RIPRISTINO DELLA LEVA, del Generale Marco Bertolini

Proseguiamo con il dibattito innescato da Antonio de Martini, sulla base delle dichiarazioni del Ministro Salvini_Giuseppe Germinario

fonte: http://www.congedatifolgore.com/it/ripristino-della-leva-la-opinione-del-generale-bertolini-si-per-collaborare-con-i-professionisti/

RIPRISTINO DELLA LEVA: LA OPINIONE DEL GENERALE BERTOLINI . SI PER COLLABORARE CON I PROFESSIONISTI

cortesia FORMICHE.NET

 

È necessario cogliere l’opportunità assicurata dalla proposta del ministro dell’Interno, comunque la si voglia considerare, per mettere a fuoco i problemi delle Forze Armate, che sono molto seri e che rischiano di intaccarne funzionalità e ragion d’essere
La proposta del ministro dell’Interno circa un parziale ritorno al servizio militare di leva, la vecchia coscrizione obbligatoria, da affiancare come complemento all’ormai imprescindibile e preponderante componente professionale delle Forze Armate, si è attirata il facile e scontato sarcasmo delle opposizioni. Dal canto suo, il ministro della Difesa l’ha considerata una proposta “romantica” ed inattuabile, definendo non più necessarie Forze Armate cospicue come quelle di un tempo.

Se il dibattito si esaurisse qui, si tratterebbe di un’occasione persa, perché una seria riflessione sull’argomento sarebbe opportuna, a tre lustri da quando gli ultimi soldati di leva lasciarono le nostre caserme in balia delle erbacce infestanti, per valutare pregi e difetti di una trasformazione che ha inciso profondamente sulle nostre Forze Armate e sulla percezione delle stesse da parte dell’opinione pubblica. Tale riflessione potrebbe anche essere intesa come un omaggio ai dimenticati protagonisti della vittoria nella Prima Guerra Mondiale di cent’anni fa esatti, quando i 5 milioni di coscritti che la giovanissima Italia scagliò contro le armate austro-ungariche completarono a un prezzo elevatissimo la nostra unificazione nazionale, creando l’Italia indipendente che è giunta fino ai nostri giorni, pur con non pochi acciacchi. Ma, come si sente, non sono questi i temi capaci di commuovere chi pare al contrario affannosamente preso soprattutto dal desiderio di sbarazzarsi dei fastidi e delle responsabilità che questa indipendenza comporta. Peccato.

Volendo fare una superficiale istantanea della situazione di oggi, gettando una rapida luce sui suoi pregi e difetti, non c’è dubbio che ora disponiamo di unità molto efficienti, grazie a militari di truppa in ferma prolungata o addirittura in servizio permanente capaci di utilizzare sistemi d’arma e di comando e controllo molto più sofisticati di quelli di un tempo. Molti si muovono con disinvoltura nelle difficili procedure operative della Nato, utilizzando con padronanza la lingua inglese e gli acronimi in uso nell’Alleanza che fanno impazzire i rappresentanti dei media.

Peraltro, la consistenza delle unità è drasticamente diminuita e le stesse sono state ridotte drammaticamente di numero. In sostanza, la più cospicua tra le Forze Armate, l‘Esercito, verrà in pochi anni ad assommare poco meno di 90.000 soldati ed analoghi tagli riguarderanno Marina ed Aeronautica; solo i Carabinieri aumenteranno di numero, superando i 120.000 uomini, forti dell’attenzione non disinteressata di cui le Forze dell’Ordine hanno sempre goduto in Italia.

Una cosa è, inoltre, certa: con la fine della leva non esistono più riserve nella società civile, richiamabili per rinforzare le unità operative in vita in caso di necessità; non è certamente utile a tal fine la cosiddetta “riserva selezionata”, idonea tutt’al più per rendere disponibile qualche laureato in giornalismo o scienze politiche per rinforzare temporaneamente qualche Comando in operazioni all’estero. Poca roba, insomma.

Inoltre, un aspetto non trascurabile è rappresentato dal progressivo invecchiamento del personale di truppa in servizio permanente, che crea situazioni inaccettabili soprattutto nell’Esercito, dove l’energia fisica dei soldati continua a rappresentare la risorsa principale a cui attingere.

Quanto all’hardware, forse con la scusa che le nuove Forze Armate non hanno più bisogno dei ritmi addestrativi del passato quando le classi alla leva si alternavano a ritmo mensile, tesi paradossale e assolutamente falsa, si sono ridotte all’osso le aree addestrative e vi sono stati imposti vincoli di utilizzazione che con la leva non sarebbero mai stati accettati; nei magazzini, si sono affievolite le scorte di materiali e mezzi mentre il patrimonio infrastrutturale è in larga misura abbandonato senza manutenzione. Solo la Marina continua a godere di una certa attenzione grazie agli interessi della cantieristica nazionale impegnata nel rinnovo della flotta, mentre i parcheggi dell’Esercito sono pieni di carri e di mezzi inefficienti per scarsa manutenzione.

Ma come si è verificata tale situazione? Innanzitutto c’è da osservare che la fine della leva non è stata improvvisa ma, al contrario, è stata perseguita con un processo durato decenni, conclusosi con uno dei pochi provvedimenti bi o tri-partisan della nostra politica, unanimemente concorde nello sbarazzarsi di quello che riteneva, a mio avviso affrettatamente, un anacronismo. Sotto quest’aspetto, si agitavano considerazioni di carattere politico, ma anche questioni di carattere tecnico-operativo da parte degli addetti ai lavori.

Non è mia intenzione affrontare nel dettaglio quest’aspetto, ma è indubbio che mentre i partiti di destra speravano in una professionalizzazione delle Forze Armate che irrobustisse un’istituzione sostanzialmente percepita quale “conservatrice”, quelli di sinistra puntavano al contrario ad una riduzione quantitativa delle stesse, da decenni considerate impermeabili a quella sindacalizzazione che già erano riusciti ad imporre alla Polizia di Stato, smilitarizzata negli anni ’70; è triste ed allarmante constatare che questo tema sta tornando alla ribalta. Quanto al centro, vedeva confermata nell’abolizione della leva l’escatologia laica di cui si sentiva portatore e che avrebbe dovuto condurre a una fine della storia preconizzata dai teorici della democrazia quale destino obbligatorio per tutti; per la soddisfazione, soprattutto, di quel cattolicesimo post-conciliare che era a disagio con le liturgie civili della marzialità esibita, indispensabili per chi deve saper esercitare la violenza legittima delle armi per affermare la libertà e l’indipendenza della nazione.

Da parte loro, gli Stati Maggiori risentivano in parte di queste pulsioni extra-militari, ma erano soprattutto concentrati sulla necessità di adeguarsi agli impegni nelle operazioni che eufemisticamente dovevano sempre essere definite “di pace”. In essi, si pensava che il ricorso classico alla massa, al fuoco e alla manovra sarebbe stato sostituito in larga misura dalla tecnologia, da parte di pochi “professionisti” capaci di ottenere risultati un tempo impensabili anche per grandi masse di coscritti; e senza sporcarsi troppo le mani. Insomma, l’illusione che la storia fosse effettivamente finita giustificava, per questi, la totale rivisitazione di uno strumento che era passato indenne attraverso secoli di evoluzione, inalterato nei suoi principi costitutivi.

Si è trattato di un processo che ha interessato tutti i principali strumenti militari dei Paesi occidentali che però hanno posto molta più attenzione del nostro a non buttare il bambino con l’acqua sporca. In questo contesto, quest’ultima era indubbiamente rappresentata dalle ingenti spese connesse con Forze Armate cospicue e concepite sostanzialmente quali consumatori di preziose risorse, unicamente al fine di fare danni se necessario a chi ormai nell’ambito della Comunità Internazionale non era più politicamente corretto considerare avversario o, peggio, nemico. Per contro, il bambino era rappresentato dalla disponibilità di ingenti masse di giovani che, tornati alle loro case, avevano comunque una buona infarinatura militare che gli consentiva di essere riutilizzati, o “richiamati”, se interessi vitali del Paese lo avessero richiesto. Insomma, in una specie di appello al “tutti a casa” ci si rassegnò a tagli drastici alle nostre unità, ridotte nel numero e nella loro consistenza e, per di più, private di “riserve” nella società civile.

Ma il pupo era anche di un’altra natura, e qui si innesta il condivisibile auspicio del ministro dell’Interno relativo ad un ripensamento del nostro modello di Difesa che ci faccia, almeno in minima parte, tornare all’antico. Le Forze Armate, infatti, dall’affermazione dello Stato italiano unitario hanno anche svolto un ruolo educativo nei confronti della gioventù del quale indubbiamente si sente la mancanza ai nostri giorni. Nelle caserme, i soldati venivano abituati a una percezione di se stessi quali titolari di doveri nei confronti della comunità nazionale ai quali né le nostre famiglie né, a maggior ragione, la scuola post-’68 li sanno più preparare. Da qui, l’esplosione della cultura dei diritti individuali, in opposizione ai doveri, che non cedono il passo all’interesse generale neppure se si tratta dei più assurdi e, spesso, aberranti.

In fin dei conti, la difficoltà che ogni governo nazionale si trova sistematicamente ad affrontare, di qualsiasi orientamento politico si tratti, è quella di pretendere condivisione su obiettivi vitali comuni, in uno scenario internazionale sempre più complesso, nel quale è la logica della competizione tra Stati che è tornata a farsi largo, anche sulle sponde del nostro democraticissimo e tollerantissimo continente europeo. Non può non amareggiare la constatazione che addirittura l’indipendenza nazionale – un tempo unica base comune e condivisa che faceva fremere all’unisono Peppone e Don Camillo alle note del “Piave” – sia diventata terreno di scontro e motivo di divisione. Ovvio che chi ad essa fosse tenuto a giurare fedeltà, come i najoni di un tempo, sarebbe nei suoi confronti più sensibile, se non altro per una nostalgica reminiscenza dei propri vent’anni in uniforme.

Da quanto sopra, risulta abbastanza evidente che il problema riguarda soprattutto l’Esercito, quella che dovrebbe continuare ad essere la Forza Armata di massa e di riferimento e che, al contrario, sta attraversando una crisi profonda. È una crisi sottesa da molti malintesi, primo fra tutti quello secondo il quale il soldato classico del passato non troverebbe più alcuna giustificazione in un mondo nel quale esistono mezzi tecnologici capaci di sostituirsi all’impegno fisico del combattente.

logico per il quale le Forze Armate quali strumenti operativi destinati alla funzione bellica non sarebbero più proponibili. Da qui, lo sforzo per rassicurare la parte meno favorevole dell’opinione pubblica definendole dual-use, mediante un uso dell’inglese, come spesso sperimentato anche in altri settori, che fa sempre un certo effetto, conferendo dignità di verità assoluta anche ad affermazioni opinabili.

Ma si tratta, appunto, di un malinteso, in quanto la tecnologia che incide in misura preponderante nelle operazioni della Marina e dell’Aeronautica, non è che una sfaccettatura, seppur importante, delle operazioni terrestri che si basano ancora sulla disponibilità di unità cospicue e formate da soldati preparati e forti fisicamente. Ed è quello che abbiamo anche noi stessi toccato con mano in Afghanistan, dove la limitata disponibilità di unità di fanteria ha spesso causato grandi difficoltà a esercitare il controllo di molte delle delicate aree poste sotto la nostra responsabilità. Immaginiamo quindi cosa succederebbe se si rendesse necessario un impiego in uno degli scenari più turbolenti tra quelli nel nostro intorno immediato.

Gioca, inoltre, un ruolo non indifferente in questo quadro una specie di condizionamento ideologico per il quale le Forze Armate quali strumenti operativi destinati alla funzione bellica non sarebbero più proponibili. Da qui, lo sforzo per rassicurare la parte meno favorevole dell’opinione pubblica definendole dual-use, mediante un uso dell’inglese, come spesso sperimentato anche in altri settori, che fa sempre un certo effetto, conferendo dignità di verità assoluta anche ad affermazioni opinabili.

 

Nel caso specifico, in particolare, si vorrebbe con esso far passare l’idea che i nostri soldati di professione, che in operazioni utilizziamo in contesti difficili per i quali è necessario un addestramento continuo in patria, una volta non impegnati nelle loro mansioni elettive possono benissimo sostituirsi alle Forze dell’Ordine per “piantonare” qualche stazione della metropolitana o per ripulire qualche strada delle nostre città al posto degli addetti dell’Agenzia dei rifiuti. Sembrerebbe, in effetti, una soluzione razionale se non comportasse la rinuncia a quello che è il compito fondamentale al quale i soldati di tutto il mondo si devono applicare in guarnigione: l’addestramento, ridotto così ad una funzione da riservare ai “ritagli di tempo”.

Per tornare al punto, ritengo che una seppur limitata disponibilità di militari di leva – anche ridotta a sei mesi per un numero minimo di reggimenti di fanteria – potrebbe essere utilmente impiegata in tali ruoli, per i quali la preparazione dei “professionisti” delle nostre unità operative è eccessiva (sanno fare molto di più di quanto viene loro chiesto, infatti). In questo modo, si potrebbe contemperare l’esigenza di supportare le nostre Forze di Polizia o la Protezione Civile in patria con personale di medio livello addestrativo, ma comunque adeguato a quello che viene loro richiesto, lasciando a quelle più operative la possibilità di prepararsi per gli impegni più significativi.

Ed è qui che casca l’asino, purtroppo. Infatti, è difficile sperare che da un “contratto di governo” nel quale alla funzione Difesa sono state riservate poche righe di affermazioni generiche – in assoluta continuità col disinteresse per le Forze Armate, e soprattutto per l’Esercito, dei governi del passato – possa derivare un’attenzione per tematiche così lontane dai problemi che agitano il dibattito politico interno. Queste, al contrario, richiederebbero una conoscenza approfondita dello strumento militare da parte della classe politica che invece si conferma ancora di nicchia, per “amatori”. Pare quindi difficile sperare in un’attenzione per le Forze Armate che, ad esempio, non le faccia sistematicamente confondere con le Forze dell’Ordine, certamente molto importanti ma decisamente meno esigenti in termini di risorse e profondamente diverse per compiti e costituzione; o che faccia mettere a fuoco le esigenze della componente corazzata e di artiglieria terrestre, ridotta in condizioni assolutamente inaccettabili per un paese esposto come l’Italia in un teatro nel quale si cumulano tensioni crescenti e dove si concentrano le attenzioni dei principali attori internazionali.

Un’ultima considerazione forse di qualche rilevanza: in questa discussione sul servizio di leva, spesso si dimentica che l’ultimo governo ha istituito una specie di coscrizione con il “servizio civile”, di qualunque cosa si tratti, proponendo un concorrente alla realtà militare del quale non si sentiva il bisogno (anche nelle frequenti calamità naturali sono sempre gli uomini con le stellette a tirare la carretta, quando c’è da fare seriamente).

Peraltro, con questa novità esibita con orgoglio ai Fori Imperiali il 2 giugno, si è dimostrato con le intenzioni che l’apporto part-time dei giovani può essere apprezzato anche ai nostri giorni, contraddicendo buona parte delle obiezioni alla proposta del ministro Salvini. Inoltre, non si vuole ammettere che tale realizzazione ha avuto tra le conseguenze forse non casuali una caduta verticale delle vocazioni per le Forze Armate, anche in sistema al venir meno del passaggio obbligatorio in esse per potersi arruolare successivamente in quelle di Polizia. Ma questa è un’altra storia.

Insomma, è certamente necessario cogliere l’opportunità assicurata dalla proposta del ministro dell’Interno, comunque la si voglia considerare, per mettere a fuoco i problemi delle Forze Armate, che sono molto seri e che rischiano di intaccarne funzionalità e ragion d’essere. In merito a quest’ultimo aspetto, non è forse inutile osservare che esse sono per costruzione finalizzate proprio alla salvaguardia di quell’indipendenza, o sovranità, che è centrale nel dibattito odierno. E questo non è un dettaglio di poco conto per gettare una luce sulle motivazioni di un dibattito inaspettato ma doveroso.

SALUS BELLI SUPREMA LEX: (QUARTA RECENSIONE CUMULATIVA) a Teodoro Klitsche de la Grange, di Massimo Morigi

MASSIMO MORIGI

SALUS BELLI SUPREMA LEX: BELLUM, NON VERITAS, FACIT LEGEM, ET FACIT SOCIETATEM, ET FACIT NATURAM, ET FACIT VERITATEM. L’EPIFANIA STRATEGICA DEL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO E L’AMLETO O ECUBA NEL RISPECCHIAMENTO DI TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE (QUARTA RECENSIONE CUMULATIVA)

Si dice che ci fosse un automa costruito in modo tale da rispondere, ad ogni mossa di un giocatore di scacchi, con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un fantoccio in veste da turco, con una pipa in bocca, sedeva di fronte alla scacchiera, poggiata su un’ampia tavola. Un sistema di specchi suscitava l’illusione che questa tavola fosse trasparente da tutte le parti. In realtà c’era accoccolato un nano gobbo, che era un asso nel gioco degli scacchi e che guidava per mezzo di fili la mano del burattino. Qualcosa di simile a questo apparecchio si può immaginare nella filosofia. Vincere deve sempre il fantoccio chiamato “materialismo storico”. Esso può farcela senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è noto, è piccola e brutta, e che non deve farsi scorgere da nessuno.

 

Walter Benjamin, I Tesi di filosofia della storia

 

Maria ha vissuto una vita molto nascosta, perciò è chiamata dallo Spirito Santo e dalla Chiesa: Alma Mater, Madre nascosta e segreta. La sua umiltà è stata così profonda da non avere sulla terra altro desiderio più forte e più continuo che di nascondersi a se stessa e a tutti, per essere conosciuta unicamente da Dio solo. Dio, per esaudirla nelle richieste che gli fece di nasconderla e di renderla povera e umile, si è compiaciuto di tenerla nascosta agli occhi di quasi tutti: nel concepimento, nella nascita, nei misteri della sua vita, nella risurrezione e assunzione al cielo. I suoi stessi genitori non la conoscevano; gli angeli si domandavano spesso tra loro: Chi è costei? (Ct 3, 6; 8, 5). L’Altissimo la teneva loro nascosta; oppure, se rivelava qualcosa, infinitamente di più era ciò che teneva nascosto. Dio padre ha consentito che non facesse alcun miracolo durante la sua vita, almeno di quelli appariscenti, anche se gliene aveva dato il potere. […] È per mezzo di Maria che la salvezza del mondo ha avuto inizio ed è per mezzo di Maria che deve giungere a compimento. Maria non è quasi apparsa durante la prima venuta di Gesù Cristo, affinché gli uomini, ancora poco istruiti e poco illuminati sulla persona di suo Figlio, non si allontanassero dalla verità, attaccandosi a lei in modo troppo forte e grossolano; ciò che sarebbe potuto accadere se ella fosse stata conosciuta nelle meravigliose attrattive di cui l’Altissimo l’aveva ornata, anche nel suo aspetto esteriore. Questo è così vero che san Dionigi l’Areopagita ci ha lasciato scritto che quando la vide l’avrebbe presa per una divinità, a causa delle sue misteriose attrattive e della sua bellezza senza pari, se la fede, nella quale era ben fermo, non gli avesse insegnato il contrario. Ma nella seconda venuta di Gesù Cristo, Maria deve essere conosciuta e rivelata dallo Spirito Santo, affinché per mezzo suo sia conosciuto, amato e servito Gesù Cristo. Ora infatti non sussistono più le ragioni che avevano determinato lo Spirito Santo a tenere nascosta la sua Sposa durante la Sua vita e a non rivelarla molto durante la prima predicazione del Vangelo. Dio vuole dunque rivelare e far conoscere Maria, il capolavoro delle sue mani, in questi ultimi tempi.

 

San Luigi Maria Grignon de Montfort, La vera devozione (Traité de la vraie dévotion à la Sainte Vierge)

 

 

Io faccio ciò che voglio e trattengo ciò che mi colpisce,/finché ciò che io non voglio mi dà un senso come una scrittura.

 

Konrad Weiss, citazione al termine di Carl Schmitt, Amleto o Ecuba

 

 

 

 

 

«Si parla in questo libro del tabù di una regina, e della figura di un vendicatore; viene quindi a proporsi la questione dell’origine specifica dell’accadimento tragico, e cioè della fonte del tragico, fonte che, a mio parere, è possibile ritrovare solo in una precisa realtà storica. Così ho tentato di ricomprendere Amleto a partire dalla sua situazione concreta. Ai devoti di Shakespeare, così come agli specialisti, sarà utile per un primo orientamento, che io indichi  subito i tre libri ai quali sono particolarmente debitore di preziose informazioni e di essenziali criteri interpretativi: Lilian Winstanley, Hamlet and the Scottish Succession, Cambridge, Cambridge University Press, 1921; John Dover Wilson, What happens in Hamlet, Cambridge, Cambridge University Press, 1935 e1951; Walter Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, Berlin, Ernst Rowohlt Verlag, 1928. [Carl Schmitt, Amleto o Ecuba. L’irrompere del tempo nel gioco del dramma, Bologna, il Mulino, 1983, p. 39; edizione originale: Hamlet oder Hekuba. Der Einbruch der Zeit in das Spiel, Eugen Diederichs Verlag, Düsseldorf-Köln, 1956] […] Ciò che vi è di strano e di impenetrabile nell’Amleto di Shakespeare è che il protagonista del dramma di vendetta non segue né l’una né l’altra via: non uccide la madre né si allea con essa. Per tutto il corso dell’opera resta oscuro se la madre sia o non sia complice dell’omicidio. Eppure, per comprendere tanto gli sviluppi dell’azione quanto gli impulsi e le riflessioni del vendicatore, sarebbe assai importante, e perfino decisivo, comprendere la questione della colpevolezza della madre. Ma proprio tale questione, che si impone per tutto il dramma, dall’inizio alla fine, e che a lungo andare non può essere certo accantonata, viene accuratamente elusa in tutta l’opera, e resta senza risposta. [Ivi, p. 48] […] Per lo spettatore che segue l’opera e che non ha tempo di  intraprendere ricerche psicologiche, filologiche o storico-giuridiche, questo punto decisivo resta affatto oscuro, e tutte le indagini hanno solo confermato questa oscurità, quando non l’hanno perfino accresciuta. Ogni drammaturgo ed ogni regista, che vogliano rappresentare Amleto, devono in un qualche modo esser preparati a questa circostanza, ed hanno la possibilità di suggerire al pubblico soluzioni diverse, e addirittura contrapposte. Infatti, ciò che Amleto fa nel corso del dramma, appare sotto una luce completamente diversa a seconda che alla madre si attribuisca colpa o innocenza. Nondimeno, in trecento anni non ci si è ancora accordati su questo punto, e si continuerà a non giungere ad un accordo. C’è qui, infatti, un’operazione di occultamento, senza dubbio strana, ma palesemente  deliberata e intenzionale. [Ivi, p. 50] […] Chi, senza concetti precostituiti, lascia che il dramma agisca da sé, nella sua struttura concreta e nel suo testo effettivamente dato, deve ben presto riconoscere che qui – per riguardi oggettivi, per ragioni di tatto e per altri motivi di soggezione –  qualche cosa viene nascosto ed eluso. In altre parole, ci troviamo di fronte ad un tabù che l’autore dell’opera rispetta senz’altro e che lo costringe a porre tra parentesi la questione della colpa o dell’innocenza della madre, anche se tale questione costituisce, moralmente e drammaticamente, il cuore del dramma di vendetta. [Ivi, pp. 51-52] […]  Perché allora proprio nel caso della madre di Amleto viene accuratamente elusa la questione della colpevolezza, che d’altronde è essenziale in relazione sia al delitto sia all’esecuzione della vendetta? Perché, almeno non se ne rende esplicita la piena innocenza? Se l’autore non fosse vincolato a precisi dati oggettivi, se fosse davvero del tutto libero nella sua invenzione poetica, non avrebbe dovuto fare altro che comunicarci come le cose stavano davvero. Proprio questa circostanza, che cioè non vengano chiaramente espresse né la colpa né l’innocenza, dimostra che sussiste un timore concreto e determinato, un riserbo che è un vero e proprio tabù. Ne deriva, alla tragedia, un’impronta tutta particolare, e l’azione di vendetta, che costituisce il contenuto oggettivo dell’opera, perde quella sicura e lineare semplicità che invece presentava sia nella tragedia greca sia nella saga nordica. Sono in grado di indicare questo tabù, nella sua piena concretezza: esso ha a che fare con la regina di Scozia, Maria Stuarda. Suo marito, Henry Lord Darnley, il padre di Giacomo, fu atrocemente assassinato dal conte di Bothwell nel febbraio 1566. Nel maggio dello stesso anno Maria Stuarda sposava proprio questo conte di Bothwell, l’omicida di suo marito: erano appena passati tre mesi dal delitto. In questo caso, si può davvero parlare di una fretta sospetta e indecorosa. La questione, fino a che punto Maria Stuarda fosse compromessa nell’assassinio di suo marito, o se addirittura non ne avesse ella stessa provocato la morte, è a tutt’oggi oscura e controversa. Maria affermava la sua piena innocenza, ed i suoi amici, particolarmente i cattolici, le prestavano fede. I suoi nemici, soprattutto la Scozia protestante,  l’Inghilterra e tutti i partigiani della regina Elisabetta, erano invece convinti che proprio Maria fosse stata l’istigatrice dell’omicidio. L’intera faccenda fu un enorme scandalo, sia in Scozia sia in Inghilterra; ma come fu che si trasformò, allora, in un tabù per l’autore di Amleto? Quel formidabile scandalo non era stato discusso pubblicamente per anni da entrambe le parti con fanatico ardore?  Il tabù trova la sua esatta spiegazione nelle circostanze di tempo e di luogo in cui l’Amleto di Shakespeare fu concepito e rappresentato per la prima volta: si tratta degli anni 1600-1603, a Londra. Era l’epoca in cui tutti si aspettavano la morte dell’anziana regina Elisabetta, di cui non era stato ancora designato il successore. Per tutta l’Inghilterra questi furono anni di incertezza e di gravissima tensione. [Ibidem, pp. 52-54] […] Shakespeare, con la sua compagnia teatrale, faceva parte della cerchia politica del conte di Southampton e del conte di Essex. Questo gruppo sosteneva Giacomo, il figlio di Maria Stuarda, come candidato alla successione regia, e pertanto fu allora politicamente perseguitato e represso da Elisabetta. [Ibidem, p. 54] […] Su Giacomo, dunque, il figlio di Maria Stuarda, si indirizzavano, in quegli anni critici 1600-1603, tutte le speranze del gruppo a cui apparteneva la compagnia teatrale di Shakespeare. Nel 1603 Giacomo fu effettivamente il successore d’Elisabetta sul trono d’Inghilterra, l’immediato successore di quella stessa regina che appena sedici anni prima aveva fatto giustiziare sua madre. Ma nonostante ciò, egli non rinnegò affatto sua madre, Maria Stuarda: onorava la sua memoria, e non permetteva che venisse calunniata o diffamata. Nel suo libro, Basilikon Doron (1599), egli, in modo solenne e commovente, esorta suo figlio a rispettare sempre la memoria di quella regina. Così, all’autore della tragedia Amleto veniva imposto quel tabù di cui parliamo. [Ivi, p. 55]»

 

Quando con facile e corriva astuzia retorica, e non volendo nicodemicamente prendere posizione, si dice che tal situazione o tal personaggio è “lo specchio dei tempi”, in realtà non ci si accorge che la metafora impiegata è molto più impegnativa – e addirittura opposta – rispetto ad un significato di passiva restituzione all’osservatore-giudice di un contesto esterno che si vorrebbe inertemente riflesso dalla  situazione o dal  personaggio valutato “specchio dei tempi”, talché il più delle volte se questa astuzia retorica viene impiegata dall’osservatore-giudice senza criterio e al solo scopo di sottrarsi, quello che sicuramente rimane di tale “sforzo” interpretativo non è un giudizio  sulla situazione o sul personaggio che si vorrebbe specchiato ma, certamente rispecchiato e restituitoci nella sua pochezza è colui che dietro e con la metafora ha inteso sottrarsi al nostro giudizio. E in questo senso e unicamente sotto questo punto di vista, se impiegata con questa intenzione, la metafora dello specchio rimane, per una sorta di maligna ma assolutamente appropriata eterogenesi dei fini, del tutto valida ed euristicamente efficace, solo che anziché lo specchiato, “specchio dei tempi” si ritrova nel ruolo del passivamente riflesso proprio il debole – intellettualmente e/o valorialmente – giudice-osservatore proprio perché
è lui lo “specchio dei tempi”, sì lo specchio dell’ “epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni”(1) (ovviamente, la metafora dello specchio, fosse più o meno dei tempi ma sempre in un ambito di metafora passivante e paralizzante, ha fatto anche vittime che per loro espressa intenzione ed anche per giudizio generale non erano certamente né autoneutralizzate né spoliticizzate né au dessus de la mêlée, vedi un tal Vladimir Il’ič Ul’janov che nel 1909, in polemica con Ernst Mach per il quale la conoscenza scientifica era una pura rappresentazione logico-formale e non sostanziale della realtà, sostenne in Materialismo ed empiriocriticismo, per preservare le possibilità teoriche e pratiche della rivoluzione,  che la verità era l’adeguamento della mente umana alla realtà esterna, in altre parole che per giudicare correttamente  la realtà esterna, e quindi per poi modificarla in senso rivoluzionario, la mente umana doveva rifletterla sì esattamente ma anche passivamente. Ma se la  leniniana “teoria del riflesso” salvava così, almeno formalmente, la possibilità, in contrasto con Mach, di una rappresentazione vera della realtà, ignorava – o fingeva di ignorare – che con un’impostazione così gnoseologicamente passiva del rapporto fra soggetto-oggetto si trascurava il fondamentale aspetto del ruolo della prassi nell’azione rivoluzionaria così come espressa da Marx nelle sue Tesi su Feuerbach: sicuramente, allora, non si può dire che la metafora dello specchio riflette in questo caso un’impostazione psicologica dell’autore che la impiegò improntata alla passività personale e al non volersi schierare ma certamente, dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico e di tutti quei marxismi variamente ispirati alla filosofia della prassi – in primo luogo quello di Antonio Gramsci dei Quaderni del carcere e  di György Lukács di Storia e coscienza di classe  e anche di tutte quelle filosofie della prassi che in vario modo vogliano rifarsi a Giovanni Gentile – una visione delle masse, fatta propria da quella ideologia che poi fu chiamata marxismo-leninismo e dalla sua espressione “filosofica” del DIAMAT staliniano,  del tutto passive e non protagoniste della rivoluzione).

 

Ci siamo concessi questa digressione fra cronaca, histoiré evénementielle del marxismo del Novecento e storia del pensiero filosofico-politico perché riteniamo che la metafora dello specchio e delle sue immagini riflesse possa, nonostante i mali usi nei quali sovente viene impiegata e piegata, mantenere intatta una grande potenzialità nella strategia comunicativa per comprendere il Secolo breve e quello in cui attualmente stiamo vivendo, l’importante, come si è accennato, è non cedere alle sirene passivanti della metafora di cui si è detto ma un suo impiego lungo il tracciato di una filosofia della prassi che ha avuto nell’Ottocento uno dei suoi momenti più alti nelle marxiane  Tesi su Feurbach per poi proseguire negli anzidetti Gramsci e Lukács per infine al momento ritrovarsi – ci sia concessa questa immodestia – nella filosofia della prassi così come espressa dal Repubblicanesimo Geopolitico. Ma oltre alle grandi possibilità teoriche di una corretta visione ed attiva della metafora dello specchio che, aggiungiamo, trova anche se in apparentemente altro ambito rispetto alle scienze storico-sociali improntate ad una marxiana filosofia della prassi una sua grande potenza gnoseologica (intendiamo riferirci alla fisica quantistica ed in particolare al suo observer effect, cioè al fatto che a livello dei fenomeni quantistici l’osservazione non riflette passivamente l’osservato ma lo influenza direttamente nel suo comportamento – vedi l’esperimento della doppia fenditura o double slit experience –, il che sembra quasi una decalcomania a livello di fisica sperimentale della filosofia della prassi per la quale sussiste un’inestricabile ed attivo rapporto dialettico fra soggetto ed oggetto), questa metafora è anche particolarmente adatta per alcuni autori che effettivamente  sono “specchio dei tempi” e lo furono (e lo sono) proprio perché di tutto di loro si può tranne che furono specchi passivi.

 

In questa positiva e attiva categoria di “specchio dei tempi”, ça va sans dire, collochiamo fra i primi in un nostro ideale Pantheon Carl Schmitt e poi tutti coloro, che a vario titolo e con diversi approcci dottrinali, intendono riferirsi alla grande tradizione del pensiero realista a partire da Tucidide, Hobbes e Machiavelli (a sua volta il Repubblicanesimo Geopolitico intende unire a questa iniziale galleria, tanto per citare i maggiori ma non esaurendo per questo la lista limitata solo ai maggiori apporti teorici, Hegel, Marx, Giovanni Gentile, Antonio Gramsci, György Lukács e il Karl Korsch di Marxismo e filosofia). E fra i contemporanei che inserendosi nell’alveo del pensiero realista può essere utilizzata nell’accezione positiva l’immagine dello “specchio dei tempi”, certamente a buon diritto deve essere collocato Teodoro Klitsche de la Grange. In ragione  negli ultimi tempi dei numerosi suoi interventi sulle pagine elettroniche del nostro sito internet di Geopolitica, riflessione teorica  politica e filosofico-politica di questo prezioso ed unico nel panorama italiano giuspubblicista, “L’Italia e i mondo” ha anche ospitato, per opera dello scrivente, tre recensioni su questi interventi, le quali pur nelle ovvie varie titolature, recavano anche la dicitura comune di ‘recensione cumulativa’, e questo in ragione dell’elementare dato di fatto che la grandissima ricchezza – in termini brutalmente quantitativi ma, ancor più, nel senso di profondità di contenuti –  delle suggestioni del La Grange rendeva proibitiva una puntuta e pedante rassegna di tutte queste suggestioni ma rendeva inevitabile una valutazione globale, olistica – ed assolutamente, ovviamente, positiva – del suo pensiero. Come da titolo di questo intervento, siamo allora giunti alla ‘quarta recensione cumulativa’ al La Grange, e con questa intendiamo render conto, sempre in maniera globale ed evitando pesanti e dettagliati resoconti (come già detto per le precedenti recensioni cumulative, anche in questo caso assolutamente impraticabili vista la “grandezza” in ogni senso della dottrina realista del Nostro) dei seguenti suoi interventi sull’ “Italia e il mondo”: Le ragioni di Creonte, “L’Italia e il mondo”, 5 giugno 2018 (URL: https://italiaeilmondo.com/2018/06/05/le-ragioni-di-creonte-di-teodoro-klitsche-de-la-grange,

http://www.webcitation.org/712tx1GrJ e

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F06%2F05%2Fle-ragioni-di-creonte-di-teodoro-klitsche-de-la-grange&date=2018-07-20); La decadenza italiana, “L’ Italia e il mondo”, 11 giugno 2018 (URL: https://italiaeilmondo.com/2018/06/11/la-decadenza-italiana-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/,

 http://www.webcitation.org/712uTltWv e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F06%2F11%2Fla-decadenza-italiana-di-teodoro-klitsche-de-la-grange%2F&date=2018-07-20); Machiavelli, “L’Italia e il mondo”, 22 giugno 2018 (URL: https://italiaeilmondo.com/2018/06/22/machiavelli-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/, http://www.webcitation.org/712v9IhKi e

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F06%2F22%2Fmachiavelli-di-teodoro-klitsche-de-la-grange%2F&date=2018-07-20); Introduzione alla “Politica come destino”, 1° parte, “L’Italia e il mondo”, 2 luglio 2018 (URL: http://italiaeilmondo.com/2018/07/02/introduzione-alla-politica-come-destino_1a-parte-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/,http://www.webcitation.org/712vnQpqX e

http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F07%2F02%2Fintroduzione-alla-politica-come-destino_1a-parte-di-teodoro-klitsche-de-la-grange%2F&date=2018-07-20); Introduzione alla “Politica come destino”, 2° parte,  “L’Italia e il mondo”, 5 luglio 2018 (URL: http://italiaeilmondo.com/2018/07/05/introduzione-alla-politica-come-destino_2a-parte-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/,http://www.webcitation.org/712wmE8dn e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F07%2F05%2FINTRODUZIONE-ALLA-POLITICA-COME-DESTINO_2A-PARTE-DI-TEODORO-KLITSCHE-DE-LA-GRANGE%2F&date=2018-07-20. L’ Introduzione alla Politica come destino aveva già trovato pubblicazione in un’unica soluzione su “Rivoluzione Liberale. Politica è cultura” il 27 giugno 2018 agli URL https://www.rivoluzione-liberale.it/35985/cultura-e-societa/la-politica-come-destino.html.  “Congelamento” dell’URL su WebCite: http://www.webcitation.org/71AfC3bXp http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fwww.rivoluzione-liberale.it%2F35985%2Fcultura-e-societa%2Fla-politica-come-destino.html&date=2018-07-25); Nemico, ostilità e guerra, “L’Italia e il mondo”, 9 luglio 2018 (URL: http://italiaeilmondo.com/2018/07/09/nemico-ostilita-e-guerra-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/, http://www.webcitation.org/713UyfAZb e

http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F07%2F09%2Fnemico-ostilita-e-guerra-di-teodoro-klitsche-de-la-grange%2F&date=2018-07-20); Note su Costituzione e interpretazione costituzionale, “L’Italia e il mondo”, 15 luglio 2018 (URL: http://italiaeilmondo.com/2018/07/15/note-su-costituzione-e-interpretazione-costituzionale-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/,

http://www.webcitation.org/713W5lRHB e

http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F07%2F15%2Fnote-su-costituzione-e-interpretazione-costituzionale-di-teodoro-klitsche-de-la-grange%2F&date=2018-07-20); Note su Costituzione e interpretazione costituzionale, 2° parte, “L’Italia e il mondo”, 22 luglio 2018 (URL: http://italiaeilmondo.com/2018/07/22/note-su-costituzione-e-interpretazione-costituzionale-2a-parte_-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/,http://www.webcitation.org/717Qp4oQI e

http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F07%2F22%2Fnote-su-costituzione-e-interpretazione-costituzionale-2a-parte_-di-teodoro-klitsche-de-la-grange%2F&date=2018-07-23).

 

Si è appena detto, utilizzando quindi la metafora nella sua accezione positiva e di attiva compenetrazione dialettica fra soggetto ed oggetto, che Carl Schmitt è “specchio dei tempi” come, abbiamo pure affermato, anche per Teodoro Klitsche de la Grange, che l’immagine di riflesso attivo  della realtà deve essere impiegata nel giudicare la sua impagabile opera di giuspubblicista. Ma in quest’ultima recensione cumulativa, la quarta, l’immagine ispirata alla filosofia della prassi di rispecchiamento attivo della realtà, trova tutta una sua particolare giustificazione, perché per la strategia comunicativa della presente comunicazione (quindi al fine del raggiungimento di una dialettica verità olistica e sul pensiero del La Grange e su questi suoi ultimi interventi) risulta possedere una particolare forza euristica di rispecchiamento non solo del pensiero di Carl Schmitt ed anche dell’intima dinamica intellettuale del La Grange l’Amleto o Ecuba del “Kronjurist del Terzo Reich” (fama questa di giurista del nazismo di Carl Schmitt veramente ingenerosa ed immeritata, ma questo è argomento che la migliore critica  sia  dal punto meramente storico di come andarono i rapporti di Carl Schmitt col nazismo  sia dal punto di vista della sua dottrina ha completamente decostruito, ma questo  è argomento che abbiamo già affrontato – vedi Massimo Morigi, Fiat imperium pereat hostis. Le ipostatiche illusioni delle democrazia rappresentativa, pubblicato sull’ “Italia e il mondo” all’URL http://italiaeilmondo.com/2018/06/08/fiat-imperium-pereat-hostis-le-ipostatiche-illusioni-della-democrazia-rappresentativa-di-massimo-morigi/; WebCite: http://www.webcitation.org/704td57zk e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F06%2F08%2Ffiat-imperium-pereat-hostis-le-ipostatiche-illusioni-della-democrazia-rappresentativa-di-massimo-morigi%2F&date=2018-06-10 – e che non risponde in questa sede alla nostra strategia comunicativa). Come si è potuto leggere dalla citazione iniziale, l’Amleto o Ecuba ruota al “tabù della regina”, vale dire si pone la domanda del perché nell’Amleto shakespeariano non venga preso direttamente di petto il problema della correità della regina riguardo all’assassinio del re suo marito e padre di Amleto. Abbiamo anche visto che dopo un primo lungo argomentare sulle ragioni di questa sorta di rimozione nel dramma del problema, Carl Schmitt giunge ad una prima semplice (e semplicistica) spiegazione: semplici ragioni di opportunità politica avrebbero suggerito, o meglio imposto, a Shakespeare di non affrontare direttamente il problema. Spiegazione della rimozione, diciamo subito, del tutto insoddisfacente, perché se proprio l’opportunità politica fosse una delle molle principali nella strutturazione di questo dramma di vendetta, molto più semplice, lineare dal punto di vista drammatico e sicuro dal punto di vista del drammaturgo sarebbe stato non menzionare affatto la regina Gertrude e non includerla fra i personaggi dell’Amleto. Se tutto e solamente qui fosse l’Amleto o Ecuba, non varrebbe, in fondo, neppure la pena di parlarne e lo si potrebbe facilmente rubricare fra la prove meno riuscite di Carl Schmitt. Ma, come l’esperienza ci ha dimostrato, per quanto egli sia assolutamente adamantino ed icastico in alcune sue affermazioni (vedi nella Teologia politica  il suo immortale apoftegma «sovrano è chi decide sullo stato di eccezione», folgorante, icastica ed inequivocabile affermazione che come un colpo di sciabola fa letteralmente a brandelli ogni metafisica giuridica normativista e le complementari volgarizzazioni ideologiche democratiche e liberali basate sull’astorica parareligiosa ipostatizzazione dei diritti umani di derivazione illuminista e divenute poi una sorta di religione di massa in seguito all’annientamento in Europa degli stati di ancien régime travolti dalla rivoluzione francese), è anche autore problematico, che va letto a più livelli e che, in queste stratificazioni, una non piccola parte hanno proprio i tabù e le rimozioni, come del resto sul piano personale dimostra il fatto di non avere mai completamente fatto i conti con la sua (sfortunata) collaborazione col nazismo e sul piano teorico di avere ad un certo punto rinunciato a sviluppare il suo pensiero decisionista per ritirarsi, certamente anche per favorire un suo tentativo di signoreggiare ideologicamente il nazismo, nel cosiddetto konkrete Ordnungsdenken, nel pensiero dell’ordinamento concreto che si riannodava ai temi dell’istituzionalismo giuridico di Santi Romani e Maurice Hauriou –  questa svolta nel pensiero di Schmitt prese per la prima volta forma in Carl Schmitt, Über die drei Arten des rechtwissenschaftlichen Denkens, Hanseatische Verlagsanstalt, Hamburg, 1934; trad. it., ma parziale, I tre tipi di pensiero giuridico, in Id., Le categorie del ‘politico’, Bologna, Il Mulino, 1972, pp. 245-275.

 

Accanto quindi a lampanti folgorazioni, in Carl Schmitt anche rimozioni, ritrosie, timidezze e, sotto questo punto di vista, l’Amleto o Ecuba risulta una delle opere che meglio rispecchia questa particolare Gestalt schmittiana di folgoranti lampi di genio politologico inestricabilmente però messi accanto a mediocri e precipitose ritirate sul piano della riflessione teorica. E questo perché se, come abbiamo visto, Schmitt vi denuncia una sorta di “tabù della regina” presente nell’Amleto shakespeariano e dà poi nell’immediato a questo tabù una spiegazione del tutto insoddisfacente e degna di un poco scaltrito e saputello studentello liceale che ritiene che attraverso il grimaldello del cui prodest (ma non articolato dialetticamente) possa trovare risoluzione tutta la storia umana, alla fine Schmitt, come vedremo, mostra di non credere nemmeno lui a questo semplicista (e sempliciona) risposta e, fornendo poi un’ulteriore risposta veramente degna del suo nome,  fa di questo Amleto o Ecuba veramente l’opera che meglio illustra la sua complessa personalità, segnata da un percorso umano ed intellettuale dove accanto ad illuminazioni e alla denuncia delle ipostatiche rimozioni del pensiero democratico e liberale, troviamo anche sue personali rimozioni dovute alla sua  avversione di portare fino alle estreme conseguenze le (rivoluzionarie) conseguenze del suo pensiero decisionista ma,  dove, al tempo stesso,  a fianco o subito dopo questi “minimi”, assistiamo anche ad una ripresa dell’originario vigore teorico. Sul come il “tabù della regina” verrà nuovamente riformulato e risolto nel prosieguo dell’Amleto o Ecuba e con ciò facendo di quest’opera veramente un unicum e al tempo stesso la più rappresentativa della sinusoidale produzione del giuspubblicista tedesco perché in essa mentre si denuncia una rimozione che avrebbe agito su Shakespeare,  vi opera anche una particolare rimozione dell’autore per poi risolvere, almeno parzialmente e con esiti, comunque, interessantissimi, queste rimozioni (la rimozione, cioè, del tabù della regina ma anche quella sua personale che inceppava la sua evoluzione teorica), torneremo a parlare fra breve. È ora giunto il momento di occuparci del La Grange e cercare di giustificare il titolo che non solo afferma che anche il nostro italico valentissimo giuspubblicista può trovare una sua ideale immagine rispecchiata nell’Amleto o Ecuba schmittiano ma anche che – ed è quello che a noi più importa, perché se un senso hanno queste recensioni cumulative non è tanto lodare un autore, il La Grange, il quale non  ne ha alcun bisogno ma è quello di parlare di noi stessi  e sviluppare il nostro pensiero attraverso il confronto con una grande visione teorica – in questo particolare  rispecchiamento fra due grandi autori il Repubblicanesimo Geopolitico ed il suo orizzonte-limite della epifania strategica possono trovare anche loro fondamentali e dialettiche  attive superfici di rinvio e sviluppo della propria immagine. Indubbiamente del sunnominato elenco di questa quarta recensione cumulativa, fra i  contributi più significativi sono Introduzione alla “Politica come destino”, 1° parte e Introduzione alla “Politica come destino”, 2° parte, da adesso poi in questa comunicazione saranno unitamente  richiamati come Introduzione alla “Politica come destino” tout court, scelta nostra di non fare distinzioni fra questi due contributi  apparsi sull’ “Italia e il mondo” non solo per la quasi totale sovrapponibilità dei due titoli ma, soprattutto, per il  fatto che la prima e la seconda parte di questa Introduzione alla “Politica come destino”  altro non è che  la prefazione di Teodoro Klitsche de la Grange alla odierna riedizione della Politica come destino di Salvatore Valitutti (La politica come destino pubblicata originariamente nel 1976 sulla rivista «Nuovi «Studi politici” – Salvatore Valitutti, La politica come destino, in «Nuovi Studi politici», 1976, n. 4, pp. 3-46 –  fu poi ripubblicata nel 1978  in Karl Löwith, Salvatore Valitutti, La Politica come destino, Roma Bulzoni, s. d. (ma 1978),  pp. 41-84. Il saggio di Karl Löwith compreso  in questo volume era stato pubblicato per la prima volta nel 1935 con lo pseudonimo di Hugo Fiala –  Hugo Fiala,   Politische Dezisionismus, in «Internationale Zeitschrift für Theorie des Rechts», 1935, IX, n. 2, pp. 101-123 –,  era stato poi tradotto in italiano da Delio Cantimori con il titolo Il concetto della politica di Carl Schmitt e il problema della decisione, in «Nuovi Studi di diritto, economia e politica», 1935, VIII, pp. 58-83 e tale saggio del Löwith  aveva  costituito anche la falsariga per un profonda critica dello storico romagnolo al pensiero di Carl Schmitt: Delio Cantimori, La politica di Carl Schmitt, in «Studi Germanici», 1, 1935. E come nella critica cantimoriana al pensiero di Carl Schmitt che prendeva le mosse dal saggio del  Löwith, anche nella Politica come destino di Salvatore Valitutti – e che è stata ripubblicata in data odierna con la prefazione di Teodoro Klitsche de la Grange: Salvatore Valitutti, La politica come destino, prefazione di Teodoro Klitsche de la Grange, Liberlibri, 2018 – la critica al pensiero di Schmitt prende le mosse da questo saggio del Löwith).

 

Veniamo quindi a citare dalla prefazione all’odierna edizione della Politica come destino, testo  negativamente influenzato dal sunnominato saggio di Karl Löwith, nel quale Carl Schmitt veniva accusato di “occasionalismo politico”, cioè, secondo l’accezione data a questa locuzione dallo stesso Schmitt in Politische Romantik, di essere un pensatore politico privo di un vero centro ideale e solo propenso alla polemica politica contingente, il giudizio riassuntivo che in Introduzione alla “Politica come destino”  Teodoro Klitsche de la Grange dà del saggio di Salvatore Valitutti. Dal punto di vista liberale si tratta indubbiamente di un giudizio equilibrato che non fa alcuno sconto a Valitutti ma siccome si tratta di un giudizio che parte pur sempre da una premessa ideologica, quella di un convinto liberalismo, si tratta sempre di un argomentare che soffre anch’esso come nel pensiero di Schmitt di una rimozione, della stessa rimozione che ha pervaso tutto il pensiero del giuspubblicista fascista e che nell’ Amleto o Ecuba ha trovato una delle sue più insidiose ma anche, allo stesso tempo, come vedremo, più felicemente euristicamente riuscite (ri)soluzioni.  Dice quindi La Grange del saggio di Valitutti citando dalla Politica come destino:

 

«“La distinzione tra amicus ed hostis, di amico e nemico, [è] la estrema intensità di un legame o di una separazione…Amicus  è un gruppo di individui tenuto stretto e compatto dalla reciproca solidarietà determinata dal bisogno di difendersi, per sopravvivere, dall’hostis. L’hostis  è hostis in quanto si contrappone al gruppo che gli è ostile, ma in se stesso è amicus.  La politica è perciò ostilità che divide e contrappone due gruppi ciascuno dei quali è  amicus in se stesso, e cioè reso compatto contrapponendosi all’altro”, scrive Valitutti. I due gruppi hanno un senso dato dall’ostilità, che implica la possibilità di lotta armata. Da qui il rapporto necessario tra politica e guerra per cui se “Clausewitz scrisse che la guerra non è altro che una continuazione delle relazioni politiche con l’intervento di altri mezzi. Schmitt rovesciando la formula avrebbe potuto dire che la pace è la continuazione della guerra con l’intervento di altri mezzi”. Schmitt, continua Valitutti, sente il bisogno di difendersi dell’accusa di una visione “guerrafondaia”. Lo fa realisticamente, spiegando che ciò consegue dall’ostilità (naturale in un  pluriverso) “perché questa è la negazione essenziale di un altro essere”, affermazione che ricorda da vicino quella di Hegel sul nemico come differenza etica (in Schmitt esistenziale). Centrale, nel pensiero di Schmitt è, secondo Valitutti, il concetto di unità politica “soggetto della politica è il gruppo ma solo alla condizione che il gruppo realizzi una perfetta unità politica. L’essenza dell’unità politica consiste nell’esclusione del contrasto politico all’interno dell’unità stessa”. Ne consegue che “la teoria politica di Schmitt è una teoria monistica perché si basa sulla compattezza dell’unità politica”: una teoria pluralista diviene facilmente strumento di dissoluzione. Tuttavia se all’interno la concezione di Schmitt è monistica, all’esterno è pluralista. Il secondo punto è il pessimismo antropologico. Si fonda sulla concezione pessimistica dell’uomo, che è la medesima su cui si fonda la scriminante etica (buono, cattivo) e la possibilità di scegliere, cioè la libertà. Ma, scrive Valitutti “Schmitt nell’individuare nella malvagità dell’uomo la molla che fa scattare la politica come distinzione fra amico e nemico, non si avvede che giunge a mettere in crisi proprio quella autonomia della politica, intesa come indipendenza dalle altre distinzioni esistenti, operanti nella vita umana…giungendo, come giunge, al presupposto  della malvagità umana   come condizione da cui scaturirebbe la necessità della politica, intesa come distinzione fra amico e nemico, egli riconduce la politica stessa proprio ad uno dei termini della coppia degli opposti che è la coppia della vita morale”. Da ciò consegue la centralità dell’unità politica per comprenderne l’anti-liberalismo di Schmitt. Questo è la “bestia nera” di Schmitt, secondo il quale ha dominato il secolo XIX. Il liberalismo combattuto da Schmitt è tuttavia un fantoccio polemico: “In questo fantoccio figurano lineamenti che appartengono al liberalismo storico ma che sono scissi da altri lineamenti essenziali dello stesso corpus di dottrine e di esperienze e che perciò appaiono deformati”. Schmitt riconosce tuttavia che il liberalismo, come realtà storica, non è sfuggito né all’identificazione/designazione del nemico, né all’abolizione della guerra (perché impossibile). E Valitutti rileva che “Nella sua polemica contro il liberalismo Schmitt, credendo di incolparlo in realtà gli rende omaggio e comunque è nel vero anche quando sottolinea il rispetto del valore dell’autonomia delle varie forme dell’attività umana come un carattere distintivo del liberalismo” (il corsivo è mio). Peraltro Schmitt, partendo dal postulato dell’unità politica ha come obiettivo della di esso critica soprattutto il liberalismo sociale e associativo, che garantisce la società come “pluralità di legami sociali”. Ma così configura uno Stato che realizza continuamente “la sua unità come sintesi dialettica di differenti e congiunti centri di iniziativa. L’unità politica, secondo Schmitt, la quale ha la sua più perfetta espressione nello Stato, è viceversa un’unità monistica, immediata e immota”. La distinzione amicus/hostis relativizza tutte le altre in quanto giunge a definire la distinzione politica come quella totale e totalizzante; “per cui Schmitt praticamente vanifica tutte le altre distinzioni. È l’unità politica che decide quello che è buono, bello e utile, e, in contrapposizione, quello che è cattivo, brutto e dannoso”. Il vizio di tale concezione è evidente: nel momento in cui la distinzione politica prevale sulle altre questa è non solo indipendente da quelle, ma superiore. Nota poi Valitutti che tra le tante opposizioni il giurista di Plettemberg non ricorda mai quella di vero/falso.»

 

Da questa citazione vediamo che, effettivamente, Teodoro Klitsche de la Grange ha veramente chiaramente segnalato tutte le critiche che nella Politica come destino Valitutti fa a Carl Schmitt, e si tratta di critiche che, per quanto partano da una sostanziale antipatia ed avversione per il pensiero del “Kronjurist del Terzo Reich”, non possono essere liquidate su due piedi. Ma queste critiche, cioè il fatto che considerare – pur partendo da una giusta visione antropologica negativa accettata ed anzi giudicata positiva anche dal liberalismo – la politica mossa solo dal motore amico/nemico non ci consente di capire la fisiologia della politica stessa e, conseguentemente, che il bersaglio polemico di Schmitt, il liberalismo, in realtà non sia altro che un “fantoccio polemico” che ha le sembianze della tolleranza e dei principi universalistici dei diritti dell’uomo mentre, nella concretezza, il liberalismo è un preciso percorso storico nel quale il conflitto ha una grande parte (componente conflittuale del liberalismo che Schmitt tende a trascurare per sottolineare un oblio di sovranità che caratterizza questa forma politica), non trovano andando a leggere tutto il saggio di Valitutti alcuno sviluppo essendo intese unicamente a decostruire il pensiero di Schmitt e non certo, fissandone le contraddizioni ma anche le dialettiche illuminazioni, a proporne una sua evoluzione. E sotto questo punto di vista, non tanto l’avere rivelato, risottolineiamo per maggiore chiarezza, le incongruenze di Schmitt da parte di Valitutti, ma non avere accennato che queste incongruenze possono contenere il nucleo di un futuro sviluppo di questo pensiero (futuro sviluppo che Valitutti non ha proprio né cercato né voluto tutto propenso a far recitare al liberalismo tutte le parti in commedia; recita che si svolge nei seguenti termini: il liberalismo come regno, ça va sans dire, della libertà ma anche, altrettanto scontato, come il regno del conflitto: il problema che mentre nella vulgata comune del liberalismo questo conflitto viene liberamente combattuto fra soggetti della stessa potenza, nella realtà effettuale altro non si verifica che la libertà del più forte a colpire senza ritegno il più debole, con l’aggiunta che questo colpire non viene giudicato come un’azione strategica di guerra ma come il portato di ineluttabili leggi economiche che trovano la loro giustificazione, cornuto e mazziato il debole che deve subire, negli immortali principi universalistici che hanno come pietra angolare la libertà del singolo ad agire come meglio crede: in altri termini, che hanno come  fondamento il c.d. individualismo metodologico), costituisce una sorta di tabù o rimozione di Teodoro Klitsche de la Grange verso le contraddizioni del liberalismo (a questo affermazione La Grange ci potrebbe ribattere verso le contraddizioni del feticcio del liberalismo), una sorta di rimozione  che però, proprio come nello Schmitt di Amleto o Ecuba troverà alla fine felice sbocchi ed esiti.

 

Conclude quindi la Grange nella sua argomentazione in difesa di Valitutti: «In particolare il fantoccio polemico, che Valitutti critica in Schmitt è ciò che il giurista tedesco vede nei pensatori dallo stesso criticati, ma che non è né il liberalismo storico “classico” – in particolare italiano – né quello che emerge da un’analisi fattuale ma anche giuridico-normativa, sia dei comportamenti che degli ordinamenti dello Stato borghese. È piuttosto quel che risulta da condivisibili aspirazioni che hanno il limite di non considerare o di sottovalutare le costanti ossia, le regolarità della politica (Miglio), con la conseguenza di non spiegare la conformazione dello stesso Stato democratico (o borghese a seguire Schmitt). In questo senso l’analisi di Valitutti fatta all’inizio della “rinascita” in Italia dell’interesse per il pensiero del giurista renano e in tempi in cui era demonizzato (e misconosciuto) molto più di oggi, è espressione di un coraggio intellettuale e di una pregevole indipendenza e chiarezza di giudizio.»

 

Siamo qui nell’ambito, come è di tutta evidenza, di una interpretazione  storicizzante  del pensiero di Valitutti, molto simile a quella compiuta dallo Schmitt nell’Amleto o Ecuba riguardo le ritrosie del bardo di Stratford-upon-Avon a rendere evidente nell’Amleto la colpa della regina Gertrude, interpretazione che se riesce forse a darci la dimensione di un presunto coraggio morale di Valitutti nello “trattare” lo Schmitt  mentre tutti lo evitavano perché fascista, non aiuta molto a comprendere quale sia il nodo di Schmitt che ancora non si è riusciti a sciogliere e che Valitutti, con tutte le molteplici  parti in commedia che ha deciso di far recitare al liberalismo nella Politica come destino, non è proprio riuscito a sciogliere.

 

Ma nonostante questa storicizzazione compiuta  su Valitutti (come abbiamo visto anche in Schmitt, quando un pensiero realista si lascia trascinare da facili spiegazioni contestuali avremo forse osservazioni anche fattualmente ineccepibili – ora critiche ora assolutorie od addirittura elogiative: Shakespeare non voleva inimicarsi i circoli politici facenti capo alla senescente regina Elisabetta; Valitutti ha mostrato grande coraggio morale ad occuparsi  di Schmitt – ma che non spostano di un millimetro il dipanarsi del problema teorico che ineludibile emerge: perché, nonostante il tabù della regina, la tragedia dell’Amleto ed il suo protagonista sono diventati dei miti?, perché nonostante tutti i suoi nodi irrisolti ed i suoi tabù teorici Carl Schmitt rimane imprescindibile per comprendere la politica e la società?), La Grange ha ben presente quale sia il problema che ci pone Schmitt quando nell’ambito dello stesso elogio a Valitutti ci sottolinea l’importanza delle «condivisibili aspirazioni che hanno il limite di non considerare o di sottovalutare le costanti ossia, le regolarità della politica (Miglio), con la conseguenza di non spiegare la conformazione dello stesso Stato democratico (o borghese a seguire Schmitt)».

 

Se Schmitt pensava di aver trovato la più importante regolarità della politica nella coppia antitetica amico/nemico, ma non seppe andare, come abbiamo più volte altrove detto, oltre questa folgorante opposizione, e La Grange ha ben presente che questa regolarità che si fa beffe delle ipostasi ideologiche  democratiche e liberali è la vera struttura nascosta e portante anche delle moderne democrazie rappresentative e delle loro società  ma ben conscio del paradosso di Carl Schmitt, si ritrae non diciamo dall’aderirvi ma dall’indicarne un suo possibile sviluppo, in un certo senso anche Valitutti affronta direttamente il problema, rileva cioè il paradosso Carl Schmitt, è del tutto consapevole degli (apparentemente) inestricabili problemi che questo paradosso si trascina ma, piuttosto  come fa La Grange , tenere ben dritta la barra e mantenere ferma questa imprescindibile regolarità della politica, approfitta del paradosso per mettere addirittura in discussione uno dei capisaldi del pensiero realista (fra poco vedremo come questo caposaldo sia in realtà esso stesso un’ipostasi, o meglio un’approssimazione, ma questo è un passo successivo al paradosso di Carl Schmitt non una sua elusione)  entrando così però in contraddizione con la sua stessa versione “cattiva” del liberalismo, messa in atto dal Valitutti, e questo è il nostro personale processo alle intenzioni di cui ci assumiamo in pieno la responsabilità, messa in scena solo per essere più realisti del re Carl Schmitt e sminuirne, per difendere il liberalismo minacciato dal reazionario Schmitt, il pensiero.

 

Sempre analizzando impeccabilmente  La Grange La politica come destino abbiamo appena letto e riproponiamo sottolineando:

 

«Il secondo punto [di Carl Schmitt, ndr] è il pessimismo antropologico. Si fonda sulla concezione pessimistica dell’uomo, che è la medesima su cui si fonda la scriminante etica (buono, cattivo) e la possibilità di scegliere, cioè la libertà. Ma, scrive Valitutti “Schmitt nell’individuare nella malvagità dell’uomo la molla che fa scattare la politica come distinzione fra amico e nemico, non si avvede che giunge a mettere in crisi proprio   quella autonomia della politica, intesa come indipendenza dalle altre distinzioni esistenti, operanti nella vita umana…giungendo, come giunge, al presupposto  della malvagità umana   come condizione da cui scaturirebbe la necessità della politica, intesa come distinzione fra amico e nemico , egli riconduce la politica stessa proprio ad uno dei termini della coppia degli opposti che è la coppia della vita morale”. Da ciò consegue la centralità dell’unità politica per comprenderne l’anti-liberalismo di Schmitt».

 

Vediamo quindi di dare a Valitutti quello che è di Valitutti. Valitutti, ci riferisce impeccabilmente La Grange, sa che il pessimismo antropologico è uno dei tratti distintivi (ma come vedremo subito: forse il meno “realista”) del realismo politico e giustamente inserisce Schmitt fra la schiera di questi pessimisti (fra l’altro un pessimismo antropologico quello di Schmitt rafforzato anche dalla sua sentitissima cultura cattolica controriformistica, aggiungiamo noi, un “piccolo” dettaglio questo delle radici cristiane non solo dell’odierno realismo ma anche dell’attuale Weltanschauung occidentale che svilupperemo fra poche battute). Valitutti, però, piuttosto che assumersi tutta la difficile problematicità del pessimismo antropologico schmittiano nel  quale giustamente individua la struttura portante della regolarità politica della polarizzazione amico/nemico così come rappresentata da Schmitt, approfitta delle contraddizioni interpretative che si porta dietro questa polarizzazione non tanto per mettere in dubbio il pessimismo antropologico tout court (il che sarebbe stata un’operazione importante, una rivoluzione, all’interno del realismo, e noi non chiediamo tanto) ma per screditare la coppia oppositiva amico/nemico di Schmitt e non contento di questo, per giustificare la sua sordità al magistero di Schmitt, ricorre ad una Weltanschauung impostata ad una francamente anacronistica crociana dialettica dei distinti: «[Schmitt] giunge a mettere in crisi proprio   quella autonomia della politica, intesa come indipendenza dalle altre distinzioni esistenti, operanti nella vita umana».

 

Non è questa la sede per discutere quanto nel Secondo dopoguerra il crocianesimo nella sua componente più caduca e più lontana dal realismo politico (quella, in altre parole, della Storia d’Europa nel secolo decimo nono del 1932) abbia negativamente influenzato quella parte di intellettuali che si opponevano al comunismo da un punto di vista liberale e conservatore (e anche volentieri riconosciamo che la “religione della libertà”, dal titolo del primo capitolo della Storia d’Europa nel secolo decimonono, imperante il regime fascista fu un punto importante di riferimento per molti intellettuali per i quali il regime aveva cessato di essere una forza mitopoietica) ; occorre però, a questo punto, e anche a futura memoria, una presa di posizione dello scrivente sia riguardo ai distinti più o meno crociani che siano sia riguardo al pessimismo antropologico (due problematiche che dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico sono strettissimamente correlate) non solo del liberalismo ma anche del realismo politico.

 

Sul piano della teoresi filosofica, uno dei principali appunti che il Repubblicanesimo Geopolitico muove al liberalismo è la visione pessimistica di fondo sull’uomo (e ovviamente, sotto questo punto di vista anche al realismo politico, solo che nel caso del realismo il pessimismo svolge la nobile funzione di smascheramento dei meccanismi conflittuali della società mentre nel liberalismo non è altro che un grimaldello per inculcare nella cultura e nelle masse una visione della società e dell’uomo improntata all’individualismo metodologico, meccanicistica, non dialettica e che annienta totalmente una qualsiasi mentalità – non diciamo chiara consapevolezza teorica – improntata ad una Weltanschauung animata da una qualsivoglia filosofia della prassi), una visione pessimistica liberale in cui l’origine la possiamo ritrovare nell’etica cristiana che vede nel conflitto il male (un male necessario  per il cristianesimo, da purgarsi attraverso il battesimo e con la partecipazione alla vita della comunità ecclesiale che inducendoci o ad una vita virtuosa ma anche  prolifica per generare nuovi cristiani, e quindi a un comportamento ancora macchiato dal peccato ma a suo modo necessario, o  ad una vita casta e santa, ci distacca dal male della vita secolare caratterizzata dal peccato del conflitto – peccato del conflitto che nel lessico religioso prende il nome di ‘peccato originale’, che trova una suo primo antidoto attraverso il battesimo –  e ci prepara per la vita in paradiso; per il liberalismo molto più semplicemente la natura malvagia dell’uomo è la benzina che consente, facendo leva sugli egoismi privati, di far funzionare, per eterogenesi dei fini, la società: vedi, oltre alla mano invisibile di Adam Smith, Bernard de Mandeville e la sua Fable of the Bees: or, Private Vices, Publick Benefits, La favola delle api: ovvero vizi privati, pubbliche virtù), mentre questo male per il Repubblicanesimo Geopolitico non è né un elemento ineluttabilmente legato al mondo ma che lo deturpa (o che lo fa “marciare” secondo l’individualismo metodologico liberale, ma lo fa “marciare” utilizzando i vizi privati, secondo Mandeville) né il rovescio della medaglia  di una supposta natura malvagia dell’uomo ma altro non  è  che la mal interpretata manifestazione dell’azione dialettica conflittuale-strategica, che è la categoria onto-epistemologica che ci permette di unire in un coerente monismo le disiecta membra fra cultura e natura (disiecta membra per  il cristianesimo,  il meccanicismo galileano ed il liberalismo, tutti questi “fratelli diversi”, molto diversi, ma uniti dallo stessa visione del conflitto come male inevitabile anche se necessario e dove la conoscenza ipostatizzata di  questo “male” del conflitto non viene utilizzata nell’ambito dello sviluppo di una visione dialettica della realtà  ma per costruire un mondo diviso in vari settori non comunicanti dove, in ultima analisi, la categoria più importante è la polarizzazione fra un “alto” ed un”basso”, cioè fra virtù e peccato, attraverso la quale, ovviamente, il dominio deve essere della virtù, comunque declinata a seconda della visione assiologia dei vari summenzionati fratelli: in un senso certamente non pensato dal filosofo dei distinti, Croce aveva veramente ragione quando affermava che “non possiamo non dirci “cristiani” ”, perché, anche questa forma del religioso cova in sé i germi dell’azione dialettica conflittuale-strategica, anche se, evidentemente, non dell’ epifania strategica).

La scienza politica, filosofica e filosofica politica deve quindi aprirsi ad una riconsiderazione sulla rivoluzione scientifica galileana, che non ha solo significato una potente  ribellione contro il dogmatismo medievale e contro gli aspetti più superstiziosi della religione ma anche, se non soprattutto,  in ultima analisi  la trasposizione su un piano scientifico-meccanicistico della visione cristiana (immutabili leggi della natura comprensibili solo attraverso la matematica con la stessa morfologia delle leggi morali comprensibili solo attraverso gli indiscutibili ed eterni dettami contro il peccato il cui monopolio interpretativo è detenuto dalla Chiesa) che ha creato il  concetto di peccato  così come è stato vissuto dalla civiltà occidentale e che, in ultima analisi, non è che la separazione fra il mondo umano malvagio ma condotto dalla divinità ad una salvezza eterna ed il mondo della natura, peccaminoso per definizione, destinato ad una sempiterna  corruzione e alla definitiva cataclismatica distruzione con la fine del mondo ad opera della divinità stessa.

Non essendo pessimista ma dialettico, il Repubblicanesimo Geopolitico è intimamente rivoluzionario e non perché creda, come le ingenue dottrine rivoluzionarie del passato nella bontà dell’uomo (curioso sarebbe credervi visto che non crede alla sua cattiveria; e sotto sotto il marxismo, considerato dal punta di vista della sua visione antropologica, crede operando una vera e propria inversione, ma tutt’altro che dialettica, del pessimismo antropologico cristiano,  in una naturale bontà dell’uomo, solo che il diavolo è stato sostituito dal capitalista mentre la comunità dei santi è stata soppiantata dal proletariato) ma per il semplice fatto che la sua impostazione dialettica rifiuta qualsiasi legalità ossificata e considera lo status quo non come la realizzazione ad aeternum del piano di una provvidenza divina o storica ma semplicemente come la manifestazione dialettica di una totalità che solo nel suo sviluppo conflittuale-dialettico del rapporto del soggetto con l’oggetto (e nell’interscambiabilità, a livello di prassi storica e naturalistica, di questi due momenti, interscambiabilità che qualora trovi un suo cosciente autoriconoscimento di massa, viene definita dal Repubblicanesimo Geopolitico ‘epifania strategica’: epifania strategica che, in un certo senso, altro non è la traduzione realistica ed immanentizzazione della figura nascostamente soteriologica e di pretta ispirazione cristiana del proletariato, visto, prima da Marx e poi anche dalla stragrande maggioranza di coloro che da lui presero ispirazione ignorando la genealogia profonda della sua dottrina, come quel protagonista sociale di massa che avrebbe potuto condurre alla fuoruscita dal capitalismo, giudicato da costoro come il male, come il cristiano giudicava – e giudica – come male la concupiscenza) trova la sua stessa possibilità di esistere e manifestarsi.

Quello che abbiamo appena espresso altro non è, sotto il nostro punto di vista, sotto il duplice aspetto del ragionamento storico-genealogico che più prettamente teoretico dal punto di vista filosofico, la risoluzione di quello che noi abbiamo definito il paradosso Carl Schmitt, paradosso che segnala che la categoria amico/nemico se eccezionale per anatomizzare la vita politica e sociale non si dimostra altrettanto valida per comprenderne la fisiologia e la nostra soluzione del paradosso e che la coppia oppositiva amico/nemico altro non è che una declinazione, molto appariscente e molto importante ma solo una delle tante, dell’azione morfogenetica e dialettica, non solo sulla società e sulla politica ma di tutta la realtà, sia quella culturale che quella fisico-naturale, dell’azione-conflitto strategico. Ovviamente, sarebbe del tutto insensato imputare a Valitutti, come a qualsiasi altro, di non avere sviluppato per contro proprio quello che noi riteniamo la soluzione del paradosso Carl Schmitt (insensato oltre che per il semplice fatto che quello che per una mente appare non diciamo di facile soluzione ma, mettiamola così, “naturale” conseguenza di una serie di dati di fatto, per un’altra è cosa assolutamente assurda e oscura ma anche considerando tutti i pensatori realisti del passato che non giunsero mai ad una proposta ontologica e filosofica che superasse il problema del male nel senso da noi indicato) mentre, riteniamo, non è affatto insensato dal nostro punto di vista imputare a Valitutti una certa qual furberia intellettuale e aver approfittato del paradosso Carl Schmitt per screditarne tutto il pensiero. Su questo punto noi e il La Grange dissentiamo (concediamo magari a Valitutti il coraggio personale di aver “trattato” in un periodo storico in cui la sola accusa di essere fascisti o filofascisti poteva costare la carriera, se non qualcosa di molto peggio, ma non gli concediamo alcun coraggio intellettuale, troppa era la sua foga di voler difendere il liberalismo da un pensatore che egli, evidentemente, riteneva autoritario e molto affine come mentalità a coloro che indubbiamente sfidava trattando uno scomodo pensatore di destra), mentre, come più volte ribadito, a lui ci sentiamo del tutto vicini nell’aver compreso – e detto in ogni occasione a chiare lettere – che l’attuale narrazione liberale e democratica basata a livello ideologico sulla metafisica ipostatizzazione dei diritti umani e politici di derivazione illuminista non sta più letteralmente in piedi. E di questa consapevolezza possiamo per rendercene conto anche da quest’ultima recensione cumulativa.

«Nel discorso di Antigone è, di conseguenza, invertito il rapporto tra politica e diritto: per cui quella non domina questo, ma piuttosto vi è sottomessa; onde non vale il ricordato detto salus rei publicae suprema lex, ma piuttosto il fiat justitia, pereat mundus in cui la justitia è ciò che appare tale al cittadino. Anche in ciò la “modernità” di Creonte, rispetto ad Antigone è evidente: mentre la sua scelta ha carattere pubblico, perché, come sostiene Freund, il pubblico è in primo luogo, affermazione dell’unità, la seconda porta ad una scelta e ad un esito dissolutorio, essenzialmente riconducibile al  privato. […] La depolitizzazione, è anche, e in primo luogo, una privatizzazione: mentre gli “espropriati” non rappresentano che se stessi essendo (ridotti a) privati, chi esercita il potere pubblico rappresenta (e garantisce) l’unità politica. La modernità della posizione di Creonte quindi consegue alla capacità di assicurare l’unità e l’ordine politico-sociale. A cui è essenziale l’esercizio del comando: rapporto umano tra uomo ed uomo, l’uno che comanda, l’altro che obbedisce. Tutte considerazioni che sarebbero emerse e formulate, in modo chiaro e distinto, da Thomas Hobbes. […] Nello stesso tempo potere, comando, obbedienza, (coazione) sono rapporti tra uomo ed uomo e non tra uomo e norma, né tra uomo e divinità. Per far punire Creonte infatti Sofocle fa intervenire (anche se non in forma di personaggio teatrale) il potere soprannaturale: a un potere umano assoluto si può opporre solo un potere ancor più forte, che però non può essere umano. Ovviamente essendo l’intervento soprannaturale escluso in una visione moderna e quindi secolarizzata della politica e dello Stato, la sola “visione” proponibile è quella di Creonte.[…] In un certo senso [la posizione di Antigone, ndr] non è neppure assimilabile ad una visione cristiana. Se il cristianesimo riconosce una legge divina, ha tuttavia conferito carattere d’istituzione divina anche all’autorità umana, mentre connotati della posizione di Antigone sono l’istituzione divina della legge, ma il carattere totalmente umano dell’autorità e, accanto, la riserva della decisione alla persona. Nella teologia cristiana, di converso, è considerata istituzione divina anche l’autorità umana, come consegue sia dal notissimo passo dell’ “Epistola ai romani” di S. Paolo (13,1) sia dalle note frasi del Vangelo  per cui giuristi come Hauriou e Carré de Malberg hanno distinto tra dottrina del diritto divino soprannaturale e del diritto divino provvidenziale sostanzialmente riprendendo le tesi principali sul punto della teologia politica cristiana moderna. Ciò ha fatto si che l’appello alla legge divina, in una società cristiana, non sia un fatto di giudizio personale, ma circondato di condizioni e requisiti. La trattazione del tirannicidio e della seditio ne è un esempio: quasi tutti i teologi sia cattolici che protestanti legittimano l’uno e/o l’altro se vi sia una volontà pubblica prevalente orientata a detronizzare il tiranno, perché tota respublica superior est rege, il tutto peraltro a certe condizioni, differenti se il tiranno è tale absque titulo o quo ad regimen; e, ciò che costituisce la differenza essenziale, la “contestazione” dell’autorità è sempre fatta in funzione e in vista di un’autorità diversa, in un contesto cioè istituzionale; e avente carattere pubblico piuttosto che di rivendicazioni/istanze private, come, in larga misura, appaiono quelle di Antigone. Mentre la posizione di Creonte si colloca all’interno (ed in funzione) di un gruppo sociale umano, con i di esso modelli di ordine, presupposti e rapporti e la relativa concretezza, quella di Antigone, come detto, è un rapporto della coscienza con la divinità (la legge, la norma), ovvero con una dimensione ed entità ideale e (se non) astratta.»

 

Nelle Ragioni di Creonte di cui abbiamo appena riportato un’ampia citazione è proprio evidente con cristallina chiarezza che il La Grange non ha nessuna intenzione di cedere alla sirene ideologiche universalistiche (e favolistiche) del pensiero liberaldemocratico, talché non solo il brano riportato ma  tutte Le ragioni di Creonte possono essere riassunte dalla citazione ciceroniana molto opportunamente inserita nel testo salus rei publicae suprema lex. E con questa tanti saluti (si fa per dire, ma nemmeno più di tanto) del La Grange non solo dal punto di vista teorico alle suddette fantasticherie tutte incentrate sull’individualismo metodologico ma, assai più concretamente dal punto di vista della professione di La Grange, che ricordiamo è avvocato, giurista e giuspubblicista, anche all’idolatria messa in atto in Italia come all’estero nel perimetro delle c.d. democrazie rappresentative verso le costituzioni scritte, le quali sono tutte, taluna di più talaltra di meno, conformate ai principi politici universalistici di derivazione illuminista e all’individualismo metodologico liberale (a proposito della commiserazione del Nostro per l’ideologia costituzionale, La Grange alla nota 20 di  Machiavelli citando Louis De Bonald scrive:

«Tra cui citiamo Louis de Bonald il quale scrisse, in polemica con un libro di M.me de Staël che “La costituzione di un popolo è il modo della sua esistenza; e chiedersi se un popolo con quattordici secoli di storia, un popolo che esiste, ha una costituzione, è come interrogarsi, quando esiste, se ha il necessario per esistere; è come chiedere ad un arzillo ottuagenario se è costituito per vivere… La nazione era costituita, e così ben costituita, che essa non ha mai chiesto a nessuna nazione vicina la protezione della sua costituzione… proprio perché la Francia aveva una costituzione ed una costituzione solida, si è ingrandita un re dopo l’altro, anche quando questi erano dei deboli, sempre invidiata mai scalfita; spesso turbata mai piegata; uscendo vittoriosa dai rovesci più imprevedibili con i mezzi più insospettati, e non potendo perdersi che per una mancanza di fiducia nella propria fortuna” ed aggiunge “Una costituzione completa e ben congegnata non è quella che si arresta davanti ad ogni difficoltà, che le passioni umane e la varietà degli eventi possono far nascere, ma quella che prevede il mezzo di risolverli quando questi si presentano: come il fisico robusto non è quello che impedisce e previene le malattie, ma quello che da la forza di resistervi, e di ripararne prontamente i danni” v. Louis de Bonald, Observation ur l’ouvrage de M.me la Baronne de Stael, trad. it. di Teodoro Katte Klitsche de la Grange, La Costituzione come esistenza, Roma 1985, pp. 35-36.»).

 

Ma rafforzati anche da quest’ultima illuminazione di La Grange che attraverso la spassosa metafora debonaldiana del vecchietto che magari perché ignaro dei sacri principi della medicina e della biologia non dovrebbe essere nemmeno vivo (e quindi l’odierna Inghilterra siccome non possiede una costituzione scritta portando alle estreme conseguenze i deliri ideologici dell’odierna vulgata costituzionalista dovrebbe apparire, tuttalpiù, come  una informe serie di villaggi perennemente in guerra fra loro e dominati al loro interno come nei rapporti fra  loro dalla hobbessiana legge dell’ homo homini lupus), torniamo alla nostra precedente citazione presa dalle Ragioni di Creonte e riproponiamo all’attenzione la chiusura di questa:

 

«Ciò ha fatto si che l’appello alla legge divina, in una società cristiana, non sia un fatto di giudizio personale, ma circondato di condizioni e requisiti. La trattazione del tirannicidio e della seditio ne è un esempio: quasi tutti i teologi sia cattolici che protestanti legittimano l’uno e/o l’altro se vi sia una volontà pubblica prevalente orientata a detronizzare il tiranno, perché tota respublica superior est rege, il tutto peraltro a certe condizioni, differenti se il tiranno è tale absque titulo o quo ad regimen; e, ciò che costituisce la differenza essenziale, la “contestazione” dell’autorità è sempre fatta in funzione e in vista di un’autorità diversa, in un contesto cioè istituzionale; e avente carattere pubblico piuttosto che di rivendicazioni/istanze private, come, in larga misura, appaiono quelle di Antigone. Mentre la posizione di Creonte si colloca all’interno (ed in funzione) di un gruppo sociale umano, con i di esso modelli di ordine, presupposti e rapporti e la relativa concretezza, quella di Antigone, come detto, è un rapporto della coscienza con la divinità (la legge, la norma), ovvero con una dimensione ed entità ideale e (se non) astratta.»

 

Interessantissimi (tutti) gli spunti che possiamo cogliere in queste parole ed alcuni veramente rivoluzionari ed iconoclasti (iconoclasti ovviamente rispetto alle idiozie che ci vengono di solito propalate del discorso politico, politologico e/o filosofico politico e non certo verso gli autentici valori della tradizione cristiana-occidentale di cui Teodoro Klitsche de la Grange, come Carl Schmitt del resto, è profondo conoscitore ed ardente estimatore). Analizziamo i principali partitamente. Innanzitutto che la tradizione cristiana ammette la detronizzazione del tiranno (e noi aggiungiamo anche il tirannicidio, ma la Grange proprio per una sua personale avversione alle soluzioni violente  non lo dice e ci permettiamo di dirlo noi) qualora il tiranno non sia stato legittimato da un superiore contesto istituzionale o da una superiore legge morale che, però, a differenza dell’attuale ideologia dirittoumanistica, non deve essere una legge superiore che garantisce gli ipostatici ed individualistici  diritti umani e/o politici (sempre individualisticamente intesi) ma una legge superiore che in un consolidato  contesto dal punto di vista tradizionale ed autoritativo garantisce la vita ordinata della comunità. È chiaro che qui come Stimmung siamo dalle parti di un certo Carl Schmitt e del suo konkrete Ordnungsdenken. Ma il punto veramente potenzialmente rivoluzionario (ed intrinsecamente dialettico per le conseguenze che ne derivano) è dove La Grange afferma: «Mentre la posizione di Creonte si colloca all’interno (ed in funzione) di un gruppo sociale umano, con i di esso modelli di ordine, presupposti e rapporti e la relativa concretezza, quella di Antigone, come detto, è un rapporto della coscienza con la divinità (la legge, la norma), ovvero con una dimensione ed entità ideale e (se non) astratta.» Dal nostro punto di vista, il momento rivoluzionario non sta tanto nel fatto che qui l’eroe diventa Creonte piuttosto che Antigone, portatore quest’ultimo, in ultima analisi, di istanze unicamente personalistiche, se fosse solo per questo saremmo qui in presenza solo di un giudizio iconoclasta rispetto alla consolidata vulgata che afferma il contrario, quello che è veramente rivoluzionario, sia rispetto alla tradizione cristiana e contemporaneamente rispetto alla tradizione giusnaturalistica diritto umanistica, è che il Salus rei publicae suprema lex esto (motto, ricordiamo così tangenzialmente, posto anche nello stemma dell’esercito italiano) viene sottratto sia da qualsiasi ipotesi giustificatoria dirittoumanistica ma  anche da una dimensione, almeno così come astrattamente intesa da Antigone, divina, così che il risultato è che, apparentemente, questa salvezza o salute della comunità e/o delle istituzioni che la governano rischia di rimanere appesa nel vuoto ed il concreto Creonte (concreto e positivo per La Grange, come anche per noi) rischia di navigare in un vuoto etico e morale e diventare, nonostante le sue migliori intenzioni, proprio un tiranno (cosa che La Grange proprio non pensa che sia come non lo pensiamo noi). E allora? E allora noi, dal nostro punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico, in ossequio all’ideale limite operativo dell’epifania strategica, nonché conseguenti (almeno su questo speriamo di essere giudicati coerenti)  proponiamo in via euristica la (non piccola) modifica del motto ciceroniano  salus rei publicae suprema lex in salus belli suprema lex (sperando, con ciò, ovviamente, di non far credere che  si voglia la guerra civile o che si sia nostalgici dei guerrafondai di cartone o che   ci si senta nietzscheanamente   investiti di qualche superomistico compito storico: molto più semplicemente si spera di essere compresi nel nostro considerarci modesti eredi di una filosofia della prassi i cui eroi abbiamo qui già citato ed anche nei nostri precedenti lavori…).

 

Che la salute (o la salvezza) del conflitto  (detto ancor più chiaramente e con il nostro lessico: dell’azione-conflitto dialettico-strategico,  generatore non solo della società ma anche del mondo fisico naturale e che viene  dal Repubblicanesimo Geopolitico definito ‘epifania strategica’ qualora venga riconosciuto ed apprezzato positivamente attraverso il suo (auto)riconoscimento di massa e giungendo così alla sua piena entelechia     – una epifania strategica così intesa che ha molto a che spartire con la monolitica e primigenia – ma non totalitaria! – concezione schmittiana della sovranità e con l’idea gramsciana di egemonia: per questo raffronto – e profonda analogia –  fra il concetto schmittiano di sovranità e il concetto gramsciano di egemonia cfr.: Andreas Kalivas, Hegemonic sovereignty: Carl Schmitt, Antonio Gramsci and the constituent prince, “Journal of Political Ideologies” (2000), 5(3), pp.343-376; URL https://www.scribd.com/document/36412380/Kalyvas-Andreas-2000-Hegemonic-Sovereignty-Carl-Schmitt-Antonio-Gramsci-and-the-Constituent-Prince ; WebCite: http://www.webcitation.org/71QHstIbT e

http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fwww.scribd.com%2Fdocument%2F36412380%2FKalyvas-Andreas-2000-Hegemonic-Sovereignty-Carl-Schmitt-Antonio-Gramsci-and-the-Constituent-Prince&date=2018-08-04. File caricato anche su InternetArchive agli URL:  https://archive.org/details/HegemonicSovereigntyCarlSchmittAntonioGramsciAndTheConstituentPrince e

https://ia601501.us.archive.org/22/items/HegemonicSovereigntyCarlSchmittAntonioGramsciAndTheConstituentPrince/36412380-Kalyvas-Andreas-2000-Hegemonic-Sovereignty-Carl-Schmi.pdf) sia il più o meno riconosciuto orizzonte limite di La Grange c’è fortemente da dubitare,  vista sia la sua salda appartenenza ad una sorta di liberalismo “forte”, indubbiamente quello stesso liberalismo “forte” impregnato di pensiero realista, cui lo stesso Valitutti faceva riferimento in polemica con Schmitt ma che in Valitutti trovava ben misera espressione mentre in La Grange l’innesto è assai più vigoroso e del tutto consapevole ed ammesso (Valitutti non amava Schmitt mentre per La Grange il pensatore di Plettenberg è un faro guida; in Valitutti il respingimento di Carl Schmitt da luogo in La politica come destino a mediocri banalità; in tutta la produzione di La Grange il pensiero di Carl Schmitt da luogo a meravigliose contraddizioni e punti di crisi che sono per noi fondamentali per cercare di spingere oltre il pensiero di Carl Schmitt); ed è da dubitare, anzi siamo del tutto sicuri, visto che la sua vicenda culturale e umana è conclusa da tempo, che l’ ‘epifania strategica’ fosse l’obiettivo limite di Carl Schmitt. Ma come assisteremo nel gioco di rispecchiamento finale con Amleto o Ecuba, vedremo che l’epifania strategica costituisce veramente il “tabù della regina” del pensiero schmittiano. Non tanto quindi per attribuire ad altri pensieri e propensioni che sono solo nostre ma per confermare l’estrema densità del pensiero realista di La Grange, riteniamo che la seguente citazione da Note su Costituzione e interpretazione costituzionale, 2° parte, intervento di La Grange anch’esso incluso in  quest’ultima recensione cumulativa, sia una delle più significative per delineare un pensiero intrinsecamente dialettico connotato da un incipiente manifestarsi di una consapevolezza dissolvente vecchi ed ossificati “distinti”: ragione vs autorità (e implicitamente forza-violenza vs astratta razionalità), e quindi intimamente strategica e così veramente rivoluzionaria nella sua forza di rinnovamento delle “categorie del realismo”:

 

«Avendo sostenuto Baldassarre “che l’antica massima hobbesiana –vero manifesto del positivismo giuridico in tutte le sue forme – auctoritas, non veritas, facit legem sia ormai inattuale. Se ne  deve concludere che nello stato costituzionale di diritto “ratio, non auctoritas, facit legem”. Una tale tesi non è condivisa da Guastini: “La tesi che il diritto nasca non dall’autorità, ma dalla “verità” o dalla “ragione” (così sostiene Baldassarre), significa che le norme giuridiche sono il prodotto non di atti di volontà, bensì di atti di conoscenza: di conoscenza, dobbiamo supporre, non della (eterna) “natura” umana, bensì dei “costumi” e della “coscienza sociale”. E ciò implica che le norme giuridiche – proprio come le proposizioni scientifiche – possono dirsi vere o false. Tesi classica dei giusnaturalisti, d’altronde, i quali disgraziatamente non hanno mai saputo indicare a noi, poveri giuspositivisti, quali mai possono essere i criteri di verità degli enunciati del discorso prescrittivo […]”. Tuttavia sia che si tratti d’interpretare norme, sia di applicare principi (e/o valori) le due posizioni si riferiscono entrambe al diritto statuito (e scritto) tralasciando così tutto ciò che non è scritto né statuito. Quanto all’altra questione – che più interessa ai fini del presente scritto – se il diritto nasca dall’autorità o dalla ragione (verità), occorre appena ricordare che un simile dilemma (se la legge sia atto della volontà e dell’intelletto) era stato largamente dibattuto dai teologi e la soluzione che dava Suarez non era un “aut…aut” ma un “et…et”, nel senso che la legge era atto sia d’intelletto che di volontà. La legge positiva è sia  ratio che voluntas; che sia la seconda è evidente; e che presupponga (e incorpori) anche la ratio (quasi altrettanto) evidente, giacché una legge bizzarra e/o superflua non è suscettibile di esecuzione e coazione, diventando così una bizzarria normativa, non potendo essere un comando eseguibile. Se, come sostiene chi scrive, la costituzione non è (solo) un atto, e spesso neanche scritto, resta da vedere come si possa interpretare/applicare ciò che non è né scritto né statuito.»

 

La Grange mostra di non credere nell’hobbessiano auctoritas non veritas facit legem (Leviatano, 1651, parte 2°, cap. 26°)  ma non crede neppure nella meccanica inversione del detto hobbessiano nel “ratio, non auctoritas, facit legem” – per quanto anche dalla precedente cumulativa abbiamo visto che La Grange propende per il pensiero istituzionalista, il suo istituzionalismo non significa certo un arretramento, come nello Schmitt, verso un’ involuzione dell’impostazione decisionista manifestatasi nel giuspubblicista di Plettenberg nell’ Über die drei Arten des rechtwissenschaftlichen Denkens cit. , ma, molto saggiamente, il radicale ed intransigente rifiuto del positivismo giuridico di stampo normativista alla Kelsen e delle sue successive ed inevitabili ulteriori volgarizzazioni ideologiche così come praticate da tutti i ceti semicolti (di sinistra ma anche di destra, nessuno escluso). E allora?

 

E allora forse, forse un “tabù della regina”, forse un nano gobbo nascosto sotto la scacchiera, forse una verità così elementare che nella sua bellezza e dialetticità è sempre stata conosciuta ma mai esplicitamente (auto)riconosciuta, potremmo forse affermare che la profonda verità nascosta nei testi del La Grange e di tutti i grandi realisti, Schmitt in primo luogo, è bellum, non veritas, facit legem, et facit societatem, et facit naturam, et facit veritatem?

 

«Eppure, è necessario distinguere e separare il Trauerspiel dalla tragedia, perché non vada perduta la specifica qualità del tragico e non scompaia, data la nozione di gioco implicita in Trauerspiel, la serietà della vera azione tragica. Esiste oggi un’importante filosofia, e perfino una teologia, del gioco. Ma c’è stata anche un’autentica forma di religiosità, che ha concepito se stessa, e l’esistenza mondana nella sua dipendenza da Dio, come un «gioco di Dio», secondo quanto si afferma nel canto della Chiesa evangelica: «in Lui tutte le cose hanno il loro fondamento ed il loro fine,/ed anche tutto ciò che l’uomo compie è un grande gioco di Dio.» Lutero, seguendo i cabalisti, ha parlato del gioco che tutti i giorni, per alcune ore, Dio gioca con il Leviatano. Un teologo luterano, Karl Kindt, ha spiegato il dramma di Shakespeare come «un’opera wittemberghese» ed ha fatto di Amleto un «attore di Dio». Teologi di entrambe le confessioni citano i versetti 30-31 del capitolo VIII dei Proverbi di Salomone, che nella traduzione di Lutero suonano: «quando gettava le fondamenta di tutte le cose, io ero presso di Lui come architetto, e mi compiacevo giorno per giorno, e giocavo (spielte) di continuo in Sua presenza; e giocavo (spielte) sul globo della terra. Nella Vulgata si dice: «ludens in orbe terrarum». Non è questa la sede per interpretare questo oscuro passo biblico, né per trattare il rapporto della liturgia ecclesiastica e del Suo sacrificio con un concetto tanto profondo di gioco. L’opera di Shakespeare, in ogni caso, non ha nulla a che fare con la liturgia della Chiesa: essa non ha né rapporti con la Chiesa né, al contrario del teatro francese classico, si situa nello spazio delimitato dalla sovranità dello Stato. L’idea che Dio giochi con noi può esaltarci in una teodicea ottimistica tanto quanto sprofondarci nell’abisso di una disperata ironia o di un agnosticismo privo di certezze. Lasciamo quindi da parte questo versante del problema. Del resto, proprio il termine tedesco Spiel presenta un’infinità di aspetti e rivela la possibilità di accezioni anche antitetiche. Un uomo che – seguendo le note di uno spartito, manoscritto o stampato – tocchi col suo archetto il violino, soffi nel flauto o batta sul tamburo, definisce tutto ciò che, seguendo le sue note, viene così facendo, in un modo solo: «suonare» (spielen). Chi colpisce un pallone secondo regole determinate afferma di  «giocare» (e parimenti usa il verbo spielen). Piccoli fanciulli e vivaci gattini «giocano» in modo particolarmente intenso, e lo stimolo a giocare deriva loro dal fatto che non giocano secondo regole rigide, ma in tutta libertà. Così – dalle opere dell’Altissimo, onnisciente e onnipotente, fino agli impulsi delle creature irrazionali – tutto l’ambito del possibile, incluse anche tutte le possibili contraddizioni, viene ricondotto al concetto di Spiel. Rispetto a tale soluzione indeterminata, restiamo dell’opinione che – almeno per quanto riguarda noi miseri mortali – nel gioco c’è la  negazione del caso serio. Il tragico cessa là dove comincia il gioco, anche se questo è un gioco che porta al pianto, anche se è un gioco triste per spettatori tristi, anche se è un Trauerspiel profondamente coinvolgente. Non è assolutamente possibile trascurare, almeno per quanto riguarda il Trauerspiel shakespeariano, che il tragico è per sua essenza non «giocabile»; in Skakespeare, invece, perfino nelle sue cosiddette tragedie, viene alla luce, appunto, un carattere di gioco.» (Carl Schmitt, Amleto o Ecuba cit., pp. 79-82).

 

Se già dalle prime parole dell’Amleto o Ecuba Carl Schmitt aveva sciolto in maniera alquanto semplicistica il tabù della regina affermando che nel dramma shakespeariano il problema della colpevolezza o correità della regina nell’assassinio del marito viene, in sostanza, eluso e rimosso in ragione dell’inopportunità politica di rappresentare l’assassinio del marito per via delle allusioni che avrebbero potuto investire la figura di Maria Stuarda e  conferendo quindi all’Amleto, attraverso un inquadramento così poco eroico e da mestierante teatrale all’autore del dramma, una dimensione assai poco poetica e molto prosaica, nel passo appena citato siamo trasportati in tutt’altra dimensione, una dimensione dove è fondamentale Il dramma barocco tedesco di Walter Benjamin (Walter Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, Berlin, Ernst Rowohlt Verlag, 1928; trad. it. Il dramma barocco tedesco, Torino, Einuadi, 1971), nel quale Benjamin traccia una netta demarcazione fra tragedia classica, che implicava la credenza nel mito e in un mondo di valori basati su una realtà oltreumana (tanto per fare un esempio attinente a questa rassegna critica, Antigone è il tipico esempio di tragedia classica basata nella credenza di valori eterni la cui tutela  va ben oltre la pur necessaria, ma subordinata, salvezza dello Stato) e il dramma moderno, che è caratterizzato da un’agire dei personaggi  che hanno perso un qualsiasi rapporto con la trascendenza e in cui il gioco, anche se luttuoso (Trauerspiel, traducibile oltre che come ‘dramma’ anche come ‘gioco luttuoso’), cioè lo scontro e gli intrighi dei protagonisti, non ha alcun punto d’appoggio esterno che lo possa giustificare se non il raggiungimento degli obiettivi posti, unico fine e giustificazione vera dell’azione stessa. Da ciò, cioè dalla perdita della dimensione mitica del rapporto col mondo extraumano, deriva, secondo Benjamin, che la tragedia classica trova la sua dimensione espressivo-culturale nel simbolo mentre il dramma moderno, il ‘gioco luttuoso’ del Trauerspiel ( o nella traduzione italiana, il ‘dramma barocco’, traduzione giustificata dal fatto che il Dramma barocco tedesco riguarda espressamente l’estetica del periodo barocco) nell’allegoria. Leggiamo dal prima parte del capitolo “Allegoria e dramma barocco” del Dramma barocco tedesco:

 

«In questo movimento eccentrico e dialettico l’interiorità senza  opposizioni del classicismo non gioca alcun ruolo perché i problemi attuali del Barocco in quanto dimensione politico-religiosa non riguardavano tanto l’individuo e la sua etica, quanto la sua appartenenza alla comunità ecclesiale. Contemporaneamente al concetto profano di simbolo, proprio del classicismo, viene formandosi il suo pendant speculativo, quello dell’allegoria. È vero che una dottrina vera e propria dell’allegoria non vide la luce allora, né mai era esistita in precedenza. Definire  «speculativo» il nuovo concetto di allegoria è nondimeno giustificato, poiché esso si propone in effetti come lo sfondo oscuro sul quale si doveva staccare il mondo luminoso del simbolo. Alla pari di molte altre forme espressive, l’allegoria non perde il suo significato per il semplice di  «invecchiare». Piuttosto, anche qui come in molti altri casi entra in gioco un antagonismo tra il significato più antico e il più recente, un antagonismo tanto più incline a risolversi  nel silenzio in quanto privo di concetti, profondo e radicale. […]  Mentre  nel simbolo, con la trasfigurazione della caducità, si manifesta fugacemente il volto trasfigurato della natura nella luce della redenzione, l’allegoria mostra agli occhi dell’osservatore la facies hippocratica della storia come irrigidito passaggio originario. La storia in tutto ciò che essa ha  fin dall’inizio di immaturo, di sofferente, di mancato, si imprime in un volto, anzi: nel teschio di un morto.  E se è vero che ad esso manca ogni libertà  «simbolica» dell’espressione, ogni armonia classica della figura, ogni umanità, in questa figura – che è fra le tutte la più degradata – si esprime significativamente sotto forma di enigma, non solo la natura dell’esistenza umana in generale, ma la storicità biografica di una singola esistenza. È questo il nucleo della visione allegorica, della esposizione barocca, profana della storia come via crucis mondana: essa ha significato solo nelle stazioni del suo decadere. Tanto è il significato quanto è l’abbandono alla morte, perché è proprio la morte a scavare più profondamente la linea di demarcazione tra physis e significato. Ma se la natura è da sempre esposta alla morte, allora essa è allegorica da sempre. Il significato e la morte maturano nello sviluppo della storia, così come sono contenuti in germe, l’uno nell’altro, nello stato peccaminoso e senza grazia della creatura.» (Walter Benjamin, Il dramma barocco tedesco, Torino, Einuadi, 1999, pp. 135-141).

 

Se andiamo bene a leggere l’ultima citazione dell’Amleto o Ecuba, vediamo che centrale in quest’opera dello Schmitt non è tanto giustificare in maniera banale il “tabù della regina” ma esprimere, anche se in maniera forse non del tutto consapevole e forse proprio ostacolato dal suo peculiare  “tabù della regina”, la natura giocosa (anche se si tratta di un gioco luttuoso) dello spirito dell’Amleto, una riflessione quella di Schmitt quindi di carattere prettamente estetico che sembrerebbe alquanto lontana dagli interessi di un giuspubblicista come Carl Schmitt, mentre di spirito prettamente realista, anche se di un livello molto basso, è la tesi che apparentemente sostiene l’Amleto o Ecuba di un Shakespeare che non ha trovato nulla di meglio per ragioni di opportunità politica di far agire Amleto in maniera incoerente risparmiando la madre del principe di Danimarca dalla sua vendetta. Ma proprio questo è il punto: il punto è cioè che nell’Amleto o Ecuba convivono due tabù, il primo quello denunciato espressamente nel saggio mentre il secondo ci viene proprio rivelato dalle appena citate considerazioni in merito a Shakespeare e al suo dramma luttuoso, che sono anche considerazioni di tipo estetico ma che, in nuce, nascondono il vero interesse, forse nemmeno del tutto chiaro al giuspubblicista di Plettenberg, che Schmitt ha per l’Amleto, cioè che  il  dramma “giocoso” shakespeariano possa essere una sorta di schema speculare – o addirittura forse antecedente – alla fondamentale categoria del politico dell’amico/nemico, uno schema speculare o antecedente che dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico chiamiamo azione dialettica conflittuale-strategica (o azione-conflitto dialettico-strategico)  e una evoluzione teorica della sua categoria dell’amico/nemico che Schmitt non ebbe mai il coraggio di elaborare fino in fondo.

 

Ed è fondamentale sottolineare che nella formulazione nell’Amleto o Ecuba di questa possibile consapevolezza aurorale   della primigenia categoria del politico dell’azione-conflitto dialettico-strategico  – nonché anche della profonda avversione e disgusto verso questo baluginare di nuova consapevolezza teorica –  un ruolo fondamentale abbia giocato il Dramma barocco tedesco di Walter Benjamin, forse percependo Schmitt  questa  potenziale evoluzione teorica della categoria amico/nemico profondamente influenzato dalla portata non solo luttuosa ma anche necròfora della concezione benjaminiana dell’allegoria legata indissolubilmente al dramma moderno, alla sua dimensione di gioco – noi diciamo: alla sua dimensione di azione strategica – , legata, in definitiva, all’assenza di una qualsiasi possibilità di salvezza, prospettiva che doveva profondamente ripugnare al cattolico controriformista Carl Schmitt?; addirittura, l’ultimo capitolo dell’Amleto o Ecuba, “l’Excursus II”, reca come sottotitolo “Sul carattere barbarico del dramma Shakesperiano. A proposito del “Dramma barocco tedesco” di Walter Benjamin” e nell’Excursus II, accanto alle tematiche geopolitico-filosofiche che hanno caratterizzato l’ultima parte della produzione dello Schmitt – e della quale il Nomos della terra è una sorta di summa – e colleganti la novità del dramma luttuoso shakespeariano  al passaggio dell’Inghilterra da vecchio nomos della terra ad una concezione della spazialità e della sovranità tipica di una potenza marittima –   «Il dramma shakespeariano rientra nella prima fase della rivoluzione inglese, se questa la facciamo cominciare –  come è possibile e sensato – dalla distruzione dell’Armada nel 1588 e terminare con la cacciata degli Stuart  nel 1688. Durante questi cento anni sul continente europeo si sviluppa, dalla neutralizzazione delle guerre civili di religione, un nuovo ordine politico, lo Stato sovrano, un imperium rationis come lo chiama Hobbes, ovvero, come afferma Hegel, un regno – non più teologico – della ragione oggettiva, la cui ratio pone fine all’epoca degli eroi, al diritto eroico, alla tragedia eroica (Hegel, Filosofia del diritto,  §§ 93 e 218).»: Carl Schmitt, Amleto o Ecuba cit, pp. 112-113 (2) –, vediamo anche espressamente riconosciuta l’importanza per Carl Schmitt dal punto di vista filosofico-politico di  Walter Benjanin e del suo  Dramma barocco tedesco:  «Walter Benjamin tratta la differenza fra Trauerspiel e tragedia (Il dramma barocco tedesco, trad. it., Torino, Einuadi, 1971, pp. 42-165) e parla, giusta il titolo del suo libro, soprattutto del dramma barocco tedesco. Ma l’opera è ricca di importanti osservazioni e di acuti giudizi, sia sulla storia dell’arte e sulla storia delle idee in generale, sia anche sul dramma shakespeariano ed in particolare su Amleto. Particolarmente feconda mi sembra la caratterizzazione di Shakespeare nel capitolo Allegoria e dramma barocco, dove si dimostra che l’allegoria in Shakespeare è essenziale quanto l’elementare. «Qualunque espressione elementare della Creatura diventa significativa [in Shakespeare] attraverso la sua esistenza allegorica e tutto quello che è allegorico acquista energia attraverso  l’elementarità del mondo dei sensi» (p. 249) Di Amleto si dice che  «nella chiusura di questo dramma [Trauerspiel] balena, in esso incluso e, certo, anche in esso superato, il dramma del destino» (p. 140)».: Carl Schmitt, Amleto o Ecuba cit., pp. 109-110).

 

«Perché a questo attore scorrono/le lacrime dagli occhi?/Per Ecuba!/Che cosa è Ecuba per lui?/E lui per Ecuba?/Che cosa farebbe dunque, se avesse perduto/quel che ho perduto io?/Se avesse avuto il padre assassinato/e gli fosse stata strappata una corona?».

 

Queste battute sono tratte dal monologo di Amleto, atto II, scena 2° dal testo del 1603 della tragedia di Shakespeare e furono messe da Carl Schmitt in esergo del suo Amleto o Ecuba, e rappresentano la strana reazione di Amleto di fronte alla capacità degli attori (da lui convocati per mettere in atto, a loro insaputa, la trappola per topi: gli attori avrebbero dovuto recitare una tragedia la cui trama, del tutto analoga alla vicenda dell’uccisione del padre del principe di Danimarca, avrebbe dovuto far perdere una volta rappresentata di fronte agli assassini del padre il loro autocontrollo e quindi costituire la prova del loro delitto) di provare, o mostrare di provare, maggiore dolore per la morte di Ecuba –  personaggio fittizio e che con loro aveva, evidentemente, solo il rapporto di essere un fantasma evocato dalla finzione teatrale –  che Amleto per la morte reale di suo padre. Nel capitolo dell’Amleto o Ecuba “Il dramma nel dramma: Amleto o Ecuba”, Carl Schmitt svolgendo l’esegesi di questo monologo di Amleto e dello spettacolo nello spettacolo del III atto (la trappola per topi) mostra che finalmente è riuscito a dare un’interpretazione assolutamente meno banale del “tabù della regina” e con essa che forse, ma è solo una nostra interpretazione, a sciogliere anche il suo personale “tabù della regina” che gli impediva una evoluzione della sua “categoria del politico” amico/nemico:

 

«L’attore che declama davanti ad Amleto la morte di Priamo, piange per Ecuba. Ma Amleto non piange per Ecuba; con un po’ di stupore, egli scopre che vi sono uomini i quali, nell’esercizio della loro professione, piangono per cose a cui, nella realtà effettuale della loro esistenza e nella loro vera condizione sono del tutto indifferenti, per cose, cioè, che non li riguardano. Amleto si avvale di questa esperienza per rimproverarsi aspramente, per riflettere sulla propria situazione e per sospingersi ad agire, ad adempiere la propria missione di vendetta. Non è pensabile che Shakespeare, in Amleto, avesse come unica intenzione di fare del suo Amleto un’Ecuba, di farci piangere su Amleto come l’attore piange sulla regina di Troia. Ma noi finiremmo davvero col piangere allo stesso modo per Amleto come per Ecuba, se volessimo separare la realtà della nostra esistenza presente dalla rappresentazione teatrale. [evidenziazione nostra] Le nostre lacrime sarebbero in tal modo lacrime di attori. Non avremmo più nessuna causa e nessuna missione, e le avremmo sacrificate per godere del nostro interesse estetico al gioco del dramma.  Ciò sarebbe grave, poiché dimostrerebbe che a teatro abbiamo altri dèi che al fòro o sul pulpito. Il teatro nel teatro del III atto di Amleto non solo non è uno sguardo dietro le quinte, ma, al contrario, è lo spettacolo stesso, per una volta davanti alle quinte. Ciò presuppone la presenza di un fortissimo nucleo di realtà e di attualità. In caso contrario, infatti, il raddoppiamento renderebbe il gioco del dramma ancora più teatrale, sempre più inverosimile e artificioso: un dramma sempre più falso, fino a diventare, in conclusione, una «parodia di sé stesso». Soltanto un fortissimo nucleo di attualità sopporta la doppia messa in scena di un teatro dentro il teatro. Ci può ben essere dramma nel dramma, ma  non si dà tragedia nella tragedia. Il teatro nel teatro nel III atto di Amleto è pertanto una prova grandiosa ed esemplare del fatto che un nocciolo di attualità e di realtà storica presente – l’assassinio del padre di Amleto/Giacomo ed il matrimonio della madre con l’omicida – ha avuto la forza di esaltare il gioco drammatico in quanto tale, senza distruggere il tragico. Diviene allora tanto più decisivo per noi il sapere che quest’opera, Amleto principe di Danimarca – che suscita sempre nuovo fascino, proprio in quanto gioco drammatico –, non si risolve in  gioco senza residui. Esso contiene altro, oltre agli elementi del gioco drammatico, che è allora, in questo senso, non compiuto. La sua unità di tempo, luogo e azione non è conchiusa, e non dà luogo ad un processo autosufficiente. Presenta anzi due grandi varchi, attraverso i quali irrompe un tempo storico nel tempo ludico: e l’imprevedibile flusso di sempre nuove possibilità interpretative, di sempre nuovi e del tutto insolubili enigmi, penetra in quello che, per il resto, è davvero gioco drammatico. Le due irruzioni – il tabù che vela la colpa della regina e la deviazione della figura del vendicatore, che ha condotto all’amletizzazione dell’eroe – sono due ombre, due punti oscuri. Non sono per nulla semplici implicazioni storico-politiche, né mere allusioni, e neppure veri e propri rispecchiamenti: sono realtà, recepite e rispettate nel gioco del dramma, che proprio intorno ad esse gira timidamente. Esse disturbano il carattere disinteressato del puro gioco, e sono quindi, da questo punta di vista, un minus. Ma hanno fatto sì che il personaggio teatrale di Amleto sia potuto diventare un autentico mito, e pertanto sono un plus, poiché hanno elevato il Trauerspiel a tragedia.»(3) (Carl Schmitt, Amleto o Ecuba cit., pp. 84-87)

 

Carl Schmitt nell’Amleto o Ecuba attraverso l’apertura all’allegoria – che, contrariamente a quanto afferma Walter Benjamin nel Dramma barocco tedesco ha percepito che essa può essere anche cosa buona e luminosa come il simbolo o, addirittura, può essere allegoria e simbolo al tempo stesso –  si apre (e apre noi) alla possibilità di una fondamentale evoluzione della “categoria del politico” dell’amico/nemico. Anche la ricerca di Teodoro Klitsche de la Grange è aperta ad interessantissime evoluzioni che, per quanto sia azzardato affermare che siano le nostre evoluzioni, sono fondamentali per le nostre evoluzioni. Un aspetto fondamentale però divide Teodoro Klitsche de la Grange da Carl Schmitt e ciò conferisce al vicendevole rispecchiamento fra questi due autori un carattere particolare, l’aspetto – proprio come nel rapporto  fra osservatore ed osservato della fisica quantistica o, se vogliamo, del rapporto  di interscambio fra soggetto ed oggetto di ogni filosofia della prassi – di un costante e dialettico rapporto attivo di La Grange e con la  fenomenologia culturale, storica, giuridica, politica e sociale oggetto della sua indagine in tutta la sua produzione e all’interno di questa dell’autore stesso con l’interezza di questa, la quale in questo bidirezionale rapporto di rispecchiamento autore/produzione trova proprio il suo profondo fascino. Cosa che proprio non può essere detta per Carl Schmitt che, per quanto autore dialettico, procede a balzi, per sprazzi, ed è soggetto, come dimostra la sua storia personale ed il suo percorso intellettuale, anche a grandi cadute. In altre parole, lo spirito del  monologo di Amleto dell’atto II, scena 2° dell’immortale opera di Shakespeare lo possiamo trovare in tutta la produzione di La Grange e non in un singolo, per quanto fondamentale momento della sua produzione. La Grange, cioè, pur avendo ben presente, proprio per la sue molteplici diramate radici e  profonde e feconde stratificazioni culturali cristiane,   che il simbolo può mostrare (o celare dentro di sé) il volto dell’allegoria che  «mostra agli occhi dell’osservatore la facies hippocratica della storia come irrigidito passaggio originario. La storia in tutto ciò che essa ha  fin dall’inizio di immaturo, di sofferente, di mancato, si imprime in un volto, anzi: nel teschio di un morto» (vedi Le ragioni di Creonte, dove la tragedia Antigone perde la sua luminosa carica simbolica assegnatagli dalla tradizione esegetica per assumere su di sé tutto il peso  luttuoso  dell’allegoria del moderno Trauerspiel, del dramma moderno), mantiene costantemente la consapevolezza che al lugubre e mortuario  telos della “trappola per topi” non possa essere opposto, contrariamente a quanto vuole illudersi il controriformistico Carl Schmitt, alcun salvifico Katechon. Ma così facendo, contrariamente a Carl Schmitt che si apre ad altre possibilità simboliche dal Catechon solamente a sprazzi ed in intemittenti occasioni (la maggiore delle quali è l’Amleto o Ecuba), proprio per questa, dicevamo, costante e ferma consapevolezza che il Katéchon non è il simbolo salvifico ma la più mortale delle allegorie, La Grange è anche costantemente aperto anche ad altre possibilità simboliche, fra le quali pensiamo trovino un posto anche quelle del Repubblicanesimo Geopolitico.

 

E soprattutto per questa costante possibilità di gioco di rispecchiamento dove i nostri simboli, pur rasentando costantemente – lo ammettiamo –, proprio per la loro natura immanentistica, un luttuoso processo di allegorizzazione, possono mantenere – come accade con una fenomenale inversione da allegoria e simbolo e apparente contraddizione nella trappola per topi del teatro nel teatro dell’Amleto e con enigmatica ma mitopoietica espressività nel monologo di Amleto dell’atto II, scena 2° dell’omonima tragedia –  intatto, attraverso il costante dialogo con un altro pensiero, un “principio  speranza”, dobbiamo sempre più grande riconoscenza a Teodoro Klitsche de la Grange.

 

 

 

 

 

NOTE

 

1) L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni fu  una conferenza che Carl Schmitt tenne nel 1922,  ora pubblicata in italiano  anche in Carl Schmitt, Le categorie del ‘politico’ cit.,  pp. 167-183.

 

2 ) E aggiunge: «L’Inghilterra dell’epoca Tudor era per molti aspetti avviata verso la formazione di uno Stato. La parola state compare, col suo significato specifico, in Marlowe e in Shakespeare, e merita una ricerca filologica particolare. Vi ho accennato, in un contesto più ampio, nel mio libro Der Nomos der Erde (Köln, Greven Verlag, 1950, pp. 116-17). Certamente, per una simile ricerca filologica, ci sarebbe bisogno – per quanto riguarda la teoria dello Stato e la storia del concetto del ‘politico’ – di informazioni migliori di quelle di cui dispone il libro (peraltro notevole) di Hans H. Glunz, Shakespeares Staat (Frankfurt, Vittorio Klostermann, 1940). Documenti di rilievo per una storia del termine Stato si possono rinvenire anche negli Essays di Bacone. Ma è proprio in questi cento anni (1588-1688) che l’isola d’Inghilterra si è staccata dal continente europeo ed ha realizzato il passaggio dalla tradizionale esistenza legata alla terra ad una marittima. Divenne così la metropoli di un impero d’oltremare, e perfino il luogo d’origine della rivoluzione industriale, senza passare attraverso la statualità continentale. Non organizzò né forze armate statali, né una polizia, né giustizia o finanza nel senso statuale-continentale; fu per iniziativa prima di pirati e filibustieri, poi di compagnie di commercio, che essa si inserì nell’impresa di conquista delle terre del nuovo mondo, e su queste basi portò a compimento la conquista dei mari di tutto il globo. È questa la secolare rivoluzione inglese, durata dal 1588 al 1688. Nel suo primo stadio si colloca il dramma shakesperiano. Non si deve guardare a questa situazione solo dal punto di vista di quello che era, per quel tempo, il passato o il presente, cioè il medioevo, il rinascimento e il barocco. Misurata col metro del progresso civilizzatore rappresentato dall’ideale della statualità continentale – realizzatosi comunque solo nel XVIII secolo – l’Inghilterra di Shakespeare appare ancora barbarica, vale a dire prestatuale. Misurata, al contrario, col metro del progresso civilizzatore rappresentato dalla rivoluzione industriale – iniziata anch’essa nel XVIII secolo – l’Inghilterra elisabettiana ci appare impegnata in un grandioso sforzo di movimento e di passaggio dalla tradizionale esistenza legata alla terra ad una marittima: questo nuovo orientamento avrà come esito la rivoluzione industriale, e realizzerà così un rivolgimento assai più radicale e fondamentale delle stesse rivoluzioni continentali, lasciandosi di gran lunga alle spalle quel superamento del «medioevo barbarico» che era già stato superato dalla statualità continentale. Il destino degli Stuart volle che essi non avessero alcun sospetto di tutto ciò, che non sapessero staccarsi da un medioevo religioso e feudale. Le argomentazioni di Giacomo I sul diritto divino dei re mascheravano appunto questa disperata mancanza di prospettive della sua posizione spirituale. Gli Stuart non compresero né lo Stato sovrano del continente, né il passaggio all’esistenza marittima che pure l’isola d’Inghilterra compì durante il loro regno. Così, quando venne decisa la conquista in grande stile degli oceani, e il nuovo ordine globale della terra e del mare ebbe trovato il suo riconoscimento formale nella pace di Utrecht (1713), essi scomparvero dalla scena della storia universale.»: Ivi, pp. 115-116.

 

 

3) Il fatto che il teatro nel teatro come vero motore dell’azione drammatica nell’Amleto (e noi diciamo: come  forme aurorale  in Schmitt di una possibile evoluzione della categoria del politico amico/nemico nell’azione dialettica conflittuale-strategica che proprio in una rappresentazione drammatica all’interno di un’altra rappresentazione drammatica trova una sorta di suo ideale paradigma) non fosse da Carl Schmitt inteso solo come fondamentale per comprendere il dramma di Shakespeare ma anche per comprendere un’epoca, il 600, ed un clima culturale, il barocco, evidentemente ritenuti fondamentali dal giuspubblicista di Plettenberg per comprendere l’attuale epoca delle “neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni” –  epoca che secondo l’ Amleto o Ecuba, sotto l’influsso, come abbiamo visto, di Walter Benjamin, trova la sua più consona espressione in una cimiteriale allegoria, contrapposta alla simbolica luminosità del mito che accompagna la tragedia classica e le epoche che non hanno ancora perso il rapporto con la trascendenza –. lo troviamo ancor più chiaramente espresso nel capitolo dell’Amleto o Ecuba che reca il molto significativo titolo “Il dramma nel dramma: Amleto o Ecuba” , il quale inizia con queste parole: «Per il senso della vita già fortemente barocco di quest’epoca – intorno al 1600 – il mondo intero divenne palcoscenico, theatrum mundi, theatrum naturae, theatrum europaeum, theatrum belli, theatrum fori. L’uomo attivo di quest’epoca si sentiva  posto su di un podio davanti a degli spettatori, e considerava se stesso e la sua attività nella spettacolarità del suo agire. Anche in altre epoche ci fu un simile senso teatrale, ma nel barocco esso fu particolarmente forte e diffuso. Operare nella dimensione pubblica era operare su di un palcoscenico, e perciò spettacolo.» (Carl Schmitt, Amleto o Ecuba cit., p. 82). Come abbiamo appena visto supra, in conclusione dell’Amleto o Ecuba, Carl Schmitt si mostra, via il grande apprezzamento della massima opera di Shakespeare, meno tranchant verso l’ allegoria che, a suo giudizio, nell’Amleto riesce a compiere quasi una fusione dialettica col simbolo proprio in ragione del fatto che la vicenda d’Amleto e la sua difficoltosa vendetta, inestricabilmente intrecciata con una rappresentazione teatrale all’interno del dramma, può essere presa come simbolo dell’azione umana. Una coscienza aurorale che un modello conflittuale dialettico-strategico non reca necessariamente con sé significati funesti e una iniziale consapevolezza che la salvezza non sarebbe mai venuta da un utopistico e mitico Katechon ma piuttosto da un’epifania strategica che pur essendo un obiettivo molto immanentista (e quindi legato ad una dimensione puramente allegorica) reca con sé, proprio come l’Amleto, una potente dimensione simbolica?

 

 

 

 

Massimo Morigi – 5 agosto 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Putin mette a nudo la distopia americana, di Paul Craig Roberts

Putin mette a nudo la distopia americana

Paul Craig Roberts

Dobbiamo concederlo a Putin. Lui è il migliore che ci sia. Notare la facilità con cui ha regolato il confronto con quell’idiota di Chris Wallace. https://www.rt.com/usa/433447-putin-interview-fox-wallace/

Cosa c’è che non va nel sistema dei media statunitensi il quale non riesce a produrre un secondo giornalista competente che faccia compagnia a Tucker Carlson? Perché i restanti giornalisti americani, come Chris Hedges, ora sono nei media alternativi?

Tutto quello che posso dire, e Putin probabilmente lo sa già, è che c’è qualcosa di più importante in corso di presstitute che tiene in ostaggio la relazione tra la Russia e gli Stati Uniti rispetto alla lotta politica interna tra il Partito Democratico e il Presidente Trump. Non è solo che i media corrotti degli Stati Uniti servono come propagandisti per il Partito Democratico contro il Presidente Trump. Gli uffici stampa stanno servendo l’interesse del complesso militare / di sicurezza, che ha interessi di proprietà nei media statunitensi altamente concentrati, per mantenere la Russia posizionata come il nemico che giustifica l’enorme budget di $ 1.000 miliardi del complesso militare / di sicurezza. Senza il “nemico russo”, qual è la giustificazione di uno spreco di denaro quando così tanti bisogni reali sono sottofinanziati e non finanziati?

In altre parole, i media americani non sono solo stupidi, sono corrotti oltre ogni misura.

Oggi alle 12:40, ora di New York, la NPR aveva una raccolta di trump-basher che facevano del loro meglio per impedire all’appuntamento di Trump / Putin di produrre una normalizzazione delle relazioni tra i due governi. Ad esempio, come sa ogni persona informata, la comunità dei servizi segreti degli Stati Uniti non ha certamente concluso che la Russia ha interferito nelle elezioni presidenziali. Questa conclusione è stata raggiunta da alcuni membri selezionati di 3 delle 16 agenzie di intelligence ed è stata espressa non come un fatto provato ma come “altamente probabile”. In altre parole, non era altro che un parere orchestrato dato da agenti cooperativi i quali senza dubbio si aspettano delle promozioni in cambio.

Nonostante questo fatto noto, la squadra di propaganda dell’NPR ha detto che Trump aveva creduto a Putin piuttosto che a un rapporto unanime di intelligence dei fatti degli Stati Uniti che provava le interferenze della Russia. I denigratori di Trump-basher hanno detto che aveva creduto al “teppista Putin” e non ai suoi stessi esperti americani. I sostenitori NPR di Trump hanno continuato a confrontare il “raccordo con Putin” con l’opinione di Trump che la violenza di Charlottesville fosse stata alimentata da entrambe le parti. I criticoni di NPR hanno equiparato la dichiarazione fattuale di Trump sulla violenza da entrambe le parti con lo “schierarsi con i neonazisti” a Charlottesville.

Il punto di NPR è che Trump si schiera con nazisti e teppisti russi ed è contro gli americani.

Quello che Trump disse in effetti riguardo alle presunte interferenze elettorali era che se c’era o non c’era interferenza elettorale, essa non aveva alcun effetto come hanno ammesso Comey e Rosenstein, e non assume la stessa importanza della possibilità che due potenze nucleari vadano d’accordo ed evitino le tensioni in grado di provocare una guerra nucleare. Si potrebbe pensare che persino un idiota NPR possa capirlo.

Il trionfo su NPR è andato avanti per tutto il giorno mescolato a un occasionale attacco della Russia per aver ucciso civili siriani in attacchi aerei contro i jihadisti supportati da Washington che, secondo le istruzioni di Washington, cercano di aggrapparsi a un po ‘di Siria in modo che Washington e Israele possono ricominciare la guerra. Ci si meraviglia della stupidità di coloro che danno soldi all’NPR in modo che l’NPR possa mentirgli tutto il giorno. Come George Orwell aveva previsto, le persone sono più a loro agio con le bugie del Grande Fratello che con la verità.

Una volta la NPR era una voce alternativa, ma è stata rotta dal regime di George W. Bush ed è diventata completamente corrotta. NPR continua a fingere di essere “ascoltatore supportato”, ma in realtà ora è una stazione commerciale proprio come ogni altra stazione commerciale. NPR cerca di mascherare questo fatto usando “con il supporto di” per introdurre gli annunci a pagamento dalle aziende.

“Con il sostegno di” è come NPR ha tradizionalmente riconosciuto i suoi donatori filantropici. La vera domanda è: come fa NPR a mantenere il suo status di esenzione fiscale 501c3 quando vende pubblicità commerciale? Non c’è bisogno che NPR si preoccupi. Finché l’entità presstitute serve l’élite dominante a spese della verità, manterrà il suo stato di esenzione fiscale illegale.

È ovvio che le incriminazioni dei 12 ufficiali dei servizi segreti russi immediatamente precedenti alla riunione di Trump / Putin avevano lo scopo di minare l’incontro e di offrire ai giornalisti maggiori opportunità per i colpi più disonesti ai danni del presidente Trump. Ai miei tempi, i giornalisti sarebbero stati abbastanza intelligenti e avrebbero avuto abbastanza integrità per capirlo. Ma i comunicati stampa occidentali non hanno né intelligenza né integrità.

Quante prove vuoi? Ecco la stampa di Michelle Goldberg che scrive sul New York Times che “Trump mostra al mondo che è il lacchè di Putin.” La giornalista dice di essere “sconcertata dalla prestazione servile e schifosa del presidente americano.” Apparentemente Goldberg pensa che Trump avrebbe dovuto picchiare Putin.

Il Washington Post, in passato un giornale, ora uno scherzo malato, sosteneva che “Trump si era appena colluso con la Russia. Apertamente.”

Non sono solo i presstitutes. Sono i cosiddetti esperti, come Richard Haass, presidente del Consiglio per le relazioni estere, un gruppo auto-importante, finanziato dal complesso militare / di sicurezza, che presiede la politica estera americana. Haass, aderendo alla linea ufficiale di sicurezza / sicurezza, ha dichiarato erroneamente: “L’ordine internazionale per 4 secoli si è basato sulla non interferenza negli affari interni degli altri e sul rispetto della sovranità. La Russia ha violato questa norma sequestrando la Crimea e interferendo con le elezioni americane del 2016. Dobbiamo affrontare la Russia di Putin come lo stato canaglia che è “.

Di cosa sta parlando Haass? Quale rispetto per la sovranità ha Washington? Sicuramente Haass ha familiarità con la dottrina neoconservatrice dominante dell’egemonia mondiale degli Stati Uniti. Sicuramente Haass sa che i problemi orchestrati con Iraq, Libia, Siria, Corea del Nord, Russia e Cina sono dovuti al risentimento di Washington per la loro sovranità. Qual è l’unilateralismo di Washington sul fatto che Washington rispetti la sovranità dei paesi? Perché Washington vuole un mondo unipolare se Washington rispetta la sovranità di altri paesi? È precisamente l’insistenza della Russia su un mondo multipolare che la pone nel mirino della propaganda. Se Washington rispetta la sovranità, perché Washington rovescia i paesi che ce l’hanno? Quando Washington accusa la Russia di essere una minaccia per l’ordine mondiale, significa che la Russia è una minaccia per l’ordine mondiale di Washington. Haass sta dimostrando la sua idiozia o la sua corruzione?

Come i media americani hanno definitivamente dimostrato non hanno indipendenza ma sono un portavoce dei democratici e degli interessi delle multinazionali; dovrebbero essere nazionalizzati. I media americani sono così compromessi che la nazionalizzazione sarebbe un miglioramento.

Anche l’industria degli armamenti dovrebbe essere nazionalizzata. Non solo è un potere più grande del governo eletto, ma è anche molto inefficiente. L’industria degli armamenti russi con una minima frazione del budget militare statunitense produce armi di gran lunga superiori. Come ha detto il presidente Eisenhower, un generale a cinque stelle, il complesso militare-industriale è una minaccia per la democrazia americana. Perché la feccia dei media è così preoccupata per l’inesistente interferenza russa quando il complesso militare / di sicurezza è così potente da poter realmente sostituirsi al governo eletto?

Ci fu un tempo in cui il Partito Repubblicano rappresentava gli interessi degli affari, e il Partito Democratico rappresentava gli interessi della classe operaia. Ciò ha tenuto l’America in equilibrio. Oggi non c’è equilibrio. Dal momento che con il regime di Clinton, l’uno per cento ricco è diventato molto più ricco, e il 99 per cento è diventato sempre più povero. La classe media è in serio declino.

I democratici hanno abbandonato la classe operaia, che i democratici ora liquidano come “Trump deplorables” e sostengono invece la divisione e l’odio di IdentityPolitics. In un momento in cui il popolo americano ha bisogno di unità per resistere a mire guerrafondaie e avidità, non c’è unità. Alle razze e ai sessi viene insegnato a odiarsi l’un l’altro. È ovunque tu guardi.

Rispetto all’America in cui sono nato, l’America di oggi è fragile e debole. L’unico sforzo per l’unità è creare unità che la Russia sia il nemico. È proprio come nel 1984 di George Orwell. In altri aspetti l’attuale distopia americana è peggiore di quella descritta da Orwell.

Cerca di trovare un’istituzione pubblica o privata americana che sia degna di rispetto, che sia onorevole, che rispetti la verità, che sia compassionevole e che cerchi la giustizia. Quello che trovi al posto della compassione e della richiesta di giustizia sono leggi che puniscono se critichi il genocidio israeliano dei palestinesi o perdi informazioni che mostrano i crimini commessi dal governo degli Stati Uniti. Con tutte le loro istituzioni corrotte, anche il popolo americano viene corrotto. La corruzione è ciò in cui i giovani sono nati. Non sanno niente di diverso. Che futuro si riserva per l’America?

Come possono la Russia, la Cina, l’Iran, la Corea del Nord raggiungere un compromesso con un governo che non conosce il significato della parola, un governo che richiede la sottomissione e quando la sottomissione non viene segue la distruzione come abbiamo imparato in Afghanistan, Iraq, Libia, Siria e Yemen.

Chi sarebbe così sciocco da fidarsi di un accordo con Washington?

Invece di perseguire un accordo con Trump, che si sta preparando ad essere rimosso, Putin dovrebbe preparare la Russia alla guerra.

La guerra sta sicuramente arrivando.

INTRODUZIONE ALLA “POLITICA COME  DESTINO”_1A PARTE, di Teodoro Klitsche de la Grange

Continuiamo con la pubblicazione di testi alquanto interessanti riguardanti l’approccio al “politico” del pensiero liberale “forte” in contrapposizione e critica al pensiero liberale “debole” ancora nettamente predominante, se pure in crisi nella sua capacità persuasiva. Il discrimine tra le due varianti riguarda appunto l’atteggiamento verso e l’analisi della funzione del politico, inteso nella sua essenza e nella sua relazione con i diversi ambiti dell’agire umano. Il peso ancora minoritario della componente realista di questa corrente di pensiero è evidenziato dal misconoscimento dell’importanza, in particolare in Italia, di pensatori come Julien Freund e dalla demonizzazione e travisamento di altri come Carl Schmitt. Essa, la sua componente “realista” appunto, al contrario rientra a pieno titolo nell’alveo del dibattito sul conflitto strategico tra centri decisionali ripreso ed elaborato ultimamente in Italia da Gianfranco La  Grassa. E’ il nuovo punto di incontro e di confronto decisivo di varie correnti del pensiero politico cresciuto ed affermatosi nel ‘800 e nel ‘900 e ormai giunto ad una drammatica crisi delle proprie chiavi di interpretazione. Teodoro Klitsche de la Grange continua ad offrire da par suo il proprio contributo e ad alimentare il dibattito intrapreso pure da questa redazione, in particolare da Massimo Morigi e Luigi Longo. Buona lettura_Germinario Giuseppe

INTRODUZIONE ALLA “POLITICA COME  DESTINO”

  1. Quando un liberale italiano come Salvatore Valitutti si confronta con il pensiero di Carl Schmitt è inevitabile che accanto a ragioni di dissenso ve ne siano di apprezzamento, spesso critico, e non demonizzazione aprioristica.

E’ quanto capita in questo saggio, pubblicato prima su “Nuovi studi politici” nel 1976 e poi in libro insieme a un saggio di Karl Lövith su Schmitt (del 1935).

I punti principali della critica di Valitutti a Carl Schmitt, da un punto di vista liberale, sono tre.

Il primo è che la distinzione propria del “politico”, ovvero quella tra Amicus ed Hostis, la quale è come quelle di “buono e cattivo nel settore morale, di bello e brutto nell’estetico e di utile e dannoso nell’economico”, indipendente dalle altre e ad esse irriducibile. Cioè, come avrebbe sostenuto Freund, la politica è un’ “essenza”  (come l’etica, l’economia, l’estetica).

“La distinzione tra amicus ed hostis, di amico e nemico, (è) la estrema intensità di un legame o di una separazione…Amicus  è un gruppo di individui tenuto stretto e compatto dalla reciproca solidarietà determinata dal bisogno di difendersi, per sopravvivere, dall’Hostis. L’hostis  è hostis in quanto si contrappone al gruppo che gli è ostile, ma in se stesso è amicus.  La politica è perciò ostilità che divide e contrappone due gruppi ciascuno dei quali è amicus in se stesso, e cioè reso compatto contrapponendosi all’altro”, scrive Valitutti. I due gruppi hanno un senso dato dall’ostilità, che implica la possibilità di lotta armata. Da qui il rapporto necessario tra politica e guerra per cui se “Clausevitz scrisse che la guerra non è altro che una continuazione delle relazioni politiche con l’intervento di altri mezzi. Schmitt rovesciando la formula avrebbe potuto dire che la pace è la continuazione della guerra con l’intervento di altri mezzi”.

Schmitt, continua Valitutti, sente il bisogno di difendersi dell’accusa di una visione “guerrafondaia”. Lo fa realisticamente, spiegando che ciò consegue dall’ostilità (naturale in un pluriverso) “perché questa è la negazione essenziale di un altro essere”, affermazione che ricorda da vicino quella di Hegel sul nemico come differenza etica (in Schmitt esistenziale)[1]. Centrale, nel pensiero di Schmitt è, secondo Valitutti, il concetto di unità politica “soggetto della politica è il gruppo ma solo alla condizione che il gruppo realizzi una perfetta unità politica. L’essenza dell’unità politica consiste nell’esclusione del contrasto politico all’interno dell’unità stessa”. Ne consegue che “la teoria politica di Schmitt è una teoria monistica perché si basa sulla compattezza dell’unità politica”: una teoria pluralista diviene facilmente strumento di dissoluzione. Tuttavia se all’interno la concezione di Schmitt è monistica, all’esterno è pluralista[2].

Il secondo punto è il pessimismo antropologico.

Si fonda sulla concezione pessimistica dell’uomo, che è la medesima su cui si fonda la scriminante etica (buono, cattivo) e la possibilità di scegliere, cioè la libertà. Ma, scrive Valitutti “Schmitt nell’individuare nella malvagità dell’uomo la molla che fa scattare la politica come distinzione fra amico e nemico, non si avvede che giunge a mettere in crisi proprio   quella autonomia della politica, intesa come indipendenza dalle altre distinzioni esistenti, operanti nella vita umana…giungendo, come giunge, al presupposto  della malvagità umana   come condizione da cui scaturirebbe la necessità della politica, intesa come distinzione fra amico e nemico , egli riconduce la politica stessa proprio ad uno dei termini della coppia degli opposti che è la coppia della vita morale”.

Da ciò consegue la centralità dell’unità politica per comprenderne l’anti-liberalismo di Schmitt[3]. Questo è la “bestia nera” di Schmitt, secondo il quale ha dominato il secolo XIX. Il liberalismo combattuto da Schmitt è tuttavia un fantoccio polemico: “In questo fantoccio figurano lineamenti che appartengono al liberalismo storico ma che sono scissi da altri lineamenti essenziali dello stesso corpus di dottrine e di esperienze e che perciò appaiono deformati”[4]. Schmitt riconosce tuttavia che il liberalismo, come realtà storica, non è sfuggito né all’identificazione/designazione del nemico, né all’abolizione della guerra (perché impossibile)[5]. E Valitutti rileva che “Nella sua polemica contro il liberalismo Schmitt, credendo di incolparlo in realtà gli rende omaggio e comunque è nel vero anche quando sottolinea il rispetto del valore dell’autonomia delle varie forme dell’attività umana come un carattere distintivo del liberalismo” (il corsivo è mio)[6]. Peraltro Schmitt, partendo dal postulato dell’unità politica ha come obiettivo della di esso critica soprattutto il liberalismo sociale e associativo, che garantisce la società come “pluralità di legami sociali”. Ma così configura uno Stato che realizza continuamente “la sua unità come sintesi dialettica di differenti e congiunti centri di iniziativa. L’unità politica, secondo Schmitt, la quale ha la sua più perfetta espressione nello Stato, è viceversa un’unità monistica, immediata e immota”[7].

La distinzione amicus/hostis relativizza tutte le altre in quanto giunge a definire la distinzione politica come quella totale e totalizzante; “per cui Schmitt praticamente vanifica tutte le altre distinzioni. È l’unità politica che decide quello che è buono, bello e utile, e, in contrapposizione, quello che è cattivo, brutto e dannoso”. Il vizio di tale concezione è evidente: nel momento in cui la distinzione politica prevale sulle altre questa è non solo indipendente da quelle, ma superiore[8].

Nota poi Valitutti che tra le tante opposizioni il giurista di Plettemberg non ricorda mai quella di vero/falso[9]

Ovviamente, scrive Valitutti, in questa concezione la “volontà politica è regina assoluta”; onde è legittimo chiedersi “se egli si sia installato con tanta sicurezza e facilità nella sua teoria proprio in quanto è partito dalla preliminare negazione della realtà e del valore del pensiero teoretico”.

Valitutti prende in esame il saggio di Löwith su Schmitt pubblicato insieme al suo nel libro (da cui è tratto il saggio di Valitutti), scrivendo che Löwith attribuisce a Schmitt di credere “solo al valore della decisione per la decisione, cioè alla decisione come fine a se stessa”. Secondo Valitutti è più importante collocare storicamente la teoria di Schmitt tra “quegli atteggiamenti volontaristici e attivistici posti in essere nell’età post-hegeliana in contrapposizione alla tradizione del primato del pensiero teoretico, alcuni dei quali hanno rasentato o investito la stessa ragione deteriorandola o distruggendola”.

  1. Il saggio di Valitutti appare condizionato (v. la nota bibliografica pubblicata nello stesso volume e redatta dall’autore) dal riferirsi, praticamente nella totalità delle opere di Schmitt che cita, a quelle tradotte in italiano fin verso la metà degli anni ’70 del secolo scorso, ed ai saggi su Schmitt pubblicati in Italia nello stesso periodo. Questo fa si che le note critiche dell’autore a Schmitt non tengono conto né delle opere tradotte successivamente (la stragrande maggioranza di quanto scritto dal giurista di Plettemberg) né dei successivi interventi intorno al pensiero del medesimo. Il che non significa che Valitutti abbia travisato la teoria del pensatore renano; ma che la conoscenza di queste ne avrebbe permesso di “centrare meglio” contenuto, obiettivi e senso.

In primo luogo: è vero che il liberalismo considerato da Schmitt è un “fantoccio polemico”; ma lo è per due ragioni.

La prima, ancora diffusa, nelle sue declinazioni “post-moderne”, nell’Italia degli anni a cavallo dei due secoli, e anche attualmente (che è quella prevalente, anche nell’ambiente politico e culturale non italiano) secondo la quale, sintetizzandola al massimo, il liberalismo è quell’ideologia che: a) tutela i diritti fondamentali b) prescrive la distinzione dei poteri (alla Montesquieu) c) discute ogni proposta e soluzione nelle assemblee rappresentative e (soprattutto) nell’opinione pubblica d) tutela i diritti (prevalentemente) attraverso il potere giudiziario e) ritiene la decisione dei conflitti più opportuna se disposta da organi giudiziari.

Non tutti questi aspetti godono di un consenso unanime da parte dei (spesso sedicenti) liberali, ma buona parte si.

Ciò che rende particolarmente ficcante la critica di Schmitt a tale/i concezione/i è che da un lato vi manca un qualcosa che costituisca l’unità politica; dall’altro che il liberalismo è, a intenderlo in senso ideale, non un modo di costituire il potere, ma quello di limitarlo. Onde aspettarsi di costituire una sintesi politica senza un principio politico costitutivo è vano. Come scrive Schmitt citando Mazzini “sulla libertà non si costituisce nulla”.

Ne consegue, come scrive Schmitt nella Verfassungslehre[10], che “I principi della libertà borghese possono ben modificare e temperare uno Stato, ma da soli non fondano una forma politica… Da ciò segue che in ogni costituzione con l’elemento dello Stato di diritto è connesso e misto un secondo elemento di principi politico-formali[11].

Il liberalismo può modificare qualsiasi forma di Stato, facendolo diventare una monarchia o una democrazia liberale, ma non può eliminare il principio di forma politica su cui necessariamente lo Stato si basa. La costituzione dello Stato liberale è così necessariamente mista “nel senso che l’elemento in se autonomo e concluso dello Stato di diritto si unisce con elementi politico-formali”.

L’errore di credere che possa esistere una costituzione liberale “pura” senza politica, né soprattutto elementi di forma politica era già espresso nell’art. 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: “Toute société dans laquelle la garantie des droits n’est pas assurée, ni la séparation des pouvoirs déterminée, n’a point de constitution”. Fu stigmatizzato già da de Bonald, che lo riprendeva dalle (entusiastiche) parole di adesione di M.me De Staël.

Scriveva de Bonald che chiedersi se uno Stato esistente ed esistente da secoli come la Francia, non avesse una Costituzione, è come domandare ad un arzillo ottuagenario se è costituito per vivere. Ciò perché, come avrebbero affermato circa un secolo dopo altri eminenti giuristi come Santi Romano, uno Stato esistente non ha, ma è una costituzione[12]. E lo stesso faceva Schmitt nel distinguere il concetto assoluto di costituzione come “concreto modo di esistere che è dato spontaneamente con ogni unità politica esistente[13] e la cui forma “indica qualcosa di conforme all’essere uno status e non qualcosa di conforme ad un principio giuridico o di normativamente dovuto”[14]. Tuttavia “per motivi politici è spesso indicata come «vera» o «pura» costituzione solo ciò che corrisponde ad un determinato ideale di costituzione”[15]. Ma ritiene il giurista di Plettemberg “Una costituzione che non contenesse altro che queste garanzie dello Stato borghese di diritto, sarebbe impensabile; giacché lo Stato stesso, l’unità politica, ossia ciò che è da controllare, deve pur esistere ovvero al tempo stesso essere organizzato”[16].

I due elementi, quello politico e quello dei principi dello Stato di diritto, sono sempre congiunti e presenti[17].

Dove si constata la “prevalenza” dell’elemento politico su quello dello Stato borghese di diritto è nella disciplina dello Stato di eccezione con la sospensione, deroga, rottura della normativa costituzionale[18] … “In questi casi si mostra assai chiaramente che il moderno Stato costituzionale nella sua struttura è composto di due diversi elementi: di una serie di intralci al potere statale propri dello Stato borghese di diritto e di un sistema – sia esso monarchico o democratico – di attività politica”[19].

Nelle emergenze l’elemento politico (il potere costituito) sospende la normativa del bürgerliche rechtstaat, così come Jhering sosteneva che, nelle crisi gravi la forza “sacrificherà il diritto per salvare la vita”[20].

Ciò che distingue la disciplina dello “stato d’eccezione” dello Stato borghese da quello di altre sintesi politiche è l’accurata distinzione tra situazione normale  ed eccezionale, che in altri regimi è assente o sfumata. Laddove la sovranità è attribuita al vertice politico (al principe) vale il principio ulpianeo quod principi placuit legis habet vigorem applicabile ad ogni situazione contingente (quindi anche dell’emergenza); nello Stato liberal-democratico (o borghese secondo la terminologia preferita da Schmitt) i presupposti, (in parte) la normativa relativa all’eccezione, e le sanzioni per l’inosservanza sono regolate dalla Costituzione. Una norma, regolarmente votata dal Parlamento in uno Stato liberale democratico a forma di governo parlamentare che violasse la Costituzione, sarebbe annullata dal Giudice costituzionale (generalmente) istituito in tali forme di Stato. In una monarchia assoluta o in una dittatura sovrana, no. Come sostenuto da Agamben al riguardo “In ogni caso è importante non dimenticare che lo stato di eccezione moderno è una creazione della tradizione democratico-rivoluzionaria e non di quella assolutista”[21].

[1] Per una esposizione più articolata e diffusa v. Hegel Sistem der sittlichkeit ora in “ Il dominio della politica” trad. it. di  N.Merker, Roma 1980 p. 174 ss.

[2] “Il monismo all’interno presuppone il pluralismo all’esterno. Il mondo politico – afferma Schmitt – è un pluriversum, non un universum, L’unità politica presuppone la reale possibilità  del nemico, e quindi almeno un’altra unità politica coesistente. Il mondo politico è perciò il coesistere e il competere di differenti e contrapposte unità politiche”.

Sviluppando poi il primo aspetto, Valitutti rileva “Il carattere mistico dell’unità politica nel pensiero di Schmitt è comprovato dall’assoluta negazione del suo carattere associativo”; non c’è alcuna società, ma solo comunità politica. Anche quando alla nascita un’unità politica ha carattere associativo (come nella federazione), diviene subito esclusiva e totalizzante.

 

[3] “La prima e più consistente ragione del tenace e veemente antiliberalismo di Schmitt è da ricercare e da ravvisare nel posto che occupa nel suo pensiero il concetto di unità politica. Quanto meno è in questo concetto che si annodano e si saldano tutti i motivi del suo antiliberalismo”

[4] Sostiene Valitutti che i suoi padri (secondo Schmitt) sono soprattutto Spencer e Constant “Per Schmitt il liberalismo è puro individualismo, in quanto avrebbe solo e sempre presente come principio e fine del suo processo logico l’individuo”. Il fatto che, secondo il giurista di Plettenberg il liberalismo si muove tra le polarità dell’etica e dell’economia “non gli fa sorgere il dubbio che un pensiero politico che affonda sia pure in parte le sue radici nel concetto del primato dell’etica non possa rimanere relegato nel mero individualismo”

[5] Il problema consiste che, nella sua dimensione/aspirazione ideale “il liberalismo concepisce la realtà come gara e lotta, gara che sul piano spirituale si svolge come discussione, cioè come lotta tra idee, e sul piano economico come concorrenza, lotta e concorrenza eterne che non debbano mai diventare sanguinose, cioè degenerare in ostilità”.

[6] Aggiunge che Schmitt “individua esattamente quello che è il maggiore sforzo logico in cui si travaglia quella concezione della realtà a cui si ricollega il liberalismo politico nel secolo XIX, cioè lo sforzo inteso a distinguere le varie forme dell’attività spirituale e della vita umana per fondarne e salvaguardarne l’autonomia e insieme la connessione

[7] Per cui Schmitt concepisce l’unità politica come “decisiva, sovrana e totale”.

Questa unità, che storicamente, nella modernità si costituisce in Stato, considera tutto, potenzialmente, come politico “il decidere se una faccenda o un genere di cose sia apolitico è una decisione specificatamente politica, Perciò non c’è nulla che per virtù propria sia distinto dalla politica. Anche il non politico è una qualificazione attribuibile dalla decisione politica”.

[8] Tuttavia a leggere Der hüter der Verfassung, trad it. di A. Caracciolo Il Custode della costituzione, Milano 1981 p. 115 ss, si ridimensiona tale giudizio di Valitutti. Scrive Schmitt quanto alla situazione costituzionale del XIX secolo e la diversa nella Repubblica di Weimar che in quella la sua struttura “fondamentale è stata riassunta dalla grande  dottrina tedesca dello Stato di questo periodo in una formula chiara ed utile: la distinzione fra Stato e società” onde “ Esso era abbastanza forte per confrontarsi autonomamente con le restanti forme sociali e quindi per determinare da sé il raggruppamento, cosicchè tutte le numerose differenze all’interno della società … erano relativizzate e non impedivano la comune considerazione in seno alla «società». Ma per altro verso esso si manteneva in una posizione di ampia neutralità e di non-intervento nei confronti della religione e dell’economia e “ripettava in notevole misura l’autonomia di questi ambiti di vita e di interessi; cioè, esso non era assoluto e non così forte nel senso che avrebbe reso privo di importanza tutto il non-statuale” mentre con Weimar “adesso lo Stato diventa l’ «auto-organizzazione della società». Perciò cade, come menzionato, la distinzione finora sempre presupposta di Stato e società” e così “la società che si organizza da sé in Stato passa dallo Stato neutrale del liberale secolo XIX ad uno Stato potenzialmente totale. La potente svolta può essere interpretata come parte di uno sviluppo dialettico, che si svolge in tre stadi: dallo Stato assoluto del XVII e XVIII secolo attraverso lo Stato neutrale del liberale secolo XIX allo Stato totale dell’identità di Stato e società”.

[9] “Se Schmitt avesse salvaguardata la coppia di vero e falso avrebbe dovuto ammettere la distinzione tra la teoria e pratica e proprio questa distinzione gli avrebbe creato non superabili difficoltà nella teorizzazione della totalità politica. Egli è potuto giungere al suo mostruoso concetto della totalità politica sul presupposto della negazione dell’attività teoretica come attività distinta e autonoma dello spirito umano”.

[10] V. trad. it. dr. A. Caracciolo La dottrina della Costituzione, Giuffrè Editore, Milano 1984.

[11] Op. ult. cit., p. 265 (il corsivo è mio).

[12] Nel criticare l’opinione che Stati costituzionali siano solo quelli rappresentativi (cioè a “regime libero”) scrive “Ogni Stato è per definizione, come si vedrà meglio in seguito, un ordinamento giuridico, e non si può immaginare, quindi, in nessuna sua forma fuori del diritto… Uno Stato «non costituito» in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del suo corpo” Principi di diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 3.

[13] Op. ult. cit., p. 16.

[14] Op. ult. cit., p. 17 e prosegue “Anche qui sarebbe più esatto dire che lo Stato è una costituzione; è una monarchia, un’aristocrazia, una democrazia, una repubblica dei Soviet, e non ha soltanto una costituzione monarchica, ecc. La costituzione è qui la «forma delle forme», forma formarum”.

[15] Op. ult. cit., p. 58 e poche pagine dopo scrive “Nello sviluppo storico della costituzione moderna si è affermato un particolare concetto ideale con tale successo che dal XVIII sec. Sono indicate come costituzioni solo quelle costituzioni che corrispondono alle richieste della libertà borghese e contengono determinate garanzie di questa libertà” p. 60, per cui la Costituzione è un “sistema di garanzia della libertà borghese” onde come “costituzioni liberali, che meritino il nome di «costituzione», sono considerate solo quelle costituzioni che contengono alcune garanzie della libertà borghese” (p. 61).

[16] Op. ult. cit., p. 64 e aggiunge “Le costituzioni degli attuali Stati borghesi sono perciò composte sempre di due elementi: da un lato i principi dello Stato di diritto posti a difesa della libertà borghese contro lo Stato, dall’altro l’elemento politico, dal quale si deve dedurre la vera forma di Stato (monarchia, aristocrazia, democrazia o «status mixtus»). Nel collegamento di questi due elementi si trova la caratteristica delle odierne costituzioni dello Stato borghese di diritto”.

[17] È da considerare nei rapporti tra democrazia e liberalismo il giudizio di M. Alessio che “Schmitt insomma distingue troppo rigidamente democrazia e liberalismo, senza pensare che quest’ultimo può attecchire solo su di un terreno già preparato politicamente. Il liberalismo contemporaneo è una derivazione della democrazia moderna, ed è dunque su di essa che bisognerebbe puntare dapprima l’attenzione”. Democrazia e liberalismo (lo status mixtus) sono uniti nella modernità in concreto da un ethos comune, v. Carl Schmitt Democrazia e liberalismo, Milano 2001, p. 8 (introduzione di M. Alessio).

[18] La costituzione in senso proprio, scrive Schmitt “cioè le decisioni politiche fondamentali sulla forma di esistenza di un popolo, ovviamente non può essere temporaneamente abrogata, ma – proprio nell’interesse del mantenimento di queste decisioni… possono esserlo la normative legislative costituzionali generali emanate per la sua attuazione. In particolare, ci sono le normative tipiche dello Stato di diritto poste a protezione della libertà borghese, che sono soggette ad una sospensione temporanea…Nei turbamenti della sicurezza e dell’ordine pubblico, in tempi di pericolo come una guerra e durante una rivolta, sono sospese le limitazioni legislative costituzionali. Op. cit., p. 154.

[19] Op. loc. cit..

[20] R. Von Jhering Der Zweck im Recht trad it. Di M. G. Losano, Torino 1972 p. 184 ss.. È interessante ricordare per sommi capi, la concezione di Jhering “Il diritto non è quanto di più elevato vi sia al mondo, non è fine a se stesso, ma è soltanto un mezzo diretto ad un fine, ed il suo fine ultimo è l’esistenza della società. Se si riscontra che, nella situazione giuridica attuale, la società non è in grado di esistere, se il diritto non è in grado di venirle in aiuto, interviene la forza a compiere ciò che è necessario: nella vita dei popoli e degli stati prende così forma lo stato di emergenza. Nello stato di emergenza, il diritto vien meno tanto nella vita dell’individuo quanto anche nella vita dei popoli e degli stati” e poiché “al di sopra del diritto è la vita; e se ls asituazione concreta è quella da noi ipotizzata – cioè una situazione di emergenza politica riducibile all’alternativa; o il diritto o la vita – non vi possono essere dubbi sulla decisione da prendere: la forza sacrificherà il diritto per salvare la vita” e prosegue “ Abbiamo così individuato il punto in cui il diritto sfocia nella politica e nella storia: qui il giudizio del politico, dell’uomo di stato e dello storico deve sostituirsi a quello del giurista, che giudica soltanto alla stregua del diritto positivo” … “Se non ci si fanno scrupoli nell’usare il termie “diritto” in questo senso, potremmo qui parlare di un diritto eccezionale della storia, che in linea di principio rende praticamente possibile l’esistenza del diritto e, sporadicamente, il raffiorare della forza della sua missione e funzione storica originaria, cioè come fondatrice dell’ordinamento e creatrice del diritto” op. cit. p. 185 ss.

[21] G. Agamben, Stato d’eccezione Torino 2003, p. 14; e l’affermazione è ripetuta “Lo stato di eccezione si presenta anzi in questa prospettiva come una soglia di indeterminazione fra democrazia e assolutismo” idem p. 11.

SCHEDA DEL LIBRO OGGETTO DI CRITICA

SCHEDA de “LA POLITICA COME DESTINO”

Originariamente pubblicato nella rivista “Nuovi studi politici” nel 1976 e quindi in un volume contenente anche uno scritto di Karl Lowith nel 1978, La politica come destino di Salvatore Valitutti torna oggi nuovamente nelle librerie italiane per i tipi della Liberilibri.

Valitutti, pur da liberale e con atteggiamento critico, accanto alle ragioni di dissenso riuscì ad intuire l’incisività e la validità di alcune intuizioni di Carl Schmitt.

Pubblichiamo pertanto per la gentile concessione della Società Liberilibri e dell’autore, il saggio introduttivo di Teodoro Klitsche de la Grange al libro di Salvatore Valitutti.

LA DECADENZA ITALIANA, di Teodoro Klitsche de la Grange

LA DECADENZA ITALIANA(*)

  1. La decadenza non è tra i temi più frequentati dalle elites politiche e culturali italiane. In un contesto culturale propenso a credere che l’economia sia il destino e che fatti e processi storici siano da valutare preferibilmente sotto l’aspetto numerico-quantitativo, dovrebbe suscitare stupore che il dato della decrescita del PIL italiano (del sette per cento dal 2008 ad oggi) non abbia suscitato quasi nessuna discussione; questo in un paese che ama parlare diffusamente e pubblicamente anche di fatti minimi e irrilevanti.

L’unica spiegazione che si può dare – oltre a quella che parlarne porterebbe alla ricerca dei responsabili (se ve ne sono), prospettiva pericolosa per chi esercita il potere – è che la decadenza è, per sua natura, opposta all’idea di progresso, e in particolare a quell’idea di progresso nota e assai coltivata negli ultimi due secoli (anche se in modi diversi), per cui il progresso è “legge” della storia, (e ancor più una forma di legittimazione per chi se ne proclama fautore); e l’umanità in ogni epoca si trova progredita rispetto all’epoca antecedente, e questo processo non avrà mai termine. Solo che i fatti cui far riferimento sono diversi e decisivo, per capire l’andamento, è la collocazione temporale di riferimento. Se si paragona la situazione dell’uomo moderno con quella dell’uomo del neolitico, il progresso è chiaro: in 8-10 millenni è enormemente aumentato il benessere, la durata della vita, le chances di vita. Ma se il periodo di riferimento è diverso, ad esempio tra gli ultimi secoli dell’Impero romano  d’occidente e l’epoca carolingia(circa cinque o sei secoli) parlare di progresso tra l’una e l’altra epoca appare bizzarro. Un servo della gleba carolingio avrebbe considerato con invidia l’antenato, colono di un latifondista: malgrado le vessazioni e le fiscalità della burocrazia del dominato, godeva di edifici pubblici e privati meglio costruiti; di ponti e strade mantenuti, poteva viaggiare anche per mare senza temere pirati e saraceni, e aveva una durata della vita di circa quindici anni più lunga (che è l’indice principale di benessere). Parlargli quindi di progresso – nel senso suddetto – sarebbe sembrata una boutade di cattivo gusto.

La diversità tra il punto d’osservazione e l’osservato ha prodotto pertanto una serie di concezioni dell’ “andamento” della storia, che possono così sintetizzarsi.

L’umanità è in progresso: è quella prima sintetizzata. Nello spazio cartesiano se l’ascissa indica il tempo e l’ordinata la “felicità”, è rappresentata da una retta che cresce verso l’alto.

L’umanità regredisce: è la tesi del pensiero più antico per cui l’umanità ha conosciuto all’inizio della storia l’era più felice (l’età dell’oro, il paradiso terrestre, e così via) ed è andata peggiorando: è, una retta che procede verso il basso.

La storia (le vicende umane) si ripete, in cicli più o meno uguali: concezione cara a gran parte del pensiero antico, meno del moderno: nello spazio cartesiano è una sinusoide con andamento medio  – grossolanamente – parallelo all’asse delle ordinate.

  1. Tale ultima ipotesi (in varie versioni) è stata la più frequentata e condivisa: dagli stoici a Nietzsche passando per Vico. Ha dalla sua un argomento forte: quello della costanza (la regolarità) della natura umana, al di là delle varie vicende storiche. Nella sua applicazione “politica”, cioè prendendo in esame le vicende politico-istituzionali, inizia con Polibio di Megalopoli, il quale tuttavia ricorda di non essere il primo: “Forse con maggiore diligenza da Platone e da alcuni altri filosofi fu trattata la teoria della naturale trasformazione delle varie forme di governo”[1]. Secondo lo storico greco ogni forma politica conosce fasi di progresso e di decadenza, al termine della quale si trasforma in altra. E passando all’esposizione della successione delle forme di governo scrive che prima è la monarchia; ma quando al primo re (“intronizzato” da una crisi – à la Girard) succedono altri, con i privilegi dei re, ma senza le sue qualità e la necessità che lo aveva favorito, “a causa dei soprusi si accesero odio ed ostilità: il regno si mutò in tirannide. Cominciò la rovina di quella forma di governo, si tramarono insidie contro i re”. Coloro che guidano la rivolta costituiscono l’elite del nuovo regime; ovvero l’aristocrazia[2]; ma succedendo loro i figli “ fanno sorgere di nuovo nel popolo uno stato d’animo simile a quello di cui abbiamo prima parlato, e perciò tocca anche a loro una caduta finale simile a quella toccata ai tiranni”. Quindi, altro rivolgimento e istituzione di un regime democratico; al quale, una volta degenerato, succede un nuovo regime monarchico. E il cerchio si chiude.

Machiavelli, nei Discorsi (Lib. I, cap. 2) riprende la concezione di Polibio delle tre forme di governo che degenerano e succedono l’una all’altra “Alcuni altri e, secondo la opinione di molti, più savi, hanno opinione che siano di sei ragioni governi: delle quali tre ne siano pessimi; tre altri siano buoni in loro medesimi, ma sì facili a corrompersi che vengono ancora essi a essere perniciosi” e data la facilità delle forme “buone” a convertirsi nelle “perniziose” “se uno ordinatore di republica  ordina in una città uno di quelli tre stati, ve lo ordina per poco tempo, perché nessuno rimedio può farvi a fare che non sdruccioli nel suo contrario”. E succedendo le forme di governo l’una all’altra Machiavelli conferma che “E questo è il cerchio nel quale girando tutte le republiche si sono governate e si governano: ma rade volte ritornano né governi medesimi, perché quasi nessuna republica  può essere di tanta vita che possa passare molte volte per queste mutazioni e rimanere in piede[3]”.

Tale concezione dell’avvicendamento ciclico delle forme di governo, e della loro decadenza, ritorna, tra gli altri, in Mosca e Pareto. Il primo scrive che questa s’accompagna alla “mancanza di energia nelle classi superiori, che divengono deficienti di caratteri arditi e pugnaci e ricche di individui molli e passivi… quando la classe dirigente è degenerata nel modo che abbiamo accennato, perde l’attitudine a provvedere ai casi suoi ed a quelli della società, che ha la disgrazia di essere da essa guidata”[4].

Il secondo vi ritorna più volte, enumerando (come fa anche Mosca) i sintomi della decadenza: attenuazione della mobilità sociale (“cristallizzazione”) soprattutto chiusura della classe dirigente; uso da parte di questa dell’astuzia più che della forza; la classe governante tende a diventare “un ceto d’impiegati, colla ristrettezza di mente che è propria di tal gente”[5], aumentano, nella classe dirigente, i residui della classe II e scemano quelli della classe I. Quando, nell’impero romano d’Occidente, i barbari lo fanno cadere, invertono le tendenze ricordate[6]. E comincia un nuovo ciclo (o nuova era).

Per Pareto, com’è noto, la regola dei fenomeni sociali è l’andamento ritmico-ondulatorio, per cui ad un periodo ascendente  segue immancabilmente uno discendente, e inversamente[7]. Le “onde” cambiano secondo la durata del fenomeno, e vi sono “vari generi di queste oscillazioni, secondo il tempo in cui si compiono. Questo tempo può essere brevissimo, breve, lungo, lunghissimo”[8]. Scrive Pareto: “Si può dire che in ogni tempo gli uomini hanno avuto qualche idea della forma ritmica, periodica, oscillatoria, ondulata, dei fenomeni  naturali compresi i fenomeni sociali”[9]; nota peraltro che mentre nel passato  prevaleva la convinzione del carattere ciclico, ora prevale quella favorevole all’idea di progresso della società, di un benessere crescente[10].

Tuttavia, rispetto al pensiero classico, in quello degli “elitisti” italiani a decadere non sono (tanto) le forme politiche, quanto le classi dirigenti. Ad essere più precisi è la decadenza di queste a determinare – per lo più – la sorte delle prime: l’insistenza con cui Mosca e Pareto sottolineano l’importanza delle qualità intellettuali e di carattere (in specie il coraggio) delle elite  sia nella fase ascendente che nella discendente, lo dimostra.

Il che non comporta – anche se spesso accade – che una classe dirigente coincida con una determinata organizzazione del potere, né che le due vicende siano sempre sovrapponibili[11].

Peraltro a decadere può essere anche la società civile, e a determinare così quella dell’istituzione politica, almeno a co-determinarla. Tra le cause della decadenza (e poi del crollo) dell’Impero romano d’occidente gli storici hanno indicato più fattori che con le degenerazioni istituzionali e con quelli “politici” avevano poco a che fare: a partire da mutamenti del sentire religioso-spirituale, ovvero il trionfo del cristianesimo sul paganesimo, la caduta del “senso civico” e dei valori tradizionali;  per arrivare a fattori di carattere “materiale” come il calo demografico e la decadenza economica.

  1. Il carattere ciclico non è limitato, ovviamente, ai regimi o alle “forme” politiche. Accanto a questo c’è altro. Quello del chi decade è un altro problema. Essendo ogni comunità umana un aggregato di esseri viventi, e quindi mortali, le sintesi sociali da questi costruite sono soggette allo stesso ciclo: infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia.

Spengler e Toynbec considerano specificamente  l’aspetto della decadenza delle civiltà anche in funzione (di filosofia della storia) anti-eurocentrica. Per cui è la civiltà occidentale (o faustiana o anche del cristianesimo occidentale) oggi a decadere. Della quale è parte, e non poca, l’Italia.

Altri, tra cui occorre ricordare Ernst Nolte, (ma l’elenco di quanti sostengono tale constatazione è assai esteso), ritengono che ad essere nella fase discendente  è l’Europa, detronizzata dalle due guerre mondiali – e successive guerre coloniali – dalla funzione di “guida” del mondo[12].

Anche al processo di decadenza europeo non è estranea – per motivi sia storici che geografici – l’Italia.

Però a decadere può essere anche – e principalmente –  a seguire i pensatori sopra citati – tra i tanti – anche una comunità e, più precisamente, la sua forma politica e classe dirigente.

E qua, di converso, l’Italia si trova da sola – almeno nel contesto sia geografico che di civiltà. É a tale specifica “classe” di decadenza che occorre dedicarsi.

  1. In Italia non piace parlare di decadenza sia perché falsifica – o almeno relativizza – l’idea di progresso, sia perché sminuisce il consenso alle elites al governo.

Queste, come tutte le classi dirigenti, necessitano di “miti” (derivazioni, idee – forza, tavole di valori e così via), atte a legittimarle. Le quali come tutte le cose ed opere umane (comprese le istituzioni) hanno una nascita ed una morte. Al contrario ciò che si vuole di durata eterna – o almeno lunghissima, con termine in saecula saeculorum, – non ha nascita né morte (o, quanto meno, sono ignote ambedue o una delle due)[13].

Parlare di decadenza, di idee e realizzazioni obsolete o anche solo rapportate ad una determinata situazione storica e non aventi validità al di fuori di quella, ormai esaurita – e ancor più se la si pretende eterne ed universali – ha lo stesso senso (e gradimento) di un coro che faccia le prove del requiem per il proprio direttore.

Ciò non toglie che la decadenza vi sia; ed alcuni dati ce la confermano, e servono a chiarirne – per somme linee – la natura. Occorre ricordare che nel 1945 si apriva un nuovo ciclo, dopo una guerra persa e l’occupazione militare, con l’intronizzazione, da parte dei vincitori, di una nuova classe politica, che provvedeva, come da dichiarazione di Yalta, a dare all’Italia una nuova costituzione (peraltro la volontà costituente era anche nella volontà del popolo italiano – v. nota 15, a1); per circa trent’anni durava la fase ascendente; seguita – dopo qualche anno – da quella discendente.

Questa – anche se non esclusivamente – è prevalentemente  decadimento di istituzioni e attività pubbliche (e del relativo personale dirigente). Un dato tra i tanti disponibili, lo sintetizza il PIL italiano è, secondo i dati – il 6° nel mondo – il reddito pro-capite il 14°; mentre il Primo presidente della Corte di Cassazione (quindi non Berlusconi o Dell’Utri) anni fa disse che il funzionamento della giustizia civile italiana la collocava al 156° posto tra gli Stati (che sono, sul pianeta, 181)[14].

Ciò stante è evidente che la decadenza – o meglio questo fattore principale della decadenza italiana ossia del “pubblico” – s’iscrive precisamente nel modello “classico” del ciclo delle istituzioni e dei regimi politici pensato più in relazione a questo che alla comunità cui davano forma. Comunità che continuavano ad esistere (in suo esse perseverare), anche cambiando regime, istituzioni ed elites dirigente, il ciclo delle quali non coincide con quello dell’esistenza comunitaria.

La decadenza delle istituzioni è quindi il fattore principale – anche se non esclusivo – della decadenza italiana, che appare chiaro dal precedente peggioramento delle attività e funzioni pubbliche rispetto a quello delle private (in primis i sette punti di PIL persi negli ultimi cinque anni): gli indici di decadenza pubblica erano già preoccupanti quando quelli non pubblici andavano discretamente: la fase discendente degli apparati istituzionali ha preceduto – di almeno vent’anni – quella delle attività private. Il che non vuol dire che quella è necessariamente ed esclusivamente causa di questa; ma che lo è  in misura rilevante.

E che da almeno trent’anni s’intravedessero dei robusti indici “politologici” di decadenza, a partire da quello della divaricazione tra governati e governanti e di calo del consenso di questi è un dato evidente[15]. Dall’inizio poi degli anni ’90 ancora di più, perché il crollo del comunismo e la “fine” dell’ordine di Yalta hanno concluso il periodo storico in cui le élites attualmente dirigenti hanno conseguito e mantenuto il potere.

Il tutto con evidenti e vistosi effetti sulla legittimazione e sulla reale capacità d’integrazione dell’ordinamento (v. nota precedente). Nella dottrina politica più antica la crisi (cioè il passaggio da un regime ad un altro e da una fase discendente  ad una ascendente)[16], era denotata dalla circostanza eccezionale (nel senso schmittiano o anche à la Girard) e dalla consunzione della vecchia classe dirigente (v. per tutti Polibio e Machiavelli). A partire dalla rivoluzione francese l’accento è stato posto sulla legittimità (e sul venir meno di questa). In realtà i due criteri non si elidono, né sono in opposizione; anzi la categoria (moderna) della legittimità può includere la consunzione, attribuita prevalentemente dai più antichi all’aumento del “divario” tra merito e consenso (ambedue decrescenti) della classe dirigente, col conseguente venir meno della “riverenzia” (scrive Machiavelli) dei governati.

D’ altra parte anche il diritto mostra i segni di decadenza. L’applicazione del quale è lenta, spesso occasionale e ormai assoggettata a crescenti difficoltà ed impedimenti  dissuasivi. A leggere le pagine di Jhering nel  “Kampf’ un’s recht” su come fosse frustrata l’attuazione del diritto sia nel tardo diritto romano e in quello – a lui contemporaneo – dell’età bismarckiana, si ricava l’impressione di quanto la situazione odierna sia ulteriormente peggiorata (e per scopi ancor meno encomiabili)[17] .

Non risulta esservi una trattazione esauriente su come si manifesti la decadenza di un ordinamento giuridico. La difficoltà principale è nel delimitarla da quella politica, da cui manifesta una larga dipendenza. Tuttavia presupposto fondamentale del “giuridico” è la distinzione tra ciò che è permesso e ciò che è vietato (diritto-torto)[18]; distinzione che, per essere tale, dev’essere, almeno in (larga) misura, osservata. Ma se, di converso, sviluppando quanto scriveva Tocqueville sulla legislazione dell’ancien régime (decadente, proprio perché pre-rivoluzionaria) la distinzione è tale in astratto e nei testi giuridici, ma non è osservata concretamente (e cioè come scriveva il pensatore normanno, connotata da norme rigide e da pratiche fiacche) o lo è poco, quel sistema giuridico appare decadente, (come, appunto, l’ancien régime). Che questo sia il caso dell’Italia lo dimostrano tanti indici[19]. Non è il numero delle regole o l’asprezza delle sanzioni a connotare un diritto concretamente vigente, ma che il comando del legislatore (la legge) sia tendenzialmente confortato dall’obbedienza dei cittadini (e dei collaboratori del potere) e quindi applicato realmente. Ove ciò non avvenga – o capiti poco –  significa che si è aperto uno iato tra chi ha il diritto di comandare e chi ha il dovere di obbedire. Fatto essenzialmente politico, ma che si riflette sull’ordinamento giuridico, caratterizzandone la decadenza. Come scriveva Max Weber la potenza è la possibilità di far valere con successo i comandi; il calare – o il venir meno – di questa è il (principale) sintomo della decadenza (e poi del crollo) di un regime e del suo sistema giuridico.

5.Una particolare – anche se succinta- attenzione è da dedicare a quelle teorie italiane apparentemente vicine all’idea di progresso, specificamente rivolte a considerare l’assetto costituzionale del 1948 come il migliore possibile.

Scriviamo apparentemente vicine perché, intrinseca alle varie concezioni del progresso umano è che la società è sempre perfettibile e migliorabile, e non c’è quindi un compimento, un punto finale dello stesso (progresso). In altre parole è loro connaturale l’idea del cambiamento; e in questo, nella concezione dinamica dell’ordine sociale, non si differenziano da altre, anche opposte, teorie.. Mentre a quelle italiane è connaturale una staticità socio-politica per cui l’ordine è quello e non dev’essere cambiato (il che presuppone che sia possibile non cambiarlo). Più che a teorie del progresso somigliano a quelle sulla “fine della storia”, connotate da un evidente utopismo (più manifesto lì, meno in queste).

Ma chi sostiene ciò non si accorge che c’è altrettanta possibilità di  fermare il cambiamento (talvolta lo si può rallentare) che di violare qualsiasi altra legge o  “regolarità” (anche solo) dell’agire sociale (v. su questo ciò che ne pensava Pareto, in nota 10). A proposito di Pareto, probabilmente avrebbe ricondotto tali concezioni a derivazioni (prevalentemente) della classe III, in particolare a quelle argomentate su entità giuridiche o metafisiche.

Altra cosa che lascia stupiti è come manchi a queste teorie alcun confronto con i dati storici e con le concezioni contrarie, condivise dalla melior pars del pensiero occidentale.

Non è dato che si ricordi una società in ordine statico, cioè rimasta, almeno per qualche secolo sostanzialmente immutata: e in effetti lo stesso Impero romano d’occidente, che ebbe la (ragguardevole) durata di circa cinque secoli, passò attraverso tanti cambiamenti politici; in particolare è distinzione universale quella (considerata principale) tra “principato” e “dominato”[20].

Del pari non è affatto considerato che una simile concezione è in contrasto con quelle di pensatori citati (da Platone a Pareto) e sarebbe il caso di confrontarvisi e di capire perché quanto ritenuto da quelli irreale, diventa possibile, oltre che preferibile. E se non vi siano, nell’ordine comunitario, parti tendenzialmente più stabili ed altre più soggette alle inondazioni, scriverebbe Machiavelli, della fortuna[21].  Le quali fanno in genere parte dell’ordinamento  del potere ossia della forma di governo.

 

  1. Diversamente dalle crisi di civiltà descritte da Spengler e Toynbee, l’alternarsi di fasi ascendenti e discendenti dei cicli politici non comporta distruzioni (o rinnovamenti) epocali: non è la caduta dell’impero romano d’occidente o delle civiltà precolombiane, ma solo il rinnovarsi dell’ordine politico. Indubbiamente una crisi, ma in un certo senso “normale” (perché rientrante nell’ordine naturale delle opere e vicende umane). Il pensiero “orientato all’eccezione” moderno, quello giuridico in particolare (da Schmitt ad Hauriou, da Jhering a Santi Romano)[22] non vi vede alcuna “novità”: è la normalità del movimento della storia che comporta il cambiamento (anche) delle istituzioni. Nel pensiero politico realista, soprattutto in Mosca e Pareto, la sostituzione di èlite e regimi consunti, fiacchi e decadenti con elite nuove e vigorose, per lo più produce benefici, anche sociali, rilevanti.

Il cambiamento quindi non è demonizzato; da un canto è considerato come un dato, dall’altro per lo più positivo, almeno nel lungo periodo. E sicuramente appare frutto di visione miope pensare che una situazione, un equilibrio o un regime politico possa essere “cristallizzato” non solo in eterno, ma anche nel breve-medio periodo. Le istituzioni (e le comunità) umane, scriveva Hauriou, sono sempre in movimento e l’ordine che presentano è quello di “un esercito che marcia”; e non, si può aggiungere, quello di un organigramma o di un trattato di geometria. Dietro e dopo la decadenza di un’istituzione si vede un nuovo ordine che è generato; e siccome l’accadere dell’una e dell’altro è regolarità storica, occorre tenerne debito conto.

E per farlo e per non sprecare le occasioni che un rinnovamento dell’ordine politico – in primis quale nuova fase ascendente – offre, vi sono cose da  evitare.

In primo luogo negare che esista la decadenza o sottovalutarla o anche – come capita – attivare la disinformazione nella forma preferita di non discuterne. È proprio quello che si pratica oggi in Italia dove si tenta di esorcizzare la decadenza con formule magiche tratte dall’armamentario verbale del progresso “senza se e senza ma”. Delle quali la storia non si preoccupa, come i terremoti degli autodafè.

La seconda cosa da non praticare è tentare di tirare la storia – sempre lei – per la giacchetta. Come? Paretianamente facendo leva sulle derivazioni e sul  tentativo di ri-legittimazione di classi dirigenti e di regimi esausti.

L’argomento all’uopo più impiegato è esaltare la bontà/bellezza/santità delle (asserite) idee delle elite discendenti. Occorrendo contrapponendole alla cattiveria/bruttezza/peccaminosità di quelle dei loro avversari. Ma il limite dell’ (adusata) operazione è che, specie in tempi di crisi e ancor più se le fasi discendenti si prolungano, i governati sono più attenti ai risultati che alle intenzioni dei governanti, alle (di essi) opere più che alle idee. Per cui, certi discorsi si svelano in breve per quel che sono: espedienti per occultare pratiche (e risultati) di segno contrario. Qualche volta (ma è cosa assai rara) prediche di profeti disarmati[23].

Il presupposto su cui si basa quest’armamentario di giustificazioni è che sia possibile cristallizzare una comunità umana, fermare o anche rallentare per lungo tempo il movimento della storia e delle istituzioni. Come prima cennato, all’inverso, Hauriou vede l’ordine sociale come movimento lento e uniforme, che richiede necessariamente adattamenti e innovazioni[24].

E questa consapevolezza appartiene al giurista francese come a tanti altri, tra cui quelli sopra citati, ai quali c’è da aggiungere (tra i molti) Smend e la sua teoria dell’integrazione che Schmitt riteneva uno dei significati del concetto (assoluto) di costituzione e cioè “il principio del divenire dinamico dell’unità politica”.

Che un ordine sociale possa “cristallizzarsi” è contrario non solo a quella dottrina del diritto ma a gran parte del pensiero filosofico, a cominciare dal panta rei di Eraclito.[25] Oltre che, ciò che più conta, ad un’osservazione, anche non particolarmente profonda, dei mutamenti storici.

In definitiva la concezione criticata trascura che nei fatti sociali vi sono – come in tutti i fatti – sia regolarità (che non si possono cambiare) che variabili (che è nella possibilità della comunità umana innovare): cosa ben nota anche nel pensiero teologico-politico[26]; e ancor più in quello filosofico, politico e giuridico.

  1. Prima di concludere occorre fare due postille. La prima: è da rifiutare la concezione economicista – e quindi, anche marxiana – che le “cause” delle decadenze (e anche delle ascendenze) siano economiche. Indubbiamente l’economia ha la sua parte, ma concorrente, non determinante o almeno (quasi mai) determinante.

Piuttosto è preferibile la tesi weberiana (e non solo) che sia la cultura e in particolare la religione a muovere le file: sia delle fasi di decadenza che di ascendenza.

In tal senso, ancora una volta in questa giornata, è il caso di ricordare cosa ne pensava Hauriou.

Secondo il quale esistono nelle istituzioni fattori di decadenza e dell’inverso, di fondazione: “come fattori di crisi il denaro e lo spirito critico; come fattori di trasformazione (cioè di crisi, ma anche di rifondazione comunitaria e istituzionale) la migrazione dei popoli e il rinnovamento religioso”. Alcune di tali spiegazioni sono note: è almeno dal pensiero antico che è stata rilevata (e da sempre ripetuta) la capacità del denaro e dello spirito economicista di corrodere le istituzioni. Ma è meno ripetuto quanto avverti il giurista francese: che alla fine lo spirito economicista finisce per distruggere perfino le proprie creature (come la speculazione finanziaria fa con l’economia reale – è cronaca di questi anni).

Lo spirito critico (oggi si direbbe relativismo): anche qui, come nelle notazioni sul carattere fondante (le istituzioni) tipico della religione, Hauriou anticipa considerazioni  che avrebbe fatto (anche) Arnold Gehlen. Ma soprattutto demistifica  anticipatamente, e a ben vedere, in una linea di pensiero che va da Vico ai pensatori controrivoluzionari come Maistre e Bonald, l’idea che lo spirito critico possa legittimare autorità e istituzioni. Non foss’altro perché, come scriveva Vico, queste esistono per dare certezze e non verità.

Come fattori di rigenerazione indicava la migrazione dei popoli e il rinnovamento dello spirito religioso.

Argomento su cui ritornò più volte[27]: considerava la teologia il fond di ogni assetto politico che nei governements de fait (quelli generati dalle crisi) tiene unita le comunità anche nel dissolversi delle istituzioni e da modo di ricostruirne delle nuove.

La crisi attuale è connotata proprio dal “disordine” economico-finanziario, che ha, come scriveva il giurista francese un secolo fa, inceppato la stessa macchina capitalista (cioè, in un certo senso, se stesso)[28]; e dallo spirito critico (prevalentemente chiamato “relativismo”)[29], che corrode i “fattori di coesione”, cioè quelli – principale quello religioso – unificanti. Anche in questo non è difficile notare la stretta affinità tra il giudizio del giurista francese e la situazione concreta, anche se spesso – incoerentemente – contorta nelle contraddizioni del di chi vorrebbe giustificarla. Basti ricordare la bizzarria di una “Costituzione” europea (che non è costituzione), ma era spacciata come tale, che è stata privata del riferimento alle “radici giudaico-cristiane” rifiutandone così esplicitamente i caratteri unificanti (oltre che dimenticando più di un millennio di storia): in vista di un qualcosa (un “melting pot” tra culture) e che non si sa come e se avverrà e soprattutto se potrà unificare veramente popoli diversi.

Teodoro Klitsche de la Grange

(relazione tenuta il 21/02/2014 al convegno del Movimento “Per una Nuova

oggettività” su la “Decadenza”, all’ “Universale” in Roma)

(*) Questo lavoro è la rielaborazione di una relazione ad un Convegno già pubblicata su “Politicamente”, “Civium Libertas” e, in forma ridotta, sul “Borghese”.

[1] E, in effetti, Platone scrive “E’ difficile scuotere uno stato così conformato; ma poiché ogni cosa che nasce è soggetta  a corruzione, nemmeno una simile conformazione resisterà per sempre e finirà col dissolversi. E la dissoluzione consiste in questo: non solamente per le piante radicate al terreno, ma anche negli animali che vivono sulla terra si producono fertilità e sterilità, d’anima e di corpi, quando per i singoli esseri periodiche rivoluzioni congiungono e concludono i rispettivi moti ciclici” La Repubblica, lib. VIII 545.

[2] “A quelli che lo hanno liberato dai monarchi, infatti, quasi a dimostrare la sua gratitudine, esso concede il potere e affida se stesso. Costoro da principio, soddisfatti dell’incarico avuto, nulla stimano più importante dell’utilità pubblica e curano con grande zelo e attenzione gli interessi privati e quelli dello Stato” v. Polibio Le storie, libro VI, cap. VIII.

[3] E di seguito scrive “Ma bene interviene che per travagliare una  republica, mancandole sempre consiglio e forze diventa suddita d’uno stato propinquo che sia meglio ordinato di lei; ma posto che questo non fusse, sarebbe atta una republica a rigirarsi infinito tempo in questi governi. Dico adunque che tutti i detti modi sono pestiferi, per la brevità della vita che è ne’ tre buoni e per malignità che è ne’ tre rei” (i corsivi sono nostri) op. loc. cit.

[4] v. La classe politica, Bari 1965, p.  120. V. anche Elementi di scienza politica, Torino 1923, pp. 68 ss., 86 ss.

[5] v. Pareto, Trattato di sociologia generale, § 2549, Milano1981, vol. V.

[6] “Allora i Barbari rompono la cristallizzazione della società, ed è questo il principale beneficio che ad essa fanno… in grazia della loro ignoranza, spezzano la macchina dell’ordinamento dell’Impero, che pure avrebbero voluto conservare, ma che sono incapaci di maneggiare. Così depongono il seme che fruttificherà una nuova civiltà”. Col tempo “appaiono qua e là dei punti, ove, in stato di interdipendenza, crescono i residui della classe I e l’attività commerciale” op. cit., § 2551.

[7] Op. cit., § 2330.

[8] Op. cit., § 2338.

[9] E prosegue “Negli individui si nota una successione ininterrotta, col subentrare di nuove persone al posto di quelle fatte sparire dalla morte, col succedersi indefinito dell’età, infanzia, virilità, vecchiaia. Il concetto di una successione simile per le famiglie, le città, i popoli, le nazioni, l’umanità intera, nasce spontaneo” anche se rifiuta considerazioni metafisiche e pseudo-sperimentali cui ritiene preferibile “Uno studio un po’ diffuso di queste teorie non sarebbe di alcuna utilità pratica per la conoscenza dei fenomeni che dovrebbero essere rappresentati dalle teorie. Il tempo necessario per questo lavoro può essere più utilmente consacrato allo studio obiettivo dei fenomeni o, se si ama meglio, delle testimonianze dirette che vi si riferiscono, come pure alla ricerca degli indici misurabili dei fenomeni e alla classificazione delle oscillazioni per ordine d’intensità”  op. cit., § 2330.

[10] “Le oscillazioni che non si possono negare, sono supposte anormali, accessorie, accidentali; ciascuna ha una causa che si potrebbe e si dovrebbe togliere, col che sparirebbe anche l’oscillazione” e la qualifica come “derivazioni” (§2334); nel successivo nota che “Si possono disgiungere le oscillazioni, mantenere le favorevoli, levar via le sfavorevoli, rimuovendone la causa. Quasi tutti gli storici ammettono, almeno implicitamente, questo teorema, e si danno un gran da fare per insegnarci come avrebbero dovuto operare i popoli per rimanere sempre nei periodi favorevoli e non trapassar mai negli sfavorevoli. Anche non pochi economisti sanno e benignamente  insegnano come si potrebbero scansare le crisi; col qual nome indicano esclusivamente il periodo discendente delle oscillazioni”; ma sono considerazioni a fondamento non scientifico; “I profeti israeliti trovavano la causa dei periodi discendenti della prosperità di Israele nell’ira di Dio; i Romani erano persuasi che ogni male sofferto dalla città loro aveva per causa una qualche trasgressione al culto degli dei” (§2337) ma “se si vuole proprio fare uso del termine ingannevole di causa, si può dire che il periodo discendente è causa del periodo ascendente che ad esso fa seguito, e viceversa; ma ciò deve intendersi solo nel senso che il periodo ascendente è indissolubilmente congiunto al periodo  discendente che lo precede, e viceversa; dunque in generale: che i diversi periodi sono solo manifestazioni di un unico stato di cose e che l’osservazione ce li mostra succedentisi l’uno all’altro, per modo che il seguire tale successione è un’uniformità sperimentale” (§ 2338).

[11] Anche guerre civili – come quelle che tormentarono in varie epoche l’Impero romano e le monarchie feudali europee – e che, servendosi dei concetti e del lessico degli elitisti, sono per lo più, riconducibile a lotte tra fazioni della stessa “classe politica” –  non vertevano su come si dovesse organizzare il potere ma su chi doveva esercitarlo. Onde la vittoria di una frazione significava solo una radicale modificazione dell’organigramma e non dell’organizzazione (né della “formula politica”). Viceversa a Filippi si posero le basi di una durevole “trasformazione costituzionale”: quella di Roma da repubblica ad Impero, nell’aria già da decenni.

Anche se più raramente, capita che una classe dirigente abbia la capacità di cambiare l’ordinamento, pur senza mutare – o senza cambiare in toto – il personale politico. Il caso recente del crollo del comunismo lo conferma: gran parte delle classi dirigenti post-comuniste sono formate da personale – di primo e più spesso di secondo piano – delle vecchie. La dissoluzione in circa venti nuovi Stati dell’URSS e della Iugoslavia  – cioè il cambiamento costituzionale più radicale,  la nascita di nuovi Stati dai due dissolti  – è stato voluto, e gestito, prevalentemente da componenti della rispettiva “nomenklatura”.

 

[12] Una sintesi breve ma intensa di tale tesi può leggersi in Ernst Nolte I diversi volti dell’Europa, conferenza tenuta in Salerno il 17 ottobre 2005.

[13] In fondo vale per il “tipo ideale” del mito quanto sosteneva Antigone nel famoso dialogo con Creonte, per la legge voluta dagli Dei “Non ho pensato che i tuoi decreti avessero il potere di far sì che un mortale potesse trasgredire le leggi non scritte dagli dei, leggi immutabili che non sono di ieri né di oggi, ma esistono da sempre, e nessuno sa da quando”.

[14] Ancor peggiore la situazione è a leggere i dati diffusi dalla stampa (un po’ meno dalla televisione) sui records negativi di quasi tutte le amministrazioni italiane, dal livello di corruzione (anche se è dubbio come lo si possa quantificare) ai ritardi dei pagamenti delle PP.AA. – sui quali è in corso una pluriennale polemica.

 

[15] Qualcuno – tra cui chi scrive – ne ha indicati alcuni che ricordiamo:

  1. a) in primo luogo quelli “quantitativi”;

a1) Il 18/04/1948 il complesso dei partiti che aveva votato la costituzione conseguì oltre l’80% dei suffragi del corpo elettorale italiano; alle ultime elezioni – dopo che gran parte di quei partiti erano scomparsi e spezzoni delle vecchie classi dirigenti di quelli sopravvivono in altre formazioni – i partiti che si dichiarano favorevoli al mantenimento della costituzione rappresentano poco più del 20% del corpo elettorale;

a2) i votanti alle elezioni politiche, che fino agli anni ’80 erano circa il 90% del corpo elettorale, sono poco più del 70%; ancor più significativo è il calo dei votanti alle elezioni amministrative;

a3) mentre fino a metà degli anni ’80 nei referendum abrogativi il “SI” vinceva (cioè vinceva l’assenso popolare al Parlamento che aveva elaborato o mantenuto le leggi sottoposte alla consultazione), dopo ha vinto quasi sempre il “NO” (il cui senso politico è l’inverso). In alcuni referendum (quelli sul finanziamento pubblico ai partiti) nei due periodi considerati il risultato si è invertito.

  1. b) Quelli “qualitativi”:

b1) L’ordine di Yalta è venuto meno col crollo del comunismo;

b2) una campagna giudiziario-mediatica (“mani pulite”) è riuscita a demolire gran parte del sistema partitico della Repubblica “nata dalla Resistenza”. Questo dopo il decisivo evento sub b1);

b3) lo spazio politico dei partiti variamente “antagonisti” è cresciuto dal 10/15% fino agli anni ’80 al 35% delle ultime elezioni;

b4) altra circostanza significativa: è cresciuto il ruolo pubblico del personale non-politico (burocratico e tecnocratico). Nel 2000 il Presidente della Repubblica e il Presidente del Consiglio dei Ministtri (cioè i vertici dell’ordinamento costituzionale) avevano fatto “carriera” prevalentemente od esclusivamente fuori dalle assemblee elettive. Nel 2011 era varato un governo composto tutto da personale non politico. Ciò ha portato a parlare diffusamente di “antipolitica”, ma dato che alla politica non c’è alternativa (e si sa da quando Aristotele definì l’uomo zoon politikon), meglio sarebbe inquadrare il fenomeno quale segno, profondo anche se confuso, della transizione tra diverse elites e regimi, nel solco della tradizione “ciclica” e “ritmica”.

[16] Crisi è sempre il cambio di regime: le fasi ascendente e discendente non caratterizzano tutti i cambiamenti di regime.

[17] Scrive Jhering distinguendo tra il diritto romano e quello a lui contemporaneo che questo non teneva conto della riparazione del torto, quanto dell’interesse materiale da tutelare Non rimane che il puro e nudo interesse materiale, come oggetto unico del processo. Che la bilancia di Temi nel diritto privato stesso come nel  punitivo debba pesare non il solo interesse pecuniario, ma anche il torto, è pensiero così lontano dalle nostre odierne rappresentazioni giuristiche, che, mentre oso esprimerlo, devo aspettare a sentirmi opporre che in ciò appunto consiste la differenza tra il diritto punitivo ed il privato…..Bisognerebbe prima potermi dimostrare che v’è una sfera del Diritto, nella quale l’idea della giustizia  non debba attuarsi in tutta la pienezza e realtà sua. Il fatto è invece che l’idea di giustizia  è inseparabile dalla esplicazione del concetto della colpabilità  “Kampf un’s recht, trad. it. 1935 Bari,  pp. 115-116. La conclusione che se ne trae è che i sudditi del Reich godevano di una tutela giuridica comunque attenta all’interesse materiale; mentre i cittadini della Repubblica italiana trovano crescenti (e volute) difficoltà a far tutelare anche questo.

[18] Ed è un presupposto indefettibile: una società dove tutto fosse permesso, non vi sarebbe perciò un diritto; e dove tutto fosse vietato, s’estinguerebbe la vita sociale.

[19] A cominciare dal fatto che quasi il 90% delle notitiae criminis sono archiviate su richiesta dei P.M..

[20] Ovviamente i cambiamenti costituzionali non sono limitati a quello, ma riguardarono tanti  altri elementi importanti della forma di governo, dalla regola di successione (adozione? proclamazione da parte delle Legioni? elezione del Senato?) e dell’unità del potere supremo (tetrarchia, associazione di parenti al potere imperiale), fino alla “reggenza” e al governo “occulto”, ma tollerato.

[21] Principe XXV.

[22] Spesso la crisi non comporta (neanche) il cambiamento di regime, come nella dittatura commissaria di Schmitt.

[23] Cosa non frequente, perché non appare in generale che le classi dirigenti decadenti esprimano dei Savonarola o dei S. Giovanni (Battista); tanto meno le elites italiane con le loro carriere, pensioni d’oro, e così via. Acutamente Pareto notava che, in fase discendente queste si servono dell’astuzia più che della forza. E dell’astuzia fanno parte i “paternostri”.

[24] “Senza dubbio, il movimento lento ed uniforme di questa organizzazione (ordonnen cement) di quadri non procede neanche essa senza modificazioni nei quadri” (è il corrispondente della “mobilità” interna dell’elites di governo in Pareto – n.d.r.) … “nell’insieme, l’ordine sociale, nel suo movimento ordinato, con il suo sistema di istituzioni e il suo governo, procede nelle regioni ignote del tempo nelle stese condizioni di un esercito in marcia in un territorio nemico. Gli Stati sono delle armate civili in movimento che, come l’agmen, sono tenute a conservare con cura  il proprio ordine … Non abbiamo da tempo l’illusione (che stabilità sia immobilità – n.d.r.) … siamo più realisti, sappiamo che nulla è immobile, che tutto si trasforma. V. Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 74-76.

[25] Interpretando il quale Spengler scriveva sul Panta Rei “L’idea fondamentale su cui Eraclito basò la sua intuizione del mondo è già interamente contenuta nel famoso panta rei. Il mero concetto dello scorrere (del mutamento) è però troppo indeterminato per far riconoscere le più fini e profonde sfumature di tale idea, il cui valore non sta nell’affermare – cosa di cui nessuno dubita – la semplice diversità degli stati successivi del mondo visibile e tangibile” piuttosto il cosmo è in continuo movimento e “il fondo dell’apparire è piuttosto da pensare come puro agire; se si vuole, come somma di tensioni” (v. Oswald Spengler, Eraclito, ed. Settimo Sigillo, Roma s.d.). In definitiva il cambiamento è la normalità (almeno) della vita e dei processi vitali.

[26] In sintesi, essendo un tema che chi scrive ha affrontato più volte, la nota espressione di S. Paolo “Non est enim potestas…nisi a Deo”, è stata interpretata da una parte dei teologi cristiani nel senso che se l’ordine politico è necessario per volontà divina, le forme di esso e dei regimi politici sono “per populum” ossia rimessi alla volontà e (decisione) della comunità.

[27] Dalla Science sociale traditionnel al Précis del droit constitutionnel..

[28] Scriveva Hauriou: “Cosa ancora più sconcertante è che il denaro sta provocando la dissoluzione anche dell’organizzazione capitalista, ovvero dopo aver distrutto il feudalesimo e fondato un mondo nuovo il  denaro, continuando nell’azione distruttiva  manda in rovina perino la propria opera. Ciò è causato dal fatto che la moneta che era soltanto un segno di ricchezza diventa fine a se stessa. Si è creata dunque un classe importante di speculatori e di aggiotatori la cui sola occupazione è quella di fare alzare e abbassare il valore del denaro. Speculando sugli alti e bassi producono pesanti alterazioni sul commercio e l’industria volatilizzandone le riserve” ne La Science sociale traditionnelle, trad. it. di Federica Katte Klitsche de la Grange in Rinascita 22/11/2012.

[29] E Hauriou sosteneva che: “L’azione dissolvente dello spirito critico è simile a quella del denaro solo che essa viene esercitata sui fattori di coesione. Alla fine del Medio Evo lo spirito critico  ha affievolito l’influenza della religione privandola in parte della sua virtù istituente[29]. Dal momento in cui l’epoca rinascimentale si organizza su base razionale, in virtù dell’amministrazione e della legislazione dello Stato, esso stesso diviene principio di conservazione e di salvezza, a maggior ragione perché convive pacificamente con la società religiosa. Nondimeno verso la fine del rinascimento si inorgoglisce sempre di più fino a promuovere guerra nei confronti della religione; infine neutralizza completamente la propria influenza volgendo verso se stesso l’arma dell’analisi filosofica degradata a livelli di scetticismo pratico e dilettantismo. Contemporaneamente critica i fondamenti dello Stato di cui lo stesso è fondatore, li perturba a piacimento dei sistemi stessi, sia individualisti , sia collettivisti e infine lo fa traviare.” op. loc. cit.

LA FINANZA, UNO STRUMENTO DI LOTTA TRA LE NAZIONI EUROPEE SOTTOPOSTE ALLE STRATEGIE USA 2a parte, a cura di Luigi Longo

LA FINANZA, UNO STRUMENTO DI LOTTA TRA LE NAZIONI EUROPEE SOTTOPOSTE ALLE STRATEGIE USA 2a parte

(a cura di) Luigi Longo

 

 

Propongo la lettura di quattro scritti di cui il primo sull’euro, sullo spread e sul rapporto tra l’Italia e la Germania; il secondo sul non rispetto delle regole europee da parte della Bundesbank nell’emissione dei titoli del debito pubblico; il terzo sul debito pubblico; il quarto sulla necessità di un principe che con dura energia sappia rialzare la Nazione da uno stato di degrado economico, politico e sociale.

I due scritti di Domenico de Simone, un economista “radical”, sono apparsi sul sito www.domenicods.wordpress.com, rispettivamente in data 27/5/2018 e 18/2/2014, con i seguenti titoli: 1) italiani scrocconi e fannulloni? tedeschi truffatori e falsari!; 2) Con la scusa del debito.

Lo scritto di Domenico De Leo, economista, è apparso sul sito www.economiaepolitica.it in data 7/12/2011, con il seguente titolo: L’eccezione tedesca nel collocamento dei titoli di stato.

Per ultimo propongo lo stralcio dello scritto di G.W.F. Hegel dal titolo: Il “Principe” di Macchiavelli e l’Italia che è stato pubblicato in Niccolò Macchiavelli, Il Principe, a cura di Ugo Dotti, Feltrinelli, Milano, 2011, pp. 246-248.

L’idea di questa proposta, già ribadita nella prima parte, è scaturita seguendo con grande fatica la crisi politica e istituzionale che si è innescata a partire dalle elezioni politiche del 4 marzo scorso: è irritante fare analisi politiche di grandi questioni (sic) a partire dalle elezioni politiche che sono teatrini indecenti con maschere penose e tristi, così come tristi sono le relazioni di potere!

Si parla in questi giorni di questioni come la difesa dell’euro, il debito pubblico, il pareggio di bilancio, lo spread, l’Unione Europea, la Costituzione violata, eccetera, velando i veri problemi che sono quelli dati dalla mancanza di sovranità nazionale (indipendenza, autonomia e autodeterminazione) e da una Europa che non esiste come soggetto politico (non è mai esistita storicamente): questa Unione europea, economica e finanziaria è figlia delle strategie egemoniche mondiali statunitensi.

L’Europa è una espressione geografica storicamente data a servizio degli Stati Uniti dove i sub-dominanti vogliono tutelare i propri interessi nazionali, svolgere le proprie funzioni per accrescere il loro potere sotto l’ala protettiva e allo stesso tempo minacciosa degli Stati Uniti (egemonia nelle istituzioni internazionali e nella Nato) a scapito degli interessi della maggioranza delle popolazioni nazionali ed europee (gli scritti di Domenico de Simone e di Domenico De Leo chiariscono molto bene il ruolo di potere degli agenti strategici che usano gli strumenti della finanza nel conflitto per la difesa del posto di vassallo europeo da parte tedesca).

La crisi dell’Italia (crisi di una idea di sviluppo e di una comunità nazionale inserite in una crisi d’epoca mondiale) va vista nel ruolo che l’Italia svolge nelle strategie statunitensi: sul territorio italiano ci sono fondamentali infrastrutture (immobili e mobili) militari a servizio degli Usa, nel Mediterraneo, nel Medio Oriente e in Oriente. Gli Usa-Nato stanno cambiando le città e i territori, stanno distruggendo le industrie di base, stanno rimodellando le economie dei territori; il Pentagono decide gli investimenti e le infrastrutture necessari; in definitiva hanno compromesso le basi per lo sviluppo di una discreta potenza del Paese: ci restano solo il cosiddetto made in Italy e il piccolo, medio è bello (sic). Il segretario di Stato USA, Mike Pompeo, facendo gli auguri al popolo italiano per la festa della Repubblica, ha detto che “La nostra continua cooperazione economica, politica e sulla sicurezza è vitale (corsivo mio) per affrontare le sfide comuni, tra cui il rafforzamento della sicurezza transatlantica e la lotta al terrorismo in tutto il mondo”.

Lo sbandamento dei sub-decisori italiani non è dovuto alla ricerca di un percorso di sovranità nazionale, da cercare con altre nazioni europee, per ripensare un’Europa come soggetto politico autonomo ( le cui forme istituzionali sono da inventare); ma esso è dovuto al conflitto interno agli USA dove si scontrano le visioni diverse dell’utilizzo dello spazio Europa in funzione delle proprie strategie egemoniche mondiali: 1) una Europa sotto il coordinamento del vassallo tedesco e del valvassore francese con la costruzione di uno Stato europeo?; 2) una Europa delle Nazioni singole?; 3) una Europa ridisegnata con la creazione di regioni?; 4) una Europa riorganizzata in aree << secondo le linee che marcano lo sviluppo storico>>?

La nuova sintesi dei dominanti statunitensi basata su un’idea di sviluppo con una diversa organizzazione sociale ( se mai ci sarà, considerato l’atroce conflitto in atto che indica l’inizio del declino dell’impero) dirà quale Europa sarà funzionale al rilancio egemonico mondiale.

E’ bastato che alcune forze politiche sistemiche proponessero ( non a livello di azione, che presuppone ben altre analisi e ben altri processi) aggiustamenti tecnici, maggiore equità, una ri-sistemazione sistemica delle gerarchie consolidate, una maggiore difesa dei propri interessi nazionali in funzione di una migliore Europa atlantica, che la reazione del potere sub-dominante europeo (soprattutto tedesco) fosse violenta, scomposta e rozza.

Il ruolo di garante di questa Europa legata ai dominanti statunitensi, che si configurano nel blocco democratico – neocon – repubblicano ( di questo blocco sono da capire meglio gli intrecci dei decisori della sfera politica), che vogliono una Europa coordinata dal vassallo tedesco, è rappresentato, in Italia, dal Presidente della Repubblica (oggi Sergio Mattarella, ieri Giorgio Napolitano). Il gioco istituzionale di Sergio Mattarella è da inquadrare in questa logica, altrimenti non si capiscono bene le contraddizioni, i paradossi, le sbandate e le ipocrisie di tutta la sfera politica. Attardarsi sul rispetto della Costituzione da parte del Presidente della Repubblica è un non sense perché la Costituzione è una espressione dei decisori e non del popolo. Le regole, le norme, i principi che regolano i rapporti sociali di una Comunità nazionale sono in mano a pochi e non a molti. Come insegna la cultura antica, soprattutto greca, quando le regole del legame sociale non sono decise dalla maggioranza non c’è nè democrazia nè libertà.

Occorre riflettere sulla tragica situazione in cui si trova l’Italia in particolare, e più in generale l’Europa, per trovare una strada che non sia solo elettorale, che non sia solo tecnica-finanziaria, che non veda la finanza come un dominio ma come uno strumento di potere in mano agli agenti strategici sub-dominanti europei e pre-dominati statunitensi. << Oggi si parla tanto della finanziarizzazione del capitale e del suo strapotere. Magari vedendo in questo processo l’avvicinarsi di una crisi catastrofica. Ma la finanza è solo un fattore fra altri, non isolabile, dello scontro per la supremazia fra i gruppi dominanti. Il capitale finanziario insomma rappresenta i conflitti in atto tra diverse forze e strategie politiche, combattuti con l’arma del denaro. Se vogliamo allora comprendere gli squilibri e le crisi che caratterizzano il capitalismo contemporaneo dovremmo addentrarci in un complesso intreccio tra funzioni finanziarie e politiche e nelle contraddizioni tra la razionalità strategica che prefigura assetti di potere e la razionalità strumentale che mira ai vantaggi immediati dell’economia. Al fondo vi è sempre lo scontro tra gruppi dominanti.>> (Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008).

Per questo il rito delle elezioni è diventato sempre più inutile (l’esempio greco, e non solo, è significativo!) e mano a mano che si entrerà sempre di più nella fase multicentrica si renderà sempre più palese l’ideologia della partecipazione popolare alle decisioni del Paese tramite il voto elettorale, alla faccia della Costituzione!

La fase multicentrica impone una ri-considerazione sul ruolo della sovranità nazionale per ri-costruire una Europa delle nazioni sovrane che chiarisca il suo rapporto con gli USA e guardi ad Oriente.

 

Per comodità di lettura gli scritti proposti sono stati divisi e pubblicati in quattro parti, ciascuna preceduta dalla mia introduzione.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

SECONDA PARTE

 

L’ECCEZIONE TEDESCA NEL COLLOCAMENTO DEI TITOLI DI STATO

di Manfredi De Leo

 

  1. L’esito della recente asta dei titoli pubblici tedeschi ha sollevato un interessante dibattito intorno alle specificità del meccanismo di collocamento dei titoli pubblici che sembrano distinguere la Germania dagli altri paesi dell’eurozona. Il dibattito prende spunto dai dettagli presenti nel resoconto ufficiale della procedura d’asta, laddove si comunica che sono stati emessi tutti i 6 miliardi di euro di titoli inizialmente previsti dal governo, ma al contempo si afferma che – di questi – solamente 3,6 sono stati collocati presso investitori privati. Si tratta dunque di capire esattamente cosa è successo a quei 2,4 miliardi di euro di titoli residui, che sono stati dichiarati emessi, ma non sono stati sottoscritti dai partecipanti all’asta.

Il resoconto ufficiale dell’asta definisce quella particolare quota dell’emissione come “Ammontare messo da parte per operazioni sul mercato secondario”. Dunque il 40% dei titoli emessi è stato trattenuto con lo scopo di essere successivamente venduto sul mercato secondario: una quota consistente dei titoli è stata, in altri termini, emessa ma non collocata presso gli investitori privati. Una simile operazione sembra possibile solamente qualora si ammetta l’intervento della Bundesbank, che avrebbe sottoscritto una parte della nuova emissione – come suggeriscono numerosi commentatori[1]. Ciò significherebbe che la Germania opera al di fuori delle regole comuni dell’eurozona[2], ossia in deroga a quegli stessi principi che hanno impedito, ad esempio, alla Banca Centrale Greca di intervenire a sostegno dei titoli pubblici ellenici tra il Dicembre 2009 ed il Maggio 2010, quando la spirale nei tassi di interesse pretesi dai mercati finanziari internazionali in sede d’asta ha di fatto costretto Atene a ricorrere ad un prestito istituzionale, vincolato all’adozione delle cosiddette misure di austerità. L’“eccezione tedesca” alle regole europee sull’emissione di titoli del debito pubblico appare ancora più significativa se si considera che la pratica di trattenere una quota (anche consistente) dell’emissione “per operazioni sul mercato secondario” non costituisce affatto un’anomalia nelle ordinarie operazioni di collocamento dei bund, ma ne rappresenta piuttosto il regolare funzionamento: come illustrato dal seguente grafico, la Germania trattiene regolarmente una quota delle emissioni, esattamente come accaduto in quest’ultima, discussa, asta di bund decennali.

Cercheremo di dimostrare che la Bundesbank sostiene attivamente il collocamento dei titoli pubblici tedeschi, esercitando un’influenza dominante sul prezzo dei titoli di nuova emissione, senza però ricorrere alla sottoscrizione degli stessi sul mercato primario, ma articolando il proprio intervento in modo tale da aggirare i divieti imposti dal Trattato di Maastricht, e praticare di fatto il finanziamento diretto del debito pubblico tedesco.

 

  1. Iniziamo col dire che il dibattito sull’asta dei titoli tedeschi ha il grande pregio di restituire il meccanismo di emissione dei titoli pubblici – fatto di regolamenti, prassi e rapporti di forza tra governi, banche private nazionali e internazionali – ad un contesto istituzionale più complesso di quella ‘forma di mercato’ che gli viene attribuita dalle istituzioni europee, e che giustifica il divieto di acquisto dei titoli pubblici imposto alle banche centrali, chiamate appunto a non interferire con il regolare funzionamento del mercato del credito.

Vogliamo capire come sia possibile che un titolo pubblico venga emesso, ma non collocato. Precisiamo innanzitutto cosa si intende per collocamento: un titolo si definisce collocato quando viene sottoscritto per la prima volta. L’ufficio governativo responsabile dell’emissione dei titoli del debito pubblico tedesco è l’Agenzia per il debito (Finanzagentur), la quale gestisce le procedure d’asta e poi trattiene i titoli non collocati presso quella platea di investitori privati che hanno l’accesso riservato al mercato primario, platea costituita da una quarantina di banche e società finanziarie tedesche ed internazionali. L’idea, suggerita da molti commentatori, che i titoli non collocati vengano di fatto sottoscritti dalla banca centrale tedesca è stata immediatamente contestata, poiché sembra scaturire da una errata interpretazione del particolare ruolo svolto da quest’ultima all’interno del processo di emissione dei titoli. Come vedremo, sebbene sia effettivamente possibile confutare la tesi secondo cui la Bundesbank sottoscrive i titoli pubblici tedeschi direttamente sul mercato primario, la banca centrale tedesca può contare su altri e diversi canali per intervenire sui titoli di nuova emissione, con risultati assolutamente equivalenti all’azione diretta sul mercato primario.

La Bundesbank agisce per conto dell’Agenzia per il debito tedesca in qualità di “banca custode e non di prestatore di ultima istanza”, come sostiene Isabella Bufacchi sul Sole 24 Ore del 26 Novembre 2011: i titoli trattenuti risultano in sostanza congelati presso la banca centrale tedesca, senza che questa corrisponda al governo alcuna somma di denaro in cambio, ossia senza che quei titoli risultino effettivamente sottoscritti. Spiega ancora la Bufacchi: “L`agenzia del debito tedesco riprende poi quei titoli invenduti e li ricolloca in tranche sul secondario, nell`arco di qualche giorno o in casi di mercati ostici di qualche settimana.” Dunque sembra, a prima vista, che la Germania non stia procedendo alla cosiddetta ‘monetizzazione’ del debito pubblico. A confermare questa interpretazione interviene anche la prestigiosa rivista The Economist, pubblicando sul proprio sito l’articolo Fun with bunds in cui, “per evitare che i bloggers passino molto tempo immersi nei meccanismi d’asta delle obbligazioni europee”, si affida la soluzione al dilemma alle parole di un rappresentate della PIMCO, una delle più importanti società private di investimento a livello internazionale: “La Finanzagentur ha emesso solamente 3,6 miliardi in cambio di liquidità. Loro hanno collocato 3,6 miliardi sul mercato ed hanno trattenuto 2,4 miliardi sui loro libri contabili. In futuro potranno vendere l’ammontare trattenuto sul mercato secondario, ottenendo la corrispondente liquidità. Potreste aver letto che la Bundesbank ha acquistato la quota dell’emissione che non è stata collocata in asta; ciò non è corretto. La Bundesbank non sta finanziando la Germania; opera semplicemente come un’agenzia per la Finanzagentur.”

La pratica dell’Agenzia tedesca per il debito, consistente nel trattenere una quota dell’emissione, viene dunque presentata, molto semplicemente, come un metodo per procrastinare il collocamento di quei titoli, in attesa di più favorevoli condizioni sui mercati finanziari: una mera questione di tempo, poiché i titoli emessi ma non anche collocati saranno, prima o poi, effettivamente collocati.

 

 

  1. Dopo aver “passato molto tempo immersi nei meccanismi d’asta delle obbligazioni europee”, è forse possibile mettere in discussione la validità di questa lettura del problema, ed incentrare l’interpretazione del particolare meccanismo di emissione dei titoli pubblici tedeschi non tanto sul ‘quando’ i titoli trattenuti verranno sottoscritti, quanto piuttosto sul ‘dove’ quei titoli verranno poi, effettivamente, collocati.

La struttura istituzionale conferita generalmente agli odierni processi di emissione dei titoli del debito pubblico si fonda su una netta distinzione tra il mercato primario, dove i governi collocano i titoli di nuova emissione, ed il mercato secondario, dove i titoli già emessi possono essere liberamente scambiati. Tale distinzione è rilevante, all’interno della cornice istituzionale dell’eurozona, poiché il Trattato di Maastricht (comma 1 art. 101[2]) vieta esplicitamente alle banche centrali dell’eurozona l’acquisto di titoli del debito pubblico dei paesi membri solamente sul mercato primario: la BCE e le banche centrali dei paesi membri sono dunque lasciate libere di acquistare titoli del debito pubblico dei paesi membri dell’eurozona sul mercato secondario, e siamo certi che stiano operando in questo senso quantomeno a partire dal Maggio 2010, nel contesto del Securities Markets Programme[4]. Si noti come la chiara distinzione tra mercato primario e mercato secondario, ovvero la regola per cui sul mercato secondario possono essere scambiati solamente titoli già emessi sul mercato primario, sia il presupposto della logica seguita dalle istituzioni europee, le quali prevedono contemporaneamente il divieto imposto da Maastricht, che si riferisce al mercato primario, ed il Securities Markets Programme, che limita al mercato secondario la libertà di intervento delle banche centrali. Nelle parole dell’allora Governatore della BCE Trichet: “le nostre azioni sono pienamente conformi al divieto di finanziamento monetario [del debito pubblico] e dunque alla nostra indipendenza finanziaria. Il Trattato vieta l’acquisto diretto, da parte della BCE, dei titoli del debito emessi dai governi. Noi stiamo acquistando quei titoli solamente sul mercato secondario, e dunque restiamo ancorati ai principi del Trattato”.[5]

Alla luce di quanto detto circa la pratica – operata negli anni dalla Germania – di destinare una quota rilevante delle emissione ad operazioni sul mercato secondario, risulta evidente che, quando consideriamo il mercato dei titoli pubblici tedeschi, la distinzione tra mercato primario e mercato secondario si fa quantomeno labile: tramite la quota di titoli di nuova emissione regolarmente trattenuta dall’Agenzia del debito, infatti, la Germania è in grado di collocare i propri titoli del debito pubblico direttamente sul mercato secondario. Ciò è rilevante perché se il mercato primario dei titoli pubblici è esplicitamente riservato, in tutti i paesi dell’eurozona, ad un gruppo di investitori privati, sul mercato secondario operano – accanto agli investitori privati – anche le banche centrali dei paesi membri. Questo significa che il tasso di interesse che si determina sul mercato primario può essere spinto al rialzo da una carenza di domanda di titoli che non ha ragione di esistere sul mercato secondario, laddove l’azione della banca centrale implica una domanda potenzialmente infinita per i titoli pubblici: sul mercato primario, dove non operano le banche centrali, può sussistere una situazione di eccesso di offerta di titoli che conduce ad un rialzo nei tassi di interesse, quale quello osservato in Grecia nei primi mesi del 2010, ed in Italia a partire dall’Agosto 2011, mentre sul mercato secondario l’intervento della banca centrale ha il potere di creare tutta la domanda necessaria a spingere al ribasso il rendimento dei titoli pubblici. Pertanto, il semplice fatto che il collocamento dei bund di nuova emissione avvenga, in parte, direttamente sul mercato secondario ha un impatto significativo sul tasso di interesse dei titoli pubblici tedeschi, garantendo alla Germania un minor costo dell’indebitamento pubblico, a prescindere dalla possibilità (pure presente) che i titoli di nuova emissione collocati sul mercato secondario vengano sottoscritti direttamente dalla Bundesbank. La particolare struttura istituzionale del processo di emissione dei titoli pubblici tedeschi sopprime di fatto la distinzione tra mercato primario e mercato secondario, aprendo lo spazio per il finanziamento del debito pubblico tramite la banca centrale – spazio negato agli altri paesi membri dell’eurozona.

Il complesso meccanismo di emissione dei titoli pubblici appena descritto consente alla Germania di proporre, in asta, un tasso dell’interesse molto basso, come avvenuto il 23 Novembre: se gli investitori privati si rifiutano di sottoscrivere i titoli del debito pubblico tedeschi a quei tassi, giudicati poco remunerativi, lo Stato trattiene la quota dell’emissione non collocata e procede, successivamente, al collocamento di quei titoli sul mercato secondario, dove l’azione della banca centrale è in grado di orientare i livelli del tasso dell’interesse vigente, o addirittura di tradursi in un intervento diretto, con la Bundesbank che sottoscrive i titoli del debito non collocati sul mercato primario. In assenza di un simile meccanismo, i governi sono costretti ad accettare il tasso di interesse che gli investitori privati pretendono sul mercato primario, laddove la loro disponibilità a sottoscrivere i titoli pubblici rappresenta l’unica possibilità che lo stato ha di finanziare il proprio debito. L’“eccezione tedesca” può essere concepita come un metodo che permette di aggirare i divieti imposti dal Trattato di Maastricht, e viene da chiedersi per quale motivo gli altri paesi dell’eurozona non si siano dotati di un simile dispositivo, capace di arginare le pretese dei mercati finanziari internazionali sui rendimenti dei propri titoli pubblici.

 

 

NOTE

 

[1] Alesina e Giavazzi sul Corriere dela Sera del 24 Novembre 2011 affermano che “l’asta dei Bund è stata sottoscritta solo grazie alla Bundesbank che ha acquistato il 40% dei titoli offerti da Berlino.”. Lo stesso giorno, simili affermazioni compaiono sui più importanti quotidiani. Sul Sole 24 Ore Bufacchi sostiene che: “va scartata la maxi-quota, pari al 39% dei 6 miliardi, che è stata sottoscritta dalla Buba [Bundesbank] per essere rivenduta sul secondario per via del peculiare meccanismo usato fin dagli anni 70 nelle aste dei titoli di Stato tedeschi.”; Quadrio Curzio commenta che “senza l’intervento della Bundesbank poteva andare anche peggio” sul Messaggero; Tabellini afferma, sul Sole 24 Ore, che: “la Bundesbank di fatto continua ad agire come prestatore di ultima istanza quanto meno in via temporanea nei confronti dello Stato tedesco. I titoli non venduti in asta infatti sono stati assorbiti dalla Bundesbank, che da sempre svolge questo ruolo per garantire la liquidità dei titoli tedeschi.”
[2] “La banca centrale tedesca ha subito assorbito tutti i titoli invenduti. È esattamente ciò che la Bundesbank stessa non vuole che la BCE faccia con Italia e Spagna. […] ha comprato direttamente dal governo, un comportamento in apparenza illegale ai termini del trattato: finanziamento monetario del deficit.” Fubini, Corriere della Sera del 24 Novembre 2011.
[3] “È vietata la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della BCE o da parte delle Banche centrali degli Stati membri (in appresso denominate “Banche centrali nazionali”), a istituzioni o organi della Comunità, alle amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o altri enti pubblici, ad altri organismi di diritto pubblico o a imprese pubbliche degli Stati membri, così come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della BCE o delle banche centrali nazionali.” (Cfr. Versione consolidata del Trattato che istituisce la Comunità Europea, Gazzetta Ufficiale delle Comunità europee, 24/12/2002, corsivo nostro).
[4] “Nei termini definiti in questa Decisione, le banche centrali dell’Eurosistema possono acquistare […] sul mercato secondario titoli di debito […] emessi dai governi centrali o da enti pubblici dei Paesi Membri e denominati in euro.” (Cfr. Decision of the European Central Bank of 14 May 2010 establishing a securities markets programme, Official Journal of the European Union, 20/05/2010, corsivo nostro).
[5] Cfr. Speech by Jean-Claude Trichet, President of the ECB, at the 38th Economic Conference of the Oesterreichische Nationalbank, Vienna, 31 May 2010.

 

IL GUARDIANO DELLA (AUGURABILMENTE DEFUNTA) COSTITUZIONE REALE, di Massimo Morigi

IL GUARDIANO DELLA (AUGURABILMENTE DEFUNTA) COSTITUZIONE REALE

 

Di Massimo Morigi

 

Nel momento in cui sto scrivendo questa breve nota, per l’esattezza il pomeriggio di mercoledì 23 maggio 2018, non è dato ancora sapere se il nostro Presidente della Repubblica e banale dicitore in servizio permanente effettivo convocherà al Quirinale il prof. Giuseppe Conte e, dettaglio ancor più importante, alla fine si acconcerà di accettare il molto più sostanzioso e (inquietante dal  punto di vista della massima carica dello Stato) prof. Paolo Savona a guidare lo strategico ministero dell’economia. Si tratta indubbiamente di una penosa situazione di stallo che, per farla breve, non contribuisce certo a livello di pubblica opinione interna ed anche di credibilità internazionale, a dare una buona immagine dell’attuale presidenza della Repubblica (questo  soprattutto per quanto riguarda l’opinione pubblica italiana) e a restituire un profilo minimamente decentemente democratico-rappresentativo del nostro sistema politico, che si deve (o meglio si dovrebbe) confrontare con i grandi agenti strategici internazionali, siano questi altri stati nazionali o agenti strategici di natura privata ma che detengono un potere reale pari o superiore agli stati nazionali. Ma tant’è questo è lo stato dell’arte dell’attuale politica italiana e piuttosto che inveire, cercare quindi di far ascoltare (invano) i nostri modesti ragli al Cielo e sperare che, alla fine, un minimo di buonsenso politico prevalga nella nostra massima carica dello Stato, meglio è analizzare, appunto, con un occhio un po’ più distaccato e reso acuto da una prospettiva logico-teorica e storica, questa misera situazione andando così al di là delle indubbie manchevolezze sia sul piano retorico che sul piano della  più elementare phronesis politica è solito mostrare il capo dello Stato italiano. E quindi per spezzare una lancia a suo favore, bisogna immediatamente dire che nell’attuale comportamento dilatorio il nostro capo dello Stato fa veramente (e giustamente dal suo punto di vista) valere le sue prerogative costituzionalmente garantite, ma non nel senso da lui sostenuto che, in ultima istanza, spetta a lui nominare il Presidente del Consiglio dei Ministri (art. 92. Cost.: «Il Governo della Repubblica è composto del Presidente del Consiglio e dei Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. Il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei Ministri e, su proposta di questo, i Ministri.»), articolo 92 in cui l’ambiguità del dettato dà ragione a qualsiasi comportamento il Presidente della Repubblica voglia adottare nella specifica circostanza, ma le fa pienamente valere riguardo non a questo ambiguo dettato formale ma riguardo ad un altro articolo della costituzione, l’articolo 11 che, per la sua importanza, citiamo anch’esso per intero: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.» Cosa c’entra l’articolo 11 della Costituzione Italiana con il rispetto delle prerogative del Presidente della Repubblica? Apparentemente nulla: nella sostanza tutto: e diciamo tutto, perché, al di là della retorica sulla Costituzione italiana come la costituzione più bella del mondo, “bellezza” che  retoricamente trova una delle sue massime espressioni nel ripudio della guerra, l’articolo 11 è il riassunto della condizione coloniale dell’Italia dopo il secondo conflitto mondiale, una condizione dove formalmente veniva mantenuta la piena statualità dell’Italia ma dove questa piena statualità non era altro che una fictio iuris perché in Costituzione veniva riconosciuta (ed anzi incoraggiata con retorica pacifista) la possibilità che lo Stato italiano potesse cedere quote della sua sovranità. Il presidente della Repubblica, quindi, ostacolando in tutti i modi l’assunzione delle responsabilità governative da parte delle cosiddette forze populiste e sovraniste, non fa altro che cercare mantenere integro e pienamente vigente il vero nucleo palpitante della nostra Costituzione (che ha giurato di rispettare, e quindi egli col suo comportamento delatorio e ostile verso queste forze non fa altro che fare il suo dovere), vera e propria teleologia costituzionale che dice che l’Italia ha perso definitivamente e per sempre la sua sovranità. Del resto che il nodo della Costituzione scritta italiana nonché di quella materiale sia quello della sovranità (negata e conculcata) ce lo suggerisce non solo la storia del  settantennio postfascista della Repubblica Italiana ma anche quel minimo di logica giuridica che dovrebbe essere impiegata in materia di diritto, e questo minimo di logica giuridica ci suggerisce l’elementare verità che quando disposto dall’articolo 11 in materia di sovranità è, de iure, un processo irreversibile per il semplice fatto che una volta ceduta la sovranità ad un altro soggetto è quest’altro soggetto il detentore della stessa e quindi è impossibile tornare indietro qualora non si sia contenti del comportamento del nuovo detentore della sovranità. In altre parole l’articolo 11 della Costituzione italiana configura la situazione di un patto hobbessiano, dove sì gli uomini conferiscono a un sovrano le loro illimitate prerogative derivategli dal diritto di natura ma questo conferimento, al contrario che nel patto lockiano in cui il sovrano può essere revocato o rovesciato se non compie il suo dovere di difendere e rispettare le libertà  e le proprietà dei sudditi,  non è più reversibile anche se il sovrano, ahimè, si dovesse rivelare un tiranno nemico del popolo. Nel Leviatano recita infatti il patto hobbessiano: «Io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudiine così unita in una persona viene chiamata uno stato, in latino civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano o piuttosto –  per parlare con più riverenza –  di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa». Nel Leviatano l’irrevocabilità del patto è quindi prima di tutto  all’interno della logica stessa di quel tipo di patto, caratterizzato dal fatto che i cittadini non si sono accordati fra loro di nominare un sovrano – come invece in buona sostanza accade in Locke e alla luce di una teleologia del patto stesso legata ai risultati che sarà in grado di conseguire il sovrano –  ma si sono accordati fra loro di cedere la propria sovranità per arrivare alla costruzione del sovrano e logicamente, una volta ceduta la sovranità a favore di un terzo, non è più possibile tornare indietro. Siccome nella realtà dell’articolo 11 l’impossibilità di tornare indietro dalla cessione della sovranità non viene palesemente espressa alla luce di una argomentazione logica (difficilmente si potrebbe farlo in una costituzione, il cui compito è enunciare principi e le principali linee guida dello Stato e non certo di giustificarle in dottrina), potrebbe sembrare che questa digressione hobbessiana sia forse interessante ma forse non pienamente attinente al giudizio che si deve fornire sul comportamento del Presidente della Repubblica nei confronti delle forze populiste e sovraniste che vogliano andare al potere e sul (pietoso) stato della sovranità del nostro Paese. In realtà, oltre che una puntualizzazione logico-giuridica in merito alla irreversibilità de iure del processo della cessione della  sovranità contemplata dall’articolo 11 della Costituzione, la digressione ci consente anche di fare il punto in merito all’attuale stato pietoso dell’attuale scienza politica italiana. Attuale stato pietoso della scienza politica italiana, della cui condizione pensiamo possa essere preso a simbolo il magistero di Gianfranco Pasquino, che riguardo all’articolo 11, con totale cecità e manipolazione storica (e totale ridicola assenza di  ragionamento logico-giuridico) è arrivato a scrivere:  «L’elaborazione della nostra Costituzione è avvenuta nel difficilissimo periodo dei primi anni del dopoguerra e della ricostruzione quando bisognava risollevare il paese sia materialmente che moralmente. Il nostro paese si impegna a partecipare alle organizzazioni internazionali che promuovono la pace e la giustizia fra i popoli. L’impegno che si è assunto la nostra Repubblica, fin dalla sua nascita, è stato di partecipare alla creazione di un ordinamento mondiale più giusto, che potesse esprimere quei valori fondamentali, considerati come cardine della vita democratica. In tale prospettiva, l’Italia aderisce all’Organizzazione delle Nazioni Unite, nel dicembre del 1955. L’ONU, costituitosi ufficialmente il 24 ottobre del 1945 sulla disciolta Società delle Nazioni, ha nel suo statuto, come programma, quello di garantire alle nazioni del mondo, la pace e il progresso della democrazia come pure l’affermazione del rigoroso rispetto per i diritti e le pari dignità di tutti gli stati, sia grandi che piccoli. L’articolo 11 della Costituzione fu scritto e pensato anche per consentire l’adesione dell’Italia all’ONU che richiedeva, come condizione essenziale per tale adesione, che lo stato si fosse dichiarato “amante della pace.” Questo articolo si configura come essenziale anche per l’adesione alla Comunità Europea (1951 – anno di nascita della Comunità Europea e 1957 – Trattato di Roma). Nel preambolo della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata in occasione del Consiglio di Nizza del 7 dicembre 2000, si dichiara che i popoli europei, nel creare tra loro un’unione sempre più stretta, hanno deciso di condividere un futuro di pace fondato su valori comuni. Diversamente da alcune costituzioni di altri paesi europei, l’articolo 11 non ha subito modifiche riguardanti l’inserimento di una esplicita clausola europea. Il mutato ordinamento politico mondiale, dopo la fine della “guerra fredda”, ha portato la comunità internazionale ad un diverso orientamento, volto a legittimare l’intervento, anche militare, nei confronti di stati in cui siano emerse emergenze umanitarie, con palese violazione dei diritti umani. (deportazioni, genocidi, stupri etnici). Tuttavia, le azioni di forza dovrebbero essere sempre condotte sotto l’egida di un’organizzazione internazionale e impedite a quegli stati che decidano l’azione di forza unilateralmente, anche se per fini umanitari.» Gli URL originari di queste perle di wishful thinking e affabulazione mitologica espresse in un linguaggio apparentemente avaloriale, che noi non commentiamo lasciando questo allegro esercizio ai lettori dell’  “Italia e il mondo”, sono https://gianfrancopasquino.com/tag/limitazioni-di-sovranita/ e https://gianfrancopasquino.com/2015/11/19/guerra-e-pace-nella-costituzione-gli-strumenti-per-una-pace-giusta/   (documento  che noi perché queste perle non vengano vanificate dalla volatilità delle fonti internet abbiamo anche provveduto a caricare  presso gli URL https://archive.org/details/LimitazioniDellaSovranita,https://ia601500.us.archive.org/15/items/LimitazioniDellaSovranita/LimitazioniDiSovranitGianfrancopasquino.html,https://archive.org/details/GuerraEPace e https://ia601503.us.archive.org/13/items/GuerraEPace/GuerraEPace.NellaCostituzioneGliStrumentiPerUnaPaceGiustaGianfrancopasquino.html): quello che a noi preme sottolineare con questa citazione è l’attuale pochezza dell’attuale pensiero politologico mainstream (di cui l’illustrissimo professore dello Studio bolognese è uno dei massimi rappresentanti), dove questa (pavida) pochezza è uno dei non minori aspetti in cui storicamente si è dipanata ed evoluta la progressiva perdita di sovranità dell’Italia avvenuta in seguito alla sconfitta militare nel secondo conflitto mondiale e certificata dalla “costituzione più bella del mondo”, in specie attraverso l’articolo 11. In conclusione: tutta la nostra umana simpatia al nostro caro Presidente della Repubblica che col suo comportamento dilatorio ed ostruttivo contro le forze populiste e sovraniste non fa altro che portare doveroso rispetto alle sue prerogative di custode della costituzione scritta e materiale italiana che all’art. 11 implica che progressivamente l’Italia perdendo la sua sovranità sia ridotta a pura colonia ma anche una ancor più grande solidarietà ed incoraggiamento al popolo italiano perché de facto, cioè con tutte le dinamiche conflittuali contemplate da una vitale Res publica, cioè detto in una parola, con la politica, sappia sbarazzarsi di tutti quei veri e propri orrori che de iure non lasciano alcuna via di scampo per la dignità del nostro paese. Con i migliori auguri quindi, oltre che di buona salute e felice vecchiaia, a che il nostro beneamato Presidente della Repubblica continui ad essere il “guardiano della Costituzione” ma di una ormai defunta costituzione, la cui difesa sia ormai affidata solo al suo solito “banale dire” –   in questo supportato dalla grande scienza politica italiana mainstream – e non alle sue augurabilmente sventate e tutt’altro che banali (e deleterie) azioni.

Massimo Morigi – 23 maggio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa della libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo.

 

L’elaborazione della nostra Costituzione è avvenuta nel difficilissimo periodo dei primi anni del dopoguerra e della ricostruzione quando bisognava risollevare il paese sia materialmente che moralmente. Il nostro paese si impegna a partecipare alle organizzazioni internazionali che promuovono la pace e la giustizia fra i popoli. L’impegno che si è assunto la nostra Repubblica, fin dalla sua nascita, è stato di partecipare alla creazione di un ordinamento mondiale più giusto, che potesse esprimere quei valori fondamentali, considerati come cardine della vita democratica. In tale prospettiva, l’Italia aderisce all’Organizzazione delle Nazioni Unite, nel dicembre del 1955. L’ONU, costituitosi ufficialmente il 24 ottobre del 1945 sulla disciolta Società delle Nazioni, ha nel suo statuto, come programma, quello di garantire alle nazioni del mondo, la pace e il progresso della democrazia come pure l’affermazione del rigoroso rispetto per i diritti e le pari dignità di tutti gli stati, sia grandi che piccoli. L’articolo 11 della Costituzione fu scritto e pensato anche per consentire l’adesione dell’Italia all’ONU che richiedeva, come condizione essenziale per tale adesione, che lo stato si fosse dichiarato “amante della pace.” Questo articolo si configura come essenziale anche per l’adesione alla Comunità Europea (1951 – anno di nascita della Comunità Europea e 1957 – Trattato di Roma). Nel preambolo della Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata in occasione del Consiglio di Nizza del 7 dicembre 2000, si dichiara che i popoli europei, nel creare tra loro un’unione sempre più stretta, hanno deciso di condividere un futuro di pace fondato su valori comuni. Diversamente da alcune costituzioni di altri paesi europei, l’articolo 11 non ha subito modifiche riguardanti l’inserimento di una esplicita clausola europea. Il mutato ordinamento politico mondiale, dopo la fine della “guerra fredda”, ha portato la comunità internazionale ad un diverso orientamento, volto a legittimare l’intervento, anche militare, nei confronti di stati in cui siano emerse emergenze umanitarie, con palese violazione dei diritti umani. (deportazioni, genocidi, stupri etnici). Tuttavia, le azioni di forza dovrebbero essere sempre condotte sotto l’egida di un’organizzazione internazionale e impedite a quegli stati che decidano l’azione di forza unilateralmente, anche se per fini umanitari.

 

https://gianfrancopasquino.com/tag/limitazioni-di-sovranita/

https://archive.org/details/LimitazioniDellaSovranita

https://ia601500.us.archive.org/15/items/LimitazioniDellaSovranita/LimitazioniDiSovranitGianfrancopasquino.html

https://ia601503.us.archive.org/13/items/GuerraEPace/LimitazioniDiSovranitGianfrancopasquino.html

 

https://gianfrancopasquino.com/2015/11/19/guerra-e-pace-nella-costituzione-gli-strumenti-per-una-pace-giusta/

https://archive.org/details/GuerraEPace

https://ia601503.us.archive.org/13/items/GuerraEPace/GuerraEPace.NellaCostituzioneGliStrumentiPerUnaPaceGiustaGianfrancopasquino.html

Io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo o a questa assemblea di uomini, a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto, e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile. Fatto ciò, la moltitudiine così unita in una persona viene chiamata uno stato, in latino civitas. Questa è la generazione di quel grande Leviatano o piuttosto – per parlare con più riverenza – di quel Dio mortale, al quale noi dobbiamo, sotto il Dio immortale, la nostra pace e la nostra difesa…

KKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKKK

Perciò il fine grande e principale per cui gli uomini si riuniscono in comunità politiche e si sottopongono a un governo è la conservazione della loro proprietà. A questo fine infatti nello stato di natura mancano molte cose. In primo luogo manca una legge stabilita, fissa e conosciuta. In secondo luogo, nello stato di natura manca un giudice noto e imparziale, con l’autorità di decidere tutte le controversie in base ad una legge stabilita. In terzo luogo, nello stato di natura manca spesso un potere che sostenga e sorregga la sentenza, quando essa è giusta, e ne dia la dovuta esecuzione. Ma, sebbene gli uomini, quando entrano a far parte della società, rinuncino all’eguaglianza, libertà e potere esecutivo che avevano nello stato di natura, per riporre queste cose nelle mani della società, affinché il potere legislativo ne disponga nella misura richiesta dal bene della società, tuttavia, poiché ciascuno fa ciò soltanto con l’intenzione di meglio conservare per se stesso la libertà e la proprietà (dal momento che non si può supporre che nessuna creatura razionale cambi la propria condizione con l’intenzione di peggiorarla), non si può mai supporre che il potere della società, ossia il potere legislativo costituito dai membri della società, si estenda al di là del bene comune; anzi esso è obbligato ad assicurare a ciascuno la sua proprietà, prendendo provvedimenti contro quei tre difetti sopra menzionati, che fanno lo stato di natura cosí insicuro e disagevole. Perciò chiunque abbia il potere legislativo, ossia il potere supremo, di una comunità politica, è tenuto a governare con leggi stabilite e fisse, promulgate e rese note al popolo, e non con decreti estemporanei; deve servirsi di giudici imparziali e giusti, che devono decidere le controversie in base a quelle leggi; deve impiegare la forza della comunità all’interno soltanto per eseguire quelle leggi, o all’esterno per prevenire o riparare torti provocati da stranieri, e assicurare la comunità da incursioni e invasioni. E tutto ciò deve essere diretto a nessun altro fine, se non alla pace, alla sicurezza e al bene pubblico del popolo.

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GUERRA E PACE. Nella Costituzione gli strumenti per una pace giusta

NOVEMBRE 19, 2015 8:00 AM / 1 COMMENTOSU GUERRA E PACE. NELLA COSTITUZIONE GLI STRUMENTI PER UNA PACE GIUSTA

 

Il testo che pubblichiamo è il commento all’art. 11 della Costituzione italiana scritto da Gianfranco Pasquino per il suo libro La Costituzione in trenta lezioni (UTET, fine gennaio 2016)

 

La vita della maggioranza dei Costituenti italiani era stata segnata da due guerre mondiali e dall’oppressione del regime fascista nato sulle ceneri della Prima Guerra Mondiale e pienamente responsabile della partecipazione alla Seconda. In nome di un nazionalismo malposto e esasperato, il fascismo aveva causato enormi danni all’Italia entrando in una guerra di conquista e perdendola con il sacrificio di molte vite e della stessa dignità nazionale. L’art. 11 è il prodotto di una riflessione sull’esperienza storica, non soltanto italiana, e del tentativo di porre le premesse affinché sia bandito qualsiasi ricorso alla guerra ‘come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali’. Il ripudio, questo è il termine usato nell’articolo, è, al tempo stesso rinuncia e condanna della guerra, più precisamente di esplicite guerre di offesa e aggressione. Il ripudio della guerra non è in nessun modo interpretabile come l’espressione di un pacifismo assoluto e, il seguito dell’articolo lo dice chiaramente, neppure come neutralismo. Al contrario, per assicurare ‘la pace e la giustizia fra le Nazioni’, l’Italia dichiara la sua disponibilità a limitazioni di sovranità e a promuovere e favorire ‘le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo’. Naturalmente, la Costituzione riconosce che lo Stato italiano mantiene il diritto di difendere, anche con il ricorso alle armi, il suo territorio e la sua popolazione. Tuttavia, qualsiasi reazione militare deve essere proporzionata alla sfida e non deve sfociare in nessuna conquista territoriale. Coerentemente, neppure le azioni militari condotte sotto l’egida delle organizzazioni internazionali debbono mirare a e tantomeno possono concludersi, per uno o più dei partecipanti, con guadagni territoriali, ai quali l’Italia ha l’obbligo costituzionale e politico di opporsi.

Le limitazioni alla sovranità italiana derivano dall’adesione, deliberata e approvata dal Parlamento, a tutte le organizzazioni internazionali, ma, in particolare, per quello che attiene alla guerra (e alla pace), alla NATO, alle Nazioni Unite e all’Unione Europea. In seguito alla sua adesione, l’Italia si è impegnata a partecipare alle attività decise in ciascuna di quelle sedi, quindi anche ad attività che implichino il ricorso ad azioni di natura militare. Talvolta, queste azioni sono problematiche poiché in non pochi casi vanno contro il principio di non ingerenza negli affari interni di uno o più Stati. Il principio guida di questa giustificabile ingerenza è dato dai rischi e dai pericoli ai quali sono effettivamente esposte le popolazioni di quegli Stati ovvero una parte di loro. Le missioni militari ‘umanitarie’, a favore delle popolazioni, alle quali l’Italia ha il dovere di prendere parte, sono quelle deliberate nelle organizzazioni internazionali, in modo speciale, l’ONU e, quando è minacciata l’indipendenza e l’integrità di uno Stato membro, la NATO. Possono avere una durata indefinita nella misura in cui servono ad alcuni popoli e ad alcuni governanti per costruire le strutture statali indispensabili alla difesa contro pericoli esterni e alla creazione di ordine politico interno rispettoso dei diritti civili e politici dei cittadini.

Nel secondo dopoguerra, in particolare, dopo la caduta del muro di Berlino, si sono moltiplicate le occasioni, da un lato, di oppressione delle loro popolazioni ad opera dei rispettivi dittatori, dall’altro di vere e proprie guerre civili, soprattutto nel Medio-Oriente e in Africa, ma anche nei Balcani. Seppure con qualche controversia interna, tutte le volte che l’Italia è stata chiamata in causa ha risposto positivamente in applicazione degli impegni e dei compiti derivanti dalla sua appartenenza all’ONU e alla NATO. Naturalmente, la valutazione della efficacia, dei costi e degli effetti, e della costituzionalità dell’attività delle missioni militari italiane all’estero e della eventuale necessità di una loro prosecuzione rimane nelle mani del Parlamento.

Che la pace, duratura e giusta, che non significa mai puramente e semplicemente assenza di conflitto armato, possa essere conseguita soltanto fra regimi democratici, lo scrisse memorabilmente il grande filosofo illuminista prussiano Immanuel Kant nel suo breve saggio Per la pace perpetua (1795). In un certo senso, questo obiettivo di pace è stato perseguito anche dall’Unione Europea delle cui organizzazioni l’Italia ha fatto parte fin dall’inizio (1949). Nel 2012 all’Unione Europea è stato attribuito il Premio Nobel per la pace con la motivazione di avere effettuato grandi ‘progressi nella pace e nella riconciliazione’ e per avere garantito ‘la democrazia e i diritti umani’ nel suo ambito che è venuto allargandosi nel corso del tempo fino a ricomprendere ventotto Stati-membri. A sua volta ognuno degli Stati-membri dell’Unione Europea deve avere e mantenere un ordinamento interno democratico e deve accettare le limitazioni di sovranità che conseguono alla sua adesione all’Unione. Preveggente, l’art. 11 della Costituzione mette la parola fine al nazionalismo, non soltanto bellico, ma autarchico e isolazionista, aprendo la strada a molteplici forme di collaborazione internazionale e sovranazionale che costituiscono la migliore modalità per garantire la pace nella giustizia sociale.

Pubblicato il 18 novembre 2015

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OLTRE SESSANTA E LI DIMOSTRA, di Teodoro Klitsche de la Grange

SESSANTA E LI DIMOSTRA

  1. Il 14 agosto 1941 ad Argentia nella baia di Placentia (Terranova) si incontravano il premier Winston S. Churchill e il presidente Franklin D. Roosevelt. Al termine dei lavori ritennero opportuno render noti taluni principi comuni della politica dei rispettivi Paesi, sui quali essi fondavano le loro speranze per un “più felice avvenire del mondo”. In particolare il terzo principio era il seguente “Essi rispettano il diritto di tutti i popoli a scegliersi la forma di governo sotto la quale intendono vivere; e desiderano vedere restituiti i diritti sovrani di autogoverno a coloro che ne sono stati privati con la forza”.

Tale dichiarazione è evidentemente rispettosa dell’autodeterminazione e della sovranità dei popoli: si riconosce il diritto a scegliersi la forma di governo; si auspica che tale diritto possa esercitarsi anche da coloro cui è stato sottratto con la forza.

Il tono muta decisamente con le dichiarazioni della conferenza di Yalta, nel febbraio 1945, pochi mesi prima della fine della guerra mondiale, quando buona parte dell’Europa già occupata dalla Germania era già stata liberata dagli alleati. Nella Dichiarazione sull’Europa liberata, (uno degli accordi raggiunti a Yalta) infatti si può leggere: “Il Premier dell’URSS, il Primo Ministro del Regno Unito e il Presidente degli Stati Uniti d’America si sono tra loro consultati nel comune interesse dei popoli dei propri rispettivi Paesi e di quelli delle Nazioni dell’Europa liberata. Durante il temporaneo periodo di instabilità che attraverserà l’Europa liberata essi dichiarano di aver congiuntamente deciso di uniformare le politiche dei loro tre Governi al fine di dare assistenza ai popoli liberati dalla dominazione della Germania Nazista e ai popoli degli stati satellite dell’Asse Europeo al fine di risolvere con strumenti democratici i loro pressanti problemi politici ed economici.

Il ristabilimento dell’ordine in Europa e la ricostruzione della vita economica nazionale dovranno essere raggiunti attraverso processi che permettano ai popoli liberati di distruggere ogni traccia di Nazismo e Fascismo e di creare proprie istituzioni democratiche. Questo principio contenuto nella Carta Atlantica, sancisce il diritto di tutti i popoli di scegliere liberamente la forma di governo che desiderano e riafferma la necessità di ripristinare il diritto alla sovranità per quelli che ne sono stati privati con la forza.

Per creare le condizioni nelle quali i popoli liberati possano esercitare questi diritti, i tre Governi, qualora fosse necessario, offriranno assistenza per:… Istituire delle autorità di governo provvisorie largamente rappresentative di tutti i settori democratici della società civile che si impegnino nel più breve tempo possibile e attraverso libere elezioni, a costituire dei Governi che siano espressione della volontà popolare;

Nel momento in cui, secondo l’opinione congiunta dei tre Governi, le condizioni di uno degli Stati Europei liberati o di quelli satelliti dell’Asse Europeo imponessero di intervenire, i suddetti tre Governi si consulteranno immediatamente tra loro per stabilire le misure necessarie da adottare e adempiere così agli obblighi previsti da questa dichiarazione.

Con tale dichiarazione intendiamo riaffermare la nostra fiducia nei principi contenuti nella Carta Atlantica, il nostro impegno a rispettare quanto stabilito nella Dichiarazione delle Nazioni Unite e la nostra determinazione a costruire in collaborazione con le Nazioni amanti della pace, un mondo in cui siano garantite legalità, sicurezza, libertà e benessere”; seguono le disposizioni per lo smembramento della Germania, sui risarcimenti, sui criminali di guerra, su alcuni Stati europei e sul Giappone. Di particolare interesse è una delle disposizioni relativa alle future elezioni in Polonia “Il Governo Provvisorio di Unità Nazionale dovrà impegnarsi ad indire al più presto libere elezioni a suffragio universale e a scrutinio segreto. Per tali elezioni tutti i Partiti democratici e anti-Nazisti avranno diritto a presentare liste di propri candidati”.

  1. Il significato di tale Dichiarazione, in cui si sottolinea la continuità rispetto alla Carta Atlantica, è in effetti assai differente e, in molti punti, opposto a quella[1].

In primo luogo, e seguendo l’ordine della Dichiarazione, i (prossimi) vincitori si presentano come curatori-interpreti dell’interesse dei popoli dell’Europa liberata. Nella realtà politica – e del rapporto politico – chi cura un interesse altrui è il protettore del tutelato e, per il “rapporto hobbesiano”, ha diritto all’obbedienza. Una enunciazione apparentemente “neutra” e benevola sottende ed esprime una realtà inquietante. Che si rivela già nel periodo successivo dove ai popoli europei si promette assistenza per risolvere con “strumenti democratici” i loro problemi: il che significa negarla a chi ne persegue la soluzione con strumenti – a giudizio delle potenze vincitrici – non democratici. Rafforzato ulteriormente nel passo seguente dove si delineano i caratteri e funzioni del “nuovo ordine”: distruggere il Nazismo e creare istituzioni democratiche. Il che è palesemente  in contrasto con quanto segue, che richiama la Carta Atlantica nel diritto dei popoli a scegliere liberamente la forma di governo “che desiderano” e ripristinare “il diritto alla sovranità”. Ma è chiaro che l’uno e l’altro diritto (che sono poi lo stesso, enunciato sotto diverse angolazioni, come scriveva tra i tanti Orlando) ha un senso solo se assoluto  e illimitato: a farne qualcosa di relativo, e limitato, lo si distrugge[2]. Per cui è chiaro che la “sovranità” limitata non è un’invenzione di Breznev all’epoca dell’invasione della Cecoslovacchia, ma aveva un autorevole precedente (e supporto) in questa dichiarazione, dove la libertà di darsi un ordinamento era limitata nei confini disegnati (e imposti) dalle potenze vincitrici.

Le quali si riservavano un diritto d’intervento, ovviamente generico, e illimitato nei presupposti e nel contenuto dei provvedimenti (le misure necessarie); diritto presentato come adempimento “degli obblighi previsti da  questa dichiarazione”: cioè un obbligo a carico di chi l’aveva costituito (un’auto-obbligazione). In realtà quella disposizione delinea la competenza a decidere dello “stato d’eccezione” all’interno degli Stati, ed è così un’attribuzione di sovranità alle potenze vincitrici. Peraltro la dichiarazione sulla Polonia, a meglio chiarire il concetto, prescrive subito che i partiti non democratici e non antinazisti non hanno diritto a presentare liste di candidati. Con queste premesse in pochi anni l’Europa (e non solo) fu tutto un fiorire di costituzioni: Italia (1948), Cecoslovacchia (1948), Bulgaria, (1947) Polonia (1952), Iugoslavia (1946), Albania (1946), Germania occidentale (1949), (e così via).

Anche la non sconfitta Francia sentì la necessità di darsene una, per la verità per motivi più “interni” che per le pressioni dei (veri) vincitori. Questa fioritura costituzionale, ovviamente, aveva meno a che fare con i principi ideali che connotano il potere costituente – in primis di costituire l’espressione della volontà della nazione – che con la necessità di adeguarsi ai nuovi rapporti di forza internazionali (più che interni).

Così capitò, che mentre le nazioni liberate dagli anglosassoni si dettero costituzioni – nella varietà istituzionale – tutte riconducibili ai “tipi” dello Stato borghese e connotate da sistemi pluripartitici, quelle al di là della cortina di ferro, si dettero carte da “socialismo   reale” e sistemi partitici fondati sull’egemonia del partito comunista. Cioè istituzioni, che lassallianamente, riproducevano il colore delle divise degli occupanti. Qualcuno, affezionato all’idea che a far le costituzioni siano (o debbano essere) i giuristi (i quali hanno la più circoscritta funzione di tradurre in regole quei rapporti di forza), ne sottolinea la diversità e varietà delle norme relative. Ma è un’obiezione che conferma la fecondità della distinzione schmittiana tra Costituzione e leggi costituzionali: la prima comprende le decisioni fondamentali e non può non esserci, perché altrimenti lo Stato non esisterebbe e/o non avrebbe capacità di agire (il che è come non esistere); mentre le altre sono per così dire, anche se importanti, accidentali: possono non esserci, o essere le più diverse. Ciò perché, come spiegava Lassalle non sono quella “forza attiva decisiva, tale da incidere su tutte le leggi che vengono emanate … in modo che esse in una certa misura diventano necessariamente così come sono e non diversamente”.

La variabilità di queste e l’invarianza e la “costanza” di quella sono conseguenze del diverso carattere. L’una che attiene alla sostanza e all’essenza del “politico”: comando, obbedienza, pubblico, privato, amico, nemico, in quanto presupposti fondamentali dell’esistenza e dell’organizzazione politica. Le altre, le regole, più o meno importanti ma comunque poco o punto incidenti sul “politico”.

  1. Quando si afferma che la Costituzione italiana è nata dalla Resistenza, si fa un’affermazione vera in astratto, ma errata in concreto.

Che sia vera in astratto lo prova la storia: quasi tutte le “nuove” costituzioni nascono da una crisi, per lo più bellica o in rapporto con una guerra. Non è vero che ogni guerra comporta una nuova costituzione; ma è vero l’inverso che (quasi) ogni costituzione nuova è il risultato e la conseguenza di una guerra.

Quando poi la guerra è civile la percentuale di “innovazione” costituzionale è quasi pari alla totalità. E quindi la resistenza, come qualsiasi guerra civile, avrebbe prodotto la nuova costituzione. Tuttavia, è errato pensare che la causa determinante della Costituzione vigente sia stata la resistenza. Perché in definitiva, vale sempre la tesi di Lassalle, il quale  afferma con dovizia di argomenti che gli “effettivi rapporti di potere che sussistono in ogni società sono quella forza effettivamente in vigore che determina tutte le leggi e le istituzioni giuridiche di questa società, cosicchè queste ultime essenzialmente non possono essere diverse da come sono”. “Questi effettivi rapporti di forza li si butta su un foglio di carta, si dà loro un’espressione scritta e, se ora sono stati buttati giù, essi non solo sono rapporti di forza effettivi, ma sono anche diventati, ora, diritto, istituzioni giuridiche, e chi vi oppone resistenza viene punito!”[3] .

E in realtà nel ’45 l’Italia era stata liberata ed era occupata da quasi un milione di armatissimi soldati americani e inglesi (e alleati); di fronte ai quali il potere delle Forze armate nazionali e di qualche decina di migliaia di partigiani era ben piccola cosa. Vale a proposito, occorre ripeterlo, il detto di Lassalle “un re cui l’esercito obbedisce e i cannoni – questo è un pezzo di costituzione”; e anche di potere costituente.

Per cui il fatto che le potenze vincitrici si fossero riservate di intervenire e che tutti quei soldati fossero delle Potenze anglosassoni significava non solo che il potere costituente sarebbe stato esercitato, ma che lo sarebbe stato in un certo senso. Cosa che fu colta, tra gli altri, da un politico realista e acuto come Togliatti: chi non lo capì fece la fine della Grecia, dilaniata da una seconda guerra civile, in cui, ovviamente, la fazione monarchico-legittimista vittoriosa era appoggiata dagli Anglosassoni.

  1. Fino alla fine del secolo XVIII ci si limitava a chiudere la guerra con un trattato che “registrasse” i nuovi rapporti di forza lasciando inalterato l’ordinamento del vinto; dopo la rivoluzione francese è invalso spesso d’imporre al vinto anche l’ordinamento. E con ciò di cambiare la propria costituzione con una nuova, frutto d’imposizione del vincitore. Già così s’esprimeva la mozione La Revellièrè-Lepeaux votata dalla Convenzione nel dicembre 1792, e con la quale s’iniziava, anche teoricamente e programmaticamente, la guerra civile internazionale, che vedeva contrapposti più che Stati contro Stati, borghesi contro aristocratici, giacobini contro cattolici, chaumiéres contro chateaux. Il cui esito comportava la rifondazione dell’ordine concreto del vinto con sostituzione dei governanti, delle istituzioni, delle norme con i modelli imposti dal vincitore. E di cui furono applicazioni le “repubbliche-sorelle” tra cui la nostra cisalpina (e le effimere romana e napoletana). Tale prassi, per la verità contenuta nel periodo post-napoleonico, ha ripreso vigore nel secolo scorso. In modo appena cennato dopo la prima guerra mondiale; del tutto apertamente a conclusione della seconda quando l’esercizio del potere costituente delle nazioni europee liberate e/o sconfitte fu, per così dire, sollecitato dai vincitori. In precedenza la prassi era l’inverso. Un giurista come Vattel nel Droit de gens (1758) già scriveva che “La nazione è nel pieno diritto di formare da se la propria costituzione, di mantenerla, di perfezionarla, e di regolare secondo la propria volontà tutto ciò che concerne il governo”. Questo era in linea con il pensiero pre-rivoluzionario, e, agli esordi, anche di quello rivoluzionario. Per Rousseau la costituzione è il prodotto della volontà della nazione. Polemizzando con le tesi dei privilegiati Sieyès partiva dall’affermazione “La nazione esiste prima di tutto, è all’origine di tutto. La sua volontà è sempre legale: è la legge stessa”: premesso ciò era impossibile che fosse legata da disposizioni preesistenti, anche se costituzionali “Una nazione è indipendente da qualsiasi forma ed è sufficiente che la sua volontà appaia, perché ogni diritto positivo cessi davanti ad essa come davanti alla sorgente e al signore supremo di ogni diritto positivo”. Nella Costituzione giacobina (quella mai applicata, perché chiusa nell’arca di legno di cedro in attesa della fine della guerra) il principio era inserito nella dichiarazione dei diritti: l’art. 28 proclamava solennemente che “un popolo ha sempre il diritto di rivedere, di riformare e di cambiare la propria Costituzione. Una generazione non può assoggettare alle sue leggi le generazioni future” ma la prassi delle conquiste rivoluzionarie e poi napoleoniche era l’inverso: gli Stati-satelliti si davano degli ordinamenti ricalcati su quello francese. Ciò che era ovvio per la Nazione francese, non lo era per le altre. Kant, nel trattare del nemico ingiusto, scrive che il diritto dei vincitori non può arrivare “fino a dividersi tra loro il territorio di quello Stato e a fare per così dire sparire uno Stato dalla terra, perché ciò sarebbe una vera ingiustizia verso il popolo che non può perdere il suo diritto originario a formare una comunità; si può invece imporgli una nuova costituzione, che per la sua natura reprima la tendenza verso la guerra”[4]; ma pur ammettendo il diritto ad imporre la costituzione, nulla esplicitamente afferma sul potere costituente[5].

In effetti, nel pensiero di Kant sembra che ciò non possa escludersi: quando, scrive, ad esempio, “deve pur essere possibile al sovrano cambiare la costituzione esistente”[6]; è chiaro che o ha questo diritto o non è più sovrano. Il che è contrario alla concezione kantiana. Anche il passo sopra citato, che il popolo “non può perdere il… diritto…” significa, implicitamente, che conserva il potere costituente. Quindi se pure è, secondo il filosofo di Königsberg, possibile imporre una costituzione al nemico ingiusto, non è lecito impedirgli di cambiarla e sottrarre o limitarne, così, il potere costituente.

  1. Nella realtà la costituzione vigente è il risultato di quella sollecitazione, esternata negli accordi di Yalta, ben sostenuta dall’argomento-principe della sconfitta militare e dalla conseguenziale occupazione.

Si potrebbe obiettare che il procedimento democratico seguito – e l’alta partecipazione alle elezioni della Costituente – hanno attenuato il carattere d’imposizione e legittimato, in certa misura, la Costituzione che ne è conseguita. Anzi si potrebbe aggiungere che la procedura relativa – conclusasi politicamente anche se non giuridicamente, con l’elezione, il 18 aprile 1948 del primo Parlamento – abbia costituito un esempio di applicazione del consiglio di Machiavelli che regola della decisione politica è di scegliere quella che presenta minori inconvenienti[7].

E sicuramente dato il disastro militare e l’occupazione, non esistevano le condizioni per sfuggire (forse per attenuarla sì, a seguire il discorso di V. E. Orlando, sopra ricordato) alla logica degli accordi di Yalta.

  1. Ma in tale materia è importante essere consapevoli che certe scelte sono state in gran parte frutto di necessità (e di imposizione) e non prenderle per quelle che, a una visione giuridica (peraltro parziale e riduttiva), appaiono come scelte (ottime) del “popolo sovrano” il quale, come scriveva Massimo Severo Giamini, è sovrano solo nelle canzonette; e, in quel frangente, forse neppure in quelle. La sovranità implica libertà di scelta: quella non vi era né in diritto – limitata com’era dalle clausole dell’armistizio e del Trattato di pace – e quel che più conta era inesistente di fatto per la sconfitta e l’occupazione militare. Per cui alla Costituzione del ’48, ed alla relativa decisione si può applicare il detto romano per la volontà negli atti annullabili: che, il popolo italiano coactus tamen voluit.

Se quindi la madre della Costituzione fu l’Assemblea Costituente, i padri ne furono i vincitori della Seconda guerra mondiale. Ma se è vero che, a seguir Kant, al nemico ingiusto (e vinto) è consentito imporre la Costituzione, non lo è pretendere (meno ancora consentire) che quella Costituzione, nata in circostanze sfortunate, divenga come le tavole mosaiche, immodificabile come se fosse stata data da Dio, cosa non richiesta neppure da gran parte dei teologi cristiani. Infatti secondo la teologia tomista il potere costituente, la possibilità di darsi determinate forme di Stato e di governo compete al popolo: non est enim potestas nisi a Deo, cui deve aggiungersi per popolum[8].

Per cui, a cercare di comprendere perché sia vista per l’appunto, come il Decalogo la spiegazione può essere data in termini sociologici, richiamandosi a quella concezione di Max Weber per cui al mantenimento di certe tradizioni “possono connettersi degli interessi materiali: allorchè ad esempio in Cina si cercò di cambiare certe vie di trasporto o di passare a mezzi o vie di trasporto più razionali, venne minacciato l’introito che certi funzionari ricavavano dal pedaggio”[9]; ovvero quella ancora più cruda e demistificante di Pareto, per cui certi tipi di argomentazione sono riconducibili a quella classe di residui che chiamò della persistenza degli aggregati, ovvero nella inerzia e resistenza all’innovazione manifestate dai rapporti sociali in atto, che tendono a perpetuarsi nelle stesse forme, regole, relazioni (e fin quando possibile, persone).

Giacché le situazioni e relative decisione politiche, tra cui la normazione costituzionale, sono frutto di certi rapporti di forza (e di potere), ne producono e riproducono di compatibili; tra cui personale politico selezionato sulla base di quelli, è chiaro che sia a questi sgradito un ri-esercizio del potere costituente che metterebbe in discussione quei rapporti, e la stessa classe politica che ne è stata riprrodotta plasmata. La quale, pertanto, si oppone in ogni modo a qualsiasi cambiamento sostanziale della costituzione. Tra gli argomenti – le derivazioni all’uopo costruite, anche al fine di suscitare la fede nella propria legittimità – c’è di averne ricondotta integralmente la genesi alla lotta ed alla volontà del popolo italiano. Che è, una mezza verità. Purtroppo come tutte le mezze verità  ha l’inconveniente di nascondere una mezza menzogna (se non una menzogna tutta intera); e quello, ancora più pericoloso, di costituire un ostacolo ad una piena consapevolezza politica. Attribuire la costituzione ad una scelta (tutta) propria, occultare la parte nella genesi della stessa svolta dagli alleati, prendere la situazione politica dal primo dopoguerra e le scelte conseguenziali come un criterio di valutazione … per secoli, significa, come scriveva Croce, raccontar favole d’orchi ai bimbi. Nella specie, agli italiani, che, anche per questo, non assumono piena consapevolezza politica. E questa, in politica, significa se non l’impotenza, una mezza potenza, una ridotta attitudine a sviluppare le proprie potenzialità. Una sorta di  emasculazione volontaria .

  1. Che questo sarebbe stato l’esito della situazione e dell’ordine nato alla fine della seconda guerra mondiale era chiaro a qualcuno, tra cui Vittorio Emanuele Orlando che già lo prevedeva nel discorso, sopra citato, contro il Trattato di pace.

La cosa che più colpisce del discorso dell’anziano statista è come stigmatizza la coniugazione tra buone intenzioni (propositi) quali lo sviluppo della democrazia, la repressione del fascismo, la tutela dei “diritti democratici” del popolo, oltre che naturalmente di quelli umani contenuti nelle clausole del Trattato da un lato, e le conseguenti limitazioni e controlli sulla sovranità e sull’esercizio dei massimi poteri dello Stato, dall’altro. Diceva Orlando “Ho detto che questo Trattato toglie all’Italia l’indipendenza che non sopporta altri limiti che non siano comuni a tutti gli altri Stati sovrani. Or bene, approvando questo Trattato, voi approvate un articolo 15,…”[10] e prosegue “Questo articolo si collega con quella educazione politica di cui sembra che abbisogni l’Italia, e cioè la Nazione del mondo che arrivò per la prima all’idea di Stato, e l’apprese a tutti i popoli civili. Dovevamo proprio noi ricevere lezioni di tal genere! E meno male se fosse soltanto un corso di lezioni: ma si tratta di un umiliante limite alla nostra sovranità[11]; quanto all’art. 17 che imponeva di vietare la rinascita delle organizzazioni fasciste, sosteneva: “Non è già, dunque che l’art. 17 mi dispiaccia per sé stesso, ma mi ripugna come un’offesa intollerabile alla sovranità del nostro Stato. Qualunque atto di Governo può prestarsi ad una interpretazione che dia luogo alla accusa della violazione dell’art. 17. Intanto tutte le espressioni in esso usate sono elastiche, atte a favorire ogni punto di vista soggettivo. Una organizzazione dei così detti giovani esploratori potrà essere considerata come militarizzata”[12]. E così prosegue, ricordando l’iniquità delle clausole sul disarmo, sulle limitazioni alla ricerca che possa avere applicazioni militari “ma chi può dire  e sino a qual punto una scoperta in qualsiasi campo possa avere applicazioni militari? In conclusione anche i gabinetti delle nostre Università potrebbero essere assoggettati  ad un controllo, capace di impedire il proseguimento di uno studio scientifico!”[13]. Per cui conclude su questo punto: “l’indipendenza sovrana del nostro Stato viene dunque meno formalmente, cioè come diritto”[14] (oltre che di fatto come espone nel prosieguo). Orlando anticipava così l’opposizione ancora oggi ripresentantesi con frequenza tra tutela di certi “diritti” universali (o trans-nazionali) e integrità della sovranità e indipendenze nazionali. Lo Stato che assume la funzione di tutela di certi diritti, esercita un’influenza interna allo Stato “tutelato”. Così nella tradizionale “impermeabilità” tra interno ed esterno allo Stato si aprono falle, probabilmente destinate ad ampliarsi.

L’altra (principale) preoccupazione  di Orlando era la fragilità dell’assetto politico (e costituzionale in fieri) dell’Italia, incrementata dall’attitudine “psicologica” italiana ad accondiscendere a pretese esterne. Così distinguendo tra Italia e Francia afferma “Ma egli è che una vera superiorità alla Francia su di noi può riconoscersi nella fierezza dei suoi rappresentanti, per cui l’ipotesi di una Francia  come grande Potenza fu ed è sempre una pregiudiziale che si deve ammettere se si vuole conversare con un francese”[15], mentre “nei rapporti con l’estero noi ci dobbiamo sempre precipitare; noi sentiamo sempre l’urgente bisogno di dar prova al mondo che siamo dei ragazzi traviati, i quali avendo demeritato e non bastando la tremenda espiazione sofferta, ammettono la loro indegnità e non aspettano altro di meglio che di riabilitarsi e essere ripresi in grazia[16]. Per cui concludeva l’orazione con la ben nota invettiva “Questi sono voti di cui si risponde dinanzi alle generazioni future: si risponde nei secoli di queste abiezioni fatte per cupidigia di servilità[17]. Ansia condivisa da Benedetto Croce, il quale nel discorso contro il Trattato di pace (pronunciato all’Assemblea costituente il 24 luglio 1947) diceva “Il governo italiano certamente non si opporrà all’esecuzione del dettato; se sarà necessario, coi suoi decreti o con qualche suo singolo provvedimento legislativo, la seconderà docilmente, il che non importa approvazione, considerato che anche i condannati a morte sogliono secondare docilmente nei suoi gesti il carnefice che li mette a morte. Ma approvazione, no! Non si può costringere il popolo italiano a dichiarare che è bella una cosa che esso sente come brutta e questo con l’intento di umiliarlo e togliergli il rispetto di sé stesso, che è indispensabile ad un popolo come a un individuo, e che solo lo preserva dall’abiezione e dalla corruttela[18]; e proseguiva “coloro che questi tempi chiameranno antichi, le generazioni future dell’Italia che non muore, i nipoti e pronipoti ci terranno responsabili e rimprovereranno la generazione nostra di aver lasciato vituperare e avvilire e inginocchiare la nostra comune Madre a ricevere rimessamente un iniquo castigo;… ma vi dirò quel che è più grave, che le future generazioni potranno sentire in se stesse la durevole diminuzione che, l’avvilimento, da noi consentito, ha prodotto nella tempra italiana, fiaccandola”.

In ambedue i vecchi patrioti era evidente che quell’approvazione era il primo passo verso una capitis deminutio dell’indipendenza italiana; riecheggia in entrambi lo sferzante giudizio di Gobetti, che Mussolini non aveva tempra di tiranno, ma gli italiani avevano ben animo di servi.

  1. Il secondo “momento” di questa “rieducazione” era la Costituzione: pur nelle buone intenzioni, di chi l’aveva redatta, e nel pregevole tentativo – particolarmente riuscito nella prima parte – di coniugare l’impianto liberal-democratico con il c.d. “Stato sociale”, la repubblica parlamentare e regionale organizzata dalla seconda parte della Carta, era già obsoleta al momento di entrare in vigore. Scriveva Hauriou a proposito del “prototipo”di quella italiana, cioè la Terza repubblica francese “al momento della redazione della nostra Costituzione del 1875, non si era mai vista al mondo una Repubblica parlamentare, e fu una grande novità”. E ne attribuiva la durata a diversi fattori, istituzionali: d’essere il “giusto mezzo” tra dittatura dell’assemblea e quella dell’esecutivo; di perpetuare il governo delle assemblee, e con esso l’oligarchia parlamentare, pur svolgendo la funzione d’integrazione politica di altri strati della popolazione; ma anche sociali, costituendo un compromesso tra borghesia (vie bourgeoise) e “proletariato” (vie de travail). Tuttavia ne intravedeva già negli anni ’20 del secolo scorso, il tramonto[19]; come d’altra parte altri giuristi francesi. Cosa che avvenne puntualmente nel 1958, perché la repubblica parlamentare aveva esaurito la propria funzione, così acutamente esposta da Hauriou, e non era più adatta ai tempi nuovi, che erano quelli, a un dipresso, in cui l’Italia adottava questa “formula” politica e istituzionale. In Francia, dopo poco, dismessa.

La decisione italiana per la Repubblica parlamentare fu determinata da più motivi.

La ripulsa per il governo “forte” fascista, che fece preferire tra le tante forme di governo quella più “debole” possibile; il ricordo (positivo) del parlamentarismo liberale dello Statuto, cui però erano tolti proprio i principali fattori di stabilità e di governabilità, cioè la monarchia e il sistema elettorale maggioritario; la necessità di garantire un assetto policratico dei poteri pubblici finalizzato alla co-esistenza di partiti ideologicamente radicati quanto distanti; la mancata – o insufficiente – percezione dell’evoluzione economico-sociale dello Stato e delLa società moderna.

Tutte ragioni di carattere (e genesi) essenzialmente e in grande prevalenza “interno” ed “endogeno”; tuttavia alcune in (evidente) accordo col modello delineato (e imposto) a Yalta, specificato dall’occupazione militare anglosassone.

  1. Le condizioni del secondo dopoguerra sono cambiate, fino alla cesura rappresentata dal crollo del comunismo sovietico e dalla fine della guerra fredda; seguita dalla dissoluzione dell’URSS; speculare questa alla divisione, al termine della seconda guerra mondiale, della Germania – ora riunificata all’esito della guerra fredda – e dell’Impero giapponese.

Le conseguenze, anche in Italia, sono state notevoli; la caduta del sistema partitico della prima repubblica – salvo il PCI “graziato”; la fine della conventio ad excludendum nei confronti della destra; la sostituzione della legge elettorale proporzionale con sistemi (sia per il Parlamento che per gli enti territoriali) maggioritari. Buona parte della costituzione materiale è stata cambiata. Ma quella formale – se si eccettua l’innovazione al titolo V (cioè della parte “periferica” e non solo in senso territoriale della carta costituzionale) e qualche altra piccola modifica (come all’art. 11) è rimasto inalterato col suo impianto di repubblica parlamentare e policratica.

Permane quindi il “tabù” dell’intangibilità della parte essenziale della Costituzione, malgrado l’evidente inadeguatezza al governo di una società e uno Stato moderno e, più ancora, il venir meno della situazione politica e delle condizioni politiche e sociali che ne giustificavano, in una certa misura, l’adozione.

  1. Neppure è spiegabile questa durata con un interesse delle potenze vincitrici a “determinare” l’esercizio (e il prodotto) del potere costituente. Questo per (almeno) due ragioni. In primo luogo perché, come accennato, la situazione politica è distante anni-luce da quella del dopoguerra. Pensare che gli USA abbiano un interesse rilevante che l’Italia sia una repubblica presidenziale o parlamentare o una monarchia costituzionale o quant’altro appare difficile: crollato il comunismo è venuta meno anche la funzione dell’Italia quale paese di frontiera tra l’Est e l’Ovest.

Dall’altro perché la dissoluzione del comunismo ha eliminato il nemico anche sul piano interno. Di qui l’indifferenza – o lo scarso interesse – che la dialettica politica italiana e i modi in cui si svolge, possono oggi suscitare all’estero.

Piuttosto l’attaccamento a quella Costituzione si può spiegare con la funzione del mito (Sorel), dato che la Resistenza ha avuto la funzione di mito “fondante” della Repubblica, e la Costituzione ne è – secondo questa concezione – la figlia unigenita.

Ma più ancora ci può soccorrere, come sempre cennato, Pareto. Questi divide del Trattato i residui (cioè le azioni non logiche e gli istinti e sentimenti che le determinano) in sei classi; una delle quali è composta dai residui che si esprimono nella tendenza alla persistenza degli aggregati. Gli è che, applicando anche all’inverso la formula di Lassalle, la Costituzione formale, non solo garantisce i rapporti di forza che l’hanno determinata, ma li cristallizza e tende a riprodurli. Da cui consegue la resistenza al cambiamento di quelli che dalla stessa sono favoriti e garantiti, anche se la situazione – e le esigenze – sono sostanzialmente cambiate. Ed il fenomeno si è presentato tante volte nella storia: dalla crisi di Roma repubblicana nel I secolo a.C., a quella dell’Ancien régime (e del potere dei ceti privilegiati), già in gran parte demolito dall’assolutismo borbonico. Nihil sub sole novi.

L’importante è ricordare, e Pareto è qui quanto mai utile, che le ragioni esternate sono derivazioni di quei residui. E più ancora che dietro quelle ci sono concreti rapporti di forza che come tutte le relazioni sociali crescono, si mantengono e poi decadono, come mutano le situazioni reali che li hanno determinati; per cui è compito degli uomini, di rimodellare la nuova forma politica; com’è stata opera degli uomini aver realizzato quella sorpassata. Come scriveva Miglio la Costituzione non è la camicia di Nesso in cui il popolo italiano deve essere avvolto in eterno.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Si riprende la tesi esposta da Jeronimo Molina Cano in “La Costituzione come colpo di Stato” in Behemoth n. 38 luglio-dicembre 2005 p. 5 ss.

[2] Diceva V. E. Orlando nel vibrante discorso contro il Trattato di pace dell’Italia con i vincitori della Seconda guerra mondiale pronunciato nell’Assemblea Costituente il 30 luglio 1947 “anche grammaticalmente sovrano è un superlativo: se se ne fa un comparativo, lo si annulla” v. in Behemoth n. 3 luglio-dicembre 1987 p. 37.

[3] v. Über verfassungswesen trad. it. in Behemoth n. 20 luglio-dicembre 1996 p. 8

[4] Methaphisik der Sitten § 60.

[5] Anzi Schmitt la interpreta nel senso che “non intende ammettere… che un popolo fosse privato del potere costituente” v. Der nomos der erde, trad. it. Milano 1991, p. 205.

[6] Op. cit. § 52.

[7] V. Discorsi, lib. I, VI.

[8] Sul punto si richiamano i giuristi francesi citati nelle note del mio scritto Diritto divino provvidenziale e dottrina dello Stato borghese in Behemoth n. 41 gennaio-giugno 2007 p. 25 ss.

[9] M. Weber, Storia economica, trad. it. rist. Roma 2007, p. 261.

[10] Behemoth cit., p. 35.

[11] Ivi p. 35-36.

[12] Ivi p. 36.

[13] Ivi p. 36.

[14] Ivi p. 37.

[15] Ivi cit., p. 32.

[16] Op. loc. cit..

[17] Ivi cit. p. 40.

[18] V. in Palomar n. 18, p. 48.

[19] V. “Ce régime pourra durer tant que les nouvelles couches de la population garderont l’ambition de la vie bourgeoise, et il montre des qualités précieuses pour les embourgeoiser successivement sous le couvert des étiquettes politiques les plus variées. Mais le jour où la distinction de la vie bourgeoise et de la vie de travail aura disparu, il devra probablement s’effacer devant les institutions faisant une place plus large au gouvernement direct ” ; Précis de droit constitutionnel Paris 1929, p. 341 – v. anche p. 346.

Liberarsi dalla servitù volontaria nazionale ed europea, di Luigi Longo

Liberarsi dalla servitù volontaria nazionale ed europea

di Luigi Longo

 

 

La questione prioritaria sia nazionale sia europea è quella dell’uscita dalla servitù volontaria nei confronti degli Stati Uniti. Una servitù che dura da oltre settant’anni, cioè da quando gli Stati Uniti, dopo il secondo conflitto mondiale, sono diventati potenza egemone del mondo Occidentale debellando definitivamente la potenza mondiale inglese.

Credo che sulla servitù le riflessioni che faceva Etienne de La Boétie nel 1546-1550 (periodo in cui fu scritto il Discorso sulla servitù volontaria), di << […] capire, se è possibile, come questa ostinata volontà di servire si sia radicata così profondamente da far credere che lo stesso amore della libertà non sia poi così naturale >> che << Gli uomini nati sotto il giogo, poi nutriti e allevati nell’asservimento, sono paghi, senza guardare più lontano, di vivere così come sono nati e non pensano affatto di avere altri beni e altri diritti che non siano quelli che hanno trovato: prendono come stato di natura il proprio stato di nascita >> che << I teatri, i giochi, le farse, gli spettacoli, i gladiatori, gli animali esotici, le medaglie, i quadri e altre droghe di questo genere erano per i popoli antichi l’esca della servitù, il prezzo della libertà perduta, gli strumenti della tirannide >>, siano di grande attualità (1). Lo stesso Karl Marx, oltre tre secoli dopo, analizzando il nascente modo di produzione capitalistico, osservava che << […] Non basta che le condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che all’altro polo si presentino uomini che non hanno altro da vendere che la propria forza lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi volontariamente. Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione (corsivo mio) […] >> (2).

Oggi, in fase multicentrica, la configurazione di potenze in grado di poter sfidare l’egemonia mondiale degli USA, divenuta tale dopo l’implosione della ex URSS, pone la questione della sovranità nazionale e della ri-fondazione di una Europa delle nazioni sovrane come condizione per svolgere un ruolo di confronto storico, sociale e culturale tra il mondo Occidentale e quello Orientale. Ricordo che l’attuale Europa è figlia del progetto ideato, pensato e attuato dagli agenti strategici statunitensi, imposto con il consenso e con la forza attraverso il Piano Marshall (1947-1948) e la NATO (1949), ed é modellata sull’idea della società statunitense in cui  il concetto di democrazia non rientra tra i valori fondanti il legame sociale: è la democrazia di chi detiene il potere e il dominio, i quali sono sempre espressione della interconnessione tra il sistema legale e il sistema illegale storicamente dati. Il Chi detiene il potere e il dominio va visto nella accezione marxiana di funzioni e ruoli nei rapporti sociali di una società data.

L’ Europa delle nazioni sovrane può avere un ruolo nel confronto tra Occidente e Oriente basato su relazioni di reciproco rispetto, dignità e benessere delle popolazioni e non su relazioni di potere e di dominio, per dirla con Federico Chabod, << Rispetto e indipendenza di ogni nazionalità: il limite razionale del diritto di ciascuna nazionalità è costituito da altre nazionalità; il principio di nazionalità << non può significare che la eguale inviolabilità e protezione di tutte >> e la formula dev’essere questa << coesistenza ed accordo delle Nazionalità libere di tutti i popoli >> >> (3)

L’Europa, inoltre, deve agevolare quelle potenze mondiali che sono per un mondo multicentrico (in questa fase Russia e Cina) e deve contrastare la potenza egemone degli Stati Uniti (in fase di inizio declino) che per loro natura storica e sociale sono inclini al dominio unilaterale delle relazioni mondiali.

Oggi in Europa non ci sono nazioni che esprimono avanguardie, élites, agenti strategici (non c’è nessuno spettro che si aggira per l’Europa, ahinoi!) in grado di pensare e attuare un progetto di sovranità nazionale ed europea. Abbiamo nazioni in piena servitù statunitense, sbandate dal conflitto interno agli agenti strategici degli Stati Uniti, con diverso livello gerarchico nella scala della servitù (Germania, Francia, Italia), che stupidamente stanno rompendo le relazioni con l’Oriente (Russia e Cina soprattutto) e seguono le strategie degli USA per il dominio mondiale senza accorgersi del vento storico che sta cambiando in direzione dell’Oriente. Non confondiamo le relazioni economiche (la sfera economica) delle nazioni europee che si svolgono con la Russia e la Cina con quelle politiche (la sfera politica), queste ultime, espressione di blocchi di dominio in equilibrio dinamico, sono in mano agli agenti strategici servili alle strategie statunitensi.

Prendiamo per esempio l’Italia in questo dopo elezione del 4 marzo scorso. Un Presidente della Repubblica, eletto da un parlamento fuorilegge decretato da uno dei contropoteri [il Mattarellum è stato abrogato dal Porcellum dichiarato incostituzionale dalla Consulta, uno dei cui membri era Sergio Mattarella! E poi blaterano della separazione dei poteri e dei contropoteri (Sic!)], si erge a tutore del potere dei sub-dominati europei e del dominio dei pre-dominati statunitensi condannando, mettendosi fuori dalla Costituzione (art.87), l’Italia ad una storica servitù con un livello di sviluppo economico, culturale e sociale degradante (la servitù tedesca e francese hanno un livello più elevato di sviluppo), altro che << […] La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione >> (art.1). E poi basta con questa teoria dei contropoteri, bisogna parlare di strumenti istituzionali, di luoghi istituzionali, di istituzioni di coordinamento dei poteri per imporre e gestire la propria egemonia. Preciso che coordinamento non significa separazione dei poteri che è una illusione storica, come ha dimostrato Louis Althusser rileggendo Montesquieu attraverso Charles Eisenmann (teorico del diritto) << […] in realtà Montesquieu non aveva parlato affatto di separazione, bensì di combinazione, di fusione e di collegamento di poteri […] >> (4).

Con questo non voglio dire che la Lega e il Movimento 5 Stelle hanno un progetto di sovranità italiana (non ci sono le condizioni oggettive e soggettive) a partire dal quale tessere relazioni internazionali capaci di uscire dalla servitù statunitense e di creare relazioni con le potenze mondiali e regionali orientali affinché venga neutralizzata la fase policentrica che significa guerra mondiale (forse l’ultima).

Riflettiamo sulle modalità spaziali e temporali del tentativo di formare un governo, qui non c’entra né la tattica né la strategia perché manca una idea, un piano di sviluppo della Nazione, né si può pensare che il Contratto per il governo del cambiamento (sic) della Lega e del Movimento 5 Stelle sia un programma di strategia per la sovranità nazionale e la ri-fondazione di una Europa sovrana: é un programma basato sul potere per il potere. Siamo seri, smettiamola di essere i buffoni della vita.

Eppure basta poco per dare reali segnali di cambiamento sia pure sistemico: per esempio, perché non inserire nel Contratto per il governo del cambiamento della Lega e del Movimento 5 Stelle l’abolizione delle leggi che hanno recepito illegalmente, perché in contrasto con la Costituzione, il patto di bilancio europeo (fiscal compact), il pareggio di bilancio, la riduzione del debito pubblico, basi di politiche economiche e sociali devastanti per lo sviluppo italiano e soprattutto per la maggioranza della popolazione? Ah, dimenticavo: nel 2012 la legge del pareggio di bilancio in Costituzione è stata votata all’unanimità alla Camera e da quasi tutte le forze politiche al Senato (compresi i giochi di astensione)!

Sveliamo la mistificante corrispondenza tra forma e sostanza nel diritto (inteso come forma di organizzazione dei rapporti sociali), l’ipocrisia dei contropoteri come equilibrio per garantire la libertà e la democrazia (sic) nella società cosiddetta capitalistica e lavoriamo a costruire una nuova forza politica, un moderno principe sessuato gramsciano, che ci faccia uscire dalla servitù volontaria e spazzare via questo pattume politico.

Concludo questo breve scritto con una lunga riflessione significativa di Mario Vegetti sul senso della storia << […] Porsi dal punto di vista del presente significa dunque rifiutare sia una storia come archivio del potere, sia una storia come favola del progresso certo e immancabile. Ma significa rifiutare anche un altro e più sottile modo di sclerotizzare la storia, di sottrarla all’esercizio della riflessione critica per riconsegnarla alla tradizione di cui si è detto: mi riferisco al mito della <<obiettività>>. Una storia obbiettiva sarebbe quella in cui lo storico rinuncia a porsi qualsiasi domanda sul senso degli eventi, a proporne qualsiasi valutazione critica: i fatti sono quelli che sono, vanno ricostruiti, insegnati e appresi come tali. Ma questa obbiettività non significa altro che porsi dal punto di vista del passato: subire passivamente il modo con cui il passato ha prodotto la propria storia, l’ha interpreta e ce l’ha tramandata; significa cioè leggere la storia con gli occhi del potere che l’ha voluta e di chi per suo conto l’ha raccontata. Questa obbiettività vuol dire accettare sulla storia dell’Egitto il punto di vista degli scribi del Faraone, o sulla schiavitù il parere dei proprietari degli schiavi. L’unica obbiettività possibile nella storia, che non sia acquiescenza alle memorie del potere, consiste invece nell’interrogarla secondo le domande e i problemi reali del presente. Questo non significa ovviamente rinunciare al rigore necessario per formulare le risposte a quelle domande; esse non possono che venire da uno studio critico dei documenti, delle fonti, delle interpretazioni complessive, in un arco che va dall’archeologia fino ai testi letterari antichi. Scrivere, per il presente, una storia priva di questo rigore equivarrebbe a consegnare a chi deve intraprendere un viaggio una mappa forse più gradevole, ma falsa. Il rigore è necessario, dunque; ma è altrettanto necessario non rinunciare – in nome di una falsa obbiettività – a pensare criticamente, e a far pensare.

Quale storia si può scrivere, dunque, muovendo da questo punto di vista? Una storia che chiarisca, ad esempio, gli effetti della rivoluzione agricola, alla fine del Neolitico, sulla condizione della donna, e che consenta quindi di comprendere le origi lontane di un problema che è nostro. Una storia, ancora, che indaghi la genesi dei sistemi di dominio e di sfruttamento di una classe sull’altra, mostrando l’intreccio che si stabilisce fra le forme del potere, i modi di produzione, il sapere scientifico e tecnologico, le istituzioni culturali, religiose ed educative. Una storia, infine, che si interroghi sulla posizione che nelle formazioni sociali occupano gli <<altri>> – gli schiavi, le donne, i giovani, i popoli marginali -, non per occultare la realtà del dominio e dell’oppressione ma per mostrare chi di questa realtà <<paga le spese>>.

Sono le risposte, queste, che la storia può dare alle Domande di un lettore operaio della famosa poesia di Bertolt Brecht:

<< Tebe dalle sette porte, chi la costruì? Ci sono i nomi dei re, dentro i libri. Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra? Babilonia, distrutta tante volte, chi altrettante la riedificò? In quali case, di Lima lucente d’oro abitavano i costruttori? Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia, i muratori? Roma la grande è iena di trionfo. Su chi trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio aveva solo palazzi per i suoi abitanti? Anche nella favolosa Atlantide la notte che il mare li inghiottì, affogavano urlando aiuto ai loro schiavi.

Il giovane Alessandro conquistò l’India. Da solo? Cesare sconfisse i Galli. Non aveva con sé nemmeno un cuoco?

Una vittoria in ogni pagina. Chi cucinò la cena della vittoria? Ogni dieci anni un grande uomo. Chi ne pagò le spese? Quante vicende tante domande>> (trad. F. Fortini, ed Einaudi) >> (5).

 

 

NOTE

 

  1. Etienne de La Boètie, Discorso sulla servitù volontaria, Piccola biblioteca della felicità, Milano, 2007, pp. 35, 49, 77.
  2. Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’Economia politica, Einaudi Torino, 1975, libro primo, pag. 907.
  3. Federico Chabod, L’idea di nazione, a cura di, Armando Saitta ed Ernesto Sestan, Editori Laterza, Bari, 1967, pag.82.

4.Louis Althusser, Montesquieu. La politica e la storia, Savelli editore, Roma, 1974, pag 94.

  1. Mario Vegetti, Storia delle società antiche. La parabola dei nuovi imperi: da Alessandro a Roma, Zanichelli, Bologna 1977, pp.XIV-XV.

NELLE OMBRE DEL DOMANI (SECONDA RECENSIONE CUMULATIVA A TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE), di Massimo Morigi

NELLE OMBRE DEL DOMANI: REALISMO POLITICO FRA KATARGĒSIS MESSIANICA DELLA LEGGE E CRISI DI CIVILTÀ (SECONDA RECENSIONE CUMULATIVA A TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE)

 

Di Massimo Morigi

 

 

Per le pagine dell Italia e il mondo questa è la seconda volta che intervengo sui contributi dati su questo sito di geopolitica e cultura politica da Teodoro Klitsche de la Grange e nella prima Recensione cumulativa su questo acutissimo esploratore del poliltico” (presso l’URL http://italiaeilmondo.com/2018/04/07/da-massimo-morigi-a-teodoro-klitsche-de-la-grange_a-proposito-del-realismo-politico-di-massimo-morigi/; WebCite http://www.webcitation.org/6yWOwnGz7 e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F04%2F07%2Fda-massimo-morigi-a-teodoro-klitsche-de-la-grange_a-proposito-del-realismo-politico-di-massimo-morigi%2F&date=2018-04-08), avevo individuato nel pensiero del La Grange un “punto di caduta” che non solo sintetizzava il nucleo generatore dei contributi che questo pensatore aveva precedentemente offerto ai lettori dell’ “Italia e il mondo” ma che, soprattutto, dava la misura della profondità del suo pensiero. Tale “punto di caduta” lo si poteva ben estrapolare dal suo contributo per “L’Italia e il mondo” che reca il titolo  Nota su dipendenza degli stati e globalizzazione (URL: (http://italiaeilmondo.com/?s=NOTE+SU+DIPENDENZA+DEGLI+STATI e  http://www.webcitation.org/6yPGjFeLj) e quindi per proseguire nel nostro discorso cito direttamente quanto avevo scritto su questo contributo nella prima Recensione cumulativa al nostro: «Se consideriamo le vicende umane (politiche, economiche, culturali ma anche semplicemente esistenziali sul piano privato) da un punto di vista realista e quindi teologico, per tutte queste vicende esiste un “punto di caduta”, un momento di risoluzione sia simbolico che di indicazione delle linee di azione e di comprensione della azione e/o della situazione, che ci permette non solo di definire queste vicende ma anche di indicarci la direzione per un nostro attivo intervento sulle stesse. Ora, a mio giudizio il “punto di caduta” dei quattro articoli che  Teodoro Klitsche de la Grange ha gentilmente concesso ai lettori dell’ “Italia e il mondo” ed anche la prova della dimensione autenticamente rinnovatrice e creatrice del suo realismo, può essere colto a pieno dalle seguenti parole che cito dalla chiusa di Nota su dipendenza degli stati e globalizzazione: «Che «forza» e «legge» siano modi di combattere, come scrive Machiavelli, ossia d’imporre la propria volontà, è spesso dimenticato; così del pari, è – anche se in misura minore – trascurato che forza e legge sono anche modi di governare, non (totalmente) alternativi, ma piuttosto complementari. La «legge» senza forza è inutile: la forza senza legge è arbitrio violento. Nella realtà occorrono entrambi. Se la combinazione di forza e regola è la normalità del governo dei gruppi umani, così come il potere responsabile è l’ordinatore ideale, quello che si profila nel mondo globalizzato appare tra i meno preferibili. Perché si risolve nell’affidare prevalentemente alla forza e all’astuzia (del potere esistente) il massimo della potenza disponibile senza la prospettiva che possa riuscire a creare un ordine che sia veramente tale.»»

Ora i nuovi e successivi contributi di Teodoro Klitsche de la Grange per LItalia e il mondo, Parassitario o predatorio, Miti giuridici e regolarità politiche, Presentazione a dallo Stato di diritto al neocostituzionalismo, Virtù e stato moderno (agli URL: http://italiaeilmondo.com/2018/04/11/parassitario-o-predatorio-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/http://www.webcitation.org/6yitCilDz;http://italiaeilmondo.com/2018/04/17/miti-giuridici-e-regolarita-politiche-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/ e http://www.webcitation.org/6ynTQVKMO;http://italiaeilmondo.com/2018/04/23/presentazione-a-dallo-stato-di-diritto-al-neo-costituzionalismo-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/ e http://www.webcitation.org/6ywEcDbMi;http://italiaeilmondo.com/2018/05/01/virtu-e-stato-moderno-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/ e http://www.webcitation.org/6z8QWvcz5), oltre a confermare che il nucleo generatore del pensiero di La Grange è la dialettica fra la forza e la legge, segnalano anche che per La Grange allo stato attuale, allo stato cioè che è giunta la nostra civiltà giuridica occidentale, questa dialettica fra forza e legge non sta assolutamente trovando un superiore momento di composizione in una nuova moderna Polis in cui, pur con tutte le mediazioni ed attenuazioni che inevitabilmente si trascina con sé la prassi politica ed economica, sia l’aristotelico Zoon politikon il protagonista (detto nei termini dell’odierna vulgata liberal-liberista democraticistica: in una forma politica dove sia la partecipazione democratica il motore della vita pubblica, vulgata, cioè volgarizzazione dell’originario discorso dello stagirita, che ha trovato in Italia la sua massima espressione nella canzoncina di un noto e da non moltissimo scomparso italico chansonnier che recitava: “La libertà è partecipazione”: sul tema della libertà vista sì come “partecipazione” ma una partecipazione che non si risolva nelle prendere parte ad un gioco infantile e in cui i ruoli siano assegnati dal maestro d’asilo ma sia un’autentica partecipazione che si sostanzi in una condivisione per tutti i soggetti politici, persone fisiche o persone sociali che siano, degli spazi di potere, in un concetto di libertà del Repubblicanesimo Geopolitico per il quale libertà, in ultima analisi, si risolve nella dialettica permanenza ed evoluzione di autonomi e distinti spazi di  potere e in una interpretazione del Repubblicanesimo Geopolitico della libertà in ottica realista machiavelliana e che giudica come flebili ipostasi il concetto di libertà del liberalismo come assenza di costrizione e quella dell’odierno  neorepubblicanesimo  come assenza di dominio, cfr. gli URL: https://corrieredellacollera.com/2013/11/23/alla-ricerca-dellidentita-italiana-di-massimo-morigi/https://corrieredellacollera.com/2013/11/28/alla-ricerca-della-identita-italiana-dialogo-tra-morigi-e-stefanini/ e relativi “congelamenti” di questi stessi URL: http://www.webcitation.org/6aNTUJQ82, http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2013%2F11%2F23%2Falla-ricerca-dellidentita-italiana-di-massimo-morigi%2F&date=2015-07-29, http://www.webcitation.org/6aNSrbd66    e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2013%2F11%2F28%2Falla-ricerca-della-identita-italiana-dialogo-tra-morigi-e-stefanini%2F&date=2015-07-29 ; e il tema del degrado semantico dei termini politici, tipico esempio sopracitato la libertà come assenza di costrizione o come assenza di dominio, si potrebbe dire costituire l’altro tema di fondo dei ragionamenti del La Grange, problema che in questo nostro odierno contributo solo accenniamo ma che affronteremo meglio in un  successivo intervento –  per il quale La Grange ci offre già numerosi spunti in Miti giuridici e regolarità politiche –  e nel quale, a nostro giudizio, la via di fuga da questo  degrado semantico – mitologie politiche, religiose e/o parareligiose con conseguente collegato degrado semantico nel lessico della politica che è problema comunque da noi già affrontato in La democrazia che sognò le fate. Stato di Eccezione, Teoria dell’Alieno e del Terrorista e Repubblicanesimo Geopolitico, agli URL https://archive.org/details/LaDemocraziaCheSognLeFatestatoDiEccezioneTeoriaDellalienoE_913 e https://ia801601.us.archive.org/28/items/LaDemocraziaCheSognLeFatestatoDiEccezioneTeoriaDellalienoE_913/LaDemocraziaCheSognLeFate.StatoDiEccezioneTeoriaDellalienoEDelTerroristaERepubblicanesimoGeopolitico.pdf  – è costituito dal mito-non mito dell’epifania strategica di cui abbiamo già detto parlando del Repubblicanesimo Geopolitico e sul quale il realismo politico di La Grange ci offre una interessantissima sponda dialogante), ma protagonista è la forza di chi, detenendo le leve del potere politico, economico e culturale, riesce a camuffare una dittatura di fatto che non ammette deroghe o dissidenze rispetto ai principi universalistici dirittoumanistici in politica e, a livello giuridico, al progetto (totalmente ideologico nelle illusioni che suscita ma terribilmente concreto per i suoi effetti liberticidi) di una giurisdizione mondiale il cui potere sia sovraordinato al potere degli stati nazionali.

Ma se si trattasse “solamente” di questo, se si trattasse cioè “solamente” del fatto che nella nuova situazione dello sviluppo di uno pseudopotere giudiziario mondiale gli spazi di azione dello Zoon polikon vengono ridotti a tal punto da trovarci di fronte più che un animale politico ad una sorta di uomo ridotto in schiavitù (ovviamente in schiavitù strictu sensu solo politicamente parlando, perché dal punto di vista dell’ attuale imperante fraudolenta narrazione economicista, anche sotto questo inedito regime tirannico continua a  perpetuarsi l’ideologia dell’individualismo metodologico e del libero mercato), cinicamente parlando e sulla scorta di un ritorno alla lettera del pensiero elitista si potrebbe in fondo affermare che nihil sub sole novi e che con la nuova situazione prodotta dall’ideologia di una giurisdizione mondiale sovraordinata agli Stati non è successo nulla di nuovo tranne il fatto, indubbiamente importante ma, in fondo,  riconosciuto  e da sempre risaputo da coloro che professionalmente si occupano delle reali ed effettuali dinamiche politiche (cioè coloro,  sociologi, storici, filosofi o politologi che siano. che interpretano queste dinamiche alla luce del pensiero realista) che la democrazia ha così oggi rivelato la sua natura di narrazione puramente ideologica e volta al dominio delle masse da parte di ristrette élite.

Ma La Grange va ben oltre questo livello di semplice (anche se essenziale) lettura e a questo punto ci fornisce con sfolgorante chiarezza due ulteriori elementi che integrandosi con la presa di coscienza della natura sempre più evanescente ed ideologica delle attuali forme politiche democratiche (noi affermiamo anche delle passate …) rendono il quadro generale ancora più cupo. Il primo elemento ci viene magistralmente restituito dal suo contributo Parassitario o predatorio, nel quale, attraverso l’elementare ed euristicamente assai efficace classificazione che il rapporto fra dominatore e dominato deve necessariamente rientrare in una delle tre classificazioni di ‘tutoriale’. ‘parassitario’ e ‘predatorio’, mostra, dati economici alla mano, che particolarmente in Italia (ma il discorso per La Grange vale anche se in forma più attenuta – e noi ovviamente concordiamo – per tutte le altre moderne democrazie industriali) negli ultimi due decenni tale rapporto non può essere non essere qualificato che di tipo prevalentemente predatorio, con la sottolineatura, chiara consapevolezza che permea anche  tutti gli altri nuovi contributi forniti dal La Grange, che questa predazione va di pari passo con l’affermarsi dell’ideologia di una giurisdizione mondiale sovraordinata agli stati nazionali (e, come potrebbe essere diversamente, ci dice in questi suoi contributi La Grange, se ai cittadini era prima difficile far sentire la propria voce anche di fronte al semplice e vecchio Stato nazionale?, come è possibile ora farsi ascoltare di fronte ad uno Stato sempre più assente che, col pretesto di un diritto universale ed universalistico, sta delegando sempre più il suo potere ad impersonali e spietati poteri sovranazionali?).

Su questa particolare classificazione tripartita delle forme di dominio valgano due veloci considerazioni. La prima è che la classificazione del dominio in ‘tutoriale’, ‘parissatario’ e ‘predatorio’ è un decisivo passo in avanti per superare il ‘paradosso Carl Schmitt’, paradosso che emerge dalla evidente constatazione che  se polarizzazione amico/nemico del Kronjurist del Terzo Reich  riesce a rappresentarci l’anatomia del conflitto non riesce parimenti a restituircene la fisiologia (come abbiamo più volte ripetuto, a fianco – ed in stretto dialettico contatto e rapporto con –  del conflitto e/o del rapporto amicale, in politica come in natura si hanno rapporti di collaborazione e/o simbiotici che come escludono l’inimicizia nulla hanno a che fare con l’amicizia, e Carl Schmitt era tanto consapevole di questo paradosso che una volta andato al potere il nazismo, una volta cioè che strumentalmente non era più necessaria questa rigida polarizzazione molto utile anche a fine mobilitatori contro la Repubblica di Weimar, cercò di edulcorare questa pur fondamentale acquisizione del suo pensiero spostando l’accento sul koncrete Ordnungsdenken ), e la tripartizione presentatici dal La Grange è una fondamentale precisazione soprattutto per quanto accade dentro il ‘perimetro dell’ amico’, amico sì ma, per dirla volgarmente, per fotterlo meglio e senza che questo possa formalmente appellarsi a nessuna ragione etica o politica per ribellarsi, come invece accade quando si è di fronte di fronte ad un dichiarato e palese nemico.

La seconda considerazione in merito alla tripartizione delle forme di dominio presentate dal La Grange ci viene dalla seguente osservazione che possiamo leggere sempre in Parassitario o predatorio: «Anche se, nell’assetto predatorio l’uso della violenza è sistematico, ciò che lo rende qualitativamente diverso è l’assenza di limiti giuridici (nel tipo ideale) e (almeno) la loro minimizzazione (nelle situazioni concrete)». Questo passaggio rende fortissima l’assonanza della tripartizione delle forme di dominio presentataci dal La Grange con la ‘Teoria della distruzione del valore’ (Teoria della distruzione del valore. Teoria fondativa del Repubblicanesimo Geopolitico e per il superamento/conservazione del marxismo. Agli URL https://archive.org/details/TeoriaDellaDistruzioneDelValore_792 e https://ia800306.us.archive.org/24/items/TeoriaDellaDistruzioneDelValore_792/TeoriaDellaDistruzioneDelValore.pdf), la quale partendo dalla teoria  dell’appropriazione del plusvalore, rovescia questa lettura marxiana dell’avvento del capitalismo industriale  affermando che il trionfo sul proscenio della storia  della  classi capitalistico-industriali non è connotata dall’esproprio del valore del lavoro prodotto dal dipendente operaio nella misura in cui non si può andare oltre per la sopravvivenza dell’operaio stesso ma, al contrario, è basata sul metodico annientamento del valore di questo lavoro al fine di potersene appropriare a basso costo senza che questo processo possa essere ostacolato da vincoli giuridici e/o politici, del tutto inutili a tutelare il lavoratore operaio vista la disparità di forze fra i capitalisti industriali  e il proletariato operaio di fabbrica che ha assistito – ed è stato indebolito dalla –  alla distruzione del valore del lavoro dell’originaria classe artigianale e/o di piccolo proprietario (e, al di là del processo  delle ‘distruzioni del valore’ avvenute in epoca moderna dell’annientamento da parte delle classi capitaliste del valore sociale e direttamente derivante dal lavoro delle originarie classi artigiane, uno degli eventi che più si presta ad assumere il ruolo di idealtipo per questa dinamica illustrata dalla suddetta teoria è, per quanto riguarda la storia antica, la distruzione ad opera di Roma di Cartagine – per la storia contemporanea il tentativo del nazismo di distruggere la presenza ebraica in Europa e la volontà di sterminio anche delle popolazioni slave sempre del nazismo: in entrambi i casi, al di là dei vari pretesti ideologici, il tentativo di insediarsi tramite genocidio in nuove nicchie strategiche di potere –, dove accadde che  Roma, alla fine, non volle neppure instaurare con Cartagine un rapporto predatorio ma letteralmente la distrusse ab imis fundamentis: la differenza con quanto avvenuto con l’affermazione del capitalismo industriale è che in questo caso si trattò di una distruzione manu militari e non alterando i rapporti di forza fra le classi sociali; l’analogia, molto più significativa della differenza, è che nell’uno come nell’altro caso si liberarono delle nicchie ecologiche di potere – Mar mediterraneo per i romani, creazione di una “libera” economia di mercato svincolata da limiti giuridici nel caso della rivoluzione industriale – , che aprirono nuovi spazi di manovra strategici a quegli agenti che seppure prevalere – e distruggere –  su coloro che dovettero subire questo processo: agenti omega-strategici, Cartagine e i piccoli artigiani e proprietari costretti a riconvertirsi in proletariato di fabbrica; agenti alfa-strategici, Roma e i capitalisti industriali. Per meglio approfondire questa terminologia afferente alla ‘Teoria della distruzione del valore’ si rinvia ancora all’URL appena citato).

Comunque, in attesa di una proficua integrazione fra la tripartizione presentataci dal La Grange e la ‘Teoria della distruzione del valore’, in Teodoro Klitsche de la Grange siamo veramente in presenza di un  attentissimo e fondamentale lavoro intorno a quelle categorie dello strategicoche Carl Schmitt non ebbe la forza (ma sarebbe meglio dire: il coraggio) di enunciare e sviluppare fino in fondo, poggiando le sue categorie del politicoprincipalmente sulla dicotomia amico/nemico e qui fermandosi ed anzi retrocedendo nel koncrete Ordnungsdenken,  sia perché da cattolico conservatore questa enunciazione così dicotomica confliggeva con la visione gerarchizzata della società della Chiesa cattolica sia perché era divenuta scomoda ed impraticabile una volta arrivato al potere il nazismo, il quale era sì basato sulla creazione di un nemico ma si trattava di un nemico da espellere dalla società e quindi da distruggere e certamente non ritenuto dal punto di vista logico un elemento costitutivo del politico (il nemico era, ovviamente, la rivoluzione comunista – questo sia per la Chiesa cattolica e per il nazismo –  e lebreo – questo solo per il nazismo –  e una volta affermatosi il nazismo non era più conveniente per nessuno dare mostra di una visione così profondamente realista ma, proprio in ragione del suo superiore realismo, anche, in ultima analisi, con una impostazione così terribilmente  machiavellianamente dinamica della società che confliggeva sia con la conservatrice, anche se antirazzista – e religiosamente universalistica –   dottrina sociale della Chiesa  sia con ledificazione del – follemente particolaristico – totalitarismo razzista del nazionalsocialismo).

Veniamo ora al secondo elemento di riflessione che ci restituisce la lettura di questi ultimi interventi del La Grange e si tratta della seguente considerazione: se le  forme di dominio  Ancien Régime che precedettero la Rivoluzione francese  cercarono di approssimarsi ad una forma di potere assoluto, cioè detto più tecnicamente,  attorno ad un sovrano legibus solutus (libero dal dominio della legge: in realtà il Re Sole era svincolato dallobbedire alla legge positiva ma non alla legge morale e il vero ed integrale sovrano legibus solutus ha fatto la sua comparsa solo con i totalitarismi del XX secolo, i cui sovrani portati alla ribalta dalla parossistica esaltazione del politicofurono, de facto quando non de iure, totalmente  e manifestamente svincolati anche dalla morale), oggi la forma di potere politico ed economico che utilizza come manto per coprire le sue forme di dominio le dottrine neocostituzionaliste (e quindi, a livello di loro volgarizzazione popolare, le mitologie politiche universalistiche e dirittoumanistiche di cui abbiamo già detto), si configura come  potere che sempre più si vuole  svincolare dal politico(ovviamente dal  politicoaristotelicamente inteso che ha per protagonista lo Zoon Politikon), si configura cioè come un potere sempre di natura totalitaria,  ma non più  come un totalitarismo legibus solutus ma Res publica solutus (rispetto ai totalitarismi vecchi e nuovi del Novecento, discorso comunque a parte deve essere fatto per lassolutismo dell Ancien Régime che, nonostante il monopolio del politico, riconosceva formalmente unautonomia della società, anche se – de facto –  sorvegliatissima, pesantissimamente eterodiretta e sovente palesemente negata e conculcata, vedi, a seguito della revoca voluta da Luigi XIV delleditto di Nantes originariamente emanato  da Enrico IV nel 1598, la persecuzione dei protestanti francesi tramite le dragonnades, fino a giungere allespulsione degli ugonotti dal suolo francese ).

 Ed è ancora in  Miti giuridici e regolarità politiche che viene chiaramente individuata la natura mitologica (e profondamente regressiva) di questa distopia di quello che abbiamo appena definito un potere Res publica solutus, a sua volta frutto maturo e terminale del neocostituzionalismo giuridico e delle conseguenti mitologie politiche universalistiche per le quali il nemico da abbattere è la decisione politica: «Il primo [di questi miti politici] è il mito tecnocratico, cioè quello espresso nel modo più conseguenziale e deciso da Saint-Simon, ovvero della società in cui l’amministrazione delle cose sostituirà il governo degli uomini. In realtà nessuno l’ha visto realizzarsi, se non nel coro adulatorio di qualche governo sedicente tale  (e di corta durata). Ciò perché la natura (e l’inconveniente) del potere è tale che  oscilla tra i due abissi dell’oppressione e dell’anarchia, come sosteneva de Maistre. Un governo forte è tentato di opprimere: ma se debole è impotente a tutelare. Per cui il pensatore controrivoluzionario sosteneva che la società umana è in mezzo a questi abissi (cioè non basta che un governo sia tecnocratico perché non abbia necessità di comandare). Nella realtà certi governi (tecnici) finiscono per risolvere  a modo loro tale alternativa: sono insieme deboli nel proteggere, ma forti nell’opprimere (finiscono col realizzare l’inverso della situazione ottimale). […] Quanto al mito tecnocratico, si fonda sull’illusione che gli uomini possono non essere governati, ossia che non sia necessario il rapporto di comando/obbedienza: peraltro pone l’accento sulla capacità tecnica dei governanti (che, a dirla tutta, non guasta) ma è comunque subordinata al consenso politico, al rapporto governati-governanti.»

Sorvoliamo,  per carità di patria, di utilizzare queste sfolgoranti ed illuminanti parole  di La Grange sul mito tecnocratico e sulle sue terribili conseguenze contro la natura intimamente strategica dell’uomo (natura dialettico-strategica dell’uomo da noi già discussa alla luce della filosofia della prassi dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci e di Storia e coscienza di Classe di György Lukács in Dialecticvs Nvncivs. Il punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico attraverso i Quaderni del Carcere e Storia e Coscienza di Classe per il rovesciamento della gerarchia della spiegazione meccanicistico-causale e dialettico-conflittuale, per il rinnovamento degli studi marxiani e marxisti e per l’ Aufhebung della gramsciana e lukacsiana Filosofia della Praxis, agli URL https://archive.org/details/DialecticvsNvncivs.IlPuntoDiVistaDelRepubblicanesimoGeopolitico_866 e https://ia801603.us.archive.org/7/items/DialecticvsNvncivs.IlPuntoDiVistaDelRepubblicanesimoGeopolitico_866/DialecticvsNvncivs.IlPuntoDiVistaDelRepubblicanesimoGeopoliticoAttraversoIQuaderniDelCarcereEStoriaECoscienzaDiClasse.pdf, tema della strategicità dialettica dell’uomo  che verrà poi ripreso anche in  Flectere Si Nequeo Superos Acheronta Movebo (Nelle Ombre del Domani): Delio Cantimori, Carl Schmitt e il Romanticismo Politico del Repubblicanesimo Geopolitico, di prossima pubblicazione, e in Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico, anch’esso di non lontana pubblicazione), natura dell’uomo da noi individuata nella sua dialettica strategicità condivisa  col resto del mondo fisico-naturale-culturale-storico (vedi sempre i lavori appena citati) e che geneticamente  si costituisce in una incessante scontro strategico fra il momento del comando/obbedienza e quello di una libera dinamica conflittuale all’interno della Res publica-Polis (mito tecnocratico, quindi, come il mito e progetto antiumanistico per eccellenza perché nega alla radice la natura dialettico-espressiva-conflittuale dell’uomo); per commentare le ultime misere vicende della politica nazionale (per chi voglia con masochistica acribia   raffrontarle con il momento della cronaca politica in cui il sottoscritto sta componendo questa comunicazione, basti dire che questo testo è stato esteso in data 8 maggio 2018), è preferibile piuttosto, in conclusione di questo ulteriore commento alle ultime riflessioni di La Grange pubblicate sull’ “Italia e il mondo”, soffermarci su un particolare aspetto del nostro, che ci restituisce tutta la sua grandezza, anche se in una dimensione prevalentemente tragica e non certamente ottimista.

Si tratta di questo: come già sottolineato nel mio primo commento cumulativo, Teodoro Klitsche de la Grange è un giurista, e giurista talmente profondo che questa sua unica conoscenza della materia gli consente di addentrarsi con grande successo nella teoresi politologica, ma si tratta di una teoresi politologica dalla quale espressamente emerge una grande sfiducia verso il momento giuridico. Detto in altre parole, lavere superato in Teodoro Klitsche de la Grange il paradosso Carl Schmittse non gli permette di concedere  (giustamente) alcuna simpatia etica alla Machtpolitik – ma, soprattutto, dà in La Grange luogo ad una totale avversione sul piano teorico, prima ancora che sulle sue pratiche applicazioni totalitarie novecentesche –,  al contempo non gli permette neppure di nutrire nemmeno alcuna speranza su una giuridicizzazione del problema politico così come voluta dal neocostituzionalismo.

In realtà, pensiamo che il desiderio profondo di La Grange sia quello di operare una sorta di paolina Katargēsis della legge (sulla Katargēsis messianica della legge cfr. come fonte primaria, lettera di S. Paolo ai Romani  in Rm 3, vv. 19-31 e come fonti secondarie Giorgio Agamben, Homo sacer. Sovereign Power and Bare Life, Stanford, Calif., Stanford University Press, 1998  e Id., Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani,Torino, Bollati Boringhieri, 2000), Teodoro Klitsche de la Grange vorrebbe  cioè abolire le potenzialità totalitarie (così come espresse al loro massimo grado e compiuta telelologia dal neocostituzionalismo) della politica (o meglio postpolitica) legate alla mitologizzazione della  legge ma al tempo stesso vorrebbe conservare i principi ordinatori per la polis-Res publica della legge stessa.

Si tratta della stessa dialettica contraddizione in cui si dibatte il Repubblicanesimo Geopolitico (Cfr. Repubblicanesimo Geopolitico e Katargēsis Messianica, URL: https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica_637 e https://ia800809.us.archive.org/25/items/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica_637/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica.pdf) che, in questo simile ad ogni momento autenticamente rivoluzionario, se non vuole abolire la legge positiva la vuole almeno superare nel processo rivoluzionario ma, al tempo stesso, attraverso questa Aufhebung, ne vorrebbe conservare le capacità ordinatrici.

Ora non vogliamo (e non ci permettiamo di) attribuire alcuna volontà politica rivoluzionaria a La Grange; anzi, dal suo modo di argomentare si evince piuttosto una certa sana nostalgia per un ordine politico che come tale, a nostro giudizio, non è mai esistito ma che non sarebbe male che, almeno come obiettivo limite, tenere sempre presente: ricitiamo, sottolineandole,  le seguenti parole da Nota su dipendenza degli stati e globalizzazione: «La «legge» senza forza è inutile: la forza senza legge è arbitrio violento. Nella realtà occorrono entrambi. Se la combinazione di forza e regola è la normalità del governo dei gruppi umani, così come il potere responsabile è l’ordinatore ideale, quello che si profila nel mondo globalizzato appare tra i meno preferibili. Perché si risolve nell’affidare prevalentemente alla forza e all’astuzia (del potere esistente) il massimo della potenza disponibile senza la prospettiva che possa riuscire a creare un ordine che sia veramente tale».

Quello che a però noi pare veramente significativo della teoresi di Teodoro Klitsche de la Grange è che il suo è veramente un procedere nelle ombre del domani, un andare alla ricerca, come fece Huizinga con il suo In de schaduwen van morgen, fra i chiaroscuri della storia e della nostra civiltà occidentale contemporanea perennemente in crisi ed evoluzione (più spesso: in involuzione) di quei momenti significativi che nella loro positività e, nel contempo, negatività ci possano illuminare per il domani. Siamo, in altre parole, di fronte alla poesia (inteso anche, se non soprattutto, nel significato etimologico di poíēsis) del metodo dialettico. E di questi tempi, questa è già una rivoluzione che per il momento basta e avanza.

Massimo Morigi – 8 maggio 2018

 

 

 

 

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