DEMOCRAZIA E CONSENSO, Teodoro Klitsche de la Grange

DEMOCRAZIA E CONSENSO

Lo scioglimento delle camere da parte di Macron ha suscitato in Italia reazioni difformi, accomunate da un misto di machiavellismo da bar ad un legalitarismo da parrocchia (non è obbligato….) e quindi non “si capisce perché l’ha fatto”.

La realtà è che Macron non ha della democrazia la concezione astratta e strumentale condivisa dalla sinistra italiana, ma soprattutto dal PD. Secondo la quale democratico è chi condivide una certa declinazione dell’idea tra le diverse possibili; ma soprattutto che, anche se il popolo ne condivide una diversa è dovere di chi governa infischiarsene della volontà popolare e seguire quell’ “idea”, respinta dalla maggioranza.

Non è così, grazie al cielo, in Francia (e, probabilmente nella maggior parte d’Europa): lì vale la regola che, anche se il popolo sbaglia, è obbligatorio osservarne direttive (e decisioni). Il governo democratico è, anzitutto un dominio della pubblica opinione “government by public opinion”. Come scriveva Schmitt, l’opinione pubblica è la forma moderna dell’acclamazione. Anche se non si lascia racchiudere (del tutto) in procedure formalizzate, al di là dello stesso contenuto legale delle decisioni (l’elezione dei rappresentanti al Parlamento europeo), questa devono orientare comportamenti e azione di governo.

Come scriveva Schmitt “I metodi legali possono scegliere solo un momento unico. In ogni caso, fa parte dell’essenza di una vera democrazia il fatto che il valore sintomatico delle elezioni e delle votazioni popolari venga legalmente rispettato” (il corsivo è mio). In questo contesto “Lo scioglimento, come già illustrato, deve essere considerato come una normale istituzione di questo sistema. Se esso deve avere un senso per il diritto costituzionale, deve valere proprio nel caso in cui la maggioranza parlamentare ha dato al governo un voto di fiducia. Il rapporto diretto con il popolo può essere allora ricercato contro la votazione di sfiducia della maggioranza parlamentare ed il popolo decide come terzo in più alto grado il conflitto sorto fra il governo e la rappresentanza popolare” (il corsivo è mio). Onde “Qui il potere di scioglimento è un mezzo necessario e normale di equilibrio e di appello democratico del popolo… si basi sulla chiara contrapposizione di due diverse opinioni ed il popolo approvi mediante una nuova elezione o il punto di vista del Reichstag o quello del governo del Reich e in questo modo decida il conflitto”. Per cui la ragione è chiara e conferma il principio di legittimità democratica: il popolo decide sul conflitto generato da una riduzione verticale del consenso del governo, in elezioni non-parlamentari (in quelle parlamentari il problema non si porrebbe).

Questa sensibilità verso l’orientamento dell’opinione pubblica, in particolare se confortato da dati reali non è solo di Macron. Anche un eroe nazionale come De Gaulle quando la sua proposta di riforma regionale fu sconfitta dal referendum, si ritirò a vita privata. Né ovviamente questa osservanza è solo francese.

Cosa sarebbe invece successo nella Repubblica italiana, in un caso del genere?

Sarebbe partita una colossale campagna di costruzione di un’opinione pubblica artificiale. Migliaia di talk show, milioni di likes, centinaia di intellettuali da industria culturale, concerti, feste di paese, marce e cortei a gogò. Comici a far lezione di diritto costituzionale (volontariamente); insegnanti di diritto costituzionale a fare (involontariamente) i comici. Tutti a osannare che la democrazia (di marca PD) è la migliore delle possibili, anzi è l’unica possibile; che chi sostiene il contrario è un nemico del popolo e soprattutto che, se il popolo si sbaglia è dovere degli illuminati rieducarlo. Per cui è dovere degli illuminati correggere la volontà popolare: un tempo con i gulag, oggi con metodi meno drastici.

In fondo a tale concezione c’è comunque il potenziale conflitto tra i diversi modi con cui si declina il ruolo del governo democratico: della nota triade per cui questo è il governo dal popolo, del popolo e per il popolo, le prime due espressioni vengono omesse ed offuscate, la terza ingigantita (a beneficio delle élite). Che poi i risultati di tanto zelo siano modesti o addirittura dannosi non vale a scalfire la fede nell’immaginazione di un mondo migliore, più buono, più giusto e anche più pulito.

Resta da vedere quanto possa essere forte (in senso politico) un governo che abbia un consenso modesto, e certificato come tale dall’esito delle elezioni. Credere che le classi politiche degli Stati esteri prendano sul serio un governo  carente di consenso è pensare di vivere nel paese dei balocchi: è chiaro che cercheranno di sfruttarne la debolezza a proprio beneficio, concedendo a quello il meno possibile per tenerlo in  vita quale interlocutore (per loro) ideale.

Perciò è meglio un Macron come in altri tempo, per la Francia fu Coty, che favorì la sostituzione di governi lontani dalla volontà popolare con uno che di quello era la compiuta espressione.

Iniziando un nuovo ciclo della politica e delle istituzioni francesi.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Ripensamenti ai poli_ Con Max Bonelli, Ivan Santacroce, Alfio Krancic

Negli anni ’70 tra gli ambienti classicamente istituzionali, con la parziale eccezione del Partito Socialista, imperava nelle bocche e nella penna degli esponenti politici l’epiteto della “convergenza tra gli opposti estremismi”. Un vero e proprio anatema che intendeva esorcizzare ed accomunare due aree politiche in realtà ferocemente distinte e contrapposte in nome della difesa della democrazia nei proclami, degli assetti sostanziali di potere e delle alleanze internazionali nella sostanza. Un esorcismo che tendeva da una parte a disconoscere il ruolo politico di quelle due aree politiche, salvo contrattarne la partecipazione discreta, ma occasionale nelle varie contingenze, necessaria alla gestione delle costanti fibrillazioni interne agli schieramenti dominanti; dall’altra ad accomunare, quindi a screditare ed additare al pubblico ludibrio, le componenti più mature di ciascuno di quei due poli alle frange più distruttive e nichiliste del terrorismo, puntando il dito senza appello sulle pur esistenti zone d’ombra di contiguità, con il solo scopo di disconoscere le basi sociali e culturali di quei fenomeni e di quegli avvenimenti. Fatto ancora più rilevante, ad accomunare le componenti disposte ad assecondare le mire egemoniche degli stati egemoni all’epoca con quelle attente rispettivamente all’indipendenza nazionale e all’emancipazione sociale. Ci ha pensato il tempo ad evidenziare, comunque, i limiti e i paradossi di quelle realtà. Da circa dieci anni stiamo assistendo ad una riproposizione di questo esorcismo sotto l’egida della condanna del cosiddetto “sovranismo” e il ripudio delle formazioni politiche “rosso-brune”. I paladini sono, di fatto, gli epigoni di buona parte dello schieramento politico di quei tempi, ma con una adesione ancora più piatta e univoca all’atlantismo. Gli argomenti attuali, in realtà, a sostegno delle pratiche esorcistiche, sono molto più fragili. Il termine “sovranismo”, letteralmente non fa che riproporre l’importanza delle prerogative dello stato nelle dinamiche geopolitiche e nella gestione interna delle formazioni sociali. Un termine in realtà troppo generico per definire un programma politico unificante, ma il cui utilizzo come anatema rivela inconsapevolmente la postura dimessa e servile degli alfieri di tale narrazione. Nella realtà politica odierna emerge, però, una novità. Il tema dell’interesse nazionale, della sua definizione, della collocazione internazionale in una fase di incipiente multipolarismo sta portando effettivamente ad un avvio di dibattito comune tra aree un tempo acerrime avversarie ed incomunicabili. La contingenza delle elezioni politiche da adito al sospetto di operazioni affrettate ed opportunistiche che più volte hanno già portato ad esiti nefasti. Un tema appunto prettamente politico per il cui svolgimento e conseguimento gli stessi operatori economici, tra essi i tanto celebrati operatori della finanza, assumono un ruolo in primo luogo politico in condominio, piuttosto che in posizione di predominio, con gli altri attori. Qualche traccia di una sedimentazione più seria del dibattito politico-culturale si comincia a notare, anche se dannatamente in ritardo rispetto all’incalzare degli eventi. Determinata più che da dinamiche interne, dalla crescente uniformità politica, culturale e dalla conseguente sterilità e strumentalità degli argomenti della compagine degli esorcisti Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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destra, sinistra e il nuovo già vecchio_ Con Roberto Buffagni e Vincenzo Costa

Governo di centrodestra con Giorgia Meloni, congresso costituente del PD con a capo Elly Schlein. Grandi novità che tendono a riprendere e riproporre vecchi schemi interpretativi del tutto inadeguati ad affrontare il nuovo contesto politico-sociale e geopolitico. Una contrapposizione artificiosa, probabilmente artefatta, che con sussulti e forzature non fa che riproporre temi e rivendicazioni in una cornice già fallita. Non è una fase costituente; è il compimento di un processo gia delineato quaranta anni fa. Il risultato è una classe dirigente inadeguata e un ceto politico autoreferenziale. Un guscio che si sta trasformando in una pesante cappa soffocante il paese. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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LEGISLATURA E DUALISMO COSTITUZIONALE, di Teodoro Klitsche de la Grange

LEGISLATURA E DUALISMO COSTITUZIONALE

Qualche mese fa (21/12/2021) osservavo in un articolo che Costantino Mortati aveva elaborato il concetto (nella modernità dovuto principalmente a Lassalle) e coniato il termine di “costituzione materiale”. Il termine, secondo il giurista calabrese indicava «una raffigurazione della costituzione che colleghi strettamente in sé la società e lo stato, è da ribadire quanto si è detto sull’esigenza che la prima sia intesa come entità già in sé dotata di una propria struttura… e risulti sostenuta da un insieme di forze collettive che siano portatrici della divisione stessa e riescano a farla prevalere dando vita a rapporti di sopra e sotto–ordinazione, cioè ad un vero assetto fondamentale che si può chiamare “costituzione materiale” per distinguerla da quella cui si dà nome di “formale”».

Nella repubblica i partiti del CLN che avevano elaborato il testo della Costituzione alle successive prime elezioni politiche del 18 aprile ’48 conseguivano oltre il 90% dei voti, espressi da circa il 90% degli elettori: ne conseguiva che almeno l’80% dei cittadini italiani aveva votato i partiti del CLN. Fino agli anni ’80 la situazione variava di poco: i partiti ciellenisti conseguivano all’incirca l’80%-85% dei voti espressi.

Con l’ascesa della Lega e il crollo del comunismo tale consenso plebiscitario si riduceva. Già nel 1994 i partiti non ciellenisti (e non rivendicanti l’eredità di quelli) riportavano tra un terzo e la metà dei voti espressi.

Nel decennio trascorso il divario è cresciuto: il successo dei partiti anti-establishment dal 2018 (al più tardi) ha la maggioranza dei suffragi. Oltretutto anche tra gli altri l’affectio alla costituzione formale appare ridimensionato – almeno in alcuni.

La novità (prevista) – a questo riguardo – è che FdI, cioè il partito dei volutamente esclusi dall’arco costituzionale ha conseguito alle politiche il 26% dei suffragi, mentre il PD, cioè il partito della “costituzione più bella del mondo” ha il 18%. Inoltre la maggioranza anti-establishment è stata confermata. Dalla propaganda elettorale (e successiva) del PD basata in larga parte sull’antifascismo e sulla provenienza post-fascista della Meloni, a giorni probabilmente incaricata di formare il governo, si ricava che la Repubblica “nata dalla resistenza” e dotata della Costituzione “più bella del mondo” avrà un Presidente del Consiglio “post-fascista”. A parte la foga della propaganda, questo è un bel caso di “paradosso delle conseguenze”, scriverebbe Freund. Infatti se a una costituzione formale corrisponde una costituzione materiale diversa – e questo è il caso – la conseguenza non è che il popolo (e le forze politiche che ne hanno il consenso) deve adeguarsi alla Costituzione formale, ma che quella formale dev’essere adeguata a quella materiale, almeno in una democrazia.

Anche se sono convinto che nella situazione in cui è ridotta l’Italia, con oltre 5 milioni di poveri assoluti, vincoli esterni spesso matrigni, debito pubblico alle stelle, saccheggio fiscale e così via, quello di cambiare la Costituzione formale non è il problema più urgente, non bisogna trascurarlo né rinviarlo alle calende greche.

Soprattutto perché è la Costituzione ma soprattutto la forma di governo parlamentare ad essere una delle ragioni della decadenza della Repubblica. Questo già quando le forze riconducibili alla costituzione materiale avevano un consenso largo: ora che ci troviamo in una situazione di non corrispondenza tra formale e materiale, l’urgenza appare superiore. Il sintomo più evidente dell’allargamento del divario dopo, s’intende, il deperire dei partiti ciellenisti, è il crescere dell’astensionismo: governante la “seconda repubblica” l’astensionismo è aumentato di oltre 20 punti percentuali (alle elezioni politiche).

Secondo un modo di pensare diffuso, volto a considerare l’osservanza della legalità come criterio “moderno” della legittimità, è sufficiente osservare le procedure legali, in ispecie quella di successione al potere, perché il potere sia legittimo. Tuttavia senza disprezzare del tutto tale tesi, questa va ridimensionata. Ciò che fa delle leggi fondamentali un costituente/legittimante e un principio costituzionale è che siano scritte non sulla carta, ma nel “cuore” dei governati. Due pensatori agli antipodi come Rousseau[1] e de Maistre[2] lo sostenevano. E tanti altri hanno condiviso tale concezione: da Hauriou a Lasalle. Quest’ultimo riteneva la Costituzione formale “un pezzo di carta”, sul quale erano “buttati giù” i rapporti di forza effettivi. Se però questa operazione non era ne è realizzata, ne consegue un dualismo costituzionale, in cui a differenza (parziale) del dualismo di potere, chi ha la maggioranza non governa effettivamente, e chi governa effettivamente non ha la maggioranza.

Situazione squilibrata, che presuppone di essere (rapidamente) risolta.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] “Non vi sarà Costituzione buona e solida se non quella in cui la legge regnerà sui cuori dei cittadini” Considerazioni sul governo di Polonia”, Bari 1971, n. 179.

[2] “in che libro era scritta la legge salica… essa era iscritta nel cuore dei francesi” Des Constitutions politiques et des autres institution humaines, II,S. Pietroburgo, 1814.

QUALCHE NOTA SULLE ELEZIONI, di Teodoro Klitsche de la Grange

QUALCHE NOTA SULLE ELEZIONI

Sull’esito elettorale più scontato, previsto e prevedibile della storia della Repubblica italiana (prima e seconda) occorre fare qualche considerazione, selezionandole tra le meno frequentate dai giornali di regime.

La prima è che, come capita da oltre 5 anni, la larga maggioranza dei votanti, si è orientata verso partiti anti-establishment. Dalle politiche del 2018 (ma in effetti dalle ultime amministrative ad esse precedenti) la somma dei voti conseguito da M5S, Lega, FDL e partitini popul-sovranisti è largamente superiore al 50%.

Da ultimo abbiamo avuto il 26% a FDI, il 16% al M5S, il 9% alla Lega, più circa il 4% ad Italexit, Italia sovrana e popolare, ecc. ecc., cioè sommando il 55%. Che è, decimale più o meno, quanto conseguivano gli stessi sia alle politiche 2018 che alle europee 2019. Una robusta maggioranza anti-establishment che ha acquisito stabilità. Si potrebbe replicare che è una maggioranza frazionata in più soggetti politici e quindi priva di compattezza.

Sicuramente in tale obiezione c’è del vero, ma a patto di considerare anche come da un lato, lo scambio dei voti tra partiti è stato soprattutto all’interno dello “schieramento”: per cui i voti persi dal M5S alle politiche 2018 sono passati (circa la metà) alle europee 2019, a favore quasi totale della Lega e FDI, del pari tali voti sono transitati alle politiche 2022 dalla Lega a FDI. A parte comunque qualche decimale restituito, alla differente distribuzione tra i partiti corrisponde una scarsa permeabilità tra gli schieramenti (filo establishment/anti-establishment). Di voti ritornati dal M5S al PD o dalla Lega a FI ce ne sono stati, dai risultati, assai pochi, una frazione minima di quelli transitati all’ “interno”. Ad essere esaurienti anche lo schieramento filo-establishment ha avuto un andamento analogo: lo scambio è quasi tutto avvenuto al proprio interno, peraltro per cifre percentuali meno imponenti che in quello maggioritario.

Qualche anno fa mi capitò di scrivere come la situazione ricordava la tesi di Gramsci del “blocco storico” che il pensatore sardo vedeva realizzato dalla convergenza (rivoluzionaria) di operai del nord e contadini del sud, ripetuta oggi, nel XXI secolo, dall’alleanza tra ceti medi (prevalentemente rappresentati dalla Lega) e strati popolari (M5S), tutti consapevoli che la deriva economica infausta della seconda Repubblica li stava impoverendo (in economia) ed emarginando (in politica). Da cui la necessità di pensionare/privatizzare la vecchia classe dirigente (il momento del “vaffa”), connotata (negativamente) dall’idoneità, confermata in circa 20 anni, di tenere l’Italia ferma al più modesto (sotto)sviluppo d’Europa, di cui lo stivale è l’ultima ruota (dopo esserne stata per tanti anni – precedenti la “seconda Repubblica” – uno dei motori).

Il nuovo blocco, imputabile principalmente a detto tasso di (sotto)sviluppo si è realizzato in molti anni, ma con una particolare accelerazione a partire dal governo Monti. Questo, facendo peraltro aumentare assai il rapporto debito pubblico/PIL prese alcune misure particolarmente significative per l’ascesa delle forze anti-estabishment: l’IMU, la Legge Fornero, il blocco della rivalutazione delle pensioni “alte”. Malgrado i sacrifici imposti a contribuenti e lavoratori, ottenendo risultati negativi. Il tutto tra gli osanna dei media mainstream.

Dopo un insuccesso di tale portata, partite IVA, pensionati prorogati, pensionati d’oro e d’argento (v. stampa mainstream) ecc. ecc. capirono che l’interesse che li univa era quello di liberarsi di una classe dirigente rapace ed incapace, e che tutto il resto, in particolare gli interessi in conflitto tra loro era – ed è – secondario.

E che quindi il nemico (interno) era lo stesso. Si sa da millenni il nemico è un elemento unificante di ogni soggetto (o coalizione) politica. Di fronte alla sfida da esso rappresentata cessano i conflitti (v. Eschilo) o meglio si relativizzano, e si incrementa coesione e consistenza del soggetto (o della coalizione) che gli si contrappone. È il nemico il sicuro cemento anche delle alleanze, perfino le più eterogenee (v. il capitalismo anglosassone e il comunismo sovietico nella II guerra mondiale), come delle coalizioni interne (v. i governi di salute pubblica in guerra, come quello di Churchill-Atlee). Inoltre l’elettorato di schieramento privilegia tra i partiti anti-establishment quello che appare come il più contrapposto alle élite: nel 2018 il M5S, da sempre all’opposizione, nel 2019 la Lega di Salvini anti-migranti ed anti-Fornero, nel 2022 FdI unico partito d’opposizione al governo Draghi, filo-europeo e filo-atlantico. Il sentimento politico funziona anche all’interno dello schieramento. Onde il “blocco” nato nel secondo decennio di questo secolo è poco scalfibile. Almeno a livello di base.

Per cui anche la piroetta fatta col governo Conte-bis (l’alleanza col partito simbolo dell’establishment, cioè il PD) accentuava il ridimensionamento del M5S, ma non faceva perdere un voto al “blocco”. E soprattutto – e logicamente – non ne faceva guadagnare al PD. Anzi la caduta del governo Draghi da una parte, e la difesa del reddito di cittadinanza – contrastato da gran parte degli altri partiti – dall’altra rianimavano il M5S il quale recuperava all’ultimo momento gran parte dei voti persi tra il 2019 e il 2022. A conferma della forza attrattiva della collocazione anti-establishment (o meglio anti-sistema), capace di far recuperare anche incoerenze, trasformismi (e diffidenze).

Resta da vedere in che modo il M5S riuscirà a gestire l’evitato disastro. Populizzando la sinistra, dato che il PD, tallonato nelle percentuali dai grillini, è in serie difficolta? O spingendo sulla crisi e diventando il Melenchon italiano? O facendosi egemonizzare dal PD (e satelliti) e probabilmente candidarsi all’estinzione per anoressia elettorale?

La seconda, peraltro, non silenziata dai media di regime, è la bassa affluenza alle urne. Ma ad essere silenziato non è tanto il fatto (incontestabile) ma la di esso interpretazione più probabile.

Aspettiamoci anzi che venga utilizzato per delegittimare il governo futuro, sostenendo che, avendo il centrodestra il consenso di circa il 30% degli elettori, non sia rappresentativo della maggioranza del “paese reale”. A cui è facile rispondere che è sempre meglio ottenere il consenso di una grossa minoranza del corpo elettorale, che quello dei “poteri forti”, di natura non elettivi ed espressione di assai ristrette minoranze.

Ma non è questo il dato essenziale: l’astensionismo diffuso un tempo – quaranta o cinquant’anni fa, era giustificato con l’omogeneità delle società che ne erano affette, soprattutto gli USA (all’epoca votavano, alle presidenziali, circa il 60% degli aventi diritto al voto); non c’erano tra repubblicani e democratici, “scelta di civiltà” sulla quale decidere e/o contrapposizioni di sistema come percepito in Italia.

Nel caso dell’Italia di oggi tuttavia la spiegazione più probabile di tale disaffezione al voto è un un’altra – e peggiore per la salute delle istituzioni -: è che è aumentato lo iato tra volontà espressa dagli elettori, e concrete decisioni conseguenti alle elezioni. Interventi per la composizione del governo a carico di candidati ministri scomodi, governanti mai eletti neanche in un consiglio scolastico, partiti che cambiano schieramento, parlamentari che migrano da un partito all’altro, pressioni da governanti e/o istituzioni straniere hanno aumentato a dismisura il fossato tra volontà popolare e azione di governo. Per cui andare a votare appare un inutile perdita di tempo e una presa in giro. Ma è certo che ogni regime politico si fonda sul consenso (dal basso all’alto) e sul potere (dall’alto al basso): se manca il primo il sistema è zoppo; può durare per tempo limitato, per poi entrare in crisi e sfociare a prezzo di un grosso scossone (dalla rivoluzione in giù) in un governo legittimo (opposto se non diverso). Va da se che gli astensionisti di tale tipo sono non degli indifferenti, ma dei disperati. Sono la disperazione 2.0; ma in quanto tali più propensi a cambiare il sistema che a conservarlo. Sicuramente questo a quota (crescente) di disperati non esaurisce né occupa l’intero serbatoio dell’astensione elettorale, ma una buona parte.

C’è da chiedersi peraltro il senso che avrebbe una manifestazione di indifferenza nel momento in cui tutta la stampa (di regime o meno) e tutti i politici sottolineano che siamo nella peggiore crisi dal dopoguerra; e ciò corrisponde alla percezione della maggioranza degli italiani. Essere indifferenti in una situazione del genere è pericoloso per sé e per gli altri.

In terzo luogo uno degli effetti della crisi è – in genere – l’intensificarsi del sentimento politico, cioè della contrapposizione amico-nemico, nonché della violenza interna ed esterna alla comunità.

Clausewitz riteneva il sentimento politico uno dei componenti la triade della guerra; Girard faceva notare che la violenza si accompagna ad ogni crisi come mezzo (reale od immaginario) di soluzione. Anche le epidemie che provocarono esecuzioni pogrom, disordini, linciaggi (a farne le spese, durante la peste nera, soprattutto gli ebrei). Non è facile che oggigiorno si ripetano scenari di violenza collettiva; ma l’innalzarsi della temperatura del sentimento politico è visibile proprio dal carattere coeso, durevole e (poco) permeabile del blocco maggioritario.

La coesione del gruppo sociale in lotta è proprio uno degli effetti della contrapposizione ad un nemico. Onde è il maggiore sintomo del rafforzamento della medesima.

Da ciò deriva che tale coesione può essere mantenuta a patto di non trascurare il presupposto: ossia l’identificazione del nemico che, al fine di non cadere nell’accusa di guerrafondaio, sarebbe meglio definire colui che è animato da un’intenzione ostile e che è riconosciuto come tale. Verso il quale non è necessario muovere guerra, ma prendere atto dei contrapposti interessi. Trattare anche, perché anche l’inimicizia è una relazione sociale e proprio quella con il nemico – compresi gli accordi – ha un’importanza decisiva. Tutt’è non illudersi e non illudere. Perché la prima via porta alla sconfitta, la seconda alla disgregazione (tra vertice e base).

Compito difficile ma non impossibile, che è il segno distintivo degli statisti; merce assai rara negli ultimi trent’anni.

Teodoro Klitsche de la Grange

L’immigrazione, l’economia e le elezioni italiane, di George Friedman

L’Italia ha eletto un partito di estrema destra alle elezioni parlamentari tenutesi nel fine settimana. Il risultato indica che gli italiani sono scontenti della realtà del Paese. L’Italia è la terza economia dell’Unione Europea, dopo Germania e Francia, e le sue realtà economiche e sociali sono molto diverse dagli altri paesi di punta del Continente, nel senso che la sua economia è meno produttiva e genera più debito. Gli italiani credono, con qualche ragione, che la Banca Centrale Europea stia portando avanti politiche monetarie a vantaggio della Germania, che vuole mantenere il valore dell’euro come creditore netto. L’Italia privilegia una politica molto diversa di denaro a buon mercato, una preferenza ragionevole considerando che è un debitore netto. Un’unica banca europea non può servire entrambi gli interessi, né dividere prontamente la differenza. Ma date le dimensioni della Germania,

La logica impone che l’Italia eleggerebbe un governo di dura opposizione che vede la BCE come una minaccia alla prosperità italiana. È nostra opinione da tempo che la tensione tra Italia e Germania sulla politica monetaria rappresenterebbe la più grande minaccia, forse letale, per l’Unione Europea. Visto il prossimo inverno, i politici europei proteggeranno gli interessi dei propri elettori, e quindi seguiranno politiche divergenti. La BCE non sarà in grado di armonizzare le economie europee e, se l’embargo russo persiste, la competizione tra le nazioni sarà intensa. L’UE è stata creata per garantire pace e prosperità, come proclama il suo motto. La pace vacilla e la prosperità sta svanendo. Le elezioni italiane segnano una crisi.

Nel frattempo, c’era un altro problema che incombeva sulle elezioni: l’immigrazione clandestina. Questo problema è stato affrontato dall’Europa dal 2015, quando un numero enorme di migranti musulmani è arrivato nel continente. All’epoca, l’immigrazione relativamente aperta era la politica dell’UE, ma l’opposizione era sostanziale. I fautori della politica ritenevano che gli Stati membri avessero l’obbligo morale di ammettere i migranti. Ma gli oppositori sostenevano che ci si aspettava che gli Stati membri facessero entrare troppi migranti e che il blocco ei suoi sostenitori, in particolare quelli dei paesi ricchi, si stessero pavoneggiando per la loro superiorità morale senza pagare il conto.

Per capire questi temi, inserirei la mia esperienza di giovane immigrato negli Stati Uniti, cosa che ho già fatto. Sono un immigrato e di certo non mi oppongo all’immigrazione. Allo stesso tempo, capisco lo stress che gli immigrati mettono sul sistema e la paura per l’immigrazione. Quella paura non può essere liquidata come semplice razzismo. Il costo dell’immigrazione è a carico di gruppi che trovano l’onere difficile da trasportare. Tuttavia, il problema non è solo finanziario. Quando gli immigrati arrivano in un paese, non vivono tra i ricchi. Invece, sono incanalati a vivere tra i più poveri della società, dove un appartamento potrebbe essere a malapena accessibile.

Gli immigrati sono anche stranieri e spesso non capiscono il paese ospitante. I genitori spesso vanno a fare lavori umili e i loro figli sono lasciati a se stessi. Mancando la supervisione dei genitori, gli immigrati dallo stesso paese si stringono insieme e scoppiano le guerre – tra ebrei e portoricani, irlandesi e neri, italiani e dominicani, per fornire un campione dei gruppi etnici con cui sono cresciuto. Sono stati commessi crimini e i residenti sono stati rapinati e derubati nei loro appartamenti.

Il punto è che l’immigrazione è un’esperienza brutale per i giovani e un’influenza ancora più orribile sui residenti che vi si erano stabiliti anni prima. Era particolarmente un incubo per gli anziani. Chiunque potesse fuggire. Chi non poteva restare in casa. Questa è stata l’esperienza degli immigrati, ed è stata anche l’esperienza della classe operaia e dei pensionati. Non è stata davvero colpa di nessuno, a parte coloro che hanno sostenuto la politica senza capire cosa significasse l’immigrazione su larga scala e non hanno tentato di mitigare la crisi che ha causato.

Ho notato uno schema a New York che vedo in Europa e altrove. I più appassionati difensori dell’immigrazione non vivono nei quartieri in cui si stabiliscono gli immigrati, né hanno la minima idea di cosa comporterà la collisione delle culture o di cosa faranno gli adolescenti senza sorveglianza. Se niente di tutto questo accade nei loro quartieri, non è che siano indifferenti al caos; è che semplicemente non riescono a capirlo.

L’aumento dell’ostilità nei confronti degli immigrati in Europa aumenterà quando gli immigrati saranno inviati nei quartieri più poveri dei paesi più poveri. Non mi scambi per un oppositore dell’immigrazione. Sono qui in America come un immigrato. Ma sono anche consapevole che non esiste un memoriale che contenga i nomi di coloro che lo hanno pagato.

Il problema dell’immigrazione esiste in tutti i paesi. Ma in Europa è più divisivo. L’America è una nazione di immigrati e tutti noi abbiamo un antenato che è venuto qui o è stato portato qui, ad eccezione dei nativi americani, che sono stati quelli che hanno pagato per la prima ondata. Ma capisco la posizione italiana sull’immigrazione, che si può riassumere così: “Lasciateli andare tutti in Germania”. Ed è qui che la questione economica e quella dell’immigrazione si incontrano, creando un nuovo potente problema alimentato dal disprezzo rivolto a chi si oppone all’immigrazione delle classi morali superiori. L’UE sarà lacerata da questi problemi, così come altri paesi.

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SOCIOLOGIA DEL VOTO_di Pierluigi Fagan

SOCIOLOGIA DEL VOTO. Faremo una breve considerazione a grana grossa su dati quasi completi della Camera per il proporzionale.
Tra coloro che hanno votato, si stagliano due gruppi. Quello che si nomina ed è di fatto il CDX somma, al momento, circa 11 milioni di voti. L’altro gruppo non ha nome e non è tale neanche di fatto, ma ha certi suoi gradi di omogeneità pur molto relativa. Parliamo qui in termini di sociologia politica, classificazione per condivisioni di impostazioni politiche ideali molto a gran grossa, nulla con cui poi si fanno governi o leggi specifiche semmai frutto di mediazioni e compromessi. Composto dal CSX propriamente detto ed il M5S, peserebbe sempre 11 milioni di voti, qualche centinaia di migliaia di voti meno dell’altro. Di questo secondo gruppo non fa parte Azione-Italia Viva.
Merito del meccanismo che trasforma questo relativo equilibrio dei due gruppi socio-politici in una disfatta epocale, visto da una parte – dall’altra è un trionfo epocale, è di un certo Rosato, oggi proprio in Italia Viva, un ragioniere democristiano ai tempi parte del PD. Ma poiché la lungimiranza della classe dirigente del PD è esuberante, oltre ad aver creato un meccanismo elettorale assurdo e non aver mai neanche provato a cambiarlo sebbene più o meno tutti lo ritengono assurdo dal 2017, hanno anche deciso che per fedeltà ad un totem detto “Agenda Draghi” non si doveva neanche provare a fare un accordo tattico col M5S. Meglio per quest’ultimo, che recupera parecchio dai sondaggi estivi.
Quanto al PD propriamente detto, siamo ad un milione di voti in meno rispetto al 2018 per una percentuale appena superiore del +0,5% per via della più generale contrazione dei votanti. Un milione di voti persi, quasi un -18% e stante che questo partito, nel 2018, era guidato da uno sbiadito funzionario, tale Maurizio Martina oggi alla FAO.
Tuttavia, l’Italia si uniforma agli standard europei, festeggiando la sua prima premier donna e medie di voto basse, su standard post-democratico, due fatti tipicamente europei.
[La foto è un tributo all’intrepido ragioniere al cui nome è legato il fatidico meccanismo che ha trasformato un composito e variegato quadro politico in un monocolore di destra]
[Attenzione alle pesature di sociologia politica. Al di là degli esiti elettorali partitici, al di là del diritto a governare garantito dal voto, in politica i voti si contano ma si debbono anche pesare]
SOCIOLOGIA DEL VOTO (2). Ieri abbiamo evidenziato come i due blocchi socio-politici principali, quello che ha vinto e quello che non è neanche riuscito a presentarsi come un blocco dividendosi in due parti, (qui non uso CDX e CSX perché queste sono categorie solo politiche mentre qui l’analisi è “socio”-politica), in realtà divergono per poco. Il loro insieme fatto cento, infatti, vede quello che ha vinto al 52% e quello che ha perso al 48% (l’ipotetica alleanza elettorale CSX+5S), questa è la loro pesatura sociale relativa.
Alcuni commenti sul post di ieri, evidenziavano le varie ragioni che portarono il partito principale dell’area che non formandosi in blocco poi ha perso più del reale peso (PD-CSX), a fare questa dissennata legge elettorale. Legge che ha trasformato un dato molto relativo in assoluto. In aggiunta, la decisione di Letta ad escludere a priori ogni possibile alleanza con i 5S, decisione incomprensibile stante la meccanica elettorale. Le rapide dimissioni annunciate ieri da Letta fanno pensare che tale esito era per certi versi “programmato”, per quali ragioni può esser oggetto di speculazione. Ma ci sarebbe anche da domandarsi perché in questi cinque anni, quel partito non ha sentito necessità almeno di provare a cambiarla.
Credo la risposta risieda nella genetica del PD, un progetto bipolare su format di cultura politica anglosassone (Lab-Con UK/ Rep-Dem US), quasi che imponendo una legge elettorale maggioritaria, allora si sarebbero formati partiti e cultura politica bipolare conseguente, una assurdità. Ne è venuto fuori un accrocco con una minoranza ex-democristiana che però spadroneggia su un totale maggiore della somma delle parti, con fazioni lib-lab confusamente “post-moderne/progressiste”, altri rimasugli più un corpo in teoria, almeno potenzialmente, “socialdemocratico” in senso europeo (PSE-SPD). Parliamo non della sua classe politica di partito, di nuovo, parliamo degli elettori, dei pezzi di società. Chi non ha amici e conoscenze di persone per bene, intrinsecamente quasi-socialdemocratiche per idee e valori, che si ostinano in mancanza di meglio a votare questo accrocco che fatalmente li delude?
Dato l’evidente fallimento di impiantare una cultura politica maggioritaria in un Paese che, come la Spagna, la Francia, la Germania ovvero la tradizione europea, è intrinsecamente pluripartitico, forse arriverà il giorno in cui questo accrocco si potrà sciogliere rilasciando le sue due anime principali a due percorsi di identità propria. Queste due aree avranno poi agio di collaborare ed allearsi, ma partendo da due soggetti pesati che chiariscano il loro reale peso di rappresentanza, determinando quindi i pesi dell’agenda politica concordata -dopo- una elezione e non prima dentro lo stesso partito che tale non è vista la diversità componente obbligata a convergere su dinamiche assai poco chiare in senso democratico. Detto altrimenti, la fazione ex-democristiana non volendo tornare all’insignificanza della Margherita, vuole a tutti i costi tenere unite le parti componenti l’accrocco che non è mai stato, né mai potrà essere “un” partito. A loro conviene.
Passiamo poi ad evidenziare come il soggetto +Europa abbia fallito il quorum per 50.000 voti. Unitamente alla punizione delle principali forze di sostegno al governo Draghi (PD, FI, Lega, Di Maio etc.), si evidenzia palesemente come il dibattito politico pubblico sia artificiosamente centrato su temi ed argomenti (ad esempio il dogma sfiorante il culto di Mario Draghi) che non hanno alcuna presa sul Paese reale. Ha stra-vinto l’unica forza politica che non ha partecipato al governo del banchiere ed ha vinto relativamente (ovvero ha perso rispetto al 2018 ma rimbalzando all’ultimo momento delle più fosche previsioni) la forza che alla fine se ne è in parte dissociata tra scrosci di pubblico sdegno.
In Italia c’è un problema grave di scollamento tra élite pubblica (imprenditori, affaristi, giornalisti, intellettuali organici alle classi di potere e conseguente classe politica da questi supportata) e popolazione, è del tutto evidente. Era evidente nel 2018, continua ad esserlo. La “democrazia”, ammesso e non concesso quella solo rappresentativa possa definirsi tale, è un sistema complesso. Si può nominalmente far finta sia tale rincuorandoci dell’esser dalla parte giusta della storia politica, salvo poi manipolarla di modo che sia, com’è nei fatti, una oligarchia che si sottopone a giudizio molto poco libero una volta ogni cinque anni. E’ questo blocco dall’alto che genera come unico sfogo il c.d. “populismo”.
E veniamo ai bassifondi elettorali. Qui abbiamo una forza politica centrata su un giornalista televisivo (Paragone), senza reale consistenza politica in senso tradizionale che ottiene 540.000 voti, agitando il tema dell’uscita dell’Italia dall’euro o forse anche dall’Europa. Fa già ridere così. Nel senso di presumere il poter fare una forza politica su un singolo tema così delicato senza essere in Inghilterra (modello Farage), di nuovo presupponendo che nel mondo politico ci siano “modelli” non dipendenti dalle condizioni di contesto cui applicarli, una sorta di teoria della fisica politica trasferita alle società, alla geo-storia, alla cultura. Va be’, diciamo che il tipo che ha del furbacchione, stando già in Parlamento, ci ha “provato” a rimanere nel bel mondo, rimarchevole comunque che mezzo milione di persone gli abbiamo pure dato retta.
Quanto a Italia Sovrana e Popolare, siamo a 300.000 voti, tenuto conto che 100.000 circa sono del PC di Rizzo (2018). La c.d. area sovranista politicamente più seria del “fenomeno Paragone”, “pesa” 200.000 voti. Sul totale aventi diritto, Italia ed Estero, sarebbero lo 0,4%. Ripeto, qui facciamo pesatura all’ingrosso dei blocchi sociopolitici, quindi non consideriamo il poco tempo avuto da queste formazioni (sì perché l’area è piccola, ma ciononostante si divide in fazioni) per la campagna elettorale e gli scarsi mezzi. Anche se uno si potrebbe domandare perché con poco tempo a disposizione e scarsi mezzi, cose note a priori, qualcuno abbia sentito l’esigenza di mettere in piedi una macchina elettorale dedicata.
Qui si possono fare due considerazioni che poi è una sola. Questa legge elettorale, ma è cosa che penso rimarrà anche quando decideranno di adeguarla ad un modo normalmente proporzionale, pone lo scalino del 3% che sugli attuali votanti vale qualcosa come circa 850.000 voti. Se fossero stati quelli del 2018, lo scalino sarebbe valso 1,1 milioni di voti. Sempre poi che in una nuova legge proporzionale non decideranno, com’è probabile, di portarlo al 5%. Chi tenta la scalata elettorale deve porsi questo target. Il target dovrebbe retroagire sul pensiero ed il fare politico. Ho l’impressione che gli amici di ISP non avessero una auto-percezione realistica della propria consistenza. Ho l’impressione che questa area che ha presenza più nel virtuale che nel reale, scambi i numeri di Internet con quelli del mondo “grande e terribile”. Il che per un’area critica verso il neoliberalismo con distopiche derive da capitalismo della sorveglianza ha del paradossale. Speriamo il risultato concreto porti riflessione concreta e non collezione di scuse per continuare a pensare ed agire come s’è fatto fino ad ora. Popolo vs élite? Non c’è più destra, né sinistra? Non c’è più o non deve esserci? No perché la destra sembra ci sia e neanche poco.
E chiudiamo l’analisi del micromondo con Unione Popolare. Qui il risultato migliora dal solo Potere al Popolo del 2018 ma di molto poco e comunque anche qui, di gran lunga lontani dal quorum. Anche De Magistris, come Ingroia, come Paragone, è uno di quegli aspiranti al Parlamento, chissà se per pure ragioni personali o anche ideali. Perché gente di questa area politica si ostini a creare forze politiche che in tutta evidenza non riescono a lievitare come progetto politico e si svegliano quando sentono la chiamata alle elezioni che, come sappiamo, sono ampiamente condizionate se non truccate, ha del mistero.
Chissà profondere impegno ed energia politica nei cinque anni e non nei cinque mesi o settimane che portano alle elezioni, sarebbe più serio e proficuo?
A conclusione, ho idea che la corrosione profonda del significato del concetto di “politico” e di “società” operata ormai da decenni, abbia raggiunto il suo risultato: nessuno sa più come interpretarli. Chissà, magari, prima o poi, a qualcuno verrà in mente di studiare riflessivamente la faccenda invece che scrivere l’ennesimo libro o articolo di critica al neoliberismo. Una critica della critica, in altri tempi si sarebbe chiamata una “autocritica”. Non un pentimento formale di tipo confessional-cristiano, una applicazione delle razionalità a sé stessa. Sarebbe già un buon inizio e poiché dalle nostre parti (cultura della complessità) si dice che ogni percorso ha dipendenze dalle condizioni iniziali, sarebbe l’inizio necessario.
[Naturalmente molti lettori e lettrici, qualcuno anche in vena di commento, come ieri accaduto, non coglieranno la differenza tra una analisi sociopolitica ed una politica stile diretta Mentana. Qui si cerca di capire i rapporti tra blocchi sociali/ideali e politica, al netto di leader e partiti specifici. Altre analisi sono benvenute, polemiche da basso condominio, meno]

Elezioni politiche 2022! Una mappa, di Giuseppe Germinario

Partito Democratico

Cala ulteriormente nei consensi, scricchiola anche nelle sue roccaforti, ormai ridotte a due e ½. Non riesce a mantenere integralmente nemmeno il proprio elettorato europeista. Non potendo schierare i propri pezzi da novanta, vale a dire Blinken, von der Leyen, Borrell e Michel. ha dovuto accontentarsi di candidare loro ventriloqui, a partire dal perdente senza successo Enrico Letta. Tutto sommato per il momento ha limitato i danni, sperando in una riedizione di governo istituzionale nel caso Meloni non sia in grado di reggere il fardello. Il tempo, per il PD, è la determinante fondamentale. Per un po’, ma non troppo, potrà reggere l’astinenza. Nel frattempo dovrà risolvere il suo vero dilemma: legarsi mani e piedi, con la prossima nuova dirigenza, alla parodia della sinistra democratica statunitense, nella persona di Elly Schlein e decretare la propria marginalità oppure lasciare la gestione allo zoccolo duro ed arroccato degli amministratori e tentare di trattenere i radicali al proprio interno e tra i collaterali. In caso di fallimento ritornerebbe l’alternativa di Calenda e soci interni ed esterni con conseguente scissione. Il colpo più duro subito, è anche il meno visibile. Come si sa, gli ambienti del Vaticano hanno rinunciato da anni alla costruzione di un partito cattolico collaterale o d’ispirazione; hanno distribuito le attenzioni in più parti. Al momento, specie con la guerra in Ucraina in corso, il Partito Democratico non è più il principale interlocutore del Vaticano.

Assieme a Fratelli d’Italia è rimasto, comunque l’unico partito nazionale; il partito, cioè, che nel suo declino ha mantenuto la forbice più stretta di consensi tra le varie parti del paese

Movimento 5 Stelle

Le elezioni hanno consacrato la costituzione e l’affermazione del partito del progressismo compassionevole. Il de profundis dei partiti del lavoro di antica e gloriosa tradizione. Non è un processo compiuto, ma è sulla buona strada. Non potrà fare a meno di trattare di politica economica. Affronterà in modo pasticciato e disastroso il tema, così come incubato con il bonus 110% in edilizia, con la pletora di bonus estemporanei come durante la crisi pandemica e con la sindrome da catastrofismo ambientale e da conversione energetica affrettata e prematura. Una ottima base per alimentare l’assistenzialismo possibile entro il quadro del prossimo disastro economico a venire e per lasciare mani libere alla dirigenza in formazione, senza mettere in discussione i processi fondamentali. Gode del supporto e della ispirazione fondamentali di settori importanti del Vaticano e rappresenta l’unico spiraglio ad una posizione meno partigiana ed oltranzista nella crisi ucraina. La solidità del sodalizio dipenderà dalla sua capacità di strutturarsi e dalla continuità dell’attuale politica del Vaticano. Nel caso non mancheranno i punti di appoggio nelle varie lande del paese.

Lega

Un risultato disastroso per due motivi:

  • sbiadisce drammaticamente la già pallida prospettiva di costruzione di un partito nazionale

  • rimane, ma fortemente ridimensionato, lo zoccolo duro della Lega Nord e con esso l’ossatura di amministratori e quadri che hanno mantenuto in piedi il partito. La novità più allarmante è che questi ultimi hanno cominciato a guardare e in parte ad approdare verso nuovi lidi. Come numeri non è arrivata ancora alla dimensione della crisi terminale della gestione Bossi; nella progressione e profondità della crisi la situazione è ancora più perniciosa, essendo meno credibili svolte estemporanee alla Salvini. È sufficiente dare un’occhiata al programma elettorale specifico della Lega per comprenderne la gravità dei dilemmi e la scarsa credibilità del tentativo di far quadrare il cerchio. Ne parleremo meglio in seguito.

Fratelli d’Italia

Rappresenta la grande scommessa, per meglio dire l’azzardo, del quadro politico nazionale. Troppa frenesia nel farsi accogliere e legittimare dall’attuale leadership statunitense. La condizione del suo iniziale successo, visti i tempi ormai sempre più brevi delle parabole dei politici emergenti in questo ventennio, è la permanenza dell’attuale leadership statunitense oppure il successo nel movimento trumpiano di una nuova versione delle politiche neocon, specie in politica estera. Troppo euforico appiattimento alle politiche più oltranziste degli Stati Uniti che la avvicinano più al nazionalismo suicida e fantoccio di stampo polacco che alla disinvoltura politica di Orban, Un atteggiamento del quale già Salvini, a suo tempo, ha pagato un prezzo salato, anche se determinato da altri motivi e contingenze. La lezione non pare essere servita. I margini operativi della Meloni e la qualità della sua dirigenza sono stretti ed inversamente proporzionali alla sete di governo e di occupazione dei posti. Mario Draghi le ha già preparato la polpetta avvelenata dei “poteri speciali” e Berlusconi provvederà, a tempo debito, ad organizzare la giostra delle migrazioni parlamentari per condizionare le sue scelte ed eventualmente portare alla sua defenestrazione. L’interrogativo fondamentale è questo: sino a quando gli Stati Uniti riterranno di qualche importanza sostenere l’Unione Europea e che ruolo potrà giocare la Meloni in questa riconsiderazione? La figura antitetico-polare a Mario Draghi?

Le liste “antisistema”

Il flop dovrebbe parlare da solo e insinuare dei dubbi anche tra i più ferventi adepti. È la conferma di una concezione della battaglia politica maturata nel ‘68 e che viene riproposta in maniera imperterrita non ostante le sconfitte parodistiche in Italia e dalle conseguenze ben più drammatiche in altre aree del mondo, come l’America Latina.

Mancano troppi fattori e condizioni necessari a costruire un partito e un movimento politico serio; in nome dell’emergenza, rimandandole, non si fa niente per costruirle:

  • una base culturale solida inesistente e, quando abbozzata, sempre piegata alla comoda individuazione e riproposizione di un fattore unico determinante in ultima istanza le strutture e le dinamiche di potere, nella fattispecie il ruolo del capitale finanziario. Una base culturale che comporta la capacità di creazione e penetrazione di strutture appropriate e di finanziamenti sufficienti;

  • la necessità di acquisire referenti nei centri e nelle strutture di potere ed amministrative;

  • l’individuazione dei soggetti sociali portanti di un rivolgimento sociale e politico, i quali non possono essere di certo gli strati marginali e periferici di una formazione sociale.

Lenin, a suo tempo, imprigionato dallo schema teorico dell’utopia marxista, ma da grande stratega e tattico che era, aveva riservato sì alle casalinghe la funzione di governo, ma nella fase compiuta di realizzazione del comunismo. Ancora si fatica a cogliere questo particolare tutt’altro che insignificante.

Se ne parlerà più approfonditamente una volta smaltita la sbornia postelettorale, giusto per non entrare nel calderone delle polemiche sulla responsabilità di sconfitte preannunciate e cercate.

Mi scuso per l’omissione delle altre formazioni sul campo.

Mario Draghi, la parabola di un funzionario diligente e imperterrito_di Giuseppe Germinario

Per la prima volta mi è capitato di vedere Mario Draghi sorridente e rilassato.

L’eterno ghigno obliquo che segna il suo viso nei momenti solenni e in quelli più informali quasi del tutto raddrizzato; il viso pacioso e morbido; il passo non più lievemente strascicato, ma sciolto, persino nell’atto di scendere l’impervia scaletta di un aereo; l’abbigliamento composto ma informale, illuminato di bianco.

L’espressione del classico atteggiamento e senso di sicurezza di chi si sente finalmente a casa propria, protetto dalle mura domestiche e da un ambiente familiare da poter calpestare ad occhi chiusi.

Un’alea simile l’aveva mostrata al momento di offrire le proprie dimissioni irrevocabili al Senato. Non era, però, esattamente la stessa. Allora la giovialità era accompagnata da un senso di sollievo. L’altro giorno no; era serenità paciosa ed assoluta.

Mario Draghi non era giunto, però, nel suo rifugio in Umbria; era arrivato a New York con il sovrappiù, per giunta, dei fusi orari.

Con ogni evidenza era giunto in effetti a casa sua, nella sua vera casa.

Non poteva arrivarci come padrone di casa; per meglio dire come uno dei padroni di casa.

I quotidiani italici avrebbero voluto con tutto il cuore presentarlo così; nemmeno loro, però, cosi proni e adulanti, ci sono pienamente riusciti. Hanno sottolineato con enfasi le laudi e i riconoscimenti offerti solennemente e stucchevolmente da potenti lucidi, ma decisamente attempati; hanno enfatizzato il sostegno scontato e bonario, si direbbe paterno, di una amministrazione e di un Presidente, Biden, decadenti e decomposti; hanno precisato però con sufficienza la difficoltà di ottenere un formale incontro bilaterale, richiesto con cauta insistenza, che sancisca la solennità del riconoscimento alla persona; hanno persino premurosamente glissato sull’accoglienza piuttosto freddina ed indifferente all’assemblea dell’ONU riservata al nostro SuperMario, consistita in un malinconico deserto di sedie vuote. A confronto, l’accoglienza riservata al Presidente della Mongolia, paese incuneato tra Russia e Cina, ma sgomitante, è sembrata una apoteosi.

Una accoglienza solitamente riservata, quindi, quella a Mario Draghi, con fare benevolo e paterno, ma senza inutile spreco di energie e pathos, ai servitori utili, ma non indispensabili, ormai sulla via del tramonto.

Eppure a Mario Draghi quel tiepido calore, quella ospitalità nelle stanze di servizio sono bastati a infondergli serenità gioviale. Buon per lui e per il suo equilibrio psicologico; rammentando, però, che anche le oche giulive raggiungono così il loro equilibrio, a scapito però della considerazione che nel tempo i contemporanei ed i posteri avranno maturato nei loro confronti. Il fìo da pagare anche sull’offuscamento della sua aura efficientista, costruita i tre decenni, sarà salato, ma con ogni evidenza anch’esso sopportabile.

Il raffronto dei due discorsi all’assemblea generale dell’ONU tenuti dai due leader, rispettivamente Joe Biden e Mario Draghi, è impietoso e non fa che confermare la reale postura e statura del nostro.

Zio Joe, pur con tutte le nebbie che ormai da tempo attraversano il suo cervello, ha seguito a suo modo nella sua prolusione un filo arguto e proattivo, da vero decisore politico.

Ha cercato di insinuarsi nelle reali contraddizioni delle politiche estere di Russia e Cina, in particolare nella natura dei loro impegni economici, offrendo comunque ad una il ruolo di paria e all’altra di interlocutore ostile; ha cercato di incrinare con argomenti il sodalizio crescente tra i due paesi e di proporsi come paladino ed artefice della emancipazione dei restanti paesi nel mondo. Bontà sua, senza costrizioni e per libera scelta degli stessi e in competizione bonaria con gli altri giganti emergenti, quasi a riconoscere finalmente ed implicitamente il carattere multipolare della competizione geopolitica; si è erto a paladino del diritto internazionale e della sovranità intangibile degli stati nonché delle condizioni di vita e di lavoro.

Per rendere minimamente credibile le sue tesi, si è presentato come l’artefice di una svolta radicale rispetto alle politiche dei precedenti presidenti americani.

L’asino ha cominciato a cascare nel momento in cui Joe Biden è entrato nel merito.

Quando ha riproposto le politiche agricole e le tecnologie delle multinazionali agroalimentari, utili all’agricoltura intensiva necessaria a sollevare il mondo dalla fame, come pure al controllo e alla servitù delle masse contadine; quando ha “offerto” le proprie tecnologie e i propri parametri nell’affrontare il cambiamento climatico; quando si è offerto a garante della libertà di circolazione sui mari.

Buone intenzioni, condite con numerose bugie ed omissioni, che soffrono del retaggio del passato e del ritardo rispetto all’attivismo di Cina, Russia ed ormai anche India; fini reconditi che riaffiorano inesorabilmente grazie al disincanto e alla memoria degli oggetti di attenzione.

SuperMario è apparso al contrario nella veste di un ventriloquo dalla voce atona col cipiglio di un leone tramortito da ore di abbiocco sotto il sole cocente della savana. Non ha fatto altro che riproporre pedissequamente con piaggeria indirizzi e motivazioni della Casa Madre, in particolare sul conflitto ucraino, sorvolando con indifferenza sulle implicazioni disastrose di tali scelte per il paese che governa e per il continente che lo ospita.

Mario Draghi è stato invocato ed acclamato a capo di governo in quanto tecnocrate capace e competente ed uomo influente e di successo in grado di trascinare l’Italia in una postura e ruolo da protagonista.

Ha in effetti confermato la sua capacità e la sua influenza in un particolare ambito, la sua pochezza nell’altro.

In qualità di plenipotenziario, per meglio dire di luogotenente, ha contribuito a trascinare una popolazione inconsapevole delle implicazioni suicide ed una classe dirigente priva di ogni respiro strategico autonomo al carro delle scelte geopolitiche di una fazione dell’establishment statunitense; ha vigilato coscienziosamente sulle possibili intemperanze e riottosità degli alleati europei nei confronti delle scelte americane; con il PNRR e il suo corollario di leggi e norme ha contribuito attivamente a stringere ulteriormente al collo del paese il cappio dei vincoli e delle limitazioni in grado di pregiudicare per lunghi anni ogni possibilità di crescita e sviluppo autonomo e solido.

Su questo può vantare un più che discreto successo personale.

Come Capo del Governo ha operato nella pressoché completa vacuità e continuità, perfettamente in linea con i governi che lo hanno preceduto in questi trenta anni. Una vacuità la cui percezione delle tragiche conseguenze aleggia ormai con inquietudine nei corridoi e nelle strade, ma che diventerà evidente solo quando il nostro starà veleggiando in lidi più sicuri che tempestivamente sta individuando.

Con la eccezione della campagna vaccinale, efficace nelle modalità, molto meno nella risoluzione dei problemi, ha gestito in perfetta continuità l’emergenza pandemica, ingarbugliando un problema oggettivo in un groviglio di provvedimenti estemporanei, contraddittori e draconiani più confacenti ad una strumentalizzazione politica e ad una logica totalitaria di controllo che ad una gestione flessibile e ferrea, ma risolutiva o almeno contenutiva della crisi pandemica. Il risultato più evidente è stata la parziale defenestrazione della quota dalemiana di tecnici a corte con una dalle capacità simil dubbie.

Sul PNRR la strada è appena tracciata; una volta però esaurito l’effetto elementare del moltiplicatore keinesiano legato alla messa in opera degli investimenti, sempre che siano conclusi, emergerà la marginalità del moltiplicatore legato alla fase operativa delle strutture attuate. Del PNRR e più in generale dei Fondi Strutturali Europei ci siamo occupati in tre articoli di diversi mesi fa, confortati dal giudizio di una discreta letteratura europea cui risulta estranea il nostro paese. Non serve, quindi, dilungarsi più di tanto. Il dato politico ricalcherà le dinamiche e gli esiti del passato in assenza di una mole analoga di risorse nazionali, svincolate dalle normative europee e legate al perseguimento dell’interesse nazionale volto alla creazione e controllo di una capacità industriale strategica autonoma. Il recente decreto sui poteri speciali non deve ingannare. E’ rivolto a fronteggiare le mire e le collaborazioni con i paesi dichiarati ostili e tuttalpiù a parare qualche colpo troppo spregiudicato dei nostri fratelli, vicini di casa; non intende essere decisa rispetto alla capacità di controllo ed acquisizione dei fondi americani, quanto esserne compartecipi subordinati. In termini di controllo politico, il risultato certo sarà la ennesima sovrapposizione di un ulteriore apparato amministrativo, rispetto alla pletorica rete burocratica e al disordine istituzionale attualmente in atto.

Sul cambiamento climatico e sul catastrofismo ambientale il giudizio segue la falsariga. Nessuna riflessione sul realismo e la realizzabilità del piano di conversione energetica, sulle implicazioni sul residuo apparato industriae nazionale e sulla capacità di produzione e padroneggiamento delle nuove tecnologie. Uno sterile allarme sul catastrofismo ambientale di origine più o meno antropica che impedisce di agire localmente sulle cause e sugli effetti e di cogliere il nesso tra il popolamento delle aree e la loro possibilità di manutenzione e di coltivazione, riducendo di fatto i disastri a tragedie ineluttabili e il problema ambientale ad una saturazione di attività, quindi ad una necessaria ed implicita decrescita.

Superfluo, al momento, parlare del prossimo disastroso dissesto economico legato alle politiche energetiche e alla accettazione supina delle attuali e future politiche sanzionatorie. La speranza recondita sarà di farlo apparire con il tempo una fatalità.

La smentita più clamorosa delle qualità taumaturgiche di Supermario è avvenuta proprio sul suo presunto punto di forza: il ruolo, la dignità e il rispetto dell’Italia all’interno della Unione Europea. Il recente accordo bilaterale tra Francia e Germania sugli scambi energetici rappresenta soltanto la ciliegina sulla torta. Un ruolo lo avrà certamente avuto la considerazione sempre più scarsa degli dirigenza degli Stati Uniti sulla utilità residua della costruzione unitaria europea e sul ruolo di capocordata assunto sino ad ora dalla Germania. La crescente importanza attribuita ai paesi dell’Europa Orientale nel ruolo guida della politica russofoba rappresenta l’esempio più tangibile di questa svolta strisciante; la qualità di emissario diretto degli Stati Uniti espressa da Mario Draghi ha certamente spinto, appena possibile, i due leader tedesco e francese, a spingere ulteriormente nell’angolo l’Italia.

L’elenco potrebbe arricchirsi di ulteriori elementi. Se ne parlerà nel tempo, appena saranno più evidenti le conseguenze di tali scelte. Servirà quantomeno a ravvivare la memoria troppo corta degli italiani riguardo ad un personaggio attivo in qualche maniera da quaranta anni nell’agone politico italiano e corresponsabile delle scelte che più hanno compromesso il futuro del nostro paese.

È utile, piuttosto, sottolineare un altro aspetto del personaggio.

Dalla contestazione Mario Draghi è stato spesso inserito nel nutrito pantheon liberal-progressista, un po’ snob e particolarmente scettico sulla capacità degli italiani di fare le scelte politiche giuste senza l’impulso e l’intervento esterno. Personaggi, per fare qualche nome, del calibro di Andreatta, Prodi, Letta, Ciampi, ma anche componenti di altri schieramenti.

Tutti personaggi con l’atteggiamento snobistico dei parvenu, desiderosi di riconoscimento all’estero e da questo soprattutto gratificati. Personaggi, tutto sommato, ancora italiani nella loro espressione e nei loro riferimenti, come potrebbe essere ancora un Mario Monti.

Mario Draghi è qualcosa di più e di diverso. Una mutazione definitiva di quella specie.

È un alieno piombato nel nostro universo, che appartiene e deve rendere conto ad un altro universo, senza brillare mai per altro di coraggio.

Come un paese, un popolo, una classe dirigente e un ceto politico abbia potuto accoglierlo senza per altro alcun accorgimento difensivo servirà a spiegare molto della condizione di immaturità politica del nostro paese e delle condizioni necessarie ad un suo risorgimento.

Al momento, il quadro politico desolante non fa che riprodurre sullo scenario suoi epigoni caricaturali destinati ad amministrare, con gaudio effimero, le macerie prodotte dai predecessori e a ritenere sufficiente a ciò il placet esterno.

Epigoni che serviranno ben poco, anche in caso di una svolta radicale favorevole negli Stati Uniti.

Giuseppe Conte e Matteo Salvini si sono fatti conoscere nel loro spessore durante l’epopea di Trump; il loro ritorno improbabile sarebbe un “déjà vu” stucchevole. Adesso toccherà ad altri. L’effetto sorpresa, come pure il momento di gloria, saranno ancora più effimeri.

Ogni ulteriore considerazione più approfondita sarà opportuna solo dopo il 26 settembre.

Questa volta lo stellone dovrà faticare parecchio per attraversare la coltre di nubi e trarre d’impaccio in qualche maniera il paese; sempre che non si sia spento discretamente, ahimè.

VOTARE DA GRANDI, di Teodoro Klitsche de la Grange

VOTARE DA GRANDI

Tutti dicono di aver indovinato l’esito delle elezioni politiche: ed in effetti è altamente probabile che saranno vinte (taluno sostiene stravinte) dal centrodestra. Di per sé nulla di strano: dopo il decennio (abbondante) passato, avrebbe sorpreso il contrario.

Interessa notare come, in particolare nella comunicazione dei messaggi il duo Meloni-Salvini (un po’ distanziato Berlusconi) abbiano per così dire innovato i parametri, non solo i contenuti.

Spieghiamo un po’: tutti i partiti si differenziano per “contenuti”; chi vuole più libertà, chi più uguaglianza; chi più Europa, chi meno; chi più assistenza, chi meno spesa.

Tuttavia nel messaggio dei due leaders del centrodestra (la Meloni è ancor più esplicita) cambia, in ispecie rispetto al centrosinistra il parametro delle scelte proposte e, più in generale, dell’azione futura di governo: per i primi è l’interesse degli italiani, per gli altri (cosa consueta) la bontà delle scelte. Intendendo come “bontà” la corrispondenza a norme etiche e, in certa misura, anche giuridiche.

L’interesse nazionale e la “bontà” appartengono entrambi all’idea di Stato – e più in generale – di sintesi politica. Come non c’è Stato che non abbia l’idea Sdirettiva e la finalità di proteggere la comunità, così ha anche quello di realizzare certi valori etici e anche giuridici.

Da sempre, ma ancor più negli ultimi trent’anni, ha prevalso decisamente il richiamo a messaggi di elevato contenuto morale, a cui corrispondeva (e ad hoc) l’evidenziazione della deteriore caratura morale dell’avversario politico. La demonizzazione di Berlusconi (ma non solo) è stata emblematica. Come aver ha contribuito molto alla detronizzazione del Cavaliere ed alla intronizzazione di governi che degli interessi degli italiani se ne sono poco curati. Come è provato dai risultati.

Invece nella comunicazione del centro-destra l’accento non è tanto sull’appetibilità del programma (ovvio), quanto sul conseguimento di risultati positivi per l’interesse nazionale. Di per se questo è un ribaltamento, ma anche un segnale (se, come probabile, condiviso dalla maggioranza degli elettori) di maturazione politica; mentre l’inverso è sintomo d’ingenuità e, dato il contesto, di decadenza politica e culturale.

Il primo valuta in base a fatti e risultati: da Machiavelli (il XV capitolo del Principe) il realismo ha contrapposto alle “immaginazioni” la realtà dell’analisi dei fatti valutati razionalmente e in base ai risultati ottenuti. Mentre per il non-realista il problema è come conformare la realtà alla propria immaginazione. Hegel scriveva che tale metodo fa la testa gonfia di vento (cioè, diremmo oggi, di aria fritta).

E che non si tratti solo di vento, cioè di dabbenaggine ma di astuzia è dubbio costante: come scrive Machiavelli, prendendo ad esempio Alessandro IV, che il Principe non deve mantenere le promesse “quando tale observazione gli torni contro e che sono spente le coazioni che le fecero permettere” anche perché non mancano mai le giustificazioni per farlo: lo vuole l’Europa, c’è uno spread in arrivo, dobbiamo aiutare l’Ucraina, ecc. ecc. E dati i precedenti in tal senso, aspettatevi che i piddini lo ripetano.

La conseguenza di ciò è che nel pensiero politico realista chi si conforma all’ “immaginario” è un ingenuo; come Pier Soderini che nell’epigramma di Machiavelli  Minosse manda al “limbo con gli altri bambini”.

O Messer Nicia che collaborando, tutto contento, alla propria cornificazione “Quanto felice sia esser vede, chi è sciocco ed ogni cosa crede”. E Max Weber che considerava chi lo fa un bambino.

Per cui cambiare il parametro o almeno dar più valore ai fatti che alle aspirazioni, ai risultati più che alle intenzioni, significa maturare politicamente da bambino ad adulto. E se tale criterio si consoliderà, farà bene anche al centrosinistra stimolato a conseguire risultati e non a elaborare fantasie.

Perché in politica chi non fa l’interesse della comunità non è che fa del bene. Realizza un altro interesse: quello degli altri.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

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