Un paese in declino, grazie a Confindustria e ai suoi servi di Pasquale Cicalese

Ho visto la prima pagina de IlSole24 ore di ieri. Titolo: allarme competitività, produttività e innovazione giù.

Premetto che a me sta bene tutto, purché sia produzione. Ma mi dite che innovazione possono avere settori portanti dell’industria italiana quali arredo, alimentare, tessile, abbigliamento, calzature ecc?

Sono settori che occupano una parte non indifferente degli occupati industriali. In questi settori puoi fare solo innovazione di processo, non di prodotti, perché i prodotti sono quelli, peraltro richiesti dal mercato mondiale.

E per fare innovazione di processo devi mettere soldi sulla struttura della propria azienda, fare cioè gli investimenti. Che non fanno da 50 anni, basandosi tutto su salari bassi. E dunque diminuendo, tramite consumi inferiori, la domanda interna.

Puoi fare innovazione digitale, di macchinari, ma sul prodotto puoi fare ben poco.

Questi sono settori – a parte la mancata meccanizzazione dell’agricoltura – dove i proprietari hanno immensi patrimoni personali ma basano tutto sull’apporto pubblico, di vari enti, da centrali a periferici, per fare qualche investimento. Poi magari, come successo negli ultimi 40 anni, delocalizzi, ma poi ritorni perché nel frattempo i salari dei paesi dove sei andato sono cresciuti ai livelli nostri.

Ecco, basano tutto su bassi salari. Non abbiamo quasi più industria automobilistica, siderurgica, chimica, qualcosa di elettronica, ma per il resto subfornitura, con l’eccezione della meccanica strumentale.

Mi dite voi quale innovazione ci può essere? Si beano che stiamo arrivando a circa il 50% dei prodotti manifatturieri esportati all’estero, non capendo che è una tragedia, alla fine, perché se gli altri paesi si fermano, come la Germania, tu coli a picco.

Marcello de Cecco lo scrisse negli anni Novanta: le produzioni italiane di questi settori dovevano andare nei paesi emergenti, non da noi, noi dovevamo tenerci l’industria pubblica innovativa e all’avanguardia. Cassandra inascoltata.

Evidentemente presso molti italiani, come vedo, c’è il mito del Made in Italy. Evidentemente bestemmio. Ma mi chiedo: è possibile che i colossi del lusso francese nel 2023 – ripeto: 2023 – scelgano il nostro Paese, magari trasferendosi dall’Asia per la produzione di pelletteria, calzature e abbigliamento?

C’è qualcosa che non va in tutto ciò. Per vari motivi: i guadagni sono tutti delle multinazionali e dei loro proprietari come Arnault. Evidentemente in Toscana, dopo secoli, si sta assistendo alla fine della produzione artigianale di eccellenza per mettere questi lavoratori in complessi industriali, cosa ben analizzata da Marx nell’Ottocento a proposito del tessile.

E’ un bene? Io non credo. Poi, se si spostano dall’Asia in Italia è per i salari, ormai, al netto del costo della vita, i nostri sono più bassi dei loro e in più c’è la vicinanza e le capacità delle maestranze. Poi non lamentiamoci dei bassi salari, perché è questo modello produttivo che li porta.

Se ci fossero più aerospaziale, chimica fine, siderurgia, produzione automobilistica, elettronica, telecomunicazioni, farmaceutica che, a differenza di adesso, non sarebbe contoterzista ma attrice primaria nel mercato mondiale; non avremmo bassi salari, perché sono modelli basati ad alta intensità di ricerca e produttività.

Li abbiamo abituati troppo bene, questi presunti padroni in nome del Made in Italy. Una volta erano produzione di nicchia, ora primeggiano perché per il resto c’è il deserto.

Per quanto riguarda lo stesso turismo, è ad alta intensità di lavoro e bassa produttività, dove a guadagnarci sono pochi e anche questo modello si basa su bassi salari. Anche la Grecia ha il turismo, ma sfido qualcuno ad affermare che industrialmente sia un paese evoluto.

Confindustria, sin dal dopoguerra, voleva la fine dell’industria pubblica perché “concorreva” dando salari dignitosi rispetto ai loro. Ci sono voluti Carli, Ciampi, Draghi, Amato, Prodi e D’Alema per accontentarli.

Ed è stata la nostra fine.

Siamo in declino da decenni, quest’anno forse cresciamo dell’1,2%, ma che ce ne facciamo con un debito pubblico spaventoso, con servizi scadenti, con consumi a picco, con produttività totale dei fattori produttivi a zero da decenni?

E non si fa niente pur avendo una posizione finanziaria netta estera positiva per 105 miliardi, perché dobbiamo obbedire a Usa, Ue e Nato.

Ieri lo avevo scritto in un post, pubblicato da L’antidiplomatico  e da Contropiano. Solo adesso mi accorgo che l’editorialista Paolo Bricco de IlSole24 ore, l’unico che leggo di quel giornale, ha dedicato un pezzo ieri dal titolo “L’Italia non può vivere solo di turismo“.

Traccia un quadro allarmante dell’industria italiana, anche quella della meccanica strumentale, un tempo il nostro vanto, che ora è incapace di intercettare la domanda internazionale, a differenza di prima.

Ieri scrivevo che senza cognizione di causa nell’economia, dai vertici dello Stato ai quadri ministeriali, un Paese non può andare avanti. Ecco, lo scrive lo stesso Bricco in un passo che cito: “Quando si vuol fare qualcosa non si scorge una tecnocrazia pubblica di valore. Senza arrivare ad Alberto Beneduce e a Oscar Sinigaglia o a Fabiano Fabiani e Franco Reviglio“. Gente colta, capace, consapevole.

Oggi ho letto un post che diceva il giusto: “un paese senza acciaio cessa di esistere“. Per quanto riguarda la burocrazia di valore, essa ha a che fare con due fattori storici della Seconda Repubblica: le “riforme Bassanini”, che hanno distrutto la capacità di analisi e di azione del corpo burocratico, mettendo spesso gente poco colta; ma soprattutto la campagna d’odio di Brunetta nel 2009 quando disse che i pubblici erano tutti fannulloni.

Ecco, un paese è forte quando ha una burocrazia pubblica colta, di valore, tutelata, ben retribuita e al servizio del paese e non di cordate partitocratiche o di gruppi di interessi privati, o commistioni da i due campi.

Ecco, hanno distrutto lo Stato. E ne paghiamo tutti le conseguenze.

* Il recente libro dell’Autore: https://www.youcanprint.it/50-anni-di-guerra-al-salario/b/6e8935f1-bf39-5711-8dca-a22f65519444

https://contropiano.org/news/news-economia/2023/06/12/un-paese-in-declino-grazie-a-confindustria-e-ai-suoi-servi-0161372

I soldi per tagliare le tasse e per dare lavoro a tutti ci sono. Se capiamo come funziona la moneta (anche senza uscire dall’euro) di Davide Gionco

Riceviamo e pubblichiamo_Giuseppe Germinario

 

I soldi per tagliare le tasse e per dare lavoro a tutti ci sono.
Se capiamo come funziona la moneta (anche senza uscire dall’euro)

di Davide Gionco
24.10.2021

Cosa fare per rimettere in piedi l’economia italiana? I redditi, al netto dell’inflazione, sono inferiori a quelli del 1990; la disoccupazione è in aumento: la povertà è in aumento; le imprese falliscono; i nostri giovani emigrano; chi resta non si sposa e non fa figli, perché il futuro è troppo incerto.
Chi ci governa ci prende in giro, decantando una strabiliante ripresa del 6,1% nel 2021, dopo che nel 2020 il PIL era sceso del -8,9%.
2020 100 x (1-0,089) = 91,1%
2021 91,1 x (1+0,061) = 96,7%
Significa che in due anni il PIL è sceso di (100-96,7) = -3,3%.
Un disastro in un paese già provato da 20 anni di politiche di austerità.

Cosa fare per rimettere in piedi l’economia italiana?
La risposta è semplice e coincide con la risposta alla domanda: cosa fare per
aumentare la redditività delle imprese, garantendo nello stesso tempo maggiori profitti per il proprietario e migliori retribuzioni per i dipendenti?
1) Abbassare le tasse sugli utili di impresa
2) Abbassare le tasse sui redditi dei lavoratori
3) Mettere più soldi nelle tasche dei clienti, affinché facciano più acquisti
Siccome molte imprese lavorano come fornitori dello stato, dobbiamo aggiungere anche:
4) Aumentare gli investimenti pubblici

L’abbassamento delle tasse sugli utili di impresa lo si può fare riducendo le aliquote. Le imprese avranno più soldi per fare fronte ai nuovi investimenti, oltre che per remunerare l’attività.
Lo stesso dicasi per l’abbassamento delle aliquote di tassazione dei redditi, che consentiranno di aumentare la remunerazione netta dei lavoratori, i quali, a loro volta, avranno più soldi da spendere per le loro necessità, come clienti, il che farà aumentare la produzione delle imprese ed i loro utili. Anche una riduzione dell’IVA sortirebbe l’effetto di ridurre i prezzi di acquisto di beni e servizi e, quindi, di aumentare le vendite, con vantaggio delle imprese e dei loro dipendenti. L’aumento di produzione porterà evidentemente anche a nuove assunzioni.
L’aumento degli investimenti pubblici (manutenzione del territorio, delle strade, degli edifici pubblici, nuove opere, nuovi servizi, ecc.) porterà ad un aumento delle commesse per i fornitori, con nuove assunzioni di personale e maggiore redditività per le imprese.

Fino a qui ci arrivavamo tutti… La domanda che sorge spontanea è: dove trovare i soldi per far quadrare il bilancio di uno stato che taglia le tasse ed aumenta gli investimenti?
Stando alla narrativa dell’informazione “mainstream” non è possibile creare denaro “dal nulla”, motivo per cui nessun governo al mondo si permette di abbassare le tasse e di aumentare gli investimenti per far crescere la propria economia. I più informati sanno che in realtà non è così, perché in paesi che dispongono di una propria banca centrale, come ad esempio gli USA che nel 2020 hanno fatto un deficit di bilancio del 15% sul PIL, totalmente finanziato da nuove emissioni di dollari della Federal Reserve (FED), che hanno appianato le mancate entrate fiscali e gli stimoli per la crescita del governo Trump.
L’informazione “mainstream” continua a supportare gli
inutili tentativi dei vari governi che, da quasi 30 anni, tentano di far ripartire l’economia mantenendo il bilancio in sostanziale equilibrio (se non in attivo). Per contro alcuni economisti di stampo keynesiano, in genere ignorati dai mass-media, richiamano l’importanza per uno stato di disporre di una propria banca centrale in grado di finanziare i deficit di bilancio del governo, necessari per rilanciare l’economia in tempi di crisi. Nel caso dell’Italia, quindi, la soluzione prospettata da questi economisti è l’uscita dall’Eurozona, con il ritorno alla lira e nazionalizzazione della Banca d’Italia.

In realtà la soluzione al problema della crescita economica potrebbe essere, per entrambe le “fazioni”, molto più semplice di quanto immaginiamo.
Per comprendere la soluzione dobbiamo prima di tutto comprendere come funziona una moneta. E’ qualcosa che non si insegna a scuola e, da quanto ho avuto modo di leggere sui testi utilizzati nelle facoltà di economia, neppure agli studenti di economia.

Il funzionamento di una moneta è molto semplice: c’è una centrale di emissione, c’è un meccanismo che ne garantisce la circolazione (per lo scambio di beni e servizi e per il risparmio) e c’è una centrale di ritiro finale, al termine della circolazione.


Funziona cosi per tutte le monete:

Moneta

Centrale di emissione

Meccanismo di circolazione

Centrale di ritiro

Euro

BCE che acquista titoli

scambio beni e servizi

pagamento delle tasse al Tesoro, che rimborsa a BCE i titoli in scadenza

Dollaro

FED che acquista titoli

scambio beni e servizi

pagamento delle tasse al Tesoro, che rimborsa a FED i titoli in scadenza

Sesterzio

Imperatore Augusto conia monete

scambio beni e servizi

pagamento delle tasse all’imperatore

Credito bancario

Banche che fanno credito

scambio beni e servizi

rimborso alle banche del mutuo

Titoli di stato

Tesoro

aste dei titoli, mercato dei titoli

Tesoro paga i titoli in scadenza

Bitcoin

Software crittografico

soprattutto riserva di valuta

convertibilità in dollari/euro

Ticket restaurant

Sodexo li vende a imprese

buono sconto ristorante

Sodexo li converte in euro e paga il ristorante

Fiche del casinò

Casinò

Pagamenti partita di poker

Casinò li converte in euro

Solo una nota tecnica per chi non lo sapesse: oggi i nuovi euro creati dalla BCE vengono messi in circolazione acquistando titoli di stato emessi dal Tesoro. Quando i titoli arrivano alla scadenza, la BCE incassa dal Tesoro il capitale in euro più gli interessi ed emette nuovi per euro per acquistare i nuovi titoli . Lo Stato usa una parte della raccolta fiscale (centrale di ritiro) per pagare gli interessi in euro sui titoli in scadenza, mentre la quota capitale viene finanziata principalmente da nuove emissioni.

La centrale di ritiro garantisce è ciò che garantisce la spendibilità certa di una moneta. Ad esempio in Albania è obbligatorio pagare le tasse in lek, quindi il popolo abanese effettua la maggior parte dei pagamenti in lek, sapendo di poterli certamente spendere per pagare le tasse (centrale di ritiro).
In Italia non è vietato fare pagamenti in dollari. Se un turista straniero ci paga in dollari, li accettiamo solo perché siamo sicuri di poterli convertire in euro, con cui siamo sicuri che potremo pagare le tasse. Se non fossero convertibili, non li accetteremmo.
L’esistenza della centrale di ritiro fa sì che quella moneta assuma valore anche (e soprattutto) per lo scambio di beni e servizi, la cui produzione, se ci pensiamo bene, è il
valore economico reale (valore di utilità), mentre la moneta ha solo un valore giuridico e finanziario.

Ritornando all’obiettivo della sovranità monetaria, nulla vieta allo Stato di costituire una nuova centrale di emissione di moneta e di creare una propria centrale di ritiro, al fine di dare origine ad una nuova moneta.
Ad esempio l’economista Nino Galloni propone di emettere delle stato-note parallele all’euro. I trattati europei vietano ad altri soggetti di emettere euro (che in fatti ha
nno il segno © del copyright), ma non vietano affatto di emettere altre forme di moneta. Se può farlo, ai sensi delle leggi italiane, la Sardex SpA, se lo possono fare con il Bitcoin e con le fiche del casinò, evidentemente anche lo Stato ha il potere giuridico di farlo. Nulla glielo vieta.
A quel punto, basta creare il meccanismo di ritiro, che potrebbe essere la possibilità di pagare le tasse in quella valuta, ed il gioco è fatto.

La mia opinione sulle stato-note è che, pur essendo una soluzione legittima e tecnicamente funzionale, queste potrebbero suscitare sospetti negli italiani, convinti dell’esistenza di una moneta “di serie A”, l’euro, ed di una moneta “di serie B”, le stato-note, per la sola circolazione interna. Per mettere in atto tale soluzione servirebbe una adeguata campagna di informazione a riguardo.

Una soluzione alternativa la potremmo trovare già nella tabella sopra esposta. Fra le varie monete citate abbiamo incluso anche i titoli di stato. Di per sé le teorie economiche odierne già comprendono i titoli di stato nella massa monetaria “M3”, il che significa che i titoli sono una forma di moneta. L’Italia ha ceduto alla BCE la centrale di emissione e di ritiro finale della moneta-euro, ma non ha ceduto ad altri la centrale di emissione e di ritiro dei titoli di stato.
I titoli sono una forma di moneta che ha delle
regole per cui oggi viene utilizzata solo come strumento di risparmio: oggi spendo 1000 euro per acquistare dei titoli, fra 5 anni converto gli stessi titoli in 1025 euro, mantenendo il valore capitale e guadagnando 25 euro di interessi.
Ma se lo Stato decidesse, cambiando le
regole, di iniziare a pagare (in tutto o in parte) i propri fornitori ed i propri dipendenti in titoli di stato (a tasso zero) e se lo Stato accettasse che le tasse vengano pagate (centrale di ritiro) anche in titoli, oltre che in euro, allora in Italia potremmo usare come forma di moneta per lo scambio di beni e servizi direttamente i titoli di stato, senza il bisogno di emettere nuovi titoli da convertire in euro.

Effettivamente ciò che genera il debito pubblico, che ad oggi costituisce un ingombrante fardello per noi italiani, non è l’emissione di titoli in sé, ma è il contratto che lo Stato stipula al momento in cui vende i titoli in cambio di euro, impegnandosi a rimborsare il capitale in euro più gli interessi.
Ma se i titoli vengono usati per pagare beni e servizi ai fornitori ed ai dipendenti dello Stato, il debito è già saldato nel momento dello scambio lavoro/titoli, non c’è alcun impegno a convertirli in euro non si genera alcun debito pubblico.
I lavoratori useranno i titoli per pagare le tasse (centrale di ritiro) e lo Stato, una volta ritiratili, potrà distruggere i titoli al termine della loro circolazione, prima di emetterne di nuovi.

Il vantaggio di questa soluzione è che lo Stato potrebbe emettere sostanzialmente “dal nulla” una maggiore quantità di titoli per coprire il deficit di bilancio, potendo di conseguenza attuare le riforme necessarie per la ripresa economica del paese (riduzione delle tasse, investimenti, ecc.), il tutto senza generare più debito pubblico.

Naturalmente non si può creare ricchezza dal nulla semplicemente stampando banconote o titoli. La ricchezza viene prodotta dai lavoratori che producono beni e servizi. Ma la maggiore disponibilità di denaro in circolazione consentirà, finalmente, di creare nuove opportunità di lavoro per i disoccupati, consentirà di fornire loro una formazione professionale, consentirà di fare investimenti in ricerca, in infrastrutture, rendendo più produttivi i lavoratori ed aumentando la ricchezza di tutti.
Ovviamente l’emissione di titoli dovrà essere commisurata alle necessità economiche del Paese, dato che una emissione eccessiva potrebbe causare dei fenomeni inflazionistici non desiderabili. Non intendiamo affrontare in questa sede la questione dell’inflazione per eccesso di moneta.

In uno scenario del genere l’euro potrebbe continuare a circolare per gli scambi con gli altri paesi europei, per i pagamenti dei turisti stranieri. Lo Stato potrebbe tranquillamente accettare anche gli euro per il pagamento delle tasse, ma non avrebbe bisogno di euro per finanziare le proprie spese sul mercato interno. Gli euro incamerati dallo Stato potranno essere utilizzati per pagare eventuali fornitori stranieri o per regolare il tasso di cambio che, inevitabilmente, si creerà fra i titoli italiani e l’euro.

In conclusione, abbiamo spiegato come gli obiettivi di benessere economico dell’Italia siano certamente perseguibili con una semplice riforma del sistema di emissione, di circolazione (basterebbe una piattaforma elettronica di scambio) e di ritiro dei titoli di stato.
La permanenza nell’attuale situazione di moneta unica fuori dal controllo pubblico non potrà che continuare ad aggravare la situazione di declino e di impoverimento dell’Italia.
La soluzione “tutto-e-subito” di una uscita secca dell’Italia dall’Eurozona, pur se tecnicamente ineccepibile, dovrebbe fare i conti con obiettive difficoltà politiche, sia in Italia, sia a livello europeo.
Una soluzione “pragmatica” di riforma del debito pubblico come sopra illustrato, introdotta con la necessaria gradualità, consentirebbe invece di risolvere rapidamente le disfunzionalità dell’euro-moneta-unica, con vantaggi economici e politici per tutti.

Il debito buono e il debito cattivo, di Davide Gionco

riceviamo e pubblichiamo_Giuseppe Germinario

Il debito buono e il debito cattivo

di Davide Gionco

L’antropologo David Graeber aveva dedicato un intero saggio (Debito. I primi 5000 anni) al ruolo del debito nella storia dell’umanità, dalle prime civiltà mesopotamiche di cui abbiamo notizia fino alla crisi della Lehman Brothers del 2008.
Il debito è il principale motore dell’economia e, probabilmente, anche della storia dell’umanità. Per fare un esempio, ci eravamo già occupati dell’importanza fondamentale dei prestiti delle banche estere nella storia dell’unificazione dell’Italia sotto la corona dei Savoia. Senza i debiti contratti dal Regno di Sardegna verso le banche, non ci sarebbero stati i fondi per finanziare le guerre di indipendenza ed il corso della storia d’Italia sarebbe stato differente da quello che conosciamo.
Senza il debito gran parte delle case in cui abitiamo non sarebbe stata costruita.
Ma è anche vero che senza il debito molti paesi del Terzo Mondo non sarebbero ridotti in povertà e probabilmente non ci sarebbero i flussi migratori dal Sud del mondo verso il Nord del mondo.
Ci sono persone rovinate dai debiti, ma anche persone che sui debiti hanno costruito la loro fortuna.

Quando un debito è “buono” e quando un debito è “cattivo”?

Il debito non è qualche cosa che esiste in natura, è qualche cosa che nasce dalle relazioni umane. Il concetto di debito, evidentemente, precede l’economia. Ogni volta che diamo la nostra parola promettendo qualche cosa, ci indebitiamo verso l’altra persona, nel senso che ci impegniamo a dare a quella persona quanto pattuito: un oggetto che possediamo, un po’ del nostro tempo e del nostro lavoro o il nostro amore eterno.

Il giudizio sulla bontà del debito lo si dà a partire dalle conseguenze sulla vita reale delle persone. Ho fatto bene a promettere amore eterno a quella persona? Che cosa ci ho guadagnato?
Ho fatto bene a farmi prestare del denaro per acquistare quel macchinario o per prendere casa in centro città?

Il debito economico, di per sé, è solo una registrazione contabile astratta, derivante da un contratto economico, l’impegno a restituire una certa somma denaro in cambio di un bene reale ricevuto (acquisto) o di un prestito ricevuto. Sono pezzi di carta, numeri su dei computers.
Se il debito contratto sia cosa buona o cattiva lo si può giudicare solo dalle conseguenze sulla vita reale delle persone. Non è corretto un approccio etico del tipo “mai indebitarsi”, perché senza indebitamento si fermerebbe il mondo.
Non si potrebbe, ad esempio, ordinare un’automobile: io sono debitore di 20 mila euro verso concessionario, ma il concessionario è debitore verso di me di un’automobile.
Non si potrebbe stipulare un contratto di affitto: io sono debitore mensilmente dell’importo dell’affitto, il proprietario è debitore verso di me nel concedere l’uso del suo appartamento per un mese.
Non si potrebbe stipulare un contratto di lavoro: io sono debitore di 21 giorni al mese del mio lavoro verso l’impresa che mi ha assunto, l’impresa è debitrice verso di me dello stipendio mensile.

Si potrebbe discutere dell’opportunità di indebitarsi prendendo del denaro in prestito, ad esempio da una banca. Se prendo in prestito un credito da 150 mila euro per l’acquisto della casa in cui vivo, che comporta l’esborso di una rata mensile di 400 euro ed il mio lavoro mi consente agevolmente di vivere e di pagare le rate del mutuo, il debito contratto è una cosa buona, in quanto mi consente di acquistare una casa in cui vivere, la quale ha un valore reale. In sostanza quel debito è stato lo strumento per barattare la mia capacità lavorativa con la casa che ho acquistato.
Ovviamente se la casa che ho acquistato non è stato un buon affare, nel senso che era in pessimo stato, da ristrutturare, in un quartiere pieno di criminalità e privo di servizi, non si è trattato di un buon affare. In questo caso, però, la colpa non è dello strumento-debito, ma del mio errore di scelta della casa da acquistare.

I problemi legati alla contrazione del debito li si hanno quando il debito risulta non sostenibile, per cui l’impegno di restituzione ci porta a doverci privare di cose vitali. Il debito inizia ad essere un problema se per mettere insieme i 400 euro al mese della rata del mutuo mi trovo obbligato a rinunciare alle spese non essenziali che costituiscono il mio benessere. Ma il debito diventa un vero problema (“cattivo”) quando per rimborsarlo devo privarmi di beni essenziali per la mima esistenza, quali la casa in cui vivere, i vestiti, il cibo e, magari, il debito impagabile mi precipita in una situazione umana che mi fa perdere anche gli affetti più cari.
Nell’antichità la mancata restituzione del debito poteva portare non solo alla perdita di tutti i propri beni, ma anche alla riduzione in schiavitù del debitore, con moglie e figli, fino a che, lavorando, non avessero restituito quanto dovuto. Oggi le conseguenze del non pagamento del debito non arrivato a questi livelli. Il tutto dipende da come la questione viene gestita a livello giuridico.

La questione centrale del debito è dunque la sostenibilità.
Quando il debito non è sostenibile, porta sempre il debitore a cadere in situazioni umanamente inaccettabili: povertà, anche estrema, e forme di schiavitù.
Per quanto riguarda il creditore, in alcuni casi subirà anch’esso delle conseguenze a causa del mancato rimborso, che gli comporterà come minimo delle perdite finanziarie (denaro prestato e non restituito), ma anche conseguenze più gravi se quel denaro prestato doveva a sua volta essere restituito ad altri. In questi casi l’insolvenza del debitore si propaga coinvolgendo la catena dei creditori.

Ci sono anche casi nei quali il creditore non teme il mancato rimborso, vuoi perché dispone di ampie riserve di ricchezza, vuoi perché dispone del diritto giuridico di creare dal nulla, a certe condizioni, il denaro che presta ai debitori.
Un caso classico è quello degli usurai, degli strozzini, i quali dispongono di molto denaro, che prestano ai debitori a condizioni particolarmente vantaggiose per il creditore e svantaggiose per il debitore, il quale non dispone di sufficiente potere contrattuale per esigere delle condizioni più accettabili.
Una persona che abbia assoluto bisogno di denaro per sopravvivere sarà sempre disposta ad accettare delle condizioni capestro ed anche a rivolgersi a prestatori che operano al di fuori dal quadro giuridico ovvero dalle tutele che la legge riconosce ai debitori nei confronti dei creditori. Sono situazioni in cui chi dispone del denaro da prestare ha il potere contrattuale di imporre condizioni legalmente e umanamente non accettabili. Ad esempio la condizione per cui se il debito non viene ripagato sono previsti danni fisici al debitore ed ai suoi famigliari.
Una situazione simile la si ha anche quando i prestatori sono le banche che operano (almeno dovrebbero farlo) dentro il quadro giuridico vigente. Se il debitore è un piccolo artigiano che ha bisogno di credito per pagare le troppe tasse impostegli dal Fisco, è molto probabile che anche la banca approfitti della situazione per quanto le è possibile, dato che quel debitore ha un basso potere contrattuale.
Se, invece, colui che chiede credito è una grande azienda di livello nazionale o internazionale, di cui magari la banca dispone della proprietà di quote ingenti del pacchetto azionario, state certi che le condizioni del credito saranno molto più agevolate, in quanto il debitore ha un forte potere contrattuale.

Da che mondo è mondo, i piccoli debiti sono sempre stati rimborsati o hanno a portato a situazioni di sfruttamento, mentre i grandi debiti sono sempre stati rinegoziati, rifinanziati, eventualmente scaricati su soggetti più deboli (piccoli risparmiatori, si pensi al caso dei Tango Bonds) o eventualmente scaricati nel calderone del debito pubblico (si pensi al caso del Monte dei Paschi di Siena).

Quando un debito a carico di soggetti deboli, a basso potere contrattuale, risulta impagabile ed il soggetto creditore non ha la necessità di essere rimborsato (perché non ha bisogno di denaro), il creditore userà il proprio potere contrattuale per trarre altri vantaggi economici, tentando di trasformare una momentanea situazione di insolvenza in una permanente e perpetua situazione di potere sul debitore, imponendo su di esso delle condizioni per il rinnovo del debito. Il debitore non avrà scelta, non essendo in grado di rimborsare il debito contratto
Il caso tipico è quello di molti paesi de Terzo Mondo, i quali hanno nei decenni passati ricevuto prestiti da parte del Fondo Monetario Internazionale, della Banca Mondiale o da parte di gestori di grandi fondi di investimento internazionali. Quando il debito arrivato in scadenza non può essere rimborsato, i creditori lo rinnovano alle seguenti condizioni:
1) Che alla prossima scadenza il debito sia certamente non ripagabile, obiettivo che viene raggiunto imponendo tassi di interesse sufficientemente alti.
2) Che il debitore metta in atto delle azioni che consentiranno ai creditori di trarre altri tipi di profitti, azioni del tipo: privatizzazioni di servizi pubblici e concessioni esclusive su risorse naturali (minerarie, agricole, turistiche, ecc.)
In questo mondo il rapporto creditore-debitore cessa di essere un rapporto di cooperazione economica (caso del debito “buono” in cui il prestito porta sviluppo) e diventa un meccanismo di sfruttamento perenne da parte dei (pochi) creditori nei confronti dei (molti) debitori.

Il problema è noto fin dagli albori delle società umane. Se ne era già occupato intorno al 1’700 a.C. il re sumero di Lagash con la legge AMA-GI che affrancava tutti i debitori dai creditori, restituendo loro la libertà. Se ne erano già occupati gli antichi Israeliti, le cui leggi prevedevano ogni 50 anni il Giubileo ovvero la cancellazione di tutti i debiti. Se ne era occupato, nell’antica Repubblica di Roma, anche il tribuno della plebe Licinio Sextio, quando il meccanismo dei debiti era quello che consentiva ai ricchi patrizi di imporre costantemente i loro interessi sopra quelli dei poveri plebei.
Sarebbe bene che anche oggi ci si occupasse della questione in modo umano e intelligente, ricordandosi che il denaro prestato non è un valore in sé, mentre un valore in sé è la vita delle persone. La cancellazione dei debiti, a determinate condizioni, è una soluzione da prendere in considerazione, se questi sono diventati un meccanismo di sfruttamento di pochi nei confronti di molti, sapendo che quei pochi non hanno affatto bisogno di quel denaro per vivere.
Non stiamo parlando di “giustizia sociale”, ma stiamo parlando di umanità nei rapporti sociali, nei quali lo sfruttamento non deve mai essere consentito, neppure se il creditore ha delle ragioni giuridiche, in quanto il diritto alla vita delle persone è più importante (anche economicamente parlando) dei diritti dei creditori nei confronti dei debitori.

Abbiamo accennato sopra ai creditori che hanno il potere, a certe condizioni, di creare da nulla il denaro che prestano. Questo è il caso delle banche commerciali che, oggi, possono creare il denaro che prestano a fronte di certe garanzie presentate alla banca centrale e, naturalmente, a fronte di certe garanzie che il denaro prestato venga restituito. Se il denaro creato viene restituito, scompare dal bilancio, lasciando al prestatore solo gli utili, che sono gli interessi. Si tratta di un meccanismo simile a quello rappresentato dal comico Erminio Macario in un suo famoso sketch.
La cosa importante è che la restituzione del prestito sia garantita. O, se non è garantita in modo totale, che l’imposizione delle successive condizioni di rinnovo del debito (ad esempio lo sfruttamento a proprio vantaggio di risorse minerarie) consentano al prestatore di far rientrare i capitali prestati insieme a degli utili.

Questo meccanismo del debito perenne sta alla base delle maggiori forme di sfruttamento oggi esistenti nel Pianeta, sia nei confronti della fasce povere della popolazione (i ricchi sfruttano i poveri, dai tempi del re di Lagash ad oggi), sia nei confronti delle nazioni povere del mondo.

In questo articolo non ci siamo occupati delle questione relative al debito pubblico, ne parleremo in un prossimo articolo.

RANE BOLLITE, di Pierluigi Fagan

RANE BOLLITE. “Renault rischia di scomparire” detto da un ministro dell’economia francese qui da noi fa un effetto diverso da quello che fa in Francia. in Francia, Renault è qualcosa di più che non una industria di automobili. Purtroppo, la condizione esistenziale ha effetto sul come pensiamo. Nella fase 1 il tono storico-drammatico degli eventi era ben presente. era tutto un trionfo auto-coscienziale di “nulla sarà più come prima”, “bisognerà ripensare tutto” ed altri severi proclami di realismo preoccupato. Nella fase 2 vedo che molti stanno tornando ad occuparsi (cito un amico) del “mettere a posto sedie e tavolini sulla tolda del Titanic”, nel mentre siamo attratti dal fenomeno apericena meneghino e del “cosa farò questa estate?”

9000 esuberi Rolls Royce perché “non si fanno più aerei”, fallimento di Hertz (fondata a Chicago nel 1923) in America con 30 milioni di disoccupati negli Stati Uniti a fine aprile, 50.000 imprese per 300.000 posti di lavoro secondo il Fipe-confcommercio qui da noi rischiano di andare gambe all’aria. E siamo solo all’inizio. Di cosa però non mi sembra si stia capendo. Potete avere una laurea, un master ed anche un dottorato in economia, ma a meno non vi sia venuto il ghiribizzo di studiare per conto vostro la nozione di “sistema economico” di Wassily Leontief (Nobel ’73), sarete un inutile Marattin qualsiasi.

L’importante è che ognuno di questi “eventi” venga percepito l’uno scollegato dall’altro di modo che l’effetto “rana bollita” sia garantito.Quando la temperatura sarà insostenibile, sarà tardi.

Cont(e)i che non tornano, di Giuseppe Masala

Continua la marcia trionfale della nostra Bilancia Commerciale.

Ieri l’Istat ha divulgato i dati sulla nostra bilancia commerciale aggiornata al mese di Ottobre 2019. Possiamo dire senza tema di essere smentiti che siamo di fronte ad una vera e propria marcia trionfale delle nostre aziende esportatrici che evidentemente sono aggressive e assolutamente competitive a livello mondiale. A livello congiunturale (ovvero raffrontando il dato su quello del mese precedente) le esportazioni sono aumentate dello 0,7% sui mercati UE e del 6,1% sui mercati extra UE. Su base annua e dunque a livello tendenziale l’aumento dell’export è pari al 4,3% trainata dal fortissimo exploit sui mercati extra UE (+ 8,3%). Dal punto di vista delle importazioni invece si rileva una diminuzione del 2,3% a livello congiunturale e del 5,8% su base annua (dato tendenziale). Il contemporaneo aumento delle esportazioni e della diminuzione delle importazioni (dovuto ovviamente a politiche economiche improntate all’austerità e alla conseguente compressione dei consumi interni) comporta un saldo della bilancia commerciale a livello congiunturale pari a + 8,057 miliardi di euro e nei primi dieci mesi dell’anno pari ad un surplus mostruoso di ben 43,038 miliardi di euro.

Non è azzardato dire che siamo una nazione che vive al di sotto (e di molto) delle sue possibilità che ormai accumula surplus di bilancia commerciale “alla tedesca”. Dunque conseguentemente siamo una nazione che risparmia molto e che consuma molto al di sotto a ciò che i conti e i rapporti con l’estero le permetterebbero. Attendiamo a questo punto l’aggregazione con le altre poste dei conti con l’estero (redditi primari, secondari, ecc. ) per vedere il saldo delle partite correnti. Ma, appare evidente che continuiamo a marciare a tappe forzate verso ulteriori record di surplus di partite correnti e verso il pareggio del Niip (Net international investment position; posizione finanziaria netta).

Inutile ricordare che un sistema-paese con posizione finanziaria netta in pareggio e con forte surplus di Bilancia Commerciale e di Saldo delle Partite Correnti è un paese solvibile ed inaffondabile e che il focus truffaldino sul livello del debito pubblico è assolutamente fuorviante perchè non tiene conto che avendo un Niip positivo significa che esso è debito detenuto da cittadini o comunque facilmente riacquistabile con risorse interne: dunque ciò significa che è un debito nei confronti di noi stessi. Ma i soloni dell’UE fanno finta di non vedere e non capire questa correlazione per motivi ideologici (“affamare la bestia”) e per costringere il paese ad ulteriori dosi di chemioausterità inutile ed insensata con il risultato di frenare lo sviluppo interno di un concorrente e con il malcelato intento di costringere i redditi figli del surplus a finanziare paesi evidentemente “figli di un Dio Maggiore” (ogni riferimento a Francia, Germania e Olanda non è casuale). E così assistiamo al paradosso di rappresentanti di paesi con i conti con l’estero completamente sfasciati – e dunque dipendenti dai capitali esteri – che fanno la morale a paesi come l’Italia in perfetto equilibrio dei conti (ogni riferimento a Dombrovskis è assolutamente voluto). Così va la vita nell’Universo Orwelliano europeo.

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tratto da facebook

UN COLPO DIETRO L’ALTRO; LA NON TANTO LENTA AGONIA DEL GIGANTE DI ARGILLA, di Gianfranco Campa

 

UN COLPO DIETRO L’ALTRO; LA NON TANTO LENTA AGONIA DEL GIGANTE DI ARGILLA

 

Le prime avvisaglie si erano viste alla fine dello scorso anno quando a Dicembre la Bayer aveva annunciato il taglio di 12.000 posti di lavoro sparsi per il mondo. Successivamente, lo scorso aprile, l’annuncio da parte del gigante farmaceutico e agricolo che di questi 12.000 posti di lavoro, circa 4.500 sarebbero toccati alla Germania. La nazione teutonica dovrebbe quindi sostenere l’urto maggiore dei tagli previsti dall’azienda. Praticamente un terzo dei tagli colpisce i lavoratori in Germania, una decisione dettata dalla necessità di rafforzare le finanze della Bayer dopo il fiasco Monsanto. Superfluo dire che a nulla sono servite le proteste dei lavoratori tedeschi, proteste direi più che giustificate sia dalla quantità sia dalle modalità dei tagli annunciati. Le perdite di posti di lavoro interesseranno le filiali Bayer di Berlino, Wuppertal e Monheim.

Il caso dei tagli della Bayer sembrava inizialmente isolato e forse anche in un certo senso necessario,  giustificati direi, visto l’ingente somma di denaro che Bayer prevede di dover pagare per far fronte alle oltre 13.000 cause legali contro Monsanto attualmente in corso presso le corti di giustizia statunitensi. Nell’agosto 2018, una giuria, in California, ha ordinato a Monsanto di risarcire un ex-giardiniere, malato di linfoma, per 289 milioni di dollari di danni. Il tumore sarebbe stato causato dall’uso dell’erbicida Roundup che contiene una sostanza chimica chiamata glifosato. La Monsanto sostiene che il glifosato, se usato in modo appropriato, non è una sostanza nociva. Il 13 maggio 2019 un’altra giuria californiana ha ordinato a Monsanto di pagare 80 milioni di dollari di danni a una coppia che sostiene di essersi ammalata di cancro usando Roundup. Se tanto mi da tanto, visto i sostanziosi pagamenti punitivi fino ad ora sentenziati contro Monsanto, le 13,000 vertenze verranno a costare alla Bayer più 10 miliardi di dollari in risarcimenti alle vittime di Roundup.  La Bayer ha acquistato la Monsanto per 63 miliardi di dollari, dovrà investire, nel prossimo decennio,  almeno altri 6 miliardi per la ricerca e lo sviluppo in sostanze non pericolose, alternative al glifosato. Ricapitolando; 63 miliardi per l’acquisto di Monsanto, piu 6 miliardi per investimenti nella ricerca, più 10 miliardi di danni da pagare per le cause civili e si può facilmente dedurre come la Bayer si sia cacciata, con l’acquisto di Monsanto, in un tunnel oscuro.

Se i problemi della Bayer non bastassero, per la Germania gli ultimi due mesi sono stati da apocalisse. Al colosso chimico si aggiunge la casa automobilistica Ford che ha reso ufficialmente noto l’intenzione di tagliare complessivamente 12.000 posti di lavoro in Europa, dei quali quasi la metà, 5.400, solo in Germania. Un colpo durissimo per il paese teutonico che subisce il peggio dei tagli, visto che la Ford costruisce gran parte delle proprie vetture destinate al mercato Europeo in Germania, dove impiega un totale di 24.000 persone. Solo nella sede Ford di Colonia, lavorano circa 18.000 persone. La  Ford impiega un totale di circa 51.000 persone e gestisce 24 stabilimenti in tutta Europa. Chiusure di fabbriche sono previste anche in Galles, Russia, Francia e Slovacchia .

L’annuncio della Ford rientra nel programma di ristrutturazione e riorganizzazione che la casa automobilistica americana ha intrapreso. Probabilmente si tratta del primo concreto passo verso la smobilitazione e la vendita degli assetti societari in Germania e in Europa. A conferma Ferdinand Dudenhöffer, esperto del settore automobilistico, accademico dell’Università di Duisburg-Essen, ha dichiarato che: “Questo potrebbe essere il primo passo verso una vendita completa o parziale” del business automobilistico Ford in Europa.

Alla Bayer e alla Ford si aggiunge il gigante bancario Deutsche Bank il quale secondo il quotidiano Frankfurter Allgemeine Zeitung sta contemplando il taglio di più di un quinto della sua forza lavoro. I tagli fanno parte del programma di ristrutturazione della banca tedesca. Si parla di eliminare oltre 20.000 posti di lavoro su un totale di 91.500 dipendenti. Il futuro della Deutsche Bank è irto di ostacoli; se ne saprà di piu quando la banca presenterà i risultati operativi del secondo trimestre, il 24 luglio.

Con la Bayer, la Ford e la Deutsche Bank non finisce qui: La compagnia chimica tedesca BASF ha annunciato che taglierà 6.000 posti di lavoro su 122.000 dipendenti sparsi per il mondo.Il problema è che di questi 6000 posti, la metà, quindi 3000, saranno soppressi in Germania. La maggior parte presso la sua sede centrale a Ludwigshafen sul Reno, nella Germania occidentale. I dirigenti di BASF mirano a “migliorare il sistema organizzativo per operare in modo più efficace ed efficiente“, ha detto l’amministratore delegato Martin Brudermüller.

Alla Bayer, Ford, Deutsche Bank, BASF; si aggiungono altre: La multinazionale Siemens ha annunciato che taglierà 2.700 posti di lavoro a livello mondiale di cui la maggior parte, 1.400 posti, concentrati  in Germania. La maggior parte di questi posti saranno eliminati nelle sedi di Berlino e di Erlangen, in Baviera.

Potrei continuare all’infinito con queste fosche notizie per la Germania. Notizie che si accavallano di giorno in giorno, una dietro l’altra, mostrando preoccupanti crepe nel corpaccione del gigante di argilla. Un crescendo che negli ultimi due mesi ha visto un’accelerazione vertiginosa.  Ci sono, per esempio, altre industrie importanti come la Goodyear e la Nokia che hanno annunciato, all’inizio del 2019, una riduzione di 1.100 posti di lavoro in Germania rispettivamente per la Goodyear e 1.330 posti di lavoro per la Nokia.

Secondo gli economisti, confortati dai dati elaborati dall’Ufficio federale di statistica del Paese, l’economia della Germania ha evitato per miracolo di scivolare  in recessione durante gli ultimi tre mesi dello scorso anno, il 2018. La potenza economica più grande d’Europa ha registrato una crescita uguale a zero durante il quarto trimestre del 2018.  Questi problemi, legati al ridimensionamento e alla ristrutturazione dei processi produttivi, sono aggravati dalla situazione geopolitica.  La guerra commerciale di Trump con la Cina complica non poco la fluidità delle esportazioni tedesche, che si affidano principalmente alle due maggiori economie mondiali per i loro mantenimento e crescita.

Le case automobilistiche tedesche pendono inoltre sotto la costante minaccia del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, di imporre tariffe e dazi alle auto provenienti dall’Unione Europea. Trump si potrebbe svegliare una mattina e avendo dormito storto la notte precedente potrebbe imporre dazi dannosi ai prodotti europei, soprattutto tedeschi.

L’associazione di ingegneria VDMA (Verband Deutscher Maschinen- und Anlagenbau – VDMA), con sede a Francoforte, ha dichiarato che le tariffe di ritorsione sui beni importati imposti dagli Stati Uniti e dalla Cina contribuirebbero a un calo della produzione del 2% solo per il 2019. Tutto ciò senza tener conto nei prossimi mesi dell’impatto negativo che i tagli a migliaia di posti di lavoro potrebbero avere sull’andamento dell’economia della Germania. Ricordiamoci che non si parla soltanto dei posti di lavoro persi direttamente nelle industrie specifiche; ad essi dobbiamo aggiungere la perdita di posti indiretti nel settore dell’indotto, coinvolto in un giro di affari con le industrie madri alle prese con i tagli alla loro forza lavoro. Un indotto che possiede importanti propaggini in Europa Orientale e in Italia. I prossimi mesi ci diranno se la Germania sopravviverà all’apocalisse, oppure se morirà e di che tipo di morte narreranno le cronache; quanti paesi europei, purtroppo, trascinerà con sè, nel proprio destino.  Germania, un gigante in Europa, scopertosi all’improvviso dai piedi d’argilla di fronte a giochi geopolitici mondiali più grandi di lei. Il bullo lo puoi fare in Europa, al cospetto della Cina e degli Stati Uniti puoi solo osservare e sperare…

 

 

https://www.reuters.com/article/germany-economy/germanys-export-dependent-industry-feels-pain-of-trade-conflicts-idUSL8N2432YX

 

https://www.destatis.de/EN/Press/2019/02/PE19_050_811.html;jsessionid=2DA9660940D2D85A1E568DE5B0D14546.InternetLive2

 

https://www.autonews.com/automakers-suppliers/ford-targets-5000-job-cuts-germany

 

https://www.bloomberg.com/news/articles/2019-04-08/bayer-job-cuts-are-said-to-include-4-500-positions-in-germanyhttps://www.bloomberg.com/news/articles/2019-04-08/bayer-job-cuts-are-said-to-include-4-500-positions-in-germany

 

https://www.dw.com/en/german-chemical-firm-basf-to-cut-6000-jobs/a-49378811

 

https://www.dw.com/en/germanys-siemens-to-cut-2700-jobs/a-49253017

 

https://www.marketwatch.com/story/goodyear-to-cut-1100-jobs-in-germany-as-it-cuts-tire-production-modernizes-plants-2019-03-19