LE RAGIONI DI CREONTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

LE RAGIONI DI CREONTE

Nell’“Antigone” di Sofocle i due personaggi principali, Antigone e Creonte, sono diffusamente considerati rappresentativi dei poli estremi di una pluralità di opposizioni: per lo più tra diritto naturale e diritto positivo o tra legge divina e umana. Ma non è mancato chi, come Hegel, vi ha visto l’opposizione tra una concezione (principio)  maschile e femminile, per cui l’uomo (e cioè Creonte) “ha la propria vita sostanziale e reale nello Stato, nella Scienza, e simili, e inoltre nella lotta e nel travaglio con il mondo esterno e con se stesso”[1], mentre la “pietas, in una delle più sublimi esposizioni che la concernono – nell’Antigone sofoclea – viene dichiarata soprattutto come la legge della femmina, vale a dire: come la legge della sostanzialità sentimentale soggettiva, dell’interiorità che non consegue ancora la propria realizzazione perfetta, come la legge degli dèi antichi, del regno sotterraneo, come legge eterna di cui nessuno sa dire quando apparve e che è presente nell’opposizione contro la legge manifesta, la legge dello Stato”[2]. Per cui da un lato si può intravedere, in queste osservazioni di Hegel, una contrapposizione più che tra norme (leggi) quella tra istituzioni (famiglia e Stato); da un altro, e più chiaramente, quella tra un diritto “tradizionale” e consuetudinario  e un altro “statuito” e razionale”.

Molte altre opposizioni sono rintracciabili, perché chiaramente esposte, nei due personaggi della tragedia. In particolare Creonte si identifica con la polis e fa della categoria amico/nemico (della polis) il criterio distintivo per la legittimazione del decreto proibente la sepoltura di Polinice, derogatorio-modificativo della legge divina (e consuetudinaria) di seppellire i morti. Da ciò derivano (almeno) sia l’opposizione tra politico e giuridico (intesi nel senso di Freund) e la prevalenza e decisività del politico, che solo garantisce la salvezza di tutti; e alla cui necessità (altra opposizione), deve cedere ogni legame di affetti, anche tra consanguinei, come ogni rapporto amicale. Dice Creonte nell’entrare in scena “non tengo in alcun conto chi stima più importante della propria patria una persona cara. Io infatti – e lo sappia Zeus che sempre vede tutto – non saprei tacere quando vedessi muovere contro i cittadini la sciagura invece che la salvezza; e non farei mai amico un nemico della patria; poichè so che essa è la nostra salvezza, e che ci procuriamo gli amici solo quando ne teniamo dritto il corso. Con tali principi io farò grande la nostra città”[3]. Il diritto promulgato dal governante deve essere così “razionale rispetto allo scopo” che è, nel caso, quello, essenziale alla polis, di salvaguardarla, anche onorando i buoni cittadini e non gli altri, i nemici.

Il che costituisce un’altra essenziale differenza rispetto alla legge divina, osservata da Antigone, cui si deve obbedienza, non per la di essa opportunità ma per l’autorità che l’ha istituita e la consuetudine di rispettarla[4]. La concezione di Creonte infatti rivendica ancor più il carattere di creazione umana della legge, frutto della volontà e  dell’ingegno dell’uomo, che può non tener conto e così violare la legge divina, in quanto tale immutabile, cui si appella Antigone. Questo appare sottolineato dal coro nel primo stasimo, che è un canto  sull’eccellenza dell’ingegno umano e sulla sua capacità di superare le difficoltà della natura; tuttavia il coro ricorda la facoltà (e il limite) umano di poter scegliere tra bene e male e che l’uomo “Possedendo, di là da ogni speranza, l’inventiva dell’arte, che è saggezza, talora muove verso il male, talora verso il bene. Se le leggi della terra v’inserisce e la giustizia giurata sugli dèi, eleva la sua patria; ma senza patria è colui che per temerità si congiunge al male: non abiti il mio focolare né pensi come me chi agisce così”[5]. L’esortazione ad inserire “le leggi della terra” ha il chiaro significato  di dover armonizzare il diritto (e il comando) umano con la legge divina (e naturale) perché riesca l’opera di edificazione – e conservazione – della polis.

Quasi tutte tali opposizioni indicano in Creonte l’archetipo di una politica e un diritto “moderno” (rispetto a quelli di Antigone): la prima perché prevalente su ogni vincolo normativo (summa in cives ac legibusque soluta potestas); il secondo perché razionale, volontario, statuito, opportuno e derogabile in rapporto alle necessità. Tuttavia tale concordanza, non ha, per così dire, giovato granché all’immagine di Creonte, per lo più assimilato a quella del tiranno. Eppure il re di Tebe non è tiranno nel senso in cui, spesso, si connota tale termine: in effetti le decisioni e gli obiettivi di Creonte non sono deviati dall’interesse personale, ma ispirati a quello della patria (al bonum commune). Già nell’“Edipo a Colono” quando compie l’atto odioso di rapire Antigone per costringere Edipo a tornare a Tebe, lo fa perché l’oracolo ha garantito la salvezza a chi dei contendenti per il trono di Tebe, avrà presso di se il vecchio re. E analoga è la posizione di Creonte nell’Antigone: dove, in buona sostanza, pone la salvezza della patria – e la “punizione” – per i traditori – al di sopra della legge divina. Non c’è, in Creonte, conflitto tra interesse del governante e quello della comunità (o dei governati), con cui si connotano molti tipi di tirannide: ma tra diritto divino e istituzione politica. La “condanna” di Polinice e la deroga al diritto tradizionale è necessaria, a giudizio di Creonte, per il bene della polis ed opportunità politica.

Sotto un altro – e vicino – aspetto il problema di Creonte è del trattamento (delle regole) da applicare al nemico, differenti da quelle da osservare per gli amici (in senso politico). E’ il problema dell’amico/nemico, che genera la diversità e la distinzione tra diritto interno ed esterno, tuttora perdurante nel diritto pubblico, e presupposto della norma delle leggi delle XII tavole adversus hostem aeterna auctoritas. Così è l’appartenenza (e il confine) della comunità politica a determinare la legge applicabile. Nel caso avendo Polinice, pur essendo amico (quale appartenente alla polis), agito da nemico il conflitto tra i due sistemi è particolarmente acuto, perché diventa anche possibile causa di dissoluzione dell’unità politica[6]. Così Creonte motiva il suo editto, concedendo che Eteocle: “che è morto combattendo a difesa di questa città, facendo gran prova di valore con la lancia, riceva sepoltura e abbia tutte le offerte lustrali, che scendono sotterra agli eroi defunti. Ma il fratello suo, Polinice dico, dall’esilio tornò volendo distruggere completamente col fuoco la terra patria e gli dèi della stirpe, volendo saziarsi del sangue dei suoi e gli altri trarre in schiavitù: e per quanto lo riguarda è stato ordinato alla città che nessuno lo onori di tomba e di compianto, ma sia lasciato insepolto cadavere, pasto ad uccelli e cani, vergogna a vedersi”[7]. D’altra parte nel dialogo del secondo episodio tra Creonte ed Antigone, mentre questa insiste sulla qualità di fratello di Polinice, quello ribatte che “ma il nemico non è mai caro, neppure quando sia morto”[8]. L’esser nemico prevale sia sulla philia che sull’adelphia[9] . Connesso al problema della distinzione tra diritto interno ed esterno, tra legge applicabile al nemico o all’amico, è che Creonte, assolutizza sia il nemico  che il comando e la funzione dell’autorità. Al nemico compete non un trattamento cavalleresco, ma addirittura una condanna “nell’aldilà”, onde, prevale sul diritto tradizionale e “divino” il decreto della polis e di chi la rappresenta.

Nello stesso tempo il nemico è, nelle parole di Creonte solo un nemico pubblico e non privato, hostis e non inimicus. Mentre nella Repubblica la definizione della giustizia che da Polemarco (e Socrate respinge) è d’essere “l’arte di recare vantaggio agli amici e danno ai nemici”, ma nel contesto della discussione il senso di tale distinzione non è politico, cioè riferito al pubblico, ma ai rapporti sia pubblici che privati[10], nelle parole di Creonte il nemico vero, cui riserva il trattamento peggiore, è quello della polis. Si può dire che l’inimicizia è così assoluta tanto da proseguire dopo la vittoria e la stessa morte del nemico.

Nello stesso tempo Creonte assolutizza il comando, come è chiaro fin dal “manifesto” di governo che espone nella propria entrata in scena.

E ciò non solo e non tanto per il tratto “decisionista” e tutto indirizzato alla salvezza della polis quale primo dovere del governante (e dei cittadini), per cui ritiene, a quel fine, modificabile e derogabile anche la legge tradizionale (e divina); ma ancor più per come enfatizza il comando rispetto al consenso.

Fin dalle prime battute appare che il popolo (rappresentato dal coro e dal corifeo) poco o punto condivide la decisione del monarca, senza con ciò scuoterlo dalle sue certezze. Ma è del tutto evidente nel confronto tra Creonte e il figlio Emone. Emone sostiene che il padre, cui presta ossequio e devozione filiale fin dalle prime battute, deve tener conto dell’opinione popolare, che critica l’operato di Creonte e “piange questa fanciulla dicendo che è la più immeritevole tra tutte le donne di morire così indegnamente per atti gloriosissimi”[11], per cui prega il padre “non portare in te soltanto questa idea, che è giusto quello, che dici tu, e nient’altro”[12]. Alla replica di Creonte, che Antigone è ribelle, Emone insiste. In una serie rapida di battute c’è l’espressione della sua posizione: “Non così dice concordemente il popolo, qui in Tebe…. Non vedi che hai parlato in modo infantile?…. Non esiste la città che è di un solo uomo…. Certo, tu regneresti bene da solo su una terra deserta”[13]. Ma Creonte è irremovibile: alle argomentazioni di Emone, tutte fondate sul pubblico, e specificamente sull’equilibrio tra “capo” e “seguito”, comando e consenso[14], Creonte respinge Emone nel privato, rimproverandolo di consigliare la grazia per Antigone solo perché è la sua promessa sposa, e di essere quindi schiavo di una donna (con ciò insiste nel rapporto “politico” tra principio (attitudine) maschile e femminile, sottolineato da Hegel). Emone, secondo Creonte, parla ed agisce per scopi privati, per sentimento e non secondo ragione.

Anche la fede nella ragione umana è infatti caratteristica di Creonte, come appare da diversi passi della tragedia, in particolare nel primo episodio e nel primo stasimo. Creonte respinge l’idea del Corifeo, che vi sia stato intervento divino nella sepoltura di Polinice: “dici una cosa insopportabile, affermando che gli dèi si danno pensiero di questo cadavere”[15]. E attribuisce l’atto ad una congiura di oppositori, che avrebbero corrotto le guardie. Una spiegazione tutta terrena e razionale che esclude l’intervento divino (o “magico”) nelle vicende umane. Al dialogo con la guardia succede il canto del coro nel primo stasimo, uno splendido elogio dell’ingegno umano, che ha sottomesso e utilizzato terra, animali e piante con la propria creatività; ha organizzato con leggi l’esistenza comunitaria e tuttavia, di fronte a questi meravigliosi risultati, permane la facoltà (pretesa) umana di  scegliere (e discernere con la ragione) il bene o per il male. Che è constatazione altrettanto positiva e “razionale” delle tesi di Creonte. E che racchiude il (possibile) prevalere di una volontà orientata al male, irrispettosa delle leggi e della giustizia divina. La contrapposizione, tante volte ripetuta nella storia (e nella teoria) del diritto e dello Stato, tra la capacità ordinatrice della ragione umana e della decisione consapevole e ordine naturale e “divino” (che viene opposta a quella giudicata frutto di ybris) è qui formulata, da una parte nelle affermazioni di Creonte, dall’altra nelle contestazioni di Antigone. E’ un fatto, peraltro, che il legislateur illuminista e la connessa fiducia nella ragione umana era ricalcato da Rousseau e Mably sui modelli greci di riformatori-ordinatori, ricorrenti nella Grecia dal VI al IV secolo a.c., che con le loro riforme avevano innovato e riformato l’ordine tradizionale (e “naturale”) della polis; e l’Antigone pare presupporre tale processo storico. Di cui Sofocle intravede i limiti, e la fine di Creonte, dispregiatore degli dèi e delle leggi divine e tradizionali, (che perde la propria famiglia) ammonisce a non superare[16]. Una tematica assai simile si sarebbe riproposta, dopo l’illuminismo e la rivoluzione, nelle critiche al diritto statuito (e volontario) formulate (già nel periodo napoleonico) e poi durante la Restaurazione e in tutto il XIX secolo, comuni sia ai pensatori contro-rivoluzionari, che ai giuristi tedeschi della scuola storica, ai primi sociologi che a socialisti come Lassalle, pur nelle differenti posizioni ed argomentazioni.

In effetti nei rimproveri che si fanno a Creonte ce n’è un altro, altrettanto prossimo al precedente che significativo: di avere invertito (e violato) il rapporto tra legge e ordine. Inteso quest’ultimo come ordine prima naturale che umano. In tal senso è particolarmente significativo il canto del coro nel secondo stasimo dell’Edipo re “Possa io avere destino di serbare santa purezza di parole e di azioni, a cui sono preposte leggi sublimi, procreate nell’etere celeste, e l’Olimpo solo è loro padre; non natura mortale di uomini le generò, né mai l’oblio le sopirà: un dio potente è in esse, e non invecchia. La dismisura genera tiranni. Ma se taluno in atti o discorsi superbamente procede, senza temere Dike e non rispettando le sedi degli dèi, mala sorte lo colga per il suo sciagurato orgoglio”[17]; ma ancor di più lo è la profezia di Tiresia a Creonte, che può essere interpretata come l’ “atto d’accusa” per le colpe del monarca: “E tu sappi bene che non compirai ancora molti celeri giri di sole senza ripagare tu stesso, in cambio di morti, un morto delle tue stesse viscere: in cambio di quelli di quassù che tu gettasti sotterra, ponendo indegnamente nel sepolcro una persona viva; mentre tieni qui un cadavere privo degli dèi inferi, senza funebri onori, nefando. Questo non è in potere tuo, né degli dèi supremi, anzi essi soffrono questa violenza da te”[18].

Creonte mette sottoterra i vivi, e fuori i morti, nega la loro destinazione naturale, violando la legge divina. Tale atto è in contrasto con ordine e legge, non essendo in potere di Creonte (né dell’uomo), e neppure degli déi.

Si intravede in ciò il fondamento e la concezione “tellurica” dell’esistenza umana; è la terra che ha la funzione di sostenere (e sostentare) i vivi, come di far riposare i morti: la justissima tellus di Virgilio. La legge – il decreto umano – non può violare quest’ordine; in termini moderni si potrebbe dire, con Schmitt, che la legge umana presuppone l’ordine (sociale e naturale) e non il contrario; e la sua funzione è quindi solo limitatamente ordinatrice[19].

E la superbia che fa i tiranni e l’ybris consiste nel non tener conto dei limiti umani nel mutare l’ordine naturale. Anche in ciò Creonte è archetipo di quanto sarebbe stato praticato e teorizzato ancora, in particolare, negli ultimi secoli dell’età moderna.

  1. Di fronte a Creonte, Antigone rappresenta l’altro “corno” di tali opposizioni. Antigone mostra una concezione del diritto, del rapporto tra legge divina e decreti umani, che è sintetizzata nel dialogo con Creonte, nel secondo episodio “Non fu Zeus a proclamare quel divieto, né Dike, che dimora con gli dèi inferi, tali leggi fissò per gli uomini. E non pensavo che i tuoi editti avessero tanta forza, che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte e incrollabili degli dèi. Infatti queste non sono di oggi o di ieri, ma sempre vivono, e nessuno sa da quando apparvero”[20]; in tali versi sono indicati i caratteri peculiari della legge divina: l’autorità divina, la superiorità “gerarchica” sulle norme umane, la non volontarietà, il mistero sulla di essa “genesi”. Oltre venti secoli dopo molte di tali caratteristiche erano sottolineate da De Maistre come tipiche delle norme “tradizionali”, in perticolare delle costituzioni[21]. Nel secolo scorso è stato Max Weber, con la definizione – adattabile – del tipo di potere tradizionale legittimo, a sintetizzarle meglio “quando poggia sulla credenza quotidiana nel carattere sacro delle tradizioni valide da sempre, e nella legittimità di coloro che sono chiamati a rivestire una autorità”[22]. Antigone con ciò afferma anche come fondamento dell’obbedienza alla legge essenzialmente il giudizio soggettivo del destinatario che si uniforma a regole imposte dall’autorità divina: un rapporto tra uomo e divinità, senza l’interferenza (o la mediazione) dell’autorità umana (e politica), alle statuizioni della quale, se in contrasto con la legge divina, non è dovuta obbedienza. Ch’è l’archetipo di (gran parte) delle tesi politiche del pensiero rivoluzionario, nella modernità riunite, per lo più, sotto il diritto di resistenza. Ma che apparivano già in contrasto con l’ethos della polis.Basti ricordare che circa un cinquantennio dopo la rappresentazione dell’Antigone(la data di redazione del Critone è dubbia) Socrate sceglieva volontariamente di non evadere e morire, per il rispetto che il cittadino doveva all’ordinamento della propria polis. Nel dialogo (immaginato) con le Leggi è chiaro che queste sono tutt’uno con la polis. Fin dall’inizio si presentano come le leggi e l’insieme della città (oi nomoi kai tò koinòn tes pòleos, definizione ripetuta) e lo esortano a non sovvertirla, sfuggendo alla condanna a morte, pur se ingiusta. Infatti “ti pare che possa ancora esistere e che non venga interamente sovvertita quella Città, nella quale le sentenze emesse non hanno vigore, ma, ad opera di privati cittadini, vengono destituite della loro autorità e distrutte?”[23]: la “ribellione” di Socrate colpisce quindi la capacità di esistenza stessa della polis; il rapporto tra questa e le sue leggi e il cittadino è asimmetrico e non paritario: “E se la cosa sta così, credi tu forse che ci sia pari diritto fra te e noi, e, se noi intendiamo fare qualcosa contro di te, credi di avere diritto anche tu di fare le stesse cose contro di noi?”[24]; perché più di tutti è: “degna di onore la patria, e che è più venerabile e più santa, e che è tenuta in più alto grado di stima e presso gli dèi e presso gli uomini assennati; che bisogna venerarla”[25] “e anche soffrire se essa comanda di soffrire, stando in silenzio, sia che si venga percossi, sia che si venga incatenati, sia che essa mandi in guerra per essere feriti e uccisi, bisogna fare questo, perciò in ciò consiste la giustizia: che non si deve disertare, né ritirarsi, né abbandonare il proprio posto, ma, e in guerra e in tribunale e in ogni altro luogo bisogna fare quello che la Patria e la Città comandano”[26].

Nel discorso delle Leggi il rapporto tra uomo e divinità di Antigone è sostituito da quello tra uomo e polis; e s’intravede chiaramente non solo il carattere individuale/personale del primo e quello sovrapersonale/collettivo del secondo, ma anche in germe i connotati principali del concetto d’istituzione: quelli di potere (finalizzato) all’ordine, secondo un’idea direttiva. Connotati formulati come poteva farlo un greco dell’età classica della polis, ma che possono assimilarsi, anche con le differenze, a come espressi da Hauriou[27]. La superiorità nel connettere e consolidare il gruppo sociale del secondo rispetto al primo è data dalla risoluzione del problema del quis judicabit, col confermare o riservare all’istituzione le competenze a decidere cos’è legge, cosa debba essere applicata come tale e come tale eseguita, e da chi; ciò che, se rimesso alla coscienza del singolo, diventa, in politica, insolubile (in teoria, no: basta immaginare una società di uomini saggi, disinteressati e dotati delle congrue capacità intellettuali e della dirittura morale necessaria).

Nel discorso di Antigone è, di conseguenza, invertito il rapporto tra politica e diritto: per cui quella non domina questo, ma piuttosto vi è sottomessa; onde non vale il ricordato detto salus rei publicae suprema lex, ma piuttosto il fiat justitia, pereat mundus in cui la justitia è ciò che appare tale al cittadino. Anche in ciò la “modernità” di Creonte, rispetto ad Antigone è evidente: mentre la sua scelta ha carattere pubblico, perché, come sostiene Freund, il pubblico è in primo luogo, affermazione dell’unità, la seconda porta ad una scelta e ad un esito dissolutorio, essenzialmente riconducibile al  privato[28].

E in effetti l’intuizione di Hegel che vede in Creonte ed Antigone l’opposizione tra elemento maschile e femminile, che diventa poi tra famiglia e polis è interpretabile come momento di un’evoluzione-trasformazione, in cui il carattere politico e quindi decisivo è passato dalla famiglia (intesa come istituzione umana fondata su rapporti di consanguineità) a un gruppo sociale più esteso: con relativa “espropriazione”, dei poteri di comando, di distinzione tra pubblico e privato, amico e nemico, a favore dell’istituzione superiore.

In ogni processo del genere (così nel passaggio dalle monarchie feudali a quelle assolute) connotato comune e ricorrente è la privazione da parte dell’istituzione sovraordinata di poteri politici e in gran parte, e più in generale, pubblici a quelli sotto-ordinati; così come l’opposizione ad ogni invadenza degli “espropriati” nelle funzioni riservate al potere politico; il quale senza quelle non potrebbe garantire l’unità[29]. La depolitizzazione, è anche, e in primo luogo, una privatizzazione: mentre gli “espropriati” non rappresentano che se stessi essendo (ridotti a) privati, chi esercita il potere pubblico rappresenta (e garantisce) l’unità politica.

La modernità della posizione di Creonte quindi consegue alla capacità di assicurare l’unità e l’ordine politico-sociale. A cui è essenziale l’esercizio del comando: rapporto umano tra uomo ed uomo, l’uno che comanda, l’altro che obbedisce. Tutte considerazioni che sarebbero emerse e formulate, in modo chiaro e distinto, da Thomas Hobbes. Per il filosofo di Mulmesbary il rapporto sociale consolidato richiede (un patto tra uomini legittimante) il potere (di comando) conferito solo ad uno o alcuni; questi ultimi hanno il potere di ordinare e far eseguire i loro comandi. Cui si deve obbedienza, finché è assicurata la protezione; è il rapporto tra protezione e obbedienza a legittimare il potere politico e così rendere e mantenere ordinata la società.

Nello stesso tempo potere, comando, obbedienza, (coazione) sono rapporti tra uomo ed uomo e non tra uomo e norma, né tra uomo e divinità.

Per far punire Creonte infatti Sofocle fa intervenire (anche se non in forma di personaggio teatrale) il potere soprannaturale: a un potere umano assoluto si può opporre solo un potere ancor più forte, che però non può essere umano. Ovviamente essendo l’intervento soprannaturale escluso in una visione moderna e quindi secolarizzata della politica e dello Stato, la sola “visione” proponibile è quella di Creonte.

A tale proposito ciò che confina la posizione di Antigone nel non giuridico (nel senso di Creonte) sono soprattutto due cose: la prima è il carattere individualistico: la decisione su cosa debba valere come regola applicabile al caso è rimessa al giudizio del singolo: con ciò viene meno sia la necessaria eteronomia del giuridico, articolantesi sia nel momento della posizione del comando che in quello della sua applicazione/esecuzione.

Se, nella specie si può concepire eteronoma la legge divina, non lo è sicuramente ciò che più conta, cioè la sua applicazione/esecuzione. La posizione di Antigone è rapportabile ad una realtà (o ad una norma) morale, più che giuridica.

In un certo senso non è neppure assimilabile ad una visione cristiana. Se il cristianesimo riconosce una legge divina, ha tuttavia conferito carattere d’istituzione divina anche all’autorità umana, mentre connotati della posizione di Antigone sono l’istituzione divina della legge, ma il carattere totalmente umano dell’autorità e, accanto, la riserva della decisione alla persona. Nella teologia cristiana, di converso, è considerata istituzione divina anche l’autorità umana, come consegue sia dal notissimo passo dell’“Epistola ai romani” di S. Paolo (13,1) sia dalle note frasi del Vangelo[30] per cui giuristi come Hauriou e Carré de Malberg hanno distinto tra dottrina del diritto divino soprannaturale e del diritto divino provvidenziale[31] sostanzialmente riprendendo le tesi principali sul punto della teologia politica cristiana moderna.

Ciò ha fatto si che l’appello alla legge divina, in una società cristiana, non sia un fatto di giudizio personale, ma circondato di condizioni e requisiti. La trattazione del tirannicidio e della seditio ne è un esempio: quasi tutti i teologi sia cattolici che protestanti legittimano l’uno e/o l’altro se vi sia una volontà pubblica prevalente orientata a detronizzare il tiranno, perché tota respublica superior est rege, il tutto peraltro a certe condizioni, differenti se il tiranno è tale absque titulo o quoad regimen[32]; e, ciò che costituisce la differenza essenziale, la “contestazione” dell’autorità è sempre fatta in funzione e in vista di un’autorità diversa, in un contesto cioè istituzionale; e avente carattere pubblico piuttosto che di rivendicazioni/istanze private, come, in larga misura, appaiono quelle di Antigone.

Mentre la posizione di Creonte si colloca all’interno (ed in funzione) di un gruppo sociale umano, con i di esso modelli di ordine, presupposti e rapporti e la relativa concretezza, quella di Antigone, come detto, è un rapporto della coscienza con la divinità (la legge, la norma), ovvero con una dimensione ed entità ideale e (se non) astratta.

Le tesi di Creonte sono razionali perché spiegano la realtà – e assicurano la possibilità di esistenza – di una comunità umana; quelle di Antigone non possono costituire nulla di politicamente concreto e strutturato.

  1. Tornando sul rapporto tra politica e diritto (nel senso in cui quest’ultimo è visto da Antigone), l’opposizione tra l’una e l’altro è particolarmente evidente nella vicenda di Polinice che somiglia, per certi aspetti, alla scelta di Antigone: infatti Polinice rivendica a se nei confronti di Eteocle la sovranità di Tebe, perché così convenuto col fratello. È quindi la rivendicazione di un diritto soggettivo (direbbero i giuristi) per la cui realizzazione Polinice promuove una coalizione di re argivi, al fine di conquistare Tebe, cacciare Eteocle e governare la città. Dato però che gli argivi, come tutti i conquistatori, non somigliano a Farinata degli Uberti, questa scelta significa operare per la sconfitta della patria e la rovina dei propri concittadini, così accuratamente descritta (e paventata) dal coro dei Sette a Tebe. Anche Polinice – anzi assai più di Antigone – antepone il proprio diritto alla salvezza e conservazione della patria. La Giustizia lo guida: nello scudo si è fatto cesellare una donna che guida un guerriero; questa donna “Si dichiara giustizia, nella scritta, e proclama: «Ricondurrò quest’uomo signore a Tebe e nelle patrie case»”[33]. Davanti a ciò, alla notizia recatagli dal messaggero ne I sette a Tebe, lo sdegno di Eteocle è grande, tale da indurlo a combattere di persona contro Polinice, pur consapevole di andare incontro alla morte.

Proprio Eteocle che, in tanti versi della tragedia di Eschilo aveva chiamato a difesa della patria i cittadini di Tebe, come madre di tutti “Ora a quanti di voi non ride ancora il fiore della giovinezza, a quanti sfiorì col tempo, al suo compito ognuno, soccorrete questa città, gli altari dei patrii dèi, cui non si spenga onore, e i figli e la dolcissima nutrice, la madre Terra, che a voi tenerelli malfermi sul benigno suolo, accolto tutto il peso di crescervi, nutriva cittadini fedeli nel frangente a recare lo scudo in sua difesa”[34] e anche, designando Melanippo a difesa della prima porta di Tebe dice “Risolverà l’evento Ares coi dadi, ma giustizia di sangue lui sospinge scudo alla madre contro lance ostili”[35], come Megareo a difendere le porte Neiste “ma pagherà morendo il suo tributo alla terra nutrice, o, catturati quei due e la città finta sullo scudo, orna di spoglie l’atrio di suo padre”[36]; e negando che la giustizia sia guida a Polinice “E se la figlia vergine di Giove Giustizia fosse in opere e pensieri con lui, l’augurio forse si compiva. Ma né quando fuggì dal buio grembo materno, o la nutrice lo cresceva, né fanciullo, né poi che s’addensava a ciocche la lanugine sul mento, mai lo degnò Giustizia d’un saluto. Né credo ora l’assista nel frangente della patria, Giustizia, a rinnegare il proprio nome, amica a un malfattore”[37].

Nella coppia Eteocle-Polinice si riscontra l’opposizione tra diritto fondato su una pretesa del singolo e – di converso – sull’appartenenza ad una comunità[38], come in modo più sfumato quella tra diritto e politica. Anche se fondato, il diritto di Polinice non può essere fatto valere contro la (propria) polis; è questa a costituire e garantire l’ordine e a prevalere quindi sui diritti individuali: né contro questa valgono pretese se non riconosciute all’interno  (e dall’ordinamento della polis).

La posizione di Eteocle, in un frangente più drammatico e politico in certa misura è simile a quella di Socrate, che sacrifica all’ordine della polis la propria possibilità di avere salva la vita. E l’ordine della polis è un ordine concreto: è parallelo nei discorsi di Eteocle e di Socrate il richiamo alla patria come madre, che nutre ed alleva e così consente l’esistenza ordinata dei cittadini.

Le vicende (e la situazione) di Polinice richiamano, di converso, da vicino quelle di un altro eroe, romano e non greco: Coriolano. Anche egli esiliato per una decisione che riteneva ingiusta, e per questa, ritornato alla testa di un esercito nemico a stringere di assedio Roma. A dissuadere Coriolano è una donna, la madre Volumnia. La quale per il discorso – d’alta potenza drammatica nel racconto di Plutarco – più dotato di “spiritualità” maschile che femminile (a seguire Hegel), compie in effetti la sintesi della (spiritualità) della famiglia e della polis. Volumnia parla come madre (fisica), ma le sue parole sono anche (e soprattutto) quelle della madre politica: è consapevole che se Coriolano ne seguirà l’esortazione, sarà ucciso. Ma nella decisione tra la patria e la vita del figlio (ossia tra pubblico e privato) non ha esitazioni né dubbi: sacrifica i sentimenti privati alla salvezza di Roma: ed esorta il figlio a fare altrettanto: “Perché taci o figlio? Forse che è nobile abbandonarsi completamente all’ira e al rancore mentre è disonorevole cedere alla madre che ti rivolge una così grave preghiera?… E a nessuno come te si converrebbe di osservare i doveri della riconoscenza, a te che così duramente ti vendichi dell’ingratitudine. Eppure, benché ti sia ampiamente vendicato della patria, a tua madre non hai mostrato alcun segno di riconoscenza”[39].

Coriolano compie la scelta perorata dalla madre: salva Roma e vieni ucciso dai Volsci. Il comportamento del romano è l’opposto di quello di Polinice: l’esistenza e la salvezza della patria valgono più dei diritti individuali, pur fondati, e dello spirito di vendetta. In linea più generale: le vicende di Polinice e Coriolano provano come spesso, sia il diritto (soggettivo) ad essere occasione (giustificazione e pretesto) di guerra; contrariamente a quanto capita nell’Antigone, il rapporto familiare e quello politico non sono in conflitto, ma sinergici nel discorso di Volumnia la madre è a un tempo lei e la polis, ma l’opposizione famiglia-polis (evidente in episodi della Roma più antica, come la purificazione del terzo Orazio per l’uccisione della sorella, promessa sposa ad uno dei Curiazi  da lui uccisi) si è risolta in una sintesi che vede la polis “inglobare” e “superare” la famiglia; e il diritto della polis prevale su quello soggettivo-individuale o familiare[40].

  1. Dato che Creonte non è inquadrabile nel tipo “classico” di tiranno, cioè nel governante poco o punto sollecito del bonum commune (che è il primo criterio d’individuazione della tirannide, come sopra cennato), in cosa consiste la sua ybris, che ne ha fatto una delle figure-simbolo dell’abuso tirannico del potere agli occhi di un greco (e non solo).

A spiegarlo è lo stesso Sofocle nel secondo stasimo dell’Edipo re, quando il Coro afferma: “la dismisura (ybris) genera i tiranni” ybris psyténei tyrannon (v. sopra).

Forse la traduzione di ybris in “dismisura” invece che nei più letterali “superbia” o “tracotanza” è la chiave per capire l’errore di Creonte.

Si potrebbe all’uopo ricorrere a quella concezione, tipicamente greca, del kosmos quale ordine del creato, contrapposto al kaos, e più specificamente, allo spirito apollineo, che, come specificato da Spengler[41] “organizza” il mondo in forme esattamente delimitate, armoniche e perciò ordinate.

In uno spazio così organizzato limite e misura sono, in particolare il primo, concetti essenziali; per cui la dismisura (cioè l’errata – o voluta – non osservanza, calcolo, valutazione) del limite costituisce un vulnus all’ordine (politico e metafisico). Perciò Creonte erra: perché non ha tenuto conto che l’ordine (di cui è espressione la legge divina) è stato violato dal decreto su Polinice; e ancor più che non è nel potere dell’uomo violare tale ordine. La dismisura consiste così nell’aver violato il limite al potere umano: limite prima metafisico che politico.

  1. Accanto a ciò cosa rimane della posizione di Antigone dopo millenni di diritto “statuito” e politica “razionale” (anche se, spesso, intervallati – anche per secoli – da ritorni di diritto “tradizionale” e politica influenzato da “valori” tutt’altro che razionalmente giustificabili)?

È proprio il limite: se la posizione di Antigone appare “vecchia”, alla fine non è irrazionale. Non lo è se si pensa bene, a valutare razionalmente (rispetto allo scopo) il decreto di Creonte; a che serve, vinta la guerra (diverso se la guerra fosse da vincere) “condannare” il nemico sconfitto e morto? È razionale rispetto all’esigenza di proteggere la sicurezza della polis? In un certo senso il decreto di Creonte appare l’antesignano di quella pratica, diffusasi nel secolo scorso, che vede la guerra concludersi sui campi di battaglia, per subito dopo proseguire in un processo, in cui i vinti vengono pubblicamente giudicati – con le forme, talvolta, ma sempre senza lo spirito e i presupposti minimi della giustizia – dai vincitori; o peggio, proseguire con esecuzioni di massa. Prassi contraria alla teologia politica cristiana, e al diritto internazionale “classico” che tanto deve a quella.

Antigone è stata l’ispiratrice di molte aspirazioni rivoluzionarie, destinate a modificarsi tuttavia, o talvolta divenire l’inverso, cioè a coincidere, per lo più con le idee di Creonte, dopo che la rivoluzione diventa potere. Al di là di questi effetti transeunti, c’è quindi altro, nel mondo moderno, che può ricondursi alla posizione di Antigone, o almeno riconoscere in quella qualcosa di vicino.

Ed è che Antigone, attraverso il richiamo alla legge naturale, al diritto familiare, e alla legge divina, arriva a relativizzare l’inimicizia, temperando così la posizione di Creonte che assolutizza sia il comando che il nemico. Certo non è solo (né prevalentemente) all’esempio di Antigone e alla poesia di Sofocle che dobbiamo questa conquista (ch’è dovuta assai più al pensiero cristiano e alla prassi politica romana): ma c’è comunque un filo che da questa conduce allo jus publicum europaeum: è che questo si basa sull’assolutizzazione del comando, ma nel contempo, sulla relativizzazione del nemico. E Antigone con il suo rifiuto di considerare il nemico come indegno di pietas, ne costituisce un precedente. Il fatto, poi, che il nemico sia il fratello è significativo, avendo il senso che, essendo comune l’identità umana con il nemico, l’ostilità non deve tradursi in azioni che la neghino.

Sul rispetto di questi principi si possono consolidare forme di convivenza umana che concilino le diversità delle comunità con la coesistenza (relativamente) pacifica tra le stesse. Cioè la “formula” che ha consentito la presenza di più sovranità concorrenti in uno spazio relativamente ristretto, come quello dell’Europa occidentale.

Ed in questo, sulla costruzione e mantenimento di un assetto politico concreto e stabile che consiste la “modernità” di Antigone, che trova così la sintesi con la propria opposizione, rappresentata da Creonte.

T.K.

 

[1] V. Grundilinien der Philosophie des Rechts (§166), trad it. di V. Cicero , Milano 1995 p. 317; v. anche Die Phänomenologie des Geistes, trad. it. di E. De Negri, Firenze 1973, pp. 29 ss.

[2] Op. loc. cit..

[3] Antigone trad. it. di R. Cantarella, rist. Milano 2005, p. 271.

[4] V. Antigone 450-456, op. cit. p. 289.

[5] Op. cit. 283.

[6] Su ciò v. Hegel Die Phänomenologie des Geistes cit. pp. 31-32.

[7] Antigone op. cit. p. 272-273.

[8] Op. cit. p. 293.

[9] L’espressione di Creonte, sopra riportata nella traduzione italiana, può essere tradotta con “il nemico non è mai amico” la distinzione era ben nota già ad un ateniese del V° secolo, dato che la sua più chiara (ed argomentata) formulazione, in relazione alla consistenza e funzione della polis, è nelle  Eumenidi di Eschilo, rappresentate nel 458 a.c., cioè circa 15 anni prima dell’Antigone, la cui prima rappresentazione è collocata nel 442 a.c.. Sulle Eumenidi ed il rapporto amico/nemico come fondazione e consolidazione dell’unità politica v. lo studio di E. Werner

[10] V. Platone La Repubblica 332 a-e.

[11] Op. cit. p. 303.

[12] Op. cit. p. 305.

[13] Op. cit. p. 305-307.

[14] Si noti che Emone solo dopo parecchie battute fa riferimento alla legge (e alla giustizia) divina ed al rapporto tra re e Antigone. Per la maggior parte del dialogo si attiene ad argomenti “laici” e di saggezza politica, ovvero posti sulla stessa “lunghezza d’onda” del padre.

[15] Op. cit. p. 277.

[16] In tal senso la sanzione inflitta a Creonte appare il contrappasso alla violazione compiuta dal medesimo, condannando Antigone a non formarsi mai una famiglia (v. il reiterato richiamo a ciò, nel quarto episodio vv. 813-816 e 867-876), dopo aver perso tutti i componenti della propria (tranne Ismene). E il “reato” di Antigone era di aver rispettato i vincoli dell’adelphia; i vincoli della famiglia, la quale è considerata la prima cellula dell’ordine sociale.

[17] Op. cit. p. 101-102.

[18] Op. cit. p. 329.

[19] V. Schmitt Über die drei Artyen des Rechtwissenschaftlichen Denkens, trad. it. di P. Schiera nelle “Categorie del politico” Bologna 1972, p. 256 ss. In particolare p. 259.

[20] Op. cit. p. 289.

[21] V. Des constitutions politiques (Prefazione e capp. I – VII).

[22] Wirtshaft und Gesellshaft, trad. it., vol. I, Torino 1980 p. 210, v. anche p 34, vol. III (ex pluris) pp. 95 e ss.

[23] Critone, trad. it. di G. Reale, Milano 1996 p.143.

[24] Op. cit. p. 145.

[25] Op. cit. p. 147

[26] Op. cit. p. 147-149

[27] V. Précis de droit constitutionnel, in particolare capp. I e II, Paris 1929.

[28] Oltre che da Freund e da altri l’affermazione di tale distinzione è formulata con notevole efficacia e drammaticità da Hegel nell’introduzione alla Die verfassung Deutschlands.

[29] Un fenomeno analogo è conseguenza della secolarizzazione e della separazione tra potere temporale e spirituale, che come scriveva de Bonald si è tradotto nella perdita del carattere pubblico della religione, e nella sua riconduzione alla sfera privata (ovvero ad un fatto di coscienza e scelta personale).

[30] Lutero Sull’autorità temporale  in Oevreus, Genève, 1959, p. 15 ss.; Calvino L’institution chrétienne, Lib. IV, cap. XX; S. Tommaso d’Aquino De regimine principum, Lib. I, cap. I; Bossuet in Politique de Bossuet, Paris 1968, p. 79 ss.; in particolare parecchi teologi ricordano il salmo LXXXII, 6, con la frase Dii estis, indirizzata ai Re, che ritengono rappresentanti o vicari di Dio.

[31] V. M Hauriou Précis de droit constitutionnel Paris 1929, p. 29; R. Carré de Malberg Contribution à la théorie générale de l’Etat, Tome II, Paris 1922, pp. 149-152.

[32] V. sul punto S. Tommaso d’Aquino De regimine principum, lib. I, cap. 6; Francisco Suarez De Charitate; Juan de Mariana De rege et regis institutione, Lib. I, cap. V; Stephanus Junius Brutus Vindiciae contro tyrannos, trad. it. Torino 1994, pp. 61 ss. Si noti che le posizioni sono distinte e non coincidenti su diversi punti: ma tutti, implicitamente o esplicitamente escludono che un privato possa, da solo, promuovere legittimamente una seditio o uccidere il tiranno, il che significa ricondurre il tutto al pubblico, escludendo il privato (e il personale).

[33] V. I sette a Tebe, trad. it. di Leone Traverso, Roma 2000, p. 62.

[34] Op. cit., p. 47.

[35] Op. cit., p. 56.

[36] Op. cit., p. 58.

[37] Op. cit., p. 63.

[38] Hegel scrive “Considerando la cosa nel suo aspetto umano, ha commesso il peccato colui che, privo del possesso, assale la comunità di cui l’altro era a capo; viceversa ha dalla sua parte il diritto colui che seppe considerare l’altro soltanto come singolo, distaccato dalla comunità, e, in quella sua impotenza, lo mise al bando; egli ha offeso solo l’individuo come tale, non la comunità, non l’essenza del diritto umano. La comunità assalita e difesa dalla vuota singolarità, si conserva, e i fratelli trovano entrambi, l’uno mediante l’altro, la reciproca morte; l’individualità infatti, che per il suo esser-per-sé mette in pericolo l’intiero, ha escluso sé dalla comunità e si dissolve in se medesima. Ma la comunità renderà onore a quell’uno che si trovò dalla sua parte; l’altro invece, che già sulle mura pronunciò la sua distruzione, il governo punirà privandolo degli onori estremi” op. ult. cit. pp. 31-32.

[39] V. Plutarco, Vite parallele. Coriolano, trad. it. di L. M. Raffaelli, Milano 1992 p. 241.

[40] In effetti mentre il rapporto familiare gioca un ruolo d’opposizione nell’Antigone; questo ruolo è solo confermativo-corroborativo del rapporto con la polis nel discorso di Volumnia e nel comportamento di Coriolano. Nel discorso di Volumnia il parallelo famiglia/polis nel rapporto di maternità/filiazione è evidente. Come è evidente il prevalere del pubblico sul privato (sacrifica il figlio per la salvezza di Roma). In Coriolano (come in Polinice) il conflitto è tra diritto personale (individuale) e esistenza della polis. Sta di fatto che mentre per l’Orazio è stata necessaria l’espiazione (cioè la riparazione da una violazione) per aver ucciso un familiare, qua in Coriolano sacrificarsi per la patria è un dovere; e il conflitto è subito risolto. V. Sul terzo Orazio, l’uccisione e l’espiazione G. Dumézil, trad. it. di F. Bovoli, Milano 1990, pagg. 38 ss.

[41] Der untergang des abeslandes, trad. it. di J. Evola, p. 296 ss., Milano 1957.

24° podcast_ Botta e risposta, di Gianfranco Campa

Il Russiagate avrebbe dovuto essere la pietra tombale della Presidenza Trump. Si sta rivelando una caccia ai mulini a vento che rischia di ridicolizzare e discreditare ulteriormente i promotori. Per uscire dalla palude nella quale stanno annaspando senza vie di uscita cercano di aprire pretestuosamente nuovi filoni di indagine con veri e propri colpi di mano e abusi delle proprie funzioni e del proprio mandato. Un logoramento che sta consentendo a Trump di esibire nuovi campioni in grado di tener testa alle scorribande e di rendere la pariglia anche allo stesso livello. La discesa in campo di Rudolph Giuliani è particolarmente significativa. Efficace nel ribattere gli attacchi personali, al prezzo però del sacrificio progressivo dello staff che ha portato Trump alla Casa Bianca sull’onda di prospettive e strategie alternative oramai sempre più vaghe. Un duello che spinge a concentrare sempre più le forze nella tenzone con il risultato di allentare i fili che controllano le dinamiche nei paesi alleati più stretti. Tanto più che uno degli oggetti reali del contenzioso che fanno da sfondo alle faide riguarda il mantenimento o meno della rete di rapporti multilaterali costruiti in questi ultimi trenta anni oppure la loro ridefinizione attraverso una rinegoziazione  bilaterale con i principali paesi, compresi quelli aderenti al Patto Atlantico. Una dinamica che porta ad acuire le rivalità tra le varie potenze regionali ma che sembra altresì offrire qualche margine di azione inaspettato a nuovi centri politici in via di emersione. Ciò che sta accadendo in Italia potrebbe testimoniare un ulteriore passo verso questa direzione. Un processo che rende ancora più interessante ed offre un contesto verosimile alla narrazione inedita che Gianfranco Campa continua ad offrirci_ Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://soundcloud.com/user-159708855/podcast-episode-24

Valmy 2.0: Hybris & Nemesis, di Roberto Buffagni

 

Valmy 2.0: Hybris & Nemesis

 

Brutte cose e pericolose, l’arroganza e la supponenza. Ponendo il suo veto prima su Sapelli, poi su Savona, Mattarella ha spostato il centro del dibattito sulla legittimità. I ricami giuridici sulle prerogative del Presidente della Repubblica contano molto poco. Conta invece moltissimo la fonte della legittimazione di chi decide in quello che è divenuto uno “stato d’eccezione crepuscolare”. Se decide il Presidente della Repubblica, che in sostanza ha motivato i sui veti con la fedeltà alla UE, la fonte della legittimazione è la UE; se decidono i due partiti di maggioranza, la fonte della legittimazione è il popolo italiano, che esprime la sua sovranità con il voto a suffragio universale.

Ora, chi decide nello stato d’eccezione è il sovrano; e il difetto fondamentale della UE è proprio la mancanza di legittimazione in ordine all’unico principio legittimante valido nell’odierna  modernità: la sovranità popolare. Inevitabile quindi lo scontro istituzionale di principio, perché se Salvini cede, riconosce come fonte della legittimazione l’entità sovrannazionale non legittimata per via democratica della UE, e si suicida politicamente; se cede Mattarella, riconosce che la sovranità popolare espressa dal voto è sovraordinata alla UE, della quale si è sbadatamente autoeletto a rappresentante: e si suicida politicamente.

Se, come pare mentre scrivo, Salvini tien fermo sulle sue posizioni, forse Mattarella troverà una scappatoia dal vicolo cieco in cui si è infilato, e perderà soltanto mezza faccia. Per esempio, in una dichiarazione pubblica di Savona che ribadisca quanto è già perfettamente noto, e cioè che egli non vuole appiccare il fuoco a palazzo Berlaymont, ma semplicemente trattare con le istituzioni UE senza escludere in linea di principio la possibilità di rompere la trattativa, presupposto indispensabile in qualsiasi controversia, se non ci si vuole autosconfiggere ancor prima di aprire i negoziati.

Ma il danno, ormai, è fatto. Sono emerse in piena luce le tre questioni essenziali:

1) che la linea principale del conflitto politico oggi in corso verte sulla UE, e che tutti gli altri conflitti politici, sociali, economici, si subordinano ad esso

2) che la UE è un ferro di legno politico, perché rende l’omaggio ipocrita del vizio alla virtù alla legittimazione popolare, ma pretende di esservi sovraordinata senza possederla; che implementa questa pretesa con l’inganno e con il ricatto, ma non può implementarla con la forza: per riprendere un celebre detto cinese, che “la UE è una tigre di carta”

3) che le classi dirigenti proUE italiane si autocomprendono come accomandatari della UE e non del popolo italiano, e avendola passata liscia per più di vent’anni, la loro reazione irriflessa di fronte a una  sfida sul punto essenziale della legittimità è la hybris, l’arroganza supponente di chi neppure è sfiorato dal pensiero che gli si possa resistere.

Come ci insegnavano al ginnasio le nostre temibili, benemerite professoresse di greco, la hybris richiama su di sé la Nemesis. Avvenne anche, duecentotrent’anni fa, a Valmy. Un esercito di coscritti a cui la dirigenza rivoluzionaria plebea aveva appena messo in mano un fucile fronteggiò le armate di professionisti della guerra delle potenze europee dell’Ancien Régime. La battaglia, di fatto, non si combatté sul serio. Qualche scambio di artiglieria, qualche scaramuccia: niente di che, sul piano strettamente militare. Ma sul piano politico e simbolico, uno spartiacque epocale: i coscritti plebei, i falegnami, operai, avvocati, domestici che reggevano in mano un fucile senza saperlo maneggiare non erano scappati davanti agli splendidi reparti di guerrieri guidati ai principi. E chi non ha più paura, smette di essere un servo.

nb. articolo collegato http://italiaeilmondo.com/2018/05/26/mane-tekel-fares-di-antonio-de-martini/

Sovranisti e “servilisti” , di Teodoro Klitsche de la Grange

Sovranisti e “servilisti”

di Teodoro Klitsche de la Grange

Da qualche anno, da quando sono stati coniati i neo-logismi sovranismo e sovranista (probabilmente dal francese) il pensiero “politicamente corretto” (e relativi pensatori) si è lanciato in una, per esso abituale, opera di screditamento e demonizzazione. Sovranismo sarebbe un’ideologia guerrafondaia (??), passatista, dittatoriale, egoista e così via. I sovranisti poi demagoghi, ignoranti, cattivi, maleducati e cafoni (oibò!)

Sarebbe facile screditare questa ennesima campagna di (preteso) discredito con cui la classe dirigente in decadenza cerca di arrestare il volgere degli eventi, tutt’altro che propizi a quella, quanto favorevoli alle élite cafone. Un paio di perché – e un suggerimento (ripreso da fonte autorevole) – vorrei comunque proporre.

Il primo: a leggere la Treccani il significato di sovranismo è di “Posizione politica che propugna la difesa o la riconquista della sovranità nazionale da parte di un popolo o di uno Stato, in antitesi alle dinamiche della globalizzazione e in contrapposizione alle politiche sovrannazionali di concertazione”.  A seguirlo, bisogna cominciare con lo svalutare del tutto il nostro Risorgimento, e buona parte della storia moderna. I costruttori dello Stato nazionale italiano (da Cavour a Garibaldi, da Vittorio Emanuele II a Mazzini), forse non erano dei damerini (il Savoia era anche un po’ grossier) ma sicuramente non avrebbero acconsentito – il Piemonte prima, l’Italia poi tanto da fare quattro guerre all’uopo – che in nome di qualche idea, si fosse limitata l’indipendenza dell’Italia. Se per Metternich l’Italia  era un’ “espressione geografica” per loro era una comunità politica. E per esserlo doveva avere l’indipendenza (dalla volontà) e dagli interessi di altre potenze (e popoli). Del pari non avrebbero mai preteso di occupare Vienna, Praga, Lubiana o Zagabria (tant’è che neppure con lo sfascio dell’Impero asburgico lo fecero), neppure con la giustificazione di qualche ideale cosmopolita. Dato che, a ben vedere, il cosmopolitismo rientra nella classe delle alternative al patriottismo.

La seconda: le più interessanti e centrate definizioni di ciò che è la libertà, politica in specie, l’ha date S. Tommaso.

Come ho scritto in un precedente articolo per Rivoluzione liberale (Sovranismo e libertà politica) l’Aquinate sosteneva che è libero chi è causa di se (del suo): liber est qui causa sui est; e per chiarire ulteriormente definiva  servo chi è di altri (servus autem est, qui id quod est, alterius est).

Applicando queste due asserzioni di S. Tommaso non sono né libere, né comunità perfette quelle che giuridicamente e politicamente dipendono da altri e pertanto non hanno la piena disponibilità di determinare i propri scopi né i mezzi per conseguirli.

Per cui liberarsi da quella condizione di dipendenza è il requisito minimo per poter decidere del proprio destino. L’inverso è sopportare che lo decidano gli altri: come spesso capitato nella recente storia nazionale. Dato che né Di Maio né Salvini vogliono occupare, neppure Tripoli e Tirana, ma solo evitare di subire troppi condizionamenti in casa nostra, non sono dei pericolosi aggressori e guerrafondai.

Ciò stante passiamo al suggerimento.

Diceva Vittorio Emanuele Orlando in un famoso discorso pronunciato alla Costituente, chiedendo che l’assemblea non ratificasse il Trattato di pace: “considerate almeno questo lato della decisione odierna, il significato di questa accettazione, che avviene in un momento in cui essa non è necessaria; onde il vostro voto acquista il valore di un’accettazione volontaria di questa che è una rinuncia a quanto di più sacro vi è stato confidato dal popolo quando vi elesse: l’indipendenza e l’onore della Patria… Questi sono voti di cui si risponde dinanzi alle generazioni future: si risponde nei secoli di queste abiezioni fatte per cupidigia di servilità”.

Seguendo l’indicazione del Presidente della vittoria, non sarebbe il caso di cominciare a chiamare gli anti-sovranisti, mutuando l’espressione di Orlando: “servilisti”?

Teodoro Klitsche de la Grange

TARANTO, DA POLO SIDERURGICO A POLO STRATEGICO DELLA NATO, DI LUIGI LONGO

Qui sotto un saggio di Luigi Longo sugli interessi geopolitici che in qualche maniera stanno contribuendo a determinare, in maniera determinante, assieme al conflitto intracomunitario sulla ripartizione delle quote di produzione di acciaio, il destino infausto dello stabilimento ILVA di Taranto. Il testo è apparso nel 2013 su www.conflittiestrategie.com, sito con il quale sia lo scrivente che l’autore collaboravano.Giuseppe Germinario

Taranto, da polo siderurgico a polo strategico della NATO

di Luigi Longo

 

 

Quando si giunge ai beni della terra, allora

                                                                       il bene più grande si nomina inganno e pazzia.

                                                                       Quelle passioni alte che ci hanno dato la vita,

                                                                       di pietra si fanno nel caos del mondo.[…]

\                   Johann Wolfgang Goethe*

 

Colui che disse che la vita dell’uomo è una guerra,

                                                           disse almeno tanto gran verità nel senso profano

                                                           quanto nel sacro. Tutti noi combattiamo l’uno

                                                           contro l’altro, e combatteremo fino all’ultimo fiato,

                                                           senza tregua, senza patto, senza quartiere. Ciascuno

                                                           è nemico di ciascuno, e dalla sua parte non ha altri che

                                                           se stesso.[…] Del resto o vinto o vincitore, non bisogna

                                                           stancarsi mai di combattere, e lottare, e insultare e calpestare

                                                           chiunque ci ceda anche per un momento. Il mondo è

                                                           fatto così, e non come ce lo dipingevano a noi poveri

                                                           fanciulli.[…]

.                                                                                                                      Giacomo Leopardi*

 

Essere pessimisti circa le cose del mondo e la vita in

                                                           generale è un pleonasmo, ossia anticipare quello che

                                                           accadrà […]. La situazione politica in Italia è grave ma

                                                           non è seria[…].

Ennio Flaiano*

 

 

1.Il conflitto strategico all’Ilva di Taranto.Nel mio precedente scritto sulla questione dell’Ilva di Taranto ho avanzato l’ipotesi della trasformazione di questo polo siderurgico in polo strategico della NATO (1). Oggi, con il commissariamento dell’Ilva, questa ipotesi diventa più fondata, soprattutto se analizziamo le seguenti fasi: a) il decreto di commissariamento ( nomina di Enrico Bondi a commissario straordinario e di Edo Ronchi a sub commissario per la tutela ambientale ); b) il programma di intervento finalizzato nei fatti alla chimera della bonifica ambientale e della tutela della salute degli operai e della popolazione; c) la configurazione di blocchi di potere economico-portuale ( uso e riuso del porto ), economico-ambientale ( bonifica e risanamento ) e economico-territoriale ( rigenerazione urbana e nuovo ruolo della città ); d) la trasformazione, di fatto, a comando NATO della seconda base navale nel Mar Grande ( ubicata nella zona “Chiapparo”) e la costruzione della terza base navale NATO nel Mar Grande ( localizzata nel molo polisettoriale vicino al Molo Ovest del porto utilizzato dall’Ilva) (2); e) la nuova strategia USA nel mediterraneo ( soprattutto nei paesi del Nord Africa) e nel Medio Oriente (soprattutto in Siria e Iran).

La nuova strategia USA, che fa riferimento a Barak Obama e agli agenti dominanti che lo esprimono, assegna un ruolo importante all’Italia considerata uno spazio geografico asservito con infrastrutture militari strategiche ( armi e sistemi di comunicazioni), ovviamente, per questioni di sicurezza legate all’Europa, al Medio Oriente e all’Africa e già mai per costruire con tutta l’Europa [si veda il costruendo accordo di libero scambio USA-UE ( la NATO economica)] << la testa di ponte americana sul continente euroasiatico >> (Zbigniew Brzezinski) per l’accerchiamento militare della Russia (una potenza ri-emergente), temuta sopratutto per il suo arsenale militare nucleare (3), nella fase multipolare lagrassiana che si sta facendo sempre più vivace e incalzante.

Si può affermare che la nuova strategia USA di ri-orientamento, dopo il tramonto della illusione di essere diventata l’unico centro di ordine mondiale a seguito dell’implosione dell’ex URSS ( 2001-2003, la sconfitta del Nuovo ordine mondiale o del secondo secolo americano), porta a un conflitto per l’egemonia mondiale che può sfociare in un dominio meno unilaterale ( un assestamento della fase multipolare) o in una guerra mondiale ( fase policentrica) come la storia dimostra (4).

Gianfranco La Grassa sostiene che << Si deve partire dalla configurazione che sono andati assumendo i rapporti internazionali nella nostra area, e in quella vicina africana e mediorientale, per meglio valutare che cosa stia accadendo in Italia. Sembra di poter constatare che il mutamento strategico statunitense, precisatosi soprattutto negli ultimi anni, ha ormai bisogno di accelerare date trasformazioni nella subordinazione italiana >> (5); Gianfranco La Grassa ha ragione, soprattutto in considerazione del fatto che << Le strutture statunitensi in Italia permettono una capacita’ di azione unica e sono fondamentali per la nostra possibilità di promuovere la stabilita’ nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e nel Nord Africa. Abbiamo quindicimila uomini nelle sei basi italiane e questi insediamenti presentano alcune delle nostre più avanzate risorse schierate fuori dagli Stati Uniti [ corsivo mio] >> (6).

I segnali della suddetta accelerazione sono: 1) lo «Strategic Dialogue», una revisione complessiva della collaborazione tra Italia e Stati Uniti, che non avveniva da circa due anni, si è tenuta di recente a Roma. L’invito viene da Derek Chollet, Assistant Secretary of Defense for International Security Affairs, ossia il principale consigliere del capo del Pentagono Hagel per le questioni di sicurezza legate all’Europa, al Medio Oriente e all’Africa, che così afferma << Discutere il nostro rapporto strategico e le cose che possiamo fare insieme nel mondo. E’ un appuntamento che arriva in un momento cruciale: il quadro della sicurezza nella regione mediorientale e nordafricana sta cambiando velocemente, e l’Italia è un partner indispensabile per portare cambiamenti positivi ( corsivo mio)…L’Italia è un partner molto stretto su questa vicenda. Ha ospitato almeno un incontro degli Amici della Siria, i segretari Kerry e Panetta sono venuti da voi a parlare in varie occasioni. State dando un contributo importante con l’assistenza umanitaria, lavorando con paesi tipo la Giordania per rafforzare le loro difese, e aiutando a costruire un’opposizione coerente e capace di favorire i cambiamenti che vorremmo vedere in Siria [ corsivo mio] >> (7); 2) la nomina del nuovo ambasciatore USA in Italia, John Phillips e, soprattutto, la presenza della moglie Linda Douglass, ex portavoce della Casa Bianca sulla riforma della Sanità e una delle più quotate strateghe di Barak Obama, i quali aiuteranno il Presidente della Repubblica che garantisce la costituzione italiana fondata sulla sovranità popolare e non sulla servitù volontaria, a mettere ordine tra gli agenti sub-dominati italiani ( i cotonieri di Gianfranco La Grassa) in modo da gestire, senza eccesso di disordine, attraverso le istituzioni, l’asservimento del territorio italiano alla strategia degli agenti dominanti USA, in una fase molto delicata e in continua mutazione, soprattutto, come indica Derek Chollet, nella regione mediorientale e nordafricana (8).

Leggerò i fatti di Taranto secondo lo schema proposto per il conflitto strategico dell’Ilva.

2.Le città NATO. La città di Taranto è diventata una città importante per la strategia USA-NATO. Una città NATO. Gli agenti dominanti USA hanno bisogno della piena disponibilità del porto di Taranto (9), con i suoi Mar Piccolo e Mar Grande, per le loro infrastrutture militari strategiche ( sommergibili nucleari, armi, sistemi di sorveglianza). E’ da un decennio ( il tempo non è da leggere in maniera lineare e deterministico) che stanno lavorando a questa trasformazione che si innerva con quelle trasformazioni messe in atto in altre basi militari USA-NATO ( Napoli, Sigonella, Niscemi, Vicenza) e alla trasformazione del ruolo della NATO (10).

Nel porto di Taranto è localizzata, dalla prima metà degli anni sessanta del secolo scorso, l’Ilva che è evidentemente incompatibile con la strategia della trasformazione delle basi NATO.

Noto una certa analogia, da prendere con cautela e calarla storicamente, con la storia industriale della più grande acciaieria di Napoli, l’Ilva di Bagnoli. Anche qui gli obiettivi erano le esigenze strategiche e territoriali della base NATO della città di Napoli ( quartier generale della NATO, sede di vari comandi di unità di servizi USA, grande centro per le telecomunicazioni del Mediterraneo dell’US Navy che coordina tutta l’attività di comunicazione, comando e controllo del Mediterraneo, eccetera). In quegli anni si svolgevano fatti di importanza mondiale per il nuovo equilibrio che si andava configurando con la caduta del muro di Berlino e con la successiva implosione dell’ex URSS. Si aprivano nuovi scenari per gli USA come possibilità di un unico centro di coordinamento mondiale e un nuovo ruolo della NATO. La chiusura dell’Ilva di Napoli per le esigenze territoriali della base del quartiere generale della NATO non poteva essere detta. Tutto fu velato dietro un fumoso progetto per il risanamento e il rilancio dello sviluppo della città di Napoli che passava attraverso il conflitto tra i settori economici (industriale, edilizio, turistico) : il progetto Fiat-Partecipazioni Statali degli anni ’80, l’idea della NeoNapoli di Paolo Cirino Pomicino, la fase di Tangentopoli, le lotte di blocchi di potere per i finanziamenti della bonifica di Bagnoli, non realizzata ( dal 2003 sono stati presentati ben 6 progetti di bonifica), gli indirizzi per la pianificazione urbanistica ( impianti di eccellenza per il turismo legato al sistema congressuale alberghiero, grande parco pubblico, rete di attività produttive connesse con la ricerca scientifica, eccetera).

L’Ilva di Bagnoli, una impresa in piena salute, fu chiusa e venduta ai cinesi (11).

Un sindaco, Antonio Bassolino, e un urbanista, Vezio De Lucia (i nomi sono l’espressione di gruppi di potere in riferimento agli agenti sub-dominanti), gestirono la fase di velamento culturale e ideologico della grande trasformazione della città di Napoli.

Anche qui occorse un decennio per preparare la trasformazione.

 

3.Il ruolo della magistratura. L’inizio della fine ( che avrà i suoi tempi) dell’Ilva di Taranto è datato dall’azione della magistratura che il 26 luglio 2012 dispone il sequestro preventivo, senza facoltà d’uso, degli impianti dell’area a caldo dell’Ilva. L’azione è intrapresa per tutelare, con mezzo secolo di ritardo, i sacri principi costituzionali di tutela della salute dei lavoratori, della popolazione e del territorio. E’ logico pensare, considerato che la magistratura agisce sull’intero territorio nazionale, che tutti i poli siderurgici e petrolchimici abbiano lo stesso interessamento, se così non fosse rimarrebbe sempre la domanda in sospeso: perché l’Ilva di Taranto?.

Se dovessimo tutelare i suddetti sacri principi costituzionali (12) dovremmo chiudere qualsiasi impresa di produzione di merce, ma a questo punto non saremmo più nella società capitalistica. E non credo che la magistratura pensasse ad un’altra società. Infatti la sua azione sembra quella di difendere i sacri principi costituzionali elevandoli su un edificio sociale costruito con fondamenta di ingiustizie, di sperequazioni, di privilegi, di inganni, di ruberie, di pazzie e di guerre.

Giorgio Nebbia, che è un noto merceologo, ha scritto di recente che <<… la produzione dell’acciaio, come di qualsiasi altra merce, è accompagnata, inevitabilmente [corsivo mio], da scorie, rifiuti e nocività: la natura non dà niente gratis [ lui essendo un merceologo si ferma alla natura e non pensa ai rapporti sociali che determinano la forma, lo sviluppo della produzione e l’uso della natura, mia critica] >> (13). Ha sostenuto un grande medico e scienziato, Giulio Maccacaro, che << …c’è un solo MAC [Massima Concentrazione Accettabile di una sostanza, mia precisazione] accettabile ed è quello zero…>> (14). Nella società a modo di produzione capitalistico non esiste un processo produttivo a MAC zero.

La magistratura sa che non ci sono le risorse finanziare per risanare e bonificare il territorio, ammesso e non concesso che ciò sia possibile!, e per questo dà la caccia al tesoro finanziario della famiglia Riva la quale metterà in campo, visto il potere che le deriva dal condurre un’impresa di livello mondiale ( il gruppo Riva nel 2011 è il primo nel settore in Italia, quarto in Europa e ventitreesimo nel mondo), tutte le sue relazioni economiche, politiche, finanziarie, istituzionali ( la grande impresa non è solo ciclo economico), per contrastare il sequestro delle sue risorse finanziarie.

La storia economica reale dei poli siderurgici e petrolchimici dimostra che c’è la privatizzazione dei benefici e la socializzazione delle perdite ( umane, ambientali e territoriali).

Le risorse finanziarie che la magistratura intende confiscare alla famiglia Riva, tramite la capogruppo Riva Fire (15), sono pari a 8 miliardi e 100 milioni di euro. La somma stabilita equivale, secondo la magistratura, ad << …un indebito vantaggio economico all’Ilva ai danni della popolazione e dell’ambiente >> e sarebbero destinate agli interventi di risanamento e bonifica territoriale. Dalle risorse finanziarie da confiscare sono esclusi i costi per la bonifica di acqua e suolo ai parchi minerali, oltre al profitto necessario per continuare la produzione. E’ evidente che con queste condizioni l’impresa Ilva non è in grado di pianificare il piano industriale 2013-2018. Ed è evidente che il peso per contrattare a livello europeo, in una fase competitiva sempre più agguerrita [ francesi, tedeschi e turchi stanno già beneficiando della crisi dell’ILVA](16), gli aiuti del piano siderurgico predisposto dalla Commissione Europea sarà pari a zero, per non parlare del ruolo, nella sostanza assente, dello Stato italiano. Ricordo che l’Ilva è stata decapitata del gruppo dirigente strategico e tecnico.

A Napoli fu la sfera economica, intrecciata alla sfera ideologica, la teste di ariete per la base NATO, a Taranto è la sfera della magistratura, innervata alla sfera ideologica, ad essere la testa di ariete della NATO.

 

4.Il ruolo del governo. L’Ilva, è utile ricordarlo, è una impresa di livello mondiale, con il più grande impianto siderurgico d’Europa, che produce acciaio, una merce base dell’economia italiana e mondiale. E’ un’impresa strategica per l’economia italiana. Ha una occupazione diretta di circa 12 mila lavoratori, a cui deve aggiungersi un indotto strettamente collegato sul piano verticale che porta l’occupazione diretta a oltre 15 mila unità. A questo dato devono sommarsi 9.200 unità legate all’indotto, per un totale complessivo di occupazione pari a oltre 24 mila occupati (17).

L’intervento del governo si concentra in tre direzioni: a) l’esproprio di una grande impresa (con la beffa del richiamo agli articoli 32, 41 e 43 della Costituzione, mai vista nella storia dell’industria italiana); b) la bonifica dell’ambiente, la tutela della salute e la salvaguardia del territorio; c) l’applicazione dell’ AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) al processo produttivo dell’Ilva, anticipata e integrata con le migliori tecnologie disponibili da impiegare nel settore della siderurgia a livello europeo per assicurare la protezione dell’ambiente e la protezione della salute così come da decisione della Commissione Europea 2012/135/UE ( la Commissione Europea dà tempo fino 2016 per uniformarsi).

La domanda viene spontanea: perché anticipare di tre anni il recepimento della suddetta decisione della Commissione UE creando uno squilibrio nel mercato della concorrenza tra le imprese del settore siderurgico ( scusate il linguaggio neoclassico)? E il recepimento della suddetta decisione della Commissione Europea nell’AIA non significa non rendere competitiva l’Ilva e avviarla alla chiusura?. E’ questo il modo di difendere un’industria strategica da parte del governo italiano?

Andiamo avanti nel ragionamento.

Tutto questo, ovviamente, avverrà di pari passo con la elaborazione del piano industriale per il rilancio dell’Ilva e del piano ambientale per la tutela del territorio ( città, mare e territorio rurale) e della salute dei lavoratori e della popolazione.

Così ragiona il ministro dello sviluppo economico Flavio Zanonato: << Il costo di un’eventuale chiusura dell’impianto avrebbe conseguenze negative gravi sul piano economico e, comunque, determinerebbe il consolidamento di una situazione che, secondo i magistrati di Taranto, è da considerarsi di disastro ambientale. L’impatto economico negativo è stato valutato attorno ad oltre 8 miliardi di euro annui, imputabili per circa 6 miliardi alla crescita delle importazioni, per 1,2 miliardi al sostegno al reddito ed ai minori introiti per l’amministrazione pubblica e per circa 500 milioni in termini di minore capacità di spesa per il territorio direttamente interessato. In una fase di calo globale del mercato, è evidente che l’eventuale uscita dello stabilimento di Taranto sarebbe guardata con estrema soddisfazione dai maggiori competitor europei e mondiali, che vedrebbero aumentare le proprie prospettive di mercato a tutto danno del sistema produttivo italiano. Anche un’eventuale vendita ad operatori internazionali esporrebbe il nostro Paese al rischio di un forte impoverimento della capacità tecnologica e di innovazione. L’importanza strategica di questo complesso industriale non può, però, far venir meno gli obblighi di tutela ambientale da cui dipende la qualità della vita dei cittadini di Taranto. La crescita economica e la salvaguardia della salute non sono, in particolare in questo caso, due diritti contrapposti e la prima non si può certo perseguire facendo soccombere la seconda [ corsivo mio]. Il Governo, quindi, tende ad adottare tutte le azioni utili a tutelare l’ambiente e la vivibilità della città di Taranto nella consapevolezza che un’interruzione della produzione peggiorerebbe ulteriormente la situazione rendendo impossibile la bonifica dei siti inquinati. La sopravvivenza dello stabilimento è, oggi, dunque, legata alla capacità dell’azienda di mettere in atto gli investimenti necessari a rendere compatibile l’impianto con le norme ambientali e di sicurezza sulla salute dei cittadini  [ corsivo mio]>> (18).

La priorità del governo nella questione Ilva è tutta incentrata sulla questione ambientale, sulla tutela della salute e sul risanamento della città. Basta avere la pazienza di leggere i dibattiti parlamentari, gli atti delle Commissioni Parlamentari (VIII e X), i decreti legge, i disegni di legge di conversione dei decreti, per rendersene conto direttamente. Anche il Vice presidente della Commissione Europea, Antonio Tajani, privilegia l’aspetto ambientale della questione Ilva anche perché nel piano siderurgico dell’Unione Europea, che illustra uno scenario di grande crisi, non c’è spazio per una grande impresa come l’Ilva, tra l’altro impossibilitata ad agire perchè in fase di esproprio temporaneo, e le condizioni di rilancio del settore siderurgico previste nel suddetto piano necessitano di una forte presenza dello Stato che abbia un minimo di strategia di politica economica sovrana e che sappia difendere le sue industrie strategiche e, in una logica di sviluppo economico, sappia ridurre i costi eccessivi dell’energia che <<… pesa fino al 40% sui costi di produzione di un impianto siderurgico, per cui il settore risente fortemente del trend dei costi energetici che, in Europa, sono tra i più alti al mondo >> e rilanciare i due settori di maggior consumo di acciaio (le costruzioni e la produzione di auto) così come fanno la Germania e la Francia (19).

L’Unione Europea sta indagando sull’Ilva di Taranto e vuole sapere dal Governo italiano, dalla regione Puglia e dall’Arpa/Puglia, come si sta combattendo l’inquinamento, come si gestiscono le discariche, i rifiuti e le acque reflue. Chiede inoltre di sapere se sono stati violati il diritto alla vita e il rispetto della vita privata e familiare (articolo 2 e 7 della Carta dei diritti fondamentali della UE) (20).

Il governo italiano sta chiudendo tutte le imprese strategiche appartenenti ai settori innovativi ( inutile fare l’elenco); è in forte crisi anche il tanto lodato e non strategico made in Italy; la Banca d’Italia è preoccupata per la tenuta dell’intero sistema industriale (si vedano gli ultimi bollettini economici della Banca d’Italia). Stiamo in una crisi profonda di portata epocale per la quale l’80% della popolazione non vive bene.

A chi pensate che la UE taglierà la produzione, per ridurre la propria sovraccapacità, che ammonta a 80 milioni e rappresenta oltre 1/3 della produzione complessiva ?

Il governo italiano, mentre chiude le sue imprese strategiche, per assecondare gli agenti strategici americani, con grandi perdite nelle relazioni geopolitiche e geoeconomiche, diventando sempre più un territorio dove << i gabinetti stranieri [sono] a decidere la sorte della nazione >> , decide per decreto (articolo 1 del decreto legge del 3 dicembre 2012 n.207) di trasformare l’Ilva in impresa strategica ed espropriarla per affidarla alla gestione pubblica per il risanamento aziendale e territoriale per poi restituirla ai proprietari. Come se i luoghi pubblici, i luoghi dell’interesse generale, i luoghi delle istituzioni ramificate territorialmente, i luoghi dello Stato, fossero luoghi dove si espleta la politica dell’interesse generale del Paese e non invece, luoghi dove i gruppi strategicamente egemonici ( pre-dominati e sub-dominanti) realizzano i loro indirizzi strategici di dominio (21).

Non solo, ma la difesa ambientale e la salute delle popolazioni, per cui è stata espropriata l’Ilva, è ideologica ( nell’accezione negativa del termine) e strumentale da parte del governo italiano, tant’è che all’articolo 41, comma 1, del decreto legge n.69/2013[ il cosiddetto decreto del fare (sic)], si legge  <<…nei casi in cui le acque di falda contaminate determinano una situazione di rischio sanitario, oltre all’eliminazione della fonte di contaminazione ove possibile ed economicamente sostenibile…>>. E’ ovvio che l’economicamente sostenibile si riferisce alle imprese. E, allora, i tanto decantati articoli 41 e 43 della Costituzione italiana si applicano soltanto all’Ilva? Se interpreto bene il citato articolo, mi ritorna di nuovo la domanda: perché L’Ilva? E i giuslavoristi, i costituzionalisti, i difensori estremi della Costituzione non hanno niente da dire sulla incostituzionalità del citato comma?

Se fosse vivente il grande storico Carlo Maria Cipolla certamente avrebbe aggiornato il suo magnifico saggio ( Allegro ma non troppo) sulle leggi fondamentali della stupidità umana.

5.Il ruolo dei Commissari. Per realizzare questo grande disegno di rilancio dell’Ilva e di risanamento ambientale e territoriale vengono nominati un Commissario Straordinario, nella persona di Enrico Bondi, già amministratore delegato dell’Ilva nominato dalla famiglia Riva, e un sub Commissario all’ambiente nella persona di Edo Ronchi ( un confusionario della generazione “sessantottopersa” nel distorto benessere capitalistico, che ha scambiato una rivoluzione di costume e di consumo per una rivoluzione sociale nell’accezione marxiana e leniniana, esperto di sviluppo sostenibile, stimato dagli ambientalisti e dai radicali di sinistra, in quota nel PD). Entrambi traghetteranno, in un continuo gioco delle parti, se le cose dette hanno un minimo di sensatezza, l’Ilva alla chiusura. Sono gli esecutori, insieme ai loro gruppi di potere, degli ordini degli agenti strategici sub dominanti italiani alla mercè dei desiderata dei predominanti USA via NATO. A ciò è servito l’applicazione del citato artico 1 del D.L. n.207/2012, altro che interesse pubblico o interesse generale o bene del Paese.

Enrico Bondi, con il suo gruppo di potere di riferimento, medierà con la proprietà una chiusura dignitosa dal punto di vista economico-finanziario magari aiutando l’Ilva a de-localizzare nei Balcani.

Edo Ronchi, con il suo gruppo di potere di riferimento, lavorerà ad un grande piano di risanamento dell’ambiente, della città e del territorio rendendo << … gli stabilimenti Ilva un punto di riferimento in Europa, anticipando di tre anni le migliori tecnologie disponibili (Best Available Technologies, BAT) che saranno applicate in ambito europeo a partire dal 2016. Nella consapevolezza di una situazione di assoluta emergenza, il Governo intende tuttavia giungere alla realizzazione dello stabilimento più avanzato in Europa in termini di compatibilità ambientale…>> (22).

La UE, il governo italiano, la regione Puglia e il comune di Taranto sono i luoghi istituzionali dove saranno gestite le risorse finanziarie ( derogando al Patto di stabilità) per il rilancio di uno sviluppo dell’area tarantina nei settori della bonifica ambientale, del risanamento del territorio, della rigenerazione urbana della città, della smart city, del riuso del porto ( l’Autorità Portuale vede con favore la chiusura dell’Ilva per puntare a un riuso del porto e al superamento dell’attuale crisi sul modello di quello di Rotterdam: fare di Taranto, la Rotterdam del Mediterraneo) (23), eccetera, in stretta collaborazione con le strategie di intervento che integrano la dimensione militare e quella civile della NATO.

I sindacati, i partiti convergeranno, per gestire la fase di passaggio dal polo siderurgico al polo NATO, le loro azioni per difendere il lavoro (intanto ci saranno a luglio i primi 2 mila esuberi per crisi di mercato) (24) e la dignità della popolazione con i meccanismi di difesa sociale, ridotti all’osso, del fu stato sociale.

I lavoratori e le lavoratrici si chiederanno, come Vincenzo Buonocore dell’Ilva di Bagnoli, perché l’Ilva è stata chiusa ?

La popolazione di Taranto continuerà a credere che nella società capitalistica è possibile un modo di produzione rispettoso della salute, dell’ambiente e del territorio e dorme tranquilla perché sa che ha come Presidente della Repubblica un garante intransigente della Costituzione italiana.

La sfera ideologica è già al lavoro.

Non è la marxiana storia che si ripete diventando farsa, ma è la lagrassiana storia che torna in maniera diversa.

 

 

*Le citazioni che ho scelto come epigrafe sono tratte da:

 

  • Johann Wolfang Goethe, Faust, a cura di Franco Fortini, Mondadori, Milano, 1970, pag.53;
  • Giacomo Leopardi, Con pieno spargimento di cuore, L’Orma editore, 2012,pp.43-44;
  • Ennio Flaiano, Diario notturno, Adelphi, Milano, 2012, pp. 114 e 165.

 

 

NOTE

 

1.In Italia esistono ufficialmente 120 basi dichiarate, oltre a 20 basi militari USA totalmente segrete e ad un numero variabile ( al momento sono una sessantina) di insediamenti militari o semplicemente residenziali con la presenza di militari USA. Per quanto riguarda le basi segrete, non si sa ovviamente dove siano, né che armi e che mezzi vi si trovino. Cfr Le basi militari Usa e Nato in Italia in www.neoingegneria.com

2.La prima base navale della Marina Militare Italiana è ubicata nel Mar Piccolo. Il Mar Piccolo è un’area militarizzata se consideriamo la presenza dell’Aeronautica Militare con un deposito sotterraneo di rifornimento più grande del Sud- Italia. Oltre ad infrastrutture e servitù militari. Il Mar Grande è lo specchio d’acqua della parte settentrionale del Golfo di Taranto ( con profondità massima di 36 m), compreso tra il continente e le isole Cheradi; comunica con il Mar Piccolo per mezzo di due canali, che isolano il centro storico di Taranto. Il Mar Piccolo è lo specchio d’acqua delle coste pugliesi ( 20 Km2, perimetro 26,5 Km), che comunica con il Golfo per mezzo di due canali stretti, uno naturale, l’altro artificiale e navigabile; è diviso in due bacini dalla penisola di Punta Penna ed è poco profondo (10 m). Numerose sorgenti subacquee (citri) rendono l’acqua meno salata rispetto al mare aperto, creando condizioni favorevoli per la mitilicoltura.

3.Peter Dale Scott, Droga, petrolio e guerra in www.eurasia-rivista.org , luglio 2013.

4.Per approfondimenti si rimanda a Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008; Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, a cura di Giorgio Cesarale e Mario Pianta, Manifestolibri, Roma, 2010; Henry Kissinger, Cina, Mondadori, Milano, 2011.

5.Gianfranco La Grassa, Situazione pericolosa e instabile inwww.conflittiestrategie.it, giugno 2013.

6.Si rimanda al Rapporto del 2009, redatto dall’incaricata d’affari dell’ambasciata USA Elizabeth Dibble per Barak Obama, pubblicato a cura di Giuseppe Germinario in www.conflittiestrategie.it, 2013.

7.Paolo Mastrolilli, L’Italia è decisiva in Siria per costruire l’opposizione, intervista a Derek Chollet, in La Stampa del 22 giugno 2013.

8.Negli USA i diplomatici importanti, come Thomas Pickering ambasciatore in Russia, India, Israele, hanno criticato Barak Obama perché ha affidato le migliori ambasciate agli uomini che hanno abbondantemente finanziato la sua campagna elettorale. Beh, che si aspettavano? Fa parte del gioco della lotta tra agenti dominanti con orientamenti e strategie diverse. Ma il problema non è solo semplicemente utilitaristico, Barak Obama sta mettendo uomini e donne fidati e “capaci” nelle nazioni importanti per la sua strategia. L’Italia è una nazione-territorio importante. Per la cronaca John Phillips e Linda Douglass sono proprietari del borgo Finocchieto vicino a Buonconvento in provincia di Siena (Toscana). Hanno deciso di gestire direttamente il proprio giardino perché non si fidano dei giardinieri italiani. Sta finendo anche il nostro made in Italy di nazione-giardino più bella del mondo!

9.Lo smantellamento, nel breve-medio periodo, della storica impresa dell’Arsenale della Marina Militare Italiana, con perdita di 1.200 posti di lavoro, il trasferimento del 70% dei traffici al porto Pireo (Atene) dei due giganti asiatici del trasporto marittimo, la taiwanese Evergreen Maritime Corporation e la cinese Hutchison Whampoa che controllano al 90% la società terminalistica dello scalo pugliese ( la Taranto Container Terminal), rientra nella logica della piena disponibilità del porto di Taranto alla Nato. Infatti nella strategia Usa-Nato è prevista la messa in comune di spazi e infrastrutture militari e civili localizzati per aree europee per superare le difficoltà connesse a) alle installazioni militari, b) al controllo del territorio, c) alla contribuzione finanziaria dei paesi Nato, d) al coordinamento delle politiche di difesa, e) alla prevenzione dei conflitti, f) al sostegno della ricostruzione post-conflitto delle aree di intervento, g) alle strategie di integrazione della ricostruzione economica e istituzionale, h) alla militarizzazione delle grandi città.

10.Sulla trasformazione del ruolo della Nato mi permetto di rinviare al mio scritto “Tav, corridoio V, Nato e Usa. Dalla critica dell’economia politica al conflitto strategico” in www.conflittiestrategie.it, 2012.

11.L’Ilva di Bagnoli contava a partire dal 1973 più di 7698 posti di lavoro. Fu chiusa nel 1991. Si veda il romanzo industriale di Ermanno Rea, La dismissione, Rizzoli, Milano, 2002; per una ricostruzione della mancata bonifica dell’area dell’Ilva si rimanda a Dario Del Porto, Napoli, sequestrata area ex Italsider. La procura: disastro ambientale in www.napoli.repubblica.it, 11 aprile 2013; Redazione, Colpo di genio su Bagnoli: la bonifica è in ritardo? Riduciamo il perimetro! in www.lanottata.it, 2013.

12.Il convegno organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza di Taranto, il 14 giugno 2013, su << Sviluppo economico e tutela dell’ambiente nel rispetto dei diritti contrapposti. Il caso Ilva a Taranto >>, è stato tutto un appiattimento sui principi vuoti della tutela della salute, dell’inquinamento, sui limiti dell’utilità sociale delle imprese, eccetera, principi sanciti dagli artt. 32, 41 e 43 della Costituzione italiana. Cfr L’intervento della giuslavorista Angelica Riccardi, docente di Diritto del lavoro dell’Università degli Studi di Bari in www.peacelink.it, giugno 2013.

  1. Giorgio Nebbia, L’acciaieria non è un salotto in www.ecologiapolitica.org., luglio 2013.

14.Giulio Maccacaro, Per una medicina da rinnovare, scritti 1966-1976, Feltrinelli, Milano, pag. 314; Lorenzo Tomatis, Riflessioni su Giulio Maccacaro e i rischi attribuiti ad agenti chimici in << Epidemiologia & Salute >>, luglio-ottobre 2004.

15.La Riva Fire ( acronimo di Finanziaria Industriale Riva Emilio), che ha sede a Milano, ha come principali società: Riva acciaio SpA, che controlla anche le principali consociate estere, che raggruppa le attività nell’acciaio da forno elettrico (produzione di semiprodotti e prodotti lunghi) e nel recupero del rottame di ferro; Ilva SpA, che produce acciaio da ciclo integrale ( prodotti piani).

16.Commissione Europea, Piano d’azione per una siderurgia europea competitiva e sostenibile in www.europa,eu , giugno 2013; Antonio Tajani, Piano d’azione Acciaio, conferenza stampa, Strasburgo, giugno 2013 in www.europa.eu.

17.I dati occupazionali sono di fonte governativa. Essi si trovano nella introduzione al disegno di legge di conversione del decreto legge n.61/2013, camera dei deputati, atti parlamentari in www.camera.it . Sul sito web della camera è possibile leggere tutto il dibattito parlamentare, il lavoro delle Commissioni, i decreti leggi e l’ultimo disegno di legge approvato alla Camera e mandato al Senato per l’approvazione definitiva ( si suppone).

  1. Intervento del Ministro dello sviluppo economico alla Camera dei deputati del 4 giugno 2013, seduta n.28, in www.camera.it .
  2. 19. Antonio Tajani, Piano d’azione Acciaio, op.cit.

20.Mimmo Mazza, “ Violato diritto alla vita”, l’Europa indaga sull’Ilva in << La Gazzetta del Mezzogiorno >> del 17 luglio 2013.

21.Per un approfondimento si rinvia a Gianfranco La Grassa, L’altra strada. Per uscire dall’impasse teorico, Mimesis edizioni, Milano-Udine, 2012; Idem, Un pot-pourri, che spero interessi in www.conflittiestrategie.it , maggio 2013; Idem, Quali prospettive ( al momento pessime?) in www.conflittiestrategie.it , luglio 2013.

 

  1. Intervento del Sottosegretario allo sviluppo economico alle Commissioni riunite ( VIII, ambiente, territorio e lavori pubblici e X, attività produttive, commercio e turismo), 11 giugno 2013, in www.camera.it .
  2. 23. Per un’idea della gravità della crisi del Porto di Taranto riporto quanto dichiarato in sede di << Accordo per lo sviluppo dei traffici containerizzati nel porto di Taranto e il superamento dello stato d’emergenza socio-economico ambientale >> presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti << La nuova grande portualità commerciale del Mezzogiorno d’Italia è nata in tempi relativamente recenti fondandosi su due HUB: Gioia Tauro e Taranto. Nell’ultimo quinquennio il Mediterraneo è diventato un mare ad alta competitività a causa di ulteriori offerte di servizi portuali di transshipment, prima inesistenti: da Porto Said a Tangeri, sulla sponda Africana; dal Pireo ad Algesiras, nel Sud Europa. A causa della concorrenza di tali porti, dei ritardi infrastrutturali ed al lungo periodo di crisi internazionale tutt’ora in corso, il porto di Taranto sta vivendo un periodo di forte crisi con conseguenze estremamente negative che potrebbero ulteriormente aggravarsi in assenza di azioni che consentano una rapida realizzazione delle esistenti progettualità. Per questi motivi, gli eventi degli ultimi anni hanno generato aggravi economici agli operatori, oltre al gravissimo danno d’immagine del porto verso il mercato internazionale >>. Il suddetto Accordo è pubblicato sul BURP n.100 del 10 luglio 2012 della regione Puglia ( regione.puglia.it ); Ferruccio Pinotti, Taranto dal porto arriva la speranza in << il Corriere della Sera >> del 30 agosto 2012.

24.Domenico Palmiotti, Ilva Taranto l’alto forno 2 e l’acciaieria 1: 2 mila a casa da luglio in << Il Sole 24 Ore >> del 12 giugno 2013.

 

 

 

 

IL CONTRATTO DI GOVERNO, di Giuseppe Germinario

altri articoli sull’argomento:

http://italiaeilmondo.com/2018/05/24/dalla-mia-palla-di-cristallo-governo-lega-5-eccetera-che-accadra-di-roberto-buffagni/

IL GUARDIANO DELLA (AUGURABILMENTE DEFUNTA) COSTITUZIONE REALE, di Massimo Morigi

 

In due settimane il cerchio di fuoco tracciato dal Presidente della Repubblica, iniziato con il suo discorso alla Badia di Fiesole si chiude al momento con l’incarico di governo. Al centro le fiere impegnate al grande salto: il duo Salvini-Di Maio con il contratto di governo appena firmato, il PD in piena fibrillazione, il riabilitato Berlusconi.

IL DOMATORE

Il domatore Mattarella ha iniziato a sollevare la barriera utilizzando la strumentazione che conosce da tempo, appresa tale e quale dai suoi padri. L’ha esibita come un automa a Fiesole, con una retorica senza pathos. http://www.quirinale.it/elementi/Continua.aspx?tipo=Video&key=2751&vKey=2475&fVideo=7

  • Ha rievocato le gesta intrepide e gli ideali dei padri fondatori della Unione Europea, omettendo la loro condizione di grave sudditanza politica rispetto al vincitore di campo dell’ultimo conflitto mondiale.
  • Ha rintuzzato le critiche sulla natura oligarchica, burocratica, autoritaria dei centri di potere comunitari sottolineando che le decisioni erano prese democraticamente dai capi di governi europei in concerto tra loro. Ha smontato così almeno parzialmente le ragioni e il bersaglio di una critica ricorrente, prestando però il fianco a due argomenti ancora più dirimenti e ostici da contestare, specie per bocca di un uomo di legge. Intanto le decisioni comunitarie, in quanto frutto di trattative tra capi di governo, non possono avere natura democratica ma sono il frutto di decisioni diplomatiche. Democratica può essere tutt’al più l’elezione dei vari capi di governo. È il riconoscimento implicito che la UE è un consesso frutto di trattati tra stati nazionali piuttosto che una istituzione sovrana. È una affermazione che sposta quindi l’attenzione sull’aspetto cruciale e dolente, ma regolarmente eluso, delle vicende comunitarie viste da un punto di vista nazionale: l’esistenza di una classe dirigente nazionale nella quasi totalità progressivamente senza ambizione di autonomia decisionale, senza capacità operativa e con una smaccata propensione alla sudditanza esterofila.
  • Prosegue ostinatamente nel rappresentare l’attuale processo comunitario come ineludibile nelle forme e nei tempi secondo l’impostazione funzionalista di Monnet. Con questo rimuove le diverse opzioni e punti di vista nelle relazioni tra stati europei presenti sin dall’immediato dopoguerra e che hanno attraversato il processo di costruzione comunitario; soprattutto, di fronte alle crepe sempre più evidenti nella costruzione, rischia di lasciare il paese ancora una volta spiazzato e in balia di scelte altrui

Mattarella merita per altro un filo di comprensione umana. L’arena era stata predisposta per un duetto Renzi-Berlusconi con eventuali altre comparse. La seconda opzione, scaturita dall’esito elettorale imprevisto nelle dimensioni, prevedeva di assecondare le pulsioni europeiste più conformiste presenti nel M5S con un accordo con il PD. Un tentativo reso vano dalla presa ferrea di Renzi su un partito smarrito e dalla sua convinzione di poter sgominare rapidamente i pentastellati stando alla finestra e giocando sulle leve di cui dispone e dalle quali è mosso. Non gli resta che tentare di porre un argine, forzando le proprie stesse prerogative e provare ad incanalarlo sulla retta via sia pure a costo di qualche pesante concessione redistributiva. Della perla rilasciata riguardante il varo di un “Governo Neutrale” non serve dilungarsi. Da pensionato Mattarella dovrà spiegare il nesso profondo tra il concetto di neutralità e quello di politico; una impresa particolarmente ardua anche per il più fervido sostenitore del governo mondiale e dell’ecumenismo. È l’espressione di una classe dirigente dimessa, smarrita e senza argomenti in grado di raccogliere un blocco sociale coeso e un popolo.

LE FIERE AL CENTRO DELL’ARENA

A giudicare dalle enunciazioni di principio del “contratto di governo” sottoscritto da Salvini e Di Maio, Mattarella sembra riuscire nella terza opzione. https://www.quotidiano.net/polopoly_fs/1.3919629.1526651257!/menu/standard/file/contratto_governo.pdf Le modifiche apportate in corso d’opera nelle tre edizioni del documento lasciano intuire l’enormità delle pressioni subite dalla coppia di governo. Il giuramento di fedeltà alla NATO, la rivendicazione del rispetto integrale del Trattato di Maastricht e di Lisbona sarebbero lì a certificare la ortodossa professione di fede dei neofiti, la pesantezza e la compromissione delle cambiali firmate da Di Maio nel suo giro preelettorale in Europa e negli Stati Uniti in cerca di investiture e la spavalda remissività di Salvini.

I più navigati, però, sanno che tanto più vige l’ostentazione pubblica delle virtù quanto più occorre indagare sui vizi privati dei paladini.

E in effetti i termini sui quali si dovranno condurre le future trattative in ambito comunitario, annunciate nel documento, se portati avanti con coerenza e determinazione, lasciano presagire una lacerazione piuttosto che una solida ricomposizione della costruzione europea. La riduzione dei surplus commerciali, il riconoscimento del carattere sociale del legame europeo, lo sfondamento dei tetti di spesa, le garanzie comunitarie su crediti e debiti sono tutti cunei in grado di scardinare l’attuale costruzione alemanno-statunitense del continente.

Gli elementi che evidenziano i limiti del documento e quindi delle forze politiche che lo esprimono si annidano prosaicamente in altre parti del testo. Sono limiti che rivelano l’impostazione culturale e strategica dei due gruppi dirigenti, soprattutto quello del M5S, molto più difficile da correggere.

Li si scova tra vari punti particolari del documento:

  • Nell’auspicio dello sviluppo delle politiche regionali europee senza la mediazione, il controllo e l’indirizzo degli stati nazionali. Politiche che, perseguite con coerenza, hanno condotto scientemente all’indebolimento di alcuni stati nazionali, meno di quelli dell’Europa Orientale, dove il decentramento amministrativo è più che altro nominale, soprattutto di Spagna e in particolar modo di Italia, le vere prede designate nel gioco europeo
  • Nella richiesta generica di investimenti pubblici europei le cui modalità e regole di utilizzo sono attualmente in realtà propedeutiche alle politiche di squilibrio e di dipendenza piuttosto che di sviluppo autoctono
  • Nella affermazione di una fantomatica identità europea tale da legittimare l’efficacia unitaria delle istituzioni rappresentative europee eventualmente da potenziare a scapito degli organi non elettivi. Una impostazione che rischia di celare sotto il mantello europeista una diversa modalità del confronto fra nazioni traslato nelle sedi rappresentative piuttosto che negli apparati.

Ma anche in alcune sue impostazioni di fondo, quindi:

  • Nell’enfasi retorica, pressoché univoca, attribuita alle magnifiche sorti e progressive dell’economia circolare e delle tecnologie verdi e alle capacità di sviluppo della piccola impresa. Non è un caso che il ruolo della grande impresa e della grande industria sia del tutto disconosciuto e quello dell’introduzione e soprattutto del controllo delle nuove tecnologie omesso. È l’indizio che si tratta di un gruppo dirigente attento alla complementarietà e alla diffusione di un sistema economico-sociale, sensibile quindi più al consenso elettoralistico, piuttosto che alla creazione di sistema di potenza indispensabile e necessario a sostenere il confronto geopolitico e garantire la coesione e il progresso sociale. Le righe riservate all’ILVA e alle grandi opere pubbliche sono forse la spia più inquietante di questa debolezza. La chiusura dello stabilimento di Taranto rappresenterebbe un colpo mortale all’industria di base necessaria alla riconversione industriale del paese e alla fornitura dei mezzi necessari all’esercizio della propria sovranità. Senza dimenticare che come la chiusura di Bagnoli ha consentito il potenziamento del comando della VI flotta americana a Napoli, la chiusura dell’ILVA a Taranto consentirà il potenziamento del porto militare e della logistica NATO e americana in tutta la Puglia. Una scelta economica, quindi, dalle profonde implicazioni geopolitiche http://italiaeilmondo.com/2018/05/22/taranto-da-polo-siderurgico-a-polo-strategico-della-nato-di-luigi-longo/  .
  • Nella frettolosità con la quale viene liquidato il tema della riorganizzazione istituzionale e burocratica dello Stato. Le indicazioni più concrete di risolvono nella normativa sui referendum, nella istituzione del ministero del turismo e soprattutto nella devoluzione controllata di competenze alle regioni, su loro richiesta. Proposte che se non sostenute da un chiara ed efficace definizione delle competenze dello Stato Centrale sia nei confronti delle amministrazioni locali che dell’Unione Europea rischiano di alimentare la frammentazione e la sovrapposizione di competenze. Una condizione di per sé precaria e fluttuante, ma estremamente pericoloso nel caso in cui, come ultima risorsa, il vecchio establishment nazionale e soprattutto internazionale decida di utilizzare la carta della frammentazione politica del paese. Il revival dei fasti borbonici del re Nasone periodicamente in auge nel Regno delle Due Sicilie, il controllo territoriale delle varie mafie e il basso rango dei centri di potere regionali potrebbero trovare un terreno favorevole di coltura nell’enfasi della democrazia dal basso e di prossimità, nel regionalismo e nella retorica “dell’Italia dei Popoli”, cavalli di battaglia delle due formazioni politiche contraenti

I COMPRIMARI NELL’ARENA

Il PD e Forza Italia sono i due responsabili del naufragio delle aspettative di continuità degli indirizzi politici. Lo spettacolo offerto dall’Assemblea Nazionale del PD di sabato 19 vale da solo a spiegare lo stato di fibrillazione. Un consesso composto da un migliaio di rappresentanti, tenuto da circa settecento partecipanti, con un ordine del giorno modificato al momento, un esodo a metà svolgimento di oltre la metà dei partecipanti ed una conferma a termine del neosegretario Martina con una maggioranza assoluta di duecentottanta persone. Una sinistra, in sostanza, fautrice di un fantomatico nuovo centrosinistra, indisponibile almeno per il momento ad un governo di salvezza nazionale, detentrice di un controllo approssimativo delle redini del partito, la quale fronteggia un Renzi sornione, detentore delle redini parlamentari e del consenso maggioritario di una formazione del tutto trasformata in questi ultimi quattro anni, pronto a riesumare una politica di collaborazione e fagogitazione di parte dei prossimi resti di Forza Italia.

Quanto a Berlusconi, la sua riesumazione e riabilitazione, appare la mossa disperata di una élite ormai incapace di offrire strategie e alternative valide, neppure di breve termine come in Francia. L’estromissione dei francesi da Tim-Telecom e il contestuale sodalizio sottoscritto con Mediaset e la sua produzione mediatica, rappresentano il parziale obolo necessario a rinvigorire l’azione dell’ex cavaliere. Un simulacro che però per il bene del paese dovrebbe ormai essere al più presto accantonato.

IL CONTESTO e LE CONDIZIONI

La sola analisi del documento del “contratto” può indurre però a conclusioni fuorvianti. Alla pubblicità e solennità del testo corrispondono regolarmente strategie e tattiche condotte nella maniera più riservata in un contesto che porta a modificare se non addirittura a stravolgere i programmi e le aspirazioni.

La creazione delle condizioni interne certificheranno la capacità e la serietà delle aspirazioni delle nuove élites in via di formazione.

Il ripristino del controllo della gestione del risparmio nazionale, riportare in casa propria il controllo del debito pubblico, l’istituzione di un sistema finanziario e bancario in grado di garantire lo sviluppo e la ricostruzione industriale, l’interruzione dei processi di integrazione militare e politica ed il ripristino delle condizioni di fedeltà all’interesse nazionale dell’azione delle leve di potere politico e burocratico saranno la cartina di tornasole della serietà delle intenzioni e delle capacità operative.

Altrettanta importanza avranno le condizioni esterne. Il processo di costruzione europea attuale vive una condizione di stallo che prelude ad una crisi sempre più conclamata. La formazione di più sfere di influenza per il momento tutte sotto controllo americano e la frammentazione politica ormai predominante anche nei principali paesi europei non fa che accentuare questo processo e ne è parte integrante.

Il bilateralismo imposto dall’avvento di Trump alla Casa Bianca sta registrando i primi significativi successi con la Cina, la Corea e potrebbe incoraggiare a spingere ulteriormente the Donald a perseguire tali modalità anche in Europa. A quel punto lo scotto da pagare per la Germania, in cambio della permanenza del proprio ruolo in Europa, potrebbe essere particolarmente pesante e compromettere la coesione sociale interna e la solidità del suo cerchio di alleanze più solido ed esclusivo in Europa Centro-Orientale. Tutte condizioni che potrebbero agevolare l’azione della nuova coppia in auge soprattutto in presenza di vecchie élites europee attardate a considerare l’avvento di Trump ancora un semplice incidente. Qualche contatto è stato avviato, ma non si conoscono ancora gli esiti.

Molto diranno le personalità selezionate per costituire il nuovo governo, la loro storia e soprattutto la forza e la determinazione dei loro propositi.

Su questo, il gruppo in formazione, almeno quella parte più sensibile ad un recupero delle prerogative dello stato nazionale, più che essere consapevole delle necessità ed implicazioni appare destinato a scoprire al momento le necessità e a sbattere duramente con la realtà. In tal modo il tempo per trarne lezioni sufficienti è risicato; come in ogni conflitto dall’esito apparentemente improbabile.

Si vedrà già dai prossimi giorni. In quel documento l’impegno insolito ad una condotta controllata del confronto politico tra le due formazioni prelude evidentemente ad altri obbiettivi di più lunga scadenza. Quel che appare certo è che assisteremo ad uno sconvolgimento del quadro politico e a un chiarimento delle varie opzioni. Tutti varchi necessari alla costruzione di un movimento politico più attrezzato alle necessità. L’onda ha iniziato a formarsi. Si vedrà l’energia che riuscirà ad accumulare e la forza con la quale andrà a frangersi

OLTRE SESSANTA E LI DIMOSTRA, di Teodoro Klitsche de la Grange

SESSANTA E LI DIMOSTRA

  1. Il 14 agosto 1941 ad Argentia nella baia di Placentia (Terranova) si incontravano il premier Winston S. Churchill e il presidente Franklin D. Roosevelt. Al termine dei lavori ritennero opportuno render noti taluni principi comuni della politica dei rispettivi Paesi, sui quali essi fondavano le loro speranze per un “più felice avvenire del mondo”. In particolare il terzo principio era il seguente “Essi rispettano il diritto di tutti i popoli a scegliersi la forma di governo sotto la quale intendono vivere; e desiderano vedere restituiti i diritti sovrani di autogoverno a coloro che ne sono stati privati con la forza”.

Tale dichiarazione è evidentemente rispettosa dell’autodeterminazione e della sovranità dei popoli: si riconosce il diritto a scegliersi la forma di governo; si auspica che tale diritto possa esercitarsi anche da coloro cui è stato sottratto con la forza.

Il tono muta decisamente con le dichiarazioni della conferenza di Yalta, nel febbraio 1945, pochi mesi prima della fine della guerra mondiale, quando buona parte dell’Europa già occupata dalla Germania era già stata liberata dagli alleati. Nella Dichiarazione sull’Europa liberata, (uno degli accordi raggiunti a Yalta) infatti si può leggere: “Il Premier dell’URSS, il Primo Ministro del Regno Unito e il Presidente degli Stati Uniti d’America si sono tra loro consultati nel comune interesse dei popoli dei propri rispettivi Paesi e di quelli delle Nazioni dell’Europa liberata. Durante il temporaneo periodo di instabilità che attraverserà l’Europa liberata essi dichiarano di aver congiuntamente deciso di uniformare le politiche dei loro tre Governi al fine di dare assistenza ai popoli liberati dalla dominazione della Germania Nazista e ai popoli degli stati satellite dell’Asse Europeo al fine di risolvere con strumenti democratici i loro pressanti problemi politici ed economici.

Il ristabilimento dell’ordine in Europa e la ricostruzione della vita economica nazionale dovranno essere raggiunti attraverso processi che permettano ai popoli liberati di distruggere ogni traccia di Nazismo e Fascismo e di creare proprie istituzioni democratiche. Questo principio contenuto nella Carta Atlantica, sancisce il diritto di tutti i popoli di scegliere liberamente la forma di governo che desiderano e riafferma la necessità di ripristinare il diritto alla sovranità per quelli che ne sono stati privati con la forza.

Per creare le condizioni nelle quali i popoli liberati possano esercitare questi diritti, i tre Governi, qualora fosse necessario, offriranno assistenza per:… Istituire delle autorità di governo provvisorie largamente rappresentative di tutti i settori democratici della società civile che si impegnino nel più breve tempo possibile e attraverso libere elezioni, a costituire dei Governi che siano espressione della volontà popolare;

Nel momento in cui, secondo l’opinione congiunta dei tre Governi, le condizioni di uno degli Stati Europei liberati o di quelli satelliti dell’Asse Europeo imponessero di intervenire, i suddetti tre Governi si consulteranno immediatamente tra loro per stabilire le misure necessarie da adottare e adempiere così agli obblighi previsti da questa dichiarazione.

Con tale dichiarazione intendiamo riaffermare la nostra fiducia nei principi contenuti nella Carta Atlantica, il nostro impegno a rispettare quanto stabilito nella Dichiarazione delle Nazioni Unite e la nostra determinazione a costruire in collaborazione con le Nazioni amanti della pace, un mondo in cui siano garantite legalità, sicurezza, libertà e benessere”; seguono le disposizioni per lo smembramento della Germania, sui risarcimenti, sui criminali di guerra, su alcuni Stati europei e sul Giappone. Di particolare interesse è una delle disposizioni relativa alle future elezioni in Polonia “Il Governo Provvisorio di Unità Nazionale dovrà impegnarsi ad indire al più presto libere elezioni a suffragio universale e a scrutinio segreto. Per tali elezioni tutti i Partiti democratici e anti-Nazisti avranno diritto a presentare liste di propri candidati”.

  1. Il significato di tale Dichiarazione, in cui si sottolinea la continuità rispetto alla Carta Atlantica, è in effetti assai differente e, in molti punti, opposto a quella[1].

In primo luogo, e seguendo l’ordine della Dichiarazione, i (prossimi) vincitori si presentano come curatori-interpreti dell’interesse dei popoli dell’Europa liberata. Nella realtà politica – e del rapporto politico – chi cura un interesse altrui è il protettore del tutelato e, per il “rapporto hobbesiano”, ha diritto all’obbedienza. Una enunciazione apparentemente “neutra” e benevola sottende ed esprime una realtà inquietante. Che si rivela già nel periodo successivo dove ai popoli europei si promette assistenza per risolvere con “strumenti democratici” i loro problemi: il che significa negarla a chi ne persegue la soluzione con strumenti – a giudizio delle potenze vincitrici – non democratici. Rafforzato ulteriormente nel passo seguente dove si delineano i caratteri e funzioni del “nuovo ordine”: distruggere il Nazismo e creare istituzioni democratiche. Il che è palesemente  in contrasto con quanto segue, che richiama la Carta Atlantica nel diritto dei popoli a scegliere liberamente la forma di governo “che desiderano” e ripristinare “il diritto alla sovranità”. Ma è chiaro che l’uno e l’altro diritto (che sono poi lo stesso, enunciato sotto diverse angolazioni, come scriveva tra i tanti Orlando) ha un senso solo se assoluto  e illimitato: a farne qualcosa di relativo, e limitato, lo si distrugge[2]. Per cui è chiaro che la “sovranità” limitata non è un’invenzione di Breznev all’epoca dell’invasione della Cecoslovacchia, ma aveva un autorevole precedente (e supporto) in questa dichiarazione, dove la libertà di darsi un ordinamento era limitata nei confini disegnati (e imposti) dalle potenze vincitrici.

Le quali si riservavano un diritto d’intervento, ovviamente generico, e illimitato nei presupposti e nel contenuto dei provvedimenti (le misure necessarie); diritto presentato come adempimento “degli obblighi previsti da  questa dichiarazione”: cioè un obbligo a carico di chi l’aveva costituito (un’auto-obbligazione). In realtà quella disposizione delinea la competenza a decidere dello “stato d’eccezione” all’interno degli Stati, ed è così un’attribuzione di sovranità alle potenze vincitrici. Peraltro la dichiarazione sulla Polonia, a meglio chiarire il concetto, prescrive subito che i partiti non democratici e non antinazisti non hanno diritto a presentare liste di candidati. Con queste premesse in pochi anni l’Europa (e non solo) fu tutto un fiorire di costituzioni: Italia (1948), Cecoslovacchia (1948), Bulgaria, (1947) Polonia (1952), Iugoslavia (1946), Albania (1946), Germania occidentale (1949), (e così via).

Anche la non sconfitta Francia sentì la necessità di darsene una, per la verità per motivi più “interni” che per le pressioni dei (veri) vincitori. Questa fioritura costituzionale, ovviamente, aveva meno a che fare con i principi ideali che connotano il potere costituente – in primis di costituire l’espressione della volontà della nazione – che con la necessità di adeguarsi ai nuovi rapporti di forza internazionali (più che interni).

Così capitò, che mentre le nazioni liberate dagli anglosassoni si dettero costituzioni – nella varietà istituzionale – tutte riconducibili ai “tipi” dello Stato borghese e connotate da sistemi pluripartitici, quelle al di là della cortina di ferro, si dettero carte da “socialismo   reale” e sistemi partitici fondati sull’egemonia del partito comunista. Cioè istituzioni, che lassallianamente, riproducevano il colore delle divise degli occupanti. Qualcuno, affezionato all’idea che a far le costituzioni siano (o debbano essere) i giuristi (i quali hanno la più circoscritta funzione di tradurre in regole quei rapporti di forza), ne sottolinea la diversità e varietà delle norme relative. Ma è un’obiezione che conferma la fecondità della distinzione schmittiana tra Costituzione e leggi costituzionali: la prima comprende le decisioni fondamentali e non può non esserci, perché altrimenti lo Stato non esisterebbe e/o non avrebbe capacità di agire (il che è come non esistere); mentre le altre sono per così dire, anche se importanti, accidentali: possono non esserci, o essere le più diverse. Ciò perché, come spiegava Lassalle non sono quella “forza attiva decisiva, tale da incidere su tutte le leggi che vengono emanate … in modo che esse in una certa misura diventano necessariamente così come sono e non diversamente”.

La variabilità di queste e l’invarianza e la “costanza” di quella sono conseguenze del diverso carattere. L’una che attiene alla sostanza e all’essenza del “politico”: comando, obbedienza, pubblico, privato, amico, nemico, in quanto presupposti fondamentali dell’esistenza e dell’organizzazione politica. Le altre, le regole, più o meno importanti ma comunque poco o punto incidenti sul “politico”.

  1. Quando si afferma che la Costituzione italiana è nata dalla Resistenza, si fa un’affermazione vera in astratto, ma errata in concreto.

Che sia vera in astratto lo prova la storia: quasi tutte le “nuove” costituzioni nascono da una crisi, per lo più bellica o in rapporto con una guerra. Non è vero che ogni guerra comporta una nuova costituzione; ma è vero l’inverso che (quasi) ogni costituzione nuova è il risultato e la conseguenza di una guerra.

Quando poi la guerra è civile la percentuale di “innovazione” costituzionale è quasi pari alla totalità. E quindi la resistenza, come qualsiasi guerra civile, avrebbe prodotto la nuova costituzione. Tuttavia, è errato pensare che la causa determinante della Costituzione vigente sia stata la resistenza. Perché in definitiva, vale sempre la tesi di Lassalle, il quale  afferma con dovizia di argomenti che gli “effettivi rapporti di potere che sussistono in ogni società sono quella forza effettivamente in vigore che determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società, cosicchè queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come sono”. “Questi effettivi rapporti di forza li si butta su un foglio di carta, si dà loro un’espressione scritta e, se ora sono stati buttati giù, essi non solo sono rapporti di forza effettivi, ma sono anche diventati, ora, diritto, istituzioni giuridiche, e chi vi oppone resistenza viene punito!”[3] .

E in realtà nel ’45 l’Italia era stata liberata ed era occupata da quasi un milione di armatissimi soldati americani e inglesi (e alleati); di fronte ai quali il potere delle Forze armate nazionali e di qualche decina di migliaia di partigiani era ben piccola cosa. Vale a proposito, occorre ripeterlo, il detto di Lassalle “un re cui l’esercito obbedisce e i cannoni – questo è un pezzo di costituzione”; e anche di potere costituente.

Per cui il fatto che le potenze vincitrici si fossero riservate di intervenire e che tutti quei soldati fossero delle Potenze anglosassoni significava non solo che il potere costituente sarebbe stato esercitato, ma che lo sarebbe stato in un certo senso. Cosa che fu colta, tra gli altri, da un politico realista e acuto come Togliatti: chi non lo capì fece la fine della Grecia, dilaniata da una seconda guerra civile, in cui, ovviamente, la fazione monarchico-legittimista vittoriosa era appoggiata dagli Anglosassoni.

  1. Fino alla fine del secolo XVIII ci si limitava a chiudere la guerra con un trattato che “registrasse” i nuovi rapporti di forza lasciando inalterato l’ordinamento del vinto; dopo la rivoluzione francese è invalso spesso d’imporre al vinto anche l’ordinamento. E con ciò di cambiare la propria costituzione con una nuova, frutto d’imposizione del vincitore. Già così s’esprimeva la mozione La Revellièrè-Lepeaux votata dalla Convenzione nel dicembre 1792, e con la quale s’iniziava, anche teoricamente e programmaticamente, la guerra civile internazionale, che vedeva contrapposti più che Stati contro Stati, borghesi contro aristocratici, giacobini contro cattolici, chaumiéres contro chateaux. Il cui esito comportava la rifondazione dell’ordine concreto del vinto con sostituzione dei governanti, delle istituzioni, delle norme con i modelli imposti dal vincitore. E di cui furono applicazioni le “repubbliche-sorelle” tra cui la nostra cisalpina (e le effimere romana e napoletana). Tale prassi, per la verità contenuta nel periodo post-napoleonico, ha ripreso vigore nel secolo scorso. In modo appena cennato dopo la prima guerra mondiale; del tutto apertamente a conclusione della seconda quando l’esercizio del potere costituente delle nazioni europee liberate e/o sconfitte fu, per così dire, sollecitato dai vincitori. In precedenza la prassi era l’inverso. Un giurista come Vattel nel Droit de gens (1758) già scriveva che “La nazione è nel pieno diritto di formare da se la propria costituzione, di mantenerla, di perfezionarla, e di regolare secondo la propria volontà tutto ciò che concerne il governo”. Questo era in linea con il pensiero pre-rivoluzionario, e, agli esordi, anche di quello rivoluzionario. Per Rousseau la costituzione è il prodotto della volontà della nazione. Polemizzando con le tesi dei privilegiati Sieyès partiva dall’affermazione “La nazione esiste prima di tutto, è all’origine di tutto. La sua volontà è sempre legale: è la legge stessa”: premesso ciò era impossibile che fosse legata da disposizioni preesistenti, anche se costituzionali “Una nazione è indipendente da qualsiasi forma ed è sufficiente che la sua volontà appaia, perché ogni diritto positivo cessi davanti ad essa come davanti alla sorgente e al signore supremo di ogni diritto positivo”. Nella Costituzione giacobina (quella mai applicata, perché chiusa nell’arca di legno di cedro in attesa della fine della guerra) il principio era inserito nella dichiarazione dei diritti: l’art. 28 proclamava solennemente che “un popolo ha sempre il diritto di rivedere, di riformare e di cambiare la propria Costituzione. Una generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni future” ma la prassi delle conquiste rivoluzionarie e poi napoleoniche era l’inverso: gli Stati-satelliti si davano degli ordinamenti ricalcati su quello francese. Ciò che era ovvio per la Nazione francese, non lo era per le altre. Kant, nel trattare del nemico ingiusto, scrive che il diritto dei vincitori non può arrivare “fino a dividersi tra loro il territorio di quello Stato e a fare per così dire sparire uno Stato dalla terra, perché ciò sarebbe una vera ingiustizia verso il popolo che non può perdere il suo diritto originario a formare una comunità; si può invece imporgli una nuova costituzione, che per la sua natura reprima la tendenza verso la guerra”[4]; ma pur ammettendo il diritto ad imporre la costituzione, nulla esplicitamente afferma sul potere costituente[5].

In effetti, nel pensiero di Kant sembra che ciò non possa escludersi: quando, scrive, ad esempio, “deve pur essere possibile al sovrano cambiare la costituzione esistente”[6]; è chiaro che o ha questo diritto o non è più sovrano. Il che è contrario alla concezione kantiana. Anche il passo sopra citato, che il popolo “non può perdere il… diritto…” significa, implicitamente, che conserva il potere costituente. Quindi se pure è, secondo il filosofo di Königsberg, possibile imporre una costituzione al nemico ingiusto, non è lecito impedirgli di cambiarla e sottrarre o limitarne, così, il potere costituente.

  1. Nella realtà la costituzione vigente è il risultato di quella sollecitazione, esternata negli accordi di Yalta, ben sostenuta dall’argomento-principe della sconfitta militare e dalla conseguenziale occupazione.

Si potrebbe obiettare che il procedimento democratico seguito – e l’alta partecipazione alle elezioni della Costituente – hanno attenuato il carattere d’imposizione e legittimato, in certa misura, la Costituzione che ne è conseguita. Anzi si potrebbe aggiungere che la procedura relativa – conclusasi politicamente anche se non giuridicamente, con l’elezione, il 18 aprile 1948 del primo Parlamento – abbia costituito un esempio di applicazione del consiglio di Machiavelli che regola della decisione politica è di scegliere quella che presenta minori inconvenienti[7].

E sicuramente dato il disastro militare e l’occupazione, non esistevano le condizioni per sfuggire (forse per attenuarla sì, a seguire il discorso di V. E. Orlando, sopra ricordato) alla logica degli accordi di Yalta.

  1. Ma in tale materia è importante essere consapevoli che certe scelte sono state in gran parte frutto di necessità (e di imposizione) e non prenderle per quelle che, a una visione giuridica (peraltro parziale e riduttiva), appaiono come scelte (ottime) del “popolo sovrano” il quale, come scriveva Massimo Severo Giamini, è sovrano solo nelle canzonette; e, in quel frangente, forse neppure in quelle. La sovranità implica libertà di scelta: quella non vi era né in diritto – limitata com’era dalle clausole dell’armistizio e del Trattato di pace – e quel che più conta era inesistente di fatto per la sconfitta e l’occupazione militare. Per cui alla Costituzione del ’48, ed alla relativa decisione si può applicare il detto romano per la volontà negli atti annullabili: che, il popolo italiano coactus tamen voluit.

Se quindi la madre della Costituzione fu l’Assemblea Costituente, i padri ne furono i vincitori della Seconda guerra mondiale. Ma se è vero che, a seguir Kant, al nemico ingiusto (e vinto) è consentito imporre la Costituzione, non lo è pretendere (meno ancora consentire) che quella Costituzione, nata in circostanze sfortunate, divenga come le tavole mosaiche, immodificabile come se fosse stata data da Dio, cosa non richiesta neppure da gran parte dei teologi cristiani. Infatti secondo la teologia tomista il potere costituente, la possibilità di darsi determinate forme di Stato e di governo compete al popolo: non est enim potestas nisi a Deo, cui deve aggiungersi per popolum[8].

Per cui, a cercare di comprendere perché sia vista per l’appunto, come il Decalogo la spiegazione può essere data in termini sociologici, richiamandosi a quella concezione di Max Weber per cui al mantenimento di certe tradizioni “possono connettersi degli interessi materiali: allorchè ad esempio in Cina si cercò di cambiare certe vie di trasporto o di passare a mezzi o vie di trasporto più razionali, venne minacciato l’introito che certi funzionari ricavavano dal pedaggio”[9]; ovvero quella ancora più cruda e demistificante di Pareto, per cui certi tipi di argomentazione sono riconducibili a quella classe di residui che chiamò della persistenza degli aggregati, ovvero nella inerzia e resistenza all’innovazione manifestate dai rapporti sociali in atto, che tendono a perpetuarsi nelle stesse forme, regole, relazioni (e fin quando possibile, persone).

Giacché le situazioni e relative decisione politiche, tra cui la normazione costituzionale, sono frutto di certi rapporti di forza (e di potere), ne producono e riproducono di compatibili; tra cui personale politico selezionato sulla base di quelli, è chiaro che sia a questi sgradito un ri-esercizio del potere costituente che metterebbe in discussione quei rapporti, e la stessa classe politica che ne è stata riprrodotta plasmata. La quale, pertanto, si oppone in ogni modo a qualsiasi cambiamento sostanziale della costituzione. Tra gli argomenti – le derivazioni all’uopo costruite, anche al fine di suscitare la fede nella propria legittimità – c’è di averne ricondotta integralmente la genesi alla lotta ed alla volontà del popolo italiano. Che è, una mezza verità. Purtroppo come tutte le mezze verità  ha l’inconveniente di nascondere una mezza menzogna (se non una menzogna tutta intera); e quello, ancora più pericoloso, di costituire un ostacolo ad una piena consapevolezza politica. Attribuire la costituzione ad una scelta (tutta) propria, occultare la parte nella genesi della stessa svolta dagli alleati, prendere la situazione politica dal primo dopoguerra e le scelte conseguenziali come un criterio di valutazione … per secoli, significa, come scriveva Croce, raccontar favole d’orchi ai bimbi. Nella specie, agli italiani, che, anche per questo, non assumono piena consapevolezza politica. E questa, in politica, significa se non l’impotenza, una mezza potenza, una ridotta attitudine a sviluppare le proprie potenzialità. Una sorta di  emasculazione volontaria .

  1. Che questo sarebbe stato l’esito della situazione e dell’ordine nato alla fine della seconda guerra mondiale era chiaro a qualcuno, tra cui Vittorio Emanuele Orlando che già lo prevedeva nel discorso, sopra citato, contro il Trattato di pace.

La cosa che più colpisce del discorso dell’anziano statista è come stigmatizza la coniugazione tra buone intenzioni (propositi) quali lo sviluppo della democrazia, la repressione del fascismo, la tutela dei “diritti democratici” del popolo, oltre che naturalmente di quelli umani contenuti nelle clausole del Trattato da un lato, e le conseguenti limitazioni e controlli sulla sovranità e sull’esercizio dei massimi poteri dello Stato, dall’altro. Diceva Orlando “Ho detto che questo Trattato toglie all’Italia l’indipendenza che non sopporta altri limiti che non siano comuni a tutti gli altri Stati sovrani. Or bene, approvando questo Trattato, voi approvate un articolo 15,…”[10] e prosegue “Questo articolo si collega con quella educazione politica di cui sembra che abbisogni l’Italia, e cioè la Nazione del mondo che arrivò per la prima all’idea di Stato, e l’apprese a tutti i popoli civili. Dovevamo proprio noi ricevere lezioni di tal genere! E meno male se fosse soltanto un corso di lezioni: ma si tratta di un umiliante limite alla nostra sovranità[11]; quanto all’art. 17 che imponeva di vietare la rinascita delle organizzazioni fasciste, sosteneva: “Non è già, dunque che l’art. 17 mi dispiaccia per sé stesso, ma mi ripugna come un’offesa intollerabile alla sovranità del nostro Stato. Qualunque atto di Governo può prestarsi ad una interpretazione che dia luogo alla accusa della violazione dell’art. 17. Intanto tutte le espressioni in esso usate sono elastiche, atte a favorire ogni punto di vista soggettivo. Una organizzazione dei così detti giovani esploratori potrà essere considerata come militarizzata”[12]. E così prosegue, ricordando l’iniquità delle clausole sul disarmo, sulle limitazioni alla ricerca che possa avere applicazioni militari “ma chi può dire  e sino a qual punto una scoperta in qualsiasi campo possa avere applicazioni militari? In conclusione anche i gabinetti delle nostre Università potrebbero essere assoggettati  ad un controllo, capace di impedire il proseguimento di uno studio scientifico!”[13]. Per cui conclude su questo punto: “l’indipendenza sovrana del nostro Stato viene dunque meno formalmente, cioè come diritto”[14] (oltre che di fatto come espone nel prosieguo). Orlando anticipava così l’opposizione ancora oggi ripresentantesi con frequenza tra tutela di certi “diritti” universali (o trans-nazionali) e integrità della sovranità e indipendenze nazionali. Lo Stato che assume la funzione di tutela di certi diritti, esercita un’influenza interna allo Stato “tutelato”. Così nella tradizionale “impermeabilità” tra interno ed esterno allo Stato si aprono falle, probabilmente destinate ad ampliarsi.

L’altra (principale) preoccupazione  di Orlando era la fragilità dell’assetto politico (e costituzionale in fieri) dell’Italia, incrementata dall’attitudine “psicologica” italiana ad accondiscendere a pretese esterne. Così distinguendo tra Italia e Francia afferma “Ma egli è che una vera superiorità alla Francia su di noi può riconoscersi nella fierezza dei suoi rappresentanti, per cui l’ipotesi di una Francia  come grande Potenza fu ed è sempre una pregiudiziale che si deve ammettere se si vuole conversare con un francese”[15], mentre “nei rapporti con l’estero noi ci dobbiamo sempre precipitare; noi sentiamo sempre l’urgente bisogno di dar prova al mondo che siamo dei ragazzi traviati, i quali avendo demeritato e non bastando la tremenda espiazione sofferta, ammettono la loro indegnità e non aspettano altro di meglio che di riabilitarsi e essere ripresi in grazia[16]. Per cui concludeva l’orazione con la ben nota invettiva “Questi sono voti di cui si risponde dinanzi alle generazioni future: si risponde nei secoli di queste abiezioni fatte per cupidigia di servilità[17]. Ansia condivisa da Benedetto Croce, il quale nel discorso contro il Trattato di pace (pronunciato all’Assemblea costituente il 24 luglio 1947) diceva “Il governo italiano certamente non si opporrà all’esecuzione del dettato; se sarà necessario, coi suoi decreti o con qualche suo singolo provvedimento legislativo, la seconderà docilmente, il che non importa approvazione, considerato che anche i condannati a morte sogliono secondare docilmente nei suoi gesti il carnefice che li mette a morte. Ma approvazione, no! Non si può costringere il popolo italiano a dichiarare che è bella una cosa che esso sente come brutta e questo con l’intento di umiliarlo e togliergli il rispetto di sé stesso, che è indispensabile ad un popolo come a un individuo, e che solo lo preserva dall’abiezione e dalla corruttela[18]; e proseguiva “coloro che questi tempi chiameranno antichi, le generazioni future dell’Italia che non muore, i nipoti e pronipoti ci terranno responsabili e rimprovereranno la generazione nostra di aver lasciato vituperare e avvilire e inginocchiare la nostra comune Madre a ricevere rimessamente un iniquo castigo;… ma vi dirò quel che è più grave, che le future generazioni potranno sentire in se stesse la durevole diminuzione che, l’avvilimento, da noi consentito, ha prodotto nella tempra italiana, fiaccandola”.

In ambedue i vecchi patrioti era evidente che quell’approvazione era il primo passo verso una capitis deminutio dell’indipendenza italiana; riecheggia in entrambi lo sferzante giudizio di Gobetti, che Mussolini non aveva tempra di tiranno, ma gli italiani avevano ben animo di servi.

  1. Il secondo “momento” di questa “rieducazione” era la Costituzione: pur nelle buone intenzioni, di chi l’aveva redatta, e nel pregevole tentativo – particolarmente riuscito nella prima parte – di coniugare l’impianto liberal-democratico con il c.d. “Stato sociale”, la repubblica parlamentare e regionale organizzata dalla seconda parte della Carta, era già obsoleta al momento di entrare in vigore. Scriveva Hauriou a proposito del “prototipo”di quella italiana, cioè la Terza repubblica francese “al momento della redazione della nostra Costituzione del 1875, non si era mai vista al mondo una Repubblica parlamentare, e fu una grande novità”. E ne attribuiva la durata a diversi fattori, istituzionali: d’essere il “giusto mezzo” tra dittatura dell’assemblea e quella dell’esecutivo; di perpetuare il governo delle assemblee, e con esso l’oligarchia parlamentare, pur svolgendo la funzione d’integrazione politica di altri strati della popolazione; ma anche sociali, costituendo un compromesso tra borghesia (vie bourgeoise) e “proletariato” (vie de travail). Tuttavia ne intravedeva già negli anni ’20 del secolo scorso, il tramonto[19]; come d’altra parte altri giuristi francesi. Cosa che avvenne puntualmente nel 1958, perché la repubblica parlamentare aveva esaurito la propria funzione, così acutamente esposta da Hauriou, e non era più adatta ai tempi nuovi, che erano quelli, a un dipresso, in cui l’Italia adottava questa “formula” politica e istituzionale. In Francia, dopo poco, dismessa.

La decisione italiana per la Repubblica parlamentare fu determinata da più motivi.

La ripulsa per il governo “forte” fascista, che fece preferire tra le tante forme di governo quella più “debole” possibile; il ricordo (positivo) del parlamentarismo liberale dello Statuto, cui però erano tolti proprio i principali fattori di stabilità e di governabilità, cioè la monarchia e il sistema elettorale maggioritario; la necessità di garantire un assetto policratico dei poteri pubblici finalizzato alla co-esistenza di partiti ideologicamente radicati quanto distanti; la mancata – o insufficiente – percezione dell’evoluzione economico-sociale dello Stato e delLa società moderna.

Tutte ragioni di carattere (e genesi) essenzialmente e in grande prevalenza “interno” ed “endogeno”; tuttavia alcune in (evidente) accordo col modello delineato (e imposto) a Yalta, specificato dall’occupazione militare anglosassone.

  1. Le condizioni del secondo dopoguerra sono cambiate, fino alla cesura rappresentata dal crollo del comunismo sovietico e dalla fine della guerra fredda; seguita dalla dissoluzione dell’URSS; speculare questa alla divisione, al termine della seconda guerra mondiale, della Germania – ora riunificata all’esito della guerra fredda – e dell’Impero giapponese.

Le conseguenze, anche in Italia, sono state notevoli; la caduta del sistema partitico della prima repubblica – salvo il PCI “graziato”; la fine della conventio ad excludendum nei confronti della destra; la sostituzione della legge elettorale proporzionale con sistemi (sia per il Parlamento che per gli enti territoriali) maggioritari. Buona parte della costituzione materiale è stata cambiata. Ma quella formale – se si eccettua l’innovazione al titolo V (cioè della parte “periferica” e non solo in senso territoriale della carta costituzionale) e qualche altra piccola modifica (come all’art. 11) è rimasto inalterato col suo impianto di repubblica parlamentare e policratica.

Permane quindi il “tabù” dell’intangibilità della parte essenziale della Costituzione, malgrado l’evidente inadeguatezza al governo di una società e uno Stato moderno e, più ancora, il venir meno della situazione politica e delle condizioni politiche e sociali che ne giustificavano, in una certa misura, l’adozione.

  1. Neppure è spiegabile questa durata con un interesse delle potenze vincitrici a “determinare” l’esercizio (e il prodotto) del potere costituente. Questo per (almeno) due ragioni. In primo luogo perché, come accennato, la situazione politica è distante anni-luce da quella del dopoguerra. Pensare che gli USA abbiano un interesse rilevante che l’Italia sia una repubblica presidenziale o parlamentare o una monarchia costituzionale o quant’altro appare difficile: crollato il comunismo è venuta meno anche la funzione dell’Italia quale paese di frontiera tra l’Est e l’Ovest.

Dall’altro perché la dissoluzione del comunismo ha eliminato il nemico anche sul piano interno. Di qui l’indifferenza – o lo scarso interesse – che la dialettica politica italiana e i modi in cui si svolge, possono oggi suscitare all’estero.

Piuttosto l’attaccamento a quella Costituzione si può spiegare con la funzione del mito (Sorel), dato che la Resistenza ha avuto la funzione di mito “fondante” della Repubblica, e la Costituzione ne è – secondo questa concezione – la figlia unigenita.

Ma più ancora ci può soccorrere, come sempre cennato, Pareto. Questi divide del Trattato i residui (cioè le azioni non logiche e gli istinti e sentimenti che le determinano) in sei classi; una delle quali è composta dai residui che si esprimono nella tendenza alla persistenza degli aggregati. Gli è che, applicando anche all’inverso la formula di Lassalle, la Costituzione formale, non solo garantisce i rapporti di forza che l’hanno determinata, ma li cristallizza e tende a riprodurli. Da cui consegue la resistenza al cambiamento di quelli che dalla stessa sono favoriti e garantiti, anche se la situazione – e le esigenze – sono sostanzialmente cambiate. Ed il fenomeno si è presentato tante volte nella storia: dalla crisi di Roma repubblicana nel I secolo a.C., a quella dell’Ancien régime (e del potere dei ceti privilegiati), già in gran parte demolito dall’assolutismo borbonico. Nihil sub sole novi.

L’importante è ricordare, e Pareto è qui quanto mai utile, che le ragioni esternate sono derivazioni di quei residui. E più ancora che dietro quelle ci sono concreti rapporti di forza che come tutte le relazioni sociali crescono, si mantengono e poi decadono, come mutano le situazioni reali che li hanno determinati; per cui è compito degli uomini, di rimodellare la nuova forma politica; com’è stata opera degli uomini aver realizzato quella sorpassata. Come scriveva Miglio la Costituzione non è la camicia di Nesso in cui il popolo italiano deve essere avvolto in eterno.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Si riprende la tesi esposta da Jeronimo Molina Cano in “La Costituzione come colpo di Stato” in Behemoth n. 38 luglio-dicembre 2005 p. 5 ss.

[2] Diceva V. E. Orlando nel vibrante discorso contro il Trattato di pace dell’Italia con i vincitori della Seconda guerra mondiale pronunciato nell’Assemblea Costituente il 30 luglio 1947 “anche grammaticalmente sovrano è un superlativo: se se ne fa un comparativo, lo si annulla” v. in Behemoth n. 3 luglio-dicembre 1987 p. 37.

[3] v. Über verfassungswesen trad. it. in Behemoth n. 20 luglio-dicembre 1996 p. 8

[4] Methaphisik der Sitten § 60.

[5] Anzi Schmitt la interpreta nel senso che “non intende ammettere… che un popolo fosse privato del potere costituente” v. Der nomos der erde, trad. it. Milano 1991, p. 205.

[6] Op. cit. § 52.

[7] V. Discorsi, lib. I, VI.

[8] Sul punto si richiamano i giuristi francesi citati nelle note del mio scritto Diritto divino provvidenziale e dottrina dello Stato borghese in Behemoth n. 41 gennaio-giugno 2007 p. 25 ss.

[9] M. Weber, Storia economica, trad. it. rist. Roma 2007, p. 261.

[10] Behemoth cit., p. 35.

[11] Ivi p. 35-36.

[12] Ivi p. 36.

[13] Ivi p. 36.

[14] Ivi p. 37.

[15] Ivi cit., p. 32.

[16] Op. loc. cit..

[17] Ivi cit. p. 40.

[18] V. in Palomar n. 18, p. 48.

[19] V. “Ce régime pourra durer tant que les nouvelles couches de la population garderont l’ambition de la vie bourgeoise, et il montre des qualités précieuses pour les embourgeoiser successivement sous le couvert des étiquettes politiques les plus variées. Mais le jour où la distinction de la vie bourgeoise et de la vie de travail aura disparu, il devra probablement s’effacer devant les institutions faisant une place plus large au gouvernement direct ” ; Précis de droit constitutionnel Paris 1929, p. 341 – v. anche p. 346.

Liberarsi dalla servitù volontaria nazionale ed europea, di Luigi Longo

Liberarsi dalla servitù volontaria nazionale ed europea

di Luigi Longo

 

 

La questione prioritaria sia nazionale sia europea è quella dell’uscita dalla servitù volontaria nei confronti degli Stati Uniti. Una servitù che dura da oltre settant’anni, cioè da quando gli Stati Uniti, dopo il secondo conflitto mondiale, sono diventati potenza egemone del mondo Occidentale debellando definitivamente la potenza mondiale inglese.

Credo che sulla servitù le riflessioni che faceva Etienne de La Boétie nel 1546-1550 (periodo in cui fu scritto il Discorso sulla servitù volontaria), di << […] capire, se è possibile, come questa ostinata volontà di servire si sia radicata così profondamente da far credere che lo stesso amore della libertà non sia poi così naturale >> che << Gli uomini nati sotto il giogo, poi nutriti e allevati nell’asservimento, sono paghi, senza guardare più lontano, di vivere così come sono nati e non pensano affatto di avere altri beni e altri diritti che non siano quelli che hanno trovato: prendono come stato di natura il proprio stato di nascita >> che << I teatri, i giochi, le farse, gli spettacoli, i gladiatori, gli animali esotici, le medaglie, i quadri e altre droghe di questo genere erano per i popoli antichi l’esca della servitù, il prezzo della libertà perduta, gli strumenti della tirannide >>, siano di grande attualità (1). Lo stesso Karl Marx, oltre tre secoli dopo, analizzando il nascente modo di produzione capitalistico, osservava che << […] Non basta che le condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che all’altro polo si presentino uomini che non hanno altro da vendere che la propria forza lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi volontariamente. Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione (corsivo mio) […] >> (2).

Oggi, in fase multicentrica, la configurazione di potenze in grado di poter sfidare l’egemonia mondiale degli USA, divenuta tale dopo l’implosione della ex URSS, pone la questione della sovranità nazionale e della ri-fondazione di una Europa delle nazioni sovrane come condizione per svolgere un ruolo di confronto storico, sociale e culturale tra il mondo Occidentale e quello Orientale. Ricordo che l’attuale Europa è figlia del progetto ideato, pensato e attuato dagli agenti strategici statunitensi, imposto con il consenso e con la forza attraverso il Piano Marshall (1947-1948) e la NATO (1949), ed é modellata sull’idea della società statunitense in cui  il concetto di democrazia non rientra tra i valori fondanti il legame sociale: è la democrazia di chi detiene il potere e il dominio, i quali sono sempre espressione della interconnessione tra il sistema legale e il sistema illegale storicamente dati. Il Chi detiene il potere e il dominio va visto nella accezione marxiana di funzioni e ruoli nei rapporti sociali di una società data.

L’ Europa delle nazioni sovrane può avere un ruolo nel confronto tra Occidente e Oriente basato su relazioni di reciproco rispetto, dignità e benessere delle popolazioni e non su relazioni di potere e di dominio, per dirla con Federico Chabod, << Rispetto e indipendenza di ogni nazionalità: il limite razionale del diritto di ciascuna nazionalità è costituito da altre nazionalità; il principio di nazionalità << non può significare che la eguale inviolabilità e protezione di tutte >> e la formula dev’essere questa << coesistenza ed accordo delle Nazionalità libere di tutti i popoli >> >> (3)

L’Europa, inoltre, deve agevolare quelle potenze mondiali che sono per un mondo multicentrico (in questa fase Russia e Cina) e deve contrastare la potenza egemone degli Stati Uniti (in fase di inizio declino) che per loro natura storica e sociale sono inclini al dominio unilaterale delle relazioni mondiali.

Oggi in Europa non ci sono nazioni che esprimono avanguardie, élites, agenti strategici (non c’è nessuno spettro che si aggira per l’Europa, ahinoi!) in grado di pensare e attuare un progetto di sovranità nazionale ed europea. Abbiamo nazioni in piena servitù statunitense, sbandate dal conflitto interno agli agenti strategici degli Stati Uniti, con diverso livello gerarchico nella scala della servitù (Germania, Francia, Italia), che stupidamente stanno rompendo le relazioni con l’Oriente (Russia e Cina soprattutto) e seguono le strategie degli USA per il dominio mondiale senza accorgersi del vento storico che sta cambiando in direzione dell’Oriente. Non confondiamo le relazioni economiche (la sfera economica) delle nazioni europee che si svolgono con la Russia e la Cina con quelle politiche (la sfera politica), queste ultime, espressione di blocchi di dominio in equilibrio dinamico, sono in mano agli agenti strategici servili alle strategie statunitensi.

Prendiamo per esempio l’Italia in questo dopo elezione del 4 marzo scorso. Un Presidente della Repubblica, eletto da un parlamento fuorilegge decretato da uno dei contropoteri [il Mattarellum è stato abrogato dal Porcellum dichiarato incostituzionale dalla Consulta, uno dei cui membri era Sergio Mattarella! E poi blaterano della separazione dei poteri e dei contropoteri (Sic!)], si erge a tutore del potere dei sub-dominati europei e del dominio dei pre-dominati statunitensi condannando, mettendosi fuori dalla Costituzione (art.87), l’Italia ad una storica servitù con un livello di sviluppo economico, culturale e sociale degradante (la servitù tedesca e francese hanno un livello più elevato di sviluppo), altro che << […] La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione >> (art.1). E poi basta con questa teoria dei contropoteri, bisogna parlare di strumenti istituzionali, di luoghi istituzionali, di istituzioni di coordinamento dei poteri per imporre e gestire la propria egemonia. Preciso che coordinamento non significa separazione dei poteri che è una illusione storica, come ha dimostrato Louis Althusser rileggendo Montesquieu attraverso Charles Eisenmann (teorico del diritto) << […] in realtà Montesquieu non aveva parlato affatto di separazione, bensì di combinazione, di fusione e di collegamento di poteri […] >> (4).

Con questo non voglio dire che la Lega e il Movimento 5 Stelle hanno un progetto di sovranità italiana (non ci sono le condizioni oggettive e soggettive) a partire dal quale tessere relazioni internazionali capaci di uscire dalla servitù statunitense e di creare relazioni con le potenze mondiali e regionali orientali affinché venga neutralizzata la fase policentrica che significa guerra mondiale (forse l’ultima).

Riflettiamo sulle modalità spaziali e temporali del tentativo di formare un governo, qui non c’entra né la tattica né la strategia perché manca una idea, un piano di sviluppo della Nazione, né si può pensare che il Contratto per il governo del cambiamento (sic) della Lega e del Movimento 5 Stelle sia un programma di strategia per la sovranità nazionale e la ri-fondazione di una Europa sovrana: é un programma basato sul potere per il potere. Siamo seri, smettiamola di essere i buffoni della vita.

Eppure basta poco per dare reali segnali di cambiamento sia pure sistemico: per esempio, perché non inserire nel Contratto per il governo del cambiamento della Lega e del Movimento 5 Stelle l’abolizione delle leggi che hanno recepito illegalmente, perché in contrasto con la Costituzione, il patto di bilancio europeo (fiscal compact), il pareggio di bilancio, la riduzione del debito pubblico, basi di politiche economiche e sociali devastanti per lo sviluppo italiano e soprattutto per la maggioranza della popolazione? Ah, dimenticavo: nel 2012 la legge del pareggio di bilancio in Costituzione è stata votata all’unanimità alla Camera e da quasi tutte le forze politiche al Senato (compresi i giochi di astensione)!

Sveliamo la mistificante corrispondenza tra forma e sostanza nel diritto (inteso come forma di organizzazione dei rapporti sociali), l’ipocrisia dei contropoteri come equilibrio per garantire la libertà e la democrazia (sic) nella società cosiddetta capitalistica e lavoriamo a costruire una nuova forza politica, un moderno principe sessuato gramsciano, che ci faccia uscire dalla servitù volontaria e spazzare via questo pattume politico.

Concludo questo breve scritto con una lunga riflessione significativa di Mario Vegetti sul senso della storia << […] Porsi dal punto di vista del presente significa dunque rifiutare sia una storia come archivio del potere, sia una storia come favola del progresso certo e immancabile. Ma significa rifiutare anche un altro e più sottile modo di sclerotizzare la storia, di sottrarla all’esercizio della riflessione critica per riconsegnarla alla tradizione di cui si è detto: mi riferisco al mito della <<obiettività>>. Una storia obbiettiva sarebbe quella in cui lo storico rinuncia a porsi qualsiasi domanda sul senso degli eventi, a proporne qualsiasi valutazione critica: i fatti sono quelli che sono, vanno ricostruiti, insegnati e appresi come tali. Ma questa obbiettività non significa altro che porsi dal punto di vista del passato: subire passivamente il modo con cui il passato ha prodotto la propria storia, l’ha interpreta e ce l’ha tramandata; significa cioè leggere la storia con gli occhi del potere che l’ha voluta e di chi per suo conto l’ha raccontata. Questa obbiettività vuol dire accettare sulla storia dell’Egitto il punto di vista degli scribi del Faraone, o sulla schiavitù il parere dei proprietari degli schiavi. L’unica obbiettività possibile nella storia, che non sia acquiescenza alle memorie del potere, consiste invece nell’interrogarla secondo le domande e i problemi reali del presente. Questo non significa ovviamente rinunciare al rigore necessario per formulare le risposte a quelle domande; esse non possono che venire da uno studio critico dei documenti, delle fonti, delle interpretazioni complessive, in un arco che va dall’archeologia fino ai testi letterari antichi. Scrivere, per il presente, una storia priva di questo rigore equivarrebbe a consegnare a chi deve intraprendere un viaggio una mappa forse più gradevole, ma falsa. Il rigore è necessario, dunque; ma è altrettanto necessario non rinunciare – in nome di una falsa obbiettività – a pensare criticamente, e a far pensare.

Quale storia si può scrivere, dunque, muovendo da questo punto di vista? Una storia che chiarisca, ad esempio, gli effetti della rivoluzione agricola, alla fine del Neolitico, sulla condizione della donna, e che consenta quindi di comprendere le origi lontane di un problema che è nostro. Una storia, ancora, che indaghi la genesi dei sistemi di dominio e di sfruttamento di una classe sull’altra, mostrando l’intreccio che si stabilisce fra le forme del potere, i modi di produzione, il sapere scientifico e tecnologico, le istituzioni culturali, religiose ed educative. Una storia, infine, che si interroghi sulla posizione che nelle formazioni sociali occupano gli <<altri>> – gli schiavi, le donne, i giovani, i popoli marginali -, non per occultare la realtà del dominio e dell’oppressione ma per mostrare chi di questa realtà <<paga le spese>>.

Sono le risposte, queste, che la storia può dare alle Domande di un lettore operaio della famosa poesia di Bertolt Brecht:

<< Tebe dalle sette porte, chi la costruì? Ci sono i nomi dei re, dentro i libri. Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra? Babilonia, distrutta tante volte, chi altrettante la riedificò? In quali case, di Lima lucente d’oro abitavano i costruttori? Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia, i muratori? Roma la grande è iena di trionfo. Su chi trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio aveva solo palazzi per i suoi abitanti? Anche nella favolosa Atlantide la notte che il mare li inghiottì, affogavano urlando aiuto ai loro schiavi.

Il giovane Alessandro conquistò l’India. Da solo? Cesare sconfisse i Galli. Non aveva con sé nemmeno un cuoco?

Una vittoria in ogni pagina. Chi cucinò la cena della vittoria? Ogni dieci anni un grande uomo. Chi ne pagò le spese? Quante vicende tante domande>> (trad. F. Fortini, ed Einaudi) >> (5).

 

 

NOTE

 

  1. Etienne de La Boètie, Discorso sulla servitù volontaria, Piccola biblioteca della felicità, Milano, 2007, pp. 35, 49, 77.
  2. Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’Economia politica, Einaudi Torino, 1975, libro primo, pag. 907.
  3. Federico Chabod, L’idea di nazione, a cura di, Armando Saitta ed Ernesto Sestan, Editori Laterza, Bari, 1967, pag.82.

4.Louis Althusser, Montesquieu. La politica e la storia, Savelli editore, Roma, 1974, pag 94.

  1. Mario Vegetti, Storia delle società antiche. La parabola dei nuovi imperi: da Alessandro a Roma, Zanichelli, Bologna 1977, pp.XIV-XV.

Sagggio su “l’influenza”, a cura di Giuseppe Germinario

Quello dell’influenza è un tema e un argomento in uso sino a pochi decenni di anni fa negli ambiti più ristretti dei circoli diplomatici, dei centri decisionali strategici e dei centri di intelligence.

Qui sotto un interessante saggio del “Sistema di informazione per la sicurezza della Repubblica”

Da un approccio pragmatico la trattazione dell’argomento dell’influenza ha assunto via via una modalità teorica e sistemica. Dai centri universitari si è esteso ai più vari ambiti delle attività umane relazionali sino ad assumere un ruolo centrale anche in economia con lo sviluppo della grande impresa e dei relativi sistemi manageriali di conduzione. E’ un argomento che trova ambiti di sviluppo corrispondenti ai livelli di ambizione e capacità della classe dirigente di un paese. Non è un caso quindi che si tratti di un tema ampiamente sottovalutato nell’Italia del secondo dopoguerra e addirittura pressoché ignorato e rimosso a partire dagli anni ’90. Al contrario in Francia e negli Stati Uniti è oggetto sistematico di studio e di metodologie, assegnato addirittura a specifiche istituzioni. L’implosione del sistema sovietico anziché spingere ad un maggior dinamismo e ad una maggiore autonomia ha spinto la nostra classe dirigente nazionale ad una totale sudditanza alle sirene di una globalizzazione fautrice di pace e prosperità, assecondata in questo dalle più pesanti intromissioni  delle potenze “amiche” ed alleate.

Tangentopoli, le privatizzazioni e le dismissioni dei settori più importanti e strategici, l’improvvida riorganizzazione dei servizi di intellicence, la nefasta visione di una Unione Europea trionfante sulle ceneri degli stati nazionali hanno disarmato quasi del tutto una nazione proprio in un contesto di polarizzazione e di differenziazione degli interessi e delle strategie di altri stati nazionali, in particolare rispetto ai paesi del blocco occidentale. Più recuperabile invece in Medio Oriente non ostante i recenti suicidi in Libia e in Siria. L’immagine comunque di un paese ancora relativamente prospero, ma in balia di scelte e pressioni esterne è sempre più evidente. Ciò non ostante l’attuale classe dirigente è sempre più abbarbicata senza però offrire alcuna prospettiva se non la vuota retorica europeista e la remissiva fedeltà ad un sistema di alleanze protervio e pronto a sacrificare i più deboli tra i convitati. Qualcosa di nuovo, tra mille incertezze, sembra però sorgere; senza una greppia ed esposto a mille intemperie. Buona lettura_Giuseppe Germinario

L’agente di influenza

8 luglio 2013

di Alfonso Montagnese

agente-di-influenza

“Books are weapons in the war of ideas.”[1]

Il soft power[2] è una modalità di espressione del potere, lontana dalle forme classiche di manifestazione della forza, che può consentire a uno Stato, prevalentemente attraverso il ricorso alle attività di influenza[3], di orientare e modellare la realtà  secondo i propri obiettivi strategici e di proteggere gli interessi vitali della propria comunità.

Ma cosa si intende per influenza? Come si pianifica e si conduce una campagna di influenza? In che modo e in quale misura le attività di influenza possono supportare efficacemente l’azione governativa, con particolare riguardo a quella connessa alla gestione della sicurezza nazionale e alla tutela dell’interesse del sistema paese? E, soprattutto, chi sono gli attori protagonisti di tali attività e quale rapporto lega l’intelligence alle operazioni di influenza? Con questo contributo si proverà a rispondere sinteticamente a queste e ad altre domande, nonché a stimolare la discussione riguardo all’impiego dell’influenza per scopi di sicurezza e difesa nazionale e alla necessità di potenziare tali capacità nell’ambito dell’architettura istituzionale della Repubblica.

L’influenza

Il Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza (DIS) ha definito l’influenza quale “attività condotta da soggetti, statuali o non, al fine di orientare a proprio vantaggio le opinioni di un individuo o di un gruppo”[4]. Questa sintetica definizione, elaborata con finalità preminentemente divulgative[5], tratteggia le prime linee essenziali dell’influenza. È possibile acquisire qualche elemento supplementare, integrando la citata definizione con un altro lemma a essa espressamente collegato[6], quello relativo all’information warfare (IW), che è qualificato dal DIS come un “concetto basato sull’idea che quello informativo sia un vero e proprio dominio in cui tra Stati ovvero tra Stati e attori non statuali, si gioca un confronto che vede le informazioni costituire, ad un tempo, strumento di offesa e obiettivo. In questo contesto, il termine indica le azioni intraprese al fine di acquisire superiorità nel dominio informativo minando i sistemi, i processi e il patrimonio informativo dell’avversario e difendendo al contempo i propri sistemi e le proprie reti nonché, più in generale, l’impiego delle informazioni ai fini del perseguimento degli interessi nazionali. [L’IW] include anche una serie di attività tipiche della tradizione intelligence – ma che oggi possono avvalersi delle potenzialità offerte dal progresso tecnologico – quali […] l’influenza”[7]. L’analisi di quest’ultima definizione, oltre a far emergere la centralità delle informazioni, consente di affermare che l’influenza è un’attività:

  • tipica degli organismi d’intelligence
  • mediante la quale due o più attori – statuali e non – si confrontano
  • condotta nell’ambito del dominio informativo, che ne diviene il «terreno di battaglia»
  • incentrata sulle informazioni, impiegate (anche) come strumenti offensivi
  • che può esplicarsi efficacemente anche attraverso l’utilizzazione delle nuove tecnologie

Il Gen. Mario Maccono, già Direttore della Scuola di Addestramento del SISMi, e il Gen. Maurizio Navarra, già funzionario del SISDe, hanno posto in risalto la complementarietà tra l’influenza e altre tipiche attività d’intelligence – l’ingerenza, la disinformazione e l’intossicazione – impiegate in modo coordinato e combinato per pianificare e condurre operazioni offensive[8] finalizzate alla destabilizzazione[9] di uno Stato avversario (o di altra struttura organizzata).

L’influenza, in definitiva, si fonda sull’impiego mirato delle informazioni per generare effetti cognitivi e psicologici in grado di alterare le percezioni e di condizionare comportamenti, attitudini e opinioni. Tale processo di orientamento può essere sviluppato sia mediante l’uso di informazioni totalmente vere, facendo prevalere i fattori di credibilità e attraenza, sia mediante il ricorso a tecniche di deception [10], privilegiando gli aspetti manipolativi e ingannevoli.

L’agente di influenza

L’influenza, in particolar modo quella di livello strategico, si articola per mezzo di un complesso «ecosistema», composto da una vasta gamma di strutture organizzate[11], le cui competenze non sono sempre marcate da confini rigidi e le cui funzioni effettive non appaiono facilmente riconoscibili, e singoli individui, alcuni dei quali non sempre consapevoli del loro ruolo[12] e delle finalità ultime del loro agire. I principali attori coinvolti nelle influence operations sono gli agenti di influenza e i servizi di informazione e sicurezza. Ma chi sono gli agenti di influenza? E in che rapporto sono con gli apparati d’intelligence?

Per il Gen. Ambrogio Viviani, già responsabile del controspionaggio del SISMi, l’agente di influenza è “un agente segreto che opera sotto mentite spoglie ma apertamente, senza commettere alcun reato, diffondendo idee, sostenendo teorie, dirigendo movimenti di opinione, secondo le direttive ricevute e seguite allo scopo di conseguire determinati effetti nell’ambiente avversario in funzione degli obiettivi della politica del proprio Paese. [Ma] è anche colui che per convinzione personale agisce nello stesso modo, senza rendersi conto di essere […] manipolato da altri e quindi senza rendersi conto, magari in buona fede, di operare per interessi estranei ed esterni e addirittura in contrasto con i propri e con quelli del proprio Paese”[13].

Walter Raymond, politologo e docente universitario presso la Virginia Commonwealth University, ha incluso gli agenti d’influenza nelle risorse della human intelligence (HUMINT), definendoli come “persons with influence in one country secretly promoting the interests of another”[14]. E proprio tenuto conto di quella che deve essere la loro principale dote, cioè la capacità di influenzare, Francesco Cossiga ha circoscritto il bacino dal quale gli agenti di influenza possono essere reclutati: “quadri dirigenti di un Paese o «aiutati» a salire ad alti livelli della vita politica, burocratica, scientifica, finanziaria, bancaria o attraverso individui di particolare autorevolezza personale, culturale e morale”[15].

Secondo Abram Shulsky e Gary Schmitt la via più semplice e diretta per condizionare i processi decisionali e i comportamenti degli avversari consiste nell’impiegare un agent of influence, che è definito “an agent whose task is to influence directly government policy rather than to collect information”[16]. Dalla descrizione offerta dai due esperti statunitensi emerge un confine tra l’influenza e l’attività informativa pura, che, in linea teorica, è ben definito e marcato, mentre, nella realtà operativa, diviene permeabile e sfumato: l’agente di influenza, infatti, non ha necessariamente il compito esclusivo di operare nel campo dell’influenza ma può anche occuparsi, contemporaneamente, di raccolta informativa. Tale potenziale duplicità di incarico discende dalla posizione che spesso l’agente di influenza ricopre all’interno dell’establishment dell’avversario: una posizione privilegiata, che, oltre a consentirgli di manipolare direttamente le percezioni della controparte e orientarne i comportamenti e le decisioni, gli permette di avere accesso a informazioni sensibili e, talvolta, fondamentali per la stessa pianificazione ed esecuzione delle influence operations. Ancora una volta affiora la stretta interconnessione tra intelligence e influenza. Shulsky e Schmitt, inoltre, hanno chiarito che l’agente di influenza non è sempre legato da un rapporto organico con l’apparato d’intelligence per cui opera e che frequentemente la relazione tra l’agente e la struttura è di natura flessibile e varia a seconda delle circostanze e del contesto operativo in cui l’agente stesso è impiegato.

Angelo Codevilla, docente di relazioni internazionali presso l’università di Boston e già membro del Select Committee on Intelligence del Senato degli Stati Uniti, ha dipinto gli agenti di influenza come “allies in the councils of a foreign power”[17], mediante i quali uno Stato può esprimere le sue capacità di political warfare[18]. L’esperto statunitense, inoltre, ha osservato che:

  • gli agenti di influenza non sono meri esecutori di ordini e non sono motivati, in genere, da ricompense di tipo economico
  • sebbene le attività poste in essere dagli agenti di influenza siano tendenzialmente condotte in modo palese (in quanto, per poter influenzare altri soggetti, gli agenti devono necessariamente esternare i propri sentimenti, comportamenti e opinioni), le procedure di coordinamento e i canali di comunicazione con il servizio d’intelligence a cui essi riportano sono prevalentemente occulti (al fine di non rendere conoscibile la natura effettiva e lo scopo reale della loro azione)
  • l’impiego eccessivo degli agenti di influenza comporta per gli stessi un rischio di sovraesposizione e un incremento delle probabilità che essi siano individuati dagli apparati di informazione e sicurezza dell’avversario
  • il ricorso agli agenti di influenza deve essere preceduto da un’attenta attività di pianificazione e dalla predisposizione di un chiaro e definito programma da affidare loro, soprattutto se gli stessi sono destinati, nel lungo termine, a ricoprire posizioni di vertice nell’establishment dell’avversario
  • le operazioni di influenza possono garantire validi risultati solo se efficacemente supportate da attività di intelligence (volte a comprendere il quadro operativo in cui l’operazione si dovrà svolgere e a valutare le capacità dell’agente di influenza) e di controspionaggio (finalizzate a verificare le effettive intenzioni dell’agent of influence nonché a misurarne il livello di reale collaborazione e di lealtà)

Esempi di impiego degli agenti di influenza

Per comprendere meglio la capacità che gli agenti di influenza possono avere nel determinare gli eventi, o comunque, nel condizionarli, può essere utile riportare sinteticamente qualche caso documentato, relativo a epoche storiche, Paesi e campi d’azione differenti:

  • William Stephenson, agente di influenza britannico, operò durante la seconda guerra mondiale negli Stati Uniti, non solo per analizzare e sorvegliare le attività dei futuri alleati, ma, soprattutto, per influenzare l’establishment americano in favore degli interessi del Regno Unito[19].  Attraverso un’estesa rete di influenza composta da oltre tremila persone, Stephenson indirizzò i principali organi di stampa statunitensi (The Herald Tribune, The New York Post, The Baltimore Sun, ecc.) in favore della Gran Bretagna e orientò l’opinione pubblica nordamericana, e quindi il governo degli Stati Uniti, a sostegno dell’entrata in guerra contro la Germania nazista e i suoi alleati[20]
  • Eli Cohen fu un agente di influenza israeliano in Siria. Agente sotto copertura del Mossad, dopo essersi infiltrato nel partito baatista siriano al potere dal 1961, con la nuova identità di Kamil Amin Thabit, raggiunse i vertici del governo di Damasco, orientandone le decisioni fino al suo arresto e uccisione nel 1965[21]
  • Pierre-Charles Pathé, giornalista francese ben introdotto nei salotti della politica e dell’economia di Parigi, fu un agente di influenza sovietico[22]. Pathé condusse un’articolata campagna di influenza per conto del KGB, pubblicando, dal 1976 al 1979, Synthèse, un bollettino di analisi politica indirizzato ai maggiori esponenti della classe dirigente francese, orientato a discreditare la NATO e, in generale, i Paesi occidentali e a favorire gli interessi dell’URSS in Francia nonché il progressivo avvicinamento delle posizioni di Parigi a quelle di Mosca
  • Arne Treholt, funzionario del Ministero degli Esteri norvegese, operò come agente di influenza sovietico nel periodo della guerra fredda e sino al suo arresto nel gennaio 1984[23]. Il diplomatico, ricoprendo incarichi di rilievo in ambito nazionale e internazionale, condizionò tra il 1976 e il 1984 le politiche del governo norvegese in favore degli interessi sovietici ed utilizzò la sua vasta rete di contatti nei media per diffondere notizie sconvenienti per gli Stati Uniti e per la NATO
  • secondo alcuni membri del Congresso americano,[24] Huma Abedin, Deputy Chief of Staff dell’ex Segretario di Stato Hillary Clinton, è stata un agente di influenza dei Fratelli Musulmani. Secondo questa ipotesi, Abedin, sfruttando la sua posizione all’interno del Department of State, è riuscita a condizionare la politica estera statunitense durante il primo mandato di Barack Obama in direzione favorevole agli interessi dei Fratelli Musulmani, a esempio, supportando le attività di proselitismo e di indottrinamento condotte dall’organizzazione negli Stati Uniti e concedendo alcuni canali di finanziamento all’Egitto (dove i Fratelli Musulmani sono la forza politica dominante) e ad altri beneficiari rientranti nella rete del movimento (esponenti dell’Autorità Palestinese, di Hamas, ecc.).

Gli apparati di intelligence e la gestione delle operazioni di influenza

Gli agenti di influenza, sebbene, come già esaminato in precedenza, spesso non siano legati da un rapporto organico con i servizi di intelligence e godano di un ampio margine di libertà sulle modalità di esecuzione delle proprie attività, sono tuttavia «gestiti» e coordinati da strutture organizzate, riconducibili direttamente o indirettamente agli apparati di sicurezza e informazione o, comunque, al sistema di sicurezza e difesa di uno Stato, soprattutto nel caso di campagne di influenza complesse, caratterizzate da un elevato livello di sofisticazione e proiettate a lungo termine.

L’organismo deputato a gestire una campagna di influenza deve sposare una logica di pianificazione delle azioni che poi l’agente di influenza dovrà condurre. Nel quadro di questa attività di pianificazione è necessario provvedere:

  • all’analisi del contesto di intervento
  • all’individuazione delle finalità della campagna e alla valutazione del tempo necessario per raggiungerle
  • all’identificazione dei bersagli da raggiungere, che possono essere singoli (es. un leader politico, un comandante militare, ecc.), gruppi selezionati (la redazione di un giornale, la dirigenza di un partito politico,  il management di un’azienda, ecc.) o gruppi più estesi (un movimento di pensiero, l’opinione pubblica di un paese, ecc.)
  • alla scelta degli strumenti e dei canali più adeguati per raggiungerli
  • alla comparazione costi/benefici connessi all’operazione.

La fase di pianificazione strategica deve essere integrata da un’attività di controllo, volta al monitoraggio continuo dell’andamento della campagna, al fine di apportare, se necessario, aggiustamenti e correttivi, o, nell’ipotesi peggiore, di sospendere la campagna stessa. È indispensabile, quindi, che la struttura di coordinamento e controllo acquisisca la consapevolezza dei potenziali effetti imprevisti che la campagna può generare.

Tra le strutture deputate alla pianificazione e alla gestione delle operazioni di influenza, giusto per fare qualche esempio, oltre al già citato OWI (vedi nota n.1), il Servizio Speciale A del KGB sovietico[25], gli Special Groups[26] americani, il National Clandestine Service[27] (NCS) della CIA e l’Office of Strategic Influence[28] (OSI) della Difesa statunitense.

Conclusioni

Nel quadro del nuovo assetto internazionale, caratterizzato da fluidità e carenza di leadership, i singoli Stati, e particolar modo quelli di media potenza come l’Italia, non sono più in grado di incidere unilateralmente, e in misura significativa, sulle dinamiche globali[29], soprattutto se limitano la loro azione al ricorso agli strumenti convenzionalmente riconosciuti quali espressione del potere: la forza militare, l’attività politico-diplomatica e la competitività economico-finanziaria. La combinazione tra gli strumenti coercitivi classici e quelli legati ai meccanismi dell’influenza, della persuasione e dell’attrazione, definita smart power[30], è la modalità di espressione del potere che oggi risulta essere più efficace affinché uno Stato possa affermare la propria posizione geopolitica e consolidare i propri interessi nazionali. L’Italia dovrebbe, quindi, accrescere il suo smart power, acquisendo soprattutto nuove capacità nel campo dell’influenza (o potenziando quelle preesistenti), ricorrendo anche alle tecnologie per l’informazione e la comunicazione[31], da impiegare in modo integrato, sinergico e sincronizzato con le altre capacità già espresse dal corpo diplomatico, dallo strumento militare, dagli apparati di intelligence e, più in generale, dall’intero sistema di sicurezza e difesa del Paese.

 


[1] Slogan elaborato dall’U.S. Office of War Information (OWI) e inserito in un poster utilizzato per promuovere nell’opinione pubblica interna l’intervento degli Stati Uniti nella II Guerra Mondiale e per sostenere il morale delle forze combattenti impegnate sui diversi fronti. L’OWI era un organismo competente nel pianificare e condurre campagne di influenza e di propaganda su larga scala, anche oltre i confini nazionali statunitensi, e impiegava, oltre ai poster, programmi radiofonici, film e riviste.

[2] Joseph Nye, docente a Harvard e già Presidente dello U.S. National Intelligence Council, ha coniato nel 2004 il concetto di soft power, contrapponendolo a quello di hard power. J. S. Nye, Soft Power: un nuovo futuro per l’America, Einaudi, Torino, gennaio 2005.

[3] P. Cornish, J. Lindley-French, C. Yorke, Strategic Communications and National Strategy, Chatham House, settembre 2011.

[4] Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza, Il linguaggio degli Organismi Informativi – Glossario Intelligence, Quaderni di Intelligence, Gnosis, giugno 2012.

[5] La pubblicazione del Glossario rientra nelle attività svolte dal DIS nell’ambito dei compiti, assegnatigli dalla legge 124/2007, concernenti la promozione e la diffusione della cultura per la sicurezza.

[6] Il Glossario consta di 259 lemmi, i quali sono collegati tra loro per analogia concettuale o perché appartenenti alla medesima macro-categoria.

[7] Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza, op. cit.

[8] M. Navarra, M. Maccono, “La destabilizzazione”, in Per Aspera ad Veritatem, n. 24, Roma, settembre-dicembre 2002.

[9] Secondo Edward Luttwak, infatti, la pianificazione di una campagna di destabilizzazione, propedeutica all’esecuzione di un colpo di stato, deve essere indirizzata prevalentemente a influenzare i processi decisionali dell’élite del Paese avversario. E. Luttwak, Coup d’Etat – A Pratical Handbook, Fawcett Premier Book, New York, 1969.

[10] La deception, la cui traduzione letterale è «inganno», è un’attività “impiegata per nascondere, in tutto o in parte, le effettive intenzioni, capacità e strategie all’avversario (target) e, al contempo, comprometterne le capacità di comprensione in merito a un dato fenomeno, evento o situazione, al fine di indurlo a un impiego irrazionale e/o svantaggioso delle proprie risorse”. A. Montagnese, Intelligence e deception strategica: manipolazione percettiva ed influenza dei processi decisionali di vertice, Istituto Italiano di Studi Strategici N. Machiavelli, Roma, aprile 2012.

[11] Le operazioni di influenza pianificate dagli organismi di intelligence possono essere eseguite, infatti, sia ricorrendo direttamente ai propri agenti di influenza, sia in modo indiretto, attraverso think tank, società di consulenza, organi di informazione (radio, giornali, ecc.), associazioni culturali, istituti di formazione, centri di ricerca, circoli accademici, club e altre strutture presenti nella società civile e in grado di incidere sulla formazione di opinioni, idee, sentimenti e, quindi, sui comportamenti e le attitudini di gruppi più o meno estesi o di singoli individui.

[12] P. Cornish, J. Lindley-French, C. Yorke, op. cit.

[13] A. Viviani, Servizi segreti italiani, 1815 -1985, Adkronos Libri, Roma, 1986.

[14] W. J. Raymond, Dictionary of Politics – Selected American and Foreign Political and Legal Terms, Brunswick, 1992.

[15] F. Cossiga, I Servizi e le attività di informazione e di controinformazione – Abecedario per principianti, politici e militari, civili e gente comune, Rubbettino, Soveria Mannelli, marzo 2002.

[16] A. Shulsky, G. Schmitt, Silent Warfare, Potomac Books, Inc., 2002.

[17] AA. VV., Political Warfare and Psychological Operations – Rethinking the US Approach, a cura di F. R. Barnett, C. Lord, National Defense University Press, Washington DC, 1989.

[18] “Political warfare is a term […] that seems useful for describing a spectrum of overt and covert activities designed to support national political-military objectives”. Ibidem.

[19] W. Stevenson, A Man Called Intrepid – The Secret War, Lyons Press, Toronto, 2000.

[20] Edward Luttwak ha sostenuto che nel periodo immediatamente precedente all’entrata in guerra degli Stati Uniti, avvenuta nel 1941, operavano su suolo americano gruppi di pressione e di influenza, sia espressione della Gran Bretagna sia della Germania nazista, il cui compito era di spingere il vertice politico-militare statunitense ad assumere decisioni favorevoli ai rispettivi interessi, con specifico riferimento all’evento bellico. E. Luttwak, op. cit.

[21] A. Giannulli, Come funzionano i servizi segreti, Ponte alle Grazie, Milano, dicembre 2009.

[22] A. Shulsky, G. Schmitt, op. cit.

[23] Ibidem.

[24] Michele Bachmann, Louie Gohmert, Lynn Westmorleand, Trent Francks e Thomas Rooney, tutti membri del Partito Repubblicano, hanno formalmente invitato, il 13 giugno 2012, l’ambasciatore Harold Geisel, responsabile del servizio ispettivo dello U.S. Department of State, a investigare sulle capacità di influenza dei Fratelli Musulmani nei confronti della politica estera degli Stati Uniti e a verificare se, con specifico riferimento ad alcune scelte e misure adottate durante il mandato del Segretario di Stato Hillary Clinton, vi sia stato il coinvolgimento dell’organizzazione islamica o di personalità a essa collegate.

[25] P. Guzzanti, I servizi russi: dal KGB a Putin, materiale didattico presentato e distribuito dall’autore a supporto della lezione tenuta nell’ambito del Master in Intelligence e Sicurezza Nazionale presso la Link Campus University of Malta, Roma, 25 giugno 2010.

[26] Particolari gruppi istituiti nei primi anni ’60 dal Presidente John Fitzgerald Kennedy, caratterizzati da una competenza per materie specifiche e da una composizione interministeriale/interagenzia. J. H. Michaels, Managing Global Counterinsurgency: the Special Group (CI) 1962-1966, in Journal of Strategic Studies, vol. 35-1, 2012.

[27] Articolazione della CIA istituita nel 2005 ed erede del Directorate of Operations dell’Agenzia. All’interno del Servizio vi è la Special Activities Division, che, tra le varie competenze, ha anche quella di condurre attività di covert influence.

[28] Organismo operante nell’ambito dello U.S. Department of Defense, dal 30 ottobre 2001 fino a febbraio 2002, con compiti di influenza, disinformazione e propaganda in supporto alle operazioni militari fuori territorio statunitense. S. L. Gough, The Evolution of Strategic Influence, U.S. Army War College – Strategy Research Project, Carlisle Barracks, Pennsylvania, 2003.

[29] A. Evans, D. Stevens, Organizing for Influence, Chatham House, giugno 2010.

[30] J. Nye, “Get Smart: Combining Hard and Soft Power”, in Foreign Policy, luglio – agosto 2009.

[31] A esempio un impiego proattivo dei social media da parte delle istituzioni, adeguatamente inquadrato nella cornice della strategia di sicurezza nazionale, consentirebbe di esprimere elevate capacità sia di natura offensiva (operazioni di influenza, propaganda, deception, disinformazione, perception management) sia di natura difensiva (contro-propaganda, contro-ingerenza, counter-deception, warning, ecc.). Non a caso, oggi, tra i più incisivi agenti di influenza è possibile individuare i blogger e i gestori di contenuti multimediali su piattaforme online di networking. A. Montagnese, Impact of Social Media on National Security, Ce.Mi.S.S., Roma, aprile 2012.

SPIGOLATURE MEDIORIENTALI, di Antonio de Martini_ a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto due significative spigolature di Antonio de Martini apparse sui social network. La notizia più clamorosa è la vittoria relativa di Moktada Al Sadr in Iraq. Si tratta del leader che con più accanimento ha combattuto l’occupazione americana e contemporaneamente la crescente influenza iraniana nel paese. Non a caso il suo movimento ha progressivamente affievolito l’impronta confessionale ed accentuato il proprio carattere nazionale e nazionalista.

La sua ascesa ci segnala la fragilità di molti stereotipi che hanno guidato l’interpretazione dei fatti nella polveriera mediorientale:

  • la divisione confessionale tra sunniti e sciiti spiega solo in parte, ed in misura decrescente e indiretta, il conflitto e il gioco politico delle fazioni e delle formazioni politiche
  • controllata la sbornia dell’ISIS e del suo tentativo truculento di coniugare l’aspirazione universalistica con l’esigenza di radicamento territoriale, con tutto il corollario di strumentalizzazioni e manipolazioni degli agenti geopolitici più importanti, in particolare degli Stati Uniti, inizia a riprender piede un movimento nazionale dalle sembianze diverse da quelle conosciute negli anni ’70
  • la situazione in Siria e in Iraq, in apparenza del tutto favorevole alla Russia e all’Iran, sta forse rivelando il grande limite della classe dirigente predominante in Iran: l’incapacità di fermarsi al momento giusto e il rischio di compiere un passo più lungo della propria gamba. Ha certamente il grande merito di aver contribuito ad evitare la caduta del regime di Assad e il conseguente genocidio delle minoranze di quel paese. La tentazione di fare della Siria il terreno di confronto con Israele è però sempre più forte e su questo sta incontrando la ritrosia sempre più manifesta dello stesso Assad, sostenuto in questo probabilmente dagli stessi russi. Il viaggio e l’accoglienza riservata a Netanyhau a Mosca non deve essere certo stata dettata dalle sole regole di galateo diplomatico. L’azione dell’Iran si sta spingendo ormai verso l’Atlantico. Di recente ha concesso la fornitura di grosse quantità di armi al Fronte Polisario, una organizzazione ormai dedita più che altro al contrabbando. Con questa mossa ha stuzzicato il Marocco, un paese alleato dei Saud e degli Stati Uniti; ma ha irretito anche l’Algeria, sino ad ora unico contendente del Marocco in quell’area. Anche l’Azerbaijan, paese sciita al confine con l’Iran, non gode ormai dei migliori rapporti con il paese degli ayatollah. La classe dirigente iraniana fatica a dissociare la propaganda oltranzista dalla diplomazia; è il segno della porosità di quel regime alle infiltrazioni e della radicalità del conflitto presente in essa.

Nelle more godiamoci, attraverso la sequenza fotografica di questi giorni colta da un giornalista americano presente “casualmente” all’Hotel Prince de Galles di Parigi; un’anteprima, un trailer dello spettacolo prossimo venturo del quale potremo godere

Ritraggono rispettivamente Seyed Hossein Mousavian, negoziatore iraniano sul nucleare nel 2005, Kamal Kharazi, ex ministro degli esteri iraniano, Abolghassem Delfi, attuale ambasciatore iraniano a Parigi, di spalle John Kerry all’uscita dall’hotel. In un precedente articolo http://italiaeilmondo.com/2018/05/06/diplomazie-parallele-di-giuseppe-germinario/ avevamo segnalato il corso di diplomazie parallele implicate nell’affaire Iran-USA. Queste foto ci segnalano probabilmente l’avvio di una campagna politica decisamente meno “nobile”. Il vecchio establishment americano, al momento di scatenare la campagna denigratoria verso Trump pensava di disporre del monopolio delle informazioni più riservate e private degli avversari politici. Un vantaggio indiscutibile in una contesa dai colpi bassi sempre più sconcertanti. Hanno scoperchiato invece un vaso di Pandora. Gli iraniani non devono aver preso molto bene il fallimento dell’accordo recentemente disconosciuto da Trump e l’inutilità dei loro eventuali atti di generosità. In pratica si profila uno scandalo simile a quello che sta travolgendo Sarkozy, con i suoi benefici finanziari ricevuti da  Gheddafi. E’ il segno che l’afflato pacifista, al pari di quello guerrafondaio, è il più delle volte corroborato e svilito da interessi molto più prosaici e particolaristici sui quali è facile scivolare. Una debolezza che spiegherebbe almeno parzialmente tanta insulsaggine, tante paralisi e tanti immobilismi, compresi quelli dei paesi europei, giustamente sottolineati da de Martini. Buona lettura_Giuseppe Germinario

IRAK: ALTRO BRILLANTE SUCCESSO DI AISE & CIA

Si potrebbe fare un gemellaggio tra Roma e Bagdad o almeno tra il PD e il partito di Abadi, il premier sconfitto alle urne.

Le elezioni sono ancora nella fase di spoglio, ma MOKTADA EL SADR, il mullah contrario all’Iran, come agli americani, è il vincitore col 54% dei voti espressi, mentre il servetto della CIA, Abadi, primo ministro uscente, si è classificato terzo dopo Allawi, l’ex cocco degli USA che li ha mandati a quel paese tre anni fa e ha fatto un partito suo.

MOKTADA EL SADR rappresenta la parte più bisognosa e sana della popolazione, ha istigato due rivolte armate contro le truppe occupanti ed è sospettato di essere dietro l’attentato di Nassirya.

Lusinghe e minacce non lo hanno mai piegato e non ha simpatizzato nemmeno con Teheran.

Il patriottismo di El SADR è fuori discussione e questo avrebbe potuto essere utile agli USA se solo avessero voluto veramente liberare l’Irak e instaurare un regime democratico.

Cercavano un servo. Lo hanno trovato che era vice presidente della Camera. Tutti sappiamo cosa vale un vice presidente. Lo hanno fatto premier e finanziato.
Si è classificato terzo su tre.

Complimenti anche all’AISE che presidiava la zona in cui EL SADR era più forte ed avrebbero potuto scovarlo e coltivarne il talento politico.

Peccato che abbiano mandato come capo centro un ufficiale che parlava solo lo spagnolo.
Magari con un po di inglese sarebbe riuscito almeno a non farsi sparare ai posti di blocco.

TRUMP SCONFESSA L’EUROPA. L’IRAN NON C’ENTRA.

Nessuno ha fatto notare la differenza di trattamento USA a Iran e Corea del Nord.

L’Iran , ha accettato di trattare con l’ONU ( tutti i membri permanenti del Consiglio piu la Germania) e di limitare il proprio sviluppo nucleare, sotto controllo AIEA, viene ad essere oggetto di nuove sanzioni ( e chi commercia con esso, di minacce sgangherate), mentre la Corea del Nord che ha completato il suo arsenale nucleare, è stata promossa da ” Stato canaglia” a cocco di papà Trump nel giro di tre mesi.

Abbiamo tutti constatato cosa sia accaduto a Saddam Hussein, Gheddafi e Assad per aver rinunziato ai WMD “mezzi di sterminio di massa”.

Disarmarsi non è dunque una opzione valida per sopravvivere. Anzi.

Proseguiamo la meditazione con due constatazioni destinate a condizionarci l’esistenza futura:

a) nessun paese dotato di armi nucleari è mai stato oggetto di invasioni, proxy guerre e rivoluzioni pseudo democratiche. Anche solo disporre di un ordigno senza vettore da usare come mina, garantisce dalle invasioni. Nemmeno il Pakistan.

b) chi esce con le ossa rotte da questa vicenda sono i paesi membri del consiglio di sicurezza più la Germania e meno gli Stati Uniti.

Credo proprio che l’intera operazione serva a dimostrare al mondo che chi conta sia soltanto il governo USA e che l’Europa, la Russia, la Cina, anche messi assieme, non contino granché, quindi ogni accordo con loro è caduco.

Basta un qualsiasi Trump per ridurre a zero la loro credibilità.
Mondo multipolare un corno.

Dall’accordo sul clima alla Corea del Nord, se non hai il bollino qualità degli USA non hai alcuna garanzia di essere dalla parte della legalità internazionale.

L’unico rischio che corrono gli USA è che la frequentazione di Russia e Cina ( e India?) potrebbe piacerci.

La solitudine in casa e fuori non fece bene a Macbeth, non farà bene a Trump.

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