GET INSIDE, STAY INSIDE, STAY TUNED, di Pierluigi Fagan

GET INSIDE, STAY INSIDE, STAY TUNED. Questi i tre consigli di un simpatico video rilasciato dal Dipartimento per le emergenze di New York, in caso di attacco nucleare: andate dentro, state dentro, state collegati alle fonti di informazione. Lo useremo come metafora per ripetere il senso di cosa sta succedendo dal 24 febbraio scorso.
Come ricorderà, forse, chi frequenta questa pagina da tempo, reagii immediatamente con molta inquietudine a quello che si stava manifestando come reazione europea ed occidentale all’attacco russo all’Ucraina. Il motivo era l’incredibile prontezza e coordinazione della reazione, la perfetta coincidenza con la narrazione subito imposta che verteva su uno sconosciuto commediante di uno sconosciuto stato della periferia d’Europa, già a lungo noto -per chi si occupava di relazioni internazionali e geopolitica- per esser nodo di lunga trama del braccio di ferro tra le due superpotenze nucleari, condita con il potente ricorso ai “valori” etico-morali che rendevano necessaria la mobilitazione a qualunque costo contro il nemico. Tutto questo prima ancora di capire cosa stesse succedendo e perché. In particolare, il “perché”, non c’era alcun perché da domandarsi, era tutto chiarissimo, c’era un aggredito ed un aggressore.
Fino a lì, che ci fosse un aggredito ed un aggressore ci arrivavamo tutti, era abbastanza evidente. Tuttavia, per coloro che cascando dal pero si accorgevano per la prima volta dell’esistenza sia di una cosa strana chiamata “geopolitica”, sia di una cosa ancora più esotica chiamata Ucraina, era forse necessario capire un po’ meglio come si era arrivati alla fatidica questione. Ma d’improvviso era vietato farsi domande, anche perché il ricatto dei valori etico-morali coinvolti serviti a condimento della lievitazione emotiva imponeva l’azione e la allineata e convinta reazione unitaria. Il mondo di prima era fatto di confuse spinte alternative, di grovigli, di conflitti di interessi, di bilanciamenti un po’ di qui ed un po’ di lì, di amorale opportunismo utilitarista, di sostanziale cinismo realista quando si trattava di fare affari con monarchie assolute, dittatori di varia risma, usurpatori di altrui territori e negatori dei diritti dei popoli. Ma d’improvviso, da un giorno all’altro, tutto ciò non valeva più e tutto ciò perché dovevamo difendere l’inderogabile diritto di questo Paese mezzo fallito e neanche democratico o stato di diritto, dedito al traffico d’armi, prostituzione e droga, di entrare nella NATO. In più colpiva l’improvviso, immediato e inderogabile allineamento ad una sola voce, come nei b-movie di fanta-distopia. Possibile?
Nel post del primo giorno, quello proprio del 24 febbraio, riportavo il virgolettato del discorso di Putin di poche ore prima che, in riferimento alle possibili prese di posizione europee, minacciava: …è molto probabile ci saranno contro-ritorsioni sulle forniture del gas in Europa “… la risposta della Russia sarà immediata e vi porterà a conseguenze che non avete mai sperimentato nella vostra storia”. Aggiungevo in analisi “Il contenzioso profondo è tra gli USA che vogliono stringere a sé i propri alleati in via esclusiva, contro Cina e Russia, per resistere il più a lungo possibile all’esito multipolare dell’ordine mondiale, un esito di cui ormai non si può più discutere il “se”, ma il “come e quando”.
Tutto ciò che s’è verificato in seguito è andato in accordo con questa analisi. Biden ha sfoderato il suo format “democrazie vs autocrazie” per giustificare il dovere di allineamento strategico, si è tentato per due volte di isolare la Russia alle Nazioni Unite (con esiti modesti), si è e si sta preparando l’allineamento asiatico anti-cinese, il G7 ha fatto finta di deliberare una presunta strategia concorrenziale alla Belt and Road Initiative. Biden e Blinken hanno provato a raggruppare i paesi amici del Centro e Sud America, scoprendo di avere davvero pochi amici, il pupazzo di Kiev ha provato a blandire e minacciare di sanzione morale l’Unione Africana che ha sfoggiato assoluta indifferenza. Hanno provato a far scattare l’ostracismo ai russi per il G20 in Indonesia e per irritazione verso il sabotaggio, il locale Ministro degli Esteri ha candidamente spifferato che in realtà Blinken s’è appartato qualche ora con Lavrov alla recente riunione dei ministri degli esteri del formato, alla faccia del “col nemico etico-morale non si parla”. Ora Biden sta provando a rinsaldare il trumpiano Patto di Abramo tra Israele ed il saudita affettatore di giornalisti scomodi e promotore dell’Isis, dopo aver dato i curdi in pasto al dittatore necessario di Ankara per rimuovere il suo veto alla cooptazione dei due paesi scandinavi che torneranno utili nei prossimi tempi del conflitto per l’Artico.
Insomma, fino ad ora il disegno di Washington conta, nella rete calata nei turbolenti mari del futuro geopolitico, il solo pescione europeo. Non male come risultato, nonostante il resto.
Come altri hanno notato, ieri l’euro è andato a pari del dollaro per la prima volta dopo venti anni. Ha anche perso il 18% sullo yuan dall’agosto di due anni fa. Quindi il gas che dovremo comprare dagli USA, che già costava più di ogni altro, ci costerà ancora di più e le merci cinesi saranno meno convenienti per noi di quasi un quinto. Il tutto dopo aver perso il mercato russo del tutto e con esso, una buona parte delle forniture energetiche. Il che porta a prezzi del gas alle stelle, mancanza reale di alternative viabili nel breve-medio termine, materie prime più costose (si pagano in dollari, di solito), inflazione, razionamenti già pianificati nell’indifferenza comprensibile dei più che sognano solo la loro ristorante vacanzina, alternando il residuo di attenzione distratta tra le polemiche sul corsivo ed il divorzio dei VIP. La Germania si prepara alla “grande crisi” della sua industria mentre non si sa se noi stiamo facendo altrettanto visto che siamo parte della loro catena del valore. E tutto ciò aspettando si dipani appieno quelle “conseguenze che non avete mai sperimentato nella vostra storia” minacciate dal russo che evidentemente non era pazzo come alcuni psicanalisti da operetta hanno diagnosticato nel marasma mediatico iniziale ed i calcoli li sa fare bene, nel breve, nel medio e nel lungo periodo.
Proprio ieri, Biden si appropriava per scopi pubblicitari della cooperazione tecno-scientifica euro-canadese-americana del nuovo telescopio Webb, ricordando quanto gli USA siano l’unica, vera, potenza tecno-scientifica del pianeta, seguito a poche ore dall’annuncio della rottura della rilevante collaborazione tra l’ente europeo ESA ed il corrispettivo russo Roscosmos. La cattura egemonica dell’Europa procede a grandi falcate ed è ormai irreversibile. Ma manca ancora un pezzo, forse. Dopo tre giorni dall’inizio del conflitto, scrissi un altro post in cui avanzai la previsione che si sarebbe, prima o poi, rispolverata la vecchia idea del TTIP, l’accordo di libero scambio privilegiato transatlantico. Oramai siamo del tutto assorbiti dalla NATO e dalle strategie di riarmo e preparazione di sciami di conflitti tra “democrazie” ed “autocrazie”, non tutte, solo quelle davvero antipatiche al gusto di Washington. Siamo però anche la prima potenza commerciale del mondo pur essendo un aggregato statistico e non un soggetto economico-politico unitario. Non ci sarà vera cattura egemonica fino a che non verremo riquadrati in uno specifico recinto di sub-globalizzazione atlantica, sottraendoci al sistema cinese, nemico ultimo della nostra nuova stella madre.
Loro, col dollaro forte ci compreranno meglio e noi compreremo meno bene dai cinesi, si chiama “nudge”, spintarella gentile.
Quindi, eccoci alla metafora di apertura: entriamo tutti alla svelta nel sistema occidentale a guida americana, stiamo tutti dentro e togliamoci ogni velleità di relazioni esterne autonome, attacchiamoci allo streaming continuo di informazioni distorte ed opinioni falsate, previsioni senza senso e minacce inventate di sana pianta che ci daranno ottimi motivi, più emotivi che razionali, per credere a questo incredibile colpo di stato contro la nostra capacità di sovraintendere al nostro minimo interesse.

La Turchia, l’Italia e il realismo_di Giuseppe Gagliano

Articolo come sempre ben centrato nella sua consueta essenzialità. Il focus è incentrato su uno Stato, la Turchia e un capo di governo, Erdogan, destinati ad assumere, nella veste di una potenza di media grandezza, un ruolo di primo piano in un ampio, se non addirittura sovradimensionato, in assenza di supporto e placet da parte dei grandi, spazio che va dall’area turcomanna, ai Balcani, all’Europa Orientale, al vicino oriente, al Mediterraneo Centro-Orientale, all’Africa Sahariana e Sub-sahariana. Offre altresì uno spunto interessante sulle miserie domestiche per caratterizzare ulteriormente, a seconda dei casi, la postura rispettivamente di plenipotenziario, di luogotenente e di cerbero di Mario Draghi, sotto le mentite spoglie di Capo di Governo. Non so se avete notato l’apparente discrasia tra l’annuncio trionfalistico e denso di aspettative per il prestigio del paese che ha accompagnato l’investitura a Presidente del Consiglio di Mario Draghi e il tono dimesso che ha accompagnato le particolari e specifiche prestazioni del nostro nell’agone internazionale. Un po’ c’entra la goffaggine con la quale il nostro si è avventurato nelle sue scorribande, specie esterne e prospicienti al suo territorio di elezione e di coltura, l’Europa; una sorta di ripetitore automatico, spesso gracchiante ed approssimativo. Tantissimo c’entra il merito della sua missione e la natura dell’esercizio delle sue funzioni.

Mario Draghi, ammantato dell’aura di supertecnocrate, è stato invocato per sistemare la farraginosa macchina amministrativa quel tanto che bastasse per avviare e mettere in atto il PNRR. Al di là delle aspettative illusorie affidate al piano e al netto dei suoi aspetti compromettenti e vincolanti, il nostro sta deludendo nell’ambito riformatore, sta ampiamente conseguendo altresì l’obbiettivo di vincolare ulteriormente le future politiche economiche e, conseguentemente, le dinamiche geopolitiche del nostro paese al carro NATO-UE ormai sempre più simbiotico. La missione ormai nemmeno tanto più occulta ed imprescindibile è un’altra: condurre con mano i paesi europei dell’area mediterranea all’interno delle spericolate strategie dell’attuale leadership americana. Con poco sforzo Spagna, Portogallo e Grecia hanno seguito il buon pastore in ordine ed allineati. Vigilare sui comportamenti di Macron in Francia e Scholz in Germania. I due conoscono sin troppo bene la propensione gregaria e la fonte primaria della sua affiliazione. E’ evidente lo scarso gradimento riguardo alla sua ossessiva presenza; hanno il serio problema, a prescindere dalla loro indole e propensione politica, di dover fronteggiare i forti impulsi di autonomia presenti all’interno dei rispettivi paesi. Che sia questa la funzione essenziale da svolgere lo si deduce dalla irrilevanza dei risultati ottenuti in ambito UE da Mario Draghi in materia di calmieramento e compensazione dei danni seguiti alla pedissequa attuazione delle sanzioni nominalmente ai danni della Russia. L’aspetto più pernicioso, che rivela per altro definitivamente lo spessore umano della persona e dell’uomo di governo, si è manifestato nella postura assunta di recente nei confronti della Turchia. A fronte di qualche risultato raggiunto nel campo degli scambi commerciali e delle commesse industriali, in settori nei quali per altro l’Italia ha mantenuto parzialmente la capacità produttiva ma perso significativamente il controllo strategico, risalta l’accettazione acritica della superiore postura strategica assunta dalla Turchia in aree di interesse vitale dell’Italia, a cominciare dal controllo degli hub energetici del Mediterraneo Orientale per finire con la gestione della crisi libica. Il tutto ovviamente in linea con l’accettazione pedissequa dei nuovi orientamenti statunitensi nei confronti della Turchia, ma particolarmente onerosi per il nostro paese. Dal punto di vista simbolico la irridente anticamera imposta a Draghi e a mezzo governo italiano in attesa del vertice è stata una significativa illustrazione della reale condizione geopolitica del nostro paese della quale il nostro luogotenente non fa che prendere atto e perseguire, perfezionandola. Questo commento non è una gratuita e sterile manifestazione di livore nei confronti di un personaggio tanto estraneo quanto influente nell’agone politico italiano. Vuole stigmatizzare la tragica e grave condizione nella quale sta trascinando il paese grazie alla sua pedissequa e solerte esecuzione dei dictat statunitensi. Non è demerito suo esclusivo. Ad esso contribuiscono la grettezza della quasi totalità della nostra classe dirigente e, con la parziale eccezione di parte degli ambienti vaticani, la condizione inebetita dell’intero ceto politico. Quest’ultima è ancora una volta patrimonio comune delle compagini che sostengono il governo e della forza di opposizione: la prima a partire dalla veste assunta dal Partito Democratico, il quale per esplicita ed ostentata ammissione, ha scelto una postura “discreta” e riservata proprio per non ostacolare il cammino di Draghi; la seconda, Fratelli d’Italia, assumendo una posizione ostentatamente più realista del re tale da farla apparire pienamente corresponsabile dei prossimi disastri annunciati. Sulla base degli antefatti, molto probabilmente Mario Draghi riuscirà a sgattaiolare senza particolari danni in tempo utile per sfuggire al prossimo redde rationem; addirittura con qualche benemerenza e lascito aggiuntivo. Il cerino acceso rimarrà in mano ai suoi improbabili epigoni. In quel momento, ormai prossimo, il paese dovrà seguire necessariamente una delle due vie obbligate: una opzione autonoma ed indipendente, dai costi comunque pesanti, tale da tirarsi fuori dalla trappola costruita dall’avventurismo disperato dell’attuale leadership statunitense; la continuità nelle attuali per così dire “scelte” che avranno per epilogo l’individuazione definitiva nella Russia del capro espiatorio responsabile del disastro autolesionistico economico-sociale prossimo a venire e relativo corollario di una politica apertamente bellicista, del tutto autolesionistica per l’intero continente europeo. Il compimento tragico di un percorso avviato con la 1a guerra mondiale e proseguito con la 2a. Un paese come l’Italia, il quale quattro anni fa, ha ostentatamente rifiutato di giocare nel Mediterraneo le carte che le sono state offerte, non merita alcuna considerazione, almeno sino a quando non vorrà liberarsi delle proprie nullità al comando. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Come le democrazie liberali a volte si piegano alla ragion di Stato. Il caso della Turchia e dell’Egitto. Il corsivo di Giuseppe Gagliano

Numerosi sono i cantori dei supremi valori della democrazia liberale. Valori, questi, che tuttavia – almeno nel contesto della politica estera – vengono profondamente ridimensionati di fronte alla ragion di Stato. Per non dire vanificati. Ieri con l’Egitto. Oggi con la Turchia.

Questa discrasia tra la realtà effettuale e i nostri ideali è pienamente giustificabile e comprensibile all’interno di una determinata cornice teorica quale quella del realismo ma diventa priva di legittimità e di giustificazione se si abbraccia un approccio di tipo liberale alla politica internazionale. Cosa ha indotto il nostro paese a consolidare i propri legami con la Turchia dopo le dichiarazioni di Mario Draghi fatte lo scorso anno a proposito del premier Erdogan definito un dittatore ? Vediamole in breve.

In primo luogo la necessità di contenere i flussi migratori proventi della Libia, sulla quale ormai la Turchia esercita una politica di influenza sempre più rilevante che ha in breve tempo marginalizzato quella italiana; in secondo luogo, grazie al gasdotto Tap l’Italia avrà sempre più bisogno della Turchia. E avrà sempre più bisogno della Turchia come delle nazioni africane e di quelle mediorientali perché l’Italia ha da molto tempo rinunciato ad avere una politica energetica autonoma.

Quanto alle sinergie strette tra Italia e Turchia nel settore degli armamenti queste non fanno altro che consolidare quelle che già esistono da molto tempo, come abbiamo avuto modo di indicare in un articolo precedente. Se poi guardiamo alle scelte poste in essere dal premier turco sia in relazione al vertice di Madrid della Nato – dove è riuscito a ottenere, senza troppo clamore, che in cambio di un suo ‘sì’, in relazione all’ingresso di Helsinki e Stoccolma nella Nato, la Finlandia e la Svezia promettessero di non prestare più sostegno ai leader curdi che Ankara considera ‘terroristi’ -, sia a indurre gli USA a rivedere la loro decisione di non vendere i 40 caccia F16 il vero vincitore del vertice di Madrid è certamente il premier turco.

Forse sulla carta e sui preziosi volumi di diritto internazionale e di filosofia della politica i valori della democrazia sono sacri e puri – come l’amore narrato nei film hollywoodiani – ma nel contesto della realtà conflittuale, quale è quella della politica internazionale, questi valori vengono profondamente ridimensionati e relativizzati. Ecco che allora la realtà concreta nella quale viviamo assomiglia a una via di mezzo fra un dramma e una tragica farsa.

https://www.startmag.it/mondo/turchia-egitto-italia-ragion-di-stato/?fbclid=IwAR01QO-5qz7R_tQLpoOGDb3c83f-DfpOfnKyd9vufBZmVgoMqtKPKi9CTq8

QUANTO COSTA LA BONTA’?_di Roberto Buffagni

QUANTO COSTA LA BONTA’?

Non so se noi italiani abbiamo capito che la strategia americana sull’Ucraina (prolungare la guerra, dissanguare la Russia, provocarne la destabilizzazione e la frammentazione politica in vista del contenimento della Cina) ha un effetto collaterale garantito, per noi: rapida fine del welfare, per quel che ne resta, che non è poco (sanità e istruzione pubbliche anzitutto).

Sono molto ignorante in economia, se qualcuno che se ne intende correggerà gli errori che certo commetterò gliene sarò grato. In logica però me la cavo. La logica che propongo è la seguente.

La strategia americana implica questi presupposti:

  1. Finanziare a tempo indeterminato l’Ucraina, uno Stato in guerra con una grande potenza dotata di risorse strategiche di molto superiori; uno Stato la cui economia è già devastata, e lo sarà progressivamente sempre di più. Dunque non solo finanziare le FFAA ucraine, ma un intero paese grande il doppio dell’Italia che già ora non è in grado di provvedere autonomamente ai bisogni elementari della sua popolazione e delle sue istituzioni, e lo sarà sempre meno.
  2. L’Europa mediterranea non conta più nulla, conta soltanto l’Europa Orientale e Scandinava, che deve diventare l’hub logistico della guerra contro la Russia, fornire truppe, prendere posizioni politiche utili (es., adesione alla NATO di Finlandia e Svezia).
  3. Qualcuno deve pagare i conti al punto 1 e 2 + tutti i conti accessori, ad es. quel che chiede e chiederà la Turchia, un elemento chiave nella strategia USA. C’è un limite anche alle possibilità americane di erogare denaro con la bacchetta magica della FED. Chi paga il resto? Secondo me paga l’Europa mediterranea, e in prima fila l’Italia, il Bel Paese dove il sì suona ancor prima che gli americani pongano le domande.

Morale: non solo perdiamo mercati per noi molto importanti come il mercato russo, ma dobbiamo pagare il conto stratosferico della strategia che ce li fa perdere. Da dove usciranno questi soldi? Qualcosa mi suggerisce che usciranno dal risparmio degli italiani + dalle casse dello Stato italiano. Il quale non ha la bacchetta magica della FED, non può erogare a debito neanche un euro senza il permesso della UE che ormai coincide con la NATO, e dunque taglierà progressivamente il welfare, obiettivo: welfare zero.

Le classi dirigenti italiane cercheranno di indorare la pillola con cantafavole sulla battaglia della democrazia contro le autocrazie, con la promessa che domani si farà credito, con provvedimenti assistenziali tipo cerottino sulle ferite da mitragliatrice, con la difesa dei diritti inalienabili dell’individuo tipo il suicidio assistito. Quando il confronto tra realtà della vita quotidiana e cantafavole le polverizzerà, si verificheranno vari disordini e proteste che però, non trovando organizzazione e direzione politica adeguate, saranno spente con il vecchio sistema del bastone (manganellate in piazza, denunce e processi a raffica, accertamenti fiscali ai riottosi, etc.).

Sintesi: se vogliamo evitare il peggio, c’è un cambiamento preliminare che noi italiani dovremmo tentare. Il cambiamento è: smettere di identificarci con gli americani, perché almeno oggi, identificarci con gli americani = identificarci con l’aggressore (così funziona la sindrome di Stoccolma).

La subalternità dell’Italia agli USA è un fatto incontestabile, perché l’Italia è stata sconfitta nella IIGM, e assegnata, a Yalta, alla zona d’influenza statunitense. Sino all’implosione dell’URSS, questa subalternità è stata gestita in modo sostanzialmente favorevole, o almeno tollerabile, per l’Italia: per gli USA l’Italia era strategicamente importante, e le classi dirigenti italiane si ritagliavano un margine di autonomia politica per realizzare, nei limiti del possibile, l’interesse nazionale.

Oggi, l’Italia non ha importanza strategica, per gli Stati Uniti. Ce l’avrebbe solo in negativo, ossia se manifestasse serie intenzioni di rompere il fronte NATO – UE e quindi di intralciare o compromettere la strategia antirussa e anticinese americana. Dunque l’Italia passa dalla condizione di Stato satellite alla condizione di colonia vera e propria, da cui estrarre valore politico (adesione perinde ac cadaver alla politica estera USA) e valore economico (pagare il conto della strategia USA), e basta. Se le condizioni sociali della colonia Italia vanno in malora, agli Stati Uniti interessa il giusto: cioè molto, molto poco.

Come si reagisce a queste condizioni poco simpatiche? Anzitutto, fare un esame di realtà e rendersi conto che non possiamo MAI PIU’ ragionare come se l’interesse statunitense e l’interesse italiano coincidessero. Può avvenire, ma sarà sempre una rara eccezione, mai la regola. Poi, imparare a contrattare, e a giocare su più tavoli: come hanno imparato a fare i paesi africani, le ex colonie occidentali che l’esame di realtà, e molto severo, l’hanno dovuto fare prima di noi.

Bisogna anche smettere di identificarsi emotivamente e culturalmente con gli americani. Non è facile, perché il soft power statunitense ha lavorato a lungo e a fondo, e siccome per la cultura eccezionalista americana gli americani sono sempre i Buoni, identificandoci psicologicamente con loro ci sentiamo anche noi Quasi Buoni, sulla via di diventare – domani, quando il Progresso farà credito – Buoni del tutto, Buoni d.o.c..

È bello, sentirsi buoni. Però il presupposto di ogni esame di realtà è riconoscere che anche noi, e non solo gli altri, abbiamo qualcosa che non va: che anche una parte di noi è cattiva, meschina, ignobile. È difficile, è umiliante, lo so. Ma la Bontà, purtroppo, la Bontà non ce la possiamo più permettere. That’s all, folks.

Le condizioni di un possibile cambiamento, di Roberto Buffagni

In Italia, quando ci sarà (se ci sarà) un minimo sindacale di opposizione politica alla strategia USA in Ucraina? Conte, incoraggiato dal Vaticano, ha provato ad aprire timidamente bocca, è stato attenzionato e castigato (scissione Di Maio, sconfessione di Grillo). Ha dunque ritenuto che conviene fare (e perdere) lotta dura senza paura sul 110%, chi tocca l’Ucraina tocca i fili dell’alta tensione e se non muore stava sicuramente meglio prima.
Previsione: in Italia (forse, speriamo, in Europa) ci sarà un minimo sindacale di opposizione politica alla strategia USA in Ucraina quando si saranno verificati due fatti madornali, impossibili da nascondere con il maquillage retorico e forse anche con la chirurgia plastica. (Si parva licet: gli italiani si opposero in massa alla nostra partecipazione alla IIGM quando gli cominciarono a piovere in testa le bombe Alleate, non prima).
I due fatti madornali sono:
a) sconfitta della controffensiva che gli ucraini stanno preparando – per ragioni politiche più che militari – per il prossimo agosto-settembre. La sconfitta ucraina è probabile, perché il meglio dell’esercito ucraino sta subendo perdite gravissime nella battaglia di annientamento in corso nel Donbass, gli armamenti occidentali arrivano ma in misura insufficiente, e le truppe ucraine che saranno impiegate nella controffensiva saranno di scarsa qualità e male armate, mentre i russi avranno il vantaggio della difesa, e di una capacità di combattimento, potenza di fuoco e logistica superiore. Ci sarebbe anche il presupposto che i russi NON possono permettersi di perdere, e disponendo di risorse strategiche enormemente superiori alle ucraine prima o poi, in un modo o nell’altro vinceranno: ma questo fatto preliminare si poteva rilevare il giorno 1 dell’operazione militare speciale, e non è stato notato quasi da nessuno.
b) crisi energetica (probabilmente i russi chiuderanno i rubinetti dopo la sconfitta della controffensiva ucraina); crisi economica patente e grave: chiusura di aziende, disoccupazione che cresce, prezzi che impennano, salari che non ce la fanno, in breve ci accorgiamo che la vita quotidiana non va più avanti come prima e farci i fatti nostri diventa assai complicato.
Se si verificheranno questi due fatti madornali (probabile) il problema sarà la capacità soggettiva delle forze politiche realmente esistenti di fare un’opposizione decente, motivandola in modo da farsi capire dalla popolazione. Sarà un grosso problema. Le forze politiche realmente esistenti sono quel che sono [omissis] e la motivazione principale per opporsi alla strategia USA in Ucraina è realistica: parteciparvi è manifestamente contrario all’interesse nazionale italiano e ci può provocare danni colossali, irrimediabili.
Le argomentazioni realistiche sono decisamente indigeribili per il popolo italiano, per complesse ragioni culturali che non ho voglia di analizzare, ma che si possono riassumere in queste due frasi:
a) la prospettiva realistica non prevede alcun lieto fine, e il lieto fine piace a tutti
b) è largamente diffusa la bizzarra teoria che in Ucraina si svolge un conflitto tra autocrazie e democrazie, e “la democrazia” agli italiani piace molto, anche se ciascuno dà alla parola “democrazia” il significato che preferisce lui, di solito eleggendola a sinonimo di un suo personale Mulino Bianco, liberale, socialista, costituzionale, comunista, primorepubblicano, anni 80 con Jerry Calà & Umberto Smaila di “Colpo grosso”, etc. Rinunciare al Mulino Bianco è difficile.
C’è un altro fatto madornale che potrebbe verificarsi e aiutare: una sconfitta devastante dei Democrats alle elezioni di midterm statunitensi. I favorevoli all’attuale linea strategica USA si trovano anche nel partito repubblicano, ma l’opportunità di scaricare la colpa di tutto sull’avversario politico sconfitto potrebbe aprire qualche spiraglio di discussione negli Stati Uniti, che guidano questo treno su cui siamo incautamente saliti.
Secondo me, stiamo messi così. No, non c’è il lieto fine, mi spiace. C’è una fine tutt’altro che lieta per l’Italia se non ci sganciamo da questa strategia, questo sì. That’s all, folks.

JUS SCHOLAE E ITALIANI DA FARE, di Teodoro Klitsche de la Grange

JUS SCHOLAE E ITALIANI DA FARE

Qualche sera fa in televisione era invitato un parlamentare PD il quale strenuamente difendeva il d.d.l. sullo jus scholae ripetendo che i giovani cui sarebbe stato applicato (ove approvato) erano “italiani” ed avevano “diritto” alla cittadinanza.

È facile obiettare che un tale modo di ragionare ha il (doppio) difetto di dare per scontata e pacifica l’italianità (cioè il “presupposto di fatto” per la concessione della cittadinanza) ossia la cosa da provare, a realizzare la quale può concorrere (anche) la frequentazione scolastica; dall’altra che il tutto sarebbe un “diritto”. Ma se è un diritto (positivo) è inutile battersi per riconoscerlo; se invece è – com’è – una pretesa, occorre valutare se tale pretesa – promossa a diritto – sia legittima ed opportuna. Che è poi l’oggetto del dibattito nell’opinione pubblica e in Parlamento. Di fronte a tali argomentazioni strabiche e filiformi, la risposta acconcia è quella di Salvini: con tanti problemi che abbiamo dalla guerra al COVID, dalle macro-bollette alla crisi energetica e all’inflazione, è proprio così pressante e decisivo il riconoscimento di cittadinanza?

Ma invece di dare la consueta risposta dietrologica: che è importante per il PD il quale spera di trovare nei riconosciuti italiani un serbatoio elettorale sostitutivo di quello in gran parte perso (nonché una bandiera da sventolare), vediamo come sia stato considerato il problema da oltre due millenni fa.

Scrive Aristotele nella Politica esaminando le cause dei rivolgimenti politici e quindi (anche) dei cambiamenti costituzionali “Anche la differenza di razze è elemento di ribellione finché non si raggiunga concordia di spiriti, perché, come non si forma uno stato da una massa qualunque di uomini, così nemmeno in un qualunque momento del tempo. Per ciò (coloro che) hanno accolto uomini d’altra razza sia come compagni di colonizzazione sia come concittadini dopo la colonizzazione, la maggior parte sono caduti in preda alle fazioni” (1303b) e prosegue, per dimostrarlo, con un lungo elenco di “inclusioni” finite in guerre civili.

Anche i romani che della concessione della cittadinanza (a singoli o a collettività) fecero un efficace sistema d’integrazione, questa era normalmente uno dei benefici per i veterani non cittadini che avevano militato per 25 anni nell’esercito. Né i tempi erano granché solleciti: a parte l’editto di Caracalla (dopo oltre due secoli dalla costituzione dell’impero), la cittadinanza latina (e non romana) fu concessa a tutta la Spagna all’epoca dei Flavi (anche qua, oltre due secoli dalla conquista) e mentre la Spagna dava alla letteratura latina alcuni dei più suoi grandi scrittori. Ma a differenza dei politici italiani i romani non misuravano benefici del genere con i tempi delle campagne elettorali. Anche la storia successiva prova che, per fare una nazione da più etnie, occorrono secoli.

Renan sosteneva che una “nazione è un’anima, un principio spirituale”, e soprattutto due cose la costituiscono: il comune possesso di ricordi nel passato  e il consenso nel presente “Un passato eroico, grandi uomini e gloria (mi riferisco a quella vera), ecco il capitale sociale su cui poggia un’idea nazionale. Avere glorie comuni nel passato e una volontà comune nel presente: aver compiuto grandi cose insieme e volerne fare altre ancora; ecco le condizioni essenziali per essere un popolo”.  Ma qua di comune passato non se ne parla affatto, perché non c’è; l’altro è assai dubbio che esista (nel presente).

Quel che succede nella banlieu francesi o nei quartieri islamici belgi non lascia granché da sperare. Ma soprattutto appare un misto di furberia burocratica e utopia interessata credere che per fare un italiano basti farlo nascere nel Bel Paese ed assolvere l’obbligo scolastico. Era un compito che – per gli italiani, quindi assai facilitati rispetto agli immigrati – già toglieva il sonno ai governanti del Risorgimento consapevoli della necessità di fare gli italiani; e invece i nostri dem hanno trovato una soluzione così semplice e a portata di mano: un esame e passa la paura. Per una questione che, da Aristotele in poi, ha preoccupato statisti e pensatori, abituati a ragionare sulla realtà e sui precedenti storici (e giuridici). Se D’Azeglio lo avesse saputo…

Teodoro Klitsche de la Grange

BUROCRAZIA E INFALLIBILITÁ, di Teodoro Klitsche de la Grange

BUROCRAZIA E INFALLIBILITÁ

Ha suscitato stupore l’affermazione del direttore dell’Agenzia delle Entrate che in Italia ci sono 19 milioni di evasori fiscali. Ma non è stato notato – o notato poco – che non era tanto l’esternazione del dr. Ruffini ad essere discutibile ma- assai di più – il “ragionamento” di cui era il risultato.

Chi scrive è convinto che i 19 milioni di evasori di Ruffini siano una stima per difetto: in effetti ho l’impressione che il numero degli evasori sia poco inferiore all’intera popolazione maggiorenne italiana, cioè 45 milioni (almeno). Ciò per due motivi: il primo è che è l’appetito del fisco a creare l’evasione. Più è predatorio quello, più è diffusa questa, secondo la curva di Laffer, così sconosciuta nelle stanze del potere italiano. La seconda è la mediocre efficienza della pubblica amministrazione: per cui c’è da presumere che ai diciannove milioni di evasori sagacemente “tassati” dal fisco, ve ne siano altrettanti – o giù di li – che se la godono nella clandestinità. Anche perché il sistema principale per “recuperare l’evasione” collaudato da trent’anni è assai semplice: far pagare di più chi già paga. La seconda imposta per gettito, cioè l’IVA, compie quest’anno 50 anni: per “recuperare l’evasione” l’aliquota nello stesso periodo è stata quasi raddoppiata: dal 12% al 22%. Ad ogni aumento il solito coro di giubilo “paghiamone tutti, paghiamone meno” ma in effetti nella realtà sono sempre i soliti a pagare.

Ma ciò che rende debole e profondamente illiberale l’argomento di Ruffini è l’equivalenza tra pretese fiscali e fondatezza (anche giuridica) delle stesse. In altre parole si presuppone che 19 milioni siamo debitori perché gli impiegati dell’Agenzia fiscale hanno emesso dei titoli esecutivi a loro carico. Che è proprio il contrario di quanto da oltre due secoli i teorici dello Stato di diritto sostengono: tra i tanti basti citare il Federalista (come faccio spesso) in cui si sostiene che i controlli sul governo (cioè in termini moderni e “continentali”  sull’amministrazione pubblica) non sarebbero necessari se a governare fossero angeli, ossia moralmente irreprensibili e intellettualmente infallibili. Ma siccome non è così, scrivevano gli autori del “Federalista”, i controlli sono necessari. E l’intera costruzione dello Stato di diritto (e anche, meno coerentemente di altri “tipi” di Stato) si basa proprio su tale realistico giudizio sull’antropologia umana, e quindi burocratica.

La diffusione e l’istituzionalizzazione di limiti e controlli al potere, in primo luogo la giustizia nell’amministrazione, non è che la conseguenza di quello.

Credere il contrario non è soltanto manifestamente smentito dai fatti: è qualcosa che neppure gli ordinamenti più autoritari – forse (del tutto) neanche quelli totalitari – ammettono. Se il Papa è infallibile lo è solo quando parla ex-cathedra e in materie limitate. Ma l’infallibilità del Sommo Pontefice non emana verso uffici, impiegati, vescovi e parroci, mentre (pare che) quella fiscale si comunica per via gerarchica, dal Direttore agli impiegati di concetto (se non anche più in giù). Per cui il ragionamento di Ruffini, sulla cui fondatezza non insistiamo, è sicuramente il contrario di quanto sostenuto dai teorici (e pratici) del Rechtstaat.

Ma qualche conseguenza positiva la può avere: se è vero che gli evasori fiscali sono 19 milioni (come calcolato dal direttore) o molti di più, la conseguenza è che se vanno tutti a votare, e lo fanno coerentemente, i tempi del fisco predatorio sono agli sgoccioli: con una maggioranza così schiacciante un condono tombale (al minimo) è a portata di mano. Una riforma verso un fisco meno predatorio, probabile.

Ricordate, gente, ricordate.

Teodoro Klitsche de la Grange

Azzardi ed inganni, assi pigliatutto e due di picche_con Antonio de Martini

La narrazione imposta dai media istituzionali stride sempre più con la realtà, come pure la propaganda enunciata da Zelensky, ma pianificata da ambienti ben più attrezzati, riportata senza contraddittorio. Una chiamata alle armi in Europa senza per altro disporre dei mezzi necessari e senza la convinzione diffusa delle implicazioni di tali scelte. Un quadro dove i politici più spregiudicati e dotati di iniziativa riescono a coprire spazi inimmaginabili sino a poco tempo fa sino a raggiungere una sovraesposizione tale da dover ricorrere quanto prima ad aiuti e sostegni esterni decisivi. E’ il caso della Turchia di Erdogan. Come pure nel versante opposto della passività, è il caso della gran parte dei paesi europei e dell’Italia in particolare. La comoda postura all’ombra dei veri decisori si sta rivelando sempre più controproducente e dannosa oltre che umiliante. Non basteranno i saltimbanchi all’opera a Bruxelles e nelle capitali non dico ad affrontare, quanto nemmeno a percepire la dimensione dei problemi e delle trappole nelle quali stanno cacciando i popoli europei. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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SI APRE IL SECONDO ATTO DELLA TRAGEDIA UCRAINA. IPOTESI E PREVISIONI, di Roberto Buffagni

SI APRE IL SECONDO ATTO DELLA TRAGEDIA UCRAINA. IPOTESI E PREVISIONI

 

Raccomando di seguire con attenzione l’intervista a Scott Ritter, (ex ufficiale di intelligence militare del Corpo dei Marines) che linko sotto.

Ritter risponde alle critiche che gli sono state rivolte da PIù parti, nel campo dei media dissidenti, per la sua recente analisi della situazione militare e politica in Ucraina. Replicando ai suoi critici, Ritter precisa e articola le sue posizioni, che a mio avviso sono sostanzialmente corrette.

Le riassumo con la massima brevità, integrando con mie considerazioni:

  1. Si sta concludendo la seconda fase delle ostilità in Ucraina con la conquista russa del Donbass e della striscia costiera del Mar Nero. La Russia raggiunge uno degli obiettivi politico-strategici dichiarati: sicurezza del Donbass, e dal pdv militare l’importante obiettivo di garantirsi un passaggio terrestre tra Crimea e Donbass e rendere il Mar Nero un mare interno russo.
  2. Non sono stati raggiunti gli obiettivi di “denazificazione” e “demilitarizzazione dell’Ucraina, né è stato raggiunto l’obiettivo politico-strategico essenziale della “neutralizzazione” dell’Ucraina, o l’altro obiettivo politico-strategico più complessivo di ridisegnare il sistema di sicurezza europeo così che tenga conto delle esigenze russe.
  3. La “denazificazione” non è stata raggiunta; anzi, il governo ucraino ha messo fuori legge tutti i partiti non di estrema destra, e le milizie di destra radicale integrate nelle FFAA ucraine continuano ad esistere nell’Ucraina occidentale. L’influenza delle formazioni politico-militari di destra radicale sul governo ucraino è aumentata, non diminuita rispetto alla situazione precedente l’attacco russo.
  4. La “demilitarizzazione”, ossia la distruzione o lo sbandamento delle FFAA ucraine non è stata raggiunta; anzi il governo ucraino, con l’appoggio della NATO, sta formando, addestrando, armando su territorio ucraino, polacco e tedesco numerosi contingenti di nuove truppe, calcolabili nell’ordine delle centinaia di migliaia tra veterani e coscritti.
  5. Per di più, la Polonia a quanto pare disporrà la partecipazione diretta alle ostilità in Ucraina di due battaglioni di volontari polacchi, formati da truppe polacche addestrate a livello NATO che si dimettono dalle FFAA nazionali e prendono parte al conflitto ucraino. Probabilmente, altre truppe polacche seguiranno.
  6. La legge Lend-Lease varata dal Congresso e dal Senato americano invierà agli ucraini 50 miliardi di dollari circa in armamenti, parte dei quali sarà composta da materiale bellico NATO state of the art. L’enorme quantità di rifornimenti consentirà agli ucraini anche di trascurare il serio problema della capacità di manutenzione del materiale bellico, compromessa dalle distruzioni di fabbriche e depositi (quando qualcosa non funziona, la sostituisci). Parte di questo materiale bellico sarà intercettato dai russi prima di giungere sul campo di battaglia, ma un’altra parte vi giungerà, come già vi giunge. Su territorio polacco e tedesco, veterani ucraini si stanno addestrando all’impiego dei nuovi sistemi d’arma.
  7. Perduto il Sudest, l’Ucraina conserva la profondità strategica per continuare la guerra; una profondità strategica accresciuta in modo qualitativamente importante dal fatto che i santuari logistici ucraini si trovano in territorio NATO (Polonia, Germania, Stati baltici), intoccabile per i russi senza rischiare un conflitto diretto con la NATO, con la possibilità di escalation nucleare.
  8. La NATO accerchia la Russia di più, non di meno rispetto alla situazione precedente l’attacco preventivo russo. Finlandia e Svezia hanno chiesto di entrare nell’Alleanza Atlantica. Fallito dunque anche l’obiettivo politico-strategico russo di ridisegnare in proprio favore il sistema di sicurezza europeo.
  9. Dunque, se la Russia concluderà le ostilità con la conquista del Sudest ucraino e si disporrà alla sola difensiva del Donbass, otterrà una vittoria tattica e subirà una sconfitta strategica, esponendosi a una guerra interminabile che la dissanguerà. Il progetto americano è proprio questo: dissanguare la Russia per destabilizzarla e infine frammentarla politicamente.
  10. Dal pdv strettamente militare, la risposta simmetrica russa a questa situazione sarebbe la mobilitazione generale, e la dichiarazione di guerra all’Ucraina. Questo provvedimento consentirebbe alla Russia di schierare sul campo fino a tre milioni di uomini, e di sferrare un’offensiva generale in Ucraina volta a distruggere le FFAA nemiche e a rovesciare il governo ucraino. Ovvie le conseguenze negative sull’economia russa, e i contraccolpi politici negativi sia all’interno, sia soprattutto all’esterno, con un prevedibile consolidamento dell’Alleanza Atlantica e dell’Occidente.
  11. Ritter avanza l’ipotesi che la direzione russa preferisca reagire gradualmente, per così dire “al rallentatore” alla minaccia. Consolidamento difensivo del Sudest ucraino, mobilitazione parziale e progressiva dei riservisti e dei coscritti; attesa del decisivo summit NATO di fine giugno, quando si constaterà se la Turchia resterà ferma nella sua scelta di opporsi all’ingresso nell’Alleanza di Finlandia e Svezia oppure no; tentativo di far leva sulle linee di faglia dell’Occidente, soprattutto in Europa, dove il prossimo autunno-inverno farà toccare con mano alle popolazioni europee il costo devastante delle sanzioni economiche alla Russia. (Mi sembra un’ipotesi ben fondata, il presidente Putin è uno statista molto cauto).
  12. In sostanza (mia considerazione), dopo la conclusione delle due prime fasi della guerra con la conquista del Sudest ucraino, che formano il Primo Atto della guerra, si apre il Secondo Atto. La Russia si trova di fronte a una vera e propria minaccia esistenziale, e lo sa. Reagirà di conseguenza, sul piano politico e sul piano militare; probabilmente, la reazione russa sarà graduale, e tenterà di evitare un impegno militare totale contro l’Ucraina e i suoi alleati. Se sarà impossibile evitarlo, si impegnerà a fondo, con tutte le sue risorse. In quest’ultimo caso, si aprirà il Terzo Atto di questa tragedia.

https://youtu.be/UnZU4n9lurg

 

GIUSTIZIA TRIBUTARIA E (CONTRO)RIFORMA, di Teodoro Klitsche de la Grange

GIUSTIZIA TRIBUTARIA E (CONTRO)RIFORMA

Da quanto riporta la stampa mainstream (giuliva come al solito) la riforma della giustizia tributaria sarebbe ai nastri di partenza e dovrebbe principalmente:

– ridurre il contenzioso e la durata del processi

– garantire i diritti del contribuente

Tra i mezzi indicati agli scopi suddetti (oltre a quelli già esistenti nell’ordinamento, onde non si capisce cosa ci sia d’innovativo), ci sarebbero il Giudice monocratico per le liti “bagatellari”, cioè inferiori a € 3.000,00, la riduzione delle possibilità di appello, l’ammissione – almeno in parte – delle prove testimoniali.

Mentre per quest’ultima proposta non si può che concordare, quanto al Giudice monocratico e soprattutto alla riduzione del controllo (di merito) attraverso l’eliminazione – per le “piccole liti” – dell’appello, c’è da obiettare.

È vero che il giudice monocratico è più spiccio e più economico, perché fa da solo quello che fanno in tre; e che già per molti tipi di controversie il giudice è monocratico, senza apprezzabili differenze. Resta il fatto che prescrivere come limite della competenza il valore ha il sapore di una minore attenzione ai contribuenti con liti modeste, i quali sono, presumibilmente, i meno abbienti. Ma che, soprattutto sono, per il numero, quelli che sopportano oneri complessivamente – in linea sempre presuntiva – maggiori. Sembra un accorgimento – indirizzato a garantire il gettito delle imposte più che diritti dei contribuenti. Anche se, comunque, nel sistema italiano c’è di molto peggio.

Dove tale tendenza è manifesta e prevalente è nella riduzione della possibilità d’appello. Qui il contrasto tra i fini di garantire il gettito o i diritti del contribuente è ben più vistoso che per il giudice monocratico. Il doppio grado di giudizio è la garanzia di un doppio esame completo della controversia. Altri mezzi d’impugnazione, come quelli più praticati, cassazione e revocazione, non comportano alcun riesame completo della lite, ma solo – per essere attivati – che la sentenza impugnata sia affetta da tassative tipologie di errori/violazioni (art. 360 e 395 c.,p.c.). Oltretutto una riforma di una decina di anni fa ha ridotto la possibilità di controllo della Cassazione sulla motivazione della sentenza; mentre la revocazione ha l’inconveniente che a giudicare sono giudici dello stesso ufficio di quelli che hanno deciso la sentenza gravata. Manca a tali mezzi l’ampiezza di esame garantita dall’appello.

In conclusione, e salvo ritornare sul tema, l’impressione indotta dalle principali innovazioni che si vorrebbero apportare all’esistente è quella cui ci hanno abituato tutte le “riforme” degli ultimi decenni sul rapporto tra cittadini e P.A.: che si voglia cambiare qualcosa, si, ma riducendo diritti e garanzie delle parti private, addossandone poi la responsabilità – in gran parte – alle istituzioni europee. Tipico espediente di classi dirigenti in decadenza: si tira il sasso, ma si nasconde la mano. Stavolta sarebbe il PNRR a imporre tali innovazioni.

Ma non è così: a leggere le sentenze della Corte europea sulla giustizia italiana, la Carta di Nizza, le stesse reprimende ripetute da politici e commentatori esteri (ad esempio sulla responsabilità dei giudici) l’alternativa tra gettito e garanzie non ha il carattere decisivo, attribuitogli dai centri di potere nazionali.

Piuttosto è confermata la tendenza interna che le riforme della giustizia sono orientate più in funzione del portafoglio pubblico che delle garanzie private. Sono innovazioni ispirate ad una visione ragionieristica più che giuridica. Decidere meno controversie, con costi minori e gettito fiscale maggiore è l’obiettivo reale e perseguito; come se la decisione delle vertenze ne cives ad arma ruant, con prontezza e senso della giustizia, fosse un optional, uno scopo minore rispetto al primo. Il senso dello Stato è costruito sulla partita doppia e non in vista della pace (sociale e politica).  L’intendenza non segue più, come diceva De Gaulle, ma conduce le danze. Illusione, alle lunghe, quanto mai pericolosa.

Teodoro Klitsche de la Grange

Il PD: un partito alieno, di Vincenzo Costa

Il PD: un partito alieno
Letta, dopo le prese di posizione di De Benedetti e il discorso moderato di Macron, ha cercato di aggiustare il tiro, e di modificare almeno l’immagine di partito con l’elmetto. Operazione difficile dopo la raffica di dichiarazioni esaltate da parte sua e di tanti altri esponenti di spicco del PD.
Ma il problema è più profondo. Queste giravolte, gli sbalzi umorali, anche certe farneticazioni mostrano almeno due problemi che non possono essere emendati facilmente:
1) il PD ha un deficit di cultura politica. Si nutre di una cultura che – attraverso trent’anni di dominio di case editrici, giornali, potere accademico – ha cercato di imporsi, e che oramai è evidente essere di una povertà analitica senza fine, poiché produce solo sciocchezze come “c’è un aggressore e un aggredito”, “la Russia mira a ricostituire l’impero zarista”, “Putin è matto o è animato da risentimento”. Un modo di interpretare la realtà che ormai conviene lasciarsi alle spalle con un sorriso, tanta è la pochezza intellettuale di questo approcci. In un bar di provincia si trovano analisi più serie e meno puerili.
Difficile che il PD possa scrollarsi di dosso questa cultura, anche se volesse.
2) l’intera dirigenza del PD, come mostrano i dati della foto sotto, è totalmente scollata dal paese reale, non ne intercetta ne’ gli umori ne’ i bisogni ne’ gli interessi. Come se l’intero PD fosse dentro un disturbo ossessivo o paranoico, non saprei, ma dato che hanno come terapeuta di riferimento Recalcati non vedo possibilità di guarigione.
Il risultato è che il PD è ormai un corpo estraneo non solo a sinistra (ed esiste una sinistra politica ampia, anche se priva di rappresentanza), ma all’interno del paese, una sorta di filiale di interessi estranei e spesso stranieri.
Per avere un senso dovrebbe azzerare cultura politica e classe dirigente. Dato il fallimento evidente e la totale perdita di egemonia nonostante l’impiego massiccio di una stampa simpatetica questo mutamento sarebbe naturale, accadrebbe in paesi come il Regno Unito.
Ma l’Italia è il paese di elites inamovibili che, per dirla con Pareto, si passano il cartellino di padre in figlio, e basta guardare la classe dirigente del PD per vedere verificata questa teoria. Un partito senza mobilità politica, in cui la classe dirigente ricicla se stessa, è destinato a perdere il senso del reale. E diventa politicamente inutile.
Il PD va allora da una parte, il paese da un’altra. Amen
NB_Tratto da Facebook
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