, che ci sta guadagnando con le vendite online) di fare investimenti economici in un periodo portatore di tutte queste incertezze per il futuro?
E’ stata uccisa la speranza in un futuro migliore, ciò che dà sapore alla vita che viviamo. Siamo stati ridotti a vegetali da mantenere in vita, mentre prima eravamo persone che vivevano.

In tutta la sua storia l’umanità ha affrontato numerose pandemie, anche molto più gravi di quella attuale, senza per questo mai cessare di godersi la vita, di fare figli e di investire nel futuro. La naturale paura di morire non ha mai portato a smettere di vivere, riducendosi a sopravvivere. Agli eventi della vita, comprese guerre e malattie.

Non si tratta di un discorso cinico, ma del significato e della qualità della nostra vita: fino a che punto ha senso che una intera società RINUNCI A VIVERE, per mesi e mesi, senza prospettive, solo per ridurre l’incidenza di una delle molte cause di morte fra la popolazione?
E’ qualche cosa che ricorda la situazione di persone che sono state rapite, rinchiuse in carcere a vita o detenute in confino, le quali sono ridotte a vivere alla giornata, senza poter guardare al futuro, senza poter sognare qualcosa che possa dare senso alla loro vita. La speranza viene ridotta all’attesa che la situazione di reclusione finisca, senza alcuna idea su quello che seguirà.

Il coronavirus in un anno ha fatto 80 mila morti su di una popolazione di 60 milioni di abitanti, il che significa lo 0,13% di morti per questa malattia. Se non ci fossero state le misure restrittive, ma sono misure mirate a proteggere le persone a rischio, supponiamo che saremmo arrivati ad un tasso di mortalità dello 0,2% (120 mila morti). Evitare la morte dello 0,2% della popolazione vale il prezzo della distruzione della socialità, del senso di vivere delle restanti 59’780’000 persone?

Forse dietro a tutto questo c’è una visione egoistica della vita: abbiamo paura di morire, abbiamo paura che muoiano i nostri cari. Per questo preferiamo imporre a tutti quanti di smettere di vivere, per ridurre il rischio a nostro carico di dover soffrire.
Anche io ho toccato con mano la morte di persone care a causa del covid, anche io sto attento a non contagiare le persone a rischio, per rispetto della salute di quelle persone. Ma per questo non mi sento in diritto di mancare rispetto alla stragrande maggioranza di persone “non a rischio”, privandole del mio apporto di socialità, di vita piena.

Mi auguro che queste riflessioni aiutino a superare la sterile contrapposizione “normali contro negazionisti” o “vaccinisti contro antivaccinisti”. Non è questo il punto. Il punto è che, senza accorgercene, stiamo diventando persone disumane, perché stiamo reprimendo la nostra umanità in nome delle misure di prevenzione anti-covid. Siamo davvero sicuri che il prezzo che pagheremo per questo, alla fine, non sia ben più alto di quello che avremo guadagnato?

NB apparso anche su https://www.sovranitapopolare.org/2021/03/06/per-paura-di-morire-abbiamo-smesso-di-vivere/

Vecchi dentro, di Giuseppe Masala

Secondo fonti di stampa Mario Draghi ha affidato i dossier del Recovery Plan da presentare a Bruxelles alla società di consulenza aziendale McKinsey. Fatto salvo il fatto che il governo precedente ha perso un anno di tempo e ci sono dei tempi strettissimi da rispettare (fine Aprile se non erro), c’è tutto un mondo dietro questa scelta.
1) Il piglio manageriale di Draghi, un piglio chiaramente anni 90. Peccato che siamo nel 2020 e sul mondo degli anni 90 del secolo scorso è calato il sipario.
2) C’è l’efficientismo anni 90 (again) di McKinsey, gente uscita dalle madrasse neoliberiste con idee stravecchie.
3) C’è il fatto che lo Stato che si vorrebbe progettare non è un azienda come pensano quelli di McKinsey.
4) C’è che lo stato andrebbe riprogettato nel riferimento ideale dei principi della nostra Costituzione.
E insomma, niente. I progetti che verranno messi a terra saranno vecchi prima di nascere. Occorreva altro, occorreva un dibattito aperto, un dibattito democratico, magari partendo dalle scuole e dalle Università dove si sarebbero dovuti mettere a lavoro i nostri giovani (del resto, il mondo che deve nascere è il loro, o no?). Occorreva interrogarsi sui temi fondamentali, sui principi, sull’uomo-aumentato, e dunque su che cosa è l’uomo, su che cos’è il lavoro del futuro, sulla società che ci attende.
Bisognava fare un progetto aperto, democratico, inclusivo ma per davvero, per riprogettare questa nazione. Occorreva che i diversi piani del sapere si incontrassero: filosofico, giuridico, economico, informatico-tecnologico, sociale tutto insieme.
Si è deciso di affidare il nostro futuro alla fuffa di un’azienda vecchia dove lavorano dei vecchi e dei giovani vecchi nati bene usciti dalle solite madrasse che hanno gli anni 90 in testa.
Nel frattempo lo scontro tra visione centralizzata e decentralizzata continua. Uomini come Andreas Antonopoulos, i fratelli Durov, Nick Szabo, Ralph Merkle e Vitalik Buterin combattono e fanno, così come Zuckerberg, Gates, Musk e Pichai. Chi vive nel sistema di valori anni 90 vende consulenze a gonzi. Draghi è vecchio (e non è questione di età, è vecchio dentro).
Draghi e il Salto Quantico che non c’è.
Chi mi conosce sa bene che considero Mario Draghi l’incarnazione di quel grumo di potere che ha devastato l’Italia. Dunque non vedo certamente di buon occhio il suo approdo a Palazzo Chigi. Pur riconoscendo che la spinta propulsiva del governo Conte si era esaurita con una serie di misure cervellotiche e inutili per rilanciare il paese: pensiamo alla follia del “bonus monopattini” o alla follia del “cashless” per le signore borghesi quando c’è la fila alle mense del volontariato.
Ma non voglio rivangare il passato remoto e meno remoto di Draghi. Basta discutere della crociere sul Britannia, basta discutere dello smantellamento dell’industria pubblica italiana, basta discutere del fallimento (di fatto) di Mps, basta parlare del golpe subito dalla Grecia a causa dei diktat proveniente dalla Bce di Mario Draghi. Basta anche parlare della lettera minatoria scritta dal Presidente della Bce uscente (Trichet) e di quello entrante (Draghi) all’allora governo Berlusconi. Basta tutto, concentriamoci sul futuro.
Due scelte in particolar modo mi hanno colpito del governo Draghi: la scelta di Daniele Franco a Ministro dell’Economia e la scelta di Vittorio Colao a ministro dell’innovazione digitale (non ricordo bene la dicitura del ministero, ma tant’è, ci siamo capiti).
Partiamo da Franco, già direttore della Banca d’Italia. Non lo conoscevo, ovviamente. Mi ha colpito però quanto ha detto in un simposio il 5 Novembre del 2020 alla Banca d’Italia. Secondo il Franco bisogna rimettersi di buona lena e riformare un cuscinetto di avanzo primario (almeno pari all’1,5% del Pil, dice lui) così da rimettere in carreggiata le finanze pubbliche. Lasciamo perdere il fatto che una operazione del genere significa ridurre gli investimenti pubblici demolendo (again and again) il Pil e riducendo lo Stato ad una carcassa di vecchiume. Ciò che colpisce e che a distanza di trenta anni, ci sia ancora qualcuno che crede alle idee di Carlo Azeglio Ciampi. E si, perchè Franco non ha prodotto nessun pensiero, si è limitato a riproporre ciò che Ciampi (e i suoi amici-consulenti Modigliani, Padoa ecc.) diceva agli inizi degli anni ’90. Un’idea quella di Ciampi che si è dimostrata completamente sbagliata. Sbagliata perchè astorica, priva di visione storica. Semplicemente il presupposto fondamentale di questa idea (che un’economista lo sappia o meno) è che nei prossimi decenni non avvenga nulla: la Storia come un mare placido nel quale navigare. Peccato che la Storia ci insegni un’inica cosa: le cose, le tempeste, avvengono e avvengono quando meno te lo aspetti.
Io appartengo ad una generazione chiamata a sacrificarsi (da Ciampi) nel nome dell’avanzo primario. Legge Treu, Legge Biagi, riforma delle pensioni Dini e chi più ne ha ne metta. Tutto andava sacrificato nel nome dell’Avanzo Primario e del cosiddetto risanamento del debito pubblico. Poi è venuta la crisi del 2008. Una crisi che in sei mesi, in un grande falò, s’è mangiata 13 anni di sacrifici della mia generazione. Siamo tornati allegramente al 130% di rapporto debito/pil. Non è bastato, è ripresa la stessa retorica dell’avanzo primario: altri sacrifici. Questa volta condita da nomi astrusi quali output gap, six path, fiscal compact. Ma al di là della fantasia sadica – di quegli economistelli da quattro soldi che hanno partorito questa robaccia – poco è cambiato: occorreva rifare sacrifici a colpi di avanzo primario per risanare le finanze pubbliche. Fatto. E’ servito a qualcosa? A niente, è venuta un’altra crisi, questa volta biologico-pandemica (o così ce l’hanno descritta) e siamo arrivati al 160% di rapporto debito/pil. Ora riattaccano un’altra volta. Ventriloqui e burattini di economisti morti (cito Lord Keynes) credono che bisogna riproporre la ricetta del trio Ciampi-Modigliani-Padoa. Sarebbe l’ennesimo buco nell’acqua. E si, anche senza fare lo Spengler dei poveri è facile intuire che quando finirà questa crisi (che comunque ci riserverà ancora amare sorprese) a distanza di un decennio, o quindicennio, ce ne sarà un’altra. Forse militare, forse ancora pandemica o chissà cos’altro. E’ l’unica cosa che ci insegnano i libri di Storia qualcosa accade sempre. E i futuri sacrifici che il Dottor Franco vorrebbe imporci saranno comunque vani. Anzi, dannosi, perchè ci presenteremo alla prossima sempre più deboli ed esangui, con nuove generazioni sempre più impoverite dal punto di vista educativo e incapaci ad affrontare le sfide. Davvero basta.
L’altro elemento fondante, dicevo, è la nomina di Vittorio Colao al ministero che dovrebbe rinnovare, rifondare, il tessuto economico nazionale. Ma per forza un economista bisognava chiamare? Ma ancora con l’idea che tutto debba essere ridotto al mero economicismo dobbiamo andare avanti? Colao l’abbiamo visto con il suo sciagurato “piano” di qualche mese fa: idee vecchie, idee legate ad un mondo che probabilmente esso stesso non reggerà alle nuove ondate della rivoluzione tecnologica. Un uomo che per formazione non potrà che essere legato ad un’architettura internet di tipo server-client (viene dalla Vodafone, vedi tu)….ma quell’architettura è in via di superamento. C’è un enorme battaglia in corso (a colpi di invenzioni tecnologiche) per superare quell’architettura. Dubito che Colao la veda (e non se ne dà infatti conto nel suo “piano”).
Ecco, per esempio, in parlamento abbiamo Rubbia, qualcuno gli ha chiesto una mano? Porto l’esempio della Sardegna, negli anni 80 Rubbia fondò il CRS4 dove si studiano progetti sull’informatica: ecco, cose come Tiscali, o come Italia-online (poi passata a Telecom Italia) e molte altre non vennero dalla Luna. Ecco qualcuno gli ha chiesto se ha qualche “ideuzza”? No, perchè, anche se anziano quello che gli passa in testa in mezz’ora a Colao non gli passa in tre vite (senza offesa). Insomma, perchè un economista a fare cose che o non capisce o capisce male solo perchè faceva il contabile alla Vodafone? Partorirà solo progetti vecchi ora, e vetusti a implementazione. Per esempio, parlano di un cloud della Pubblica Amministrazione. Ma perchè un Cloud? E non sarebbe meglio fare un’Edge per esempio? Perchè non approfittarsi di risorse economiche spendibili per fare un salto quantico proponendo qualcosa per primi al mondo e facendone un successo mondiale anzichè fare qualcosa che avremo tra qualche anno che i nostri concorrenti hanno già ora? Significa candidarsi ad arrancare in eterno. Significa buttar via i soldi. Ecco, questo è il rischio mettendo economisti da tutte le parti anche quando non servano. Un Giuseppe Attardi (per dirne uno) sarebbe meglio, che dite? Ma con quei soldi ti porti anche quel matto di Nik Szabo come consulente per ripensare la Pubblica Amministrazione….parlano di competenze e poi si continua con la vecchia visione economicista, che è anche conformista, oltre che vetusta. Da lì non si esce. Anche questo è condannarsi.
Ecco, il governo Draghi nasce già vecchio e inutile. Meglio nessun governo, se devo trangugiarmi la solita sbobba, sia in ambito economico che in ambito di innovazione tecnologica.
NB_Tratto da facebook

Mario Draghi e la sfida della concordanza, di Francois Hublet

Continuiamo con il nostro osservatorio dall’estero di chi ha puntato l’attenzione sull’arrivo di Mario Draghi_Giuseppe Germinario

L’Italia sta per diventare come la Svizzera?

Per comprendere le sfide che dovrà affrontare il nuovo governo, sostenuto da un’ampia maggioranza, è utile ricorrere al modello svizzero di “consociativismo” che offre una chiave originale per interpretare l’evoluzione del sistema politico italiano.

“Ci sono state molte discussioni sulla natura di questo governo. La storia repubblicana ha dato origine a un’infinita varietà di formule. Con il rispetto che tutti abbiamo per le istituzioni e per il buon funzionamento di una democrazia rappresentativa, un esecutivo come quello che ho l’onore di presiedere, soprattutto in una situazione drammatica come quella in cui viviamo, è semplicemente il governo. Paese. Non serve un aggettivo per definirlo. “

Mario Draghi, discorso al Senato della Repubblica, 17 febbraio 2021

Al tavolo del governo ci sono i ministri di quattro partiti. Tra loro ci sono socialisti, liberali, membri del centro destra e del centro sinistra e persino alcuni populisti di destra. Nonostante l’assenza di un patto di coalizione formale, nonostante le colossali differenze ideologiche tra le fazioni, e soprattutto nonostante la violenza delle passate elezioni, per molti l’esecutivo collegiale che riunisce i principali partiti del Paese sembra essere un bene, uno stabilizzatore necessario in uno stato eternamente diviso. In Parlamento non c’è né maggioranza né opposizione. E quasi tutti lo accettano.

Questa storia non è quella dell’Italia del nuovo governo Draghi, iniziata nel febbraio 2021. È quella della Confederazione Svizzera, e dura da più di settant’anni.

Per comprendere meglio le sfide che dovrà affrontare il nuovo governo istituzionale italiano e per cogliere le opportunità aperte da questo nuovo capitolo rispetto alle precedenti esperienze di governi “tecnici”, ma anche per capire dove può un governo Draghi Traendo la sua legittimità di azione, è utile dare uno sguardo oltre le Alpi. In realtà, inteso come governo di condivisione del potere , il nuovo governo non sembra essere un incidente della storia o un hapax derivante dalle dinamiche idiosincratiche della politica italiana contemporanea. Al contrario, la pax draghiana– le brevi consultazioni, il via libera dato dai principali partiti, l’indispensabile collaborazione delle forze politiche – potrebbero essere normali, non solo nel sistema politico svizzero, ma in qualunque sistema politico che accetti di sostituire il principio della concorrenza tra le fazioni da un principio di collaborazione o, per usare il termine tedesco, di concordanza democratica.

La pax draghiana potrebbe essere normale, non solo nel sistema politico svizzero, ma in qualsiasi sistema politico che accetti di sostituire il principio di concorrenza tra le fazioni con un principio di collaborazione, o, per usare il termine tedesco, di concordanza democratica.

FRANCOIS HUBLET

Quando nel 1798 il potere di Napoleone impose ai cantoni dell’ex Confederazione una Repubblica Elvetica in stile francese, installò ad Aarau un governo di tipo direttivo, simile a quello dell’effimera Prima Repubblica. Mentre a Parigi questo modello di governo, in cui il potere esecutivo e le funzioni di capo di stato erano esercitate collegialmente da un ristretto numero di magistrati, dovette essere abbandonato l’anno successivo a favore del consolato istituito da questo stesso Bonaparte., In La Svizzera, un esecutivo di sette membri con una presidenza a rotazione annuale, è sopravvissuto fino ad oggi come Consiglio federale. Dal 1948 la “formula magica”, un accordo informale tra le forze parlamentari, ne determina la composizione: due seggi per il primo, il secondo e il terzo hanno ottenuto il maggior numero di voti nelle Camere e un solo seggio per il quarto partito. Così, dal 1961, gli stessi quattro partiti – socialisti, radicali liberali, democristiani e l’ex partito agrario che è diventato la principale forza populista di destra – hanno effettivamente dominato la politica svizzera, formando un perpetuo governo di “coalizione”.

Nel caso della Svizzera, tuttavia, anche l’idea di una “grande coalizione” dei principali partiti sul modello tedesco o austriaco è inappropriata. La distribuzione del potere esecutivo tra i rappresentanti dei quattro partiti non richiede alcuna convergenza programmatica tra di loro e non appiana le loro differenze. Fuori dalle mura del Consiglio federale, i partiti lottano per le proprie idee, opponendosi in quattro votazioni annuali e numerose elezioni locali e cantonali, a volte in modo piuttosto violento. All’interno dell’istituzione, tuttavia, il principio di collegialità e lo spirito di “concordanza” che caratterizzano il sistema politico svizzero richiedono decisioni comuni. I sette consiglieri federali, praticamente inamovibili (i loro mandati sono rinnovati quasi sistematicamente dal Parlamento, chi nel frattempo non può revocarli con mozione di censura), godono di un alto grado di indipendenza e sono obbligati a collaborare. I quattro partiti rappresentati nel governo non costituiscono una “maggioranza” formata sulla base di un accordo formale di governo, e quelli che non sono rappresentati non sono l ‘”opposizione”. Al contrario, il governo, come il parlamento, sono luoghi di compromesso e di discussione.

Questo sistema di condivisione del potere può, per alcuni aspetti, sembrare poco pratico o antidemocratico a coloro che sono sempre stati abituati alla democrazia “competitiva” che è il modello dominante nelle democrazie parlamentari europee. L’esempio di quella che è stata probabilmente la crisi più grave della politica svizzera contemporanea, nel 2007, fornisce un ottimo esempio della resilienza di questo modello, ma anche del fatto che, per molti svizzeri, è proprio la concordanza a garantire la stabilità del il paese e la solidità del suo sistema democratico.

Nel dicembre 2007 Christoph Blocher, consigliere federale, uomo d’affari multimiliardario ma soprattutto rappresentante dell’ala più radicale dell’Unione Democratica di Centro (nazional-conservatrice), si candida alla sua rielezione. Sebbene gli altri partiti non abbiano contestato la partecipazione dell’UDC al governo, la figura del suo influente ex presidente Blocher, autore di numerose campagne populiste e xenofobe che hanno contribuito alla radicalizzazione del suo partito, e che, nonostante la sua carica di federale L’assessore, comportatosi in Parlamento come un leader dell’opposizione, ha suscitato grande tensione.

Questa situazione ha portato a un evento unico nella storia recente della Svizzera: poche ore prima del voto parlamentare, i socialdemocratici, i verdi, i democristiani ei liberali verdi acconsentono a impedire la sua rielezione. Al suo posto eleggono Eveline Widmer-Schlumpf, originaria dei Grigioni, anche lei membro dell’UDC, ma molto più moderata. Widmer-Schlumpf accetta l’incarico, che pochi mesi dopo porta all’esclusione dell’UDC dall’intera sezione cantonale del partito e alla creazione di una nuova formazione, il Partito Democratico Borghese, comprendente anche il secondo consigliere federale uscente dall’UDC essere un membro, e che si fonderà nel 2021 con altri partiti centristi.Widmer-Schlumpf, apprezzato per la sua competenza e la sua capacità di dialogo, sarà rieletto nel 2011 contro i voti dell’Udc di Blocher. Per circa un anno, nel 2008, l’UDC si considererà ufficialmente un “partito di opposizione”. Ma abbandonerà presto questa posizione dopo l’elezione al Consiglio federale del suo presidente Ueli Maurer, fedele amico di Blocher: l’intermezzo “competitivo” non è durato più di un anno, e nemmeno il partito populista, più diviso che mai, né il suo potente ex leader, potrebbero trarne alcun vantaggio elettorale.

L’affare Blocher illustra la forza e il primato della condivisione del potere nella cultura politica svizzera. Il “consocialismo” svizzero, come lo chiama la scienza politica contemporanea, è molto più di un habitus politico-culturale che rende possibili ampie coalizioni di governo nonostante le divisioni linguistiche, religiose e ideologiche, come teorizzato da Arend Lijphart.1. A differenza di Belgio, Paesi Bassi o Lussemburgo, anch’essi archetipi di Stati “consociativi”, nel sistema svizzero la collaborazione di tutte le forze politiche è pienamente istituzionalizzata. Non esistono coalizioni politiche e non esiste un gruppo di opposizione in Parlamento. Invece del solito sistema Konkurrenz , troviamo quello che la scienza politica di lingua tedesca chiama un Konkordanzsystem , un sistema di concordanza tra le parti2.

Nel sistema svizzero, la collaborazione di tutte le forze politiche è pienamente istituzionalizzata. Non esistono coalizioni politiche e non esiste un gruppo di opposizione in Parlamento. Invece del solito sistema Konkurrenz , troviamo quello che la scienza politica di lingua tedesca chiama un Konkordanzsystem , un sistema di concordanza tra le parti.

FRANCOIS HUBLET

Lo stesso modello consociativo vale anche per i governi dei ventisei cantoni svizzeri, i cui membri, eletti a titolo personale secondo un sistema sia di maggioranza che di proporzionalità, rappresentano i principali partiti locali. Così, il Consiglio di Stato del Canton Ticino attualmente comprende un socialista, un democristiano, un liberale radicale e due membri della Lega dei Ticinesi, ideologicamente vicini all’omonimo partito italiano. Ci sono pochi altri esempi al di fuori della Svizzera e di due Stati federali austriaci (Bassa Austria e Alta Austria), ma la Commissione Europea, fatte salve alcune restrizioni (legate in particolare al meccanismo di nomina indiretta e alla sua natura di organo politico-amministrativo misto), può essere paragonato alla struttura manageriale che prevale a Berna.

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“È stato detto e scritto che questo governo è stato reso necessario dal fallimento della politica. Fammi essere in disaccordo. Nessuno fa un passo indietro rispetto alla propria identità, ma al contrario, in un perimetro di collaborazione nuovo e piuttosto inusuale, fa un passo avanti rispondendo alle esigenze del Paese […] “.

Mario Draghi, discorso al Senato della Repubblica, 17 febbraio 2021

Esaminiamo ora il nuovo governo Draghi. Otto ministri indipendenti, quattro del Movimento 5 Stelle, tre di Forza Italia, tre della Lega, tre del Pd, un rappresentante di Italia Viva – il partito di Renzi – e un esponente del partito di sinistra Articolo Uno. Tra gli indipendenti, un ex ministro del Conte II (Lamorgese), esponente del governo Letta ( Giovannini), un ex consigliere regionale dell’Emilia-Romagna (Bianchi), due alti funzionari (Cartabia, Franco), due ricercatori (Cingolani, Messa) e un imprenditore (Colao). La varietà dei profili rispecchia quella della Camera dei Deputati, fatta eccezione per la mancata partecipazione dei Fratelli d’Italia, e i veri “tecnici” senza esperienza politica sono solo cinque su venti. Il governo è sostenuto da partiti che, secondo gli ultimi sondaggi, rappresentano tra il 70 e l’80% delle intenzioni di voto. Pertanto, come hanno giustamente sottolineato Gressani e Alemanno in Terraferma,il governo Draghi, a differenza di quello guidato da Mario Monti nel 2011-2013, non può essere qualificato come governo tecnico in senso stretto. L’autorità del nuovo Presidente del Consiglio riunisce partiti che possono contare sui propri ministri per affermare le proprie posizioni politiche all’interno del governo, invece di dover sostenere dall’esterno, come hanno fatto nel 2011, un governo di tecnici senza legittimità democratica. Per tutti questi motivi, se l’esecutivo guidato dall’ex presidente della Bce può certamente essere definito “istituzionale”, non sarebbe corretto considerarlo un governo “tecnico”.

Il nuovo governo non è nemmeno un “governo di unità nazionale”. Certo, c’è la pandemia, e con essa la crisi esistenziale che, nella mitologia degli stati nazionali occidentali, giustificherebbe l’unità tra i partiti. Ma non c’è unità tra le parti. Non esiste una linea comune, nessuna causa da difendere e, inoltre, la crisi stessa non è realmente “nazionale”.

Vediamo emergere chiare somiglianze tra il governo Draghi e il sistema di concordanza svizzero. Naturalmente, la maggior parte di loro sono fortuiti. Nessuno ha mai voluto importare il modello svizzero a Roma e nessuno lo importerà lì. Tuttavia, per vari motivi, a Roma così come a Berna e Bellinzona, i principali partiti parlamentari siedono al governo e condividono le responsabilità esecutive. Lo Stato italiano non voleva certo questo nuovo modello; l’ha introdotto quasi involontariamente, ha lasciato che la bilancia penda a favore della concordanza per mancanza di altre alternative, ma in realtà è obbligato a sperimentarla. Anche la Germania non ha “voluto” le sue grandi e grandissime coalizioni. Ma la situazione italiana contemporanea, con il suo “governo di tutti i partiti”,

Per vari motivi, a Roma come a Berna e Bellinzona, i principali partiti parlamentari siedono al governo e condividono le responsabilità esecutive. Lo Stato italiano non voleva certo questo nuovo modello; l’ha introdotto quasi involontariamente, ha lasciato che la bilancia penda a favore della concordanza per mancanza di altre alternative, ma in realtà è obbligato a sperimentarla.

FRANCOIS HUBLET

Avendo ora a nostra disposizione, con il consociazionismo svizzero, un modello storico-politico a cui paragonare il nuovo esecutivo italiano, possiamo analizzare le principali sfide che il nuovo presidente del Consiglio ei suoi ministri dovranno affrontare nei prossimi mesi.

Prima di tutto, ci sono le difficoltà insite nel sistema di Konkordanz  : la necessità di un’intensa comunicazione interna, l’assoluta necessità di collegialità, l’indispensabile indipendenza dei ministri dalle proprie forze politiche e dai leader dei ministri. Quest’ultimo punto potrebbe essere particolarmente critico in un Paese dove un unico leader di partito è riuscito, quasi per capriccio, a far cadere un governo più o meno funzionante nel mezzo di una storica emergenza sanitaria.

Per funzionare, un governo consensuale richiede la piena solidarietà di tutti i suoi membri, se necessario anche contro la volontà del proprio partito. Tutti devono difendere le scelte dell’esecutivo, non come proprie, ma come risultato di un compromesso negoziato tra le forze in esso rappresentate. Questo è l’unico modo per il governo di intraprendere un’azione che gode di un alto livello di accettazione tra parlamentari e cittadini. Allo stesso tempo, la relativa indipendenza dei ministri consente alle decisioni del governo di essere attivamente contestate da alcuni membri degli stessi partiti da cui provengono. In Svizzera, l’UDC, rappresentato al governo da due consiglieri federali, ha appena lanciato una grande campagna pubblica contro il bloccoordinato dal governo federale; questo atteggiamento è tollerato fintanto che i due consiglieri federali continueranno, nell’ambito delle loro attività istituzionali, a difendere la linea ufficiale.

Il dibattito permanente (all’interno del governo, in parlamento come nello spazio pubblico) è quindi parte integrante della condivisione del potere, che non può consistere in un’armonizzazione al ribasso dei programmi o in un atteggiamento attendista degno di un governo di attualità. Ma i conflitti essenziali al dibattito democratico devono avvenire per la maggior parte agli occhi dei cittadini e in un dialogo permanente con loro, perché questi conflitti non possono manifestarsi così chiaramente nel gioco parlamentare. Nel caso dell’Italia, sembrerebbe del tutto irrealistico chiedere la fine degli scontri ideologico-politici tra le diverse forze politiche, in particolare le più radicali. Potrebbe essere molto più produttivo stabilire una chiara linea di condotta che, da un lato, richiede un atteggiamento costruttivo da parte dei ministri nella gestione degli affari di governo e, d’altra parte, consente esplicitamente una concorrenza illimitata tra parti esterne al governo. In questo modo, le evidenti divisioni tra le forze politiche potrebbero essere tollerate secondo gli standard di una vera democrazia deliberativa, senza dover rinunciare alla condivisione delle responsabilità governative.

Oltre alle difficoltà insite nella pratica consociativa3, il governo Draghi dovrà anche affrontare sfide più specifiche, derivanti dalla “transizione” improvvisa e temporanea del sistema politico italiano da un regime competitivo a un regime consensuale. In particolare, si possono identificare due tipi di sfide: sfide istituzionali e sfide culturali.

Istituzionalmente, è evidente che la Costituzione italiana non è stata concepita con l’obiettivo principale di facilitare la condivisione del potere tra le parti. La carica di Presidente del Consiglio, generalmente attribuita al capogruppo del partito più numeroso in maggioranza, non è quella di capo conciliatore, ruolo che più spesso spetta al Presidente della Repubblica. Secondo la Costituzione italiana, il Presidente del Consiglio non è, come il Presidente della Confederazione Svizzera, un primus inter pares ; spetta a lui “promuovere e coordinare le attività dei ministri” e “dirigere la politica generale del governo”, e non negoziare quotidianamente un difficile equilibrio tra le loro posizioni. Ma Draghi, a differenza dei suoi nuovi ministri e qualunque sia la dimensione della sua autorità morale e intellettuale, non può contare su alcuna legittimità democratica a titolo personale, non può fare affidamento su alcun accordo di governo firmato dagli altri leader del partito, e quindi non può realmente “guidare”. questo governo. Piuttosto, deve agire come un creatore di consenso all’interno del governo, nonostante il mandato costituzionale che gli garantisce la leadership; l’equilibrio sarà certamente difficile da mantenere. Anche in Parlamento, Le pratiche dovranno essere rinnovate nei mesi a venire per consentire la convivenza dei sostenitori senza eliminare alcuna possibilità di dibattito. E ovviamente ci sarà sempre la spada di Damocle, il rischio di un voto di sfiducia, inesistente nel sistema svizzero, o di una nuova crisi “alla Renzi” che potrebbe mettere a repentaglio l’unità del governo.

In un sistema di condivisione del potere, non ha senso cercare di soffocare o negare le differenze; al contrario, un sistema consensuale si basa su ” cross-cleavages” , cioè molteplici linee di conflitto tra le diverse parti, per raggiungere compromessi. Accetta questi disaccordi e li sfrutta per creare varie alleanze ad hoc su temi diversi, in modo che nessun partito, sentendosi escluso dal processo decisionale, possa avere interesse ad abbandonare la ricerca del consenso.

FRANCOIS HUBLET

Ma in realtà, è probabile che le sfide maggiori siano culturali. Come confrontarsi, come parlarsi in Parlamento senza maggioranza e senza opposizione? Come creare un consenso tra vecchi nemici, tra partiti da sempre abituati a non dover mai governare insieme? Anche in questo caso, va sottolineato che in un sistema di condivisione del potere non ha senso cercare di soffocare o negare le differenze; al contrario, un sistema consensuale si basa su ” cross-cleavages” , cioè molteplici linee di conflitto tra le diverse parti, per raggiungere compromessi. Accetta questi disaccordi e li sfrutta per creare varie alleanze ad hoc.su temi diversi, in modo che nessuna parte, sentendosi esclusa dal processo decisionale, possa avere interesse ad abbandonare la ricerca del consenso. Per riuscirci, il banchiere Draghi, l’uomo che ha salvato l’euro grazie al magistrale bluff del “  qualunque cosa serva  ”, dovrà usare tutte le sue capacità di persuasione e la sua lunga esperienza di negoziatore.

Concludiamo questo articolo con una brevissima discussione normativa. Nelle democrazie occidentali, i governi tecnici, e specialmente quelli formati in assenza di una coalizione politica credibile, sono ancora visti come anomalie del sistema democratico. Ma che dire di un governo composto da tutti i partiti? Potrebbe anche essere una negazione della democrazia? L’esempio svizzero ci mostra che non è così. La concordanza non è meno democratica della concorrenza, e in Svizzera è piuttosto “l’opposizione” a essere considerata antidemocratica. La difficoltà è quindi non giustificare la natura democratica del nuovo governo, come se fosse una regressione da nascondere: si tratta soprattutto di realizzare con successo la transizione pratica e culturale verso una nuova organizzazione della pratica politica che renda possibile una più ampia collaborazione tra le parti. In breve: il nuovo governo gode già di legittimità normativa; deve ancora costruire la sua legittimità culturale.

Ma potrebbe essere possibile andare oltre. Se il parlamentarismo italiano nella sua forma tradizionale – cioè competitiva – è in crisi, e se, a lungo termine, non c’è più prospettiva di un governo europeista e progressista in Italia senza un accordo molto ampio almeno tra i partiti di il centrosinistra, i Cinque Stelle e le forze moderate del centrodestra; se, insomma, la destra nazionalista ottenesse nei prossimi anni risultati tali da bloccare ogni tentativo di coalizione escludendo Lega e IDF, ma senza necessariamente dare a questi partiti la maggioranza assoluta dei voti, potrebbe essere interessante ‘prendere in considerazione la possibilità di estendere l’esperienza di un “governo multipartitico” oltre le prossime elezioni. Compresi, se necessario, con tutto il centrodestra e una figura neutrale alla presidenza. Le alternative – o nessun governo, o un governo sovranista con Salvini e Meloni a capo – non sono certo preferibili.

https://legrandcontinent.eu/fr/2021/03/01/mario-draghi-et-le-defi-de-la-concordance/?mc_cid=66dc30d521&mc_eid=4c8205a2e9

fra  sprazzi di  strategia, nuovo Erostrato, vecchie ( e deleterie) fedeltà, di Massimo Morigi

 Governo Draghi e  lotta alla pandemia fra  sprazzi di  strategia, nuovo Erostrato, vecchie ( e deleterie) fedeltà e sottomissioni  e povertà dell’attuale sovranismo

 

Di Massimo Morigi

 

 

In data 15 marzo 2020 sul nostro blog veniva pubblicato  Emergenza Coronavirus. Un appello (http://italiaeilmondo.com/2020/03/15/emergenza-coronavirus_un-appello/, Wayback Machine: http://web.archive.org/web/20210109122918/http://italiaeilmondo.com/2020/03/15/emergenza-coronavirus_un-appello/), un manifesto programmatico rivolto alle migliori e più consapevoli forze del paese, inteso non solo ad individuare le contromisure specifiche per uscire dall’attuale emergenza pandemica ma anche a precisare quelle contromosse strategiche per eliminare gli atavici problemi strutturali del nostro paese e che la pandemia non aveva fatto altro che acuire. Così concludeva l’ Appello: «Il coronavirus stesso è diventato un veicolo ed uno strumento di confronto e conflitto geopolitico. Gli aiuti sono estemporanei, limitati al momento al contributo della sola Cina, per altro in apparenza responsabile della diffusione del virus, interessati e soprattutto del tutto inadeguati alla necessità. Occorrono una autorità decisionale, una gerarchia, un coordinamento di sforzi che possano garantire non solo l’assistenza sanitaria, la limitazione della diffusione di un virus ancora di fatto sconosciuto, l’ordine pubblico. Non basta. Devono provvedere a rappresentare realisticamente la situazione, a ricostruire un tessuto economico con promozioni, sollecitazioni, incentivi ed interventi diretti a ricostruire le filiere produttive necessarie a garantire nel miglior modo possibile le forniture di sussistenza e i materiali sanitari minimi necessari ad affrontare l’emergenza. La nazione è ancora ricca delle capacità e competenze professionali ed imprenditoriali necessarie; sono da motivare, incentivare e coordinare. Il Governo e buona parte dei vertici istituzionali purtroppo stanno rivelando, pur in una condizione di straordinaria emergenza, la loro inadeguatezza e la loro scarsa autonomia decisionale, la loro permeabilità alle pressioni esterne. Una incertezza deleteria solo in parte comprensibile in una condizione di emergenza inusuale. Una condizione suscettibile di sviluppi e tentazioni inquietanti e dirompenti se non corretta da una attribuzione chiara di responsabilità ed obbiettivi ad organismi direttamente preposti alla gestione della crisi e sotto la diretta responsabilità politica della massima autorità dello Stato. Ai giuristi il compito di definire l’ambito di intervento compatibile e alla massima istituzione di porre in atto le decisioni e le strutture organizzative.». Ora le prime mosse del governo Draghi che è subentrato  al governo degli scappati di casa nel combattere la pandemia sembrano prendere la direzione indicata un anno fa dal nostro appello. Vediamo succintamente di articolare il giudizio che allo stato non può che rimanere sospeso e che disegna uno scenario illuminato da sprazzi di strategia ma ottenebrato dalle ombre  di vecchie e deleterie fedeltà e sudditanze. Ovviamente ottimo che si voglia far intraprendere alla campagna vaccinale un radicale cambio di passo irrorando col più micidiale diserbante le ridicole e truffaldine primule e  affidando il compito a chi professionalmente è formato a gestire le emergenze (protezione civile ed esercito), e ancor meglio che  si abbia avuto il coraggio di licenziare anche brutalmente chi, nelle migliori delle ipotesi, si è dimostrato incapace, pasticcione ed arrogante (non si fa il nome non tanto per paura di querele ma perché il magliaro in questione, fosse solo per la sua incredibile pasticcioneria e supponenza,  meriterebbe la pena di Erostrato, che noi, in mancanza di meglio, siamo i primi ad irrogare). Bene anche che, contro il parere dei vari virologi da pollaio e/o da salotto televiso, si sia presa la decisione di guerra di “sparare” nell’immediato, un immediato che ha tutte le terribili potenzialità di un annichilimento totale delle residue capacità economico-sociali della nazione, tutti i vaccini Pfizer disponibili per riservarsi poi solo in un secondo tempo ancora da definire ma, vista la scarsità delle scorte di questo vaccino, non i tempi indicati nel protocollo di somministrazione, la seconda dose. Insomma, la guerra si fa con i soldati che si hanno a disposizione e che devono essere tutti impiegati in una mobilitazione totale nella presente situazione di incombente disastro e non con quelli sognati nei propri deliri di onnipotenza (o di supponenza o di vera e propria cialtrona e predatoria malafede) e l’irrorazione col diserbante agente arancio dei virtuali campi di primule non è altro che, come si sta vedendo, l’inizio di una vera e propria campagna militare che mobilita tutte le forze dello Stato e della società contro l’agente patogeno. Bene anche che si minacci le case farmaceutiche di produrre in proprio i vaccini, anche se queste minacce di per sé non rimediano nell’immediato alla carenza di vaccini (nell’immediato, perché in una tempistica appena un po’ più dilatata è evidente che la faccenda potrà essere risolta solo con una produzione vaccinale nazionale dei vaccini  e quindi in questa dimensione temporale la minaccia è tutt’altro che insensata) ma male che non si affermi espressamente che in questo caso, come per altro in tutti i casi dove è implicata la sicurezza nazionale, i diritti sui brevetti devono valere meno di niente  (lo ha detto  invece la Chiesa cattolica, vedi Avvenire all’URL https://www.avvenire.it/mondo/pagine/vaccini-e-brevetti, Wayback Machine: https://web.archive.org/web/20210227080751/https://www.avvenire.it/mondo/pagine/vaccini-e-brevetti, qualche volta la Chiesa cattolica, anche perché negli ultimi anni vilmente attaccata dalle massime organizzazioni internazionali che la vorrebbero annullare politicamente e spiritualmente in nome di un degradato dirittoumanismo e criminale e geneticamente modificato multiculturalismo da laboratorio, sembra trovare, anche se solo reattivamente e rapsodicamente,  il vecchio smalto temporalista…). Ma, infine, male, anzi malissimo, che non si voglia ricorrere a vaccini, come il russo Sputnik in primo luogo ed anche il Sinovac cinese, che possano anche dare solo l’impressione che l’Italia abbia anche seppur timidamente  intrapreso una nuova politica estera informata alla consapevolezza che la realtà  dello scenario internazionale è improntata ad un sempre maggiore (e conflittuale) multipolarismo e che quindi le vecchie appartenenze  ed alleanze se interpretate meccanicamente e non tenendo presente la nuova dinamica multipolare sono la sicura ricetta verso il disastro. E se da questo punto di vista, il nuovo governo non dà proprio alcuna rassicurazione (meglio non irritare il buon zio Biden …), basti vedere non solo il discorso alla Camera del nuovo presidente del Consiglio di una così stretta ortodossia europeista e filoatlantica da denotare una sorta di vera e propria volontaria rimozione dal suo orizzonte di senso degli scenari post ’89 ma anche tutto il suo curriculum che proprio su questa rimozione è stato con successo costruito, danno ancor meno fiducia le c.d. forze sovraniste italiane, le quali quelle rappresentate in Parlamento o hanno de facto abbonato i vecchi scenografici furori o non riescono, pur mantenendoli, di animarli con contenuti adeguati mentre quelle non rappresentate in Parlamento, pur non avendo formalmente retoricamente abbandonato la loro causa, in quanto a mancanza di concrete linee operative alla luce del nuovo governo e della rinnovata lotta antipandemica non hanno ugualmente saputo elaborare una adeguata strategia di risposta  e a livello politico e a livello tecnico-operativo sul fronte delle realistiche e militarmente conformate proposte per combattere il virus. Insomma si è sentita da parte di costoro, dentro o fuori dal Palazzo, esalare la pur minima idea in merito alla necessità di sospendere l’efficacia dei brevetti e/o della dotazione e/o formazione di un nuovo complesso  politico-militare-industrale autonomo e veramente sovranista, ci si passi il termine tutt’altro in sé spregevole ma molto meno apprezzabile nella versione dei suoi aedi,  per combattere non solo la presente pandemia e anche le future, ma anche tutte le terribili sfide che ci presenta il presente mondo multipolare, un mondo dove le vecchie appartenenze e soggezioni rischiano di essere letali per il nostro paese? Il nuovo governo ci dischiude, quindi, inediti e dinamici scenari, caratterizzati dall’inizio di nuovi ed efficaci approcci strategici che convivono con la riconferma, rese semmai ancora più dure e tetragone visto il curriculum e le alte capacità del nuovo presidente del Consiglio, delle vecchie fedeltà e sottomissioni. Un quadro altamente contraddittorio dove, purtroppo, il morente e già vecchio sovranismo italiano non ha più assolutamente nulla da dire. E se per ora la tesi e l’antitesi sembrano politicamente  affidate solo all’abile e capace  (ma anche pericolosissimo, in ultima istanza) nuovo venuto alla politique politicienne (ovviamente non alla politica intesa nel senso del vero e reale esercizio del potere, a meno che non si sia tanto babbei da ritenere che un protagonista per tanti anni delle maggiori istituzioni finanziarie italiane ed internazionali possa essere definito con la ridicola parola di tecnico), per l’antitesi dobbiamo ritornare al nostro Emergenza Coronavirus. Un appello  di cui si è detto  all’inizio. Forse non è molto, forse dal punto di vista di una coerente filosofia della prassi, ai bei concetti e alle giuste parole manca la carne  viva di quelle che un tempo si sarebbero dette le masse. Ma vogliamo solo ricordare che nella politica le cose vanno un po’ come in biologia. In entrambi i casi si tratta di dialettiche dai tempi molto lunghi e similmente alla dialettica pandemica (che fra l’altro una ingenua mentalità vorrebbe  ora risolta in pochi mesi dagli iniziali giusti provvedimenti del governo mentre si tratterà di una vicenda di ben più lunga pezza e ci auguriamo di tutto  cuore che il nuovo presidente del Consiglio sia perfettamente consapevole di questa elementare verità, anzi ne siamo sicuri: anche  da qui l’efficacia ed anche la pericolosità del nuovo capace inquilino di Palazzo Chigi) anche quella politica, ora rinnovata e resa ancor più tumultuosa e contraddittoria dalla prima, dispiegherà le sue evoluzioni su tempi molto lunghi e del tutto imprevedibili nei loro drammatici frutti. E noi in tutte queste future evoluzioni contiamo di esserci e non solo da spettatori e proprio per questo rinnoviamo con ancor maggior forza e determinazione  l’appello già fatto un anno or sono.

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