EUROPA SI EUROPA NO, di Antonio de Martini

Antonio de Martini ricostruisce da par suo a larghi tratti le dinamiche che hanno portato alla condizione attuale dell’Europa, in particolare dei suoi stati e dei suoi popoli. Ne evidenzia le fratture che hanno determinato ascesa e declino e conclude con un appello accorato: “L’Europa deve restare unita ad ogni costo come entità geopolitica e regolare i conti in famiglia. Se possibile, spietatamente.” E’ un appello realistico e corrispondente alla realtà? Sino a che punto il peccato d’origine dell’Unione Europea, la natura delle sue classi dirigenti, la conferma della sua espressione di dipendenza geopolitica con la implosione del blocco sovietico rendono praticabile una strategia interna di trasformazione della sua missione politica?

EUROPA SI EUROPA NO

Credevo di parlare a gente che sa cosa sia l’Europa e conosca le sue istituzioni. Mi sono accorto dell’errore.

Bisogna partire da zero.

Chi guarda all’Europa di oggi, scopre la caratteristica di una grande civiltà in guerra perenne con se stessa.

È un grande cervello – dove si è più volte pensato il pensiero del mondo – ma ha in se due segni di frattura che vengono definite CULTURE dagli intellettuali e che periodicamente degenerano in tumori che cercano di distruggerla.

La prima frattura è quella tra la cultura cattolica e quella protestante.
L’altra è la religione dell’attaccamento al patrio suolo, con confini che nell’ultimo trentennio hanno assunto addirittura dimensioni provinciali.

Il carattere di ogni società procede dalla sua filosofia, ossia dalla sua religione.

Prima del cinquecento, l’Europa ( e il mondo Mediterraneo di cui non parleremo) era unita e una sola era la religione, da quando Costantino imperatore l’aveva unificata accettando il cristianesimo e creando lo strumento unificante dei Concili per evitare scelte frazionistiche ( eresia = scelta).

L’Europa rimase sostanzialmente una – col nome di cristianità- fino alla Riforma e alle guerre che ne seguirono.

Dal punto di vista geopolitico, gli inglesi introdussero il concetto di “equilibrio europeo” che postulava la divisione dell’Europa in due blocchi e loro ago della bilancia.

I tentativi di ricreare l’Impero unito naufragarono regolarmente ma il danno si allargò perché ogni tentativo ( dei franchi, degli Hohenstaufen, degli Ottoni, degli Absburgo) contribuì, con morti e battaglie, a creare delle metastasi: il concetto di patriottismo e in successivi frazionamenti addirittura fedeltà a dinastie o singoli.

Tutti pretesero riti, cerimonie, giuramenti, ripresi dalla religione, il cui indebolimento progressivo veniva ad essere surrogato con la dimensione “ laica” territorio/signore.

Gli intrighi del papato fecero il resto, ossia cercavano di supplire all’indebolimento della capacità aggregante della religione con l’assunzione di un ruolo politicoe la stipula di alleanze.

Lo stesso “ laicismo “ nacque come concetto a causa delle scomuniche scagliate contro i re francesi.

Il massacro, enorme per l’epoca, della guerra dei trenta anni impose a tutti i trattati di Westfalia e l’accettazione di una serie di leggi internazionali ( che proibivano la pirateria, riconoscevano ai principi tedeschi la scelta religiosa , confini e diritti riconosciuti, princìpi di non ingerenza ecc).

L’affermarsi del nazionalismo in Francia ( Richelieu) e successivamente con Bismarck in Germania ( e gli intrighi inglesi) portarono a confronti armati sempre più cruenti fino al massacro inaudito di trenta milioni di persone nella prima guerra mondiale.

Si giurò che “mai più”, ma una pace mal concepita indusse la Germania ad affidarsi a chi prometteva la rivincita .

La seconda guerra mondiale portò il numero dei morti a sessanta milioni e alla creazione di strumenti bellici capaci di distruggere il pianeta.

Nessuna meraviglia che l’idea di riunificare l’Europa prendesse nuovamente piede assieme all’idea di bandire la armi nucleari.

Anche l’Inghilterra – stremata, surclassata dagli USA e con l’impero perduto – per qualche anno percorse questa strada, ( Churchill promosse anche con successo la costituzione del Consiglio d’Europa), ma riprese dapprima l’armamento nucleare e poi la strada della competizione con una Germania dimezzata ma ancora capace di produrre più ricchezza di un’ isola senza impero e senza agricoltura.

Nel frattempo era nata una forma di Europa economica in funzione anti sovietica, accettabile, perché importatrice solvibile , anche dalla nuova potenza anglosassone nata dai due conflitti mondiali.

La morte di Stalin raffreddò il processo di unificazione in atto ma non riuscì a fermarlo.

L’Inghilterra tentò di mettersi in competizione radunando – il vecchio sogno di Hitler- i paesi satelliti del nord del mondo creando “ la zona di libero scambio “, ma nel 1973 si arrese ed entro nella Comunità economica Europea

La caduta dei soviet e lo sfaldamento del patto di Varsavia produssero – come era già avvenuto per la morte di Stalin- una nuova sensazione di sicurezza appena temperata dalla riunificazione della Germania.

Siamo ormai ai tempi nostri. Senza entrare nel merito basterà dire che gli USA non potendo più reggere il loro ricco e dispendioso treno di vita, identificarono il pericolo per la loro egemonia politica ed economica, nel fattore Europa/ Germania.

L’Europa ha quasi il doppio degli abitanti/consumatori degli Stati Uniti, tecnologie se non superiori, uguali; capacità di sfruttamento dei paesi meno sviluppati e legami mondiali più soft.

Basterebbe la sola Germania, alleata con le riserve della Russia a piegare gli USA.

L’Europa Unita legata a Russia o Cina relegherebbe gli USA al rango potenza secondaria.

Da quando il presidente George Bush senior annunziò IL NUOVO ORDINE MONDIALE, gli USA hanno incoraggiato la rottura tra l’Unione Europea e l’Inghilterra; distrutta la Jugoslavia che minacciava da tergo i paesi dell’est Europa; occupato , di fatto, il continente africano con 86 nuove basi e presidi militari ; polverizzato le velleità indipendentistiche del mondo arabo; indebolito i paesi dell’Europa Mediterranea esportandovi la loro crisi finanziaria e proibendo loro di commerciare con la Russia e l’Iran ; destrutturato la Libia, l’Irak e il Venezuela , ipotecando così l’intera produzione petrolifera del mondo ( eccetto la Russia e Kazakistan).

Unici ostacoli : l’Asia, dove l’Afganistan, e la Siria resistono in armi da 17 e 8 anni rispettivamente e l’Iran ( sono gli stessi paesi che resistettero nel XIX secolo agli attacchi inglesi, con l’aggiunta della Siria all’epoca, ottomana ) .

Il cemento unificante della unità Europea , la cristianità, è in crisi profonda e fu respinta , col silenzio, quando Benedetto XVI lo propose.
L’unico cemento comune rimasto , la democrazia, vissuta dai più come sinonimo di benessere, è crollato sotto i colpi della crisi finanziaria “ globale”.

Manca, oggi, la motivazione filosofica per l’Unità Europea, ma sussiste l’imperativo categorico geopolitico senza il quale saremo condannati all’oscurità per il resto dei tempi.

L’urto più subdolo , sotterraneo, violento è decisivo si sta avendo – nel contempo- tra il mondo cattolico e quello protestante, con quasi gli stessi protagonisti di un tempo, ( Irlanda, Cuba, America Latina, Africa sub sahariana) ma con “una guerra senza guerra” giocata a colpi di comunicazione planetaria. Chi primo conquisterà la Cina vincerà la partita.

Il Papa è gradito a circa il 55% del mondo ( con punte dell’80 % in zone strategiche come Italia-Spagna-Polonia mentre gli USA sono attorno al trenta e arrancano con la palla sul piede di Israele al 20%. del gradimento mondiale e in discesa.

Di qui la “scoperta” della omosessualità dei preti e l’accusa di “ inazione” mossa al Papa da parte di paesi che pur fanno della omosessualità una bandiera di libertà e degli stupri sistematici di interi orfanotrofi del Galles un hobby per intoccabili lords.

Il Papa è in difficoltà sopratutto interna ( replica della operazione wikileaks in chiave vaticana, vicenda omosessualità dei prelati e frazionismo del Papa dimissionario che sembra non aver chiara la situazione geopolitica per concentrarsi su aspetti dottrinari, permettetemi di dirlo, desueti) .

Le prossime elezioni Europee sono l’opportunità che si offre agli USA per dare una ulteriore spallata alla costruzione europea con stati e partiti neo costituiti e dai finanziamenti opachi, i cui protagonisti sono costantemente “ pompati” dai media.

Questi stati e liste quisling sono guidate da marionette al cui confronto i collaborazionisti del terzo Reich erano dei premi Nobel di ogni disciplina e dei gran signori.

Salvini e Di Maio hanno avuto in sei mesi più copertura stampa ( anche internazionale) che Andreotti in quaranta anni. E c’è ancora chi ha dubbi.

L’Agente USA Bannon è venuto in Italia per seminare discordia tra le file dei cattolici, specie tradizionalisti, dispone di ingenti fondi ( ad esempio, ha stipulato un affitto ventennale della Abbazia di Trisulti ( 24.000 metri quadri) e ha detto a Salvini che il vero nemico è il Papa.

I suoi consigli di strategie politiche può darli qualsiasi pubblicitario con cinque anni di esperienza, ma capisco che a costoro sembrino oracoli. Gira con un seguito da magnate con fondi “ di proprietà di una signora”.

L’Europa deve restare unita ad ogni costo come entità geopolitica e regolare i conti in famiglia. Se possibile, spietatamente.

Gli Inglesi – che mostrano segni di europeismo tardivo- sono già fuori. The sooner, the better.

Quale Europa e quante Europa nel prossimo futuro_Intervista a Pierluigi Fagan

 La Brexit, il patto franco-tedesco, il gruppo di Visegrad sono il segno di un processo di riconfigurazione delle relazioni tra gli stati europei che sta mettendo in forse l’attuale organizzazione della Unione Europea. L’unica area ad assumere un carattere magmatico e poco definibile rimane l’Europa Mediterranea; proprio lo spazio che torna ad assumere un ruolo strategico di primaria importanza nelle complesse dinamiche geopolitiche determinate principalmente, ormai, da stati extraeuropei. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

La religione del progetto europeo_Intervista a Régis Debray

http://www.lefigaro.fr/vox/societe/2019/03/29/31003-20190329ARTFIG00111-regis-debray-a-force-de-vouloir-accueillir-toutes-les-identites-l-europe-n-a-plus-d-identite.php

Il progetto europeo è, secondo Régis Debray, una religione prima ancora che un’impresa politica. Per questo motivo, sostiene, nonostante il fallimento politico dell’Unione Europea, i nostri leader continuano a crederci. Come infestato dall’Europa fantasma.

Le Figaro.- il tuo libro, l’Europa fantasma *, sotto la collana “Tracts”, esce a tre mesi dalle elezioni europee. È un caso?

Régis Debray.- No, ma l’attualità è solo un aggancio; Antoine gallimard e Alban Cerisier hanno ripreso il titolo di una collezione degli anni ‘ 1930, che ha pubblicato gide, Thomas Mann, giono e altri. L’ idea è di richiedere a scrittori  testi brevi, senza gergo e senza ingiurie, sul momento storico. Per tanto non è l’elezione europea, con le sue pie intenzioni, che mi ha interessato, ma le basi spirituali di un’utopia politica. Non dimentichiamo che la sua bandiera blu cielo procede dall’apocalisse di San Giovanni. Le Dodici stelle sono quelle di Notre Dame.

Cosa significa questo titolo, l’Europa fantasma?

E’ un occhiolino all’Africa fantasma di Michel Leiris dove rivela la sua delusione di occidentale che sperava con il raid Dakar-Gibuti, nel 1932, di diventare un altro uomo al contatto di un’altra civiltà, e che finisce con ” Rifiutare la pienezza di esistenza a questa Africa in cui avevo trovato molto ma non il rilascio “. Anche noi aspettavamo di essere rilasciati dal nostro pesante passato, dai nostri egoismi, dalle nostre passioni assassine, da un’Europa serenamente unita ed ecco che tornano in forza, questi egoismi e che questa costruzione ideale si rivela in realtà evasiva, randagia e senza corpo. Una non-persona. Questo non ha solo svantaggi. Un essere galleggiante e sfocato può continuare a perseguitare gli spiriti, come un ritorno. E di fatto, da lontano, in lontananza arriva il rilancio, il piano miracoloso, l’annuncio di Rinascimento, per resuscitare la fiamma e i cuori. Il ritmo è decennale.

Stai paragonando il progetto europeo a un messianismo, a una religione. In che modo lo è?

Da molti lati, l’europeismo è l’oppio delle nostre elite, espressione del loro sconforto politico e protesta contro questo sconforto. Io faccio una parodia della formula marxiana, ma accanto al comunismo e al nazionalismo, il supplemento d’anima del techno fa una religione laica molto debole, che non mobilita nessuna influenza, non ricorda nessun passato e non definisce alcun futuro. “in nazionalità è proprio come in geologia, il calore è giù”, diceva Michelet. Per L’ Unione Europea il calore è in alto e non scende. È una locomotiva senza carri, constata proprio Védrine. A Pechino non importa, e le elezioni europee sono in realtà un sondaggio di opinione a grandezza naturale, ad uso domestico, e che interessa solo professionisti, politici e media.

Detto questo, c’è stato in partenza, all’indomani della guerra, un fervore, uno slancio grazie alla convergenza di due messianismi, il cristiano e il progressista – una giunzione miracolosa tra l’impero della grazia, per un ritorno di Cristianesimo, e l’impero della ragione, come vuoto unificante e pacificatore. Jacques Delors è servito da ponte tra questi due versanti, da cui il consenso sul suo nome. Purtroppo, i due pilastri del tempio, il democratico cristiano e il socialdemocratico, sono crollati, e non resta altro che un neoliberalismo secco e crudo. Non molto motivante. Ma alla fine, religione viene dal latino religare, collegare, raccogliere. Questo pone una base comune agli eletti, come testimonia l’ultima conversazione del presidente con i suoi consiglieri e gli intellettuali del suo cenacolo. La Fede è sparita, ma l’autostima rimane. È un narcisismo al più. Umiliante per il gregge delle grandi menti allineate dall’Eliseo, ma gratificante per il maestro d’opera.

Se è una religione, il numero dei suoi fedeli appare oggi in declino?

Il piccolo numero di fedeli, e la debolezza delle adesioni sempre più titubanti, mi sembra abbiano diverse cause. Il mondo è cambiato dal trattato di Roma, nel 1957. Si è globalizzato nella sua dimensione e saccheggiato nella sua composizione – questo spiega quello. Che la globalizzazione techno-economica sfoci in una balcanizzazione culturale e politica, con una crescente frammentazione dei set organizzati, è una prova. Ne parlo ripetendolo da quarant’anni, e tutto ciò finisce per imporsi alla vista di tutti. Poi non siamo più all’età dei blocchi politico-militari, e non ne esistono più, a parte la Nato. C’ era un nemico, una cortina di ferro, una nicchia da tenere. Di fronte a Stalin, fare blocco è giustificato. Oggi l’Unione Europea è un anacronismo: troppo piccolo per le sfide mondiali, economiche, ecologiche e altri, e troppo grande, a 27, per una qualsiasi coerenza. È diventato un giogo, non un trampolino di lancio.

L’ Europa attuale è tedesca o americana?

Entrambi non sono incompatibili. L’ Europa dei fondatori è iniziata a matrice americana, nella sua ispirazione e nel suo finanziamento più o meno segreto; è diventata a preponderanza tedesca, dopo l’allargamento che ha spostato ad est il centro di gravità. È normale che un’Europa fondata sul primato dell’homo oeconomicus sia dominata dalla prima economia del continente.

L’ homo oeconomicus americano si è unito a una fede in Dio, “in Dio noi confidiamo”. E da noi si vuole autosufficiente. Confronta un biglietto da 10 dollari, che articola una metafisica su una storia concreta e una geografia precisa, con un biglietto di 10 euro, che è un biglietto di monopoli senza valuta, senza volto e senza luogo, e capirai tutto … Non una silhouette sotto questi archi in sospensione tra cielo e terra, come apparizioni spettrali. Da un lato, un popolo, quindi una storia. Dall’altro, un aggregato, fuori terra e fuori dalla storia.

Cosa ne pensa dell’idea che l’Europa avrebbe portato la pace?

Non è l’Europa di Bruxelles che ha fatto la pace, è la pace mondiale che ha fatto questa Europa, quando la dissuasione nucleare ha congelato da una parte e dall’altra i conflitti in ogni campo, ogni signore, Stati Uniti e URSS , non avendo alcun interesse a vedere i suoi protetti dvidersi. E questa Europa ha dovuto chiamare gli Stati Uniti per riportare la pace nell’ex Jugoslavia, incapace di restaurarla da sola. Non può né fare guerra né fare pace. Che peccato.

Lei dice che istituzionalizzandosi, l’Europa si è sconfitta…

La vostra domanda mi fa sovvenire una risposta di de De Gaulle a Malraux nelle querce che si abbatte: ” L’ Europa le cui nazioni si odiavano aveva più realtà di oggi.” bisogna rileggere questa intervista del 1969, premonitrice, come tutti I PRONOSTICI GAULLIANI. ” senza dubbio assistiamo, disse, alla fine dell’Europa. Buona fortuna a questa federazione senza soggetto federativo.” potrebbe essere l'” Anglobal ” il grande e unico federativo. La famosa parola apocrifo di Jean Monnet, “se avessi saputo avrei iniziato con la cultura”, non ha senso, visto che la cultura è prima la lingua! Se vai a Bruxelles, vedrai che è diventata una città inglese, mentre Ginevra è rimasta francofona. A forza di voler accogliere tutte le identità, l’Europa non ha più identità. Il nostro grande promulgatore di allarmi ha lanciato nei suoi ultimi giorni un avviso sul quale i nostri responsabili nella loro fuga in avanti avrebbero interesse a meditare: ” non ho mai creduto bene di affidare il destino di un paese a ciò che svanisce.”

A domani de Gaulle?

Non facciamone un nazionalista. E’ lui che ha assicurato e formalizzato la riconciliazione franco-tedesca, con Adenauer; instaurato l’ufficio Franco-tedesco della gioventù. E ha sinceramente voluto un’Europa europea con il trattato dell’Eliseo e il piano Fouche. Purtroppo il Bundestag, consigliato da Jean Monnet, l’ha inviato sulle rose. Da qui la sua battuta: ” i trattati sono come le ragazze e le rose. Dura quello che dura.” uscire dal protettorato americano è sembrato sacrilego ai nostri amici tedeschi. Speriamo che questa paura non durerà per sempre. Possiamo dubitarne.

Non vi riconoscete nell’opposizione tra nazionalisti e progressisti concettualizzata da Emmanuel Macron?

No, affatto. Questa opposizione è stata concettualizzata, non molto tempo fa, da Drieu la Rochelle, eminente progressista che chiedeva a “L’ Europa nuova” di trascendere i vecchi nazionalismi mortiferi.

Ecco perché, disse, lui così come un numero di intellettuali e accademici di questo periodo, per liberarsi degli sciovinismi che ci hanno fatto tanto male, bisognava difendere tutti insieme la fortezza Europa contro le orde bolsceviche, ciò di cui si sono caricati nel 1944 le waffen ss della divisione Carlo Magno, con i suoi 7000 volontari. Dovremmo riaprire i nostri libri di storia, ma non è mai troppo tardi per fare bene. Non c’è solo l’economia nella vita.

Questa opposizione, Ariel contro Calibano, un imperium economico e giuridico contro le culture locali maltrattate, l’ovest contro l’est, fa ovviamente il profitto dei nazionalisti. Per resistere agli imperi, l’Europa centrale e balcanica non ha mai potuto riposare su uno stato, ma sulla sua cultura ancestrale, e la resistenza passa sempre lì attraverso la lingua e la religione. Perché riaccendere questa brutta tradizione?

Andiamo verso il ritorno delle nazioni o l’Europa delle tribù?

Fai la domanda chiave. Bisogna assicurare un futuro alla Nazione civica, la nostra, fondata sul “è francese chi lo vuole”, e impedire a tutti i costi che la nazione etnica, fondata sulla legge del sangue, non venga a sostituirla. Questo è il grande pericolo. La tribù, contrariamente a ciò che si crede, è una forma di organizzazione ahimè sempre più moderna, e l’Europa, che doveva federare, diminuisce e frammenta gli stati nazioni, accelera i separatismi, vedi la Spagna, il Belgio, la Gran Bretagna, la Padania italiana. Auguriamo che la Repubblica dei cittadini resista al grande ritorno del feudalesimo, a cosa porta, paradossalmente, il sovranazionale.

Come si fa a fare questo insieme?

Non ne ho idea. Bisogna lasciare tempo al tempo. Ci saranno soprassalti, effetti di traino e senza dubbio un’unione doganale mantenuta, e alcune giurisprudenze. Ma i popoli rischiano di stancarsi di vedere giudici non più servi della legge, ma medici di norme che dimenticano che la legge repubblicana è l’espressione di una volontà generale, deliberata dai rappresentanti del popolo e applicata nel suo nome. La giuridizzazione di tutti i crini della vita pubblica, sono già le dimissioni della politica.

Esiste un popolo europeo?

Purtroppo no, anche se si mette l’aratro prima dei buoi, pensando che un parlamento possa provocare un popolo. Un popolo, non è solo una comunità di interessi economici ma una comunità immaginaria. Questa suscita una comuni societatis, una solidarietà affettiva, intima e istintiva. Un calaisien è interessato a ciò che sta accadendo a Marsiglia. Un francese non è interessato a ciò che sta accadendo in Polonia o in Estonia.

C’ è un cinema americano ma non c’è cinema europeo, colpa di una lingua comune e di star che parlano a tutti i paesi. “gli unici attori che si hanno in comune in Europa sono americani”, nota Jean-Jacques Annaud. E’ un sintomo interessante, anche se un po’ triste.

Sei un euroscettico?

In nessun modo. La domanda non è sapere se si è pro o contro l’Europa ma di quale Europa si parla. È come se ti chiedessero: sei pro o contro la Francia? Ma quale Francia, quella di Michelet o quella di Maurras? Di Jean  Moulin o di Le pen? Quale Europa? Ce ne sono diverse. C’ è l’Europa medievale del cattolico nostalgico, l’Europa dei lumi cara a Valéry, l’Europa carolingia del tempo dell’occupazione e l’Europa tecnocratica della Commissione. Perdonami, ma io opto per quella di Valéry.

Via della seta e capodanno a primavera, di Antonio de Martini _L’inganno sino-europeo, di Pierluigi Fagan

Per molti paesi, ad esempio l’Iran, l’arrivo della primavera coincide col Capodanno.

Quando commerciavamo con la via della seta – quella vera- anche noi adottavamo quel calendario.

Fino al XIV secolo, Firenze , che era il centro mercantile e finanziario del mondo e con quei paesi aveva contatti continui, festeggiava il capodanno al 25 marzo e finanziava i propri artigiani che erano i migliori del mondo.

Poi, la cupidigia dei banchieri fiorentini che preferirono prestare denaro, invece che agli artigiani, ai potenti politici che li spendevano per guerreggiare tra loro, provocò la crisi finanziaria che distrusse la ricchezza della città.

Tutto cominciò col BREXIT dell’epoca: re Edoardo III di Inghilterra che aveva preso a prestito oltre 1.300.000 fiorini d’oro dai banchieri fiorentini, adducendo pretesti, annunziò che non avrebbe più pagato il debito.

Iniziò la catena dei fallimenti dei banchieri e la città decadde.

Il Brexit di oggi , ora come allora, serve a preparare l’Inghilterra ( centro finanziario del mondo) a non pagare più i suoi ingentissimi debiti e far sparire le ricchezze in esso depositate.

Se fosse rimasta nella UE sarebbe stata vincolata a obblighi e sorveglianze di tipo greco.

Risolto il problema dell’uscita, sarà libera nei suoi movimenti.
Solo con questo precedente storico il brexit acquista un significato strategico.

Oggi, la crisi finanziaria di ripete identica, compreso – per i nostri banchieri- i dettagli di considerare ” pericolosa ” la via della seta e prestare il denaro allo Stato ( che aumenta le spese militari) invece che a chi punta a produrre e esportare.
Sembra un investimento sicuro perché non conoscono la storia.

MENO MALE CHE C’E’ MACRON.di Pierluigi Fagan

Sulla stampa nazionale di oggi, qualcuno nota che i francesi hanno firmato contratti coi cinesi anche più cospicui dei nostri. Solo di Airbus si parla di 30 mld (Di Maio ha firmato per soli 2,5 mld o 7 secondo altri calcoli), in più c’è molto altro. Ma ecco il colpo di genio giornalistico. Il fatto non diventa una difesa del fatto che noi abbiamo firmato per molto meno a fronte di una sproporzionata canizza di commenti strappa-capelli (dal “diventiamo colonia” al “adesso gli USA ce la faranno pagare cara”). Diventa un “Macron fa più affari di noi ma non ha alcuna necessità di firmare impegni per la BRI”. Quindi siamo cornuti e mazziati, ci siamo esposti alla firma di cose che non si dovevano firmare ed abbiamo pure svenduto il sacrificio. Però:

1) La Francia ha uno dei quattro vice-presidenti della banca cinese-internazionale che finanzia la realizzazione della BRI (Thierry de Longuemar) che condivide il board of director con un inglese, un tedesco ed un indiano (la banca è la AIIB). Ciò in ragione del fatto che la Francia è il sesto sottoscrittore di quote del capitale della banca (noi decimi, esclusa ovviamente la Cina che è la prima). Quindi non aderisce alla BRI, la finanzia.

2) Come si vede nella cartina, opportuna visto che i più sono deboli in geografia, Trieste è logisticamente il luogo europeo di costa dal quale, sbucando nel Mediterraneo da Suez, con lo stesso tratto si arriva dappertutto tra Europa del sud, est, nord, ovest. Cioè, la Francia non può essere parte della BRI perché ne è una delle tante destinazioni, non ne può essere uno snodo, almeno questo dice la geografia.

3) Il chiasso mediatico-politico agitato su spinta franco-tedesca ed americana, contro gli accordi Italia-Cina ha fatto cassare almeno una ventina di altri accordi, molti dei quali erano tra l’altro più convenienti per noi che per i cinesi. Cito ad esempio, l’agreement tra Politecnico di Milano e Huawei sulla ricerca 5G dove pare chiaro che non era Huawei a bramare le nostre straordinarie competenze, ma semmai il contrario. Proprio in favore di un aumento del nostro know-how nazionale su questa importante tecnologia, anche al fine di controllare meglio quello che i cinesi possono o non possono fare in materia.

Così ci sono quelli che vorrebbero esser governati dagli USA, da Putin, da Merkel ed anche da Macron. Per fortuna sono in ribasso quelli che vorrebbero farsi governare dai britannici. Quinte colonne che sorreggono tutti gli interessi possibili, meno i nostri. Grande Paese, grande futuro .

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I contenuti del memorandum franco-cinese_Nota a margine
Accordi firmati tra Francia e Cina:
1 – General Terms Agreement (GTA) fra Airbus e China Aviation Supplies Holding Company (CASC) per 300 apparecchi (290 A32a e 10 A350), per un valore di circa 30 miliardi di euro;
2 – Intesa fra BNP Paribas, Eurazeo e China Investment Corporation per la creazione di un fondo di cooperazione franco-cinese per 1 miliardo di euro;
3 – Accordo EDF-China Energy Investment Corporation sullo sviluppo di un progetto eolico off-shore di Dongtai (1 miliardo di euro);
4 – Accordo Fives-CNBM (China National building Materials Group) sul riscaldamento climatico e la cooperazione in paesi terzi (previsto 1 miliardo di euro): e’ la realizzazione di tecnologie pulite per ridurre il consumo energetico, soprattutto in Africa;
5 – Intesa per il sostegno da parte del fondo franco-cinese presso mercati terzi di una piattaforma sulle energie rinnovabili (fra 1 e 1,5 miliardi);
6 – Accordo di cooperazione e contratto di costruzione di 10 nuove navi con capacita’ di 15.000 container (1,2 miliardi);
7 – Contratto Airbus-Twenty First Century Aerospace Technology per il rafforzamento della cooperazione franco-cinese nel settore dell’immagine satellitare;
8 – Memorandum su cofinanziamenti fra BNP Paribas e Bank of China (fino a 6 miliardi in 3 anni) per finanziamenti in paesi terzi;
9 – Accordo di investimento fra il Grande Porto di Marsiglia e Provence promotion e Quechen silicon chemical international developement (105 milioni);
10 – Accordo cooperazione fra EDF e Huadian per la fornitura di servizi energetiche a Wuhan (100 milioni);
11 – Contratto di acquisto di un sistema di controllo ambientale fra Liebherr Aerospace e COMAC (41 milioni);
12 – Accordo cooperazione strategica fra Schneider Electric e Bank of China per il finanziamento di progetti a paesi terzi;
13 – Accordo di cooperazione strategica fra Schneider Electric e Power Construction Corporation (fino a 6 miliardi) sulla modernizzazione delle fabbriche della PCC in Cina e in un paese terzo;
14 – Partnership fra Indigo e Sunsea per lo sviluppo di parcheggi intelligenti in Cina e in altri paesi.
La Francia inoltre partecipa significativamente al fondo di finanziamento delle Vie della Seta (BRI) promosso dalla Cina

I REDUCI DEL SECOLO BREVE, di Teodoro Klitsche de la Grange

I REDUCI DEL SECOLO BREVE

Non è ben chiaro dove Zingaretti porterà il PD: a quanto sembra il richiamo al “vecchio” rispetto alla rottamazione renziana non è da sottovalutare. L’elezione di Landini e la manifestazione di Sala a Milano possono (forse) rafforzare l’intenzione di percorrere questa strada. L’apertura a Calenda (immediatamente rispedita al mittente) meno. Tuttavia la capacità di tenere insieme diverse declinazioni di una concezione politica (e non solo) è, in politica, una risorsa, ossia virtù, scriverebbe Machiavelli; onde non è escluso che il nuovo segretario del PD ambisca a realizzarla. Anche se operazioni del genere comportano il rischio dell’instabilità: lo sa bene – da ultimo – Prodi che costruendo una coalizione ampia ma eterogenea si trovò sfrattato più volte; addirittura in un’occasione da Turigliatto.

E la situazione odierna del PD è assai meno propizia di quella del ventennio (e oltre) della seconda repubblica. Non solo perché la base di partenza, cioè l’elettorato del PD è inferiore al 20%, assai meno di quello che era il “tesoretto” di Prodi (comunque intorno al 30%) ma perché la vecchia talpa ha scavato assai di più. Mentre infatti l’Ulivo, l’Unione e le coalizioni di centrosinistra presupponevano di essere uno dei poli della contrapposizione politica dominante (o ritenuta tale), cioè quella tra sinistra e destra, ma in effetti tra borghesia e proletariato, oggigiorno la consunzione di quella si è quasi totalmente compiuta: è stata neutralizzata. La capacità coagulante del nemico (avversario, oppositore) borghese o proletario, democratico-liberale o socialista è venuta meno, ed un’altra del tutto nuova si è manifestata, quella tra identità (dei popoli) e globalizzazione. Stiamo andando ad elezioni europee dove l’avversario da battere è per i vecchi partiti il sovranismo (e i sovranisti).

Per i partiti popul-sovran-identitari) le forze politiche che si richiamano alla vecchia scriminante politica, complici, quando non autori della globalizzazione e delle istituzioni in cui è “ordinata”. Ma non vorrei annoiare i lettori con tesi che da anni – ovviamente non da solo – mi capita di scrivere.

Passando al PD, in larga parte ancora costituito da quadri già PCI (molti) PDS-DS (ancora di più), occorre ricordare le differenze dal vecchio PCI rispetto ad oggi. In primo luogo la base sociale: un tempo era proletario, la base sociale del PD essendolo per oltre tre quarti: operai, braccianti, mezzadri. Ciò almeno fino agli anni ’70, in cui gli occupati del settore industriale erano oltre il 40% della forza lavoro; oggi, sono poco più del 20%. Anche se vi fosse ancora il nemico borghese, la truppa proletaria interessata a combatterlo si è ridotta a poco più della metà.

La seconda: il partito di massa. Il PCI era un partito di massa, un partito organizzato centralisticamente; il partito diceva Stalin, parlando del PCUS, è come l’ordine dei portaspada. Gli iscritti superavano i due milioni. Pare che gli iscritti odierni non passino i 500.000; anche se, con il meccanismo delle primarie, gli  interessati risultano molti di più. Ma comunque altro è recarsi ogni tanto a votare a un seggio, altro è fare, se non il “rivoluzionario di professione”, almeno il militante. Il quale fa parte del “seguito” dei politicamente attivi: l’elettore alle primarie no, come non ne fa parte né il votante alle politiche e neanche la nuova incarnazione della figura del “decidente inattivo”: l’iscritto alla piattaforma Rousseau. Tutte figure accomunate da un’attività episodica e rigidamente individuale anche nel modo dell’espressione della volontà: da soli, in una cabina o davanti a un computer. Il carattere pubblico della decisione collettiva nelle assemblee e nei comizi o nelle piazze è lì del tutto estraneo. E con esso il coinvolgimento politico.

Quanto ai valori di riferimento: quelli del vecchio PCI erano di un partito marxista-leninista; e gli interessi protetti, quelli del proletariato (pur articolati). Dopo essere passati in una fase in cui ai primi si andava (progressivamente) aggiungendo la “diversità” intesa come “questione morale”, i valori e gli interessi proletari oggi sono stati totalmente sostituiti dalla protezione dei “diritti umani”, di quelli delle minoranze, dalla libertà sessuale (ecc.) di guisa che il partito un tempo definito “partito burocratico di massa” è divenuto assai più simile al “partito radicale di massa” profetizzato da Augusto Del Noce come esito finale del comunismo italiano. Lo stesso che sembra avvenuto a gran parte dei partiti della sinistra europea (per lo più social-democratici), i quali appaiono assai meno solleciti degli interessi (e valori) del proletariato di quanto facessero mezzo secolo fa. Non meraviglia che in Europa stiano perdendo seguito in misura macroscopica, semmai desta stupore che contravvengano a quelle tendenze dei partiti (ancora più manifeste in quelli socialisti) all’accrescimento numerico e alla rappresentanza di tutti (proletariato come “classe liberatrice”) sottolineate da Michels. In conseguenza dell’abbandono delle quali stanno riducendosi fino all’estinzione, possibile e per taluni non molto lontana.

Oltretutto vi sono movimenti di “sinistra” che già appaiono in via di trasferimento/collocazione nel nuovo assetto bipolare: un sovranismo “di sinistra” cui neppure si può far carico di aver dirazzato, giacchè democrazia, indipendenza, sovranità sono stati spesso idee condivise anche lì, e anzi, spesso è merito di partiti proletari, aver difeso l’indipendenza e la sovranità dei popoli. Nulla può impedire tuttavia a chi pur essendo di sinistra intende collocarsi in nome dell’internazionalismo dell’umanità dei diritti umani (e così via) nell’altro polo, anche se, francamente appare meno in linea con la (loro) tradizione.

In questo quadro ci si può chiedere se, piuttosto che imbarcarsi in un amarcord politico, il PD non preferisca essere l’asse di un nuovo partito globalista, “Italia in marcia”, provando a ripetere quanto riuscito a Macron due anni fa. Il che presupporrebbe tuttavia l’accordo con l’arcinemico (che tal non è e neppure era) Berlusconi; e, con ciò, implica l’abbandono definitivo della “vecchia” identità. O, in alternativa, rassegnarsi ad un deperimento lento.

Teodoro Klitsche de la Grange

SOVRANISMO EUROPEISTA O “INTER-NAZIONALISMO” EUROPEO? UNA BREVE REPLICA A FRANCO CARDINI, di Fabio Falchi

SOVRANISMO EUROPEISTA O “INTER-NAZIONALISMO” EUROPEO? UNA BREVE REPLICA A FRANCO CARDINI

il link di riferimento http://italiaeilmondo.com/2019/02/18/per-un-sovranismo-europeista-di-franco-cardini-tratto-da-https-www-vision-gt-eu-wp-content-uploads-2019-02-ad_6_2019-pdf/
“Per un sovranismo europeista”* di Franco Cardini (uno degli intellettuali italiani più lucidi e capaci)  è certo un articolo che merita di essere letto, giacché, oltre ad evidenziare i gravi limiti di un “sovranismo” che rischia di configurarsi come una forma di nazionalismo “incapacitante” nell’attuale fase multipolare**, offre l’occasione per una riflessione critica sulla questione della costruzione di un autentico polo geopolitico europeo. Infatti, pure a Cardini si possono – e si devono – rivolgere diverse critiche. Vediamone brevemente alcune1) Cardini (ma non è il solo) pare non tener conto che civiltà e cultura si collocano su un piano distinto (benché non irrelato) da quello geopolitico. Ad esempio, la civiltà e la cultura greca erano imperniate sulle poleis che continuarono a farsi la guerra pure dopo la guerra del Peloponneso, finché le poleis dovettero riconoscere la supremazia del regno macedone.
Insomma, civiltà e cultura (europea) non bastano per dar vita ad un soggetto geopolitico (europeo).2) Cardini difende un sovranismo europeo, ma nulla dice del debito sovrano dei singoli Stati europei. Dovrebbe allora esserci un unico debito pubblico europeo? E la Germania che non ha voluto nemmeno gli eurobond accetterebbe? Quello che le banche tedesche e francesi hanno fatto alla Grecia non ha nulla da insegnare? Inoltre, è davvero possibile che un generale greco o italiano possa comandare la difesa europea, inclusa la force de frappe? E quale dovrebbe essere la politica estera dell’Europa? In altri termini chi deciderebbe? La Germania vuole un seggio all’Onu (e non ne vuole sapere di un seggio europeo) e la Francia non è certo disposta a rinunciare al suo. Come la mettiamo allora con il sovranismo europeo?
3) Cardini da un lato sostiene che l’Europa dovrebbe smarcarsi dai potentati economici e finanziari, che ritiene dei poteri “transnazionali”, dall’altro però pensa che per riuscirvi l’Europa si dovrebbe sganciare dall’America, ossia da uno Stato nazionale. La contraddizione è palese, perché in pratica questo equivale a riconoscere che i potentati economici e finanziari sono e non sono “transnazionali” in quanto di necessità “agganciati” a precisi centri di potenza (geo)politici, ossia in quanto non possono non agire in sinergia con uno Stato nazionale egemone o con più Stati nazionali (anti-egemonici o sub-dominanti), che del resto sono ancora i principali attori geopolitici sulla scacchiera globale. Difatti, solo gli Stati possiedono i mezzi di coercizione (satelliti, missili, aerei, navi da guerra, forze corazzate, servizi, polizia, tribunali, prigioni, ecc.) per “regolare” i rapporti internazionali. D’altronde, è forse possibile spiegare la guerra in Siria o il conflitto israelo-palestinese o lo scontro tra Israele e l’Iran o la questione dell’Ucraina o la guerra dell’Arabia Saudita nello Yemen o il terrorismo islamista e via dicendo “solo” con il potere della finanza o la geoeconomia? Ovviamente no. Qualunque riflessione sulla questione di uno spazio geopolitico europeo e della “sovranità nazionale” quindi dovrebbe perlomeno tener presente che per comprendere la realtà geopolitica occorrono non solo categorie economiche o “ideologiche” ma anche e soprattutto categorie politico-strategiche.D’altronde è noto che terminata la Seconda guerra mondale gli americani erano disposti ad appoggiare i vari movimenti nazionalisti del Terzo Mondo. Tuttavia dovettero riconoscere che pure i comunisti erano nazionalisti. Come allora giustificare la lotta contro il comunismo? Il problema lo risolsero sostenendo che i comunisti non erano veri nazionalisti.
In realtà, era vero l’opposto. Ho Chi Minh, ad esempio, era comunista ma pure nazionalista dalla punta dei piedi fino alla punta dei capelli, per così dire. Il fatto che i vietnamiti comunisti fossero nazionalisti  rappresentava la regola non l’eccezione per quanto concerne le varie lotte di liberazione dopo la Seconda guerra mondiale.
In questa prospettiva, si dovrebbe allora comprendere che oggi più che di un sovranismo europeista vi sarebbe bisogno di una lotta di liberazione nazionale dei popoli europei, ossia di una “Internazionale” dei popoli europei. In definitiva oggi essere “inter-nazionalisti” significa sia difendere il “senso di appartenenza” che opporsi al capitalismo predatore neoliberale ovvero opporsi tanto all’euro-atlantismo (mascherato da europeismo) degli eurocrati quanto all’imperialismo neoatlantista di Trump e Bannon.
*Vedi https://www.vision-gt.eu/platform-europe/per-un-sovranismo-europeista/?fbclid=IwAR3IuoODDScZH4zjsiWOZQ_P-Z5TEQBngxxQvY9hW4-rkPDEmVocx2lQD6g
** Tuttavia, si deve distinguere tra diverse forme di nazionalismo. Un conto è lo sciovinismo, che genera intolleranza e xenofobia, un altro il patriottismo, ovverosia la difesa del “senso di appartenenza” ad una terra, ad una cultura, ad un popolo. In quest’ultimo caso non si può certo parlare di nazionalismo ottuso, basti pensare alle lotte di liberazione nazionale.

Per un sovranismo europeista, di Franco Cardini – tratto da https://www.vision-gt.eu/wp-content/uploads/2019/02/AD_6_2019.pdf

Il termine “sovranismo” sino a un paio di anni fa è servito più che altro ad esorcizzare tutti quei tentativi di recuperare nella battaglia politica e nell’analisi teorica il ruolo e la funzione degli stati nazionali. L’evidenza delle dinamiche geopolitiche fondate sull’azione fondamentale di questi, la crisi delle teorie globaliste più radicali  e il contestuale ritorno a pieno titolo nel dibattito di queste chiavi di interpretazione hanno concesso piena legittimità a questo termine anche negli ambienti più ostici e riottosi. E’ il ritorno sulla ribalta del “politico” a scapito dell’economicismo e dell’apoliticismo sino ad ora imperanti. Un segnale positivo e promettente, ma foriero anche di indeterminatezze e fraintendimenti; un rimescolamento utile comunque a puntualizzare e sviluppare gli argomenti. Qui sotto il saggio del professor Franco Cardini apparso sul nuovo sito di particolare interesse www.vision-gt.eu_Giuseppe Germinario

Per un sovranismo europeista

Franco Cardini

https://www.vision-gt.eu/wp-content/uploads/2019/02/AD_6_2019.pdf

PER UN SOVRANISMO EUROPEISTA

Dalla “storia” personale alla storia di una falsa partenza europeista.

 

Pare che il cuore non invecchi: peccato che invecchi il resto, obiettano i pessimisti. Eppure, sarà un po’ il complesso di Peter Pan che molti vecchietti si portano addosso, sarà la sensazione di un discorso rimasto sospeso, di qualcosa che più che essere fallita è stata tradita e abbandonata, ma quando penso all’Europa mi pare che, per quanto mi riguarda, il tempo si sia fermato. E mi ritrovo ancora al 1965, in quella stanzetta del centro vecchio di Firenze dove una decina di noi, pagandosi mese dietro mese per autotassazione l’affitto “di tasca nostra”, discuteva di Russia e di America, di Nasser e di Fidel Castro, di “terza forza” e di non-allineamento”. Venivamo compatti da un partito, il Movimento Sociale Italiano, che si caratterizzava per una curiosa schizofrenia: al di là del diffuso e seminnocuo nostalgismo neofascista che  per alcuni era una caccia calda e per altri una riserva di voti, esso parlava alla base e per la base un linguaggio ispirato a un radicalismo sociale che sarebbe sembrato forse massimalista allo stesso Bordiga mentre ai vertici (ch’erano quelli ai quali si erano accomodati, se non su poltrone quanto meno su poltroncine e strapuntini, i nostri deputati, i dirigenti locali, gli intrufolati nei vari sottogoverni, i faccendieri politici eccetera) si restava fedeli a un atlantismo opaco, ostinato, che al momento buono nei corridoi del parlamento si traduceva in voti d’appoggio a quel potere costituito che pure,  ufficialmente, li faceva sputare addosso dai suoi media (ma allora non si chiamavano così) e manganellare dalla sua polizia. Quanto alla chiamiamola così “ideologia” di partito, ci si fermava a un nazionalismo miope e greve, roba da “Maestrine della Penna Rossa” di de Amicis che avrebbe indignato il vecchio Corradini da quanto era sorpassato: non si andava al di là di Trieste italiana e dell’anticomunismo, e quando noi giovanotti ci ostinavamo a rievocare la nostra più eroica stagione, i fatti d’Ungheria del ’56, gli altri rimanevano tiepidi. Le prospettive europeistiche alle quali allora aderivamo, lontani da quelle del Movimento Federalista e del “Manifesto di Ventotene”, erano semmai quelle di Pierre Drieu La Rochelle che Paul Serant aveva disegnato nella monografia Romanticismo fascista.

Usciti dal MSI nel 1965, aderimmo tutti a Jeune Europe, il movimento fondato dal belga Jean Thiriart – un vecchio sostenitore di Léon Degrelle –  che fu tra l’altro il primo a usare sistematicamente e intensivamente del simbolo della “croce celtica”, del quale in seguito i movimenti neofascisti si sono appropriati. Ma Jeune Europe, nonostante in tal modo sia stata qualificata  dai  mass  media,  non  era  affatto  un  movimento      neofascista:

propugnava il concetto di “Nazione Europea” sostenendo che, nonostante il plurilinguismo e il suo carattere – come avrebbe scritto Massimo Cacciari – di “arcipelago” – i popoli europei avevano il diritto storico di adire a un sentimento nazionale così come i nordamericani avevano rivendicato per se stessi il diritto a dirsi “nazione americana”. Jeune Europe sosteneva la necessità storica, per l’Europa, di unirsi cancellando la separazione in  “Mondo Libero” e “Mondo Socialista” che con la Cortina di Fero le era stata imposta da USA e URSS e di costituire un solo stato per un solo popolo, indipendente e neutrale (per quanto non equidistante) rispetto alle superpotenze USA e URSS. La parte migliore delle cose frettolosamente elaborate all’interno di Jeune Europe, che si sciolse spontaneamente nel 1969, è confluita poi nel Think Tank guidato da Alain de Benoist, il cui pensiero di “Nuovo Destra”, rielaborato poi in “Nuove Sintesi”, è oggi ripreso con grande libertà e sviluppato nelle riviste “Trasgressioni” e “Diorama Letterario”  dirette da un apprezzato universitario specialista di scienza della Politica, il professor Marco Tarchi dell’Università di Firenze.

Non ho finora detto nulla dell’Unione Europea, nata com’è noto dallo sviluppo della CECA (Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio) poi trasformatasi in CEE (Comunità Economica Europea) e articolatasi nelle istituzioni della Commissione Europea, del Consiglio d’Europa e del Parlamento Europeo. Posso adesso dichiarare in tutta serenità e franchezza  che nell’UE avevamo riposto speranze e fiducia in quanto ingannati non già dai suoi atti ufficiali – che mai si sono discostati dalla natura economico- finanziaria di essa -, bensì da frequenti dichiarazioni dei suoi rappresentanti, che a lungo hanno fatto credere che esistesse, in prospettiva, la volontà di trasformarla in una realtà politica in qualche modo capace di esprimere una vita statuale, di tipo federativo (di modello tedesco o statunitense) o confederativo (di modello svizzero) che fosse. Insomma, quel che in qualche modo ci auguriamo e continuiamo ad augurarci erano (sono, e restano) gli “Stati Uniti d’Europa”. Bisogna dire che, specie dopo il deplorevole  fallimento del decollo di una Costituzione Europea che si è fermata al preambolo scivolando sulla buccia di banana dell’affermazione o meno di “radici cristiani” alla base dell’identità europea e della sua storia, la fiducia nella volontà e nella capacità dell’UE di trasformarsi in una realtà politica è venuta del tutto meno.

Siamo, in altri termini, all’Anno Zero dell’unità politica europea. L’Unione Europea, questa venerabile istituzione che vanta Padri Fondatori quali Alcide De Gasperi, Robert Schuman e Konrad Adenauer, non ha in fondo fallito ai suoi compiti, in quanto essi sono sempre stati di natura economica e finanziaria; ha conseguito traguardi d’integrazione importante quali l’abolizione dei dazi di frontiera, l’adozione di tariffe comuni per le importazioni, l’adozione di una moneta comune e vari provvedimenti di finanziamento importante di organi ed iniziative quali i programmi universitari Erasmus. Il punto è che i popoli europei hanno sperato per  lunghi anni che tutto ciò conducesse anche, in tempi ragionevolmente rapidi, a un’unità politica: Pe essa, com’è noto, sono necessari quattro elementi: la “bandiera”, vale a dire l’identità politica istituzionale”; la “toga”, vale a dire quella giuridica e giurisdizionale”, la “spada”, vale a dire il sistema comunitario di difesa”; la “moneta”, vale a dire una valuta unica. Solo il quarto di questi elementi esiste oggi: ed è garantito dalla Banca Centrale Europea, che non è soggetto di diritto pubblico. Si è parlato per lungo tempo, e si parla ancora, di un “esercito europeo”: ma per il momento ci si è limitati a obbligare qualunque stato intenda aderire all’UE ad aderire altresì alla NATO, organizzazione militare alla quale partecipano anche gli USA e che, nata per fronteggiare la potenza sovietica, non ha ancora trovato dopo la dissoluzione di essa il modo di ridefinire e di rilegittimare i suoi obiettivi, restando tuttavia egemonizzata da una potenza extraeuropea, gli Stati Uniti. Nel corso della “guerra fredda”, e poi durante gli anni che hanno assistito al crescere della preoccupazione per un vero o supposto “problema islamico”, si è fatto strada un comune, crescente sentimento di semi-identificazione tra un’Europa del  cui carattere istituzionale di potenza politica non si parlava più e un concetto politico-culturale vago ed ambiguo, l’Occidente.

Giunti quindi all’Anno Zero dell’integrazione europea, riconosciuto cioè che l’unione socioeconomica e sociofinanziaria disegnata dall’UE non ha condotto ad alcuna integrazione politica, e che a questa dobbiamo mirare se non vogliamo cedere al riemergere di sentimenti e d’impulsi micronazionalistici quali si presentano nella forma dei cosiddetti sovranismi,  è necessario far chiarezza su che cosa sia l’Europa e che cosa l’Occidente.

Europa e Occidente

 E’   problematico   il    sostenere   l’esistenza   effettiva   di   un’identità «occidentale», il proporne l’alterità o la complementarità rispetto a una “orientale” e magari l’identificare sia pur più o meno imperfettamente il concetto di Europa con quello di Occidente e pretendere quindi che esso possa definirsi unicamente nel confronto-scontro con “l’Oriente”, come invece con disinvoltura si tende a fare specie nei paesi della cosiddetta Europa occidentale: espressione essa stessa d’altronde abbastanza vaga, resa chiara e perentoria (e fornita dunque di una sua ingannevole “realtà”, non corrispondente ad alcun oggetto concreto) solo in seguito e a causa degli anni della “guerra fredda” e dell’affrontamento tra paesi aderenti all’Alleanza Atlantica e paesi stretti attorno al Patto di Varsavia.

Poche nozioni sono infatti più infide e scivolose di quella di  “Occidente”, tanto più poi nella misura in cui essa tende ad assolutizzarsi e a metastoricizzarsi. In effetti, il concetto di Occidente è relativamente nuovo e sembra di per sé inscindibile da quello di modernità: vero è che gli si sono trovate antiche radici – coincidenti appunto con quelle dell’Europa – facendolo erede della Grecia antica in lotta contro la Persia1 e di quella Cristianità latino-germanica (che in differente misura e in tempi diversi fu anche celtica, slava, baltica, perfino uraloaltaica con ungari e finni) la quale però poteva  dirsi “occidentale” – nozione questa che, al puro livello geografico, è, come qualunque altra del suo tipo, eminentemente relativa – in quanto istituzionalmente figlia della pars Occidentís dell’impero romano, ritagliata alla fine del IV secolo da Teodosio per il figlio Onorio. Si è riusciti pertanto ad enucleare un concetto in apparenza univoco di “Occidente” solo a patto di passar sopra alle grandi sintesi eurasiatiche e mediterranee, quali quella avviata da Alessandro Magno e che da almeno il I secolo a.C. fu assunta a fulcro delle scelte politiche e culturali dell’impero romano: una sintesi che preparò e rese possibile nei tre-quattro secoli successivi il trionfo in tutta  l’area ellenistico-romana di una religione nata nel Vicino Oriente per quanto ormai ritrascritta largamente nei termini di una filosofia greca che aveva dal canto suo largamente attinto ai lidi dei misteri egizi, dell’astrologia caldea, della sapienza ebraica e persiana. Ma la vittoria del cristianesimo fu possibile, come ha sostenuto Arnold Toynbee in Il mondo e l’Occidente, in quanto “la minoranza dominante greco-romana che aveva devastato il mondo conquistandolo e saccheggiandolo e ora ne pattugliava le rovine come gendarmeria “autocostituita” era ormai afflitta da inedia spirituale. Il mondo ellenistico-romano aveva bisogno di un Sotèr: e fu l’Oriente a procurargliene uno.

D’altro canto, se dovessimo pensare all’Europa nei termini, nei quali romanticamente e neomedievalmente la pensava il Novalis, di Cristianità – Chrístenheit oder Europa – non potremmo se non definirla quale sintesi, col e nel cristianesimo, dell’Occidente greco-romano e dell’Oriente ebraico- ellenistico. Ma quello stesso “Occidente” greco-romano era ormai esso stesso, almeno a partire dal II secolo a.C., strettamente connesso con un “Oriente” che la grande avventura di Alessandro Magno aveva  profondamente ridefinito. La storia politica, sociale e culturale dell’impero romano è scandita si può dire fino alla riforma teodosiana – e Teodosio, ricordiamolo, è lo stesso che ha diviso amministrativamente l’impero e che ha imposto la cristiana quale “religione di stato” – dalla rivalità tra i conservatori aristocratici legati ai prischi costumi romani e i plebei (e plebeo era il nerbo dell’esercito legionario) che, a loro volta egemonizzati da famiglie della grande nobiltà quali gli Scipioni e la gens Iulia, aspiravano invece a un equilibrio nuovo, a  un mondo rinnovato nel quale Urbs ed Orbs coincidessero e nel quale il

messaggio di Alessandro Magno che aveva fuso l’Occidente ellenico e l’Oriente egizio e persiano si traducesse in una nuova sintesi. La linea che oppone Silla e Pompeo da una parte agli Scipioni, ai Gracchi, a Mario e a Cesare dall’altra è l’asse portante di due differenti modi di concepire la missione di Roma e l’assetto del mondo: Cesare che ad Alessandria venera il sepolcro di Alessandro e ne accetta l’eredità spirituale rivendicandone il disegno universalistico (e la regalità sacra degli imperatori romani sarà quella mutuata dall’Egitto e dalla Persia attraverso il modello di Alessandro, poi evoluto nel corso del II-III secolo addirittura in una sorta di monoteismo regale-solare, anch’esso ereditato dal cristianesimo) è, insieme con il Cristo che nasce – provvidenzialmente, come da Agostino in poi hanno sostenuto gli storici cristiani – pochi anni dopo sub Augusto, ma nell’impero da Cesare fondato (e adempiendo, sempre secondo gli storici cristiani, la profezia virgiliana), l’asse della storia attorno alla quale danzano i secoli; la constitutio Antoniniana, con la quale all’alba del III secolo d.C. Caracalla concede la cittadinanza romana a tutti i sudditi dell’impero – un impero circummediterraneo che dall’Atlantico giunge all’Eufrate e dal Reno e dal Danubio si estende fino all’Alto Nilo e all’Atlante – segna la cancellazione della dicotomia tra Oriente e Occidente in un immenso abbraccio, anche se le due categorie opposto e/o complementari risorgeranno subito dopo, ma con differente accezione, nelle scelte amministrative teodosiane.2 D’altro canto, non c’è dubbio che la cultura radicata negli ambienti aristocratici e repubblicani del conservatorismo proprio della classe senatoria romana elaborò dal canto suo la contrapposizione tra Roma (collegata, dopo un’iniziale resistenza, alla Grecia) e la “barbarie”, quindi fra Occidente e Oriente: e lo si vide a proposito della propaganda successiva alla battaglia di Azio del 31 a.C., presentata come una vittoria di quello su questo. Augusto riprendeva, contro Antonio deciso sostenitore della linea di Cesare, quella ch’era stata propria di Silla e di Pompeo. La divisione amministrativa teodosiana ricalcava questa dicotomia, sia pur senza introdurvi elementi d’opposizione: che si sarebbero comunque più tardi affermati.

All’indomani della prima crociata Fulcherio di Chartres, osservava: “…Ormai noialtri, che un tempo eravamo occidentali, siamo divenuti orientali.. perché dovremmo tornar in Occidente, dal momento che abbiamo trovato qui un tale Oriente?”. E’ evidente che Fulcherio usava le vecchie categorie amministrative teodosiane e che il suo “Oriente” era ancora, essenzialmente, la pars Orientis già assegnata all’imperatore Arcadio, quella ancora al suo tempo governata dal basileus ton Romàion ch’era, in quel momento, Alessio I Comneno. Ma è non meno chiaro, al tempo stesso, che i termini  “Oriente”  e “Occidente”, “orientale” e “occidentale”    acquistavano,

nelle sue stesse parole, un senso e quasi un sapore nuovo, al quale non era estranea la consapevolezza del confronto con il mondo musulmano. Nell’affermarsi di molti luoghi comuni e atteggiamenti mentali antibizantini nel mondo “franco” tra XI e XII secolo, come vediamo in alcuni cronisti delle crociate, cresce e si afferma il sentimento di opposizione Occidente-Oriente, che si presenterà con virulenza all’atto della quarta crociata.

Ma verso la metà Duecento le conquiste eurasiatiche dei tartari parvero aprire agli europei il mondo dell’Asia, ben presto però richiuso su se stesso con il frammentarsi dell’impero mongolo. Sbarrata la via di terra, restava quella oceanica: molti decenni di tentativi portoghesi da un lato, una casuale scoperta compiuta dall’altro grazie a un marinaio che al servizio dei re cattolici di Castiglia e di Aragona cercava un passaggio a ovest per l’Asia, squadernarono d’un tratto dinanzi agli europei una realtà nuova che né Aristotele, né Tolomeo avevano supposto. La terra era molto più grande di quanto non si fosse mai creduto: eppure, ciò nonostante, quella medesima  terra che per millenni era stata creduta più piccola e che pur nessuno aveva osato correre in lungo e in largo, ora che si era rivelata più grande fu percorsa e frugata quasi da cima a fondo nel giro di pochi decenni. Era la fine della cultura fondata sulle auctoritates, poiché nessun auctor aveva mai supposto quella realtà che solo l’esperienza poneva adesso alla portata degli europei. Una sola eccezione si era disposti a fare: la Bibbia, che non poteva aver mentito ma che doveva essere stata mal interpretata. Ecco perché il Cinquecento è pieno di studiosi che identificano in angoli del Nuovo Mondo i favolosi paesi biblici di Punt e di Ofir e che si sforzano di scorgere negli indios la “tribù perduta” d’Israele. Dopo le scoperte geografiche, l’esperienza

– fino ad allora considerata testimone infido e consigliere poco attendibile – diveniva la via regia alla conoscenza. Senza Colombo non si capisce Galileo.

Frattanto l’Europa aveva già ricevuto una definizione in contrapposizione all’Asia, come sinonimo di Cristianità avversa all’Islam. Ciò era accaduto al tempo della caduta di Costantinopoli in mano ai turchi: e ben lo si vede in Enea Silvio Piccolomini. Divenuto papa col nome di Pio II, egli elaborò una tesi delle conseguenze della quale forse, sulle prime, né egli né i suoi contemporanei erano consapevoli. L’Europa era propriamente la sede – patria e domus – della Cristianità, identificabile con la christiana religio e pertanto si poteva stimare cristiano chiunque fosse ritenuto europeo, come Enea Silvio aveva già dichiarato nella Prefazione alla Historia de Europa. La recita dell’Angelus, ch’era già imposta da papa Callisto III a tutti i cristiani per implorare soccorso contro il pericolo turco, appare già in questo quadro come un ulteriore segno d’identità fra Christenheit ed Europa. Un’identità nella  quale tuttavia l’Europa stava per così dire assorbendo la  Cristianità, preparando la crociata ad assumere un nuovo, diverso ruolo all’interno dell’incipiente processo di secolarizzazione della cultura occidentale.

 

Modernità e processo di globalizzazione

 

Con le grandi scoperte geografiche e l’espandersi dell’Europa latinogermanica (ormai del resto lacerata dalla Riforma e priva di quell’unità che l’aveva caratterizzata durante il medioevo e quindi non più definibile in quanto “Cristianità latina”), il nostro continente si proponeva definitivamente come quell’Occidente che i greci (la cultura dei quali è comunemente avvertita ormai, almeno dal Quattro-Cinquecento circa, come la radice profonda di quella europea moderna) avevano fondato e preconizzato, ma che non si era davvero mai tradotto in una realtà definibile: nasceva allora – l’ha definito bene Carl Schmitt – quell’Occidente sentito come complesso di terra e di mare, come impero policentrico e dislocato tenuto insieme tuttavia da una comune Weltanschauung economicopolitica, quella di un’“economiamondo” l’egemonia all’interno della quale è tuttavia contesa; mentre il permanere di una fede cristiana in vario modo sostenuta dalle Chiese storiche nessuna delle quali rinunzia al suo ecumenismo ma ciascuna delle quali ha un suo ruolo di fronte allo stato o agli stati, al popolo o ai popoli che ad essa più o meno ampiamente si riferiscono, gli offre il movente nobile (non vogliamo  dir l’alibi: anche perché siamo convinti che alibi non fosse) di quell’evangelizzazione che non a caso, nel corso del Duecento, si era concretizzata nella prassi missionaria originariamente ispirata a Francesco d’Assisi.

Nell’accezione moderna la parola “Occidente” rinvia quindi a nuovi contenuti: essi nascono allorché con le grandi scoperte geografiche dei secoli XV XVI l’asse politico, economico e culturale europeo, già mediterraneo, si sposta sulle rive dell’Oceano Atlantico mentre l’affermazione dello stato assoluto apre la strada alla secolarizzazione, l’economia-mondo inaugura il capitalismo moderno (e, con esso, il cosiddetto “scambio asimmetrico”) e già si prepara la grande rivoluzione tecnico-scientifica del XVII secolo. Senza dubbio l’Occidente elabora, col Locke, l’idea di tolleranza; e di li a poco scoprirà, con i fondamenti del pensiero antropologico, anche la “ragione dell’Altro”, e accetterà – unica forse tra le civiltà umane – di non pensare più a sé stesso come al centro del mondo. E’ non meno vero che, con la cultura orientalistica ed esotistica, gli occidentali – pur riprendendo un atteggiamento d’interesse e di fascinazione per il Diverso (e il Meraviglioso) ch’era registrabile nella cultura antica fino dal grande romanzo egizio prima, ellenistico poi – scopriranno di non poter più fare a meno, nel loro immaginario, del fascino dell’Oriente: anzi, degli “Orienti” (l’arabo, il turco,  il persiano, l’indiano, il centrorasiatico, in un senso molto particolare – o in più sensi molto particolari – l’ebraico,3  il cinese, il giapponese, il sudorientale asiatico…)4. Ma vero è altresì che, nel contempo, esso elaborerà con il colonialismo –

anche in ciò unico tra le civiltà umane- un colossale sistema di sfruttamento delle risorse di tutto il mondo a suo esclusivo vantaggio.

V’è di più: dal momento che l’idea contemporanea di “Occidente” – nella quale secondo alcuni l’Europa sarebbe inclusa, con un ruolo coprotagonistico, in un tutto omogeneo e interatlantico insieme con Stati Uniti e Canada – è nata al contrario, nella sua accezione ormai ordinaria, dal pensiero politico statunitense su una linea tesa dal Jefferson al Monroe proprio per differenziarsi dall’Europa; anzi, addirittura contro l’Europa, avvertita come la patria del vecchio, della stratificazione sociale, della cristallizzazione oppressiva delle forme culturali, mentre l’America sarebbe la terra del nuovo e della libertà;5 l’America, che fin dalla costituzione degli Stati Uniti ha annunziato che fine e diritto dell’uomo è la ricerca della felicità su questa  terra.

Eppure non si è ancora esaurito, anzi subisce periodici per quanto confusi momenti di ringiovanimento, il vecchio atteggiamento culturale e mentale – caro ai teorici primonovecenteschi della Mitteleuropa – secondo il quale la dinamica morfologica della storia si addensa attorno a un nucleo macrostorico-metastorico costituito dal “necessario”, “insopprimibile” scontro geostorico tra Occidente e Oriente. Espressioni successive di esso sarebbero state le guerre grecopersiane, quindi le contese tra romani e parti, poi quelle tra sasanidi e bizantini, e ancora l’offensiva musulmana dei secoli VII-X fino al Maghreb e alla Spagna, e poi la Reconquista e le crociate, e successivamente la tensione tra l’Europa moderna e l’impero ottomano, e in seguito l’affermazione colonialistica delle potenze europee in Asia, quindi la “guerra fredda che secondo alcuni si potrebbe considerare la terza guerra mondiale, infine oggi quella che l’amministrazione Bush ha definito dopo  l’11 settembre 2001 la war against Terror e che qualcuno ha proposto di considerare la quarta guerra mondiale. Il ritorno dell’espansione islamica e l’esordio delle neoideologie legate al cosiddetto “fondamentalismo islamico” e quindi al terrorismo che di alcuni ambienti di esso sarebbe il braccio armato verrebbe in tale ottica a proporsi come l’ultima forma di una plurisecolare secolare contesa iniziata con la guerra tra greci e persiani.

E’ logico che, da questo punto di vista, le offensive orientali siano regolarmente intese come assalti barbarici alla roccaforte della civiltà e le controffensive occidentali come risposte della civiltà stessa. E allora il punto di non-ritorno, il tournant che rende al tempo stesso irreversibile la vittoria dell’Occidente e inauspicabile un suo indietreggiare (poiché la diffusione del progresso  e  della  civiltà  resta,  kiplinghianamente,  «il  fardello    dell’uomo

bianco»), è quello del progressivo affermarsi dell’Occidente con le scoperte geografiche, con il colonialismo e infine con la sfida lanciata al resto del mondo attraverso l’imposizione del way of lífe e delle sue categorie morali, politiche, esistenziali nonché del suo sistema di produzione e di gestione delle ricchezze. Ma quest’Occidente corrisponde ormai a un concetto che in apparenza è antico mentre in realtà è nuovo e funzionale agli eventi della prima metà del Novecento, quello di “civiltà occidentale”.

Sappiamo bene che è impossibile enucleare le scelte dell’epoca eroica dell’espansione occidentale, il XVI-XVIII secolo – con le sue realizzazioni e i suoi misfatti – dalla religione stessa dell’Occidente, dal cristianesimo cattolico o riformato che fosse: del resto l’espansione missionaria accompagnò il movimento coloniale, ne fu testimone e in un certo senso funzionale, per quanto molti dei suoi protagonisti si trovassero spesso in rotta di collisione con i metodi e i caratteri dello sfruttamento coloniale (bastino a ricordarlo episodi come quello, glorioso, delle reducciones della Compagnia di Gesù nel Guaranì o come la lotta senza quartiere dei missionari cattolici e protestanti contro lo schiavismo). D’altronde, nella giustificazione di uno sfruttamento coloniale che pur si cercava da più parti e in molti modi di rendere  più umano,6 la religione ebbe un ruolo pretestuosamente celebrato forse, ma certo importante.

Quest’Occidente missionario e colonialista, umanitario e imperiale, sentimentale e sfruttatore, filantropico e tirannico, fiero di sé ma al tempo stesso innamorato esotisticamente delle terre che andava depredando e dei popoli che andava sottomettendo, l’Occidente del kiplinghiano “fardello dell’uomo bianco” ha radici senza dubbio antiche e medievali ma è al tempo stesso primariamente e indissolubilmente legato agli stati assoluti – i quali avevano battuto un ben differente modello di sviluppo della Modernità, quello rappresentato dalla “monarchia di Spagna” che avrebbe potuto essere loro alternativo (poiché la storia, come dice David S. Landes, non solo si può, ma si deve scrivere al condizionale) – e alla loro figlia in parte ribelle ma anche primogenita, la democrazia parlamentare; esso è impensabile senza il lievito utopico che lo anima (si pensi a Thomas Moore e a Francis Bacon) e senza il mito della perfettibilità umana immanentisticamente intesa, del progresso e al tempo stesso del recupero dell’intatta ingenuità perduta (buoni selvaggi e  isole vergini, Rousseau e Bernardin de SaintPierre). L’Occidente è l’Europa occidentale ancora cristiana protesa sull’Atlantico e sul Pacifico, l’Europa à tête anglaise che avrebbe di lì a poco generato la sua figlia ed erede, l’America degli Stati Uniti; l’Occidente è – direbbe Carl Schmitt – il dominio del mare.

Modernità e Occidente: l’endiadi “Modernità occidentale-Occidente moderno”

 

 

Per questo l’Occidente – come espressione politicoculturale -, ad onta delle sue lontane radici, non si può intendere in quanto concetto se lo si scinde da quello di Modernità; mentre, per contro, l’identità imperfetta ancor oggi da qualcuno sostenuta o per lo meno accettata fra Occidente ed Europa va mutandosi – con il divaricarsi dinamico e concettuale dei due termini – in una identità imperfetta. In effetti, se l’Europa-Occidente era la grande sera dell’avventura della civiltà umana, come la vedeva Hegel, e se d’altro canto gli intellettuali statunitensi dell’Ottocento vedevano piuttosto nel loro paese l’Occidente della Libertà contrapposto a un’Europa delle monarchie e dei sistemi autoritari, va detto che dopo il 1945 il bipolarismo del “sistema di Yalta”, proponendo una divisione dell’ecumène in un “mondo libero” a ovest e in un “mondo socialista” a est secondo una linea di frontiera che, corrispondendo con la cosiddetta “cortina di ferro”, tagliava in due proprio l’Europa e praticamente ne cancellava non solo la pur policentrica unità (l’Europa-Arcipelago, così definita da Cacciari) ma addirittura la stessa prospettiva d’esistenza politica; e che la battaglia per l’unità dell’Europa, per quanto non abbia ancora condotto a risultati soddisfacenti, evidenzia oggi una posta in palio l’oggetto della quale è ancora da decidere. Occidente atlanticocentrico costituito da un’area transatlantica statunitense-canadese (con la problematica appendice latino-americana) e una cisatlantica europea, soluzione prossima alla magna Europa prospettata da alcuni intellettuali conservatori statunitensi7 e coerente con il processo di americanizzazione culturale e pratico-materiale-esistenziale dell’Europa occidentale,8 oppure nuovo Occidente americo-australiano-giapponese distinto – anche se non contrapposto – da un’Europa cerniera tra esso e i mondi asiatico e mediterraneo?

Ancor oggi, non è raro imbattersi in sostanziosi residui dell’antica convinzione che la civiltà occidentale si sia sparsa in e imposta a tutto il mondo grazie alla superiorità del Vangelo sugli altri culti e le altre fedi, o all’eccellenza della filosofia nata nella Grecia di Platone su qualunque altra forma di pensiero, o alla forza intellettuale e spirituale frutto  dell’umanesimo

e dell’illuminismo,9 o alla democrazia parlamentare quale “migliore dei sistemi politici possibili”, anziché grazie alla sua tecnologia e quindi,  in ultima analisi, alla sua forza (e alla Volontà di Potenza che la dispiegava, la sosteneva, la legittimava):10 a quelle “vele” e a quei “cannoni” dei quali Carlo Maria Cipolla, in un libro bellissimo, ha dimostrato consistere la vera, forse la sola – ma fondamentale – superiorità dell’Occidente sul resto del mondo.

Sovranità e sovranismi

 Primato dell’individualismo assoluto, quindi di tutto quel che attiene alla Volontà di Potenza: economia, finanza, tecnologia; identificazione della democrazia parlamentare con un sistema che si è in grado e in diritto di “esportare”, e quindi identificazione dell’interesse dell’Occidente con quello del genere umano; civiltà dei diritti sempre più diffusi e approfonditi e della legittimazione della ricerca della felicità; espansione indefinita del ciclo produzione-consumo-profitto e parallela concentrazione della ricchezza; sviluppo indefinito dell’eguaglianza politico-culturale non accompagnata tuttavia da quella socioeconomica; tendenziale azzeramento delle differenze qualitativo-culturali e parallela esaltazione di quelle socioeconomiche. Questi i connotati della civiltà occidentale nell’attuale sviluppo del processo di globalizzazione: una “civiltà” che include tutte le élites del pianeta, qualunque sia la loro origine etnoculturale (e ne fa fede l’omogeneizzazione del sapere universitario e delle pratiche si selezione finalizzate alla riduzione della politica a “comitato d’affari” delle lobbies economiche e finanziarie).

Non è questo il profilo dinamico auspicato per la tradizione europea che rivendica le sue radici cristiane pur nella consapevolezza della laicità dei loro frutti e che, memore della lezione comunitarista già intrinseca ai patti di Westfalia del 1648 allorché si volle porre un limite alla destrutturazione etico- religiosa manifestatasi con le “guerre di religione” e con la “guerra dei Trent’Anni”, pose il principio della mutua inter christianos tolerantia a sigillo della ripresa di un processo di costruzione europea (diciamo processo: non progresso) che avrebbe dovuto essere armonico e, con la dinamica della secolarizzazione, finire con l’includere gli stessi non cristiani mantenendo tuttavia inalterato il principio secondo il quale non c’è legge immanente che non debba ancorarsi a un principio di superiore ordine metafisica.

Fu l’avvìo dell’età delle Rivoluzioni, e quindi le dinamiche connesse con l’avvìo dei nazionalismi e con il loro rapporto con le borghesie  capitalistiche,

 

a progressivamente distruggere il carattere comunitarista della cultura europea sostituendolo con l’individualismo massificato da una parte, con il turbocapitalismo tardomoderno e postmoderno dall’altra.

Oggi, dinanzi all’arrogante superpotenza delle lobbies multinazionali che hanno distrutto gli stati facendo della politica il loro “comitato d’affari”, il sovranismo limitato e settoriale di chi si arresta praticamente alla prospettiva di una nuova indipendenza monetaria serve soltanto a spazzar via quel poco di difese comunitarie che le società possono ancora opporre alle élites mondialistiche: le quali, se sono ormai in grado di signoreggiare le realtà istituzionali sovranazionali, tanto più lo sarebbero  immediatamente asservendo e fagocitando gli stati europei tornati “indipendenti” l’uno dall’altro, quindi esposti singolarmente al divide et impera delle banche e dei centri di potere privatizzati.

Questo il punto debole dei “sovranisti”: il non esserlo abbastanza. Il pretendersi tali sul paino economico e monetario, ma non su quello della politica, della diplomazia, della difesa. Il pretendere la liberazione dalla sudditanza all’euro ma non quello della sudditanza alla NATO che sta trascinando l’Europa nel suo avventurismo militare e nel gorgo vorticoso di quell’alleanza industriale-finanziaria militare ch’era già stata denunziata come un pericolo, per gli USA, da Dwight D. Eisenhower nel ’60, alla sine del suo secondo mandato presidenziale, e che oggi si è trasformata in pericolo sopranazionale, transnazionale e globale. Contro di esso è necessario  in Europa un sovranismo globale, che si eserciti soprattutto e anzitutto nell’àmbito dell’etica e della politica imponendo agli europei di riprendere in mano le redini del loro destino. Per questo sono forse necessari partiti che si strutturino su una base europea battendo le difficoltà localistiche  e linguistiche e mirando a una costituzione confederale – preferibile alla federale al fine di garantire maggiormente lo sviluppo delle preziose diversità culturali dell’Arcipelago Europa – appoggiata a un parlamento bicamerale in cui la Camera Bassa sia la voce proporzionale delle varie comunità etno- storico-culturali scomponendo e ricomponendo la geografia continentale sconvolta negli ultimi due secoli circa dalle pretese dei fautori dello “stato nazionale” mentre la Camera Alta sia garante della continuità rispetto al cammino storico-politico degli stati nazionali quali si sono andati configurando nel secolo XIX e che non può venire sconvolto e azzerato.

Per tutto ciò, è necessario che l’Europa miri a una sua effettiva unità politica riprendendo il cammino di libertà e d’indipendenza dai blocchi che ormai non sono più soltanto quelli politici. Per affrancarci dal potere dei “signori sconosciuti” (ma non troppo) che ci dominano con le loro lobbies è necessario affrancarci dalla sudditanza rispetto agli Stati Uniti d’America: e, dal momento che non è detto per nulla che Mister Trump ci liberi dalla sua presenza nella NATO, i legami della quale con il mondo statunitense restano stretti e molteplici, liberarci da una pastoia politico-militare divenuta a più livelli  insostenibile  per  i  costi  che  comporta  e  i  rischi  che  rappresenta è divenuto vitale. La nuova Europa non deve ereditare nemici già precostituita: dev’esse libera di trattare con tutti, anche con gli stati della Schangai Cooperation Organization (SCO) che vede unite Russia, Cina, India e altri partners e che, attraverso la One Road, One Belt, la “Nuova Via della Seta”, si appresta a strettamente collegare mondo estasiatico e mondo mediterraneo. E’ un’occasione che una nuova Europa politicamente unita nella libertà e nella diversità non può e non deve mancare.

1 Ma va ricordato che, per gli antichi elleni, la parola “Europa” rimandava a un mondo straniero rispetto al loro: cfr. J. Goody, L’Orient en Occident, paris 1999, pp. 9, 14. Luciano Canfora ricorda che nell’ Iliade non si riscontrano né l’opposizione Europa-Asia, né quella greci-barbari; esse nascono con le guerre persiane o dopo di esse, com’è attestato dalla Geografia di Ecateo di Mileto che è divisa in due libri, l’uno dedicato all’Europa (limitata più o meno alla Grecia, Peloponneso escluso, e alle colonie greche) e l’altro all’Asia. La polarizzazione tra greci e barbari compare con Erodoto, l’opposizione tra Europa e Asia con I Persiani di Eschilo, del 472 a.C.; nella Grecia delle città si radicò profondamente l’equivalenza Grecia=Europa=Libertà/Democrazia, Persia=Asia=Schiavitù . Il rapporto Grecia-Europa-Libertà è destinato   a una lunga storia (L. Canfora, La democrazia. Storia di un’ideologia, Roma-Bari 2004, pp.16-18).

2 Sulla pretestuosità della distinzione e sui suoi caratteri storicamente pregiudiziali e astratti, cfr. G. Corm, Oriente e Occidente. Il mito di una frattura, tr.it. Firenze 2002; sulla contrapposizione Oriente-Occidente come falsa e sulla sua necessaria demistificazione, cfr. G. Marramao, Passaggio a Occidente. Filosofia e globalizzazione, Torino 2003.

3 Cfr. V. Pinto, Sein una Raum, L’Oriente esistenzialistico di Martin Buber e di Vladimir Jabotinsky, “L’Acropoli”, 2, marzo 2004, pp.203-24.

4 Su orientalismo ed esotismo, e sulle diverse funzioni che l’idea di “Oriente” ha rivestito nella cultura, nella politica e nella società europee, a parte gli ormai classici lavori di E. Said e di altri, si ricorra per esempio a

  1. Hentsch, L’Orient imaginaire, Paris 1988. Un tentativo di definire le relazioni filosofiche tra “Oriente” e “Occidente” in termini di “campi filosofici” (evidentemente elaborati all’interno della cultura europea) è in
  2. Fleury, Dialoguer avec l’Orient, Paris 2003.

5 Ampia documentazione in R. Gobbi, America contro Europa, Milano 2002.

6 Ma non si dimentichi quanto testimoniato in due libri dall’impianto concettuale discutibile forse, tuttavia documentati e terribili: AA.VV., Il libro nero del capitalismo, tr.it. , Milano 1999, e AA.VV., Le livre noir du colonialisme, dir. M. Ferro, Paris 2003.

7 La bibliografia al riguardo è anche in italiano ormai ampia, per quanto un po’ ripetitiva. Importante comunque il rinvio a L. Edwards, Le radici dell’ordine americano: la  tradizione europei nei valori del nuovo mondo, tr.it., Milano 1996, e a L. Donno, In nome della libertà. Conservatorismo americano e guerra fredda, Firenze 2004. Queste tematiche stanno facendo una certa fortuna trovando adepti anche in Italia, all’interno di una certa destra “tradizionalista” che appare in cerca di nuove giustificazioni e di nuovi padri intellettuali: cfr. AA.VV., Europa-USA, oltre il conflitto, “Percorsi”, 4, genn.2004, pp.13-54.

8 Cfr. AA.VV., L’américanisation de l’Europe occidentale au XX:e siècle, dir. P. D. Barjot et C. Réveillard, Paris 2002.

9 Sulla genealogia – forzosa – d’una cultura occidentale tesa monodirezionalmente sul filo diretto Grecia-Roma-Modernità (con un cristianesimo che pare quasi un incidente di percorso e un medioevo abbuiato), è significativo il pur bel libro, straordinariamente erudito, di B. Quilliet, La tradition humaniste, Paris 2002.

10 Sull’Oriente come Volontà di potenza, S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria, tr. it. Torino 2002.

Franco  Cardini,  professore  emerito  di  Storia  medievale  nell’Istituto  Italiano  di


Scienze Umane/Scuola Normale Superiore.

pacche, patacche e ripicche_ Un italiano a Parigi, di Giuseppe Germinario

A proposito della scorribanda priva di invito ufficiale di Di Maio in Francia, alcuni punti fermi:

  • Di Maio, Vicepresidente del Consiglio, assieme a Di Battista, è andato in Francia per incontrare alcuni esponenti del movimento dei jilet gialli, tra di essi l’esponente più radicale e probabilmente più legato a forze istituzionali ostili a Macron. Il motivo contingente riguarda l’appuntamento elettorale delle elezioni europee verso il quale il M5S viaggia ancora apparentemente in perfetta solitudine. Anche Macron, Presidente della Repubblica, è in piena campagna elettorale; si è imposto ed è stato addirittura scelto di fatto come leader europeo da buona parte delle forze progressiste europee, in particolare dal Partito Democratico Italiano. A testimonianza dei legami “affettivi” particolarmente solidi, il numero abnorme di suoi leader conferiti del titolo della Legion d’Onore. Un riconoscimento ormai rilasciato a piene mani e per questo inevitabilmente ormai svalutato. In certi ambienti sono sufficienti le “patacche” a gratificare
  • Il contenzioso verbale tra il duo Salvini/Di Maio e Macron con alti e bassi è ormai di lunga data; risale agli albori del Governo Conte; ha rasentato spesso e volentieri il volgo da osteria più dalla parte del duo per la verità. Anche “Jupiter” non ha disdegnato un linguaggio colorito; ha dato il là allo sproloquio, alternato però a comportamenti ostentatamente regali. Si è espresso, soprattutto, più saggiamente attraverso propri ventriloqui. È evidente però che il personaggio sta fremendo
  • Il contenzioso fattuale è ben più sostanzioso dello sproloquio verbale; è soprattutto ormai atavico. Riguarda lo spodestamento di Gheddafi in Libia nel 2011, con Francia e Gran Bretagna in prima fila e gli Stati Uniti di Obama a supporto indispensabile; prosegue con il contenzioso territoriale delle acque del mar Tirreno culminato con un trattato capestro firmato dai governi di centrosinistra e contestato dal Parlamento a maggioranza gialloverde. Nelle more sono proseguite sino a pochi istanti fa le acquisizioni da parte francese di importanti marchi del lusso ed alimentari, di quote importanti della rete commerciale, di banche strategiche (UNICREDIT) e società finanziarie, della principale società di telecomunicazioni (TELECOM). Alcune di queste scelte almeno imprenditorialmente fruttuose, altre dal carattere meramente predatorio. Il tutto nel generale giubilo e tripudio di una classe dirigente evidentemente soddisfatta di patacche, incarichi onorifici, pacche sulle spalle e rendite in grado di garantire lo status di famiglie blasonate per alcune generazioni. Una classe dirigente ben assortita, composta da ceto politico, imprenditoriale, istituzionale e burocratico
  • La forma nelle relazioni, soprattutto in diplomazia, è anche sostanza. Un po’ meno nel presente rispetto ad appena un secolo fa. Gli sgarbi comunque vengono restituiti possibilmente seguendo il criterio della memoria lunga, piuttosto che della reazione istintiva; sempre che la situazione non sfugga di mano. A Macron, al prezzo di evidenti manipolazioni e sofferenze psicologiche, devono averlo insegnato sin dall’adolescenza; Salvini e Di Maio non è detto che facciano in tempo ad apprenderlo. La ricorrente confusione e commistione tra ruolo istituzionale e funzione tribunizia offre continui pretesti ed argomenti agli avversari; alimenta un imbarbarimento del confronto politico per altro ricercato da tutte le fazioni politiche, comprese le più perbeniste e politicamente corrette, fuori e dentro il nostro paese con l’eccezione serafica, anzi luciferina, di Angela Merkel tra i pochi.

Il ceto politico al momento spodestato, per indole e volontà, in tutto questo contenzioso ha scelto di non utilizzare le leve delle quali disponeva, comprese le diplomatiche, per risolvere con dignità le dispute; ha smantellato in sovrappiù i propri apparati tecnico-politici e manageriali; si è ben guardato da coltivare un ceto manageriale ed imprenditoriale capace di sostenere il confronto ai livelli più alti e strategici. Quello che è subentrato non dispone di appoggi significativi negli apparati. Non gli manca la furbizia; ad oggi sembra deficitaria della consapevolezza e dell’esperienza necessarie a rigenerarli e nelle more a cercare di fidelizzare almeno una parte di essi. L’uscita di Paolo Savona dalla compagine governativa può essere l’indizio di una resa, come pure la sua nomina alla Consob può rappresentare il segnale che lo scontro si sta spostando all’interno degli apparati e della gestione del potere. Si vedrà se si tratta di una mesta ritirata, cosa più probabile o di un riposizionamento

  • La Francia di Macron rappresenta l’anello debole e più esposto della triade che comprende il vecchio establishment statunitense e la classe dirigente tedesca, impegnata nell’annichilimento politico-economico del nostro paese. Esposto in quanto Macron è l’unico Capo di Governo e di Stato ancora stabilmente in carica espressione di queste élite ancora dominanti in Occidente. Fragile in quanto si è inserito nei settori più facilmente riappropriabili da parte di eventuali centri di potere nazionali nostrani in via di formazione o di ripensamento. La messa in minoranza di Vivendi nella Telecom è probabilmente il segnale più importante. Rimane da osservare i movimenti nel settore commerciale, fondamentale per garantire sbocchi al settore agroalimentare e in quello finanziario, al momento in stallo. La Germania, al contrario, ha praticato soprattutto la strada del condizionamento e dell’integrazione indiretta di interi settori produttivi e finanziari e del condizionamento politico attraverso i meccanismi comunitari. Gli Stati Uniti meritano un discorso a parte e ben più articolato
  • In politica estera il Governo Conte ha subito uno smacco pesante, anche se ben mascherato, sulle politiche di bilancio nell’UE (Unione Europea), si appresta a compromessi inquietanti su garanzie del debito e unione bancaria confidando in una svolta politica in Europa tutta però da verificare. Ha realizzato alcuni importanti successi (presenza militare in Niger a dispetto dei franco-tedeschi, conferenza sulla Libia) sotto l’ombrello protettivo statunitense ed anglosassone

Il nervosismo di Macron è del tutto comprensibile; la sua protervia è il segnale della sua fragilità, piuttosto che della sua solidità. Dispone di una forza significativa, ma fragile; comunque sempre meno autorevole. Rischia di perdere il contrappeso della Gran Bretagna all’ingombrante fratello tedesco.

Il movimento dei gilet gialli, lo abbiamo segnalato sin dai suoi albori, a dispetto del suo carattere composito e politicamente, forse volutamente, poco caratterizzato, rivela una solidità, una costanza ed una capacità organizzativa che lascia intuire la possibilità di forti legami, reali e potenziali, con centri di potere importanti di quel paese e di sostegni politici insospettabili nel fronte formalmente amico.

Il trattato di Aquisgrana del gennaio scorso ha sancito il sodalizio fraterno tra Francia e Germania. Stranamente non ha ricevuto gli onori e il clamore dovuti e attesi, nemmeno gli stessi artefici hanno concesso alla firma l’aura di solennità paragonabile a quella del ‘63. La stessa opposizione ad esso d’altro canto è apparsa più che altro un atto dovuto, un rituale spento. Più che rassegnazione e inerzia, un atteggiamento corrispondente all’immagine di una coltre di cenere che nasconde il fuoco pronto a divampare.

Quell’accordo è stato prevalentemente rappresentato come un tentativo da parte dei due paesi di tentare la strada di piena autonomia politica e di affrancamento dal dominio americano. Data la condizione politica, strategica e ormai anche economica dei due paesi, compresa quella del più sopravvalutato dei due, la Germania, rappresenta piuttosto lo strumento con il quale il più furbo e perfido dei due, quello teutonico, cerca di asservire ed offrire le risorse amiche come obolo per la propria sussistenza e funzione di potenza regionale subordinata. Un obbiettivo riuscito con l’Italia e riproposto con la Francia già nelle recenti vicende dell’AIRBUS. Una possibilità di successo che richiede quantomeno due condizioni: la totale sconfitta di Trump negli Stati Uniti e la sopravvivenza di Macron in Francia da qui a due anni, ma che rischia in realtà di far implodere definitivamente l’intero continente europeo.

Il Vicepresidente del Consiglio Di Maio, con il suo raid improvvido e in incognito a Parigi, rischia di dare una mano alla sopravvivenza e all’investitura da leader di Macron, consentendogli in qualche modo di proseguire nella sua commistione fasulla e artefatta di grandeur francese ed europeismo servile da una parte e nella sua opera di delegittimazione nazionale del movimento a lui avverso.

È solo un segnale, ma importante di un ceto politico in via di formazione che per inerzia o per scelta più che emancipare una nazione rischia di garantirle nuove forme di asservimento più o meno consapevolmente.

 

 

“I conquistatori”, recensione a cura di Teodoro Klitsche de la Grange_A proposito di privatizzazioni e interesse nazionale

  1. Lannutti – T. Alterio – F. Fracassi, I conquistatori, Roma, 2018, p. 176, € 15,00.

Questo è il terzo libro che gli autori dedicano alle vicende economiche del recente passato; tratta delle privatizzazioni che hanno connotato le politiche economiche di molti paesi occidentali, con riguardo – quasi esclusivo – a quelle italiane. Il giudizio è negativo; parte della tragedia del ponte Morandi, che rivelò all’opinione pubblica come la vendita di Autostrade abbia generato enormi profitti per l’acquirente-concessionario, dovuti – anche – ai risparmi sulla manutenzione delle opere.

Analizzando buona parte delle privatizzazioni la costante principale che ne ricava è che sono state assai profittevoli per gli acquirenti, ma, di conseguenza, assai poco per il venditore (lo Stato italiano nelle sue varie articolazioni).

Le notizie che si scorrono nella lettura sono in larga misura già note: il pregio del libro è averle organizzate in un tutto organico che ne rende manifesta la logica generale come i rapporti tra i protagonisti pubblici (creditori) e privati (acquirenti). Curiosamente  in Italia il maggior privatizzatore è stato il centro-sinistra (altrove sono stati i partiti di destra).

Il motivo esternato di tante (e imponenti) svendite era non tanto d’opportunità economica, ma ideologica: si voleva ridurre la presenza pubblica nell’economia perché si riteneva la mano invisibile del mercato migliore e più razionale produttrice di ricchezza.

Solo che a riprendere la teoria di un economista come Friederich List ciò che è valido per l’economia globale, può non esserlo per l’economia nazionale, ossia per le comunità umane organizzate in Stati; del pari ciò che è economicamente vantaggioso può non esserlo per l’interesse nazionale (il bonum commune) che è il fine della politica.

É il caso di ricordare che è legittimo e prevedibile che il privato operi per il proprio profitto, cioè l’interesse individuale (anzi e proprio questo il presupposto della “mano invisibile”); ma, del pari – è – o meglio dovrebbe essere – che il pubblico operi per quello pubblico. La conseguenza è che nella generalità delle situazioni c’è la necessità di bilanciare (e regolare) interesse pubblico e interessi privati, senza enfatizzare l’ “appartenenza” al settore d’attività. L’esempio di “scuola” è quello del monopolista: il quale di solito manovrando per il proprio interesse privato spesso danneggia quello pubblico, quello dei consumatori e, ovviamente la stessa dinamica concorrenziale. Non è detto quindi che, specie nell’assenza o nell’insufficienza di una regolazione appropriata e di procedure trasparenti, la mano invisibile non finisca per impinguare sempre gli stessi portafogli. Proprio quello che purtroppo è spesso capitato nelle privatizzazioni-maccheroni realizzate in Italia.

Queste sono state frequentemente caratterizzate da condizioni di grande favore per gli acquirenti. Gli autori, pagina dopo pagina mostrano che i corrispettivi di cessione erano modesti rispetto al valore delle aziende e dei beni ceduti; che spesso quanto comprato è stato rivenduto a terzi a prezzi enormemente superiori; che privatizzatori pubblici e acquirenti privati erano legati da interessi, frequentazioni, affari; frequentemente lo erano quanto meno i primi con i consulenti che avrebbero dovuto assisterli (a pagamento) nelle procedure. Inoltre “Era il 1992. Il cartello finanziario internazionale aveva messo gli occhi e le mani sul nostro Paese con la complicità e la sudditanza di una nuova classe politica imposta dal cartello stesso. Il suo compito era quello di cedere le banche e i gioielli di Stato italiani ai potentati finanziari internazionali anche attraverso il filtro di imprenditori nostrani”.

La stessa “tangentopoli” è quindi vista dagli autori in quest’ottica: occorreva delegittimare e detronizzare la vecchia classe dirigente della prima repubblica, meno incline a realizzare il piano. Manovra reiterata nel 2011, col governo Monti, dato che Berlusconi era meno disponibile a favorire gli interessi stranieri a scapito di quello nazionale, come fatto dal “governo tecnico” xenodipendente.

Nel complesso un libro interessante, documentato e che si spera, possa contribuire a un common sense del popolo italiano più consapevole dei propri interessi e meno influenzato dalle derivazioni del terzo millennio. Ossia dell’occultamento di interessi sotto la copertura di obiettivi esternati che coniugano idola a carattere economico (tecnocrazia, progresso) con  idola a carattere morale-legalitario. Quelli, come diceva Craxi, dei moralisti “un tanto al chilo”.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

i primi sette mesi di governo visti dal professor Antonio Maria Rinaldi

Sono passati ormai sette mesi dal varo del nuovo inatteso Governo. Una esperienza rappresentata perennemente in bilico, in realtà fondato su un equilibrio frutto di continui aggiustamenti ma non per questo sull’orlo perenne di una crisi. Una crisi (di nervi) che per altro sembra investire inesorabilmente il fronte variegato dell’opposizione vittima di un atteggiamento di ripicca e ritorsione tipico di gruppi dirigenti privi di una qualsiasi bussola. Smarrito il proprio vate sull’altra sponda dell’Atlantico, smarriti i principali ventriloqui sul continente, nella fattispecie Macron e Merkel, in piena discrasia tra il loro afflato universalistico e i loro indirizzi politici sempre più gretti e particolaristici, privi di autorevolezza e credibilità, non ostante i generosi sforzi di adulazione di stampa e tv, sembrano vivere una fase di regressione infantile fatta di ripicche e ritorsioni subalterne tipiche dei movimenti contestatari di qualche decennio or sono. Una parodia senza creatività. Il professor Rinaldi ci offre il suo vivace punto di vista su alcuni punti cruciali dell’azione politica. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

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