1) Posizione del problema; 2) Dipendenza giuridica e politica; 3) Forme e regolarità politiche; 4) Sovranità e indipendenza: Bodin 5) Transizione di epoche e idee della globalizzazione; 6) Loro inconvenienti; 7) Fini della politica; 8) Conclusione.
1.0 Il pianeta è diviso tra tanti Stati sovrani, i quali formalmente – ossia sul piano giuridico – sono uguali, ma la cui differenza di potere reale ne riduce – correlativamente – la possibilità di esercitare (parzialmente) prerogative e diritti, in applicazione del detto di Spinoza per cui tantum juris quantum potentiae.
Santi Romano (tra i tanti) scriveva che «essendo la comunità internazionale, di regola, paritaria, nel senso che i suoi membri non dipendono l’uno dall’altro, ciascuno di essi… si dice che ha una sovranità perché non è in una posizione subordinata verso altri soggetti»[1]. Tuttavia, proseguiva, tale regola non è assoluta[2]; ma derogarne è sicuramente un’eccezione[3]. Ed occorre distinguere «l’appartenenza ad un’unione amministrativa o alla Società delle nazioni, tanto meno una semplice alleanza, non significa da per sé perdita della sovranità. Viceversa, gli Stati soggetti a protettorato o alla tutela della Società delle nazioni sono eccezionalmente degli Stati internazionalmente non sovrani, cioè subordinati agli Stati protettori o alla Società medesima, che, rispetto ad essi, sono quindi sovrani». Secondo il giurista siciliano, contrariamente all’opinione di altri «la verità è invece che lo Stato protetto, come quello tutelato, non assume solo obbligazioni singole e determinate, ma entra in un complesso “status subiectionis”, si sottomette ad altri soggetti per una sfera più o meno ampia della sua personalità, e tutto ciò riguarda non la sua libertà nel campo dei rapporti veramente obbligatorii, ma la sua posizione d’indipendenza, la sua sovranità e, come conseguenza, anche la sua capacità».
Effetto della mancanza di sovranità è «la limitazione della capacità internazionale degli Stati protetti o tutelati: limitazione che si ha anche…. verso i terzi, il che conferma (trattarsi)… di una posizione personale»[4].
Tale limitazione di capacità non è incompatibile con la personalità internazionale[5]; come conferma, scrive Santi Romano, la condizione degli Stati vassalli (dell’Impero ottomano).
Diverso era il regime giuridico delle colonie, in particolare perché la presenza dello Stato colonizzatore si estendeva anche all’amministrazione interna e diffusa dei territori coloniali.
Tutte tali classificazioni hanno il connotato comune di essere giuridiche – e non solo politiche – e di tradursi in modificazioni degli ordinamenti (e dei collegamenti tra questi) e della normativa conseguente.
Tuttavia, vi sono altre forme di dipendenza assai note, che rispettano formalmente il carattere sovrano dello Stato dipendente[6].
Così ad esempio all’epoca della Guerra Fredda si parlava di «Stati-satellite» in relazione agli Stati dell’Est europeo a regime comunista, quali nazioni egemonizzate da una grande potenza, ma formalmente sovrane (tale carattere era, di rimando, attribuito da oltre cortina a Stati facenti parte della Nato, come Italia e Germania Ovest). Tenuto conto che il dominio politico della potenza egemone nell’Est europeo era esercitato attraverso «partiti fratelli» (comunisti) più che regolamentato in istituti giuridici (i quali comunque, non mancavano) il termine era adeguato alla realtà politica. Com’era naturale, il crollo del comunismo fu anticipato dalla de-comunistizzazione di alcuni di tali Stati e la regolamentazione giuridica dello stato di «satellite», seguì la fine politica dei partiti comunisti.
Stato-fantoccio è un concetto assai prossimo a quello di Stato-satellite. Per lo più l’espressione è usata per Stati – o regimi politici – che devono la loro esistenza a un soggetto più potente, quasi sempre un altro Stato. Spesso è un modo per esercitare l’occupazione militare: in altri casi, anche se il rapporto di «filiazione» tra Stato fantoccio e sconfitta – occupazione militare è (quasi) una regolarità, lo Stato-fantoccio subentra all’occupazione. Non è detto tuttavia che tale carattere implichi una subordinazione giuridica (anzi in genere non esiste) ma è dovuto a motivi politici e militari. Stati-fantoccio hanno ottenuto spesso anche il riconoscimento non solo delle potenze occupanti (o ex-occupanti) ma anche di Stati terzi.
2.0 La distinzione tra l’una e l’altra categoria di Stati per così dire «a sovranità limitata» (o a indipendenza relativa) consiste sotto il profilo giuridico, dalla assenza, nel primo caso (protettorati, colonie) di una (completa) capacità internazionale, e sul piano interno dalla presenza di organi di «controllo» (in effetti di governo o meglio – secondo i casi – di sorveglianza del governo) nominati dallo Stato protettore (ovvero dominante); nella seconda invece la capacità internazionale è piena e l’intromissione nelle attività di governo interne è esercitata (quasi) sempre per influenza politica sull’attività e spesso sulla nomina delle cariche di governo e/o di (alta) rilevanza politica.
Ovviamente in tale ultima classe, vale quanto scriveva Santi Romano per il protettorato (v. sopra): la forma e gli istituti concreti che il dominio politico può assumere non consente di tracciare confini netti; in astratto la differenza degli uni e degli altri è distinguibile agevolmente, in concreto no. Questo soprattutto perché il concetto di dipendenza politica è più ampio e determinante, ovvero è difficile che una dipendenza giuridica non si traduca in politica; nonché – e anche come conseguenza, perché le forme che il dominio assume possono cambiare senza che ne muti la sostanza. L’Egitto moderno ad esempio fu giuridicamente un protettorato della Gran Bretagna solo per pochi anni durante il primo conflitto mondiale, e poi fino al 1922. Ciò non toglie che prima e dopo la Gran Bretagna ne condizionava la politica in modo determinante, di guisa che l’Egitto «indipendente» fu teatro di battaglie tra potenze dell’Asse ed alleati nella seconda guerra mondiale, a quasi vent’anni dalla concessa «indipendenza».
3.0 Le forme (giuridiche) di dipendenza tra gli Stati (o tra Stati ed altri territori) costituiscono un reperto archeologico dopo la fine della seconda guerra mondiale e la decolonizzazione. È difficile trovare un trattato di diritto internazionale, di recente pubblicazione, che li prenda in esame. In qualche modo è comprensibile, atteso che di Stati protetti e di colonie (in senso giuridico, ben s’intende) non risulta che ne esista uno.
Peraltro l’esistenza di unità politiche «dipendenti» si riscontra costantemente nella storia. Lo erano la Giudea, l’Arabia Nabatea, l’Armenia (e altri) ai tempi dell’Impero romano. La Cipro dei Lusignano dipendeva da Venezia, la Transilvania dall’Ungheria nel Medioevo. Le repubbliche rivoluzionarie e poi i regni napoleonici dopo la rivoluzione francese dalla Francia. E così fino alla seconda guerra mondiale (ed oltre).
Tuttavia tale (apparente) assenza – a noi contemporanea – non significa che il rapporto di dominio sia venuto meno. Vale pur sempre la regolaritàdelpolitico esposta da Tucidide nel famoso dialogo tra gli ambasciatori ateniesi e i maggiorenti di Melo[7]. Pertanto il dominio (e la differenza tra rapporti di forza che presuppone) si esercita in modo diverso. Ciò per varie ragioni.
In primo luogo perché così viene occultato: non traducendo in istituti giuridici il rapporto di comando-obbedienza, questo è meglio nascosto. Si ubbidisce meglio e con minor resistenza a chi non comanda palesemente e con frastuono di «grida». Inoltre così è attenuata anche la responsabilità: uno Stato sovrano – anche se satellite o fantoccio – è responsabile pienamente dei propri atti (e omissioni), una colonia o un protettorato no (o non pienamente).
4.0 I giuristi, come Santi Romano, pongono il problema in termini giuridici (capacità-personalità); a un pensiero politico realista occorre qualcosa di diverso: più sein che sollen. Si può definire – com’è stato fatto – la sovranità come «competenza sulle competenze»; la si può denotare in un elenco di attività e funzioni (le vraies marques di Bodin); o come decisione sull’idea di diritto che debba valere nella comunità, o semplicemente negandola come fa Kelsen.
Ma, a basarla sul dato reale e concreto, la migliore definizione la si ricava da Sieyés, nelle sue considerazioni sulla Nazione, applicabili alla sovranità «La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre conforme alla legge, essa è la legge stessa. Prima di essa e al di sopra di essa non c’è che il diritto naturale… una nazione non può né alienare né interdire a se stessa la facoltà di volere; e qualunque sia la sua volontà, non può perdere il diritto di mutarla qualora il suo interesse lo esiga»[8]. È il volere libero, il connotato sostanziale del sovrano.
La stessa impostazione che dava Bodin della sovranità ruota intorno alla volontà del sovrano ed ai suoi limiti, ovvero se sia obbligato dai trattati con gli Stati esteri; o dalla legge; o dalla costituzione; o dal diritto naturale[9].
Bodin si pone anche il problema se possa dirsi sovrano un principe che sia feudatario o tributario e inizia affermando «Abbiamo detto poc’anzi che si può dire sovrano solamente chi non dipende, eccezione fatta per Dio, altro che dalla sua spada. Se uno dipende da altri non è più sovrano»[10].
Nel capitolo successivo, dopo aver dato una soluzione così semplice (sovranità = non dipendenza da altri) Bodin espone quali sono le vraies marques de la souveraineté. E scrive: «Infatti, chi non riterrebbe sovrano colui che possa dettar legge a tutti i suoi sudditi, decidere la guerra e la pace, nominare tutti gli ufficiali e magistrati del paese, levare taglie e affrancare chi meglio creda, dar la grazia a chi abbia meritato la morte? Che altro ancora si può richiedere per considerare sovrano un principe?»[11]; ma subito dopo ritorna sullo stretto rapporto sovranità/indipendenza «come potrebbe essere sovrano chi riconosca la giurisdizione di un superiore il quale possa annullare i suoi giudizi, modificare le sue leggi, castigarlo se commette abusi?»[12] e aggiunge, in sostanza, che il tutto è un principio d’ordine[13].
Anche quando scrive della prima marque (cioè del potere di dare, modificare, abrogare le leggi) specifica «Perciò possiamo concludere che la prima prerogativa sovrana è il potere di dare la legge a tutti in generale e a ciascuno come singolo; ma ancora questo non è sufficiente, se non si aggiunge: “senza il bisogno del consenso di nessuno”. Se il principe dovesse attendere e osservare il consenso di un superiore, non sarebbe che un suddito; se di un uguale, avrebbe un compagno di potere; se dei sudditi, del senato o del popolo, non sarebbe sovrano».
Quando poi scrive di un’altra marque, quella di nominare gli alti magistrati, afferma: «Ma ho parlato di ufficiali più alti o di primi magistrati, perché in realtà non vi è Stato ove non sia permesso ai più alti magistrati e a certi corpi e collegi di eleggere qualche ufficiale minore»[14]; così quando tratta del potere di giudicare in ultima istanza (cioè – anche – di annullare le sentenze) sostiene «Ma, al contrario, quando il principe sovrano lascia il suo suddito o vassallo il potere del diritto di giudizio in ultima istanza, o addirittura delle prerogative sovrane che apparterrebbero a lui, egli fa del suddito un principe sovrano»[15].
Bodin doveva cercare di ricondurre alla propria teoria dello Stato (moderno) proiettata nell’avvenire, istituti e rapporti giuridici esistenti in un’età di transizione tra il vecchio ordine feudale (policratico) e il nuovo ordinamento statale; peraltro, forse perché era un giurista, finiva in qualche misura, anche nel cadere in un eccesso di giuridificazione della sovranità[16].
5.0 La teoria di Bodin elaborata, come scritto, in un’epoca di transizione (Hauriou chiamava epoche le diverse fasi di una civiltà o «era»; così l’epoca medievale o quella del rinascimento[17]), può essere rivisitata per valutare la situazione contemporanea anch’essa di transizione (assai avanzata) tra l’ordine westphaliano e uno futuro di cui si percepiscono i contorni.
All’uopo le maggiori differenze tra il vecchio e nuovo ordine sono:
1) Il carattere della globalizzazione. Ovviamente questa non è nata con la fine dell’ordine di Yalta (o con internet), come spesso creduto. Va avanti almeno dalle gradi «scoperte» dei navigatori europei dell’inizio dell’età moderna. La differenza tra il tempo di Filippo II e Elisabetta I e l’attuale è che, fino a qualche decennio fa la globalizzazione era «gestita» o meglio «regolata» e «limitata» dagli Stati (dalla politica): tutela cui si sta sottraendo (o meglio si è già in notevole misura) sottratta.
Il primato dell’economia nella politica si sviluppa riducendo la capacità ordinatrice della seconda e quindi degli Stati.
2) La diffusione dei soggetti «politici». Non sono solo partiti e movimenti partigiani, ma anche lobbies e centri di potere economico e finanziario, sette e chiese. Qualcuno potrebbe obiettare: nulla di nuovo. E in effetti una situazione del genere ha più punti di contatto con l’assetto policratico dei feudatari, delle gilde e degli ordini monastico-militari che con l’età moderna.
3) Le ideologie pacifiste e la diffusione di forme di guerra «alternativa». Ossia non violente o comunque a «bassa intensità».
Il lavoro che ne tratta è l’ormai «classico» «Guerra senza limiti» dei colonnelli cinesi Quiao Liang e Wang Xiangsui. Quel che ne consegue è che simili forme di guerra rientrano facilmente nella disponibilità di soggetti non-politici (nel senso sopra precisato). Come scrivono i colonnelli suddetti «Quando la gente comincia ad entusiasmarsi e a gioire proponendo per la riduzione di forze militari come mezzo per la risoluzione dei conflitti, la guerra è destinata a rinascere in altre forme e su di un altro scenario, trasformandosi in uno strumento di enorme potere nelle mani di tutti coloro che ambiscono ad assumere il controllo di altri paesi o aree. In tal senso esistono fondate ragioni per sostenere che l’attacco finanziario di George Soros all’Asia Orientale, l’attacco terroristico di Osama Bin Laden all’ambasciata militare in Sudan, l’attentato chimico alla metropolitana di Tokyo da parte dei discepoli di Aum Shiri Kyo e i disastri perpetrati ai danni della rete da personaggi come Morris Jr., il cui livello di distruzione non è certo secondario a quello di una guerra, rappresentano una “semi-guerra”, una “quasi-guerra” e una “sotto-guerra”, vale a dire la forma embrionale di un altro genere di guerra»[18].
4) Il potere indiretto. Diversamente dagli imperi europei dell’era moderna dove la potenza colonizzatrice (e dominante) aveva responsabilità per la gestione dei territori soggetti, nel caso delle forme di dominio contemporanee, proprio perché esercitato più con strumenti politici che formalizzate giuridicamente, la responsabilità della potenza (o del potere) egemone non è giuridicamente configurabile. Anche se poi è chiaro che dietro a certi belligeranti e a certe guerre, vi sono potenze che «tirano i fili». Ma è una situazione estremamente comoda quella di uno Stato (o altro soggetto) che esercita un potere senza assumerne la responsabilità. Per questo è molto ricercata e sviluppata in questo tempo di pacifismo imperante (e d’ipocrisia diffusa), anche se non sconosciuta nei secoli passati.
5) Il consenso di terzi nell’esercizio di prerogative sovrane. È questo, come scrive Bodin che de-sovranizza il principe (v. sopra citato rif. nota 11). Nella realtà la dipendenza politica di uno Stato da un altro si è sviluppata, nel corso del XX secolo, in forme diverse, prima sconosciute o comunque meno frequentate.
Tipica è la dipendenza «ideologica» (a partire dalle repubbliche giacobine), dopo la pausa del XIX secolo, è aumentata nel secolo passato; il fattore d’incremento principale è stato il partito (e quindi lo Stato) totale, in effetti anche transnazionale. Com’è evidente nel comunismo «organizzato» prima nel Comintern e poi nel Cominform, ma anche nella diffusione, già nel secondo anteguerra, di partiti fascisti, giunti per lo più al potere nei rispettivi Stati a seguito dell’occupazione militare delle potenze dell’Asse.
La stessa dipendenza economica è incrementata (ideologicamente). Se si reputa ottimale un assetto libero-scambista, questo, in generale è preferibile: ma se si vuole negare che uno Stato abbia il diritto d’imporre limitazioni alla circolazione di merci, servizi e persone, anche nei casi di necessità estrema (eccezione), non lo è. Al contrario: il tutto riduce drasticamente la legittimità del potere politico, il quale istituito per il conseguimento del bene comune, trova in questo la propria regola di comportamento.
Altri tipi di dipendenza – spesso correlativi alla «permeabilità» degli Stati, si possono sviluppare attraverso il progresso tecnologico: se i due bravi colonnelli sopra citati configurano un atto di guerra con attacchi informatici, il relativo mezzo può essere utilizzato come strumento d’influenza e quindi di dipendenza.
Il potere mediatico può ottenere lo stesso risultato: anche in tal caso la corrispondente forma di guerra, ossia la guerra psicologica può convertirsi, in periodo di pace, in un’influenza/dominio sull’opinione pubblica di un popolo, determinandone scelte e orientamenti.
6) La negazione del nemico. L’aspirazione diffusa alla pace, convertita in «dottrina» dalle ideologie pacifiste che hanno come connotato comune di aver trovato l’elisir per eliminare la lotta (i mezzi sono diversi secondo l’una o l’altra)[19] comporta anche la negazione del nemico; ma la lotta è una condizione generale della politica, e l’ostilità (attuale o potenziale) ne è il corollario (e il presupposto).
La negazione del nemico è l’altra faccia di quella della guerra (convenzionale o meglio, tradizionale): solo assai più radicale. Per cui si crede che evitando la prima venga meno anche il secondo; nella realtà anche mancando quella la competizione per il potere tra diversi gruppi umani rivali continua ad esistere, e a generare altre forme di lotta per il potere: quelle, sopra ricordate, dei «bravi colonnelli» cinesi.
7) Pluralismo e responsabilità. Il pluralismo e le creazioni di aree – per lo più riferibili al diritto privato (quello che Hauriou chiamava droit commun – internazionale per natura) – attraverso Tribunali internazionali, costituiscono altre occasioni appetibili di rendere permeabili gli Stati. Ancor di più quando norme e decisioni internazionali divengono vincolanti attraverso meccanismi appositi, previsti anche per disposizione costituzionale (come l’art. 10 della nostra Costituzione). La responsabilità del sovrano è così dispersa – come il potere – nell’organizzazione policratica e nelle riserve di competenza correlate. Un’esigenza e assetto condivisibile ma che crea delle ghiotte opportunità di influenza.
Nella realtà il diritto, sia che consista in trattati che in decisioni di Corti interne o internazionali, secondo il pensiero politico (e giuridico) classico non poteva prevalere sulla politica e sulla necessità di protezione della comunità che la connota. Vale in generale ciò che diceva Bismarck dei trattati «Nessuna grande nazione potrà essere indotta a sacrificare la propria esistenza sull’altare della fede nei patti».
8) L’economia cosmopolitica e l’economia politica. Scriveva Friedrich List che i primi economisti come «Quesnay, che fece sorgere per primo l’idea della libertà universale del commercio, fu il primo ad allargare le ricerche su tutto il genere umano, senza però tener conto del concetto di nazione»[20].
In realtà List capiva assai bene come tra economia «cosmopolitica» e «politica» il fundamentum distinctionis era proprio l’insopprimibilità della politica come essenza (à la Freund) e come protezione dell’esistenza e conseguimento del bonum commune. Se le idee di Adam Smith sono astrattamente fondate, sono del tutto applicabili solo in un contesto senza guerra e senza volontà di dominio (cioè nel collodiano paese dei balocchi o qualche utopia del genere). Infatti scrive di Smith «Anche se, qua e là, parla della guerra, succede solo di passaggio e assai raramente. Tutti i suoi argomenti si basano sulla pace eterna…Evidentemente Adam Smith ha concepito la pace come pace eterna al modo dell’abate di St. Pierre». E lo stesso J. B. Say, il quale «chiede esplicitamente, per poter concepire l’idea della libertà di commercio, che si ammetta l’esistenza di una Repubblica Universale»[21]; e che se avesse scritto di economia politica (e non cosmopolitica) «difficilmente avrebbe potuto fare a meno di partire dal concetto e dalla natura della nazione e di dimostrare quali cambiamenti essenziali l’economia del genere umano deve subire per il solo fatto che il genere umano è suddiviso in nazionalità distinte, formanti un fascio di forze e di interessi, e poste, nella loro libertà naturale, di fronte ad altre società simili a loro»[22].
E List sostiene che «Tutti gli scrittori teorici hanno ripetuto questo errore. Anche Sismondi chiama l’economia politica “la science qui se charge du bonheur de l’espèce humaine”». Differente è la politica. Questa ha il compito di proteggere l’esistenza (particolare) di una comunità umana e come conseguire il bene comune della stessa[23].
Ed è perciò concettualmente e (spesso) oggettivamente contrapposta al principio cosmopolitico. List ricorda che Thomas Cooper «nega perfino l’esistenza della nazionalità. Egli chiama la nazione “una invenzione grammaticale fatta solo per evitare perifrasi, una cosa inesistente (a non entity) che esiste solo nelle teste degli uomini politici”»[24] affermazione che l’economista tedesco considera coerente «perché è chiaro che se si ammette l’esistenza della nazione, con la sua natura ed i suoi interessi, si presenta anche la necessità di modificare l’economia della società umana in relazione a questi interessi speciali»[25].
E proseguiva insistendo sugli inconvenienti, per l’economia di una nazione, che possono derivare dal differente grado di sviluppo con le altre; onde per beneficiare realmente di un sistema di libero scambio internazionale occorre che le comunità nazionali raggiungano «un uguale grado di civiltà, di formazione politica e di potenza»[26]; per cui «Perché la libertà di commercio possa agire liberamente e naturalmente, occorre prima di tutto che i popoli meno progrediti vengano portati, mediante interventi di vario genere, allo stesso livello di sviluppo al quale è pervenuta l’Inghilterra»[27].
List, che è considerato spesso un avversario del laissez-faire, appare più esattamente come un realista difensore delle insopprimibili esigenze e presupposti della politica (e del politico).
9) I diritti umani. Che dei diritti umani e delle loro violazioni si sia fatto un uso improprio (per l’intervento negli affari – un tempo interni – degli Stati sovrani) è cosa spesso affermata e nota. Già Hobson stigmatizzava l’analogo uso, da parte della Gran Bretagna nel XIX secolo dell’affermazione che «la nostra politica imperiale e coloniale è animata dalla volontà di diffondere in tutto il mondo le arti del libero autogoverno di cui godiamo in patria» e la contestava affermando che «alla vasta maggioranza dei popoli del nostro impero noi non abbiamo attribuito alcun vero potere di autogoverno, né abbiamo alcuna seria intenzione di farlo, né d’altra parte crediamo seriamente che sia possibile farlo» dato che «dei trecentosessantasette milioni di sudditi che vivono fuori dalle isole britanniche, non più di undici milioni, ossia uno su trentaquattro, hanno una qualche forma di autogoverno per quanto riguarda la legislazione e l’amministrazione»[28] e che «da quando le prime luci del nuovo imperialismo negli anni settanta hanno dato piena coscienza politica all’impero, è divenuto un vero luogo comune del pensiero liberale sostenere che la missione imperiale dell’Inghilterra è quella di diffondere l’arte del libero governo»[29].
Un giudizio simile mutatis mutandis, merita l’uso strumentale dei diritti umani.
Le idee sopra elencate sono le principali giustificazioni ideologiche di una globalizzazione che cerca di eliminare (o ridurre) i limiti che la politica e gli Stati possono porle.
In effetti le controindicazioni che una situazione del genere possa provocare sono già indicate nel pensiero politico (ed economico) di cui gli autori sopra ricordati costituiscono una (quantitativamente) piccola parte.
Il primo di tali inconvenienti è che l’ordine mondiale globalizzato non si pone – o non lo fa adeguatamente – il presupposto e la conseguenza che si accompagnano a quello: ossia il potere e la responsabilità.
Maurice Hauriou sosteneva che «il potere è una libera energia della volontà che si fa carico d’intraprendere il governo di un gruppo umano attraverso l’ordine ed il diritto»[30]. In tale definizione, proseguiva, vi sono tre elementi essenziali: 1) che il potere è una libera energia della volontà; 2) che il potere è un imprenditore di governo; 3) e che lo fa con la creazione dell’ordine e del diritto. Nelle concezioni globalizzatrici, a parte il richiamo all’idea d’impero, d’altra parte non meglio precisata, questa è soprattutto di assai dubbia praticabilità. Infatti in primo luogo si pone il problema di chi è lo Stato imperiale. Forse gli USA? E allora perché, malgrado guerre umanitarie e interventi di peace-keeping, non riescono a «normalizzare» i popoli (e gli Stati) occupati dalla NATO (o da coalizioni di Stati membri della NATO)[31]. E Cina e Russia che fanno?
Per cui l’idea d’impero – data la scarsa probabilità che la «testa» ne siano gli USA, diventa evanescente, ma più realistica. Così nel notissimo saggio di A. Negri e M. Handt, «Impero» in cui la forma di governo dell’Impero è una galassia formata da organizzazioni di Stati, Banca mondiale, clubs vari e multinazionali[32]. È chiaro che un sistema siffatto, in effetti policratico, è «governabile» solo a prezzo di guerre, talvolta «tradizionali» (anche se mascherate da «operazioni di polizia internazionale»), più spesso asimmetriche (nel senso dei colonnelli cinesi più volte ricordati): a regolarlo sono assai più i rapporti di forza che il diritto.
Per cui come un governo siffatto possa garantire un’impresa di governoattraverso l’ordine e il diritto è difficile da immaginare. Di fatto non c’è un governo nel senso di un centro di riferimento in fatto e in diritto irresistibile; non c’è neppure una volontà, che richiede di essere personale (o pluripersonale) di un organo deputato a decidere (parlamento, consiglio dei ministri, Capo dello Stato), ma solo procedure informali riconducibili ad accordi, evidentemente fondati sui rapporti di forza; non c’è neanche un ordine, intesto nel senso di ordine sotto un’autorità (e una gerarchia) riconosciuta[33]; ne è configurabile un diritto – almeno completamente – perché questo va comunque distinto – come scriveva Hauriou – in droit disciplinaire (quello emanato dall’istituzione e basato sul rapporto di comando-obbedienza) e droit commun (quello fondato sulla socievolezza umana e quindi internationale)[34]. E il droit disciplinaire qui manca (il che non significa che non vi sia il rapporto comando-obbedienza).
Scrive Freund peraltro che il bene comune – scopo dell’azione politica – si distingue, secondo il presupposto dell’amico/nemico (e del comando/obbedienza) nei due aspetti della sicurezza esterna e della concordia interna. Ma, in una società globalizzata la prima ha un senso depotenziato, almeno se la globalizzazione è intesa, come generalmente ritenuto, quale percorso per eliminare guerra e ostilità. Una volta che si fantastica di toglierle di mezzo, il problema (si immagina) è risolto. Quindi niente Stati (in senso westphaliano) né «politica» in un mondo globalizzato.
Quanto alla concordia interna, fondata più sul presupposto del comando-obbedienza, che su quello dell’amico-nemico, questo appare un obiettivo ancor più difficile da conseguire per un potere globalizzatore. Alla base di quella c’è il romano idem sentire de re publica, cioè la condivisione in un gruppo umano della fiducia in istituzioni, valori, interessi nonché la consapevolezza di una comune appartenenza (per lingua, tradizione, religione). Ovviamente tutti tali elementi determinano la particolarità e la specificità del gruppo politico, come tale già contrapposto ad un potere che si pretende universale[35].
Peraltro, nel processo di formazione delle unità politiche è l’idem sentire, o per dirla alla Payne, il common sense comunitario che favorisce e determina il costituirsi dell’unità politica e non viceversa (o per lo meno è questo il percorso normale e maggiormente praticato).
Questo in una società planetaria manca o è carente e inidoneo a costituire una base di consenso e condivisione a un potere universale, mentre fondamentalisti, nazionalisti, gruppi etnici (e così via) tuttora hanno la capacità di costituire sintesi politiche. Finché le identità delle varie comunità saranno così diverse è bizzarro pensare che, nella modestia di un sentire comune «universalista» si possa costituire (qualcosa che somigli a) una unità politica.
In Europa le ultime costituite, cioè Italia e Germania, a parte i fattori unificanti (lingua, territorio, «razza», consuetudini, e per l’Italia la religione cattolica), hanno richiesto un’opera di convinzione dello spirito pubblico durata oltre mezzo secolo (almeno: dall’età napoleonica a oltre metà dell’800); e comunque diverse guerre. Pretendere di costruirne anche solo un surrogato a tavolino e con la collaborazione di banche e burocrazie è frutto di aspirazioni scambiate per realtà possibili.
Senza le condizioni possibili per realizzare l’unità politica, come può fondarsi un ordine internazionale «globalizzato»?
Machiavelli nel Principe scriveva che «Dovete adunque sapere come e’ sono dua generazioni di combattere: l’uno, con le legge; l’altro, con la forza. Quel primo è proprio dello uomo; quel secondo, delle bestie. Ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo: pertanto ad uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo»[36]. Tale passo è stato interpretato in più modi e d’altra parte il pensiero denso e la scrittura efficace e concisa del Segretario fiorentino esprimono spesso meno parole che giudizi: uno dei quali è quello, ripreso secoli dopo da de Maistre che dove non c’è sentenza c’è lotta. Istituzioni (politiche) leggi, sentenze e ciò che presuppongono (cioè consenso, idem sentire, tradizione e così via) sono sistemi per produrre ordine e decisioni alternativi alla lotta. Giudizio che anche nei tempi presenti appare confermato. Dopo la caduta dell’ordine di Yalta – che era un ordine di sistemi politici «regionali» (occidente, comunismo, e – al massimo – «terzo mondo») le guerre convenzionali e «innovative» appaiono aumentate, ed estese a regioni del pianeta prima risparmiate, come l’Europa orientale, il Caucaso e parte del Medio Oriente. Dei soggetti «guerreggianti» oltre agli Stati e ai movimenti di liberazione nazionale, abbiamo un po’ di tutto.
D’altra parte la stessa invocazione alla «pace» e alla riduzione degli armamenti appare diventata uno strumento di guerra. Se la deterrenza della guerra consiste nel fatto che i contendenti possono arrecarsi danno reciproco, il limitare giuridicamente la possibilità di reazione è il tentativo di usare del diritto per impedire – nella maggior parte dei casi – la resistenza alla forza, e così cristallizzare i rapporti di potere, mantenendone le ineguaglianze.
Il che è soprattutto temibile nel caso di guerre condotte con mezzi non violenti, come quelle descritte dai «bravi colonnelli». Il tutto finisce col somigliare ad una rivisitazione attualizzata alla situazione contemporanea dei Trattati ineguali tra potenze europee ed asiatiche dell’800.
Con in più due caratteri specifici: che – per lo più, ciò serve a ridurre i rischi dell’aggressore, il quale, se sa di non dover subire una reazione violenta, può tranquillamente esercitare l’azione non violenta. E la seconda, usuale, che il tutto più che nei trattati è sancito attraverso la persuasione dell’opinione pubblica. La pace (intesa come non-violenza) è così mezzo di dominio.
Che «forza» e «legge» siano modi di combattere, come scrive Machiavelli, ossia d’imporre la propria volontà, è spesso dimenticato; così del pari, è – anche se in misura minore – trascurato che forza e legge sono anche modi di governare, non (totalmente) alternativi, ma piuttosto complementari. La «legge» senza forza è inutile: la forza senza legge è arbitrio violento.
Nella realtà occorrono entrambi. Se la combinazione di forza e regola è la normalità del governo dei gruppi umani, così come il potere responsabile è l’ordinatore ideale, quello che si profila nel mondo globalizzato appare tra i meno preferibili. Perché si risolve nell’affidare prevalentemente alla forza e all’astuzia (del potere esistente) il massimo della potenza disponibile senza la prospettiva che possa riuscire a creare un ordine che sia veramente tale.
Teodoro Klitsche de la Grange
[1] V. Corso di diritto internazionale, Padova 1933, p. 115.
[2] V. «poiché la regola dell’indipendenza internazionale dei soggetti, non è assoluta, ma ha delle eccezioni, ne viene che un soggetto può assumere una posizione di superiorità verso un altro, in base allo stesso diritto internazionale, e quindi si possono avere degli Stati che sono titolari di una potestà sovrana di mero diritto internazionale su Stati che, per la loro posizione sempre internazionale, sono subordinati ai primi e per ciò non sovrani. Così, p. es., nel protettorato» op. loc. cit.
[3] V. «Come si è visto, che un soggetto sia per diritto internazionale sovrano rispetto ad un altro non sovrano, nel senso che su questo eserciti una potestà, non è la regola, ma l’eccezione» op. cit.
[4]Op.cit., p. 117; e conclude «data la grande varietà che il protettorato può assumere, è difficile formulare principii generali, ma si può affermare che essi implicano sempre una limitazione della capacità di diritto e inoltre la perdita in taluni casi, o la diminuzione in altri, della capacità di agire».
[6] Anche giuridicamente, ma solo fino a un certo punto. Diversamente dallo «status» dei protettorati, le limitazioni vi sono, ma a parte la minore entità, non si traducono in una condizione stabile e regolata da dipendenza, ma a modifiche secondarie, ma talvolta significative, dei diritti degli stessi. Così le collaborazioni tra amministrazioni civili e militari.
[7] «Le nostre opinioni sugli Dei, la nostra sicura scienza degli uomini ci insegnano che da sempre, per invincibile impulso naturale, ove essi, uomini o Dei, sono più forti, dominano» v. La guerra del Peloponneso trad. it. di P. Sgroj V, 105/110.
[8]Qu’est-ce le tiérs État trad. it. di G. Troisi Spagnoli, in Opere Tomo I, Milano 1993, pp. 255-257.
[9] Scrive Bodin «Se dunque il principe sovrano è per legge esente dalle leggi dei predecessori, ancor meno egli sarà obbligato a osservare le leggi e le ordinanze fatte da lui stesso: si può ben ricevere la legge da altri, ma non è possibile comandare a se stesso, così come non ci si può imporre da sé una cosa che dipende dalla propria volontà, come dice la legge: nulla obligatio consistere potest, quae a voluntate promittentis statum capit; ragione necessaria, che dimostra in maniera evidente come il re non possa essere soggetto alle leggi» Six livres de la République, trad. it. di M. Isnardi Parenti, Torino 1988, p. 360.
[13] «E in breve abbiamo dimostrato le assurdità intollerabili che conseguirebbero se i vassalli fossero sovrani, anche nel caso che non abbiano nulla che non dipenda da altri; e che cosa avverrebbe se si considerassero uguali il padrone e il servitore, il signore e il suddito, chi presta giuramento di fedeltà e chi lo riceve, chi comanda e chi è obbligato all’obbedienza» (il corsivo è nostro) op. loc. cit.
[16] V. J. Freund secondo cui «i giuristi, seguiti da certi filosofi della politica, hanno cercato di spogliare della sovranità il comando. E Bodin è in parte responsabile di questa opera» L’essence du politique, Paris 1965, p. 117.
[17] V. La science sociale traditionnelle, rist. in Ecrits sociologiques, Dalloz, Paris 2008, p. 233 ss.
[18]Guerra senza limiti, L.E.G., Gorizia 2001, p. 39 e i colonnelli aggiungono «Comunque si scelga di definirla, questa nuova realtà non può renderci più ottimisti che in passato. Ciò perché la riduzione delle funzioni della guerra in senso stretto non implica affatto che quella guerra abbia cessato di esistere. Anche nella cosiddetta era postmoderna e post-industriale la guerra non sarà mai eliminata del tutto. E’ solo tornata a invadere la società in modi più complessi, più estesi, più nascosti e sottili», op. loc. cit. (il corsivo è nostro).
[19] V. Sul pacifismo e sulla pace le considerazioni di Freund, op. cit., pp. 620 ss; v. A. Salvatore, Il pacifismo, Roma 2010. In genere sull’incompatibilità tra sovranità dei popoli e globalizzazione v. l’attento studio di Alain de Benoist, Oltre la sovranità, Arianna Editrice, Bologna 2012, in particolare pp. 97-106.
[20]Das nationale system der Politischen Ökonomie, trad. it. Di H. Avi e P. Tinti Milano 1972, p.149 (il corsivo è nostro); e prosegue «Quesnay tratta evidentemente dell’economia cosmopolitica, cioè di quella scienza che insegna come tutto il genere umano può raggiungere il benessere, mentre per contro l’economia politica ed altre scienze si limitano ad insegnare come solo una data nazione possa raggiungere il benessere, la civiltà e la potenza, nelle condizioni mondiali date e per mezzo della sua agricoltura, industria e commercio. Adamo Smith diede alla sua dottrina la medesima estensione, ponendosi il compito di giustificare l’idea cosmopolitica dell’assoluta libertà del commercio mondiale… Adamo Smith non si pose il compito di trattare dell’oggetto dell’economia politica, vale a dire della politica che ogni paese deve seguire per fare dei progressi nelle sue condizioni economiche. Egli intitola la sua opera: Della natura e delle cause della ricchezza delle nazioni, cioè di tutte le nazioni delle quale si compone il genere umano. In una parte speciale della sua opera egli parla dei diversi sistemi dell’economia politica, ma solo con l’intenzione di dimostrare la loro vanità e per provare che al posto dell’economia politica o nazionale deve subentrare l’economia universale».
[21] E prosegue «Quei principi, però, che riguardano gli interessi di nazioni intere come tali ed in rapporto alle altre nazioni, formano invece l’economia pubblica (économie publique). Mentre l’economia politica tratta gli interessi di tutte le nazioni, di tutta la società umana in generale», op.cit., p. 50 (i corsivi sono nostri).
[23] Come scrive Freund: «qual è il bene specifico dell’attività politica… come Hobbes non cessa di ripetere il bene comune dello Stato e quello del popolo che formano insieme una collettività politica. In effetti se gli uomini continuano a vivere in collettività politiche, è perché vi trovano un interesse. Ci sono forti probabilità che se la natura umana non trovasse alcuna soddisfazione (bien) in tale genere di vita nessuna unità politica potrebbe essere stabile e durevole», v. Qu’est ce-que la politique, Paris 1965,p. 38.
[30]Précis de droit constitutionnel, Sirey, Paris 1929, p. 14.
[31] Volutamente ho rispolverato il termine di «normalizzazione» di bresneviana memoria, perché, malgrado tutto, l’intervento del 1968 in Cecoslovacchia del patto di Varsavia (cioè di un vero impero regionale) riuscì a ricondurre all’«obbedienza» una nazione riottosa, senza che ciò degenerasse in guerre civili o partigiane: fu un intervento di successo, come, in passato, molti del XIX secolo. Che poi il comunismo sia imploso è un fatto che trascende la dimensione politica e strategica dell’ordine nell’impero sovietico: il crollo del comunismo è dovuto all’incompatibilità del sistema con i presupposti del politico e, più in generale, con le innate tendenze dell’uomo.
[32] Il carattere informale e non strutturato del potere globalizzatore è stato notato da molti. Tra i quali ricordiamo F. Cardini, La Globalizzazione, Rimini 2004; G. Ferrara, Derubati di sovranità, Vicenza 2014.
[33] Che è poi il senso agostiniano di ordine e di pace «la pace della città è l’ordinata concordia dei suoi cittadini nel comandare e nell’obbedire; la pace della città celeste è la più perfetta e armoniosa concordia nel gioire di Dio e nel godere vicendevolmente in Dio; la pace di tutte le cose è la tranquillità dell’ordine. E l’ordine è la disposizione degli esseri uguali e disuguali che assegna a ciascuno il posto che gli conviene» v. De civitate Dei, trad. it., Roma 1979, p. 1161.
[35] Come scrive M. Veneziani Comunitari o liberali, Laterza, Bari 2006,p. 105 «Da una parte la globalizzazione congiunta all’internazionalismo porta a superare i confini territoriali; ma può esistere una comunità illimitata, che coincide alla fine con l’umanità? Puoò esistere cioè una comunità che non riconosce tratti specifici, provenienze condivise, tradizioni comuni ma solo la comune appartenenza al genere umano? Più giusto in questo caso è parlare di cosmopolitismo e non di democrazia comunitaria»; il che pone il problema del politico e della sua pretesa estinguibilità.
È irrealistico che gli Stati Uniti neghino gli aiuti militari a tal fine mentre le ostilità sono in corso, creando così un’opportunità per la Russia di raggiungere i suoi obiettivi massimi.
Il Foreign Intelligence Service (SVR) russo ha pubblicato una dichiarazione lunedì in cui si afferma che “Washington sta valutando di tenere elezioni presidenziali e parlamentari l’anno prossimo nel contesto delle continue ostilità con la Russia”. Lo scopo è quello di agire “come uno dei modi ‘legittimi’ per eliminare il ‘troppo presuntuoso’ V. Zelensky”, “se necessario”. A tal fine, gli Stati Uniti stanno già presumibilmente sfruttando i propri agenti di influenza in Ucraina per “creare un nuovo partito progettato per occupare una nicchia filoamericana”.
Questa analisi qui di agosto “Valutazione della veridicità dell’ultimo rapporto di SVR sui cambiamenti politici imminenti a Kiev” si collega a tre analisi associate di dicembre 2023, gennaio 2024 e maggio 2024 nel tentativo di spiegare perché le precedenti previsioni di cambiamenti politici non si siano ancora verificate. Per quanto riguarda l’ultima previsione, che è significativamente ammonita con la vaga affermazione che verrà fatta solo “se necessario”, ci sono ragioni per aspettarsi che sia più difficile da realizzare di quanto la dichiarazione di SVR implichi.
L’unico modo realistico in cui gli USA possono costringere Zelensky a tenere elezioni senza prima un cessate il fuoco , ricordando che ha detto che presumibilmente non può tenerle finché il conflitto non finisce a causa dell’interpretazione del decreto di legge marziale da parte del suo governo, è trattenendo gli aiuti militari. Se Trump va fino in fondo, allora rischia di facilitare una svolta militare russa che potrebbe aumentare le possibilità che la Russia raggiunga i suoi obiettivi massimi nel conflitto, cosa che gli USA naturalmente vogliono evitare che accada.
Nonostante Trump abbia promesso di porre fine alla guerra per procura NATO-Russia in Ucraina, che Biden è stato responsabile di aver provocato, è ancora un uomo d’affari nel profondo e quindi probabilmente non è a suo agio con il fatto che il suo paese non riceva alcun ritorno sui suoi investimenti di centinaia di miliardi di dollari. Per questo motivo, è improbabile che creerà le condizioni affinché la Russia raggiunga i suoi obiettivi massimi nel conflitto, negando gli aiuti militari a Zelensky finché quest’ultimo non terrà nuove elezioni come mezzo per sostituirlo.
Ciò che è più probabile è che Trump costringa Zelensky ad accettare un cessate il fuoco e poi gli chieda di tenere elezioni poco dopo, forse con il pretesto di garantire un mandato democratico per procedere ulteriormente con i colloqui di pace, dopodiché lui e il suo partito potrebbero essere sostituiti. Questa “transizione graduale della leadership” avverrebbe solo “se necessario”, poiché Trump potrebbe anche lasciare che Zelensky continui a rinviare le elezioni mentre usa l’SBU per consolidare il suo governo monopartitico se fa la sua offerta.
È prematuro prevedere se Trump esigerà o meno che le elezioni si tengano dopo un cessate il fuoco, ma si può valutare con un alto grado di sicurezza che non esigerà che si tengano prima di allora, poiché ciò potrebbe facilitare la sconfitta strategica della Russia agli Stati Uniti. Quando finalmente arriveranno le elezioni, è una certezza che gli Stati Uniti faranno tutto il possibile per perpetuare la propria influenza su Kiev, anche se ciò richiederà di sostituire “democraticamente” Zelensky e il suo partito con delegati più popolari.
Potrebbe non essere un bluff se decidesse di “escalation per de-escalation”, visto ciò che gli è stato promesso.
Il Financial Times ha riferito che “due delle idee sono state esposte nel ‘piano di vittoria’ di Volodymyr Zelenskyy con Trump specificamente in mente”, ovvero la proposta per i partner dell’Ucraina di estrarre le sue ricchezze di risorse e l’offerta dell’Ucraina di sostituire alcune truppe statunitensi di stanza in Europa. Probabilmente Trump apprezza davvero questi due punti, poiché sono in linea con i suoi interessi. Il primo lo aiuterebbe a recuperare parte degli investimenti statunitensi in Ucraina, mentre il secondo potrebbe facilitare il suo “Pivot (back) to Asia”.
Come uomo d’affari, Trump non vuole che il suo Paese perda le promettenti opportunità commerciali in Ucraina dopo avervi investito diverse centinaia di miliardi di dollari, per questo è improbabile che abbandoni completamente la guerra per procura del suo predecessore, anche se è molto più probabile che cerchi di raggiungere un accordo. Il senatore Lindsey Graham ha stimato in estate che l’Ucraina possiede 10-12 trilioni di dollari di minerali critici sotto il suo suolo. Anche se ha “solo” 1 trilione di dollari, è comunque abbastanza attraente da attirare l’attenzione di Trump.
Per quanto riguarda la seconda proposta di sostituire le truppe ucraine con alcune truppe statunitensi in Europa, questo potrebbe liberare alcune delle 100.000 truppe stimate dagli Stati Uniti per il ridispiegamento nell’Asia-Pacifico alla fine del conflitto ucraino, al fine di contenere più muscolarmente la Cina come previsto da Trump. Il rapporto di Politico di quest’estate sul suo presunto piano per la NATO chiede che il blocco si assuma una maggiore responsabilità per la sua difesa, che potrebbe essere avanzata dall’invio di alcune truppe da parte dell’Ucraina agli Stati partner in cambio di aiuti.
A prescindere da ciò che si pensa delle loro capacità, le Forze armate ucraine sono ancora una delle più grandi al mondo e hanno un’esperienza inestimabile sul campo di battaglia contro la Russia. Quest’ultima caratteristica le rende diverse da qualsiasi altra nella NATO e possono condividere queste esperienze con gli Stati partner, sostituendo alcune truppe statunitensi che potrebbero poi essere riassegnate all’Asia-Pacifico. Tutto ciò che Trump deve fare per sfruttare queste opportunità è non abbandonare completamente l’Ucraina.
Non è mai stato realistico che lo facesse in ogni caso, dal momento che ha autorizzato la vendita di armi all’Ucraina durante il suo primo mandato. Questo è uno dei fatti “politicamente scomodi” che i teorici della cospirazione del Russiagate ignorano abitualmente, perché smentisce la loro narrazione secondo cui egli sarebbe stato il burattino di Putin. Infatti, sono stati proprio alcuni di questi missili anticarro Javelin da lui trasferiti all’Ucraina ad essere utilizzati per ostacolare la fase iniziale dell’operazione speciale della Russia, il che significa che l’Ucraina avrebbe potuto perdere subito se non fosse stato per Trump.
Di recente è stato spiegato qui, qui e qui che ci si aspetta che Trump “intensifichi l’escalation per smorzare l’escalation” con la Russia al fine di ottenere un accordo migliore per gli Stati Uniti, con il rapporto del Financial Times che spiega cosa Trump vuole dall’Ucraina in cambio di questa politica rischiosa. Mettendo tutto insieme, considerando che Trump potrebbe essere spinto da motivazioni finanziarie molto lucrative e dalla speranza che l’Ucraina possa facilitare il “Pivot (back) to Asia” degli Stati Uniti, qualsiasi escalation egli impieghi a questo scopo probabilmente non sarebbe un bluff
Ci sono ragioni per dubitare del rapporto del WaPo.
Il rapporto del Washington Post (WaPo) che afferma che Trump ha chiamato Putin il giovedì dopo aver vinto le elezioni e gli ha detto di non inasprire il conflitto è stato contraddetto sia dal Cremlino che da Kiev. Il primo l’ha definito ” pura finzione “, mentre il secondo ha affermato di essere ” ignaro ” della chiamata nonostante ne fosse presumibilmente informato. Il team di Trump non ha rilasciato dichiarazioni al momento della stesura. Tuttavia, la tempistica del rapporto solleva dubbi sulla sua credibilità, che ora saranno elaborati.
Putin ha partecipato alla sua tradizionale sessione di domande e risposte quella sera all’incontro annuale del Valdai Club, che è durato fino a mezzanotte circa . Ha affermato di non aver parlato con Trump fino a quel momento, ma ha detto che sarebbe stato interessato a parlare con lui se avesse chiamato. Se il rapporto del WaPo è corretto, allora significa che Putin ha parlato con Trump prima del suddetto evento, ma ha mentito a riguardo, oppure che gli ha parlato qualche tempo dopo, ma prima delle 8 del mattino, ora di Mosca, che sarebbe la mezzanotte del giorno dopo a Mar-a-Lago.
Si può solo ipotizzare perché Putin avrebbe mentito su questo se è davvero quello che è successo, il che è improbabile, ed è anche altrettanto improbabile che avrebbe accettato di avere una discussione dettagliata con Trump tra mezzanotte e le 8 del mattino dopo la lunga sessione di domande e risposte della sera prima. Dopo tutto, questo genere di chiamate non sono improvvisate ma sono organizzate in anticipo, e Putin avrebbe sempre potuto riprogrammare. Pertanto, il rapporto del WaPo è probabilmente una fake news, il che fa chiedere perché sia stato pubblicato in primo luogo.
Una possibilità è che qualcuno del suo team sia stato incaricato di introdurre le due narrazioni del rapporto, ovvero che Trump ha detto a Putin di non intensificare ma ha anche informato l’Ucraina della chiamata, nel discorso. Ciò potrebbe essere stato fatto per testare il terreno valutando le loro reazioni a ciò che avrebbe potuto pianificare di fare. Un’altra possibilità è che elementi sovversivi a lui vicini volessero indebolire la sua chiamata pianificata. E infine, l’ultima possibilità è che sia stata inventata, dal WaPo o da chiunque altro per qualsiasi motivo.
Nell’ordine in cui sono state condivise, la prima teoria della “prova” avrebbe dimostrato che la Russia è a disagio nell’essere informata su cosa fare, mentre l’Ucraina non vuole essere esclusa. Per quanto riguarda la seconda, entrambe potrebbero ora sapere cosa aspettarsi, ma Trump potrebbe anche cambiarla per sorprenderli. Per quanto riguarda l’ultima, ha portato traffico al sito del WaPo e ha riaffermato la percezione di loro come uno degli sbocchi preferiti per le fughe di notizie da parte degli addetti ai lavori, ma non ha avuto alcun effetto evidente oltre a questo.
Guardando al futuro, la prima chiamata ufficiale Putin-Trump (quando mai ci sarà e supponendo che il rapporto del WaPo sia una fake news come è stato sostenuto) vedrà probabilmente il leader americano di ritorno condividere maggiori dettagli con la sua controparte russa su cosa ha esattamente in mente per porre fine al conflitto ucraino. I lettori possono saperne di più su come potrebbe apparire qui , qui e qui . Ci vorrà più di una chiamata per raggiungere questo obiettivo, molto probabilmente anche almeno un incontro di persona, ma tutto si sta muovendo in quella direzione.
L’India è altrettanto importante per le grandi strategie della Russia e degli Stati Uniti, il che la pone nel ruolo unico di facilitare i loro colloqui, soprattutto perché Modi è un caro amico di entrambi i leader.
Il ministro degli Affari esteri indiano, il dott. Subrahmanyam Jaishankar, ha annunciato durante il Forum commerciale russo-indiano di questa settimana a Delhi che “Le tre iniziative di connettività tra noi, come menzionato anche dal primo vice primo ministro [del russo Denis Manturov] – INSTC, il corridoio Chennai-Vladivostok e la rotta marittima settentrionale – necessitano tutte di continua attenzione, se vogliamo realizzare il nostro pieno potenziale”. Ciò equivale a promuovere la proposta dell’anello russo-indo che è stata condivisa a gennaio qui .
Il succo è che il corridoio di trasporto nord-sud (NSTC) attraverso l’Iran, il corridoio marittimo Vladivostok-Chennai (VCMC, in seguito rinominato Eastern Maritime Corridor o EMC) e la rotta del mare settentrionale (NSR) possono convergere in un nuovo corridoio commerciale multinazionale attorno all’Eurasia. La sua grande importanza strategica è che non è incentrato sulla Cina come altri corridoi commerciali, il che dal punto di vista di Trump può aiutare a ” slegare ” Russia e Cina come ha promesso di fare, ergo perché dovrebbe apprezzarlo.
Per essere chiari, la creazione di un corridoio commerciale non cinese attorno all’Eurasia lungo le linee del Russo-Indo Ring (che potrebbe essere rinominato come qualcosa di più inclusivo con il coinvolgimento di più paesi come quelli dell’ASEAN) non mira a ridurre il commercio russo-cinese, il che è reciprocamente vantaggioso. Tutto ciò che farà è scongiurare preventivamente la dipendenza potenzialmente sproporzionata della Russia dalla Cina bilanciando quanto sopra detto con altri partner commerciali, principalmente l’India ma idealmente anche l’ASEAN con il tempo.
Questo risultato è in linea con lo spirito del grande obiettivo strategico di Trump di “disunire” Russia e Cina, ma il problema è che la sua ripresa pianificata della “massima pressione” sull’Iran attraverso l’imposizione di ulteriori sanzioni potrebbe mettere a repentaglio la fattibilità dell’NSTC se scoraggiasse l’India dall’utilizzarlo. In questo risiede il motivo per cui quel paese dovrebbe richiedere un’estensione della sua attuale deroga alle sanzioni per l’utilizzo del porto di Chabahar per includere il suo commercio transiraniano con la Russia e non solo con l’Afghanistan.
L’amministrazione Biden ha flirtato con l’idea di revocare quella stessa deroga, ma come è stato recentemente sostenuto, ” Trump può riparare il danno che Biden ha arrecato ai legami indo-americani ” se assume una posizione molto più pragmatica. Invece di “fare pressioni massime” sull’India come ha fatto informalmente il suo predecessore, sebbene in modo imperfetto dato il suo approccio ” poliziotto buono, poliziotto cattivo “, può riabbracciare l’India come uno dei principali partner degli Stati Uniti in Asia. A tal fine, farebbe bene ad ampliare la deroga alle sanzioni per promuovere il commercio russo-indo tramite l’NSTC.
Potrebbe essere una pillola amara da ingoiare per lui, dato che l’Iran continuerebbe a trarre qualche profitto dalla facilitazione di quella parte del Russo-Indo Ring, cosa che Trump dovrebbe apprezzare per aver contribuito a scongiurare la dipendenza potenzialmente sproporzionata della Russia dalla Cina, ma è un compromesso che vale la pena considerare. Per aiutare a rendere più dolce l’accordo, potrebbe fare affidamento sul suo caro amico Narendra Modi per convincere il caro amico di quest’ultimo, Putin, ad accettare una sorta di compromesso in Ucraina che non raggiungerebbe i suoi obiettivi massimi.
Sebbene ciò sarebbe anche una pillola amara da ingoiare per il leader russo, cosa che potrebbe comunque finire per fare per le ragioni spiegate qui e qui , sarebbe più accettabile se non dovesse preoccuparsi che Trump interrompa il commercio russo-indo-indiano attraverso l’NSTC tramite ulteriori sanzioni. La cosiddetta “diplomazia economica”, che in questo contesto si manifesta con la rinuncia alle sanzioni statunitensi sul commercio indiano attraverso l’NSTC e la mancata applicazione delle sanzioni esistenti sul commercio con la Russia, potrebbe essere fondamentale per qualsiasi grande accordo.
L’India è ugualmente importante per le grandi strategie della Russia e degli Stati Uniti, il che la pone nel ruolo unico di facilitare i loro colloqui, soprattutto perché Modi è un caro amico di entrambi i loro leader. Anche Orban è vicino a loro, ma l’importanza economica dell’Ungheria per la Russia e gli Stati Uniti impallidisce in confronto a quella dell’India, ecco perché l’Ungheria non può giocare neanche lontanamente il ruolo che può giocare l’India. Di conseguenza, l’India può praticare la “diplomazia economica” con loro per facilitare un accordo, ma solo se tutti hanno la volontà politica.
L’India certamente lo fa e la Russia è chiaramente aperta a questo, quindi ciò di cui c’è bisogno è che Modi convinca Trump che è nel grande interesse strategico degli Stati Uniti accelerare l’ascesa del suo paese come suprema forza di bilanciamento nella transizione sistemica globale attraverso questi mezzi. Ciò che viene proposto in questa analisi è certamente ambizioso, ma data la sua priorità alla “diplomazia economica” come uomo d’affari di lunga data e famoso mediatore, Trump sarà prevedibilmente ricettivo a qualsiasi cosa Modi possa suggerire a questo proposito.
È quindi incombente che quei due ne discutano in dettaglio il prima possibile o che l’India trasmetta queste proposte interconnesse al team di Trump tramite altri mezzi, in modo che il leader americano di ritorno possa prendere in considerazione l’incorporazione di queste proposte nel suo piano per porre fine al conflitto ucraino. Il circolo russo-indo-indiano può trasformare geo-economicamente l’Eurasia finché gli Stati Uniti non si oppongono, il che potrebbe non accadere finché Modi riuscirà a convincere Trump che questo risultato è in linea con gli interessi del suo Paese.
Gli va dato credito per aver detto ciò che nessun influente politico del suo calibro ha osato dire, e la sua proposta di un allentamento graduale delle sanzioni è anch’essa molto pragmatica, ma altre parti del compromesso da lui proposto sono irrealistiche.
L’ex presidente del Council on Foreign Relations (CFR) Richard Haass ha recentemente pubblicato un articolo dettagliato per la rivista del suo think tank su come ” The Perfect Has Become the Enemy of the Good in Ukraine: Why Washington Must Redefine Its Objectives “. Ha osservato che gli Stati Uniti non hanno mai definito chiaramente cosa significhi la vittoria, il che ha portato a false aspettative, profonda delusione e confusione sul finale. Haass procede quindi a spiegare perché gli Stati Uniti dovrebbero spingere l’Ucraina a scendere a compromessi con la Russia.
Secondo lui, non può realisticamente ripristinare i suoi confini pre-2014, né sopravvivere alla Russia nell’attuale ” guerra di logoramento “. Il tanto pubblicizzato ” Piano della Vittoria ” di Zelensky “non è un piano per la vittoria, ma una ricetta per la guerra continua”, ha scritto Haass, avvertendo che “se gli alleati di Kiev se ne vanno, potrebbe finire per essere una ricetta per la sconfitta”. Invece, suggerisce di accontentarsi del fatto che l’Ucraina rimanga “un paese indipendente, sovrano ed economicamente sostenibile”, il che richiede la fine delle ostilità il prima possibile.
A tal fine, i suoi partner occidentali “dovrebbero dire a Kiev che non ci si può aspettare che il supporto occidentale continui ai livelli attuali o quasi senza di esso. Ma dovrebbero anche fare una promessa ferrea di fare tutto ciò che è in loro potere per fornire all’Ucraina armi per il lungo periodo”. Ciò include fornirle armi a lungo raggio come deterrente alla ripresa del conflitto da parte della Russia in un secondo momento. Una zona cuscinetto sarebbe idealmente ricavata lungo la linea di contatto, potenzialmente con peacekeeper, ma nessuna delle due parti rinuncerebbe alle proprie rivendicazioni.
Haass propone poi che la seconda fase diplomatica “potrebbe comportare trasferimenti territoriali in entrambe le direzioni e un certo grado di autonomia per gli abitanti della Crimea e dell’Ucraina orientale. Ciò comporterebbe anche la creazione di una garanzia di sicurezza per l’Ucraina”. Ha aggiunto che ciò dovrebbe comportare l’adesione formale alla NATO, ma una coalizione di volenterosi che fornisca garanzie di sicurezza credibili potrebbe essere sufficiente. Anche l’alleggerimento graduale delle sanzioni per la Russia potrebbe indurre al rispetto del cessate il fuoco.
Inoltre, “l’Occidente potrebbe chiedere all’Ucraina di rinunciare alle armi nucleari”, mentre la NATO “potrebbe impegnarsi a non schierare le sue forze sul territorio ucraino”, il che potrebbe soddisfare alcuni degli interessi dichiarati della Russia. Haass conclude poi invitando Biden a implementare questa politica indipendentemente da chi potrebbe essere il suo successore, sostenendo che potrebbe prendersi la responsabilità per Kamala di attuare questo cambiamento di politica tanto necessario, mentre gli sforzi promessi da Trump per mediare un accordo di pace sarebbero modellati dalle condizioni che eredita da Biden.
L’ex capo del CFR merita credito per aver detto ciò che nessun influencer politico del suo calibro ha osato dire, e la sua proposta di un allentamento graduale delle sanzioni è anche molto pragmatica, ma altre parti del compromesso da lui proposto sono irrealistiche. Il rappresentante permanente delle Nazioni Unite per la Russia ha recentemente ribadito la posizione del suo paese, secondo cui non accetterà l’ammissione dell’Ucraina alla NATO in nessuna forma o modo. Ciò significa che non accetterà mai la sua adesione formale come proposto da Haass, anche se le truppe non sono di stanza lì.
Tuttavia, si può sostenere che la serie di garanzie di sicurezza bilaterali che l’Ucraina ha stretto con i membri della NATO dall’inizio di quest’anno equivalga praticamente all’adesione formale, con l’unica eccezione che non vi è alcun obbligo implicito di inviare truppe a suo sostegno. A questo proposito, l’articolo 5 è male interpretato da amici e nemici come un obbligo di quanto sopra, ma tutto ciò che in realtà comporta è che ogni paese decida da solo il modo migliore per sostenere un alleato assediato.
L’aiuto militare senza precedenti del blocco all’Ucraina dall’inizio del 2022 in poi equivale di fatto all’attuazione dell’articolo 5 senza oltrepassare il limite dell’invio di truppe lì, quindi formalizzare questa forma di supporto esistente attraverso le suddette garanzie di sicurezza non fa che consolidare lo status quo. La Russia ovviamente lo disapprova, ma non ha intensificato i suoi attacchi chirurgici contro obiettivi militari o le sue operazioni sul campo di battaglia in risposta, il che implica che accetta tacitamente questa “nuova normalità”.
Allo stesso modo, l’Occidente accetta tacitamente che le sue sanzioni non siano riuscite a infliggere alla Russia la sconfitta strategica che si aspettavano, proprio come accetta tacitamente che l’Ucraina non riconquisterà nessuna delle sue regioni perdute. La consapevolezza di queste osservazioni “politicamente scorrette” prepara il terreno per un potenziale compromesso in base al quale l’Occidente e la Russia possono prendere in considerazione la formalizzazione di questo stato di cose come base per un armistizio, poiché ciascuno può rivendicare la vittoria a modo suo senza che l’altro “reagisca in modo eccessivo” come alcuni hanno temuto.
La Russia non userà armi nucleari contro l’Ucraina in risposta alla formalizzazione da parte di quel paese della sua relazione con la NATO, simile all’Articolo 5, mentre l’Occidente non schiererà truppe per aiutare l’Ucraina a riconquistare il suo territorio perduto. Un allentamento graduale delle sanzioni potrebbe incentivare la Russia a rispettare l’armistizio, mentre un mix di peacekeeper occidentali e non occidentali (in particolare i paesi BRICS) potrebbe essere schierato nella zona cuscinetto. L’Ucraina potrebbe anche essere costretta a smilitarizzare parte del suo confine universalmente riconosciuto con la Russia.
Per quanto riguarda l’argomento dell’autonomia per la Crimea e il Donbass, che Haass ha toccato nel suo articolo, è già in vigore da quando entrambe le regioni russe hanno formalizzato tali relazioni con il centro federale al momento della loro adesione al paese. Haass o non ne è a conoscenza, o se n’è dimenticato, o ha qualcos’altro in mente, ma in ogni caso non ci si aspetta alcun cambiamento poiché questo accordo funziona già bene per loro. D’altro canto, la Russia vorrebbe che l’Ucraina concedesse almeno l’autonomia culturale ai suoi coetnici, ma è improbabile.
Nessuna delle parti in conflitto, che include partecipanti indiretti come l’Occidente, sarà pienamente soddisfatta di quanto suggerito da Haass o proposto in questa analisi in risposta al suo pezzo. Anche così, alcuni dei compromessi che sono stati proposti potrebbero contribuire a portare a un armistizio, anche se la sfida è impedire alla Russia e/o all’Ucraina di violarlo per paura che il loro rivale si stia riarmando sotto questa copertura prima di un primo attacco apparentemente inevitabile e non annunciato. Non esiste una soluzione perfetta a questo dilemma.
Entrambe le parti si riarmeranno effettivamente sotto questa copertura, ma la Russia potrebbe essere influenzata positivamente da un allentamento graduale delle sanzioni a un ritmo relativamente accelerato, mentre l’Ucraina potrebbe essere frenata se gli Stati Uniti avessero la volontà politica e le forze di peacekeeping internazionali facessero il loro dovere monitorando il rispetto del cessate il fuoco. Ci sarà ancora la possibilità che una o l’altra possano “diventare canaglia” a causa del loro dilemma di sicurezza irrisolto, ma queste proposte aggiuntive sono il mezzo più realistico per ridurre tale possibilità.
Tutto sommato, il compromesso proposto da Haass è molto imperfetto, ma è anche sorprendentemente migliore di qualsiasi cosa i suoi pari abbiano finora proposto. Considerando la sua influenza nella formulazione delle politiche, sia direttamente che su coloro che sono incaricati di realizzarle, è possibile che alcune delle sue idee possano essere seriamente prese in considerazione o almeno generare un dibattito sui loro meriti tra coloro che contano. Prima ciò accadrà, prima gli Stati Uniti potranno tagliare le perdite finché ne hanno ancora l’opportunità.
Trump ha tutto da guadagnare riprendendo da dove tutti avevano lasciato più di due anni e mezzo fa.
Il rapporto del Wall Street Journal secondo cui Trump vuole creare una DMZ pattugliata dall’Occidente lungo la linea di contatto (LOC) per congelare il conflitto ucraino, che è stato analizzato qui e qui , corre pericolosamente il rischio di escalation delle tensioni con la Russia fino al punto di una crisi di rischio calcolato in stile cubano. Sarebbe quindi molto meglio per lui rilanciare la bozza del trattato di pace russo-ucraino dalla primavera del 2022. Oltre a scongiurare la terza guerra mondiale, che è una motivazione ovvia, eccone altre cinque:
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1. Adempiere al suo mandato democratico di portare la pace in Europa
Trump ha vinto il voto popolare e quindi ha un mandato democratico per adempiere alla sua promessa elettorale di portare la pace in Europa. Farlo sarebbe un forte inizio per il suo secondo mandato e rassicurerebbe i suoi sostenitori che non tornerà sui suoi impegni come l’ultima volta. Inoltre, altri paesi vedranno che è serio nel fare ciò che ha promesso, portandoli quindi a prenderlo più seriamente e rendendoli meno propensi a contrattare con lui. Potrebbe anche prepararsi a vincere il premio Nobel per la pace.
2. Creare meno spazio per la manipolazione da parte dello Stato profondo
Un’altra delle promesse di Trump è quella di epurare le burocrazie militari, di intelligence e diplomatiche permanenti del paese (“stato profondo”) dai neoconservatori guerrafondai. Se torna sui suoi passi rispetto alla più importante delle sue promesse di politica estera, allora avranno più spazio per manipolarlo. Dopotutto, è stata la sua decisione di bombardare la Siria all’inizio del suo primo mandato a preparare il terreno per ogni altra delusione in politica estera. Non riuscire a mantenere la posizione sull’Ucraina sarebbe un pessimo presagio.
3. Costringere l’UE ad assumersi maggiori responsabilità per la sua difesa
Il piano segnalato da Trump per la NATO mira a costringere l’UE ad assumersi maggiori responsabilità per la sua difesa in modo da riequilibrare il peso che gli USA portano in questo senso e quindi facilitare il “Pivot (back) to Asia” di quest’ultima per contenere più muscolosamente la Cina. Ciò non sarà ottenuto con belle parole o addirittura minacce, ma solo scioccando il sistema costringendolo a farsi avanti dopo che avrà posto fine al conflitto in questo modo, che è la loro paura peggiore e che quindi non lascerebbe loro altra scelta se non quella di fare ciò che richiederà in seguito.
4. Aiutare a “disunire” Russia e Cina nel modo più realistico possibile
Ha promesso alla vigilia delle elezioni di ” s-unire ” Russia e Cina e, sebbene sia impossibile metterle l’una contro l’altra, il risultato più realistico che può sperare è di ridurre la dipendenza potenzialmente sproporzionata della Russia dalla Cina ripristinando gradualmente il vettore europeo del suo atto di bilanciamento. Un allentamento graduale delle sanzioni come ricompensa per il rispetto di un cessate il fuoco/armistizio potrebbe fare molto per scongiurare lo scenario suddetto in un modo non minaccioso che sarebbe anche tacitamente accettabile per la Russia.
5. Rifornire le scorte per prepararsi meglio alle emergenze
E infine, porre fine rapidamente al conflitto ucraino rilanciando la bozza del trattato di pace della primavera 2022 come base per questo consentirebbe agli Stati Uniti di concentrare completamente il proprio complesso militare-industriale sul ripristino delle scorte esaurite per prepararsi meglio alle contingenze, come quelle che potrebbero presto svilupparsi in Asia. Ciò sarebbe difficile da fare se Trump continuasse ad armare l’Ucraina dopo essere stato manipolato per trasformare questa in un’altra guerra senza fine o come ulteriore garanzia di sicurezza da abbinare al suo presunto piano DMZ.
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Come si può vedere dai cinque punti sopra, Trump ha tutto da guadagnare riprendendo da dove tutti avevano lasciato più di due anni e mezzo fa per porre fine in modo sostenibile al conflitto ucraino alle condizioni che Kiev e Mosca avevano concordato provvisoriamente poco dopo il suo inizio, sebbene con piccole modifiche. Le attuali realtà territoriali, sia per quanto riguarda la LOC che per gli interi confini amministrativi delle quattro regioni ucraine che si sono unite alla Russia, dovrebbero essere riconosciute. Se lo fa, allora un accordo è certo.
Data l’enormità del compito da svolgere, Trump potrebbe non essere in grado di realizzare il suo presunto piano per organizzare una missione di mantenimento della pace occidentale/NATO in Ucraina, a meno che non annunci il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti in questo schema, cosa che non si prevede farà.
Di recente è stato valutato che ” Il tempo stringe affinché la Russia raggiunga i suoi obiettivi massimi nel conflitto ucraino ” dopo che il Wall Street Journal ha riferito che Trump ha in programma di organizzare una missione di mantenimento della pace occidentale/NATO in Ucraina senza la partecipazione degli Stati Uniti per congelare il conflitto. Ovviamente è molto più facile a dirsi che a farsi. Ecco cosa può compensare questo scenario, ritardandolo abbastanza a lungo da permettere alla Russia di porre fine al conflitto alle sue condizioni o di capovolgere completamente il piano di Trump:
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1. Gli europei temono un’escalation cinetica diretta con la Russia
Il duro discorso della Francia all’inizio di quest’anno sull’intervento convenzionale nel conflitto e il successivo rifiuto della Polonia di escludere la sua partecipazione mascherano anche la paura degli europei di un’escalation cinetica diretta con la Russia. Trump dovrà sfruttare magistralmente l’influenza degli Stati Uniti su di loro e sulla NATO nel suo complesso per costringere i partner europei del suo paese a mettere a rischio la propria sicurezza portando avanti questo piano rischioso. Dopotutto, potrebbe sempre ritorcersi contro e innescare inavvertitamente la Terza guerra mondiale.
2. L’opinione pubblica nel Lynchpin polacco è fortemente contraria a questo
È difficile immaginare una missione di peacekeeping occidentale/NATO in Ucraina senza la partecipazione principale della Polonia, ma l’opinione pubblica è fortemente contraria a ciò dopo che un sondaggio autorevole svoltosi durante l’estate ha mostrato che il 69% dei polacchi è contrario all’invio di truppe in quel paese vicino in qualsiasi veste. Man mano che la reciproca sfiducia polacco-ucraina peggiora come spiegato qui , qui e qui , diventerà una vendita molto dura, inoltre i polacchi temono di essere nuovamente sfruttati dall’Occidente senza ottenere nulla in cambio .
3. La precedente retorica di Trump sull’articolo 5 non ispira fiducia
Un altro ostacolo che dovrà essere superato è riguadagnare fiducia in Trump a causa della sua precedente retorica sull’articolo 5 dopo aver dichiarato a febbraio che gli Stati Uniti non proteggeranno i membri della NATO che non hanno speso almeno il 2% del loro PIL per la difesa. Ha persino minacciato che “incoraggerò [la Russia] a fare tutto quello che diavolo vogliono”. Anche se la maggior parte ora raggiunge quell’obiettivo, potrebbero ancora temere che lui aggiungerà più vincoli all’articolo 5, su cui faranno affidamento per la difesa se parteciperanno a questa missione.
4. Non è chiaro esattamente cosa farebbe Trump se la Russia colpisse le truppe della NATO
Trump dovrà anche convincere i membri della NATO che la sua risposta all’attacco russo alle loro truppe bilancerà la linea tra l’adempimento degli impegni percepiti dall’articolo 5 e l’evitamento di un’escalation che potrebbe trasformarsi nella terza guerra mondiale. Devono anche essere sicuri che andrà fino in fondo e non tornerà indietro. Inoltre, questo dovrà essere comunicato chiaramente anche alla Russia, che dovrà scoraggiare. C’è molto che può andare storto in qualsiasi punto di questa sequenza di eventi, quindi il suo successo non può essere dato per scontato.
5. La NATO non è preparata per una guerra calda non nucleare prolungata con la Russia
Anche nell’ipotesi estremamente improbabile che né la Russia né gli Stati Uniti ricorrano alle armi nucleari in caso di scambi cinetici diretti tra loro, la NATO non sarebbe preparata a scatenare una guerra calda prolungata e non nucleare con la Russia. Sta perdendo di gran lunga la ” corsa della logistica “, non sono stati fatti progressi durante l’ultimo vertice NATO sullo ” Schengen militare ” per facilitare tali movimenti verso est e il blocco ha solo il 5% delle difese aeree necessarie per proteggersi. La NATO potrebbe quindi alla fine perdere contro la Russia.
6. La mediazione esterna potrebbe portare a una missione di mantenimento della pace ridotta
L’Ungheria e l’India hanno ottimi legami con la Russia e gli Stati Uniti, quindi è possibile che possano lavorare indipendentemente o congiuntamente per mediare una missione di mantenimento della pace ridimensionata. Ciò potrebbe portare allo spiegamento di truppe occidentali a ovest del Dnepr, all’Ucraina che demilitarizza tutto ciò che controlla ancora a est delle armi pesanti e alla Russia che accetta di congelare la linea di contatto. Un simile scenario è stato ampiamente discusso qui a metà marzo. È improbabile, certamente imperfetto, ma comunque possibile.
7. Gli europei cauti potrebbero scommettere che è meglio tagliare le perdite
Tuttavia, i sei punti precedenti potrebbero portare gli europei cauti a scommettere che è meglio tagliare le perdite e lasciare che tutto vada come vuole, senza rischiare le conseguenze che la loro partecipazione a una missione di mantenimento della pace ucraina potrebbe comportare. Sarebbe una sconfitta senza precedenti per l’Occidente se permettesse alla Russia di ottenere una vittoria massima, ma la crescente stanchezza e la paura di innescare e perdere inavvertitamente la Terza guerra mondiale potrebbero portare a questo risultato che cambierà il mondo.
8. Una crisi di rischio calcolato in stile cubano potrebbe scoppiare prima della reinaugurazione di Trump
Un’altra possibilità è che i falchi anti-russi nelle burocrazie militari, di intelligence e diplomatiche permanenti degli Stati Uniti (“stato profondo”) e/o Zelensky provochino una forte escalation con la Russia prima della reinaugurazione di Trump, per disperazione, per impedirgli di “svendere l’Ucraina”, come potrebbero vederla. Se ciò accadesse, Trump sarebbe impotente nell’influenzare il corso degli eventi. Non avrebbe altra scelta che ereditare qualunque ne sia l’esito, che si tratti della Terza guerra mondiale o di un possibile accordo di pace sbilanciato.
9. C’è la possibilità che la Russia ottenga la massima vittoria anche prima di allora
Questo scenario è improbabile a causa dell’alta probabilità che il suddetto punto si materializzi, specificamente sotto forma di un intervento NATO convenzionale per almeno far correre la Russia verso il Dnieper, nel caso in cui le linee del fronte crollino prima di metà gennaio e la Russia stia per ottenere la massima vittoria. Anche così, c’è sempre la possibilità che venga evitato per qualsiasi motivo, nel qual caso non ci sarebbe bisogno della missione di mantenimento della pace della NATO che Trump presumibilmente prevede.
10. Le guerre dell’Asia occidentale peggiorano e diventano la priorità immediata di Trump
E infine, nessuno sa se le guerre dell’Asia occidentale potrebbero peggiorare e quindi diventare la priorità immediata di Trump una volta ripreso l’incarico, con argomenti convincenti per prevedere che sia Israele che l’Iran potrebbero tramare esattamente questo scenario in anticipo sui rispettivi interessi. In breve, Israele potrebbe voler adescare gli Stati Uniti per aiutarlo a distruggere l’Iran una volta per tutte, mentre l’Iran potrebbe voler infliggere un colpo devastante agli interessi regionali degli Stati Uniti come vendetta per l’assassinio di Soleimani da parte di Trump.
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Data l’enormità del compito da svolgere, Trump potrebbe non essere in grado di eseguire il suo piano segnalato per organizzare una missione di mantenimento della pace occidentale/NATO in Ucraina, a meno che non annunci il coinvolgimento diretto degli Stati Uniti in questo schema, cosa che non si prevede che faccia. Se non ottiene ciò che vuole, potrebbe ricorrere a minacce alla Russia e alla NATO, ma tale guerra psicologica potrebbe non avere alcun effetto. In tal caso, potrebbe semplicemente rinunciare e andare avanti, incolpando Biden per la sconfitta senza precedenti dell’Occidente.
Il presunto piano di Trump per una missione di mantenimento della pace occidentale/NATO in Ucraina pone la Russia nel dilemma se anticiparla con un’altra offensiva nazionale su larga scala, prendendo di mira quelle forze dopo il loro ingresso, con il rischio di scatenare la Terza guerra mondiale, oppure accettare tacitamente questa conclusione.
Il rapporto del Wall Street Journal secondo cui il piano di pace di Trump per l’Ucraina prevede la creazione di una zona demilitarizzata di 800 miglia che sarebbe pattugliata dagli europei aggiunge molta urgenza alla lotta della Russia, lunga quasi 1000 giorni, per raggiungere i suoi obiettivi massimi in questo conflitto. Il potenziale ingresso di forze convenzionali occidentali/NATO in Ucraina come peacekeeper pone la Russia nel dilemma di accettare un’altra “linea rossa” oltrepassata o rischiare la Terza guerra mondiale prendendole di mira.
Per rinfrescare la memoria a tutti, visto che è passato così tanto tempo dall’inizio dell’operazione speciale, la Russia punta ufficialmente a: 1) smilitarizzare l’Ucraina; 2) denazificarla; e 3) ripristinare la sua neutralità costituzionale, tra gli altri obiettivi supplementari e informali. I referendum di settembre 2022 hanno poi aggiunto l’obiettivo ufficiale di rimuovere le forze ucraine dall’insieme delle quattro regioni che la Russia ora rivendica come proprie, comprese le aree di Kherson e Zaporozhye dall’altra parte del Dnieper, che saranno una sfida.
Allo stesso tempo, Putin ha ripetutamente rifiutato di intensificare reciprocamente la propria azione in risposta alle provocazioni ucraine più gravi, come il bombardamento del Cremlino, i sistemi di allerta precoce, gli aeroporti strategici, le raffinerie di petrolio e gli edifici residenziali, et al, tutto perché non voleva che il conflitto andasse fuori controllo. Per quanto responsabile sia questo approccio, lo svantaggio è che ha creato la percezione che avrebbe potuto accettare di oltrepassare ancora più “linee rosse”, comprese le forze convenzionali occidentali/NATO in Ucraina.
L’avversione di Putin all’escalation potrebbe quindi essere sfruttata da Trump, che a quanto si dice ha ricevuto un piano a giugno che lo consigliava di dare all’Ucraina tutto ciò che voleva se la Russia avesse rifiutato qualsiasi accordo di pace da lui proposto, ergo l’alta probabilità di un intervento convenzionale occidentale/NATO per congelare in modo decisivo il conflitto. La storia di Trump di “escalation per de-escalation” con la Corea del Nord e l’Iran suggerisce che avrebbe portato avanti questo piano anche contro la Russia, motivo per cui dovrebbe prendere sul serio questo scenario.
A patto che Putin non abbia la volontà politica di rischiare un’escalation senza precedenti prendendo di mira quelle forze convenzionali occidentali/NATO, e che il suo comportamento finora in risposta ad altre provocazioni suggerisca che questo sia effettivamente il caso, allora dovrà correre contro il tempo per raggiungere i suoi obiettivi massimi. Ci vorrà ancora del tempo prima che gli Stati Uniti riescano a convincere attori chiave come la Polonia, dove il 69% dell’opinione pubblica è contraria all’invio di truppe in Ucraina in qualsiasi veste, quindi questo probabilmente non accadrà entro metà gennaio.
In ogni caso, la Russia non ha più un lasso di tempo ipoteticamente indefinito come prima per: 1) smilitarizzare l’Ucraina; 2) denazificarla; 3) ripristinare la sua neutralità costituzionale; e 4) rimuovere le forze ucraine dall’insieme delle quattro regioni che la Russia ora rivendica come proprie, comprese quelle aree oltre il Dnepr. Anche se le dinamiche militare-strategiche del conflitto lo favoriscono, e la cattura di Pokrovsk potrebbe portare a enormi guadagni a Donetsk, sarà molto difficile raggiungere tutti questi obiettivi prima che si verifichi un intervento.
Per spiegare nell’ordine in cui sono stati menzionati, inizialmente l’Ucraina avrebbe dovuto essere smilitarizzata in seguito al rapido successo dell’operazione speciale nella sua fase iniziale, ma il Regno Unito e la Polonia (il cui ruolo la maggior parte degli osservatori non è a conoscenza) hanno convinto Zelensky a stroncare la bozza del trattato di pace della primavera 2022. Quel documento avrebbe notevolmente ridotto le sue capacità militari, ma non è più realistico immaginare che accetterebbe, soprattutto dopo aver ricevuto decine di miliardi di dollari di armi NATO.
È anche improbabile che la NATO accetti di chiederli indietro a causa della percezione (indipendentemente dalla sua veridicità) che l’Ucraina debba essere in grado di “dissuadere” la Russia dal presunto riavvio del conflitto dopo la sua conclusione. La rapida cattura dell’Afghanistan da parte dei talebani dopo il maldestro ritiro di Biden da lì è stata duramente criticata da Trump, che passerebbe alla storia come un perdente ancora più grande se accettasse di “smilitarizzare” l’Ucraina e venisse poi preso in giro da Putin se la Russia lo avesse schiacciato qualche tempo dopo.
L’unico modo praticabile in cui la Russia potrebbe attuare la smilitarizzazione dell’Ucraina nel contesto odierno è controllare la maggior parte possibile del suo territorio per garantire che non vi siano dispiegate armi minacciose. Il problema, però, è che è improbabile che la Russia ottenga il controllo militare su tutta l’Ucraina, o anche solo su parti significative del suo territorio a est del Dnepr in prossimità del confine riconosciuto a livello internazionale attraverso il quale i proiettili di Kiev continuano a volare regolarmente, al momento di un intervento occidentale/NATO.
Uno dei motivi per cui la fase di apertura dell’operazione speciale non ha portato alla fine del conflitto alle condizioni della Russia è perché l’Occidente ha informato Zelensky di quanto fosse diventata sovraestesa la sua logistica militare e quindi lo ha incoraggiato a sfruttarla per respingerla come ha fatto alla fine. Considerando quanto sia cauto come leader Putin , è improbabile che agisca di nuovo fuori dal personaggio ordinando di ripetere questa stessa strategia rischiosa anche se le linee del fronte crollano e la Russia è in grado di invadere altre regioni.
Un’altra sfida imprevista che la Russia ha dovuto affrontare durante la fase di apertura dell’operazione speciale è stata quella di mantenere effettivamente le ampie fasce di territorio che nominalmente controllava. Le riserve nascoste di Javelin e Stinger dell’Ucraina hanno causato perdite sufficienti dietro le linee russe da generare il ritiro su larga scala che ha coinciso con il fallimento dei colloqui di pace della primavera del 2022. C’è anche l’evidente difficoltà di catturare rapidamente grandi città come Kharkov, Sumy e Zaporozhye, cosa che non è ancora accaduta.
Passando al secondo obiettivo massimo della Russia di denazificare l’Ucraina, dopo aver spiegato quanto sarà difficile raggiungere il primo di militarizzarla, anche questo non può avere successo senza un accordo politico che non è più realistico nel contesto odierno dopo che tale possibilità è sfuggita nella primavera del 2022. Ciò che la Russia ha in mente è che l’Ucraina promulghi una legislazione in linea con questi obiettivi, come vietare la glorificazione dei fascisti dell’era della seconda guerra mondiale e revocare le restrizioni sui diritti dei russi etnici.
Zelensky non ha più motivo di accettare questa cosa come aveva flirtato con l’idea di fare all’inizio del 2022 e il team di Trump non sembra comunque preoccuparsi poi tanto di questa questione. Non è quindi chiaro come la Russia possa ottenere questo prima di un intervento occidentale/NATO, se non nell’improbabile scenario di una Rivoluzione colorata amica della Russia e/o di un colpo di stato militare, nessuno dei quali gli Stati Uniti accetterebbero, ed entrambi i quali probabilmente spingerebbero il suddetto intervento per disperazione per salvare il “Progetto Ucraina”.
Il terzo obiettivo massimo di ripristinare la neutralità costituzionale dell’Ucraina è relativamente più probabile ma comunque irrilevante a questo punto, dato che la serie di garanzie di sicurezza che ha già ottenuto con gli stati della NATO dall’inizio di quest’anno equivale di fatto a un continuo supporto dell’articolo 5. Contrariamente alle percezioni popolari, questa clausola non obbliga l’invio di truppe, ma solo che ogni paese faccia tutto ciò che ritiene opportuno per aiutare gli alleati sotto attacco. Il loro attuale aiuto militare all’Ucraina è in linea con questo.
Costringere l’Ucraina a revocare l’emendamento costituzionale del 2019 che rende l’adesione alla NATO un obiettivo strategico sarebbe quindi una concessione superficiale alla Russia da parte degli Stati Uniti per rendere il piano di pace di Trump un po’ meno amaro da digerire per Putin. Come per i due obiettivi massimi precedenti, Zelensky non ha motivo di soddisfare le richieste di Putin a questo proposito, poiché le forze di quest’ultimo non sono in grado di imporglielo, il che significa che può essere fatto realisticamente solo se Trump glielo ordina.
Come probabilmente il lettore avrà già capito, il tema comune è che l’incapacità della Russia di costringere militarmente Zelensky a rispettare i suoi obiettivi massimi riduce notevolmente la possibilità che vengano raggiunti, il che vale anche per quello finale di ottenere il controllo su tutti i territori delle sue nuove regioni. È inimmaginabile che Zelensky ceda volontariamente Zaporozhye con i suoi oltre 700.000 abitanti, ad esempio, o che Trump accetti l’obbrobrio occidentale che seguirebbe a costringerlo a farlo.
Lo stesso vale per il fatto di consentire alla Russia di attraversare il Dnieper per ottenere il controllo sulle aree di quella regione e di Kherson dall’altra parte, creando così l’opportunità per essa di rafforzare le sue forze lì in futuro per un fulmineo attacco sulle pianure occidentali dell’Ucraina nel caso in cui il conflitto si riaccenda dopo la sua fine. Non c’è modo che Trump possa mai fare a Putin un regalo militare-strategico così inestimabile, quindi i sostenitori della Russia non dovrebbero ingannarsi illudendosi che ciò accadrà.
L’unico modo in cui la Russia può raggiungere i suoi obiettivi massimi prima dell’ingresso delle truppe occidentali/NATO in Ucraina come peacekeeper è attraverso mezzi militari, il che richiederebbe un’altra offensiva su vasta scala e su più fronti del tipo che ha caratterizzato i primi giorni dell’operazione speciale. Anche allora, tuttavia, l’elevato rischio di estendere ancora una volta la sua logistica militare, di essere attaccati da Stingers/Javelins e quindi di rischiare costi di reputazione e persino perdite sul campo, rimarrà.
Pertanto, alla Russia restano solo tre opzioni: 1) intensificare le misure ora, prima che le truppe occidentali/NATO entrino in Ucraina e costringere Zelensky ad accettare queste richieste o catturare e mantenere abbastanza territorio per smilitarizzare la maggior parte possibile del paese; 2) intensificare le misure dopo l’ingresso, rischiando di innescare una crisi di rischio calcolato simile a quella cubana, che potrebbe sfociare in una terza guerra mondiale; oppure 3) accettare il fatto compiuto di congelare il conflitto lungo la linea di contatto e iniziare a preparare l’opinione pubblica di conseguenza.
Non è chiaro quale opzione sceglierà Putin, dal momento che non ha ancora espresso una preferenza per nessuna di esse. Tuttavia, è opportuno citare il ministro degli Esteri russo del XIX secolo Alexander Gorchakov, che disse che ” la Russia non si sta imbronciando; si sta ricomponendo “. La Russia sa che il tempo stringe per raggiungere i suoi obiettivi massimi prima che Trump ordini probabilmente alle forze di peacekeeping occidentali/NATO di entrare in Ucraina. Il Cremlino è in silenzio per ora proprio perché i decisori politici devono ancora decidere cosa fare.
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Per comprendere meglio il dilemma della Russia, i lettori potrebbero essere interessati a leggere le seguenti analisi:
Trump non dimenticherà mai ciò che si sono detti e non è uno che perdona i propri nemici, quindi i suoi problemi personali con Tusk e Sikorski potrebbero peggiorare a scapito del partenariato strategico polacco-statunitense.
L’eurodeputato polacco conservatore-nazionalista Dominik Tarczynski, che ha collaborato strettamente con la campagna di Trump per il 2024, ha confermato che il presidente di ritorno ha ricevuto la prova delle dichiarazioni irresponsabili fatte in passato da importanti politici polacchi nei suoi confronti. I lettori interessati possono fare riferimento al thread dell’analista polacco Zygfryd Czaban su X qui , che raccoglie le affermazioni più provocatorie, tra cui il primo ministro Donald Tusk che definisce Trump un agente russo e il ministro degli Esteri Radek Sikorski che lo diffama come un proto-fascista.
Inoltre, il vicepresidente eletto JD Vance ha chiamato Tusk per la sua repressione autoritaria contro l’opposizione all’inizio di quest’anno, molto prima che diventasse il compagno di corsa di Trump, quindi si può dare per scontato che la nuova amministrazione abbia già opinioni negative su quella polacca in carica. Ciò influenzerà sicuramente le dinamiche politiche tra di loro, nonostante gli interessi geostrategici condivisi che uniscono i loro paesi. Trump potrebbe persino arrivare a fare bullismo vendicativo a Tusk e Sikorski.
A tal fine, non si può escludere che farà pressione sulla Polonia affinché assuma la guida nell’invio di peacekeeper in Ucraina per pattugliare il suo lato della zona demilitarizzata (DMZ) di 800 miglia che il Wall Street Journal ha riferito che potrebbe proporre come parte di un compromesso per porre fine al conflitto. Un membro anonimo del suo team è stato citato da loro mentre diceva che “Non stiamo inviando uomini e donne americani per sostenere la pace in Ucraina. E non stiamo pagando per questo. Fatelo fare ai polacchi, ai tedeschi, agli inglesi e ai francesi”.
Sarà quindi estremamente difficile per Tusk e Sikorski convincere il loro popolo che ora hanno bisogno di sborsare più soldi per l’Ucraina, per non parlare dell’accettazione del possibile dispiegamento delle loro truppe per pattugliare una DMZ con la Russia lì, soprattutto in mezzo ai loro legami politici in deterioramento. L’ingratitudine ucraina nei confronti della Polonia che ha speso un enorme 3,3% del suo PIL a sostegno della sua causa finora e la ripresa della disputa sul genocidio della Volinia sono i più direttamente responsabili di questo sviluppo.
Le relazioni sono peggiorate a tal punto che il vice primo ministro Krzysztof Gawkowski ha accusato Zelensky di aver tentato di provocare una guerra tra Polonia e Russia proprio la scorsa settimana a causa delle sue richieste che la Polonia intercetti i missili russi sull’Ucraina. Se Trump riuscisse a costringere con successo Russia e Ucraina a raggiungere un compromesso che includa la presunta DMZ di 800 miglia che non permetterà all’America di finanziare o pattugliare, allora verrebbe esercitata un’enorme pressione sulla Polonia come stato di prima linea della NATO e il più grande vicino occidentale per contribuire al suo posto.
Il presidente conservatore-nazionalista uscente Andrzej Duda è tuttavia un caro amico di Trump e potrebbe quindi contribuire a rattoppare questi problemi durante il suo presunto imminente incontro con il nuovo leader americano. Il ministro della Difesa Wladyslaw Kosiniak-Kamysz della coalizione liberal-globalista al potere ha espresso interesse nell’invio di peacekeeper polacchi in Ucraina come parte di una missione NATO, ma ciò richiederebbe l’approvazione del comandante in capo Duda, che probabilmente discuterà con Trump.
Trump è visto come il presidente statunitense più filo-polacco di sempre dopo che la sua amministrazione ha incoraggiato la Polonia ad abbracciare il suo ruolo di leadership regionale previsto sotto l’ex governo conservatore-nazionalista. Anche se il paese è ora guidato da liberal-globalisti che lo odiano letteralmente, probabilmente continuerà ad applicare parte della sua politica suddetta, anche se forse in modo più aggressivo nel senso di fare pressione pubblicamente sulla Polonia affinché svolga un ruolo militare maggiore nell’Ucraina post-conflitto a causa dei suoi problemi con Tusk e Sikorski.
Per riuscirci, potrebbe sventolare la carota di includere simbolicamente la Polonia nel finale ucraino dopo che Biden l’ha esclusa dal vertice di Berlino del mese scorso con i leader tedesco, britannico e francese, il che potrebbe vederlo fare appello all’ego della sua élite strombazzando il futuro ruolo regionale del loro paese. Potrebbe anche accennare ancora una volta a preferire la Polonia come principale partner europeo degli Stati Uniti rispetto alla Germania, cosa che Tusk, sostenuto dalla Germania, potrebbe non accettare ma che potrebbe comunque avere un’ampia risonanza nella società.
Duda è già ricettivo a tali narrazioni, come dimostrato dal comportamento in politica estera del precedente governo che rappresentava, che è stato all’opposizione da quando la coalizione liberal-globalista al potere ha preso il potere lo scorso dicembre dopo le elezioni generali di quell’autunno. Da parte sua, Kosiniak-Kamysz ha generalmente continuato la dimensione militare delle loro politiche e ha anche interessi politici egoistici nell’adottare un approccio diverso alle questioni rispetto a Tusk e Sikorski a volte.
Se Duda, Kosiniak-Kamysz e Trump concordano tutti che la Polonia dovrebbe prendere l’iniziativa di contribuire a un’ipotetica missione di mantenimento della pace post-conflitto in Ucraina (sia sotto l’egida della NATO, dell’UE o di una “coalizione dei volenterosi”), allora Tusk e Sikorski subirebbero un’enorme pressione per andare d’accordo. Anche se l’opinione pubblica è fortemente contraria, sono anche molto filoamericani, quindi la loro opinione potrebbe cambiare a seconda dell’interazione tra le tre figure sopra menzionate e le altre due.
Tusk e Sikorski potrebbero anche essere spinti ad accettare questo anche se l’opinione pubblica non cambia idea, il che potrebbe peggiorare la posizione della loro coalizione agli occhi degli elettori prima delle elezioni presidenziali del prossimo anno, facilitando così la sostituzione di Duda con un altro conservatore-nazionalista invece che con un liberal-globalista. Trump non dimenticherà mai ciò che Tusk e Sikorski hanno detto di lui, e non è uno che perdona i suoi nemici, quindi è possibile che cercherà di mettere i bastoni tra le ruote ai loro piani di sostituire Duda attraverso questi mezzi.
La potenziale frizione tra Trump e i liberal-globalisti al potere in Polonia, sia sulla questione dell’invio di peacekeeper polacchi in Ucraina, sia in generale, potrebbe quindi facilmente mettere a repentaglio la fiducia bilaterale e quindi avere possibili conseguenze politiche in patria col tempo. Tusk e Sikorski potrebbero quindi scommettere che è meglio capitolare completamente a Trump, fare la sua offerta ed evitare qualsiasi problema almeno fino a dopo le elezioni presidenziali dell’anno prossimo, se saranno in grado di sostituire Duda con uno dei loro.
Putin potrebbe accettare di congelare il conflitto lungo la linea di contatto, nonostante la precedente retorica contraria a questo scenario, nel caso in cui Trump minacciasse di inasprire il conflitto come punizione se non lo facesse.
La promessa di Trump di risolvere il conflitto ucraino in 24 ore è irrealistica, ma inevitabilmente proporrà un piano di pace a un certo punto, sollevando così interrogativi su come sarebbe e se la Russia accetterebbe. Più che probabile, cercherà di congelare il conflitto lungo la linea di contatto (LOC), ovunque essa sia entro quel momento, poiché non ci si aspetta che costringa l’Ucraina a ritirarsi dalle regioni i cui confini amministrativi la Russia rivendica nella loro interezza.
Né ci si aspetta che la Russia ne ottenga il controllo entro il momento in cui verrà fatta la proposta di Trump. Non ha ancora rimosso le forze ucraine dal Donbass, che è al centro delle sue rivendicazioni, e quindi è improbabile che catturi la città di Zaporozhye, le aree omonime sul lato del fiume Dnieper, né le suddette terre adiacenti della regione di Kherson. Potrebbe guadagnare altro territorio se Pokrovsk venisse catturata , ma gli Stati Uniti potrebbero pericolosamente “escalation to de-escalation” per fermare una corsa sul fiume se l’Ucraina venisse poi messa in rotta.
Ciò potrebbe assumere la forma di una minaccia di un intervento NATO convenzionale se esistesse la volontà politica di innescare una crisi di brinskmanship in stile cubano, le cui probabilità aumenterebbero notevolmente se la Russia facesse una mossa in quello scenario per attraversare il Dnepr e quindi rischiare il crollo del progetto ucraino di quel blocco. Comunque sia, non ci si aspetta una simile corsa sul fiume, con il massimo che la Russia potrebbe fare è assediare la città di Zaporozhye, ma anche questo potrebbe non materializzarsi entro il momento in cui Trump condividerà il suo piano di pace.
Alla Russia verrà quindi quasi certamente chiesto di congelare il conflitto lungo la LOC, sebbene senza revocare le sue rivendicazioni territoriali, proprio come non lo farà l’Ucraina, sotto la minaccia di un aumento del supporto militare all’Ucraina da parte di Trump se il Cremlino si rifiuta di cessare le ostilità. Questa previsione si basa sul rapporto estivo secondo cui alcuni dei suoi consiglieri hanno suggerito di fare esattamente questo come punizione per la Russia che boccia qualsiasi piano di pace che alla fine le offrirà.
Considerando la sua personalità da duro e la sua propensione a “escalation to de-escalate” alle sue condizioni se si sente mancato di rispetto, cosa che ha flirtato con la Corea del Nord durante il suo primo mandato come tattica negoziale, ci si aspetta quindi che rispetti il suggerimento di cui sopra in quel caso. Dato il pragmatismo consumato di Putin , così come lui intende il suo stile, e la sua avversione per le escalation, potrebbe benissimo rispettarlo, ma potrebbe anche chiedere a Trump di costringere Zelensky a fare concessioni per facilitare questo.
Questi potrebbero includere l’annullamento dell’emendamento costituzionale del 2019 che rende l’adesione alla NATO un obiettivo strategico, la promulgazione di una legislazione che la Russia considera per promuovere i suoi obiettivi di denazificazione, il congelamento di ulteriori spedizioni di armi all’Ucraina e la creazione di una zona cuscinetto all’interno di parte del territorio ucraino. Nell’ordine in cui sono stati menzionati, il primo sarebbe superficiale dopo che la serie di garanzie di sicurezza di quest’anno tra l’Ucraina e diversi paesi della NATO l’ha già resa un membro de facto del blocco.
Per spiegare, tutti comportano impegni a riprendere il loro attuale supporto militare all’Ucraina se il suo conflitto con la Russia dovesse riaccendersi alla sua fine, e questo stesso supporto è presumibilmente in linea con l’articolo 5 della NATO. Contrariamente alle percezioni popolari, non li obbliga a inviare truppe, ma solo a fornire qualsiasi supporto ritengano necessario per aiutare gli alleati sotto attacco. Questo è ciò che stanno già facendo, eppure la Russia non ha mai intensificato la risposta a questo, essendo sancito nei loro accordi militari bilaterali.
Per quanto riguarda la seconda concessione speculativa che Putin potrebbe chiedere a Trump di costringere Zelensky a fare, il leader americano di ritorno e il suo team non hanno mai segnalato alcun interesse nell’aiutare la Russia a denazificare l’Ucraina, e costringerla a promulgare una legge potrebbe essere vista come una cattiva immagine all’estero. Dal momento che la Russia non può costringere l’Ucraina a farlo, quell’obiettivo particolare dello specialeL’operazione probabilmente rimarrà incompiuta, nel qual caso probabilmente non se ne parlerà più molto né da parte delle autorità né dei media.
Passando al terzo, Trump probabilmente non accetterebbe di congelare le spedizioni di armi all’Ucraina, ma potrebbero naturalmente essere ridotte poiché riconcentra le priorità militari americane sul contenimento della Cina in Asia invece di continuare a contenere la Russia in Europa. A questo proposito, il suo piano segnalato per incoraggiare i membri della NATO ad assumersi maggiori responsabilità per la loro difesa è già in fase di attuazione sotto Biden come spiegato qui , e potrebbero continuare le spedizioni di armi anche se gli Stati Uniti riducono le proprie.
Anche così, la potenziale riduzione naturale delle spedizioni di armi statunitensi all’Ucraina potrebbe essere spacciata come un parziale raggiungimento dell’obiettivo di smilitarizzazione della Russia, così come qualsiasi zona cuscinetto che Trump potrebbe accettare di costringere l’Ucraina a ritagliarsi sul proprio territorio per impedirle di bombardare le città russe. Sarà una vendita difficile per Putin, e Trump potrebbe essere pressato dallo “stato profondo” (i membri permanenti delle burocrazie militari, di intelligence e diplomatiche degli Stati Uniti) a resistere, ma non può essere escluso.
Il motivo di questo cauto ottimismo è che fornirebbe alla Russia un mezzo “salva-faccia” per congelare il conflitto nonostante non raggiunga i suoi obiettivi massimi, invece di rischiare una crisi di rischio calcolato in stile cubano, respingendo la proposta prevista di Trump di “salvare la faccia” in patria e all’estero. Trump non farebbe minacce inutili e certamente non lascerebbe che Putin smascherasse il suo bluff, anche se fosse così, quindi ci si aspetta che vada fino in fondo armando l’Ucraina fino ai denti se il suo accordo di pace fallisse.
Detto questo, ha anche fatto campagna per porre fine al conflitto ucraino e personalmente preferirebbe ricostituire le scorte esaurite dell’America parallelamente all’armamento dei suoi alleati asiatici fino ai denti contro la Cina, invece di continuare ad armare l’Ucraina e rischiare una grave crisi con la Russia. Il suo focus sino-centrico sulla Nuova Guerra Fredda è condiviso da una minoranza dello “stato profondo”, la maggior parte dei quali vuole continuare a dare priorità al contenimento della Russia in Europa rispetto a quello della Cina in Asia, ma che finora non ha mai esagerato in modo sconsiderato con la Russia.
Hanno effettivamente intensificato, ma questo è sempre stato preceduto dal segnale della loro intenzione di farlo (ad esempio tramite la fornitura di varie armi) molto prima che ciò accadesse, dando così alla Russia abbastanza tempo per calcolare una risposta invece di rischiare una “reazione eccessiva” che potrebbe trasformarsi in una guerra con la NATO. Questi falchi anti-russi potrebbero quindi accettare a malincuore qualsiasi zona cuscinetto che Trump potrebbe accettare se ciò evitasse un’escalation potenzialmente incontrollabile come quella che potrebbe minacciare di fare se la Russia non accettasse il suo accordo.
Gli elementi sovversivi dello “stato profondo” potrebbero persino provare a provocare una tale escalation per evitare quello scenario di zona cuscinetto o qualsiasi altro che considerino una concessione inaccettabile alla Russia, che rimane un rischio prima e dopo la sua inaugurazione, ma non è chiaramente lo scenario preferito dalla loro fazione. Questa conclusione è raggiunta ricordando l’osservazione sopra menzionata su come hanno sempre segnalato le loro intenzioni di escalation con largo anticipo finora almeno per evitare una grave escalation.
Anche se Trump non dovesse soddisfare nessuna delle richieste speculative di Putin di aiutare quest’ultimo a “salvare la faccia” congelando il conflitto nonostante non abbia raggiunto i massimi obiettivi del suo paese nel conflitto, potrebbe sempre sventolare la carota di un allentamento graduale delle sanzioni del tipo proposto da Richard Haass all’inizio di questa settimana . L’ex presidente dell’influentissimo Council on Foreign Relations ha suggerito che questo potrebbe incoraggiare la conformità della Russia a un cessate il fuoco, ed è possibile che Putin possa accettare.
L’economia russa ha resistito al regime di sanzioni senza precedenti dell’Occidente, ma i grandi piani della Russia di creare istituzioni finanziarie alternative e di virare verso il non-Occidente non hanno avuto altrettanto successo. Questa analisi qui su come l’ultimo vertice dei BRICS non abbia ottenuto nulla di tangibile sottolinea come nessuna delle iniziative ambiziose di questa associazione sia stata implementata. Si collega anche alla prova che la New Development Bank con sede in Cina e la SCO Bank sorprendentemente rispettano le sanzioni statunitensi.
Di conseguenza, non sarebbe sorprendente se Putin apprezzasse le promesse di un allentamento graduale delle sanzioni in cambio dell’accettazione del congelamento del conflitto lungo la LOC, indipendentemente da quanto deludente possa essere questa conclusione per la sua operazione speciale agli occhi dei suoi sostenitori più zelanti. Dopo tutto, il ministro degli Esteri Lavrov ha detto a un gruppo di ambasciatori il mese scorso che la Russia chiede “la revoca delle sanzioni anti-russe occidentali”, quindi è chiaramente nella mente collettiva del Cremlino, indipendentemente da ciò che affermano i suoi manager della percezione.
Anche se Trump facesse tali promesse, tuttavia, mantenerle sarebbe difficile poiché molte delle sanzioni anti-russe americane sono codificate in legge dopo essere state votate dal Congresso. Potrebbero accettare qualsiasi richiesta di revocarle, ma potrebbero anche non farlo, mettendo così i bastoni tra le ruote ai piani della Russia. Gli Stati Uniti non possono nemmeno costringere l’UE a revocare le rispettive sanzioni, e paesi anti-russi come la Polonia e gli Stati baltici potrebbero creare ostacoli alla ripresa del commercio con la Russia se i legami dell’UE con essa si sciogliessero.
Se dovessero essere implementate anche se solo con un successo parziale, allora Trump potrebbe rivendicare una vittoria nello ” smembramento ” di Russia e Cina come ha promesso di fare anche se il commercio tra queste due continua a crescere (principalmente attraverso le importazioni di risorse cinesi e la sostituzione dei prodotti occidentali persi sugli scaffali russi). Potrebbe anche vendere questa proposta di riduzione graduale delle sanzioni ai falchi anti-russi dello “stato profondo” e agli europei su questa base per assicurarsi il loro sostegno e deviare dalle affermazioni secondo cui lo sta facendo come un favore a Putin.
Riflettendo sulla visione condivisa in questa analisi, non ci si aspetta che il piano di pace di Trump abbia sorprese, né sarebbe sorprendente se la Russia lo accettasse per le ragioni che sono state spiegate. Gli Stati Uniti hanno le carte in mano e accetteranno solo le concessioni richieste speculativamente da Putin per rendergli più facile “salvare la faccia” per il congelamento del conflitto nonostante non abbiano raggiunto i suoi obiettivi massimi. Nessuno dei due vuole una grande escalation ed entrambi sono stanchi di questa guerra per procura, quindi un accordo del genere potrebbe funzionare.
Sarà quindi interessante vedere come la retorica dei funzionari russi e del loro ecosistema mediatico globale potrebbe cambiare man mano che trapelano resoconti su cosa ha esattamente in mente Trump. Lui e la fazione minoritaria dello “stato profondo” che lo sostiene sono motivati dal desiderio di ” tornare (indietro) in Asia ” per contenere più energicamente la Cina, da qui il loro interesse a concludere questa guerra per procura. Quanto alla Russia, sta iniziando a rendersi conto che un compromesso di qualche tipo è inevitabile e deve quindi preparare l’opinione pubblica.
Potrebbe naturalmente accadere qualcosa di inaspettato che cambi completamente questa analisi, come se i falchi di entrambe le parti convincessero i rispettivi presidenti a raddoppiare gli sforzi nel conflitto, ma gli argomenti ivi esposti tengono conto in modo convincente degli interessi di entrambe le parti, in particolare della Russia. Se tutto si svolge più o meno come scritto, allora gli osservatori possono aspettarsi un “Great Media/Perception Reset” in termini di narrazione della Russia nei confronti del conflitto, che sarebbe necessario per facilitare qualsiasi compromesso Putin potrebbe fare.
Un mix di magistrale campagna elettorale, l’acquisto di Twitter da parte di Musk e, presumibilmente, un colpo di divina provvidenza avvenuto quest’estate hanno reso tutto questo possibile.
Trump ha appena sconfitto Kamala nonostante le formidabili probabilità che erano contro di lui. È sopravvissuto a due assassiniitentativi , ha resistito alle leggi del governo, ed è sulla buona strada per assicurarsi il voto popolare nonostante i media tradizionali sostenessero pienamente il suo avversario. A proposito di lei, è famosa per aver ripetuto la sua frase sull’America che diventa ” sgravata da ciò che è stato “, il che significa andare oltre l’era Trump. Ironicamente, il paese l’ha appena superata, ed ecco come è successo:
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1. “È l’economia, stupido!”
Il consulente democratico James Carville ha coniato la frase sopra menzionata in riferimento alla questione elettorale più importante per la maggior parte degli americani. Risuona ancora vera oggi, poiché la maggior parte del paese sta peggio dopo quattro anni di amministrazione Biden-Harris rispetto al primo mandato di Trump. Non importa quali siano le ragioni di ciò, poiché tali sviluppi vanno fortemente contro i titolari. Di conseguenza, gli americani hanno votato per riportare in auge l’economia d’oro inaugurata da Trump.
2. L’immigrazione, sia legale che illegale, è fuori controllo
L’immigrazione è sempre un argomento scottante, ma lo è stato ancora di più durante queste elezioni a causa dell’afflusso senza precedenti di immigrati clandestini che hanno invaso il paese sotto Biden e dei resoconti virali di immigrati haitiani legali portati dal governo che mangiavano gli animali domestici delle persone in Ohio. Trump ha promesso di reprimere la componente illegale e di controllare più attentamente coloro che entrano nel paese tramite canali legali per garantire che si assimilino e si integrino. Questo approccio è molto popolare tra gli americani.
3. La gente ha paura della terza guerra mondiale
Gli americani non hanno mai avuto tanta paura della Terza Guerra Mondiale come adesso. La NATO-Russiala guerra per procura in Ucraina e gli attacchi avanti e indietro israelo-iraniani , ognuno dei quali ha il potenziale di sfociare nell’apocalisse nel peggiore dei casi, erano impensabili sotto Trump. Ha promesso di fare del suo meglio per portare la pace in Europa e in Medio Oriente se fosse stato rieletto, mentre Kamala ha promesso più delle stesse politiche che hanno portato il mondo sull’orlo della guerra. Un voto per Trump è quindi diventato un voto per la pace.
4. Le diffamazioni dei media contro Trump non funzionano più
Gli ultimi otto anni e mezzo di diffamazione dei media tradizionali contro Trump non hanno più l’effetto che avevano in passato nel manipolare la percezione che gli elettori avevano di lui e sono persino diventati controproducenti. Più accusano Trump di essere un “nazista” o altro, meno alla gente importa. I loro surrogati celebrità sono altrettanto cattivi e alcuni come Mark Cuban hanno inferto un duro colpo alla loro causa attaccando ferocemente le sostenitrici di Trump in quella che può essere vista come la “sorpresa di ottobre” di quest’anno.
5. Musk ha ripristinato la libertà di parola online
I punti precedenti sono tutti importanti, ma non avrebbero portato alla vittoria di Trump se Elon Musk non avesse ripristinato la libertà di parola online acquistando Twitter. Gli americani hanno potuto quindi condividere notizie sulle elezioni senza timore di censura, il che ha dimostrato loro di non essere gli unici a mettere in discussione l’amministrazione Biden e le false affermazioni dei media tradizionali. Anche quelle due sono state smentite in tempo reale. Se non fosse stato per Musk, le loro bugie si sarebbero diffuse senza essere contrastate, probabilmente rimodellando le elezioni.
6. Musk, RFK e Tulsi hanno reso cool il distacco dai democratici
Musk, RFK e Tulsi Gabbard sono ex democratici che hanno abbandonato il partito per protestare contro ciò che era diventato, ovvero un movimento ideologico radicale liberale – globalista che aveva reciso completamente le sue radici percepite con la classe operaia. Alla fine si sono tutti schierati dietro Trump, il che ha reso cool anche per altri democratici abbandonare il partito e lo ha aiutato a ottenere parte del voto indipendente che lo ha portato oltre il limite in stati chiave indecisi. Non avrebbe potuto vincere se non fosse stato per questa coalizione di unità.
7. Gli Amish e i Polacchi hanno aiutato Trump ad andare avanti in Pennsylvania
Lo Stato Keystone è diventato la chiave della vittoria di Trump questa volta, e lui deve ringraziare gli Amish e i Polacchi per questo. Scott Presler , ex presidente di Gays for Trump, ha svolto un ruolo indispensabile nel mobilitare il primo, mentre i Posobiec Brothers (il popolare commentatore conservatore Jack e suo fratello Kevin) hanno reclutato i loro connazionali del secondo nel loro stato d’origine. La combinazione di questi due, entrambi gruppi e attivisti, ha garantito la vittoria di Trump lì.
8. La campagna GOTV dei repubblicani ha fatto la differenza
I repubblicani erano determinati a rendere il vantaggio di Trump “troppo grande da truccare” dopo essere stati convinti che fosse stato truffato del suo legittimo secondo mandato durante le ultime elezioni. A tal fine, hanno abbracciato il voto anticipato e raccolto le schede con lo stesso entusiasmo dei loro rivali democratici quattro anni fa, sapendo che letteralmente ogni voto conta e non volendo perderne nemmeno uno. Ciò ha fatto la differenza, evitando preventivamente scenari speculativi con cui Trump avrebbe potuto essere truffato ancora una volta.
9. L’aborto non è più un problema nelle elezioni presidenziali
L’annullamento da parte della Corte Suprema della sentenza Roe vs. Wade a metà del 2022 ha reso l’aborto una questione di diritti degli stati, che ha tolto il vento dalle sue precedenti vele come questione federale e quindi ha reso molto più difficile per i democratici mettere le donne contro i candidati repubblicani alla presidenza come in passato. Per quanto ci abbiano provato, non ci sono più riusciti, e questo ha aiutato Trump a uscirne vincitore. Il partito ha fatto affidamento sull’aborto per così tanto tempo che non sa cosa fare ora che non è più rilevante a livello presidenziale.
10. Walz è stata una delle peggiori scelte di vicepresidente immaginabili
Kamala avrebbe potuto avere una possibilità se avesse scelto il governatore della Pennsylvania Josh Shapiro come suo compagno di corsa al posto del governatore del Minnesota Tim Walz, ma il primo è ebreo e ha legami con l’IDF , quindi temeva di perdere il voto musulmano del Midwest se lo avesse scelto. Fu un errore poiché Walz era una delle peggiori scelte di vicepresidente immaginabili e JD Vance lo fece a pezzi durante il loro dibattito. La maggior parte degli americani non voleva che Walz fosse a un battito di ciglia dalla presidenza dopo quello.
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La storia del ritorno politico di Trump è da libri di storia dopo le probabilità apparentemente insormontabili che ha superato. Un mix di magistrale campagna elettorale, l’acquisto di Twitter da parte di Musk e presumibilmente un colpo di divina provvidenza durante l’estate si sono uniti per rendere possibile tutto questo. L’America è ora veramente libera da ciò che è stato dopo aver respinto con decisione gli ultimi quattro anni in piena sfida ai democratici. Ora tocca a Trump mantenere la sua promessa finale di “rendere l’America di nuovo grande”.
Il futuro dei rapporti tra India e Stati Uniti sembra roseo finché gli indoamericani, i funzionari favorevoli all’India e i pragmatici geopolitici seguiranno Trump alla Casa Bianca.
Il ritorno di Trump alla Casa Bianca è visto dall’India come un’opportunità per riparare il danno che Biden ha arrecato ai legami bilaterali. Il presunto scandalo del tentato omicidio dell’estate 2023, di cui i lettori possono saperne di più qui , ha avvelenato le loro relazioni ed è stato seguito dall’ingerenza americana nelle ultime elezioni generali indiane. Il cambio di regime in Bangladesh sostenuto dagli Stati Uniti diversi mesi fa è stato considerato da molti indiani come un tradimento dei loro interessi di sicurezza regionale. Gli Stati Uniti hanno anche fatto pressione sull’India affinché abbandonasse la Russia.
Tutto ciò potrebbe presto essere acqua passata se Trump porta con sé a Washington indiani americani e funzionari amici degli indiani. Ciò sarebbe particolarmente vero se Kashyap Patel venisse confermato come prossimo capo della CIA, come alcuni hanno ipotizzato che Trump stia pianificando di proporre. Se le stelle si allineassero, allora il primo ordine del giorno che l’India vorrebbe che accadesse è che gli Stati Uniti reprimessero i terroristi-separatisti designati da Delhi nella misura massima consentita dalla legge americana.
La protezione statale di cui godono i leader khalistani come Gurpatwant Singh Pannun mentre apertamente minacciano di bombardare gli aerei di linea indiani e assassinare i suoi diplomatici tra gli altri crimini ha convinto molti indiani che queste figure e il loro movimento vengono usati come ibridi. Armi da guerra contro l’India. Trump ha fatto campagna su una piattaforma di legge e ordine i cui principi sono incompatibili con queste provocazioni, quindi ci sono speranze che porrà fine a queste come primo passo per riparare i legami.
Il prossimo desiderio dell’India è che gli Stati Uniti smettano di intromettersi nei suoi affari interni. Le critiche alla sua situazione socio-politica sono viste come ostili, mentre gli sforzi di varie ONG per coltivare un sentimento anti-stato, specialmente negli stati nord-orientali popolati da cristiani , sono considerati assolutamente inaccettabili. Le relazioni non potranno mai tornare veramente alla normalità finché queste attività non saranno terminate. Affinché ciò accada, tuttavia, Trump deve tenere a freno con successo gli elementi liberal-globalisti del suo “stato profondo”, il che sarà una sfida.
Proseguendo, l’India vuole anche che gli USA facciano pressione sul nuovo governo del Bangladesh affinché rispetti i diritti della minoranza indù del Paese, che è stata vittima di pogrom e altre forme di violenza dal cambio di regime dell’estate. Dovrebbero anche tenersi elezioni veramente libere ed eque il prima possibile. Anche i piani speculativi per una base militare statunitense sono preoccupanti, perché potrebbero sconvolgere l’equilibrio di potere nella regione. Gli USA dovrebbero quindi tenere a mente le legittime preoccupazioni dell’India.
Altrove sul fronte regionale, l’India apprezzerebbe che gli Stati Uniti la trattassero ancora una volta come il suo partner principale invece di continuare a bilanciare tra sé e il Pakistan. L’amministrazione Biden si è allontanata dalla politica regionale indo-centrica della prima amministrazione Trump in parte a causa della sua agenda ideologica liberal-globalista che la metteva in contrasto con il governo conservatore-nazionalista di Modi. Il suo team ha anche flirtato con il miglioramento dei legami con la Cina , e allontanare gli Stati Uniti dall’India in una certa misura è stato visto come un mezzo per raggiungere tale scopo.
Anche la pressione americana sull’India affinché abbandoni la Russia dovrebbe cessare se Trump vuole migliorare i legami bilaterali. Di recente ha promesso di ” s-unire ” Russia e Cina, che secondo lui sono state costrette a unirsi da Biden, così l’India potrebbe sostenere che lasciare che il commercio indo-russo prosperi aiuta a raggiungere questo obiettivo evitando preventivamente la dipendenza potenzialmente sproporzionata della Russia dalla Cina. Si prevede che il team di Trump seguirà una strategia di bilanciamento delle grandi potenze di Kissinger, quindi questo appello al suo ruolo globale potrebbe trovare riscontro in loro.
E infine, sebbene l’India abbia avviato un riavvicinamento con la Cina solo poche settimane fa, di cui gli Stati Uniti sono stati inavvertitamente responsabili, come spiegato qui , non le dispiacerebbe se Trump assumesse una posizione più dura nei confronti della Cina rispetto a Biden e privilegiasse l’India come contrappeso alla Repubblica Popolare. Per raggiungere questo obiettivo, gli Stati Uniti potrebbero continuare a esportare equipaggiamento militare ad alta tecnologia in India e idealmente fare progressi nella negoziazione di un accordo di libero scambio. Quest’ultimo è più facile a dirsi che a farsi, ma dovrebbe comunque figurare nell’agenda.
Nel complesso, il futuro sembra luminoso per i legami indo-americani finché gli indiani americani, i funzionari amici degli indiani e i pragmatici geopolitici seguiranno Trump alla Casa Bianca, il che è prevedibile a giudicare dagli ultimi report. In quel caso, la sfida sarà quindi quella di frenare gli elementi liberal-globalisti dello “stato profondo” per impedire loro di sovvertire il riavvicinamento indo-americano, il che sarebbe notevolmente facilitato se Patel , fedele a Trump e discendente dei Guajarati, diventasse il prossimo capo della CIA.
La Polonia è alle prese con lo scandalo Russiagate e, proprio come quello che l’ha ispirata oltre Atlantico, in America, anche questo non è altro che una caccia alle streghe politicizzata.
Il giornalista polacco Grzegorz Rzeczkowski ha scatenato una tempesta di fuoco dopo aver dichiarato in modo sensazionale durante un’intervista con la TVP finanziata pubblicamente che il suo paese inizialmente voleva che l’Ucraina perdesse contro la Russia. Stava promuovendo il suo libro ” Le spie di Putin: come il popolo del Cremlino sta conquistando la Polonia “, quindi era prevedibile che potesse fare delle ipotesi del genere. Tuttavia, sta agendo in modo ipocrita, dato che in precedenza aveva criticato l’ex governo conservatore-nazionalista per la loro russofobia politica.
Non si sbagliava neanche all’epoca, poiché l’ex Primo Ministro Mateusz Morawiecki si vantava nel marzo 2022 che la Polonia aveva fissato lo standard globale per la russofobia, che lo precedeva nel descrivere il mondo russo come un ” cancro ” due mesi dopo, quel maggio. Morawiecki presiedeva anche la Polonia aumentando la presenza militare degli Stati Uniti sul suo territorio, ” de-russificando” il settore energetico e trasformando la Polonia nella principale base logistica della NATO per armare l’Ucraina.
In effetti, l’ufficio del presidente uscente Andrzej Duda ha pubblicato casualmente un rapporto dettagliato proprio all’epoca della sensazionale affermazione di Rzeczkowski, dimostrando che la Polonia ha speso un enorme 4,91% del suo PIL per armare l’Ucraina e provvedere ai suoi rifugiati, quest’ultima delle quali ha costituito la maggior parte delle sue spese. Tuttavia, il rapporto del suo ufficio ha anche mostrato che la Polonia ha fornito all’Ucraina più armi pesanti di qualsiasi altro paese, con 350 dei suoi 800 carri armati provenienti da lì.
Duda è così orgoglioso di questo fatto che si è assicurato di includere la sua famosa citazione dell’agosto 2022 proprio all’inizio. Ha detto che “All’inizio della guerra, quando era davvero molto difficile ottenere aiuto per l’Ucraina, quando tutti avevano paura e riluttanza, i tedeschi hanno dato gli elmetti, noi abbiamo dato i carri armati”. Non è quindi esagerato dire che uno dei motivi per cui l’Ucraina non si è arresa durante la prima fase travolgente della specialeoperazione è dovuta al fatto che la Polonia è prontamente intervenuta per sostenerla.
Per questo motivo, ” La Polonia era tanto da biasimare quanto la Gran Bretagna per aver sabotato i colloqui di pace della primavera 2022 “, in particolare perché la NATO non sarebbe stata in grado di continuare ad armare l’Ucraina se la Polonia si fosse rifiutata di fungere da sua principale base logistica per perpetuare indefinitamente il conflitto come volevano i neocon. Di conseguenza, Rzeczkowski non potrebbe sbagliarsi di più nell’affermare che il suo paese inizialmente voleva che l’Ucraina perdesse, ma la sua bugia serviva un programma iper-partigiano ed è probabile che sia per questo che l’ha vomitata sulla televisione pubblica.
Per spiegare, la coalizione liberal-globalista al potere ha rilanciato la ” commissione per l’influenza russa ” del suo predecessore all’inizio di quest’anno, che aveva precedentemente criticato quando era fuori dal potere, il che ha fatto allo stesso scopo di diffamare i propri avversari. Vogliono che il loro candidato, che sarà il sindaco di Varsavia Rafal Trzaskowski o il ministro degli Esteri Radek Sikorski come deciso dalle primarie di questo mese , sostituisca Duda al posto di uno dei suoi compagni conservatori-nazionalisti.
Sikorski in precedenza si era spinto fino a giustificare questa commissione con il falso pretesto che qualsiasi politico o attivista che sostenga i valori tradizionali, sia contrario all’immigrazione illegale e metta in discussione qualsiasi aspetto del conflitto ucraino potrebbe agire sotto l’influenza del Cremlino. Con questo in mente, la bugia di Rzeczkowski sul fatto che l’ex governo conservatore-nazionalista inizialmente volesse che l’Ucraina perdesse era probabilmente intesa ad alimentare questa caccia alle streghe, con l’intento ultimo di influenzare le elezioni presidenziali.
Ciò che è più ironico nella sua bugia e nella ridicola affermazione di Sikorski è che è la stessa coalizione liberal-globalista di quest’ultimo a ridurre gli aiuti all’Ucraina proprio nel momento in cui sono più necessari per impedire una svolta militare russa prima che Trump venga reinsediato e provi a congelareILconflitto . Proprio come Rzeczkowski non aveva torto quando sottolineava la russofobia politica del governo precedente, tuttavia, neanche l’attuale governo ha torto nel rifiutarsi di continuare ad armare l’Ucraina gratuitamente.
Rzeczkowski non oserebbe accusare la coalizione liberal-globalista al potere di voler far perdere l’Ucraina, né Sikorski indagherebbe su se stesso e sul Primo Ministro Donald Tusk, il che dimostra quanto siano assurde le loro dichiarazioni associate all’ex governo conservatore-nazionalista. La conclusione per gli osservatori occasionali è che la Polonia è alle prese con il suo scandalo Russiagate e, proprio come la sua ispirazione oltre Atlantico in America, anche questo non è altro che una caccia alle streghe politicizzata.
Non si vedono più come alleati o addirittura come partner stretti, ma come coniugi ferocemente in lotta tra loro, intrappolati in un matrimonio di convenienza (in questo caso contro la Russia) dal quale nessuno dei due si sente a suo agio a liberarsi, almeno per ora.
Il vice primo ministro Krzysztof Gawkowski dell’ala sinistra (“Lewica”) della coalizione al potere si è scagliato contro Zelensky durante un’intervista con Radio Zet. Secondo la loro trascrizione , ha detto che “Zelensky vuole che la Polonia lanci missili sull’Ucraina, il che significa che vuole che la Polonia entri in guerra, il che significa che vuole che la Polonia sia in guerra con la Russia. In queste dichiarazioni, Zelensky vuole trascinare la Polonia nella guerra con la Russia. Non sono d’accordo con tali dichiarazioni”. Questo è il risultato di tensioni nuovamente in ebollizione.
Tutto andava bene nei loro rapporti quando hanno concluso un accordo di sicurezzapatto durante l’estate, ma l’ammissione del ministro della Difesa Wladyslaw Kosiniak-Kamysz a fine agosto che la Polonia aveva finalmente raggiunto il massimo del suo supporto militare all’Ucraina ha portato a un’accesa discussione tra Zelensky e Sikorski a metà settembre. Kiev non credeva che Varsavia avesse davvero raggiunto il massimo, ma sospettava che stesse trattenendo altri aiuti come mezzo per costringere all’obbedienza le sue rinascenti richieste di risoluzione della disputa sul genocidio in Volinia .
Zelensky la scorsa settimana ha reso pubbliche le sue critiche alla Polonia per aver ridotto le consegne di armi negli ultimi mesi, a cui Sikorski ha risposto proponendo un prestito militare per ordinare nuove attrezzature che potrebbero essere rimborsate dopo la fine del conflitto. Quel diplomatico di alto rango ha anche ribadito il suo sostegno all’intercettazione dei missili russi sull’Ucraina dopo che la Commissione di Helsinki ha esortato l’amministrazione Biden ad approvarlo, ma la precedente analisi con collegamento ipertestuale sostiene che aveva motivazioni ciniche per questo.
In breve, ha sempre chiarito che la Polonia non lo farà unilateralmente, ma solo con il supporto della NATO, che non è ancora stato ottenuto e potrebbe non esserlo mai, perché rischia molto una guerra calda con la Russia. Le ultime politiche polacche nei confronti dell’Ucraina, rilanciando le sue richieste di disputa sul genocidio della Volinia e inviando più equipaggiamento all’Ucraina solo a credito invece di continuare a darlo via gratuitamente, hanno danneggiato i loro legami, quindi fantasticare sull’intercettazione dei missili russi potrebbe essere solo una distrazione gratuita da questa realtà.
Sikorski potrebbe anche candidarsi come candidato della coalizione al potere alle elezioni presidenziali dell’anno prossimo, quindi dovrebbe bilanciare i membri guerrafondai dell’elettorato tramite tale retorica, mentre fa appello al crescente sentimento anti-ucraino nella società. Questo atto di bilanciamento egoistico spiega queste politiche apparentemente contraddittorie e spiega anche perché l’alleato della coalizione Gawkowski ha condannato solo Zelensky per aver provocato una guerra polacco-russa e non Sikorski, anche se quest’ultimo ci ha flirtato.
Dopo aver chiarito il contesto per quegli osservatori che non hanno seguito da vicino i legami polacco-ucraini negli ultimi mesi, è giunto il momento di dire qualche parola su cosa potrebbe succedere dopo. Gawkowski è uno dei soli due vice primi ministri, l’altro è Kosiniak-Kamysz, quindi non è una cosa da poco che si sia schierato così energicamente contro le richieste sconsiderate di Zelensky. Ha anche condannato la sua ingratitudine per tutti gli aiuti che la Polonia ha fornito finora all’Ucraina e ai suoi rifugiati. Entrambe le serie di opinioni riflettono l’opinione pubblica.
Sebbene la base della sua coalizione abbia al suo interno alcuni guerrafondai rumorosi, la maggior parte dei polacchi non vuole andare in guerra con la Russia, e sono anche disgustati da quanto siano diventati maleducati i funzionari ucraini negli ultimi mesi. La loro crescente stanchezza nei confronti dei rifugiati ucraini e di questa guerra per procura li sta portando ad avere meno pazienza per tali buffonate. Vedono anche attraverso gli sforzi di Zelensky di provocare una guerra polacco-russa e non vogliono averci niente a che fare. Gawkowski sta quindi dando voce a ciò che la maggior parte dei suoi compatrioti sente in questo momento.
Sikorski farebbe bene a rinunciare al suo precedente sostegno a questo scenario, non importa quanto politicamente egoista e insincera possa essere stata tale retorica finora, se vuole candidarsi alla presidenza l’anno prossimo. I polacchi si stanno stufando dell’Ucraina dopo essersi sentiti sfruttati dai loro vicini, che hanno aiutato e in alcuni casi hanno persino letteralmente aperto le loro case per solidarietà con loro. È quindi improbabile che sostengano la sua candidatura se continua a fomentare la guerra contro la Russia, non importa quali siano i suoi veri motivi.
Per quanto riguarda il futuro delle relazioni polacco-ucraine, ci si aspettano ulteriori tumulti politici, poiché Zelensky diventa sempre più disperato perché qualcuno lo salvi, mentre la Russia continua la sua serie di conquiste sul campo . Le sue richieste di aiuto stanno diventando più minacciose dopo che ha iniziato a scagliarsi sgarbatamente contro di essa per non aver fatto abbastanza per l’Ucraina. Ciò potrebbe trasformarsi molto presto in una sua attribuzione di parte della colpa per la sua inevitabile sconfitta alla Polonia e forse flirtare con la ripresa informale delle rivendicazioni territoriali contro di essa.
I legami bilaterali non sono ancora crollati ed entrambe le parti potrebbero ancora trattenersi per evitare lo scenario peggiore, ma non c’è più alcun dubbio che qualsiasi fiducia reciproca che avevano in precedenza (indipendentemente da quanto fosse reale in ultima analisi) sia andata perduta. Non si vedono più come alleati o persino partner stretti, ma come coniugi ferocemente in lotta intrappolati in un matrimonio di convenienza (in questo caso contro la Russia) da cui nessuno dei due si sente a suo agio a liberarsi almeno per ora.
L’esclusione della Polonia dal finale ucraino quando non le è stato dato un posto al tavolo durante il vertice di Berlino del mese scorso tra i leader americani, britannici, francesi e tedeschi ha colpito duramente il paese. Tutto ciò che ha dato gratuitamente all’Ucraina finora, e il presidente uscente Andrzej Duda dell’opposizione nazionalista conservatrice fratturata e molto imperfetta ha affermato che ammonta al 3,3% del PIL del suo paese , è stato quindi tutto per niente dopo che Varsavia non è stata nemmeno assecondata con un ruolo simbolico in questo processo.
Il risentimento risultante potrebbe rimanere gestibile quando si tratta dell’Occidente e della Germania in particolare che sfruttano la Polonia per promuovere i loro grandi obiettivi strategici, ma è molto meno tollerabile quando si tratta dell’Ucraina, che la Polonia considera il suo partner minore. È ancora più inaccettabile che questo stesso partner minore percepito stia ora cercando di provocare una guerra polacco-russa, e la condanna di Zelensky da parte di Gawkowski per aver tentato di farlo avrà ampie ripercussioni a causa del suo ruolo politico.
Una cosa è che un membro dell’opposizione affermi questo, un’altra è che il vice primo ministro della coalizione al potere dica lo stesso. Pertanto, non può essere accusato di motivazioni partigiane speculative nel tentativo di screditarlo. I media stranieri potrebbero minimizzare o addirittura ignorare ciò che ha detto, ma i polacchi lo hanno sentito forte e chiaro, e ora sanno che alcune delle autorità al potere li stanno finalmente ascoltando. È ora che anche Sikorski faccia lo stesso e abbandoni ufficialmente il suo sostegno a questo schema.
Si prevede che il futuro della Moldavia sarà molto buio, la cui traiettoria è già tracciata e potrebbe essere impossibile da correggere.
La presidente moldava Maia Sandu è stata rieletta domenica dopo aver vinto il 55,35% dei voti, sebbene l’opposizione abbia rifiutato di riconoscere i risultati poiché il loro candidato Alexandr Stoianoglo avrebbe ricevuto il 51% dei voti espressi in patria prima che la diaspora si riversasse verso mezzanotte. Ha ottenuto solo il 25,98% dei voti durante il primo turno alla fine del mese scorso rispetto al 42,45% di Sandu, ma gli elettori degli altri partiti apparentemente si sono schierati al suo fianco durante il ballottaggio, solo per subire una sconfitta dalla diaspora.
Questo risultato era prevedibile poiché i membri europei di quell’elettorato tendono a essere per lo più filo-occidentali e di conseguenza avevano il pieno sostegno dello Stato alle loro spalle, mentre le loro controparti più equilibrate in Russia, dove vivono mezzo milione di persone, avevano solo due seggi elettorali aperti con appena 10.000 schede stampate. Questa era la stessa situazione che aveva afflitto il primo turno, che coincideva anche con un referendum sull’adesione all’UE che era passato con soli 12.000 voti o con un margine dello 0,78% come spiegato qui all’epoca.
Le conseguenti divisioni socio-politiche della Moldavia, che ora vanno ben oltre il suo conflitto irrisolto con la regione separatista della Transnistria che ospita circa 1.500 peacekeeper russi, potrebbero pericolosamente portare questo paese a seguire il percorso della vicina Ucraina. Ciò che è accaduto durante il recente referendum e il secondo turno presidenziale è stato un colpo di stato costituzionale in cui i liberali – globalisti al potere hanno frodato gli elettori al fine di legittimare falsamente le loro politiche radicali filo-occidentali.
A tutti gli effetti, la Moldavia è già un membro de facto della NATO, i cui legami con il blocco potrebbero persino essere formalizzati tramite un imminente referendum per rimuovere la clausola di neutralità costituzionale del paese, il tutto in nome di “dare una lezione alla Russia”. A questo proposito, entrambe le votazioni sono state afflitte da affermazioni infondate di ingerenza russa, che hanno portato l’Occidente a travisare i loro risultati come “vittorie sulla Russia” al fine di aumentare il morale in mezzo ai guadagni sul campo della Russia in Ucraina .
Considerando questi ignobili risultati, non sarebbe quindi sorprendente se replicassero il loro schema di frode per una terza volta al fine di portare la Moldavia nella NATO, il che potrebbe essere spacciato come un’altra “sconfitta per la Russia” dopo che Finlandia e Svezia hanno recentemente formalizzato le loro relazioni decennali con il blocco. Come per la Moldavia, erano già membri de facto, ma l’adesione ufficiale alla NATO avrebbe dovuto infliggere un colpo psicologico e politico alla Russia. Lo stesso si può dire delle motivazioni della Moldavia per l’adesione.
Il rischio, però, è che una mossa del genere potrebbe spingere l’opposizione a ricorrere a “proteste estreme” per disperazione, per preservare la crescente indipendenza nominale del loro paese. Non si può escludere l’occupazione di edifici governativi e il compimento di atti di violenza, ma in quello scenario, i loro tentativi speculativi di orchestrare un “Maidan multipolare” verrebbero inquadrati come “ingerenza russa”. Potrebbe seguire una repressione radicale e le truppe rumene potrebbero essere chiamate a dare man forte se la situazione dovesse sfuggire al controllo.
La suddetta previsione non viene condivisa per demoralizzare l’opposizione, ma semplicemente per aumentare la consapevolezza di quanto le probabilità siano contro di loro. I liberal-globalisti al potere hanno il monopolio dell’uso della forza e godono del sostegno dell’Occidente. Potrebbero quindi usare la forza letale contro i dimostranti ribelli senza alcun timore di condanne o sanzioni occidentali. Si prevede quindi che il futuro della Moldavia sarà molto buio, la cui traiettoria è già tracciata e potrebbe essere impossibile da compensare.
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Meno di un mese alla tappa finale delle elezioni presidenziali statunitensi. Le procedure di voto sono, per altro, già avviate. Lo scontro riguarda due schieramenti ferocemente contrapposti dei quali si conoscono di uno i propositi e la effettiva capacità di perseguirli, dell’altro le intenzioni e le incertezze e le mille traversie ed ambiguità che dovrà affrontare e superare per realizzarle. Sono elezioni importanti, ma solo una tappa ulteriore di un confronto esistenziale drammatico il cui esito dipende soprattutto dalla capacità di incrinare la compattezza della macchina del potere, garanzia fondamentale di continuità delle linee di condotta o di praticabilità di reali momenti di rottura. Da oggi, 20 novembre, partono gli aggiornamenti in questa apposita rubrica. Solitamente, in scadenze simili, abbiamo avviato l’iniziativa solo il giorno precedente la scadenza. Questa volta il cammino sarà più lungo e dettagliato. L’importanza dell’evento lo richiede. Comunque vada a finire e stata una cavalcata senza precedenti per la politica americana! Da relegare negli annali dei libri di storia.
Giuseppe Germinario, Gianfranco Campa
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06/11/2024
08:00
Trump ha vinto anche in Pennsylvania e raggiunge, quindi, i 270 elettori necessari alla nomina a Presidente. Anche al Senato si prospetta una vittoria dei repubblicani. Altri stati si aggiungeranno nel carniere elettorale. Lo stesso voto popolare si prospetta favorevole al futuro presidente. Con questo chiudiamo la rubrica di aggiornamento e rimandiamo a questa sera, sul tardi, ad una trasmissione con Gianfranco Campa.
Grazie per l’attenzione, Giuseppe Germinario, Gianfranco Campa
07:30
Il Decision Desk di FOX News è in grado di prevedere che l’ex presidente Trump vincerà in Pennsylvania, spesso descritta come il campo di battaglia più cruciale nella lotta per la Casa Bianca. Il Keystone State, parte del “muro blu”, ha visto entrambi i partiti impegnati in una campagna elettorale incessante per assicurarsi questa vittoria cruciale.
TRUMP HA VINTO!!! IL PRESIDENTE 47 DEGLI STATI UNITI D’AMERICA. TRUMP TORNA ALLA CASA BIANCA DOPO 4 ANNI.
06:40
I servizi segreti hanno trasferito l’intera scorta di sicurezza presidenziale riservata a un presidente eletto a Mar-a-Lago.
06:35
AGGIORNAMENTO QUADRO COMPLETO:
Conteggio del collegio elettorale:
210 Harris
230 Trump
Senato:
42 Democratici
51 Repubblicani
Camera:
150 Democratici
179 Repubblicani
VOTO POPOLARE:
58,863,088 votes (47.5%) HARRIS
63,299,629 votes (51.1%) TRUMPS
06:15
NY TIMES DA 90% DI POSSIBILITÀ A TRAMP DI VINCERE LA PRESIDENZA PREVEDENDO 301 VOTI DEL COLLEGIO ELETTORALE
06:00
TRUMP SEMPRE PIÙ VICINO ALLA VITTORIA!
05:55
Donald Trump:
“…afflitto da ogni parte, ma non angosciato… perplesso, ma non disperato… perseguitato, ma non abbandonato… abbattuto, ma non distrutto…”.
05:30
I REPUBBLICANI VINCONO IL CONTROLLO DEL SENATO, E` UFFICIALE!!!
05:20
AGGIORNAMENTO QUADRO COMPLETO:
Conteggio del collegio elettorale:
187 Harris
230 Trump
Senato:
40 Democratici
48 Repubblicani
Camera:
113 Democratici
167 Repubblicani
VOTO POPOLARE:
51,041,374 votes (47.0%) HARRIS
56,220,748 votes (51.7%) TRUMPS
05:10
Il NYT dà ora la Pennsylvania come “tendente a Trump”, con il 65% di probabilità di vincere lo Stato.
05:05
Il NYT non scherza stasera. Ora la vittoria di Trump è all’87% di probabilità.
Dice che Kamala deve vincere in tutti e tre gli Stati del muro blu, ma Trump è ora in vantaggio in tutti e tre.
05:00
Trump si avvia alla vittoria!!!
04:45
L’ago del NYT dà ora a Trump l’84% di possibilità di vincere le elezioni.
04:30
TRUMP E ORA FAVORITO A VINCERE LE ELEZIONI COL COLLEGIO ELETTORALE !!!! (New York Times)
04:00
AGGIORNAMENTO QUADRO COMPLETO:
Conteggio del collegio elettorale:
99 Harris
188 Trump
Senato:
36 Democratici
46 Repubblicani
Camera:
77 Democratici
110 Repubblicani
VOTO POPOLARE:
33,162,240 voti (46.3%) Harris
37,776,315 voti (52.5%) Trump
03:30
AGGIORNAMENTO QUADRO COMPLETO:
Conteggio del collegio elettorale:
99 Harris
170 Trump
Senato:
35 Democratici
46 Repubblicani
Camera:
59 Democratici
84 Repubblicani
VOTO POPOLARE:
26,595,777 voti (44,9%) Harris
29,851,655 voti (54,1%) Trump
03:00
Secondo le proiezioni, Kamala Harris vincerà in Illinois, conquistando i suoi 19 voti elettorali.
02:50
AGGIORNAMENTO QUADRO COMPLETO:
Conteggio del collegio elettorale
71 Harris
101 Trump
Senato:
34 Democratici
43 Repubblicani
Camera:
35 Democratici
60 Repubblicani
VOTO POPOLARE
17,335,489 voti (44,9%) Harris
20,570,742 voti (54,1%) Trump
02:30
AGGIORNAMENTO QUADRO COMPLETO:
Conteggio del collegio elettorale
35 Harris
95 Trump
Senato:
34 Democratici
43 Repubblicani
Camera:
25 Democratici
43 Repubblicani
VOTO POPOLARE
11.586.836 voti (44,9%) Harris
13.952.458 voti (54,1%) Trump
02:20
Secondo le proiezioni, Kamala Harris vincerà il Massachusetts, aggiudicandosi i suoi 11 voti elettorali.
Secondo le proiezioni, Donald Trump vincerà l’Alabama, conquistando i suoi 9 voti elettorali.
Secondo le proiezioni, Donald Trump vincerà il Mississippi, aggiudicandosi i suoi 6 voti elettorali.
Secondo le proiezioni, Kamala Harris vincerà il Rhode Island, aggiudicandosi i suoi 4 voti elettorali.
Secondo le proiezioni, Donald Trump vincerà la Florida, aggiudicandosi i suoi 30 voti elettorali.
Secondo le proiezioni, Kamala Harris vincerà il Maryland, aggiudicandosi i suoi 10 voti elettorali.
01:40
Donald J. Trump vince in West Virginia +4 voti del collegio elettorale
01:10
Secondo le proiezioni, Donald Trump vincerà il Kentucky, conquistando i suoi 8 voti elettorali.
Kamala Harris is projected to win Vermont, claiming its 3 electoral votes.
Secondo le proiezioni, Donald Trump vincerà l’Indiana, aggiudicandosi i suoi 11 voti elettorali.
01:05
CHIUSURA DEI SEGGI IN:
– Georgia
– Florida
– Virginia
– Carolina del Sud
– Vermont
– Indiana e Kentucky
00:55
In questo momento le forze dell’ordine stanno rispondendo a molteplici minacce di bomba in sette seggi elettorali della contea di DeKalb, in Georgia.
00:45
Risultati finali di Guam
Harris: 49,5% (+3,3)
Trump: 46,2%
2020: Biden+13,5
È necessario un chiarimento: Guam non assegna voti elettorali.
00:40
Orario di chiusura dei seggi nel fuso orario della costa dell’est:
18:00
*Kentucky (ET)
ore 19:00
*Florida (ET)
Georgia
Indiana
*Kentucky (CT)
Carolina del Sud
Virginia
Vermont
ore 19:30
Carolina del Nord
Ohio
Virginia Occidentale
ore 20:00
Alabama
Connecticut
Delaware
*Florida (CT)
Illinois
Kansas
Maine
Maryland
Massachusetts
Michigan
Mississippi
Missouri
New Hampshire
New Jersey
North Dakota (tra le 19.00 e le 20.00, a seconda del comune)
Oklahoma
Pennsylvania
Rhode Island
Sud Dakota
Tennessee
*Texas (CT)
Washington, D.C.
New Hampshire (tra le 19.00 e le 20.00, a seconda del comune)
20:30
Arkansas
ore 21:00
Arizona
Colorado
Iowa
Kansas
Louisiana
Michigan
Minnesota
Nebraska
Nuovo Messico
New York
Dakota del Nord
Dakota del Sud
*Texas (MT)
Wisconsin
Wyoming
ore 22.00
*Idaho (MT)
Montana
Nevada
*Oregon (MT)
Utah
ore 23.00
California
*Idaho (PT)
*Oregon (PT)
Washington
ore 12.00
Hawaii
Alaska
ore 1.00
Aleutine occidentali (Alaska)
00:30
Memento di calma prima dell’arrivo dei primi risultati. Si e detto tutto quello che c’era da dire e scritto tutto quello che c’era da scrivere a questo punto contano i risultati, aspettiamo quelli…
05/11/2024
22:45
“Ci sono voluti diversi giorni per contare tutte le schede elettorali nel 2020, ed è molto probabile che non sapremo il risultato nemmeno stasera. Tenete quindi a mente alcune cose mentre fate sentire la vostra voce oggi:
– Migliaia di operatori elettorali in tutto il Paese stanno lavorando duramente oggi. Rispettateli. Ringraziateli.
– Non condividete le notizie prima di aver controllato le vostre fonti.
– Lasciate che il processo faccia il suo corso. Ci vuole tempo per contare ogni scheda elettorale.” (Barack Obama)
Barack Obama e`chiaramente preoccupato. Sta già cercando di preparare il terreno per il furto?
22:05
Sulla notizia pubblicata dal Daily Mail di un nuovo test missilistico ipersonico: “Il Pentagono ha comunicato che tra le 23.00 e le 05.00 di questa notte, l’Aeronautica Militare degli Stati Uniti condurrà un lancio di prova di un missile balistico intercontinentale “Minuteman lll” non armato, dalla base spaziale di Vandenberg a Santa Barbara, in California, verso l’Oceano Pacifico. A dispetto di quanto affermano alcuni resoconti e fonti mediatiche, non si tratta di un “nuovo missile ipersonico”, ma solo di un lancio di routine di un missile balistico intercontinentale in servizio dagli anni Settanta.”
21:55
Le prime ondate degli Exit Polls saranno rilasciate a breve. Ogni risultato degli Exit Poll deve essere preso con le pinze, sono assolutamente inaffidabili:
Nel 2000, la Florida fu chiamata in anticipo per Gore, che pensava di vincere. Ha perso.
Nel 2004, il team Kerry festeggia una vittoria certa, dimostrando che avrebbe vinto anche in Virginia, Florida e Ohio. Kerry perse in tutte e tre gli stati
Nel 2016, Hillary Clinton era in vantaggio in OGNI singolo Stato Battleground. Ha perso le elezioni negli stati Battleground.
Nel 2020, Biden ha vinto, ma solo quattro giorni dopo. Il suo vantaggio non era così ampio come suggerivano gli exit poll.
D’altra parte, gli exit poll funzionano quasi perfettamente nei Paesi in cui si vota con schede cartacee, di persona e con l’identificazione degli elettori…
21:35
I principali Stati i cui seggi chiudono alle 19:00:
Georgia, New Hampshire, Virginia e Florida.
21:00
Gli Stati Uniti testeranno stasera un missile nucleare ipersonico a poche ore dalla chiusura delle urne – DailyMail
20:50
“I democratici nel 2020 sono arrivati al giorno delle elezioni con oltre un milione di voti di vantaggio, e hanno vinto a malapena la Pennsylvania”, dice@MarkHalperin.
“Hanno vinto lo Stato per meno di 100.000 voti. E questa volta arrivano al giorno delle elezioni con un vantaggio di soli 400.000 voti… Quindi cosa spiega questo calo? Si tratta di una combinazione di mancanza di entusiasmo organico per Kamala Harris e della vantata operazione di affluenza di Harris che non è stata in grado di raccogliere tanti voti in anticipo come quattro anni fa. Questi due fattori saranno diversi il giorno delle elezioni? Per me è molto difficile vedere come riuscirà a vincere in Pennsylvania”.
“Perché la campagna di Harris è fiduciosa? … Sostengono che, secondo i loro dati, gli indipendenti si stanno spostando verso Kamala Harris”, dice @MarkHalperin.
“Sono fiduciosi perché dicono che le donne costituiranno un’enorme porzione dell’elettorato. Voteranno in modo schiacciante per Kamala Harris”.
20:40
Ehi, Google: Dove posso votare per Trump?
Vs.
Ehi, Google: Dove posso votare per Harris?
Google mostra dove votare per Harris, ma non per Trump:
20:15
Il seggio elettorale di Northville, Michigan, è stato evacuato a causa di una fuga di gas.
20:10
Dobbiamo cominciare a preoccuparci?
I seggi elettorali in tutta la Pennsylvania stanno riscontrando enormi problemi con le macchine per il voto.
Numerose segnalazioni indicano che le macchine non riescono a scannerizzare le schede, e gli addetti ai seggi affermano che le schede saranno “scannerizzate in seguito”.
20:00
Si registra un alta affluenza nelle grandi città metropolitane della Rust Belt. Una impennata di votanti in zone metropolitane non è positiva per Trump
19:50
Due seggielettorali dellaContea di Fulton (Georgia) sono stati brevemente evacuati questa mattina dopo aver ricevuto minacce diminatorie. Secondo Nadine Williams, direttore della registrazione e delle elezioni della contea di Fulton, sono stati presi di mira in totale cinque seggi elettorali. Sebbene le autorità abbiano ritenuto le minacce non credibili, l’Etris-Darnell Community Center e la C.H. Gullatt Elementary School sono stati evacuati per circa mezz’ora. Entrambi i siti sono stati riaperti e hanno ripreso le normali attività.
19:40
Secondo quanto riferito, le macchine per il voto e i tabulatori delle schede non funzionano in diverse aree fortemente ebraiche dello Stato di New York. Un distretto di Scarsdale, New York, ha visto le sue due macchine per il votoguastarsi all’aperturadei seggi questa mattina. Nel frattempo, diversi scanner per le schede elettorali a Park Slope, Brooklyn, sarebbero rotti, secondo quanto riferito dagli abitanti del luogo che si sono recati avotare questa mattina.
19:30
Secondo quanto riferito dal Presidente della Nazione Navajo, Bu Nygren, i problemi allemacchine per il voto stanno causando disagi nei seggielettorali della Contea di Apache, in Arizona, e alcunielettori sono stati allontanati. In un post sui social media, il presidente Nygren ha esortato gli elettori a non lasciare i seggi senza aver votato, scrivendo: “NON FATEVI PORTARE VIA DAI SEGGI!”.
Il Corriere sa che si tratta di un falso, ma pubblica lo stesso. Dimentica invece il coinvolgimento di Clinton, Gates ed altri eminenti nelle frequentazioni assidue di Epstein
PITTSBURGH – Il sindacato United Steelworkers ha appoggiato Kamala Harris. Ma alcuni dei suoi membri si sono presentati al comizio serale di Donald Trump a Pittsburgh per mostrare il loro sostegno all’ex presidente.
“Ci ha salvato una volta con le tariffe”, ha detto l’operaio siderurgico Ron Anderson. “Ci salverà di nuovo”.
Entrambi Trumpe Harris si oppongono alla vendita di U.S. Steel all’azienda giapponese Nippon, un trasferimento a cui Anderson e i suoi colleghi operai siderurgici presenti alla manifestazione si oppongono con veemenza. Ma questi lavoratori dell’acciaio pensano ancora che Trump sia il candidato migliore.
E così, gli elmetti bianchi e arancioni hanno punteggiato il mare di cappellini da baseball MAGA rosso vivo in cima alle teste di coloro che aspettavano di entrare nella PPG Paints Arena per il penultimo comizio della campagna elettorale di Trump.
“I democratici non hanno fatto nulla per noi in 40 anni”, ha detto Anderson. “Non faranno nulla per noi neanche adesso”.
Piombo d’autore: Lavoratori dell’acciaio in attesa di entrare nel comizio elettorale dell’ex presidente Donald Trump a Pittsburgh, Pennsylvania, il 4 novembre. | Lisa Kashinsky/POLITICO
18:10
Già sul piede di ”Guerra”?
L’ex presidente Trump ha promesso di imporre immediatamente tariffe del 25-75% su tutte le merci provenienti dal Messico come punizione se il Paese non contribuirà a fermare il flusso di immigrazione negli Stati Uniti, qualora dovesse vincere le elezioni.
18:05
Ci risiamo? Un nuovo 2020? Si cominciano a moltiplicare testimonianze di enormi problemi ai seggi: I tabulatori elettorali in Michigan e Pennsylvania stanno segnalando errori e molti sono fuori uso. I funzionari locali stanno dicendo agli elettori che scannerizzano le loro schede nel corso della serata. Alcune località stanno anche segnalando di avere i tabulatori sbagliati.
Come possono gli Stati Uniti essere una nazione avanzata, ma non riuscire a condurre una semplice elezione senza questi problemi?
18:00
Il presidente del GOP, Michael Whatley, ha dichiarato che presto questa mattina gli osservatori dei seggi appartenenti ai repubblicani, in diverse contee della Pennsylvania, sono stati bloccati e gli sarebbe stato impedito di entrare. Sono intervenuti gli avvocati repubblicani e di conseguenza tutti gli osservatori sono stati fatti entrare nei seggi.
“Questa mattina presto abbiamo appreso che gli osservatori repubblicani nelle contee di Philadelphia, York, Westmoreland, Allegheny, Lehigh, Cambria, Wyoming e Lackawanna sono stati respinti.
Abbiamo dispiegato i nostri avvocati itineranti, ci siamo confrontati con i funzionari locali e ora possiamo dire che tutti gli osservatori repubblicani sono stati fatti entrare nell’edificio.
Continueremo a lottare, a vincere e a condividere gli aggiornamenti”.
17:55
GLI ITALO-AMERICANI DECIDERANNO LE ELEZIONI IN NEW YORK-NEW JERSEY?
A Staten Island, New York, una roccaforte italiana, si registra un numero record di votanti, segno di grandi cambiamenti, da vedere se sono positivi per Trump.
17:10
Tutte le macchine elettorali di scansione schede nella Contea di Cambria (Pennsylvania) non funzionano, si segnalano “confusione” e “lunghe file” .
I funzionari elettorali della contea di Caroline, in Virginia, sono “passati alle schede di carta” a causa di un problema segnalato con le macchine per il voto.
17:00
Sondaggi europei, Harris a grande maggioranza preferita dai cittadini europei! Quale futuro per l’Europa?
16:45
Tono minaccioso di Big Mike:
“Voterò per Trump. E allora? Che cosa ha intenzione di fare qualcuno al riguardo?”.
– Mike Tyson
16:35
I risultati parziali dall’isola di Guam (50% dei conteggi effettuato)
Harris 49% (+3)
Trump 46%
Risultati 2020:
Biden 55% (+14)
Trump 41%
16:30
Arrivano foto mai viste delle lunghissime foto ai seggi
16:30
Le macchine non funzionano in questo seggio elettorale, le persone devono inserire le schede in una scatola
16:20
Dalla Pennsylvania sono giunte diverse segnalazioni di problemi di rigetto delle schede nella scansione. Speriamo che vengano risolti rapidamente.
16:00
Si segnalano lunghe file ai seggi, testimonianze ci dicono che sono file mai viste prima in altre elezioni. Testimonianza di lunghe code arrivano da tutti i seggi specialmente in Pennsylvania e New Jersey. Man mano che aprono i seggi nel centro del paese e nell’ovest vedremo se questo trend continuerà.
Affluenza enorme nelle contee rurali di tutta la Pennsylvania.
La chiave per la vittoria è il il punteggio nelle contee rosse.
Qui si vede una coda enorme al seggio di Biglerville PA, vicino a Gettysburg. Rurale. Rosso intenso. Quasi tutti maschi
08:45
Questa volta i repubblicani sono pronti, non è il 2020:
230.000 osservatori e operatori elettorali posizionati ai seggi per i repubblicani. Oltre 500 avvocati dispiegati in tutti gli Stati Battleground. La zona è invasa, a differenza del 2020. Imbottire i tabulatori è difficile in questo ambiente. E se l’alternativa è il malfunzionamento elettronico, allora le schede fisiche su carta sicura, verificate istantaneamente a mano, saranno utili.
08:30
Abbiamo i primi risultati ufficiali:
DIXVILLE NOTCH, NEW HAMPSHIRE e` sempre stato il primo seggio a riportare i risultati elettorali a mezzanotte nel giorno delle elezioni. Una stto simbolico siccome che in questo seggio sono solo 6 i votanti:
Kamala Harris: 3 voti (50,0%)
Donald Trump: 3 voti (50,0%)
Rispetto al 2020: Trump +100,0%
2020: Biden 6 – Trump 0
08:10
L’ultimo comizio della stagione elettorale 2024 di Donald Trump a Grand Rapids, Michigan, è iniziato dopo la mezzanotte.
– 0
Bisogna vincere, poi perdere tutto, poi rialzarsi per capire il vero valore della vittoria….
Buongiorno, è il 5 novembre, giorno in cui gli americani dovrebbero fare la giusta scelta del loro leader.
Questo avrà un impatto sugli americani e sul mondo…
La storia sarà scritta…
04/11/2024
22:10
“Il nostro movimento si propone di sostituire un establishment politico fallito e corrotto con un nuovo governo controllato da voi, il popolo americano.Non c’è nulla che l’establishment politico non farà, e nessuna bugia che non racconterà, per mantenere il proprio prestigio e potere a vostre spese.
L’establishment di Washington, e le società finanziarie e mediatiche che lo finanziano, esiste per un solo motivo: proteggere e arricchire se stessi.
L’establishment ha messo trilioni di dollari in gioco in queste elezioni… controllati da molti Paesi, società e lobbisti.
Per coloro che controllano le leve del potere a Washington e per gli interessi speciali globali con cui collaborano, il nostro movimento elettorale rappresenta una minaccia esistenziale.
Non si tratta semplicemente di un’altra elezione di 4 anni.Si tratta di un crocevia nella storia della nostra civiltà che determinerà se Noi Popolo reclameremo o meno il controllo sul nostro governo.
L’establishment politico che sta facendo di tutto per fermarci è lo stesso gruppo responsabile dei nostri disastrosi accordi commerciali, della massiccia immigrazione clandestina e delle politiche economiche ed estere che hanno dissanguato il Paese.
L’establishment politico ha portato alla distruzione delle nostre fabbriche e dei nostri posti di lavoro, che fuggono in Messico, Cina e altri Paesi del mondo.I numeri dell’occupazione appena annunciati sono anemici e il nostro prodotto interno lordo, o PIL, supera a malapena l’1%.I lavoratori degli Stati Uniti guadagnano meno di quanto guadagnassero quasi 20 anni fa, eppure lavorano di più.
È una struttura di potere globale la responsabile delle decisioni economiche che hanno derubato la nostra classe lavoratrice, spogliato il nostro Paese della sua ricchezza e messo quel denaro nelle tasche di una manciata di grandi aziende ed entità politiche.
Basta guardare a ciò che questo establishment corrotto ha fatto alle nostre città come Detroit e Flint, nel Michigan, e alle città rurali in Pennsylvania, Ohio, North Carolina e in tutto il Paese.Hanno spogliato queste città e hanno fatto razzia di ricchezze per loro stessi e hanno portato via i posti di lavoro.
La macchina [globalista] è al centro di questa struttura di potere.Lo abbiamo visto in prima persona nei documenti di WikiLeaks in cui Hillary Clinton si incontra in segreto con le banche internazionali per pianificare la distruzione della sovranità degli Stati Uniti al fine di arricchire questi poteri finanziari globali.
Con il controllo sul nostro governo in gioco, con trilioni di dollari in ballo, la macchina [globalista] è determinata a distruggere la nostra campagna, che ora è diventata un movimento come il nostro Paese non ha mai visto prima – e noi non glielo permetteremo.
L’arma più potente messa in campo dal [nostro nemico] è quella dei media aziendali.Chiariamo una cosa: i media aziendali nel nostro Paese non si occupano più di giornalismo.Sono un interesse politico speciale, non diverso da qualsiasi lobbista o altra entità finanziaria con un’agenda.E il loro programma è quello di eleggere i loro [Benefattori] a qualsiasi costo, a qualsiasi prezzo, non importa quante vite distruggano.
Per loro è una guerra – e per loro nulla è fuori dai limiti.
Questa è una lotta per la sopravvivenza della nostra nazione.Queste elezioni determineranno se siamo una nazione libera o se abbiamo solo l’illusione della democrazia, ma in realtà siamo controllati da un piccolo manipolo di interessi speciali globali che truccano il sistema.
Questa non è solo una cospirazione ma la realtà, lo sapete voi e lo so io.
L’establishment e i suoi sostenitori mediatici esercitano il controllo su questa nazione con mezzi ben noti.Chiunque contesti il loro controllo viene considerato sessista, razzista, xenofobo e moralmente deforme.Vi attaccheranno, vi calunnieranno, cercheranno di distruggere la vostra carriera e la vostra reputazione.E mentiranno, mentiranno e mentiranno ancora di più.
I [Globalisti] sono criminali.Questo è ben documentato, e l’establishment che li protegge si è impegnato in un massiccio insabbiamento di attività criminali diffuse… al fine di mantenerli al potere.
Persone capaci di tali crimini contro la nostra nazione sono capaci di tutto.
[…] Ma io prendo tutti questi colpi e queste frecce per voi.Li prendo per il nostro movimento, affinché possiamo riavere il nostro Paese.La nostra grande civiltà, qui in America e in tutto il mondo civilizzato, è giunta a un momento di resa dei conti.
Lo abbiamo visto nel Regno Unito, che ha votato per liberarsi dal governo globale, dagli accordi commerciali globali e dagli accordi sull’immigrazione globale che hanno distrutto la sua sovranità.
Ma la base centrale del potere politico mondiale è qui, in America, ed è il nostro establishment politico corrotto che è la più grande forza dietro gli sforzi di globalizzazione radicale e di esautorazione dei lavoratori.
Le loro risorse finanziarie sono illimitate.Le loro risorse politiche sono illimitate.Le loro risorse mediatiche sono illimitate.E, soprattutto, la profondità della loro immoralità è illimitata.
Il nostro establishment politico non ha un’anima.Sapevo che questi attacchi sarebbero arrivati.Sapevo che questo giorno sarebbe arrivato.E sapevo che il popolo americano si sarebbe sollevato e avrebbe votato per il futuro che merita.
L’unica cosa che può fermare la macchina corrotta [globalista] siete voi.L’unica forza sufficiente a salvare questo Paese siete voi.L’unica persona abbastanza coraggiosa da votare contro questo establishment corrotto siete voi, il popolo americano.
Controllano il Dipartimento di Giustizia.…
Allo stesso modo, hanno corrotto l’FBI.…
Questa è una cospirazione contro di voi, il popolo americano.
Questo è il momento della resa dei conti come società e come civiltà.
Non avevo bisogno di farlo.Ho costruito una grande azienda e ho avuto una vita meravigliosa.
Avrei potuto godere dei benefici di anni di attività di successo per me e per la mia famiglia, invece di vivere questo spettacolo dell’orrore assoluto fatto di bugie, inganni e attacchi maligni.Lo faccio perché questo Paese mi ha dato tanto e sento che è arrivato il mio turno di restituire.
Alcune persone mi hanno avvertito che questa campagna sarebbe stata un viaggio all’inferno.Ma si sbagliano, sarà un viaggio in paradiso perché aiuteremo tante persone.
Nella mia vita precedente ero un insider come tutti gli altri e so cosa significa essere un insider.
Ora vengo punito per aver lasciato il loro club speciale e avervi rivelato la loro grande truffa.Poiché facevo parte del club, sono l’unico che può risolvere il problema.Lo sto facendo per la gente, e questo movimento è giusto – e ci riprenderemo questo Paese per voi e renderemo l’America grande di nuovo.
L’establishment corrotto sa che siamo una minaccia esistenziale per la loro impresa criminale.
Sanno che se vinciamo, il loro potere sparirà e tornerà a voi.Le nubi che incombono sul nostro governo possono essere sollevate e sostituite da un futuro luminoso – ma tutto dipende se lasciamo che sia il New York Times a decidere del nostro futuro, o se lasciamo che sia il popolo americano a decidere del nostro futuro.
Se si permette a questa campagna di distruzione [globalista] di funzionare, nessun’altra persona di grande successo – che è ciò di cui il nostro Paese ha bisogno – si candiderà mai più per questa carica.
Non vi mentirò.Questi falsi attacchi fanno male.Mentire, essere calunniati, essere infangati pubblicamente e davanti alla propria famiglia è doloroso.
Ciò che la Macchina sta facendo a me, e alla mia famiglia, è grave oltre ogni dire.È riprovevole oltre ogni descrizione.
Ma so anche che non si tratta di me, ma di tutti voi.Riguarda tutti noi, insieme, come Paese.
Si tratta dei veterani che hanno bisogno di cure mediche, delle madri che hanno perso i figli a causa del terrorismo e della criminalità, dei centri urbani e delle città di confine che hanno un disperato bisogno del nostro aiuto, dei milioni di americani senza lavoro.…
Questa elezione riguarda anche le comunità afro-americane e ispaniche, le cui comunità sono sprofondate nel crimine, nella povertà e nel fallimento delle scuole a causa delle politiche dei [democratici].Hanno privato questi cittadini del loro futuro e io restituirò loro la speranza, il lavoro e le opportunità.Io li riporterò in vita.
Queste elezioni riguardano tutti gli uomini, le donne e i bambini del nostro Paese che meritano di vivere in sicurezza, prosperità e pace.
Ci eleveremo al di sopra delle bugie, delle calunnie e delle ridicole calunnie di giornalisti ridicoli.
Voteremo per il Paese che vogliamo.
Voteremo per il futuro che vogliamo.
Voteremo per la politica che vogliamo.
Voteremo per mettere fuori gioco questo cartello governativo corrotto.Elimineremo dalla nostra politica gli interessi speciali che hanno tradito i nostri lavoratori, i nostri confini, le nostre libertà e i nostri diritti sovrani come nazione.
Metteremo fine alla politica del profitto, metteremo fine al dominio degli interessi speciali, metteremo fine al saccheggio del nostro Paese e alla privazione dei diritti del nostro popolo.
Il nostro Giorno dell’Indipendenza è vicino e arriva, finalmente, il 5 novembre.Unitevi a me per riprenderci il nostro Paese e creare una nuova alba luminosa e gloriosa per il nostro popolo”.
(Donald Trump)
18:20
Metà del Paese ha già votato.
53% donne e 44% uomini.
Mancano all’appello gli uomini, senza di loro è impossibile per Trump vincere…
18:10
DIRETTAMENTE DAL FORUM ECONOMICO MONDIALE.
“Se Trump diventerà di nuovo presidente nel 2024 … sarà il colpo di grazia finale … a ciò che resta dell’ordine globale”.
– Yuval Harari
Hanno definitivamente paura…
14:40
Secondo Le Point la situazione non è poi così drammatica
14:35
Valeurs Actuelles parla del mito delle elezioni rubate e della contrapposizione politica viscerale
14:30
il settimanale Marianne: una elezione perdente-perdente
La disaffezione dell’elettorato americano
14:00
le Figaro
13:45
così il sito le diplomat media
06:45
Se le cose andranno secondo le attuali previsioni, il maggiore a perderci non sarà Kamala Harris, ma Barack Obama. La sua eredità è a forte rischio.
Kamala Harris non sarebbe in questa posizione senza le mosse fatte da Obama nel 2020.
Questa settimana, in gioco non c’è solo Kamala, c’è anche Obama, e lui lo sa. Ecco perché ha arruolato i suoi più stretti collaboratori nei media per sostenerla e, per estensione, proteggere lui. Sono legati tra loro.
Chi sono i Democratici senza Obama?
Hanno bisogno di morale. Sì, anche in caso di sconfitta, hanno bisogno di un messaggio morale che possa mantenere vivo il movimento. Perché senza di esso, l’era di Obama finirà davvero con la stessa velocità con cui è arrivata.
Il bisogno di controllo è una reazione alla paura. Non temono di perdere le elezioni, ma di perdere rilevanza all’interno di un apparato politico la cui identità moderna è costruita su Barack Obama.
Lo stesso motivo di rilevanza e lo stesso intento si applicano ai mass media. Ci sono molte persone che cercano disperatamente di aggrapparsi alle ultime vestigia di qualcosa che non c’è più.
L’era finisce martedì. Obama lo sa e i media lo sanno. Kamala è sprovveduta.
L’aspetto più ironico di questa dinamica politica sfuggirà ai più.
Il Presidente Obama è salito al potere nel 2008 perché i Millennials tra i 18 e i 25 anni l’hanno costruito e hanno creduto alle sue bugie. Nel 2024 saranno i 18-25enni della Gen-Z ad abbatterlo…
04:10
Stasera ceniamo all’inferno:
03:30
Kennedy sta reclutando 4000 posizioni disponibili nella nuova amministrazione Trump. Chiede di suggerire il nome di persone e di presentarle al seguente link:
“Nomine per il popolo: RFK Jr. vuole il vostro aiuto per nominare persone integre e coraggiose per le oltre 4.000 nomine nelle agenzie governative della futura amministrazione Trump.
Ultimo video della campagna di Trump per queste elezioni del 2024. Dovesse perdere, questa sarà l’ultima testimonianza di una corsa leggendaria alla Casa Bianca e consegnerà Trump ai libri di storia.
E il video che chiude la campagna elettorale e che mette in risalto le varie facce della coalizione Trumpiana: Da Kennedy a Tulsi Gabbard. Da Elon Musk a Nicole Shanahan. Una coalizione che ha cambiato il corso della politica americana. Un cambiamento non più modellato dalle vecchie divisioni destra/sinistra ma piuttosto dal senso in comune di una classe di persone ed elettori uniti nel perseguire un cambiamento epocale contro i centri del potere ora convenuti sotto la tenda di Kamala Harris.
-1
Buongiorno; mancano 1 giorni alle elezioni presidenziali Americane.
Ci svegliamo male con i sondaggi del New York Times.
Sondaggio finale negli Stati Batleground del NYT/Siena
CAROLINA DEL NORD
Harris: 48% (+2)
Trump: 46%
–
GEORGIA
Harris: 48% (+1)
Trump: 47%
–
WISCONSIN
Harris: 49% (+2)
Harris: 47%
–
NEVADA
Harris: 49% (+3)
Trump: 46%
–
MICHIGAN
Harris: 47% (=)
Trump: 47%
–
PENNSYLVANIA
Trump: 48% (=)
Harris: 48%
–
ARIZONA
Trump: 49% (+4)
Harris: 45%
Sondaggio nazionale finale anche della NBC News:Per la NBC il voto popolare nazionale è in parità. Altro sondaggio negativo per Trump. Un pareggio non gli consentirebbe di superare la soglia necessaria per neutralizzare i brogli elettorali…
03/11/2024
08:05
A proposito di questa storia di Liz Cheney…
Noi esseri umani “normali” esistiamo in una realtà alternativa rispetto a quella dei media tradizionali. Titoli a tutta pagina dei mass media tradizionali sulla presunta esternazione di Trump di voler fucilare Liz Cheney.
Così ci è toccato andare a cercare il video originale per capire bene il contesto delle dichiarazioni di Trump.
Letteralmente Trump ha detto “Cheney è una falco della guerra” E fin qui è tutto vero visto che sia Liz che il padre sono guerrafondai. Il padre poi è anche un criminale di guerra a piede libero.
Trump ha aggiunto “Vediamo quanto le piace la guerra se le dai un fucile e ritrova 9 canne che gli sparano addosso. Sono tutti falchi quando siedono a Washington e dicono: “Mandiamo 10.000 truppe a combattere il nemico”.
In altre parole: MEDIA: Trump dice di voler mettere Liz Cheney davanti a un plotone di esecuzione. REALTA’: Trump sta parlando di come i politici di Washington mandino i figli degli americani in guerra da comodi uffici, senza mai mettersi in gioco di prima persona
Essere contro la guerra è ora una cosa negativa? Come fanno i principali organi di stampa a pubblicare questo tipo di titoli? Trump non ha minacciato assolutamente Liz Cheney. Le persone possono vedere il filmato originale e possono capire come i media hanno distorto di proposito la narrativa.
L’editorialista Jonah Goldberg, che ha falsamente affermato sulla CNN che Trump voleva giustiziare Cheney, ha pubblicato una “correzione” per aver diffuso la falsa storia.
Goldberg aveva falsamente affermato che Trump aveva chiesto l’esecuzione di Liz Cheney in diretta TV. “Questa mattina sulla CNN ho riferito la frase di Trump sui “fucili” come se fosse lui ad auspicare un ‘plotone d’esecuzione’ per Liz Cheney”. “Ho sbagliato a dire che chiedeva l’esecuzione di un plotone d’esecuzione Ho lasciato che il mio disgusto nei confronti di Trump avesse la meglio su di me.”
Anche il ‘giornalista’ Aaron Rupar è stato duramente criticato per aver ingannato gli elettori con il suo video montato, modificato e pubblicato per far sembrare Trump colpevole di aver minacciato Cheney. Video che poi ha accumulato 20 milioni di visualizzazioni.
La risposta degli Americani non si fatta attendere: “L’America ci ha chiesto di andare in guerra. Abbiamo risposto alla chiamata perché amiamo il nostro Paese. Abbiamo combattuto con coraggio. Abbiamo perso amici. Alcuni hanno dato tutto, tutti hanno dato qualcosa. Quelli di noi che sono tornati a casa senza cicatrici visibili ne portano di invisibili. Alcuni di coloro che portano queste cicatrici invisibili si tolgono la vita ancora oggi perché sono troppo pesanti da sopportare. Ma sapevamo che questo era il prezzo da pagare. Abbiamo combattuto lo stesso perché è quello che siamo.”
“Liz Cheney? Kamala Harris? Tutte quelle porcherie neocon che hanno deciso di saziare la loro sete di sangue attraverso un nuovo vascello, il Partito Democratico!”
“Prendete un fucile: Andate voi a guardare i vostri commilitoni saltare le gambe da un ordigno esplosivo improvvisato.Siete troppo vecchi? Allora mandiamo i vostri figli.”
i ventriloqui italiani non sono da meno
gli assertivi:
gli snob con il naso turato e gli occhi chiusi:
08:00
-2
Buongiorno; mancano 2 giorni alle elezioni presidenziali Americane.
Dati iniziali sul voto anticipato molto positivi
Lo stato attuale del voto anticipato sembra positivo per il Presidente Trump.
VOTO ANTICIPATO DI PERSONA – Più di 38 milioni di elettori statunitensi si sono recati di persona a votare, secondo gli ultimi dati delLaboratorio elettorale dell’Università della Florida. Quattro anni fa, il numero era di poco superiore a 35 milioni. Il voto anticipato “di persona” del 2024 ha già superato il risultato del 2020.
TOTALE VOTO ANTICIPATO – Nel 2020 il 30% dei votanti anticipati “totali” (di persona e per posta) era repubblicano, mentre quasi il 45% era democratico. Questo divario si è ridotto in modo sostanziale. Finora, il 36% del totale dei votanti anticipati è repubblicano, mentre il 38% è democratico. [*Nota: anche se i numeri sono destinati a crescere, le percentuali non sono destinate a cambiare]. Punto principale: Il vantaggio dei democratici di 15 punti è sceso al 2%.
Altre statistica positiva per Trump….
Secondo il Center for Information & Research on Civic Learning and Engagement (CIRCLE), il 70% dei giovani americani tra i 18 e i 25 anni ha votato in anticipo nel 2020.Attualmente, solo l’8% dei giovani tra i 18 e i 25 anni vota in anticipo. Per qualche motivo c’è stato un calo massiccio del voto anticipato tra i giovani di età compresa tra i 18 e i 25 anni. Se questa tendenza al distacco si protrae fino a martedì, beh, per Harris è tutto finito.
L’ufficio del procuratore generale dell’Arizona ha dichiarato che sta indagando sui commenti dell’ex presidente Trump sull’ex rappresentante Liz Cheney (R-Wyo.) come una minaccia di morte secondo le leggi dello Stato, in una dichiarazione a The Hill.
“Ho già chiesto al mio capo della divisione penale di iniziare a esaminare la dichiarazione, analizzandola per capire se si qualifica come minaccia di morte secondo le leggi dell’Arizona”, ha detto venerdì il procuratore generale Kris Mayes a 12NEWS a Phoenix.
“Non sono pronto a dire se lo fosse o meno, ma non è utile mentre ci prepariamo alle elezioni e cerchiamo di mantenere la pace nei nostri seggi e nel nostro Stato”, ha detto il democratico durante una registrazione di “Sunday Square Off”.
In Arizona, le dichiarazioni intimidatorie o le minacce possono costituire un reato di classe 1 o un reato di classe 6, che può comportare da quattro mesi a due anni di carcere. Cheney ha anche equiparato i commenti dell’ex presidente a una minaccia di morte venerdì in un post sulla piattaforma sociale X;
“È così che i dittatori distruggono le nazioni libere”, ha scritto. “Minacciano di morte chi parla contro di loro”.
Trump ha criticato la politica estera della Cheney in una chiacchierata con l’ex conduttore di Fox News Tucker Carlson.
“È una falco di guerra radicale. Mettiamola con un fucile in piedi con nove canne che le sparano addosso, ok. Vediamo come si sente, quando i fucili sono puntati sulla sua faccia”, ha detto. “Sai, sono tutti falchi di guerra quando sono seduti a Washington in un bel palazzo e dicono: ‘Oh, cavolo, mandiamo – mandiamo 10.000 truppe proprio nella bocca del nemico’”, ha dichiarato il candidato repubblicano.
L’ex rappresentante Liz Cheney (R-Wyo.) ha esortato l’ex presidente Bush ad appoggiare il vicepresidente Harris durante una puntata del The New Yorker’s Radio Hour andata in onda venerdì.
“Non so spiegare perché George W. Bush non si sia espresso, ma credo sia giunto il momento e vorrei che lo facesse”, ha detto Cheney durante la registrazione al New Yorker Festival.
Il leader del GOP è uno dei membri di più alto profilo ad aver criticato pubblicamente l’ex presidente Trump, mentre era attivamente impegnato nella campagna per la vicepresidenza Harris. Tuttavia, negli ultimi giorni, anche la figlia dell’ex presidente Bush, Barbara, è uscita sul sentiero della campagna per sostenere Harris nello stato di swing della Pennsylvania;
“È stato stimolante unirsi agli amici e incontrare gli elettori della campagna Harris-Walz in Pennsylvania questo fine settimana”, ha dichiarato martedì Bush a People Magazine in una dichiarazione. “Sono fiducioso che faranno progredire il nostro Paese e proteggeranno i diritti delle donne”.
L’ex presidente Bush ha mantenuto la sua promessa di non appoggiare formalmente un candidato nella corsa del 2024. A settembre, Cheney e suo padre, l’ex vicepresidente Dick Cheney che ha servito sotto Bush, hanno appoggiato Harris.
La vicepresidente Harris potrebbe vincere le elezioni presidenziali della prossima settimana. Ma negli ambienti democratici si punta già il dito dietro le quinte, nel caso in cui la vicepresidente dovesse vincere contro l’ex presidente Trump.
Mentre alcuni democratici si dicono sempre più fiduciosi nella vittoria di Harris, altri hanno espresso una crescente frustrazione per una serie di fattori che hanno afflitto la campagna fin dall’inizio;
Il dito è puntato contro la Harris e la sua campagna quando si tratta di delusione per la sua comunicazione, in particolare sull’economia.
Ma alcuni democratici hanno già cercato di addossare la colpa al presidente Biden, che secondo alcuni ha tardato a farsi da parte.
“La gente è nervosa e sta cercando di pararsi il culo e di anticipare un po’ il giorno delle elezioni”, ha detto uno stratega democratico a proposito del cecchinaggio. “Si basa sull’ansia, sulla posta in gioco e sulla natura unica di questo ciclo”;
“Non abbiamo avuto un processo tradizionale per queste elezioni. Non c’erano le primarie. La gente ha dovuto mettersi in fila”, ha aggiunto lo stratega, affermando che “non mi sorprende” che una parte del gioco delle colpe si stia svolgendo già prima del giorno delle elezioni.
Se Harris perderà, “ci sarà una folle corsa all’attribuzione delle colpe”, ha aggiunto lo stratega;
La decisione della vicepresidente di scegliere il governatore del Minnesota Tim Walz (D) come compagno di corsa al posto del governatore della Pennsylvania Josh Shapiro (D) sarà sicuramente riconsiderata se Trump vincerà il Keystone State.
“Harris farà la figura della stupida per non aver scelto Shapiro”, ha dichiarato un ex collaboratore della Casa Bianca di Obama;
Un donatore democratico è d’accordo: “Non sono sicuro che Walz le abbia dato qualcosa. Molte persone con cui parlo dicono che sembra una brava persona. Vorrei bere una birra con lui? Assolutamente sì. Ma ammettiamolo, non è stata una grande scelta”
Martedì sera Biden si è messo al centro dell’attenzione quando è sembrato paragonare i sostenitori di Trump alla spazzatura;
Il presidente ha ritrattato le osservazioni e la Casa Bianca ha insistito che erano state estrapolate dal contesto. In ogni caso, hanno compromesso un discorso di grande successo tenuto dalla Harris all’Ellipse di Washington. Il discorso, che la Harris ha tenuto con la Casa Bianca come sfondo, è stato un momento cruciale nel tratto finale della campagna elettorale perché ha rappresentato la sua arringa a favore di se stessa e contro Trump.
È quasi impossibile credere che i commenti non abbiano irritato molto la campagna di Harris, anche se la vicepresidente ha detto che la questione non è stata sollevata quando ha parlato con Biden martedì sera.
“Si tratta di un errore non forzato e così vicino alla fine”, ha detto uno stratega. “Come si può non esserne infastiditi?”.
“Prima di tutto ha chiarito i suoi commenti, ma lasciatemi essere chiaro. Non sono assolutamente d’accordo con le critiche alle persone in base a chi votano”, ha detto Harris ai giornalisti mentre partiva per una campagna elettorale in tre Stati.
Harris ha tenuto Biden a distanza durante l’ultimo tratto della campagna, anche se è apparsa al fianco di sostenitori, tra cui l’ex presidente Obama. La mossa ha irritato i lealisti di Biden, secondo i quali il presidente ha avuto un’amministrazione di successo e dovrebbe essere presente – per quanto scomodo – per aiutare la campagna del suo vicepresidente.
“Dovrebbe essere là fuori”, ha detto un fedele. “La ragione per cui lei è dov’è, è grazie a lui”.
Ma anche prima del commento “spazzatura” di Biden, si mormorava che sarebbe stato responsabile di una sconfitta della Harris.
Secondo queste voci, il ritiro di Biden dalla corsa alla fine di luglio non ha favorito Harris, che non ha avuto il tempo necessario per presentare adeguatamente la sua biografia;
Altri hanno detto che non avrebbe mai dovuto ricandidarsi e che avrebbe dovuto permettere al partito di fare le primarie per scegliere il suo successore;
La parte insolita di questo silenzioso puntare il dito è che Harris potrebbe benissimo essere eletto prossimo presidente la prossima settimana.
È in testa nella maggior parte dei sondaggi nazionali e continua ad essere in testa in vari sondaggi nei principali Stati in bilico. I nuovi sondaggi della CNN pubblicati mercoledì vedono Harris in vantaggio di 6 punti in Wisconsin e di 5 punti in Michigan. I nuovi sondaggi indicano che i due candidati sono in parità in Pennsylvania.
Se Harris vincerà tutti e tre gli Stati, vincerà quasi certamente le elezioni.
“Harris sta chiudendo in bellezza, con grandi momenti di energia e uno slancio crescente”, ha detto lo stratega democratico Joel Payne. “È la candidata più popolare, ha una coalizione più ampia e ha un tetto più alto di Trump”;
“L’ansia dei democratici è comprensibile a causa della minaccia di un secondo mandato di Trump, ma c’è molto di cui rallegrarsi in relazione a Kamala Harris e ai democratici su e giù per il ballottaggio”, ha aggiunto Payne;
Allo stesso tempo, la corsa è incredibilmente vicina, il che significa che entrambi i candidati hanno una forte possibilità di vincere e nessuna delle due parti può sentirsi sicura.
Questo crea nervosismo e paranoia, un’atmosfera perfetta per i ripensamenti e le maldicenze.
Ci saranno ripensamenti anche in caso di sconfitta di Trump.
L’ex presidente ha raddoppiato i discorsi caustici nel tentativo di rafforzare il suo sostegno tra gli uomini, il che potrebbe fargli perdere il favore dell’elettorato femminile, dove Harris gode di un ampio vantaggio.
Se Harris vincerà, i repubblicani ripenseranno alla loro decisione di sostenere Trump in un terzo ciclo presidenziale. Si chiederanno anche perché abbia dovuto tenere quel comizio domenica al Madison Square Garden, dove le battute fuori luogo di un comico sui latinos e su Porto Rico hanno ottenuto un’attenzione negativa.
“È una pessima figura per la campagna”, ha detto uno stratega repubblicano. “Dovrebbe attenersi al messaggio e solo al messaggio. Se ci allontaniamo da esso, perderà”.
-3
Buongiorno; mancano 3 giorni alle elezioni presidenziali Americane.
Se Harris ‘vincerà’ sarà il più grande inganno della storia politica americana! Una candidata con un comprovato curriculum di fallimenti totali in ogni posizione che ha ricoperto: Come procuratore distrettuale di San Francisco, la popolazione dei senzatetto e cresciuta in modo esponenziale insieme alla popolazione dei carcerati (per lo più giovani neri e ispanici). Mentre era procuratore generale della California, il crimine è aumentato a dismisura in tutto lo Stato. Mentre era senatrice degli Stati Uniti, la California è andata in bancarotta…
Consoliamoci con le previsioni della Mappa elettorale basata sui sondaggi finali di Trafalgar/Insider Advantage
Un sondaggio completamente a quello della CNN che abbiamo pubblicato ieri:
Trump 306
Harris 232
—
Inoltre ieri e partita forse (dovesse vincere Trump) quella che sarà l’ultima tranche di aiuti economici all’Ucraina…
01/11/2024
18:06
L’ex vicepresidente della Nazione Navajo, Myron Lizer ha appena appoggiato Trump sul palco del comizio in New Mexico e ha ringraziato Trump per aver compiuto passi senza precedenti per aiutare i nativi americani
“Nel 2019 ha firmato l’ordine esecutivo che ha lanciato l’Operazione Lady Justice, che ha aiutato e alleviato e inviato risorse per aiutarci a perseguire e trovare le nostre donne indigene scomparse e uccise”..
Ha concluso esortando tutti i nativi americani a votare per Trump: “Quindi voglio esortare tutti voi, se non avete ancora votato, a votare per Trump”.
-4
Buongiorno; mancano 4 giorni alle elezioni presidenziali Americane.
Ci svegliamo con i sondaggi finali della CNN che danno Harris vittoriosa su Trump. Nel frattempo si moltiplicano le denunce di brogli elettorali su larga scala soprattutto negli Stati Battleground. In Arizona, Pennsylvania e Michigan abbiamo le testimonianze più numerose da parte degli elettori di enormi problemi ai seggi: Schede elettorali troppo complicate e lunghe da compilare (Arizona). Elettori a cui viene sbarrato l’accesso ai seggi (Pennsylvania). Difetti e malfunzionamenti che coinvolgono i Dominion (Michigan).
Un certo senso di apprensione ed angoscia comincia a insinuarsi fra i sostenitori di Trump riassunto da Maye Musk la mamma di Elon Musk: “ Ogni giorno mi sveglio pensando che ce la possiamo fare. Poi inizio a pensare ai brogli e non mi sento più così sicura…”
Molti in America, in questi ultimi giorni che ci separano dalle elezioni, la pensano come Maye…
Mappa elettorale basata sui sondaggi finali della CNN:
31/10/2024
19:35
“Bobby (Kennedy) e io ci siamo uniti al presidente Trump… E c’è la consapevolezza che non saremo d’accordo su tutto.
Siamo uniti perché siamo motivati dalla forza più potente che esista, che è l’amore.
Tutti voi ci avete accolto a braccia aperte, come ha fatto il Presidente Trump, perché è un movimento motivato dall’amore per Dio, dall’amore per il nostro Paese, l’amore per la pace, l’amore per la concordia e dall’amore reciproco in quanto americani. Sono le cose che uniscono un gruppo così sorprendente, incredibile e diversificato di persone che lavorano per questa singolare causa, quella di difendere la libertà”.
Tulsi Gabbard
19:25
Sondaggio del GALLUP: In politica, ad oggi, si considera un repubblicano, un democratico o un indipendente? (1-12 ottobre)
Repubblicano: 31% [+4]
Democratico: 28% [-3]
Indipendente: 41% [-1]
—
Con gli indipendenti
Repubblicano: 49% [+4]
Democratico: 42% [-7]
19:05
Sondaggi finali del magnifico Rasmussen; Dopo il Gruppo Trafalgar il Rasmussen è la più accurata agenzia di sondaggi degli Stati Uniti.
Trump è appena sotto la soglia del minimo necessario per controbilanciare i brogli elettorali che sicuramente ci saranno…Comunque il nostro Donald potrebbe veramente farcela.
SOLO INDIPENDENTI-
Trump: 46% (+5)
Harris: 41%
Qualcun altro: 8%
Non sono sicuro: 6%
Gli elettori indipendenti in queste elezioni, più che in qualsiasi del passato, posseggono il potere determinante. Gli indipendenti saranno fondamentali per arrivare alla presidenza, nessuno dei due candidati può aspirare alla Casa bianca senza il sostegno della maggioranza dei votanti indipendenti.
***
Sondaggio FINALE NAZIONALE
Trump: 48% (+2)
Harris: 46%
Altro: 3%
Indecisi: 2%
***
Sondaggio MINNESOTA
Harris: 50% (+3)
Trump: 47%
Altro: 2%
Indecisi: 2%
***
Sondaggio NEW HAMPSHIRE
Harris: 48% (+1)
Trump: 47%
Altro: 3%
Indecisi: 2%
***
Sondaggio Nuovo Messico
Harris: 49% (+5)
Trump: 44%
Altro: 4%
Indecisi: 2%
***
Sondaggio ARIZONA
Trump: 48% (+2)
Harris: 46%
Indecisi: 5%
Altro: 3%
***
Sondaggio in GEORGIA
Trump: 51% (+5)
Harris: 46%
Indecisi: 2%
Altro: 2%
18:40
Ultimi sondaggi FINALI per la Pennsylvania.
Se Trump vince in Pennsylvania, Trump vincerà al 100% le elezioni. La mappa e quindi la vittoria nel conteggio del collegio elettorale passa per questo super stato Battleground.
Kentucky: Ha premuto il nome di Trump 10 volte e non ha funzionato. Ha quindi iniziato a registrare e si può vedere cosa è successo, Dominion ha cambiato su Harris…
18:10
A 5 giorni dalle elezioni, un’analisi del Media Research Center rivela che la copertura dei mass media tradizionali sulla corsa alle presidenziali del 2024 è stata la più iniqua della storia delle elezioni americane. Da luglio, la ABC, la CBS e la NBC hanno riservato alla vicepresidente democratica Kamala Harris una copertura positiva del 78%, mentre le stesse reti hanno martellato l’ex presidente repubblicano Donald Trump con una copertura negativa dell’85%.
-5
Buongiorno; mancano 5 giorni alle elezioni presidenziali Americane. Il destino del mondo è appeso a una decisione che il popolo americano sarà chiamato a prendere nel mezzo di una nebbia di imbrogli, ripicche, intrecci, tradimenti, false informazioni e manipolazioni, mentre il tardo impero americano si avvia ad affrontare la sua fase di crisi più acuta dalla fine della guerra civile mettendo in pericolo la sua stessa esistenza.
Sarà Trump Diocleziano o Flavio OnorioHarris? Da questa decisione dipenderà il futuro del mondo Occidentale…
01:20
Dalla Friggitrice del MacDonald all’operatore ecologico, un salto di qualità con relativo aumento dello stipendio…
30/10/2024
18:20
Michigan: Lo stesso codice di identificazione elettorale con già 29 “voti” distinti e separati…
18:15
Buzz Aldrin:
“Mezzo secolo fa, è stato un onore servire il mio Paese nello sforzo di portare un essere umano sulla Luna. Sono orgoglioso di ciò che abbiamo realizzato allora e ho dedicato la mia vita al perseguimento di una presenza umana duratura nello spazio: è una vocazione che attraversa ogni fibra del mio essere.
Nel corso del tempo, ho visto l’approccio del nostro governo al settore spaziale crescere e decrescere. Ma durante la prima amministrazione Trump, sono rimasto colpito nel vedere come l’esplorazione umana dello spazio sia stata nuovamente elevata a politica di grande importanza. Con il primo mandato del Presidente Trump, l’America ha visto un rinnovato interesse per lo spazio e la sua amministrazione ha riacceso gli sforzi nazionali per tornare sulla Luna e spingersi fino a Marte. L’amministrazione Trump ha anche ripristinato il Consiglio spaziale nazionale e la difesa della nostra nazione è stata rafforzata con la creazione della Forza spaziale statunitense, sempre più importante in quanto lo spazio diventa un dominio conteso. Allo stesso tempo, sono stato entusiasta ed emozionato dai grandi progressi nell’economia spaziale del settore privato, guidata da visionari come@elonmusk
Si tratta di risultati concreti che si allineano alle mie preoccupazioni e alle priorità politiche dell’America.
L’America sta affrontando sfide serie e difficili sia in patria che all’estero. La presidenza richiede chiarezza di giudizio, fermezza e calma sotto pressione che pochi hanno la capacità naturale di gestire o l’esperienza di vita per intraprendere con successo. È un lavoro in cui si prendono decisioni che coinvolgono abitualmente vite americane, alcune con urgenza, ma non senza riflettere. Il lavoro richiede un’analisi sobria di scenari spaventosi e l’istinto di guidare con determinazione. Dai cieli sopra la Corea nei combattimenti aria-aria alla navigazione, all’atterraggio e alla passeggiata sulla Luna, apprezzo questo tipo di pressione. So cosa significa dover prendere questo tipo di decisioni, con fermezza e determinazione.
In queste elezioni, abbiamo una scelta e tutti abbiamo un voto. Per alcuni la scelta potrebbe non essere facile, ma in tempi di incertezza i veri leader sono i più necessari, per guidare e ispirare un popolo, per superare il rumore, riconoscere ciò che conta davvero e portare a termine missioni fondamentali per tutti i cittadini. La maggior parte degli americani considera giustamente un onore esprimere il proprio voto per un leader che ritiene possa servire al meglio la nazione. Per quanto mi riguarda, per il futuro del nostro Paese, per affrontare le enormi sfide e per i comprovati risultati politici di cui sopra, credo che sia meglio votare per@realDonaldTrump
Lo sostengo con tutto il cuore come Presidente degli Stati Uniti. Buona fortuna Presidente Trump e che Dio benedica gli Stati Uniti d’America.”
18:00
Il Segretario di Stato del Michigan, Jocelyn Benson, ammette che le macchine di voto Dominion hanno un “errore di programmazione” a livello nazionale che colpisce solo gli elettori disabili e i voti potrebbero non essere conteggiati.
Il VAT è un tipo speciale di dispositivo che le persone con disabilità possono utilizzare per marcare la propria scheda elettorale, che viene poi stampata dalla macchina e inserita nel tabulatore. Quanti elettori disabili pensate che riceveranno questo avviso? Quanti voti sono coinvolti?
Jocelyn Benson è la stessa donna che ha annunciato la concreta possibilità di non avere i risultati in Michigan nel giorno delle elezioni stesse.
Benson è la signora che ha ricevuto finanziamenti da George Soros e ha approvato la spedizione di schede ad elettori che non ne hanno fatto richiesta.
Benson è la stessa che ha ordinato agli impiegati di procedere al conteggio delle schede senza verificare le firme.
Il Michigan e lo Stato in cui si è scoperto che ci sono 500.000 elettori registrati in più rispetto alle persone che hanno diritto a votare.
Benson è la stessa donna che si è rifiutata di togliere il nome di RFK JR dalla scheda elettorale in Michigan per danneggiare Trump.
Il Michigan è uno stato Battleground…
17:15
Bellevue, Seattle, una donna riceve 16 schede elettorali indirizzate al suo numero di appartamento con nomi diversi.
Aggiornamento sondaggio del magnifico Trafalgar Group, l’agenzia sondaggistica più accurata degli Stati Uniti!
In un contesto di elezioni serie e oneste Trump dovrebbe vincere le elezioni; purtroppo però, la serietà e l’onestà non sono parte del processo democratico di voto a stelle e strisce e quindi rimane il serio dubbio sulla vittoria finale, in un momento in cui si moltiplicano le denunce di brogli elettorali…
Un errore di stampa delle schede elettorali nella contea di Nevada, in California, ha causato problemi di scansione di 77.000 schede, impedendo alle macchine per il conteggio delle schede di leggerle correttamente.
16:30
Nella contea di Bucks, in Pennsylvania, lo Stato battleground per eccellenza di queste elezioni, operativi democratici vanno in giro per i seggi elettorali con distintivi fasulli e si spacciano per addetti ai seggi. Allo stesso tempo, i legittimi funzionari elettorali continuano a dire alle lunghe file di elettori di andare a casa e tornare più tardi. Una combinazione orchestrata per scoraggiare e prevenire il maggiore afflusso di elettori repubblicani ai seggi
Il distintivo fasullo dice “Protezione degli elettori”, il che significa che qualsiasi elettore in buona fede supporrebbe che si tratti di un addetto ai seggi.
16:00
La figlia di George W. Bush, Barbara, appoggia Kamala Harris e fa campagna elettorale con la Harris:
15:50
Rocky Mountain High…
L’ufficio del Segretario di Stato del Colorado ha dichiarato di aver inviato per errore cartoline a circa 30.000 non-cittadini incoraggiandoli a registrarsi per il voto, attribuendo l’errore a un problema di database relativo all’elenco dei residenti con patente di guida.
Lo stesso ufficio che qualche giorno fa ha pubblicato “per sbaglio” su internet, accessibile a tutti, le password delle macchine elettorali..:(Dominion) dello stato. Lo stesso ufficio del Segretario di Stato (Democratico) ha dichiarato che oltre 600 password per le macchine di 63 delle 64 contee dello Stato del Colorado sono state pubblicate per sbaglio per essere visualizzate da chiunque.
Il Segretario di Stato democratico del Colorado è una certa Jena Griswold (finanziata da Soros); è la stessa persona che lo scorso anno ha cercato di rimuovere il nome di Trump dalla schede elettorali del Colorado con l’accusa di essere un insurrezionalista per poi essere bloccata dalla Corte Suprema
Promettendo invece ai presenti, un concerto di Beyoncé, 30,000 persone nell’Arena si sono accalcate ad ascoltare il comizio della Harris, per poi fischiare la Harris stessa quando Beyoncè si è presentata sul palco ma ha solo tenuto un breve discorso senza cantare. Costo? 10 milioni di Dollari…
29/10/2024
17:30
Dalla bocca del diretto interessato, autore di un vero cataclisma fra le stanze del potere di Washington
“Jeff Bezos è il proprietario del Washington Post.
Nei sondaggi pubblici annuali sulla fiducia e la reputazione, i giornalisti e i mass media (TRADIZIONALI) sono sempre stati in fondo alla classifica, spesso appena sopra l’indice di approvazione del Congresso. Ma nelsondaggio Gallup di quest’anno siamo riusciti a scendere sotto il Congresso. La nostra professione è ora la meno stimata di tutte. È chiaro che qualcosa che stiamo facendo non funziona.
Permettetemi un analogia. Le macchine per il voto devono soddisfare due requisiti. Devono contare il voto in modo accurato e la gente deve credere che contino il voto in modo accurato. Il secondo requisito è distinto e altrettanto importante del primo.
Lo stesso vale per i giornali. Dobbiamo essere accurati e dobbiamo essere ritenuti accurati. È una pillola amara da ingoiare, ma stiamo fallendo nel secondo requisito. La maggior parte delle persone crede che i media siano di parte (ASSOLUTAMENTE). Chiunque non se ne renda conto presta scarsa attenzione alla realtà, e chi combatte la realtà perde. La realtà è un campione imbattuto. Sarebbe facile incolpare gli altri per la nostra lunga e continua caduta di credibilità (e, quindi, per il declino dell’impatto), ma una mentalità vittimistica non aiuterà. Lamentarsi non è una strategia. Dobbiamo lavorare di più per controllare ciò che possiamo controllare per aumentare la nostra credibilità.
Gli endorsement presidenziali non servono a far pendere l’ago della bilancia di un’elezione. Nessun elettore indeciso in Pennsylvania dirà: “Scelgo l’appoggio del giornale A”. Nessuno. Ciò che gli endorsement presidenziali fanno è creare una percezione di parzialità. Una percezione di non indipendenza. Eliminarli è una decisione di principio, ed è quella giusta”. Eugene Meyer, editore del Washington Post dal 1933 al 1946, la pensava allo stesso modo e aveva ragione. Di per sé, il rifiuto di appoggiare icandidati presidenziali non è sufficiente a farci avanzare di molto nella scala della fiducia, ma è un passo significativo nella giusta direzione. Avrei preferito che il cambiamento fosse avvenuto prima, in un momento più lontano dalle elezioni e dalle emozioni che le hanno accompagnate. Si è trattato di una pianificazione inadeguata e non di una strategia intenzionale.
Vorrei anche chiarire che in questo caso non c’è alcun tipo di contropartita. Né la campagna né il candidato sono stati consultati o informati a qualsiasi livello o in qualsiasi modo di questa decisione. È stata presa interamente a livello interno. Dave Limp, l’amministratore delegato di una delle mie aziende, Blue Origin, ha incontrato l’ex presidenteDonald Trump il giorno del nostro annuncio. Ho sospirato quando l’ho saputo, perché sapevo che avrebbe fornito munizioni a coloro che avrebbero voluto inquadrare questa decisione come qualcosa di diverso da una decisione di principio. Ma il fatto è che non sapevo dell’incontro in anticipo. Nemmeno Limp ne era a conoscenza in anticipo; la riunione è stata fissata rapidamente quella mattina. Non c’è alcun legame tra l’incontro e la nostra decisione di appoggiare le presidenziali, e qualsiasi suggerimento contrario è falso.
Per quanto riguarda l’apparenza del conflitto, non sono il proprietario ideale del Post. Ogni giorno, da qualche parte, qualche dirigente di Amazon o di Blue Origin o qualcuno delle altre filantropie e società che possiedo o in cui investo si incontra con funzionari governativi. Una volta ho scritto che il Post è un “complessante” per me. Lo è, ma a quanto pare sono anche un complesso per il Post.
Si può vedere la mia ricchezza e i miei interessi commerciali come un baluardo contro le intimidazioni, oppure come una rete di interessi contrastanti. Solo i miei principi possono far pendere la bilancia da una parte all’altra. Vi assicuro che le mie opinioni qui sono, in effetti, basate su principi, e credo che i miei precedenti come proprietario del Post dal 2013 lo confermano. Naturalmente siete liberi di fare la vostra scelta, ma vi sfido a trovare un solo caso in questi 11 anni in cui io abbia prevalso su qualcuno del Post a favore dei miei interessi. Non è mai successo.
La mancanza di credibilità non è un’esclusiva del Post. I nostri fratelli giornali hanno lo stesso problema. Ed è un problema non solo per i media, ma anche per la nazione. Molte persone si rivolgono a podcast fuori dagli schemi, a post imprecisi sui social media e ad altre fonti di notizie non verificate, che possono rapidamente diffondere disinformazione e approfondire le divisioni. Il Washington Post e il New York Times fanno incetta di premi, ma sempre più spesso parliamo solo con una certa élite. Sempre più spesso parliamo a noi stessi. (Non è sempre stato così: negli anni ’90 abbiamo raggiunto l’80% di penetrazione nelle famiglie dell’area metropolitana di Washington).
Se da un lato non voglio enon voglio spingere il mio interesse personale, dall’altro non permetterò che questo giornale rimanga in funzione e svanisca nell’irrilevanza – superato da podcast non studiati e da battute sui social media – non senza lottare. È troppo importante. La posta in gioco è troppo alta. Ora più che mai il mondo ha bisogno di una voce credibile, affidabile e indipendente, e dove meglio può nascere questa voce se non nella capitale del Paese più importante del mondo? Per vincere questa battaglia, dovremo esercitare nuovi muscoli. Alcuni cambiamenti saranno un ritorno al passato, altri saranno nuove invenzioni. Le critiche saranno parte integrante di ogni novità, naturalmente. Questo è il modo in cui va il mondo. Non sarà facile, ma ne varrà la pena. Sono molto grato di far parte di questa impresa. Al Washington Post lavorano molti dei migliori giornalisti che si possano trovare ovunque, e ogni giorno si impegnano a fondo per arrivare alla verità. Meritano di essere creduti.”
Una nuova nota dell’intelligence statunitense avverte che le minacce interne “saranno probabilmente un problema” nelle elezioni del 5 novembre e “potrebbero far deragliare o compromettere un processo elettorale equo e trasparente”.
16:00
L’ amministrazione Harris-Biden ha ordinato ai Servizi Segreti di fissare alla recinzione della Casa Bianca 6.000 spuntoni d’acciaio letali, molati a mano. Inoltre a Washington è stata condotta un’esercitazione di risposta alle emergenze. L’addestramento ha incluso una dozzina di elicotteri militari al Campidoglio.
Il regime Biden-Harris si sta preparando per un conflitto militare nella capitale?
15:45
Ci risiamo: Ecco i Russi…
Victoria Nuland dichiara che la Russia sta interferendo nelle elezioni del 2024.
28/10/2024
22:50
E SONO 3!!!
USA Today, il quarto quotidiano più grande della nazione, ha dichiarato di volersi unire al Washington Post e al Los Angeles Times a non appoggiare nessun candidato alle elezioni presidenziali.
Un portavoce del giornale lunedi ha dichiarato al Daily Beast che si concentrerà invece sul fornire “ai lettori i fatti che contano e le informazioni affidabili di cui hanno bisogno per prendere decisioni informate”.
19:30
Il proprietario del Washington Post, Jeff Bezos, avrebbe dato al giornale il mandato di assumere un maggior numero di autori di opinioni conservatrici – NY Post
Continuano a trapelare le informazioni sulla scioccante decisione presa, la settimana scorsa, dal Washington Post di non sostenere la Kamala Harris per le presidenziali del 2024
In un incontro di stamattina con i giornalisti del quotidiano Jeff Bezos ha raddoppiato la dose e contro i giornalisti che minacciano di andarsene se non avesse invertito la rotta e non avesse appoggiato immediatamente Kamala Harris, Bezos avrebbe detto loro che possono “andare a farsi fottere”.
Secondo Bezos il WaPo assumerà una linea editoriale con un connotato più centrista che si preoccupi anche di dare una voce ai conservatori.
A sostegno di questa teoria ci sarebbe un’altra dimissione importante dall’editoriale del giornale, dopo quella di Kagan, Michele Morris.
In questo il tweet Michele Morris stesso, il giornalista del WasPost, presenta la sua versione dei fatti:
“Da ieri ho deciso di dimettermi dal mio ruolo di editorialista del Washington Post – un giornale che amo. In un momento come questo, ognuno deve prendere le proprie decisioni. Questa è la ragione della mia: la decisione del Washington Post di rifiutare un appoggio che era stato scritto e approvato in un’elezione in cui sono in gioco principi democratici fondamentali è stata un terribile errore e un insulto allo standard di lunga data del giornale, che dal 1976 appoggia regolarmente i candidati”. La ragione addotta non giustifica in alcun modo il fatto che il giornale abbia abdicato al suo ruolo di informare e guidare gli elettori, come ha fatto nel fare endorsement in altre gare chiave quest’anno, e come ha fatto nell’appoggiare i candidati che correvano contro Trump sia nel 2016 che nel 2020.”
Siccome non siamo nati ieri, sappiamo che la decisione di Bezos non ha niente a che vedere con una ideologia politica ma è piuttosto una decisione presa per motivi di interesse.
Jeff Bezos sta mitigando l’esposizione al rischio del suo modello di business contro il successo di Larry Ellison (Oracle) e Musk (Tesla,SpaceX) con la loro posizione e influenza nell’imminente amministrazione Trump, visto che sia Musk che Ellison hanno dato il loro sostegno incondizionato a Trump
Questi due personaggi hanno una posizione di grande influenza su MAGA e Trump. Ci sono trilioni di dollari e interessi in gioco…Bezos non vuole rimanere fuori dalla porta…
Totale voti anticipati: 3.875.197 (+548.609 dal 24 ottobre)
Voto per corrispondenza: 1.947.468 voti ( D+6)
Voto anticipato di persona: 1.926.993 voti ( R+27)
Voti per partito registrato:
Repubblicani 44,9% | 1.738.986 voti (+262.928)
Democratico 34,5% | 1.338.852 voti (+164.695)
NPA/Altro 20,6% | 797.360 voti (+120.986)
***
Carolina del Nord
Posta: 144.055 schede elettorali
Presto di persona: 2.448.641 schede elettorali
Schede elettorali per partito di appartenenza:
Repubblicano 34,5% | 893.412 voti (+104.364)
Democratici 33,2% | 861.313 voti (+88.414)
Altro 32,3% | 837.971 voti (+102.829)
***
Pennsylvania
Aggiornamento sul voto per corrispondenza
Totale: 1.402.907 (+118.165 dal 25 ottobre)
Democratici 58,4% | 819.112 voti (+56.040)
Repubblicani 31,2% | 437.017 voti (+46.139)
Altro 10,4% | 145.778 voti (+14.986)
18:10
A una settimana dalle elezioni gli aggregati di tutti i sondaggi ci dicono che Trump è in media ha +0.1 su la Harris a livello nazionale, a +0.2 a livello di Stati Battleground e a +24 a livello di scommesse.
Secondo questi dati NON SIAMO ANCORA OLTRE LA SOGLIA DI SICUREZZA DA ANNULLARE QUALSIASI BROGLIO ELETTORALE CHE I DEMOCRATICI HANNO PROGRAMMATO, ma siamo vicini, la speranza e che in questi ultimi giorni il divario continua a crescere. Un altro punto di percentuale in più metterebbe a sicuro queste elezioni per Trump
17:50
Sondaggio nazionale finale (CES)
Harris: 51% (+4)
Trump: 47%
Indecisi: 3%
Indipendenti: Trump+3
Finale 2020: Biden+8
CES | 10/1-25 | N=48.732LV
***
Sondaggio in NEW HAMPSHIRE
Trump. 50.2% (+0.4)
Harris: 49,8%
NH Journal | 10/24-26 | N=622RV
***
I repubblicani dell’Arizona aumentano il loro vantaggio nel voto anticipato a quasi 100.000 voti
REP: 580.951 (+98.795)
DEM: 482.156
IND: 322.346
***
Sondaggio TEXAS
Presidente:
Trump: 55% (+10)
Harris: 45%
Senato:
Cruz:(R) 52,4% (+4,8)
Allred: (D) 47.6%
ActiVote | 10/21-27 | N=400LV
***
Sondaggio FLORIDA
Presidente:
Trump: 56% (+12)
Harris: 44%
Senato:
Scott: (R) 55% (+10)
Powell: (D) 45%
ActiVote | 10/11-27 | N=400LV
***
Sondaggio in MICHIGAN
Trump: 48% (+1)
Harris: 47%
Senato:
Rogers: (R) 48% (=)
Slotkin: (D) 48%
InsiderAdvantage | 10/26-27 | N=800LV
***
Secondo ABC/538, se Trump vincesse NV, AZ, NC e GA, avrebbe il 93% di possibilità di vincere le elezioni.
Questo presuppone che i candidati mantengano gli altri Stati del 2020.
Ecco perché il voto anticipato è una questione importante.
17:30
Il Partito Repubblicano lancia l’allarme sulla “soppressione degli elettori” in Pennsylvania.
“Gli elettori vengono allontanati, ricevono informazioni errate e viene detto loro che le loro schede non saranno contate. Questa è una vera e propria soppressione degli elettori. Chiediamo un immediato intervento finché ogni voto legale venga scrutinato e contato ”. – RNC
17:15
I repubblicani dell’Arizona aumentano il loro vantaggio nel voto anticipato a quasi 100.000 voti.
REP: 580.951 (+98.795)
DEM: 482.156
IND: 322.346
17:10
Il 6,5% dell’intera popolazione del Nicaragua è entrato negli Stati Uniti durante l’amministrazione Biden-Harris.
02:05
Si sospetta che fino a 30000 schede elettorali falsificate circolino in Colorado. Non riusciamo ad immaginare la reale quantità di schede fasulle non intercettate in questo e negli altri Stati…
00:10
Questo è un articolo inquietante del New York Times pubblicato il 24 di Ottobre:
L’articolo del NYT dice che quattro modi per fermare il MAGA sono falliti; sperare che perdesse le primarie, bandire il Trump dalle schede elettorali, far sì che il GOP (I vertici del partito Repubbliacno) andassero contro la base del partito stesso, i suoi elettori, espellendo Trump dal partito, resistenza infine a tutto campo dell’establishment. Ora raccomanda quella che sembra una rivoluzione colorata.
Rimane una quinta strategia: la mobilitazione della società, in altre parole abolire la democrazia per proteggerla usando metodi da rivoluzione colorata…
La gente deve rendersi conto che, per quanto brutale sia stato questo ciclo elettorale, quando/se Trump vincerà il 5 novembre, la VERA battaglia inizierà il 6 novembre. I Democratici faranno tutto il possibile per impedire che le elezioni vengano certificate e che Trump possa prestare giuramento.
Il testo, tradotto, dell’articolo del NYT sottocitato
Ci sono quattro percorsi anti-Trump cui non abbiamo dato seguito.Ce n’è un quinto.
24 ottobre 2024
Di Steven Levitsky e Daniel Ziblatt
Levitsky e Ziblatt sono professori di governo ad Harvard e autori di “Tyranny of the Minority”.
L’autogoverno democratico contiene un paradosso. È un sistema che si basa sull’apertura e sulla competizione. Qualsiasi partito o politico ambizioso dovrebbe avere la possibilità di candidarsi e vincere. Ma cosa succede se un candidato importante cerca di smantellare questo stesso sistema?
L’America si trova oggi ad affrontare questo problema. Donald Trump rappresenta una chiara minaccia per la democrazia americana. È stato il primo presidente nella storia degli Stati Uniti a rifiutarsi di accettare la sconfitta e ha tentato illegalmente di ribaltare i risultati delle elezioni del 2020. Ora, sul punto di tornare alla Casa Bianca, il signor Trump sta dicendo apertamente agli americani che se vincerà, intende piegare, se non spezzare, la nostra democrazia.
Trump ci ha detto che intende perseguire i suoi rivali politici, tra cui Joe Biden, Kamala Harris, Liz Cheney e altri membri del Comitato ristretto del 6 gennaio; schierare l’esercito per reprimere le proteste e ordinare la deportazione di 15-20 milioni di persone, tra cui alcuni immigrati regolari.
Studiamo le crisi democratiche e l’autoritarismo da 30 anni. Tra noi due, abbiamo scritto cinque libri su questi argomenti. Possiamo pensare a pochi grandi candidati nazionali a una carica in qualsiasi democrazia dalla Seconda Guerra Mondiale che siano stati così apertamente autoritari.
L’opinione che Trump rappresenti una grave minaccia per la democrazia è condivisa dal generale Mark Milley, ex presidente degli Stati Maggiori Riuniti, che lo ha definito “fascista fino al midollo”, e dal suo ex capo di gabinetto John Kelly, generale dei Marines in pensione, che lo ha descritto come un fascista che preferisce la dittatura alla democrazia.
Come può una figura così apertamente autoritaria avere la possibilità di tornare alla presidenza? Perché così tante difese della nostra democrazia sono apparentemente crollate e quali, se ne rimangono?
Abbiamo trascorso l’ultimo anno a ricercare come le democrazie possono proteggersi dalle minacce autoritarie dall’interno. Abbiamo trovato cinque strategie che le forze pro-democratiche di tutto il mondo hanno utilizzato. Nessuna offre una protezione infallibile (nessuna democrazia potrebbe godere di una protezione infallibile e rimanere una democrazia), e alcune di esse presentano importanti svantaggi. Ma la nostra ricerca suggerisce che, di fronte alle minacce estremiste imminenti, queste strategie sono le migliori disponibili.
La tradizionale risposta americana all’estremismo è improntata al laissez-faire, il che rende quasi strano chiamarla strategia. Ci affidiamo al potere autocorrettivo della competizione elettorale. La convinzione è che tutte le opinioni debbano competere liberamente, permettendo al mercato delle idee, o a quello che John Stuart Mill chiamava “la collisione delle opinioni avverse”, di svolgersi. Se lasciamo che tutti i candidati competano, si pensa, le idee e i candidati buoni finiranno per battere quelli cattivi.
La competizione elettorale è, ovviamente, essenziale per la democrazia. Ma un approccio “laissez-faire” ha due importanti limiti. In primo luogo, negli Stati Uniti la competizione è distorta da un’istituzione del XVIII secolo, il Collegio elettorale, che consente ai perdenti delle elezioni di conquistare il potere. In un certo senso, nel 2016 il mercato elettorale ha funzionato come teoricamente dovrebbe: Più americani hanno votato per Hillary Clinton che per Trump. Ma il Collegio elettorale ha permesso a una figura autoritaria che ha ottenuto meno voti di diventare presidente.
Inoltre, la storia ci insegna che la competizione elettorale da sola non è sufficiente a respingere le minacce estremiste. Le buone idee non sempre vincono. E i candidati che cercano di sovvertire la democrazia non sempre perdono. Solo nell’ultimo quarto di secolo, leader come Hugo Chávez in Venezuela, Viktor Orban in Ungheria, Kais Saied in Tunisia e Nayib Bukele in El Salvador hanno ottenuto maggioranze elettorali decisive – e poi hanno usato le loro cariche elettive per minare la concorrenza leale, rendendo quasi impossibile rimuoverli dalla loro carica in modo democratico.
Tuttavia, le democrazie non sono impotenti. Esistono altre quattro strategie per respingere le minacce autoritarie dall’interno. Una di queste è un approccio molto più muscolare, noto come democrazia militante o difensiva. Nata nella Germania occidentale come risposta ai fallimenti democratici dell’Europa degli anni Trenta, la democrazia militante dà alle autorità pubbliche il potere di esercitare lo Stato di diritto contro le forze antidemocratiche. Ossessionati dall’esperienza dell’ascesa al potere di Hitler attraverso le urne, i progettisti costituzionali della Germania Ovest crearono procedure legali e amministrative che consentivano allo Stato di limitare e persino mettere fuori legge discorsi, gruppi e partiti “anticostituzionali”. Negli anni Cinquanta, questi strumenti sono stati utilizzati per bandire sia un partito successore del nazismo sia il Partito Comunista. Oggi le autorità tedesche stanno indagando sul partito di estrema destra Alternativa per la Germania, o AfD.
The Times is committed to publishing a diversity of letters to the editor. We’d like to hear what you think about this or any of our articles. Here are some tips. And here’s our email: letters@nytimes.com.
Ovviamente, il conferimento ai funzionari pubblici del potere di escludere candidati o partiti dalle elezioni presenta notevoli svantaggi e rischi. La squalifica dei candidati distorce la competizione elettorale e limita la scelta degli elettori. Peggio ancora, gli strumenti della democrazia militante sono facilmente abusati dai politici che cercano di mettere in disparte i loro rivali, come è accaduto con una certa frequenza in America Latina.
Tuttavia, la maggior parte delle democrazie contemporanee utilizza elementi di democrazia militante. In Corea del Sud, nel 2014 la Corte Costituzionale ha bandito il Partito Progressista Unificato, ritenendo antidemocratiche le posizioni filo-nordcoreane del partito. In Brasile, la Corte Suprema Elettorale ha l’autorità di impedire ai politici condannati per corruzione e altri reati di candidarsi e una legge per la tutela della democrazia del 2021 ha reso un reato – punibile fino a 12 anni di carcere – il tentativo di rovesciare un governo democratico. L’anno scorso un ex presidente, Jair Bolsonaro, che, come Trump, ha cercato di screditare e poi rovesciare un’elezione, è stato interdetto dai pubblici uffici per otto anni.
Gli Stati Uniti dispongono di uno strumento per squalificare i candidati anticostituzionali: La Sezione III del 14° Emendamento impedisce agli ex funzionari pubblici che hanno “partecipato a insurrezioni o ribellioni” di ricoprire cariche. Destinata a impedire ai leader confederati di ricoprire cariche pubbliche, la Sezione III avrebbe potuto essere utilizzata per squalificare il signor Trump dal voto, come ha stabilito la Corte Suprema del Colorado alla fine del 2023 in merito alle primarie dello Stato. All’inizio di quest’anno, tuttavia, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito che, a meno di una legislazione del Congresso, il 14° Emendamento non può essere utilizzato per escludere Trump dalle elezioni. Con questa decisione, bene o male, l’America ha scelto di rinunciare alla strada della democrazia militante.
Un terzo approccio alla difesa della democrazia è il gatekeeping di parte. In assenza di strumenti legali per bloccare le minacce estremiste, la responsabilità di respingere tali minacce ricade sui partiti politici. In una democrazia sana, i leader dei partiti controllano i propri ranghi, espellendo gli elementi antidemocratici o rifiutando di candidare estremisti o demagoghi alle cariche pubbliche.
I partiti americani sono stati efficaci guardiani per tutto il XX secolo. All’inizio degli anni Venti, Henry Ford, lo schietto fondatore della Ford Motor Company, ammirato da molti americani ma il cui estremismo e antisemitismo erano stati abbracciati da Hitler e dai nazisti, pensò di candidarsi alle presidenziali come democratico. I primi sondaggi lo davano in testa al gruppo dei potenziali candidati. Ma i leader democratici non lo hanno mai preso seriamente in considerazione. Trovando le porte del partito chiuse, Ford abbandonò le sue aspirazioni presidenziali.
Mezzo secolo fa, i leader repubblicani si sono impegnati in un’autopulizia quando si sono uniti alle indagini del Congresso sulle malefatte del presidente Richard Nixon. Quando l’abuso di potere di Nixon fu portato alla luce, i principali leader repubblicani sostennero l’impeachment. Le loro azioni hanno spostato l’opinione pubblica in modo importante. Solo quando un gruppo di legislatori repubblicani si schierò a favore dell’impeachment, a partire dalla fine di luglio del 1974, una chiara maggioranza di americani sostenne la rimozione di Nixon dalla sua carica.
I leader repubblicani di oggi hanno abbandonato il gatekeeping. Anche dopo che Trump ha cercato di ribaltare le elezioni del 2020, lo hanno protetto e sostenuto. Se i repubblicani del Senato avessero votato per condannare e squalificare Trump dopo il suo secondo impeachment, oggi non sarebbe candidato. Ma non l’hanno fatto. E ora, quasi tutti i rappresentanti repubblicani sostengono la candidatura presidenziale di Trump, nonostante abbiano assistito in prima persona al suo assalto alla democrazia e allo Stato di diritto. Prigionieri di un outsider autoritario che avrebbero dovuto tenere fuori, i leader repubblicani ora mettono a rischio, anziché difendere, la democrazia.
Quando gli autoritari arrivano al voto, le forze prodemocratiche possono ricorrere a una quarta strategia: il contenimento, in cui i politici di tutto lo spettro ideologico formano un’ampia coalizione per isolare e sconfiggere gli autoritari. La costruzione di una coalizione multipartitica richiede che i politici mettano temporaneamente da parte molte delle loro ambizioni e obiettivi politici a breve termine. Questo sacrificio è probabilmente nel loro interesse a lungo termine, perché senza istituzioni democratiche, la capacità dei politici di perseguire le loro ambizioni a breve termine e i loro obiettivi politici sarà compromessa.
L’anno scorso, in Polonia, i partiti di opposizione si sono impegnati con successo in un’opera di contenimento. Quando il governo illiberale del Partito Legge e Giustizia ha cercato di ottenere un terzo mandato, l’opposizione polacca, frammentata e ideologicamente diversa, si è unita per sconfiggerlo. La Piattaforma civica di centro-destra dell’ex primo ministro Donald Tusk ha costruito un’alleanza con gli ex comunisti, i verdi, il partito conservatore dei contadini e un partito guidato da Szymon Holownia, personaggio televisivo e aspirante presidente, per affrontare Diritto e Giustizia alle elezioni parlamentari dell’ottobre 2023. I partiti hanno negoziato biglietti unificati – per evitare di dividere i voti – per la corsa al Senato e, dopo aver conquistato insieme la maggioranza dei seggi alle elezioni, hanno eletto un nuovo governo, ponendo fine a quasi un decennio di arretramento democratico.
In diverse occasioni, i partiti francesi hanno contenuto le forze illiberali forgiando quello che chiamano un cordone sanitario– una coalizione elettorale multipartitica volta a isolare e sconfiggere gli estremisti di estrema destra. Questa strategia si è dimostrata straordinariamente vincente a luglio, quando la destra radicale del Rassemblement National di Marine Le Pen era pronta a diventare la più grande forza in Parlamento dopo il primo turno delle elezioni legislative.
Di fronte all’imminente vittoria dell’estrema destra, i leader e gli attivisti dei partiti di tutto lo spettro, compresi i comunisti, i verdi, i socialisti, i centristi e i repubblicani di centro-destra, hanno lavorato insieme, distretto per distretto, per convincere i candidati alleati a ritirarsi e a sostenere un’unica candidatura contro le forze di Marine Le Pen. Nonostante la notevole acrimonia tra i partiti, la strategia è riuscita: Il “fronte repubblicano” unito ha relegato il National Rally al terzo posto.
Negli Stati Uniti, alcuni politici repubblicani hanno abbracciato una strategia di contenimento. In un esempio da manuale, gli ex rappresentanti Liz Cheney e Adam Kinzinger, entrambi repubblicani, hanno collaborato con i democratici nel Comitato della Camera del 6 gennaio. Cheney, Kinzinger, l’ex vicepresidente Dick Cheney e una manciata di altri repubblicani di spicco hanno compiuto l’importante passo di sostenere Kamala Harris per la presidenza, chiarendo che la minaccia rappresentata da Trump supera qualsiasi lealtà di parte o preferenza politica.
Ma il contenimento è difficile in un sistema bipartitico polarizzato. La maggior parte dei repubblicani di spicco che non hanno appoggiato Trump, tra cui il senatore Mitt Romney, l’ex vicepresidente Mike Pence e l’ex presidente George W. Bush, hanno rifiutato di sostenere la signora Harris, scegliendo invece di rimanere in disparte. Altri repubblicani di spicco che avevano dichiarato Trump inadatto alla carica dopo il 2020, come il senatore Mitch McConnell, leader della minoranza, e Nikki Haley, ex governatore della Carolina del Sud e ambasciatrice delle Nazioni Unite, che quest’anno si è candidata contro Trump, ora lo sostengono. Finché i leader repubblicani che in privato considerano Trump un grave pericolo si rifiutano di rendere pubblica questa minaccia, la maggior parte degli elettori repubblicani rimarrà indifferente.
Rimane una quinta strategia: la mobilitazione della società. L’ultimo baluardo di difesa della democrazia è la società civile. Quando l’ordine costituzionale è minacciato, i gruppi influenti e i leader della società – dirigenti, leader religiosi, leader sindacali e importanti funzionari pubblici in pensione – devono parlare, ricordando ai cittadini le linee rosse che le società democratiche non devono mai oltrepassare. E quando i politici oltrepassano queste linee rosse, le voci più importanti della società devono ripudiarli pubblicamente e con forza.
Un esempio recente di mobilitazione sociale è la reazione dell’opinione pubblica tedesca alla rivelazione di un incontro segreto del novembre 2023 in cui i leader dell’estrema destra AfD si sono incontrati con gruppi neonazisti e hanno discusso un piano per la deportazione di massa degli immigrati, compresi i cittadini tedeschi nati all’estero.
Quando l’incontro è venuto alla luce, i presidenti dei consigli di amministrazione di Mercedes-Benz e Porsche si sono uniti ai principali leader sindacali per condannare l’estremismo ed esprimere pubblicamente il loro sostegno alla democrazia, alla diversità e alla tolleranza. Allo stesso tempo, una rete di piccole imprese ha dato vita all’iniziativa Business for Democracy e ha pubblicato una dichiarazione, firmata da oltre 300 leader aziendali, che difende la democrazia e dichiara che “la dignità umana è inviolabile”. In seguito, l’amministratore delegato della Siemens ha ripudiato pubblicamente le politiche dell’AfD e ha dichiarato che era giunto il momento di “alzarsi e intervenire”.
Anche la Chiesa cattolica ha risposto con forza. I rappresentanti di tutti i 27 vescovati tedeschi hanno rilasciato una dichiarazione che condanna il nazionalismo di destra e dichiara:
I partiti estremisti di destra e quelli che si avvicinano a tali ideologie non possono essere un luogo di impegno politico per i cristiani. Questi partiti non sono eleggibili. … Chiediamo a tutti i concittadini … di rifiutare chiaramente le offerte politiche dell’estrema destra”.
Queste dichiarazioni pubbliche hanno avuto luogo sullo sfondo delle più grandi manifestazioni di piazza nella storia della Repubblica Federale Tedesca. Le manifestazioni sono state organizzate da una coalizione della società civile chiamata “Mano nella mano”, che comprendeva 1.300 organizzazioni diverse, tra cui sindacati, chiese, associazioni di medici, agenzie di protezione dei rifugiati e persino gruppi ambientalisti. Milioni di cittadini di tutto lo spettro politico si sono riuniti settimana dopo settimana nelle grandi città e nei piccoli centri in difesa della democrazia. Sebbene l’AfD rimanga molto popolare in diversi Stati della Germania orientale, il suo sostegno nazionale è diminuito di circa il 25% dall’inizio del movimento di protesta.
Quando il presidente Bolsonaro ha iniziato a minacciare le istituzioni democratiche in vista delle elezioni del 2022, la società civile brasiliana si è mobilitata in modo simile. Bolsonaro ha minacciato la Corte Suprema, ha attaccato la legittimità del sistema elettorale e ha cercato di smantellare il sistema di voto elettronico del Brasile. Ciò ha stimolato la mobilitazione di gruppi imprenditoriali, religiosi e civici, che hanno prodotto una serie di lettere pubbliche di alto profilo in difesa della democrazia. Nel luglio 2022, la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di San Paolo ha organizzato una lettera in difesa della democrazia, in cui si dichiarava:
Sappiamo come mettere da parte le piccole differenze per… difendere l’ordine democratico… A prescindere dalle preferenze elettorali o partitiche individuali, invitiamo i brasiliani a rimanere vigili nella difesa della democrazia e nel rispetto dei risultati elettorali. Nel Brasile di oggi non c’è spazio per un ritorno autoritario.
La lettera è stata firmata dall’ex Presidente Fernando Henrique Cardoso, da nove giudici della Corte Suprema in pensione e dai dirigenti di molte delle maggiori banche e imprese brasiliane. Come ha detto un politologo brasiliano, la lettera “ha messo la questione della democrazia nell’agenda elettorale”.
Il mese successivo, la principale associazione imprenditoriale brasiliana, la Federazione delle Industrie di San Paolo, ha guidato una dichiarazione, firmata dalla Federazione delle Banche del Paese, dalla Camera di Commercio e dall’Accademia delle Scienze, dall’Ordine degli Avvocati di San Paolo e da oltre 100 altre organizzazioni, che ha difeso la democrazia come “essenziale” per il futuro del Brasile e ha affermato un “impegno incrollabile verso le istituzioni e i principi fondamentali dello Stato di diritto”.
Infine, nell’ottobre 2022, mentre il Brasile si avviava al ballottaggio tra Bolsonaro e l’ex presidente Lula da Silva, i vescovi cattolici di tutto il Brasile hanno pubblicato una “Lettera al popolo di Dio”, che invitava i cattolici a respingere Bolsonaro. La lettera dichiara che “rimanere neutrali non è un’opzione quando si tratta di scegliere tra due visioni per il Brasile – una democratica e l’altra autoritaria” …. La Chiesa non ha un partito politico, né mai lo avrà, ma prende posizione”.
Bolsonaro ha perso per poco il ballottaggio e il suo tentativo di ribaltare i risultati delle elezioni ha incontrato un rifiuto pubblico schiacciante.
Negli Stati Uniti, la risposta civica alla minaccia di Trump è stata tiepida. Per un momento, i leader economici sembravano pronti a difendere la democrazia. Dopo l’insurrezione del 6 gennaio, molte aziende leader negli Stati Uniti hanno annunciato che non avrebbero contribuito ai legislatori che avessero votato per la decertificazione dei risultati delle elezioni del 2020.
Purtroppo, la maggior parte di queste aziende – tra cui AT&T, Boeing, Comcast, G.E., General Motors, Home Depot, Lockheed Martin, Pfizer, UPS, Verizon e Walmart – ha presto abbandonato l’impegno. Politico ha identificato più di 100 aziende e gruppi commerciali che si sono impegnati a sospendere o rivedere le donazioni ai negazionisti elettorali all’inizio del 2021. Più di 70 di loro hanno ripreso i contributi ai negazionisti prima delle elezioni di metà mandato del 2022. Complessivamente, ProPublica ha scoperto che almeno 276 aziende Fortune 500 hanno contribuito ai negazionisti delle elezioni congressuali.
All’avvicinarsi delle elezioni del 2024, molti dirigenti americani hanno pubblicamente minimizzato la minaccia rappresentata da Trump. Sam Altman, fondatore di OpenAI, ha dichiarato che “l’America andrà bene… indipendentemente da ciò che accadrà in queste elezioni”, mentre Jamie Dimon, amministratore delegato di JPMorgan Chase, ha affermato che la sua azienda “sopravviverà e prospererà” sotto il candidato di entrambi i partiti. Dimon, considerato influente negli ambienti finanziari, ha sostenuto privatamente la signora Harris ma si è dichiarato pubblicamente indeciso nelle ultime settimane delle elezioni.
Sebbene molti singoli leader aziendali si siano adoperati per difendere la democrazia, le principali associazioni imprenditoriali nazionali, come la Business Roundtable e la Camera di Commercio degli Stati Uniti, sono rimaste in disparte, rifiutandosi di ripudiare l’autoritarismo di Trump.
Anche molti leader religiosi americani sono rimasti in silenzio. La maggior parte dei leader evangelici di spicco è rimasta in silenzio o ha appoggiato Trump. Per fare un esempio, Franklin Graham, pur affermando di essere al di sopra della mischia partitica, ha invitato i suoi seguaci a “pregare per l’ex presidente Donald Trump. I suoi nemici vogliono fare tutto il possibile per distruggerlo”.
Anche i leader cattolici non si sono espressi. Sebbene la Conferenza episcopale degli Stati Uniti abbia rilasciato una dichiarazione pubblica di condanna dell’insurrezione del 6 gennaio, è stata, nelle parole dello scrittore cattolico Thomas Reese, “notevolmente silenziosa” di fronte alla successiva rinascita di Trump. Nel novembre 2023, la Conferenza episcopale ha pubblicato un documento per l’anno elettorale intitolato “Formare le coscienze per una cittadinanza fedele”, come fa ogni quattro anni. La lettera elencava l’aborto come “priorità preminente”, ma non menzionava la difesa della democrazia. La Conferenza episcopale statunitense ha criticato aspramente le politiche di immigrazione della prima amministrazione Trump, ma a differenza della risposta dei vescovi tedeschi ai piani di deportazione di massa dell’AfD, non ha denunciato pubblicamente i piani di deportazione di massa dello stesso Trump.
L’establishment statunitense sta camminando nel sonno verso una crisi. Una figura apertamente antidemocratica ha almeno il 50% di possibilità di vincere la presidenza. La Corte Suprema e il Partito Repubblicano hanno abdicato alle loro responsabilità di controllo, e troppi dei più influenti leader politici, economici e religiosi americani rimangono ai margini. Incapaci di superare le paure o le ambizioni limitate, si limitano a fare le loro scommesse. Ma il tempo sta per scadere.
Cosa stanno aspettando?
27/10/2024
ore 23:50
OLTRE 94.500 PERSONE AL COMIZIO DEL PRESIDENTE TRUMP AL MADISON SQUARE GARDEN DI NEW YORK!
L’arena ha raggiunto la capienza massima di 19.500 persone e la polizia di New York ne ha segnalate 75.000 all’esterno!
Questo è dei più grandi raduni nella storia della politica americana.
ore 23:20
NEW JERSEY Aggiornamento sul voto anticipato di persona: dopo il primo giorno
DEM: 38,5% (+1,2)
REP: 37,3%
IND: 23,5%
Paragonato al primo giorno del 2022: D+19,1
22:55
Da New York City chiaro messaggio a Donald Trump…
ore 07:20
I leader dell’Unione Europea sono nervosi per il possibile insediamento del Presidente Trump: (1) porre fine alla guerra in Ucraina, e poi (2) porre fine al Piano Marshall, tassando così le loro esportazioni verso gli Stati Uniti. Trump richiede la reciprocità tariffaria; infine, (3) costringerli a pagare per i loro precedenti impegni NATO.
Bruxelles ha istituito un ufficio difensivo all’interno della burocrazia dell’UE chiamato “Task Force Trump”. “Dodici diplomatici dell’Unione Europea hanno incontrato gli ambasciatori del blocco per discutere cosa comporterebbe la vittoria di Donald Trump alle elezioni statunitensi”, hanno dichiarato a POLITICO.
BRUXELLES – I più alti funzionari dell’Unione Europea si sono incontrati con gli ambasciatori del blocco per parlare di cosa significherebbe se Donald Trump vincesse le elezioni americane, hanno dichiarato 12 diplomatici dell’UE a POLITICO.
“Sono preoccupati per il commercio, ma soprattutto per l’Ucraina”, ha detto uno dei diplomatici, aggiungendo che Bruxelles prevede “bruschi cambiamenti nella politica statunitense anche prima dell’insediamento”. Al diplomatico, come ad altri citati in questo articolo, è stato concesso l’anonimato per parlare con franchezza;
Le conversazioni si sono concentrate su due aree di incertezza nel caso in cui il candidato repubblicano dovesse reclamare la Casa Bianca: Se Washington continuerà a sostenere l’Ucraina e la prospettiva di un aumento delle tariffe statunitensi per tutte le merci in entrata;
Gli incontri, riportati per la prima volta da POLITICO’s Brussels Playbook, avvengono mentre il timore di un ritorno dell’ex presidente americano Trump alla Casa Bianca permea i vertici del potere nella capitale europea. Piccoli gruppi di ambasciatori dei 27 Paesi dell’UE si sono incontrati giovedì e venerdì con i più alti funzionari di Bruxelles, tra cui il capo dello staff della Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, Björn Seibert, e i rappresentanti di diversi dipartimenti della Commissione che si occupano di temi come il commercio e l’energia.
Gli incontri si sono svolti in concomitanza con la notizia che il blocco ha istituito una forza di reazione rapida per prepararsi alle conseguenze delle elezioni, nota colloquialmente come “task force Trump”. L’UE vuole contattare duramente il commercio in caso di vittoria di Trump;
Trump ha avvertito che non difenderà gli alleati NATO “delinquenti” che spendono meno del 2% del PIL per la difesa. E ha minacciato di imporre tariffe dal 10 al 20% su tutte le importazioni per riportare negli Stati Uniti i posti di lavoro nel settore manifatturiero. Giovedì Trump ha definito l’UE una “mini Cina”;
“Non prendono le nostre auto, non prendono i nostri prodotti agricoli, non prendono nulla. Avete un deficit di 312 miliardi di dollari con l’UE. L’UE è una mini – ma non così mini – è una mini Cina”, ha dichiarato;
Tre diplomatici hanno detto che le discussioni hanno toccato anche le relazioni dell’UE con la Cina, con Trump destinato a inimicarsi ancora di più Pechino. Gli incontri coinvolgono sei dipartimenti della Commissione e riguardano temi come il commercio, l’energia e la politica digitale – settori che potrebbero subire turbolenze se Trump tornasse alla Casa Bianca.
Anche se una presidenza Harris non sarebbe così dirompente come un’amministrazione Trump, l’esecutivo dell’UE vuole dimostrare di essere pronto a qualsiasi evenienza, ha dichiarato uno dei diplomatici;
“Ci stiamo preparando per le elezioni americane. Sono stati presi in considerazione tutti i possibili esiti. Siamo impegnati a mantenere una stretta collaborazione con gli Stati Uniti”, ha dichiarato Arianna Podestà, portavoce della Commissione;
Koen Verhelst ha contribuito con un servizio.
ore 07:10
AUMENTO DELL’IMMIGRAZIONE CLANDESTINA NEGLI STATI BATTLEGROUND SOTTO BIDEN-HARRIS
Dall’inizio dell’amministrazione Biden-Harris, la popolazione di immigrati clandestini ha subito un’impennata in diversi swing states.
Il Michigan è in testa con uno sbalorditivo aumento del 775%, seguito dall’Arizona con il 734%, dal Nevada con il 562% e dal Wisconsin con il 467%. Il North Carolina ha registrato un aumento del 446%, la Georgia del 401% e la Pennsylvania del 241%.
Queste cifre potrebbero avere importanti implicazioni per il panorama politico di questi Stati chiave.
ore 07:05
“L’Obiettivo è La Pace!”: Durante il raduno in Michigan i leader musulmani appoggiano convintamente il presidente Donald Trump. “Noi, come musulmani, siamo al fianco del presidente Trump perché promette la PACE – NON LA GUERRA!”
Trump è stato appena appoggiato da numerosi imam, sindaci e leader della comunità musulmana del Michigan.
Nessun repubblicano ha mai ricevuto questo tipo di sostegno prima d’ora.
Il duo Kamala-Biden ha creato un programma che prevede l’ingresso negli Stati Uniti di un numero di stranieri haitiani “inammissibili” fino a due volte superiore a quello dei bambini nati nell’intero Stato dell’Ohio.
– Il 47% (401.000 / 860.000) dei bambini ispanici nati negli Stati Uniti nel 2023 ha una madre nata fuori dagli Stati Uniti.
– Il 53% (401.000 / 760.000) delle nascite negli Stati Uniti da una madre non statunitense è costituito da una madre ispanica non statunitense.
ore 06:50
TEIXEIRA: IL MOMENTO PROGRESSISTA È FINITO
L’opinionista politico democratico Ruy Teixeira dichiara che “Il momento progressista è finito”. Scrive:
“Non è passato molto tempo da quando i progressisti stanno cavalcando l’onda. Avevano momento, davvero. I loro punti di vista radicali stabilivano l’agenda e il tono del Partito Democratico e, soprattutto nelle aree culturali, erano egemoni nel discorso nazionale. …
* Ridurre la polizia e svuotare le carceri? Certo!
* Abolire l’Ufficio Immigrazione e depenalizzare il confine? Assolutamente sì!
* Sbarazzarsi dei combustibili fossili e avere un “New Deal verde”? Sicuramente!
* Chiedere trilioni di dollari per un progetto di legge “trasformativo” per una ricostruzione migliore? Abbiamo appena iniziato!
* Promuovere il Woke e la lotta per l’equità” (non le pari opportunità) ovunque? È l’unico modo per combattere il privilegio!
* Insistere sul fatto che una nuova ideologia sulla razza e sul genere debba essere accettata da tutti? Naturalmente, solo un bigotto potrebbe opporsi! …
In realtà, molte di queste idee erano piuttosto terribili e la maggior parte degli elettori, al di fuori dei recinti della stessa sinistra progressista, non è mai stata molto interessata ad esse. Questo era vero fin dall’inizio, ma ora il contraccolpo contro queste idee è abbastanza forte da non poter essere ignorato. Di conseguenza, la politica si sta adeguando e il momento progressista è davvero finito. …
Come mai il momento progressista è crollato, apparentemente nel momento del suo massimo trionfo? Non è difficile pensare ad alcune ragioni.
1. Allentare le restrizioni sull’immigrazione clandestina era un’idea terribile e gli elettori la detestano. …
2. Promuovere il lassismo nell’applicazione della legge e la tolleranza del disordine sociale è stata un’idea terribile e gli elettori la odiano. …
3. Insistere sul fatto che tutti debbano guardare a tutte le questioni attraverso le lenti della politica identitaria è stata un’idea terribile e gli elettori la odiano. …
4. Dire alla gente che i combustibili fossili sono il male e che devono smettere di usarli è stata un’idea terribile e gli elettori la odiano. …
Cosa succederà dopo? Certamente Harris sta facendo furiosamente marcia indietro da tutte queste posizioni, ma non è un messaggero particolarmente convincente per un nuovo approccio e non è nemmeno in grado di articolare quale potrebbe essere questo nuovo approccio. Con ogni probabilità, ci vorrà del tempo prima che un nuovo momento emerga e influenzi i Democratici come ha fatto il momento progressista”.
26/10/2024
18:05
Abbiamo accennato alle esercitazioni cibernetiche di Atlanta nel giorno delle elezioni. È incredibile ma dopo che il senatore@RandPaul ha iniziato a fare domande sul perché il DHS (Department Of Homeland Security) stesse facendo un’esercitazione informatica su larga scala ad Atlanta nel giorno delle elezioni, il DHS ha rinviato l’intero evento, dando la colpa alla “disinformazione”. Il DHS è una delle nostre agenzie più corrotte, politicizzate e totalitarie…
18:00
I giovani stanno abbandonano il Partito Democratico:
– 2016: Il 51% dei giovani uomini si è identificato o propende per il Partito Democratico.
– 2023: Questo numero è sceso al 39%.
17:45
Parole forti di Bobby Kennedy contro la Food and Drug Administration (Agenzia per gli alimenti e i medicinali, abbreviato in FDA):
“ La guerra della FDA alla salute pubblica sta per finire. Ciò include la soppressione aggressiva di psichedelici, peptidi, cellule staminali, latte crudo, terapie iperbariche, composti chelanti, ivermectina, idrossiclorochina, vitamine, cibi puliti, sole, esercizio fisico, nutraceutici e qualsiasi altra cosa che faccia progredire la salute umana e non possa essere brevettata dalla Pharma. Se lavorate per la FDA e fate parte di questo sistema corrotto, ho due messaggi per voi: 1. Conservate i vostri documenti e 2. Preparate le valigie.”
17:40
I funzionari elettorali del Colorado hanno scoperto schede fraudolente inviate per posta. Ma secondo il video conteggeranno lo stesso questi voti (rubati) alle prossime elezioni…
17:30
“E allora cosa intendono fare? L’intera redazione del Post dovrebbe dimettersi”.
“Come nativa di Washington e abbonata da sempre al Post, sono disgustata. Ci avete perso.”
“ Alla faccia di “La democrazia muore nelle tenebre”. Questa è la mossa più ipocrita e da cacasotto da parte di una pubblicazione che dovrebbe chiedere conto a chi detiene il potere.”
Il mancato appoggio del WasPost alla Harris ha colpito la Susan Rice come una gastroenterocolite. La Rice esprime la sua Rabbia per il mancato sostegno del Washington Post a Kamala Harris con una serie di Tweet su X.
Dalla reazione dei neocon e dei poteri forti ci sembra che Jeff Bezos si sia attirato più di qualche maledizione. Fossi in Bezos mi guarderei alle spalle…
Ora sappiamo come sono andate le cose al Los Angeles Time dopo il mancato appoggio alla Harris: Ecco la figlia del proprietario del LA Times, Patrick Soon-Shiong, che spiega: il mancato appoggio del giornale è dovuto al sostegno che Biden/Harris continuano a dare alla guerra di Israele a Gaza.
“Per me il genocidio è una linea nella sabbia”.
Dobbiamo credere a quello che dice? E stato realmonte per la situazione a Gaza che il proprietario del L.A. Times ha bloccato il consiglio editoriale dal rendere l’appoggio a Harris ufficiale?
Cosa sta succedendo?. Altro terremoto: La famosa rivista di sinistra ‘The Nation’ ritira l’appoggio a Kamala Harris: “Kamala Harris non merita l’appoggio di The Nation”.
Qualcosa non quadra. Non è possibile che organizzazioni di sinistra, portavoci dell’establishment politicoe dei poteri forti non appoggiano più Kamala. Tutti sapevano che la Harris era una pessima scelta, eppure sono andati avanti come se il candidato scelto non avesse importanza. C’è qualcosa di sospetto nell’aria. Ottobre non è ancora finito..
07:30
La storia della mancato appoggio a Kamala Harris da parte del Washington Post ha preso una piega tutta particolare, un carattere esplosivo in grado di destabilizzare le stanze del potere di Washington.
Dall’ultimo aggiornamento di ieri sera, quando abbiamo dato pressoché in diretta la notizia della decisione, scioccante aggiungerei, del Washington Post di non sostenere nessun candidato alle elezioni presidenziali, sappiamo ora che è stato lo stesso Jeff Bezos, proprietario del quotidiano, a interdire l’appoggio del direttore del Washington Post a Kamala Harris. La decisione ha scatenato un vero terremoto tra giornalisti e personale del quotidiano.
Il fungo della mini bomba atomica ora comincia a diradarsi e cominciano ad apparire le macerie. La più significativa è l’annuncio delle dimissioni di Robert Kagan.
Tutti coloro che si occupano di politica negli Stati Uniti sanno che il Washington Post, di proprietà della Big Tech Amazon, è di fatto la società di pubbliche relazioni della Central Intelligence Agency (CIA). Non c’è nessuno all’interno della cerchia di Washington che non conosca questa verità di base.
Pertanto, quando Robert Kagan, marito della funzionaria del Dipartimento di Stato, la neocon Victoria Nuland, decide di dimettersi, qualcosa di grosso bolle in pentola.
Voglio ricordare che in una conversazione fatta circa un anno fa fa su questo sito citammo l’articolo di pugno dello stesso Kagan che incitava indirettamente all’assasinio di Trump.
Kagan ha stilato la sentenza sul quotidiano della CIA, chiedendo di fatto che il Presidente Trump ricevesse il trattamento riservato a Giulio Cesare. Il messaggio era più che chiaro; l’auspicio era che la CIA ripetesse la performance di Kennedy riservando la stessa attenzione al Presidente Trump.
Per quanto allarmante possa sembrare questa interpretazione, non ci sono persone intellettualmente oneste che la possano negare
.
Bisognerà vedere come andrà a finire questa storia, in stile dramma kafkiano, nella capitale del morente impero a stelle e strisce.
Comunque vadano le cose, Jeff Bezos ha costruito una delle aziende più profittevoli del mondo. Il personale del Washington Post non ha costruito nulla e deve essere sovvenzionato. I parassiti hanno bisogno di ospiti; gli ospiti non hanno bisogno di parassiti. Bezos avrà avuto i suoi motivi e ha tutto il diritto, come proprietario del WasPost, di dettare la linea editoriale. Bisogna solo chiedersi cosa lo avrà spinto a prendere questa decisione…
25/10/2024
22:30
Cosa succede a Washington?
Con un editoriale esplicativo della propria decisione, l’editore del Washington Post, Will Lewis, ha dichiarato: “Riconosciamo che questa decisione sarà letta in vari modi, come un tacito appoggio a un candidato, come una condanna di un altro, come un’indicazione di responsabilità. È inevitabile”.
“Ci rendiamo conto che questo verrà letto in diversi modi, anche come un tacito appoggio a un candidato, come una condanna di un altro, come un’indicazione di responsabilità. È inevitabile. Noi non la vediamo in questo modo. Lo consideriamo coerente con i valori che il Post ha sempre sostenuto e che auspichiamo in un leader: carattere e coraggio al servizio dell’etica americana, venerazione per lo stato di diritto e rispetto per la libertà umana in tutti i suoi aspetti. La consideriamo anche una dichiarazione a sostegno della capacità dei nostri lettori di decidere da soli su questa che è la più importante delle decisioni americane: chi votare come prossimo presidente. l nostro compito al Washington Post è quello di fornire, attraverso la redazione, notizie non di parte per tutti gli americani, opinioni stimolanti riportate dal nostro team di opinionisti per aiutare i nostri lettori a farsi una rappresentazione personale. Soprattutto, il nostro compito di giornale della capitale del Paese più importante del mondo è quello di essere indipendenti. E questo è ciò che siamo e saremo”. (leggi l’annuncio completo)
Se si accetta il fatto che il Washington Post è la società di pubbliche relazioni per la comunità dell’intelligence, c’è evidntemente qualcosa di grosso che bolle in pentola. Questa è la seconda grande testata a rifiutare l’appoggio a Harris. Anche il Los Angeles Times non ha appoggiato il candidato democratico. Sarà che Kamala Harris sia davvero così nociva?
Il team Obama deve essere furioso per essere stato abbandonato sia dal Los Angeles Times che dal Washington Post. Si tratta di un cambiamento ideologico sismico che indica che l’ago della bilancia delle elezioni sta favorendo pesantemente il Presidente Trump?
Questo cambiamento segue anche al rifiuto di diverse organizzazioni sindacali di appoggiare Kamala.
Non si sa come la pensi il proprietario del Washington Post, Jeff Bezos, in merito alla decisione presa dal giornale, ma dubito che non abbia dato il suo assenso all’operazione.
Secondo informazioni riservate che ci giungono da Washington, i giornalisti e i dipendenti in generale del Washington Post sarebbero furiosi per la decisione presa dai vertici del giornale di non sostenere ufficialmente la candidatura di Harris. Molti starebbero valutando quali azioni intraprendere; tra queste le dimissioni, l’abbandono del consiglio di amministrazione o un comunicato ufficiale congiunto a condanna della decisione dell’amministrazione del giornale.
Rimangono da capire i reali motivi di questo passo: è chiaro che Kamala Harris non è rispettata né tenuta in considerazione; non appoggiare però ufficialmente Harris vuol dire, tacitamente, accettare la possibilità che Trump vinca queste elezioni.
Il pessimista in me dice che questa mossa del Washington Post vuol dire semplicemente, che dopo il 5 di Novembre, cioè dopo le elezioni, il paese o per un nuovo furto perpetrato ai danni di Trump (quindi con la probabile reazione non tanto pacifica questa volta delle masse MAGA) o per la reazione inconsulta degli elettori di Harris dopo aver perso legittimamente contro “Hitler” (ne sappiamo qualcosa della vocazione distruttiva delle orde sorosiane di Black Life Matter), il Post semplicemente si cautela così: “Non guardate a noi. Non abbiamo appoggiato nessuno”…
La mia parte ottimista invece vuol credere che lo stato profondo si sia arreso e permetterà a Trump di vincere. Ma cosa succederà dopo?
Rimane una certezza! È indubbio che hanno gravemente sopravvalutato Harris quando hanno deciso di sostituire Biden. Ora si trovano di fronte ad un dilemma esistenziale e forse per la prima volta, visto come si stanno mettendo i sondaggi e visto il team di giustizieri (politicamente parlando), Kennedy, Gabbard, Musk, allestito da Trump, c’è` panico nei centri di potere di Washington..?
Invitiamo i lettori a commentare con le loro ipotesi
22:15
Opinione
Sull’appoggio politico
Una nota dell’editore:
4 min.
Da William Lewis
William Lewis è editore e amministratore delegato del The Washington Post.
Il Washington Post non appoggerà alcun candidato alla presidenza in queste elezioni. Né in nessuna elezione presidenziale futura. Stiamo tornando alle nostre radici di non appoggiare i candidati presidenziali.
Come scrisse il nostro comitato editoriale nel 1960:
“Il Washington Post non ha “appoggiato” nessuno dei due candidati nella campagna presidenziale. Questo è nella nostra tradizione e corrisponde al nostro comportamento in cinque delle ultime sei elezioni. Le circostanze insolite delle elezioni del 1952 ci hanno indotto a fare un’eccezione quando abbiamo appoggiato il generale Eisenhower prima delle convention di nomina e abbiamo ribadito il nostro appoggio durante la campagna elettorale. Alla luce del senno di poi, continuiamo a ritenere che gli argomenti a favore della sua nomina e della sua elezione fossero convincenti. Ma il senno di poi ci ha anche convinti che sarebbe stato più saggio per un giornale indipendente della Capitale evitare un appoggio formale”.
Il comitato editoriale ha fatto altre due osservazioni – prima di un’elezione vinta da John F. Kennedy – che risuoneranno con i lettori di oggi:
“Le elezioni del 1960 sono certamente importanti come quelle di questo secolo. Questo giornale non è in alcun modo indifferente alle sfide che il Paese deve affrontare. Come i nostri lettori sapranno, abbiamo cercato di chiarire negli editoriali la nostra convinzione che, nella maggior parte dei casi, uno dei due candidati ha dimostrato una comprensione più profonda dei problemi e una maggiore capacità di leadership”.
Tuttavia, ha concluso:
“Tuttavia, ci atteniamo alla nostra tradizione di non appoggiare le elezioni presidenziali. Abbiamo detto e continueremo a dire, nel modo più ragionevole e sincero possibile, ciò che pensiamo sulle questioni emergenti della campagna. Abbiamo cercato di arrivare alle nostre opinioni nel modo più equo possibile, con la guida dei nostri principi di indipendenza, ma liberi da impegni con qualsiasi partito o candidato”.
E ancora nel 1972, il Comitato editoriale si pose, e poi rispose, a questa domanda cruciale prima di un’elezione vinta dal presidente Richard M. Nixon: “Nel parlare della scelta del Presidente degli Stati Uniti, qual è il ruolo di un giornale? … La nostra risposta è che siamo, come proclama la nostra testata, un giornale indipendente e che, con un’unica eccezione (il nostro sostegno al Presidente Eisenhower nel 1952), non è nostra tradizione dare un appoggio formale ai candidati alla presidenza. Non ci viene in mente alcun motivo per discostarci da questa tradizione quest’anno”.
Era un ragionamento forte, ma nel 1976, per ragioni comprensibili all’epoca, abbiamo cambiato questa politica di lunga data e abbiamo appoggiato Jimmy Carter come presidente. Ma avevamo le carte in regola anche prima, ed è a questo che torniamo.
Riconosciamo che questo verrà letto in vari modi, come un tacito appoggio a un candidato, o come una condanna di un altro, o come un’abdicazione di responsabilità. È inevitabile. Noi non la vediamo così. Lo consideriamo coerente con i valori che il Post ha sempre sostenuto e che auspichiamo in un leader: carattere e coraggio al servizio dell’etica americana, venerazione per lo Stato di diritto e rispetto per la libertà umana in tutti i suoi aspetti. La consideriamo anche una dichiarazione a sostegno della capacità dei nostri lettori di decidere da soli su questa che è la più importante delle decisioni americane: chi votare come prossimo presidente.
Il nostro compito al Washington Post è quello di fornire, attraverso la redazione, notizie non di parte per tutti gli americani e opinioni stimolanti e riportate dal nostro team di opinione per aiutare i nostri lettori a farsi un’opinione personale.
Soprattutto, il nostro compito di giornale della capitale del Paese più importante del mondo è quello di essere indipendenti.
I funzionari di Lancaster, in Pennsylvania, hanno stroncato uno schema di registrazione elettorale fraudolenta di elettori su larga scala che comprendeva migliaia di domande di schede elettorali con la stessa calligrafia, firme false, indirizzi falsi, etc.
15:00
Biden ha attuato una politica di trasporto, dal loro paese di origine, direttamente all’interno degli Stati Uniti di immigrati illegali, bypassando il confine col Messico, arrivando a trasportarne fino a 45.000 al mese da vari Paesi. Dal lancio di questa politica, nel tardi 2023, sono stati trasportati oltre 823.000 individui.
A titolo di confronto, nei 10 anni precedenti a questa iniziativa ne sono state trasferite solo 65.000.
Un numero enorme di persone trasportate direttamente negli Stati battleground (cioè dove si decidono le elezioni) e messe sulla corsia preferenziale per la cittadinanza.
Si può definire Importazione di voti, il modo per il Partito Democratico di assicurarsi la cannibalizzazione di tutto il paese dando ai poteri forti, rappresentati dal partito democratico, una vittoria perenne e permanente..
14:30
Il sondaggio FINALE sulle elezioni 2024 del New York Times è stato appena pubblicato.
2024: In virtuale Pareggio
Nel 2020: Biden+9
Nel 2016: Clinton+4
14:15
CAROLINA DEL NORD
Posta: 134.428 schede elettorali
In persona: 2.162.661 schede elettorali
Schede elettorali per partito di appartenenza:
Repubblicano 34,3% | 789.048 voti (+102.419)
Democratici 33,6% | 772.899 voti (+89.634)
Indipendenti 32,1% | 735.142 voti (+96.868)
FLORIDA
Totale voti anticipati: 3.326.588 (+514.007 dal 23 ottobre)
Voto per corrispondenza: 1.804.278 voti ( D+6)
Voto anticipato di persona: 1.521.742 voti ( R+27)
Repubblicani 44,4% | 1.476.058 voti (+251.090)
Democratici 35,3% | 1.174.157 voti (+153.760)
NPA/Altro 20,4% | 676.374 voti (+109.157)
PENNSYLVANIA
Aggiornamento sul voto per corrispondenza
Totale: 1.208.063 (+84.554 dal 23 ottobre)
Democratici 60,1% | 726.619 voti (+41.895)
Repubblicani 29,8% | 360.527 voti (+32.453)
Altro 10,1% | 120.917 voti (+10.206)
NEVADA
Aggiornamento sul voto anticipato e per corrispondenza
Totale schede restituite per posta: 221.116 ( D+12)
Totale schede elettorali anticipate: 176,679 ( R+25)
Schede elettorali per partito registrato
Repubblicano 40,1% | 159.388 schede elettorali
Democratico 35,4% | 140.878 schede elettorali
Altro 24,5% | 97.529 schede elettorali
11:50
giornalismo spazzatura. La volta del Huffington Post
03:30
Le schede elettorali trovate in un tombino della contea di Orange, in Florida, sono state rubate dalle cassette postali con una chiave master delle poste americane.
Fox 35 Orlando ha riferito che le schede elettorali sono state sottratte dalle cassette postali da un soggetto non identificato che ha utilizzato una chiave a freccia, nota anche come chiave principale, rubata al servizio postale degli Stati Uniti.
Il Supervisore delle Elezioni della Contea di Orange , Glen Gilzean, ha dichiarato: “Recentemente, gli elettori della Contea di Orange e il Servizio Postale degli Stati Uniti hanno fatto sapere al nostro ufficio che una chiave a freccia USPS rubata è stata utilizzata per accedere alle cassette postali della contea”.
“Durante il furto, diverse schede elettorali che il nostro ufficio aveva spedito giorni prima agli elettori sono state gettate via”, ha aggiunto Gilzean.
Perché condurre una “esercitazione” di cybersicurezza il giorno delle elezioni?”.
Il Dipartimento Della Sicurezza Interna (DHS), composto da fornitori, appaltatori e agenzie governative, sta partecipando a una grande conferenza sulle infrastrutture critiche che prevede un’esercitazione “da tavolo” sulle minacce alla sicurezza informatica nel giorno delle elezioni, ad Atlanta, la capitale di uno degli Stati battleground di queste elezioni 2024.
L’esercitazione, sponsorizzata dalla Armed Forces Communications & Electronics Association International (AFCEA), richiede risposte concrete a delle specifiche domande e dubbi che ci poniamo:
A quali siti remoti accede l’esercitazione?
Quali agenzie federali, statali e locali parteciperanno?
Di chi è stata l’idea di organizzare un’esercitazione sulle minacce alla sicurezza informatica il giorno delle elezioni in uno Stato chiave le elezioni?
Chi controlla l’esercitazione sulle minacce alla sicurezza informatica?
Perché il personale più importante, addetto alla sicurezza informatica del paese, dovre partecipare a queste esercitazioni invece di monitorare le minacce reali proprio nel giorno delle elezioni presidenziali, proprio quando l’ifrastruttura del paese è a più alto rischio di attacco cybernetico?
La tempistica di questa esercitazione riduce ulteriormente la credibilità della Sicurezza Nazionale. La loro Cybersecurity and Infrastructure Security Agency (CISA) è la stessa agenzia che ha affermato che le elezioni del 2020 sono state “le più sicure della storia americana”, mentre i loro stessi server erano stati compromessi da attacchi malware.
Tutto ciò puzza di bruciato…
25/10/2024
19:30
Ieri Trump era Hitler, oggi è tornato ad essere un pervertito sessuale:
L’ultimo scandalo costruito in laboratorio dalla macchina democratica (e non solo) per screditare Trump è stato dispiegato. L’accusa sarebbe che nel 1993, più di 30 anni fa, Trump avrebbe toccato inopportunamente una modella, Stacey Williams.
Le accuse sono state pubblicate sul giornale inglese The Guardian, poi ”confermate” da un video pubblicato dalla “vittima” stessa:
Nel video la signora dice che “Alla fine dell’inverno del 1993, stavo passeggiando con Jeffrey (Epstein) dal suo brownstone nell’Upper East Side lungo la Fifth Avenue, quando Jeffrey mi guardò e mi disse: “Sai, andiamo a trovare Trump”.
L’unico problema per questa signora è che Epstein si trasferì nella villa Wexler al 9 East 71st, l’indirizzo menzionato dalla signora, solo nel 1996, cioè tre dopo la presunta passeggiata…
Tra l’altro il Guardian è recidivo a pubblicare accuse infondate; era già successo nel 2020. Stessa giornalista, stessa pubblicazione, stesse accuse, stessa tempistica, stesso avversario – ma elezioni diverse.
Ultima cosa; la signora Williams ha lavorato per la campagna elettorale di Obama nel 2008…
La signora Stacey Williams ha aspettato 31 anni – e 2 settimane prima delle elezioni – per presentare le sue accuse. Almeno questo ex agente di Obama è stato abbastanza intelligente da nominare un morto come testimone, anche se ha sbagliato indirizzo…
15:30
La storia di Trump-Hitler è una psyop.
Lo dico letteralmente, non in senso figurato. È un’operazione psicologica di livello militare, in più fasi, studiata per rianimare i sostenitori di Harris demoralizzati e – attraverso la stigmatizzazione – ridurre l’affluenza alle urne dei sostenitori di Trump.
Ecco come funziona:
FASE UNO: CARICO
Ia componente più importante di qualsiasi sistema d’arma è il carico utile, cioè il materiale che effettivamente esplode e provoca danni esplosivi. In una psyop, il carico utile è generalmente una narrazione; nel caso di questa psyop, la narrazione è che Trump è un fascista, un simpatizzante di Hitler e un vero e proprio nazista.
Se la vostra reazione iniziale è quella di ridere di quanto sia banale e scontato, non avete torto; pensereste che, dopo otto anni di tentativi di far esistere ex nihilo questa falsa narrazione (“non capite che è letteralmente Hitler?!”), i Democratici e i loro alleati mediatici avrebbero finito per passare oltre. Ma ci sono due ragioni per cui hanno riesumato questo cavallo morto e battuto, e perché lo hanno fatto solo 14 giorni prima delle elezioni:
Motivo 1: sono disperati. Kamala è indietro in quasi tutti i sondaggi nazionali e, in particolare, ha perso un livello significativo di sostegno tra i latini, i neri e gli arabi-americani. Con gli americani bianchi che si sono schierati a favore di Trump più che mai, la campagna di Harris non può permettersi nemmeno il più piccolo spostamento nei modelli di voto tra le minoranze demografiche degli swing-state.
Motivo 2: Purtroppo, l’affermazione nazista fittizia, a margine, è efficace. La maggior parte degli americani, scottati da quasi un decennio di continue bufale mediatiche (dalle “brave persone da entrambe le parti” all’iniezione di candeggina, alle origini del Covid, al portatile di Hunter Biden), se ne accorgerà e la ignorerà immediatamente. Ricordate, però, che solo una manciata di Stati in bilico deciderà queste elezioni; in particolare, i membri delle minoranze sopra citate saranno probabilmente il fulcro di questi Stati. Se, definendo Trump un fascista, la campagna di Harris e i media riusciranno a motivare anche solo un piccolo numero di queste persone ad abbandonare il recinto e a sostenere Harris, e se riusciranno anche a demoralizzare un piccolo numero di aspiranti elettori di Trump negli stessi Stati affinché rimangano a casa il giorno delle elezioni, questo potrebbe fare la differenza.
FASE DUE: IL VEICOLO DI LANCIO
Un’arma non è buona se non può essere consegnata al bersaglio previsto. Nel caso di questa operazione, il primo stadio del veicolo di lancio è stato il New York Times e The Atlantic, che hanno pubblicato le loro storie a poche ore di distanza l’una dall’altra.
Chiedetevi: quali sono le probabilità che due importanti testate giornalistiche, entrambe molto amiche dell’establishment democratico ma (teoricamente) indipendenti l’una dall’altra, pubblichino due articoli distinti con la stessa narrazione, a poche ore di distanza l’uno dall’altro, esattamente due settimane prima delle elezioni?
Esattamente.
TERZA FASE: REAZIONE A CATENA
Il New York Times e The Atlantic offrono credibilità al nucleo della narrazione, ma ciò che non possono offrire è una distribuzione capillare. Gli americani ricevono le loro notizie da una gamma di fonti più ampia che mai e, per quanto possa offendere coloro che hanno preso 200.000 dollari di prestito studentesco per frequentare la scuola di giurisprudenza della Columbia, la maggior parte di loro non si rivolge al cosiddetto giornale dei record o a una rivista letteraria un tempo grande, fatta fallire intellettualmente dalla vedova del tizio che ha inventato l’iPhone.
Fortunatamente per gli orchestratori del nostro psyop, però, se c’è una cosa che i media odiano più di Donald Trump è perdere tutti i click e le impressioni di una storia scottante. A poche ore dalla pubblicazione dei due articoli originali (in alcuni casi in pochi minuti), praticamente ogni altra pubblicazione mainstream ha pubblicato un articolo derivato che riassumeva le salaci affermazioni contenute negli articoli di partenza. Alla fine della giornata di ieri, c’erano centinaia di pubblicazioni di questo tipo, da parte di CNN, NBC/MSNBC/CNBC, ABC, CBS, Newsweek, Axial, Business Insider, Huffington Post, NPR e qualsiasi altra pubblicazione si possa citare.
Questi articoli derivati non si limitano a diffondere ulteriormente il DNA della narrazione, ma servono anche a rafforzarlo e a fornirgli una (falsa) legittimità, creando l’impressione ingiustificata che decine di organi di informazione si siano occupati della questione, anziché solo due. Quando gli americani aprono Facebook e vedono innumerevoli articoli da innumerevoli fonti diverse che dicono tutti la stessa cosa, diventano molto più suscettibili alla narrazione, anche se altrimenti potrebbero essere scettici. L’enorme quantità di loghi e titoli travolge la naturale esitazione della mente a mettere in discussione la propaganda.
È subdolo, ma funziona. E le persone che progettano missioni come questa lo sanno bene.
QUARTA FASE: ITERARE E PERPETUARE
All’inizio di oggi, Kamala Harris ha letto una dichiarazione che denunciava il presunto fascismo di Trump; mentre scrivo queste parole, sta rigurgitando queste affermazioni nel suo townhall televisivo. Anche Biden ha rilasciato oggi una dichiarazione sugli articoli. In questo modo, hanno essenzialmente riavviato il ciclo di notizie per la narrazione, dandole nuova vita e mantenendola al centro dell’attenzione dei media.
Se avete l’impressione che l’attenzione dei media arrivi a ondate, è perché è così (e, come tutto il resto, è deliberato e metodico). Nelle prime 24 ore, l’attenzione si concentra sulle affermazioni originali contenute nei due articoli di partenza. Nelle 48 ore successive, una volta che la storia originale inizia a diventare stantia, l’attenzione dei media si sposta sulla reazione di importanti oppositori di Trump, creando così un altro ciclo di notizie per rafforzare la narrazione. In seguito, i media lanceranno un’altra ondata di notizie, questa volta incentrata sull’intervista a storici (che, opportunamente, riassumeranno i numerosi e convenienti parallelismi tra Trump e i fascisti di un tempo), a elettori di swing-state (che, opportunamente, sosterranno che l’amore per Hitler appena svelato da Trump li ha convinti ad abbandonare la barricata e a sostenere Kamala) e persino a cosiddetti sostenitori di Trump che ora hanno deciso di non votare per lui.
L’obiettivo è mantenere la narrazione davanti al pubblico il più a lungo possibile, dandole tempo e spazio per metastatizzare ulteriormente e continuare a corrodere il sostegno a Trump.
QUINTA FASE: LANCIARE UN ALTRO CARICO UTILE
Mancano 13 giorni alle elezioni. Se pensate che questo sia l’ultimo carico che la campagna di Harris e i media lanceranno nel discorso, avete molta più fiducia di me nella loro decenza.
Aspettatevi almeno altre due di queste nelle prossime due settimane, una delle quali – se posso azzardare un’ipotesi – sarà incentrata su affermazioni fittizie di cattiva condotta sessuale e la seconda si concentrerà sulla storia commerciale di Trump.
Ricordate: se sembra una psyop, cammina come una psyop e parla come una psyop, probabilmente è una psyop. Rimanete vigili, mantenete alto il morale e, soprattutto, votate.
Sondaggi pubblicato dal Wall Street Journal che conferma quello pubblicato da Forbes ieri e da noi riportato sul sito ieri :
Trump è avanti nei sondaggi a livello nazionale di 3 punti, Forbes era +2 :
Nuovo sondaggio nazionale
Trump: 49% (+3)
Harris: 46%
WSJ | 10/19-22 | N=1.500
In aggiunta sondaggio nazionale del Wall Street Journal sull’indice di gradimento del lavoro svolto.
Trump:
Approva: 52% (+4)
Non approva: 48%
Harris:
Approva: 42% (-12)
Non approva: 54%
WSJ | 19/10-22
Dopo questi catastrofici numeri del WSJ per Harris che mostra che Trump è in vantaggio nel voto popolare del 3%; fra un po’ ci sara uno scoop di Kamala che ci racconterà come Trump le abbia palpato il sedere in Kaufhaus des Westens, recitando citazioni dal Mein Kampf in perfetto tedesco.
Quadro generale dei sondaggi: A sinistra il nome delle agenzie, poi la data (prima il mese poi il giorno) dei sondaggi pubblicati infine i numeri dei sondaggi: Wall Street Journal e Forbes condividono la stessa percentuale di Rasmussen, il che li rende più attendibili. Alcuni dei sondaggi sono vecchi di una settimana, attendiamo un ulteriore aggiornamento per capire la situazione, ma se il buongiorno si vede dal mattino per Kamala si sta mettendo male:
Il Wall Street Journal dava biden +10 nel 2020 e tutti i sondaggi erano contro Trump, giusto riferimento….
La strategia dei Democratici per vincere le elezioni presidenziali:
12:00
da due settimanali francesi
MARIANNE
il camaleonte Harris: il suo passato discutibile di procuratore
VALEURS ACTUELLES
gli argomenti chiave della campagna elettorale
06:00
BUONGIORNO A TUTTI!
Un altro giro di aggiornamenti in questa pazza corsa al traguardo finale delle elezioni presidenziali del 5 Novembre. Ieri era Hitler oggi chi sarà?
03:05
Robert Cahaly e Matt Towery, sondaggisti di Trafalgar e InsiderAdvantage, si dicono sicuri che sulla base dei rilevamenti Trump vincerà in Georgia e Pennsylvania.
Trafalgar è una agenzia sondaggistica veramente seria. Se queste previsioni saranno corrette, la Pennsylvania consegnerà a Trump la presidenza.
03:00
Florida
Totale voti anticipati: 2.812.581 (+561.773 dal 22 ottobre)
Voto per corrispondenza: 1.666.163 voti ( D+6)
Voto anticipato di persona: 1.146.041 voti ( R+27)
Ripartizione per partito di appartenenza:
Repubblicani 43,6% | 1.224.968 voti (+270.294)
Democratici 36,3% | 1.020.397 voti (+175.367)
Indipendenti/Altro 20,1% | 567.217 voti (+116.112)
La Florida ha 1 milione di repubblicani registrati in più rispetto ai democratici. Quindi questi risultati non sono sorprendenti. Le domande sono: come votano gli Indipendenti e quanti repubblicani voteranno per Harris?
00:05
La storia dei generali nazisti ha preso una piega tutta particolare. Kamala Harris ha tenuto un discorso ufficiale dalla Casa Bianca, per conferire, si presume, più autorevolezza e ufficialità alle presunte dichiarazioni di Trump sui generali nazisti fatte 4 anni fa e pubblicate da Atlantic grazie ad una fonte anonima. Il generale John Kelly, l’allora capo dello staff della Casa Bianca di Trump, avrebbe confermato che l’allora Presidente ha effettivamente elogiato Hitler.
Il tutto appare fabbricato a puntino per essere divulgato e usato contro Trump negli ultimi giorni di campagna elettorale per cercare di far oscillare il pendolo delle elezioni in direzione di Harris.
Sembra davvero strano che una dichiarazione così scioccante e ghiotta da parte di un presidente degli Stati Uniti non solo non sia stata riportata negli ultimi tre anni della sua presidenza, ma sia stata tenuta in sospeso fino a quando la candidata Harris ha cominciato a denunciare serie difficoltà nei sondaggi.
Questo “scandalo” serve anche a un altro scopo. Harris e i poteri forti che la sorreggono sanno che potrebbero perdere e stanno preparando il terreno per giustificare la violenza quando e se Trump dovesse vincere. Se saranno estromessi dalla gestione del Paese, saranno felici di farne terra bruciata. Lo scopo dell’operazione “Hitler” è quello di preparare il terreno per creare fratture tra i militari dopo le elezioni: State con i nazisti o con i generali in pensione?
Tornando alle accuse anonime ora ‘corroborate’ da Kelly, ogni persona presente quel giorno, in quella occasione, ha smentito Kelly e l’anonimo informatore di Goldberg (mi sorge il dubbio che sia stato lo stesso Kelly a sussurrare la storia dei nazisti all’Atlantic), smentendo quindi la notizia di Jeffrey Goldberg.
Qui un compendio di dichiarazioni che smentiscono Kelly e Goldberg:
Keith Kellogg: Il Vicepresidente Harris è un impostore. Sono stato alla Casa Bianca a livello dirigenziale molto più a lungo del generale Kelly. È complice di questa frode e ha mentito al popolo americano. Le sue bugie, così come quelle di John Bolton, sono un disservizio per la nazione in questo momento critico. Lo stesso vale per il vicepresidente.
Nick Ayers: Ho sempre evitato di commentare le fughe di notizie, le voci o persino le menzogne all’interno dello staff per quanto riguarda il mio periodo alla Casa Bianca, ma i commenti del generale Kelly sul presidente Trump sono troppo gravi per essere ignorati. Sono stato con ognuno di loro più di altri, e il suo commento è praticamente falso.
“Questo è il tipo di veleno incendiario che divide la nostra nazione e ispira gli assassini. È particolarmente ironico dal momento che Biden/Harris hanno appena fatto approvare la direttiva 5240.01 del Dipartimento della Difesa, che dà al Pentagono il potere – per la prima volta nella storia – di usare la forza letale per uccidere gli americani che protestano contro le politiche del governo sul suolo degli Stati Uniti. Se si vuole capire un politico, le parole della sua bocca hanno poca importanza.
La dichiarazione di Kennedy confermerebbe la nostra tesi sul dopo elezioni: Usare le accuse di nazismo per istigare alla causa contro i “ribelli” cittadini che non accettano la sconfitta oppure giustificare l’azione dei centri di potere per istigare le forze armate statunitensi in caso di vittoria di Trump …
John Kelly è rimasto così scioccato dall’ammirazione di Trump verso Hitler da rimuoverla dalla memoria per cinque anni e riesumarla ad appena due settimane dalle elezioni.
23/10/2024
19:55
Pubblicato il sondaggio anche a livello nazionale: Trump è a +2 su Harris.
Sulla base del sondaggio pubblicato precedentemente, a livello di Battleground States, Trump è a +8, a livello nazionale, cioè di tutti gli Stati, Trump è a +2, Harris comincia a rischiare veramente grosso; i margini di errore per annullare i brogli elettorali si assottigliano..
Questo stesso sondaggio di Forbes, l’ultima volta dava Harris a +4 su Trump!
Nuovo sondaggio nazionale
Trump: 51% (+2)
Harris: 49%
Ultimo sondaggio: Harris+4
HarrisX/Forbes | 10/21-22 | N=1.244LV
19:45
Le brutte notizie si accavallano oggi per Kamala:
Donald Trump è in testa tra gli indipendenti in Michigan, Wisconsin e Pennsylvania, tutti Stati Battleground. Nel 2020, Biden era in testa in questo gruppo di elettori di 5 punti.
Ricordatevi, come ho già detto, gli indipendenti sono la chiave per vincere le elezioni presidenziali di questo storico 2024
19:30
I sondaggi cominciano a descrivere uno scenario in cui Trump avrebbe abbastanza voti da sovrastare e annullare i brogli elettorali. Aspettiamo aggiornamenti dal Rasmussen e da Trafalgar per vedere se questi dati sono confermati. Se confermati, otto punti di percentuale di vantaggio, nei Battleground States sarebbe impossibile da superare per la Harris e i poteri forti..
NEW BATTLEGROUND poll (PA/GA/NC/MI/AZ/WI/NV)
Trump: 54% (+8)
Harris: 46%
HarrisX/Forbes | 10/21-22 | N=322LV
18:30
Continuano imperterrite le Fake News:
Trump: “Ho bisogno del tipo di generali che aveva Hitler”. L’ultima del tycoon, sempre più attratto dai dittatori
Donald Trump: “Vorrei avere i generali che aveva Hitler”
I nostri eroici giornalistici scimmiottano e riportano un pezzo pubblicato dalla rivista Atlantic di proprietà di Laurene Powell Jobs. Powell Jobs è proprietaria di The Atlantic e di una quota di Axios. Jobs e` anche presidente del consiglio di amministrazione di XQ e siede anche nel comitato consultivo del presidente del Council on Foreign Relations. Nel 2023, è stata classificata come la 25a donna più potente del mondo da Forbes.La filantropia di Powell Jobs è stata descritta come di limitata “trasparenza e responsabilità”. Nel 2019, Powell Jobs è stata designata “Least Transparent Mega-Giver” da Inside Philanthropy. (Wikipedia)
La Realtà:
Le accuse pubblicate da Atlantic sono proferite dal “giornalista” Jeffrey Goldberg. Sia l’Atlantic sia Goldberg sono recidivi.
Jeffrey Goldberg, il giornalista che ha ingannato l’America sulla guerra in Iraq, è caporedattore di The Atlantic
“In una cultura giornalistica minimamente sana, Goldberg – che ha venduto agli americani la falsa teoria del complotto secondo cui Saddam era alleato con Al Qaeda per vendere la guerra in Iraq, e poi ha fatto dell’Atlantic il punto di riferimento per la narrazione delle frodi del Russiagate – può essere considerato il giornalista che più si è adoperato per convincere gli americani della menzogna di Saddam alleato di Al Qaeda.
Ribadiamo che il giornalista che ha fatto di più per convincere gli americani della menzogna esiziale che Saddam Hussein avesse un’alleanza con Al-Qaeda e che quindi ha indotto il 70% degli americani a credere alla menzogna che Saddam Hussein avesse partecipato alla pianificazione degli attacchi dell’11 settembre si chiama Jeffrey Goldberg…
Lo ha fatto in due articoli che hanno vinto persino premi giornalistici. È stato invitato alla NPR e a tutti i programmi domenicali per diffondere questa menzogna… Jeffrey Goldberg ha fatto molto di più per diffondere la falsa teoria del complotto che ha portato alla guerra in Iraq.
È anche diventato il punto di partenza di tutte le frodi narrative del Russiagate; naturalmente, Jeffrey Goldberg non è stato espulso dai media tradizionali.
È stato premiato con questa posizione in seguito alle menzogne che ha fatto per conto dello Stato di sicurezza degli Stati Uniti… I giornalisti che diffondono le teorie cospirative della CIA vengono promossi, mentre i giornalisti che mettono in discussione la CIA vengono distrutti”. (Glenn Greenwald)
Per quanto riguarda la specificità dell’accusa, la storia è categoricamente smentita dai testimoni presenti al momento della presunta dichiarazione sui generali di Hitler. Le fonti di Goldberg sono anonime, quelle dei testimoni oculari presenti sono reali e rispondono di persona. Nello stesso articolo di Atlantic, citato diligentemente da Repubblica e senza alcun riscontro, il giornalista cita una pesante dichiarazione compromettente di Trump riguardante la somma spropositata da lui coperta, come donazione, per le spese funerarie di Vanessa Guillen- “Non costa 60mila bigliettoni seppellire una fottuta messicana”, “Non ci crederai, dei maledetti hanno provato a fregarmi”. Queste le due citazioni più significative.
Mayra Guillen, sorella della specialista dell’esercito Vanessa Guillén, afferma tassativamente che la descrizione degli eventi fatta da Atlantico è falsa, sia sul riferimento ai generali tedeschi che su quello della morte della soldatessa.
Anche il suo avvocato della famiglia di Guillen, Natalie Khawam, nega questo resoconto e accusa l’autore Jeffrey Goldberg di aver mentito per scopi politici.
”Dopo aver avuto a che fare con centinaia di giornalisti nella mia carriera di avvocato, purtroppo questa è la prima volta che devo parlare apertamente di Jeffrey Goldberg dell’Atlantic: non solo ha travisato la nostra conversazione, ma ha anche mentito nel suo sensazionalistico articolo.
Soprattutto, ha usato e sfruttato i miei clienti e l’omicidio di Vanessa Guillen… per un guadagno politico a buon mercato.
Vorrei anche sottolineare che la tempistica di questa “storia” è alquanto sospetta, poiché questa presunta conversazione di Trump sarebbe avvenuta più di 4 anni fa!
Perché parlarne ora?
Come tutti sanno, non solo Trump ha sostenuto i nostri militari, ma ha anche invitato i miei clienti nello Studio Ovale e ha sostenuto la legge “Io sono Vanessa Guillen”.
Sono grata che siamo riusciti a ottenere un sostegno bipartisan alla legge “Io sono Vanessa Guillen” e grazie al duro lavoro e agli sforzi di tutti i nostri membri del servizio ora hanno più tutele e diritti nel servire il nostro Paese”.
Dalla dichiarazione dell’Avvocato c’è il sentore di querela civile nell’aria…
L’ultimo scoop non verificabile e anonimo su Trump e Hitler è arrivato nella notte. Tra poco sapremo che impatto, se ne avrà, sul voto anticipato.
A dire il vero, Hitler aveva grandi generali, come Erwin Rommel, Heinz Guderian, Erich von Manstein, Walther Model, Walther Wenck e altri – e molti di loro non sostenevano il nazismo. Avere grandi generali che hanno prestato servizio militare molto prima che il partito nazista fosse al potere non ha nulla a che vedere con il sostegno o meno a un’ideologia o a una forma di governo.
Anche la Confederazione aveva grandi generali e per anni i loro nomi hanno adornato le installazioni statunitensi. Probabilmente oggi, nell’esercito americano, abbiamo qualche generale decente che non ha le palle per smettere di sostenere questo sconsiderato governo neocon…
The Atlantic è pura spazzatura. L’intera “storia” è basata su presunte fonti anonime senza nome ne cognome che erano “presenti”. Le accuse mosse sono assolutamente infondate e assurde. Jeffrey Goldberg è un impostore che cerca di far deragliare un’elezione presidenziale con le infamie, come già avvenuto nel 2020.
Qualsiasi cosa che coinvolge un evento pubblico di un presidente o ex presidente è trattato in maniera prudente e manipolata per ovvie ragioni di sicurezza. Bisogna andare oltre la messinscena analizzando lo scopo, il fine e la ragione di tale “finto” evento.
Con l’apparizione in un McDonald’s della Pennsylvania, Trump è riuscito a entrare in contatto con la gente comune che va da McDonald’s. Le persone che l’hanno incontrato erano clienti veri, sinceramente entusiasti di essere serviti da lui.
Era lì anche per fare da contraltare a Kamala, che durante un comizio, qualche tempo fa ha dichiarato di aver lavorato da giovane al McDonald’s. L’azienda però sostiene che non ha alcuna traccia del suo impiego in uno dei suoi ristoranti. Questo è il vero finto evento che mette in risalto le bugie della Kamala.
A differenza di Kamala, Walz e Joe Biden, che mentono sempre e fingono di essere ciò che non sono per cercare di ottenere voti, Trump è in realtà un uomo del popolo.
Comunque se fa contenti quelli del Corriere della Sera Trump sarebbe dovuto entrare spontaneamente nel ristorante, fare domanda di lavoro ed essere assunto. Dopo un breve periodo di lavoro alla friggitrice, si sarebbe ricordato di essere candidato alla presidenza e dare il suo preavviso di due ore…
07:05
L’Inghilterra, e non la Russia, è il colpevole di una vera e propria storia di interferenze elettorali straniere, come dimostrano i piani trapelati negli Stati Uniti di un gruppo consultivo strettamente legato al Primo Ministro Keir Starmer.
In una fuga di notizie esplosiva con ramificazioni per le prossime elezioni presidenziali statunitensi, i documenti interni del Center for Countering Digital Hate– il cui fondatore è l’agente politico britannico Morgan McSweeney, ora consulente della campagna di Kamala Harris – mostrano che il gruppo ha pianificato per iscritto di “uccidere il Twitter di Musk”, rafforzando al contempo i legami con l’amministrazione Biden/Harris e con i democratici come la senatrice Amy Klobuchar, che ha presentato diverse proposte di legge per regolamentare la “disinformazione” online.
Documenti trapelati dal Center for Countering Digital Hate (Regno Unito) rivelano che il loro obiettivo primario è “uccidere il Twitter di Musk” attraverso pubblicità mirata e sfruttando le normative dell’UE.
L’organizzazione no-profit britannica ha tenuto una conferenza privata con una serie di gruppi che si stanno organizzando contro Musk, tra cui anche, oltre a sopra menzionati, si aggiungono il deputato canadese Peter Julian e Media Matters for America (Soros).
I documenti che dimostrano che l’obiettivo principale è “uccidere il Twitter di Musk” attraverso “la pubblicità” usando l’arma dell intimidazione contro entità o agenzie pubblicitarie,ossia molestando gli inserzionisti dissuadendo quindi da usare X come veicolo di pubblicità e di fatto tagliare e prosciugare gli introiti pubblicitari a Musk.
Gli attacchi a Musk continueranno e si intensificheranno grazie alle orde barbariche finanziate da Soros.
Qui si possono vedere in dettaglio documenti trapelati, grazie alla cortesia di un informatore segreto.
Aggiornamento sul voto anticipato e per corrispondenza secondo le schede compilate per partito di appartenenza.Come abbiamo già detto non è una garanzia che i registrati voteranno per il partito a cui appartengono, ma se il buongiorno si vede dal mattino il risultato, a differenza del Nevada non e positivo per I repubblicani:
Totale: 921.720 (+129.916 dal 18 ottobre)
Democratici 62,9% | 580.073 voti (+73.753)
Repubblicani 27,6% | 254.424 voti (+42.409)
Indipendenti 9,5% | 87.223 voti (+13.754)
06:55
In Europa da Der Spiegel, Le Monde, Le Figaro, Repubblica. Cambiano i direttori, ma la musica è la stessa, comprese le licenze sintattiche arbitrarie
22/10/2024
23:45
Se in caso vi interessa quello che pensano i Tedeschi…I tedeschi prevedono che Kamala Harris vincerà le elezioni presidenziali…
21:05
Guai in vista per Kamala Harris:
Il Los Angeles Times, il più importante quotidiano della California, Stato di Kamala Harris, ha deciso di non sostenerla. In precedenza, il quotidiano aveva appoggiato Obama, Clinton e persino Biden.
Sta accadendo qualcosa di grosso a livello nazionale e questo non gioca a favore di Kamala.
20:30
Appello di RKJ:
“Non importa in quale Stato vivete, votate Trump. Questa potrebbe essere la nostra ultima possibilità di proteggere i nostri diritti costituzionali. L’America si sta trasformando rapidamente in uno Stato monopartitico. Finora la Corte Suprema ha frenato il complesso industriale della censura gestito dai Democratici. Ma se vinceranno le elezioni, riempiranno i tribunali con i loro giudici e la democrazia in questo Paese sarà perduta.”
Jocelyn Benson, il Segretario di Stato del Michigan, rimuoverà dalla lista 600.000 mila elettori inattivi (non più residenti di quello Stato oppure deceduti), ma solo dopo le elezioni del 2027. Benson ha anche annunciato che il Michigan non conoscerà i risultati elettorali fino al giorno successivo alle elezioni.
Il Michigan ha anche 500.000 elettori in più rispetto a quelli aventi diritto legalmente a votare (si tratta probabilmente di immigrati illegali o elettori fasulli) e non lo risolverà questo problema fino a dopo le elezioni.
Nel 2020 abbiamo visto le riprese delle telecamere a circuito chiuso di un furgone che consegnava decine di migliaia di schede elettorali alle tre del mattino, senza controllori, e i voti di Biden sono aumentati durante la notte.
Qui il video della Benson con le sue dichiarazioni:
***
Discorso di Roger Stone:
I Cheney, i McCain e Kinzinger appoggiano Kamala Harris. Harris può anche tenersi i guerrafondai neocon.
Robert F. Kennedy Jr., Tulsi Gabbard e l’ex governatore Rod Blagojevich – TUTTI UN TEMPO ORGOGLIOSI DEMOCRATICI – si sono uniti in una grande coalizione per eleggere nuovamente Donald Trump presidente.
Questo è il riallineamento!
ore 18:00
Ieri, i Segretari di Stato del Michigan, Georgia e Pennsylvania (guarda caso sono tutti stati battleground) , hanno dichiarato ai mass media che non ci saranno la sera delle elezioni i risultati elettorali finali di questi stati. Tutto ciò è chiaramente coordinato.
Perché questi Stati non riescono a conteggiare i risultati in modo tempestivo?
È palesemente ovvio a chiunque abbia un cervello funzionante che stanno pianificando di rubare le elezioni, proprio come hanno fatto nel 2020.
***
Per un sondaggio del Rasmussen (Agenzia di grande serietà): La maggioranza (55%) dei Democratici pensa che ci saranno brogli elettorali (ma non si lamentano). A loro si aggiungono il 58% degli indipendenti e l’83% dei repubblicani.
ore 17:00
In Wisconsin (State Battleground), 31.882 voti per corrispondenza richiesti a indirizzi non validi.
Mentre gli attacchi coordinati contro Elon Musk si intensificano (Italia,USA,Germania, Brasile), per il peccato mortale di essersi allineato con Trump, un personaggio sinistro come la famiglia Soros, colleziona politici come se fossero rare carte Pokemon. I Soros, braccio del pupazziere non tanto nascosto…
ore 10:00
qualche dubbio sta sorgendo:
su Le Figaro (Francia). In Michigan il voto arabo non è più scontato a favore del Partito Democratico
su Le Monde (Francia)
“i finanziamenti non garantiscono la vittoria”
il Corriere, invece, continua con la propaganda a senso unico con qualche malizia ben riposta
21/10/2024
19:30
L’impatto di RFK Jr sui voti
Nelle ultime settimane stanno accadendo molte cose dietro le quinte. La maggior parte degli osservatori politici è ormai consapevole della differenza tra “schede” e “voti” per quanto riguarda le contee chiave: Fulton County, Georgia; Wayne County, Michigan; Philadelphia e Allegany County, Pennsylvania; Clark County, Nevada; Milwaukee e Marquette County, Wisconsin e Maricopa County, Arizona.
Queste sono le contee e le città specifiche (Philadelphia, Atlanta, Milwaukee, Detroit) in cui il processo di invio/distribuzione di massa delle schede elettorali, in combinazione con l’assemblaggio/raccolta delle stesse, incontra il processo di “scansione delle schede” nei centri di tabulazione a livello di contea. Tuttavia, c’è un’altra sfaccettatura, la “fabbricazione delle schede”.
Molte persone, tra cui lo stesso Robert F. Kennedy Jr. e il suo team legale, hanno presentato la situazione del 2024 e posto una domanda. In sostanza:
Perché l’apparato del DNC ha fatto causa per tenere il nome di JFK JR fuori da alcune schede elettorali statali e contemporaneamente ha fatto causa per tenerlo in alcune schede elettorali statali?
Non aveva senso….
… Fino ad ora.
Le schede elettorali a livello di contea sono state appaltate per la stampa localizzata da coloro che intendevano usare le schede bianche per scopi fraudolenti; essenzialmente “fabbricazione di schede”.
Il nome di RFK Jr, inserito o meno nelle schede, cambia la dinamica del formato della carta e l’allineamento fisico nello scanner.
Gli scanner di tabulazione della contea hanno bisogno di un formato di scheda per ogni contea da scansionare per il conteggio dei voti.
Negli Stati in cui hanno prestampato/realizzato le schede fraudolente a livello di contea *senza* il nome di RFK Jr, il DNC ha fatto causa per tenerlo fuori.
Negli Stati in cui hanno prestampato/realizzato le schede elettorali fraudolente a livello di contea *con* il nome di RFK Jr, il DNC ha fatto causa per mantenerlo.
Questa è la risposta.
19:25
Cominciano ad arrivare i dati sul numero di elettori che hanno già esercitato il loro diritto di voto. I numeri rispecchiano il dato per elettori registrati ai partiti di appartenenza. L’appartenenza al partito non necessariamente significa che chi ha votato lo ha fatto per il partito al quale è registrato, ma ci rende un’idea del livello di entusiasmo e dedizione presente nella base elettorale dei due partiti. Studi di sondaggisti ci dicono che di solito l’83% in media dei registrati ai partiti vota per il partito cui appartiene. La grande incognita rimangono gli indipendenti, poiché non è dato sapere per chi votano quando si recano ai seggi oppure spediscono le loro schede elettorali.. Per questa ragione i sondaggi fra gli indipendenti sono di un’importanza fondamentale.
Questi ad oggi i numeri registrati nello stato del Nevada:
Nevada:
Aggiornamento sul voto anticipato e per corrispondenza
Totale schede restituite per posta: 117.553
Totale schede elettorali anticipate: 64,106
Democratici 38,1% | 69.126 voti
Repubblicani 37,2% | 67.620 voti
Indipendente 24,7% | 44.913 voti
19:10
Il Comitato per gli Affari Pubblici Pakistano-Americani – Promozione delle relazioni tra Stati Uniti e Pakistan appoggia Trump.
“Siamo orgogliosi di sostenere Donald Trump nelle elezioni presidenziali del 2024. Dopo ampi incontri con le campagne di Trump e Harris, crediamo che l’ex presidente sia il candidato che migliorerà le relazioni e promuoverà la vera democrazia in Leggi la nostra dichiarazione qui sotto:
Gli elettori del Tennessee affermano che le macchine per il conteggio dei voti stanno ribaltando i voti. In questo caso sono gli elettori democratici a lamentarsi:
Secondo quanto riferito dal presidente del GOP della contea Allen West, le macchine per il voto nella contea di Dallas, in Texas, non hanno superato il test di logica e di precisione richiesto dalla legge.
Georgia, Tennessee e ora Texas.
07:00
Con l’avvicinarsi delle presidenziali del 2024 è bene riassumere e ricordare agli elettori le anomalie registrate nelle elezioni del 2020, dove fu sottratta a Trump la vittoria grazie ad una serie di brogli elettorali. Un contesto è necessario a comprendere meglio la posta in palio del 5 di novembre:
-Sei Stati hanno cambiato le loro leggi elettorali due mesi prima delle elezioni per decisione dell’esecutivo, invece di passare attraverso gli organi legislativi. Si tratta di una violazione delle costituzioni statali; questo sarebbe di per sé sufficiente a invalidare i risultati delle elezioni del 2020.
-Sei Stati chiave hanno interrotto il conteggio dei voti la sera delle elezioni per la prima volta nella storia americana. Nel momento in cui hanno interrotto il conteggio dei voti, Donald Trump era in vantaggio su Biden in ciascuno di essi.
-Gli oligarchi, insieme all’FBI, hanno censurato la storia del portatile di Hunter Biden e sulla corruzione di Joe Biden. Soggetti che lavoravano nella comunità dei servizi segreti hanno dichiarato che si trattava di disinformazione russa; solo che quel portatile è stato ammesso come prova nell’ambito di un’indagine dell’FBI e di un’azione penale contro Hunter Biden. I sondaggi successivi alle elezioni hanno mostrato che se la gente fosse stata informata della storia del laptop di Hunter Biden sarebbe cambiato il 17% dei voti.
– 2.036.041 schede elettorali sono state riconosciute anomale ma ugualmente conteggiate.
– 923 cittadini americani hanno sottoscritto denunce ufficiali di frode elettorale e le hanno firmate sotto pena di spergiuro. Nessuna elezione nella storia americana ha avuto 923 testimoni che hanno firmato sotto pena di spergiuro per attestare le irregolarità e i problemi legali riscontrati in vari Stati e osservate da codesti soggetti .
– Oltre 50 tribunali hanno bloccato le udienze probatorie sui presunti brogli riscontrati nel 2020.
– In passato, prima del 2020, ci sono state altre quattro elezioni contestate, una in Florida, una nel 78° distretto del Missouri, una nel 9° distretto della Carolina del Nord e una nel 22° distretto di New York. In ognuno di questi quattro casi, c’è stata un’udienza probatoria. Per la prima volta nella storia americana alle elezioni del 2020, non c’è stata alcuna udienza probatoria.
– 37 Stati hanno modificato le loro procedure per la raccolta delle schede assenteiste o inviate per posta poco prima delle elezioni del 2020. Se questi 37 Stati avessero usato le stesse procedure di integrità delle schede elettorali utilizzate nel 2018, Biden non avrebbe vinto il conto del collegio elettorale.
– In Pennsylvania, le contee hanno permesso di compilare e ammettere nuove schede anche dopo il termine di scadenza del giorno delle elezioni.
– Ognuno di questi elementi è sufficiente a confermare che ci sono stati abbastanza brogli nelle elezioni del 2020 da mettere in dubbio il risultato.
20/10/2024
Ore 20:00
Al 5 di novembre, giorno delle elezioni presidenziali, milioni di elettori avranno già votato anticipatamente, sia per posta che di persona. Gli elettori di dieci Stati hanno iniziato a votare già questa settimana con procedure anticipate.
Il voto anticipato sta diventando un metodo sempre più popolare tra gli elettori. Oltre 45 Stati offrono una qualche forma di voto anticipato; quasi il 97% dei cittadini in età di voto vive in uno Stato che offre almeno una possibilità di votare prima del giorno delle elezioni.
La scorsa settimana hanno aperto i seggi in Georgia, Iowa, Kansas, Rhode Island, Tennessee, North Carolina, Louisiana, Washington, Massachusetts e Nevada.
Secondo i dati raccolti martedì dal New York Times, più di 5,1 milioni di cittadini hanno già espresso il loro voto per posta. Circa 55 milioni di persone hanno chiesto di votare in questo modo.
Ore 20:45
Se dal punto di vista mediatico le elezioni presidenziali saranno protagoniste della narrazione, nella realtà le concomitanti elezioni dei rappresentanti della Camera e del Senato del Congresso Federale assumeranno una importanza altrettanto cruciale. Non si deve dimenticare che le due camere dispongono di poteri decisivi sia nella determinazione degli indirizzi e delle particolari scelte di politica estera, sia nella approvazione delle spese di bilancio; per non parlare della facoltà di interdizione della funzione presidenziale.
Alle elezioni del 2024 sono in palio tutti i 435 seggi della Camera dei Rappresentanti. Inoltre, sono soggetti alla rielezione 33 dei 100 seggi del Senato, con elezioni che si terranno in periodo diversi nei vari Stati.
Ore 21:10
In tempi ordinari e di procedure rispettose delle norme, la partita tra Donald Trump e Kamala Harris darebbe un esito scontato a favore del primo. Si ripeterebbe, quindi, il successo del 2016 e si sovvertirebbe l’esito del 2020 a favore di Biden, costruito su brogli ampiamente documentati sul nostro sito.
Le premesse annunciate in questa tornata elettorale sono ancora più sconfortanti. Il margine richiesto di consensi a favore di Trump dovrà essere ancora più importante per essere in grado di fronteggiare i pesanti abusi che si prospettano.
Oltre a seguire il dibattito politico e le implicazioni riguardanti l’Europa, sarà particolare cura del sito seguire l’andamento dei sondaggi e le notizie relative alla regolarità delle procedure elettorali poiché le due cose sono direttamente connesse.
I sondaggi ci diranno se Trump avrà il margine necessario per compensare i brogli che inevitabilmente verranno attuati.
I risultati dei voti naturalmente lo sapremo solo la notte del 5 Novembre e nelle ore e giorni successivi; quello però che possiamo fare è quantificare il numero delle schede per posta e del voto fisico registrati fino ad ora, secondo il partito di appartenenza, nel voto anticipato. Mentre la tessera del partito non assicura che l’elettore voterà per il candidato di quel partito, il numero di elettori registrati ai partiti che esercitano il diritto al voto anticipato o per posta o di persona, ci da l’idea del livello di entusiasmo e di coinvolgimento della base degli elettori dei partiti. Naturalmente l’incertezza arriva dagli indipendenti poiché non sappiamo che casella marcheranno sulle schede. Altra variante riguarda il numero di immigrati illegali che riusciranno ad infiltrarsi nelle crepe di un sistema di voto altamente compromissibile e che quindi porteranno ad un ulteriore livello di incertezza nei sondaggi e nei risultati finali del voto.
Un ultimo aspetto sarà quello di porre particolare attenzione alle fake news che inevitabilmente verranno riportate dai mass media per confondere e deragliare la campagna elettorale di Trump, disorientare gli elettori oppure l’opinione pubblica mondiale. Riportiamo sotto un primo esempio di tale disinformazione:
LA BUGIA: Trump era smarrito, confuso e congelato sul palco mentre l’evento terminava in anticipo.
LA VERITÀ: Kamala HQ ( https://x.com/KamalaHQ) ha modificato il video nel tentativo di diffamare Trump.
La campagna di Kamala sta promuovendo una azione diffamatoria coordinata con video appositamente modificati mentre la Harris barcolla nei sondaggi.
Ecco i fatti:
– Durante il comizio si sono verificate due emergenze mediche.
– Le pause di Trump sono dovute al fatto di consentire l’intervento di un dottore o di un medico impegnato nell’emergenza.
– Questo è stato confermato da più fonti.
Ecco cosa riporta Axios:
“Trump stava tenendo il town hall al Greater Philadelphia Expo Center and Fairgrounds di Oaks, Pa, con il governatore del South Dakota Kristi Noem quando si è verificato il primo incidente medico dopo circa 30 minuti dall’inizio dell’evento.
Il candidato repubblicano alla presidenza ha chiesto che venisse messa un po’ di musica.
Anche l’emittente ABC ha confermato la versione di Axios:
ABC News smonta l’affermazione della campagna di Harris secondo cui Trump avrebbe avuto un “momento di serenità sul palco, *complimentandosi* con Trump per come ha gestito l’emergenza medica.
La ABC afferma che Trump ha deciso di cambiare la scaletta dopo che un paio di sostenitori hanno subito un’emergenza medica durante il suo comizio a Oaks, in PA.
“Dopo 30 minuti, due partecipanti hanno avuto un’emergenza medica”.
“Gli incidenti hanno spostato l’umore, spingendo Trump a interrompere l’intervento e a trasmettere la sua musica preferita”.
“In alcuni ambiti dei social media, una vera giornata campale per questo. E immagino che sugli schermi sia sembrato tutto piuttosto strano”.
“All’interno della sala, tuttavia, la gente si stava divertendo. Cosa posso dirvi? Non sembrava fuori dall’ordinario”.
“Sembrava quasi intimo. E alla fine, Trump ha fatto qualcosa che fa molto raramente. È sceso dal palco e si è mescolato ai suoi sostenitori”.
“Ha firmato autografi e stretto mani”.
Ecco il video della ABC :
Ci aspettiamo una rettifica da parte del Corriere Della Sera e soci…
Questo fronte emergente della Nuova Guerra Fredda vedrà probabilmente l’Intesa sino-russa coordinarsi più strettamente contro l’Occidente guidato dagli Stati Uniti.
L’Africa sta prendendo sempre più piede nelle discussioni dei principali paesi e organizzazioni a causa della sua crescente importanza negli affari globali. L’ONU prevede che più della metà della crescita della popolazione mondiale entro il 2050 avverrà in quel continente, con il numero di persone nell’Africa subsahariana che raddoppierà entro quella data. Ciò aprirà nuove opportunità di mercato e di lavoro accanto a quelle esistenti di risorse che hanno già attirato l’interesse internazionale, ma porterà anche a sfide umanitarie e di sviluppo.
La Dichiarazione di Kazan appena concordata durante l’ultimo Summit dei BRICS parla molto di aiutare e rafforzare l’Africa durante questo periodo di trasformazione, ma questi paesi, sia nel loro insieme, attraverso accordi minilaterali o bilaterali, dovranno inevitabilmente competere con gli Stati Uniti. La grande strategia di quest’ultimi assume diverse forme che saranno brevemente descritte in questa analisi, ma nel complesso mira a impedire gli sforzi degli altri di trarre reciproco vantaggio da questi processi, sfruttando al contempo l’Africa il più possibile.
La manifestazione più visibile di questa strategia è la continua fornitura di aiuti umanitari, che a prima vista sembra nobile ma in realtà è guidata da secondi fini. Questa forma di supporto è stata trasformata in un’arma nel corso dei decenni per coltivare e cooptare élite corrotte al fine di istituzionalizzare relazioni di dipendenza da cui è difficile per i paesi beneficiari liberarsi. Lo scopo è quello di creare leve di influenza che possono essere esercitate per legittimare accordi sbilanciati con l’Occidente.
I BRICS, che da qui in poi si riferiscono al gruppo nel suo complesso, ai suoi minilaterali o ai singoli membri, possono contrastare questo fenomeno assistendo i loro partner africani nello sviluppo agricolo, in modo che alla fine diventino meno dipendenti dagli aiuti americani. I principali produttori di cereali come la Russia possono anche fornire una maggiore quantità di aiuti senza vincoli nel frattempo. Bisogna trovare un equilibrio tra il soddisfare le esigenze immediate e l’avvicinare i paesi all’autosufficienza a lungo termine.
Il modo successivo in cui la strategia degli Stati Uniti verso l’Africa si manifesta è attraverso l’“ Africa Growth and Opportunity Act ” (AGOA) che consente scambi commerciali esenti da dazi tra di loro. L’aspetto negativo di questo accordo è che gli Stati Uniti hanno rimosso paesi come l’Etiopia e il Mali come punizione per essersi rifiutati di conformarsi alle sue richieste politiche. In altre parole, mentre ci sono sicuramente alcuni vantaggi economici da ottenere da questo accordo, possono essere tagliati fuori se i paesi non fanno ciò che gli Stati Uniti vogliono.
La risposta dei BRICS è stata quella di liberalizzare il commercio e gli investimenti con l’Africa nel suo complesso, il che è più facile che mai grazie alla creazione dell’“ Africa Continental Free Trade Area ” (AfCFTA). La Cina è all’avanguardia in questo senso grazie alla sua economia molto più grande e sviluppata rispetto agli altri membri dei BRICS, ma anche Russia, India ed Emirati Arabi Uniti stanno facendo passi da gigante in questa direzione. L’obiettivo è diversificare le partnership commerciali di questi paesi in modo che non vengano destabilizzate se gli Stati Uniti li cacciassero dall’AGOA.
Proseguendo, gli Stati Uniti vogliono guidare il viaggio dell’Africa attraverso la “Quarta Rivoluzione Industriale”/”Grande Reset” (4IR/GR) portando l’intero continente online attraverso l’iniziativa ” Digital Transformation with Africa ” (DTA) di dicembre 2022. Il rapporto del Carnegie Endowment di marzo 2024 ha osservato che non era stato fatto molto con i suoi 800 milioni di dollari promessi fino a quella data, ma se si facesse qualche progresso e non si trattasse solo di un fondo nero o di una trovata pubblicitaria, allora probabilmente porterebbe a una sorveglianza digitale a livello continentale.
I paesi africani potrebbero prendere spunto dai manuali della Russia e di alcuni altri membri dei BRICS emanando leggi sulla localizzazione dei dati, che proibiscono di inviare i dati degli utenti all’estero. Non è una soluzione miracolosa alla sorveglianza digitale, ma fornisce il miglior equilibrio possibile tra i tanto necessari investimenti digitali esteri nelle economie (in questo caso in via di sviluppo) e la sicurezza nazionale. Parallelamente, i paesi africani dovrebbero corteggiare tali investimenti dagli stati dei BRICS, con la Cina che è già un partner primario.
L’estrazione di risorse è un altro elemento della grande strategia degli Stati Uniti nei confronti dell’Africa, che sta diventando prioritaria attraverso il Corridoio di Lobito , inaugurato dagli Stati Uniti e dall’UE nel settembre 2023 per facilitare l’esportazione di minerali dell’Africa meridionale verso il mercato occidentale. Questa regione è ricca di rame, litio e altre risorse indispensabili per la 4IR/GR in cui Stati Uniti e Cina competono ferocemente per modellare i contorni della futura economia globale.
Il modo più sicuro per garantire che i paesi africani ricchi di minerali non vengano sfruttati è emulare il ” National Wealth And Resources (Permanent Sovereignty) Act ” della Tanzania del 2017, che proibiva l’esportazione di materie prime per la lavorazione. Ciò dovrebbe incoraggiare la costruzione di un’industria di lavorazione nazionale per aggiungere valore a queste esportazioni e fornire posti di lavoro alla sua popolazione in crescita. I costi globali aumenteranno se un numero sufficiente di paesi copierà questa politica, ma ciò andrebbe a vantaggio del loro stesso popolo.
Passando alle forme più nefaste della grande strategia statunitense nei confronti dell’Africa, gli osservatori non possono dimenticare le numerose campagne di guerra dell’informazione che sta conducendo in tutto il continente. Queste sono mirate a screditare i suoi rivali come la Russia, ad alimentare la discordia tra stati come tra i membri dei BRICS, Etiopia ed Egitto, ad esempio, e ad esacerbare le differenze interne preesistenti (solitamente incentrate sull’identità) al fine di destabilizzare stati fragili attraverso HybridLa guerra come punizione per non aver ceduto alle richieste degli Stati Uniti.
Le migliori politiche di ” Pre-Bunking, Media Literacy, & Democratic Security ” sono l’unico modo per migliorare le difese degli stati e delle società presi di mira, ma ci vorrà del tempo per applicarle anche nello scenario migliore, quindi è inevitabile che queste campagne portino qualche problema. Il danno reputazionale ai paesi BRICS può essere mitigato tramite contro-operazioni, la discordia tra stati può essere gestita tramite la mediazione BRICS, mentre i conflitti interni potrebbero richiedere assistenza per la sicurezza da parte di alcuni stati BRICS.
L’ultimo punto porta direttamente alla forma successiva in cui si manifesta la grande strategia degli Stati Uniti nei confronti dell’Africa, vale a dire attraverso l’avvio di guerre per procura come quelle che stanno avvenendo nel Sahel. Mali, Burkina Faso e Niger hanno espulso le forze francesi e statunitensi negli ultimi anni, hanno formato un’alleanza prima di esplorare una confederazione e sono stati poi presi di mira da ulteriori attacchi terroristici e separatisti sostenuti dall’estero. Francia e Stati Uniti stanno lavorando a stretto contatto con l’Ucraina per punire quei tre paesi per questo.
La Russia ha assunto la guida nell’aiutare i suoi nuovi partner regionali tramite l’impiego di consiglieri militari e PMC tramite una strategia che è stata elaborata qui per coloro che desiderano saperne di più. Altri paesi BRICS possono aiutare con esportazioni di armi e supporto di intelligence se hanno le capacità e la volontà di farlo, anche se la maggior parte non lo fa e ci si aspetta invece che rimanga ai margini di queste guerre per procura. Se si intensificano, allora non si può escludere che potrebbe seguire un qualche intervento militare occidentale formale.
In ciò risiede la forma finale della grande strategia statunitense, l’azione militare diretta contro i paesi africani, che viene impiegata caso per caso e le cui motivazioni variano ampiamente dalla Somalia alla Libia. L’infame AFRICOM organizza tali attività che sono notevolmente facilitate dall’arcipelago di basi americane, comprese quelle non ufficiali, che si sono diffuse nel continente dal 2001. L’attuale attenzione sul Sahel potrebbe portare a nuove basi per droni in Costa d’Avorio da cui “colpire chirurgicamente” obiettivi nel nord.
Ancora una volta, la Russia è l’unico stato BRICS che ha le capacità e la volontà di contrastare queste minacce, cosa che potrebbe fare autorizzando i suoi partner (inclusi quelli non statali) a reagire contro quegli stati che ospitano basi statunitensi e/o prendono di mira direttamente quelle strutture. La guerra per procura NATO-Russia in Ucraina potrebbe anche essere intensificata come risposta asimmetrica per sbilanciare l’Occidente, ma l’Occidente potrebbe fare lo stesso con la Russia come vendetta per aver sventato i suoi piani in Africa, collegando così questi due nuovi fronti della Guerra Fredda.
La conclusione di questa analisi è che i BRICS hanno un ruolo chiave da svolgere nell’aiutare l’Africa a difendersi dai complotti egemonici degli Stati Uniti, ma solo la Russia lo farà in senso di sicurezza, mentre il sostegno economico della Cina rimarrà ineguagliato. Di conseguenza, questo fronte emergente della Nuova Guerra Fredda vedrà probabilmente la Cina – RussoL’Intesa si coordinerà più strettamente contro l’Occidente guidato dagli Stati Uniti, il che offrirà l’opportunità ad altri stati BRICS, come l’India, di presentarsi ai paesi africani come affidabili equilibristi .
Tutto ciò che fanno i BRICS è riunire alcune delle più grandi economie del mondo, come Cina e India, attori chiave del settore energetico come Russia ed Emirati Arabi Uniti, e alcune delle economie emergenti più promettenti del mondo, come Brasile ed Etiopia, per coordinare volontariamente i loro sforzi per riformare il sistema finanziario globale.
Ishaan Tharoor del Washington Post ha pubblicato mercoledì un articolo provocatorio su ” La crescente tensione all’interno dei BRICS “. Il succo è che i membri sono divisi tra loro sui rispettivi legami con l’Occidente, il che potrebbe presumibilmente ostacolare la cooperazione finanziaria all’interno del loro gruppo. Questa previsione si basa tuttavia su una falsa premessa, poiché i BRICS non diventeranno realisticamente un attore politico, quindi tali differenze tra i suoi membri non influenzeranno negativamente i loro rapporti di lavoro.
È stato spiegato alla fine del mese scorso come ” l’appartenenza o la mancanza di appartenenza ai BRICS non sia in realtà un grosso problema “, poiché il gruppo è solo un’associazione volontaria di paesi che non cedono alcuna sovranità a un’autorità centrale, quindi anche i non membri possono coordinare le loro politiche con i suoi membri se lo desiderano. L’unico vantaggio dell’appartenenza ai BRICS è la partecipazione diretta alle discussioni del gruppo su varie proposte volontarie, mentre altri si limitano ad osservare i loro discorsi o a sentire l’esito in un secondo momento.
Anche se Putin aveva precedentemente accennato al ruolo politico che i BRICS possono svolgere nel mezzo della transizione sistemica globale , questo può essere interpretato a posteriori come una semplice osservazione sull’impatto delle politiche coordinate dei suoi membri per accelerare i processi di multipolarità finanziaria e non come parte di un piano generale. Il motivo per cui i passaggi citati da Tharoor dovrebbero essere visti in questo modo è dovuto a ciò che Putin stesso ha detto ai principali giornalisti dei BRICS durante il suo incontro con loro in vista del vertice di Kazan.
Ha esplicitamente canalizzato il Primo Ministro indiano Narendra Modi, il cui Paese si considera ufficialmente il “ Vishwamitra ” (amico del mondo), per dire loro che “i BRICS non sono un’alleanza anti-occidentale; sono semplicemente non-occidentali”. Questo è stato subito seguito dal Ministro degli Esteri Sergey Lavrov che ha educatamente corretto il Presidente kazako Kassym-Jomart Tokayev per essere stato presumibilmente dell’opinione che i BRICS aspirassero a diventare un’alternativa all’ONU. Queste dichiarazioni smentiscono l’affermazione di Tharoor sulle intenzioni del Cremlino.
Tutto ciò che fanno i BRICS è riunire alcune delle più grandi economie del mondo come Cina e India, attori chiave dell’energia come Russia ed Emirati Arabi Uniti e alcune delle economie emergenti più promettenti del mondo come Brasile ed Etiopia per coordinare volontariamente i loro sforzi per riformare il sistema finanziario globale. Le asimmetrie economiche e politiche tra di loro limitano l’estensione della cooperazione multilaterale, ma possono ancora trovare un terreno comune e i principali accordi bilaterali e minilaterali possono andare ancora oltre in questo senso.
Il fatto è che tutti i paesi BRICS hanno un interesse comune in questo nonostante le differenze tra loro, compresi i rispettivi legami con l’Occidente, motivo per cui la previsione di Tharoor su queste differenze che impediscono la cooperazione finanziaria non si avvererà. Prima tutti correggeranno le loro percezioni errate sulla funzione prevista dai BRICS nella transizione sistemica globale, prima prodotti analitici e giornalistici più accurati entreranno nel discorso globale a vantaggio di tutti.
La questione venezuelana è una questione in bianco e nero: o si sostengono gli sforzi di Lula e Biden per un cambio di regime in Venezuela, ognuno dei quali porta avanti questo progetto a modo suo ma comunque coordinato, oppure si sostiene la difesa dell’indipendenza e della sovranità del Venezuela da parte di Maduro e Putin.
Il Partito dei Lavoratori brasiliano al governo (PT, per la sua abbreviazione portoghese) si è presentato come un campione iberoamericano della multipolarità sin dalla sua nascita, così come il suo leader, il Presidente Lula, sin dall’inizio del suo primo mandato nel 2003, ma queste narrazioni sono ora messe in discussione come mai prima dopo la scorsa settimana. Brasil de Fato ha citato fonti diplomatiche per riferire che il Brasile ha posto il veto alla richiesta di partenariato BRICS del Venezuela, mentre Putin ha anche riconosciuto durante una conferenza stampa che Russia e Brasile non sono d’accordo sul Venezuela.
Questo risultato è stato reso ancora più scandaloso dall’inaspettato ” trauma cranico ” di Lula, che sarebbe stato la causa del suo mancato volo per Kazan e della visita a sorpresa del presidente venezuelano Maduro all’evento. Lula potrebbe aver inventato il suo infortunio o averlo esagerato per non mettersi ulteriormente in imbarazzo discutendo di persona contro la richiesta di partnership BRICS del suo vicino multipolare. Potrebbe anche aver sentito parlare dei piani di Maduro e quindi essersi tirato indietro per evitare un potenziale confronto lì.
In ogni caso, uno dei maggiori produttori di energia al mondo non è stato in grado di ottenere il supporto consensuale richiesto per la partnership con la principale piattaforma finanziaria multipolare al mondo, sebbene questa analisi qui del mese scorso spieghi come i non membri e i partner possano ancora coordinare le loro politiche associate con i BRICS. Comunque sia, è stato comunque un duro colpo per il prestigio del Venezuela non essere stato inaugurato come partner ufficiale, ma il PT di Lula ha danneggiato la propria reputazione in un modo molto peggiore, a quanto si dice, ponendo il veto a questo.
Tenendo a mente la suddetta intuizione su come qualsiasi paese possa coordinare volontariamente le sue politiche associate con i BRICS anche in assenza di un’appartenenza formale o di uno status di partenariato, il Brasile avrebbe potuto lasciare che il Venezuela si unisse per mantenere la farsa del PT di essere un campione multipolare. Invece, lo ha impedito maliziosamente, il che è servito solo a dare un segnale di virtù al sostegno della politica condivisa dei Democratici al governo degli Stati Uniti nei confronti di quel paese a scapito della fiducia che il Brasile ha costruito all’interno dei BRICS.
Ad agosto è stato spiegato come ” La condanna di Ortega dell’ingerenza di Lula in Venezuela smentisce una delle principali bugie dei media alternativi “, che alla fine è collegato a un elenco di oltre 50 analisi correlate da ottobre 2022 fino ad allora sull’allineamento ideologico di Lula dopo la prigionia con il suddetto partito imperialista. In breve, lui e il suo partito non sono mai stati veri campioni multipolari come si presentavano, ma sono sempre stati più simili ai “socialdemocratici” o a quella che è stata chiamata la ” sinistra compatibile ” dai tradizionali sinistrorsi.
Nel frattempo, tuttavia, gli influencer dei social media del PT e la cricca di sostenitori settari in tutto il mondo hanno aggressivamente tenuto sotto controllo la falsa narrazione che i loro “eroi” hanno promosso. Ciò ha spesso assunto la forma di “cancellare” ferocemente chiunque osasse anche solo lontanamente mettere in discussione questo dogma sfatato. Questa farsa è stata quindi mantenuta fino alla scorsa settimana, quando è diventato impossibile negare che il PT di Lula avesse tradito il leader multipolare regionale Venezuela solo per ingraziarsi quello che potrebbe presto essere il partito di governo uscente degli Stati Uniti.
Non ci dovrebbero essere dubbi sulla veridicità delle fonti diplomatiche di Brasil de Fato neanche dopo che il Ministero degli Esteri venezuelano ha rilasciato una dichiarazione ufficiale che criticava il veto di Lula. L’hanno descritta come un'”aggressione immorale” che “riproduceva l’odio, l’esclusione e l’intolleranza promossi dai centri di potere in Occidente”. Hanno poi aggiunto che “il popolo venezuelano prova indignazione e vergogna” dopo ciò che Lula ha appena fatto. Sono parole molto forti che dovrebbero essere prese molto seriamente.
I lettori dovrebbero anche sapere che mentre Lula non ha riconosciuto la rielezione di Maduro, Putin ha tuonato con orgoglio durante l’evento della scorsa settimana che “il Venezuela sta lottando per la sua indipendenza, per la sua sovranità… Crediamo che il presidente Maduro abbia vinto le elezioni, le abbia vinte in modo leale. Ha formato un governo”. Le sue parole hanno gettato il PT sulle corna di un altro dilemma narrativo suggerendo che la posizione del Brasile è contro “l’indipendenza” e la “sovranità” di un altro paese del Sud del mondo.
La questione venezuelana è quindi una questione in bianco e nero: o si sostengono gli sforzi di Lula e Biden per un cambio di regime in Venezuela, con ognuno che li porta avanti a modo suo ma comunque coordinato, o si sostiene la difesa dell’indipendenza e della sovranità del Venezuela da parte di Maduro e Putin. Non c’è via di mezzo, non importa quali bugie i principali influencer del PT potrebbero presto vomitare. I membri onesti della comunità Alt-Media riferiranno con precisione questo, mentre quelli disonesti continueranno a coprire il PT.
Molte persone in tutto il mondo hanno la stessa falsa impressione di Tokayev sui BRICS.
L’ultima intervista del ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov al quotidiano russo “Arguments and Facts”, che può essere letta nella sua versione originale russa qui con l’ausilio di Google Translate per chi ne avesse bisogno, lo ha visto correggere educatamente il presidente kazako Kassym-Jomart Tokayev per la sua presunta osservazione sui BRICS. Il rappresentante di Tokayev ha recentemente lasciato intendere che il suo capo è dell’opinione che i BRICS aspirino a diventare un’alternativa all’ONU. Ecco cosa ha detto ai media locali secondo il rapporto TASS a riguardo:
“Il Kazakistan si asterrà dal presentare una domanda di adesione ai BRICS, tenendo conto del processo di revisione dell’adesione in più fasi, nonché di altri fattori correlati allo sviluppo futuro di questa associazione. Il Kazakistan segue con interesse lo sviluppo dei BRICS e sostiene gli appelli agli stati membri fondatori affinché lavorino per l’istituzione di un ordine mondiale giusto e democratico, libero da egemonia e superpotenze.
…
Il presidente ha ripetutamente promosso l’ONU come un’organizzazione universale e indispensabile, sulla cui piattaforma le parti possono e devono discutere tutte le questioni internazionali di attualità, comprese quelle relative alla creazione di un giusto ordine mondiale. L’ONU ha le sue carenze, ma non ci sono organizzazioni alternative, ecco perché ha bisogno del sostegno della comunità internazionale… [Tokayev] ritiene che sia necessario iniziare a riformare il Consiglio di sicurezza dell’ONU dopo ampie consultazioni con gli stati membri dell’ONU”.
Ecco come ha reagito Lavrov:
“Questa posizione deve essere chiarita. Il Kazakistan è membro di molte altre organizzazioni: l’OSCE, la CSI, la CSTO, la SCO e un membro attivo dell’Organizzazione degli Stati turchi, che, su iniziativa della Turchia, sta ora rafforzando i legami ed è in ascesa. L’organizzazione presta grande attenzione ai rappresentanti dei nostri alleati dell’Asia centrale e ai partner strategici.
Niente di tutto ciò impedisce al Kazakistan o ad altri paesi dell’Asia centrale di partecipare attivamente alle Nazioni Unite, che sono una struttura universale, ma che ora sta attraversando una crisi senza alcuna colpa da parte nostra.
Mi sembra che alla fine i nostri vicini del sud, alleati nella CSTO e soprattutto nell’EAEU, trarranno vantaggi diretti per sé stessi dal riavvicinamento con i BRICS. Non è necessario unirsi, ma cooperare nell’implementazione di progetti specifici, non c’è dubbio. Questo è nell’interesse di tutti noi”.
Ed ecco tre informazioni di base sul Kazakistan che aiutano a contestualizzare la decisione:
Per riassumere, il Kazakistan rispetta ufficiosamente alcune sanzioni occidentali contro la Russia, il che rischia di mettere a repentaglio parte del commercio russo con altre repubbliche dell’Asia centrale e la Cina. Tuttavia, l’economia del Kazakistan dipende dalla Russia, quindi non può tagliarla fuori, ma sta anche cercando di diversificare il suo commercio con Cina, UE e Turchia tramite il ” Corridoio di mezzo “. La leadership del paese è quindi molto sensibile alle percezioni occidentali che si schierano con la Russia per paura che ciò comporti una maggiore pressione su di essa.
Questo spiega perché il rappresentante di Tokayev ha annunciato che il Kazakistan non si unirà ai BRICS a causa dell’impressione del suo capo che aspira a sostituire l’ONU, il che è in realtà una visione falsa ma che è comunque fortemente promossa dai media mainstream e persino da alcuni influencer nella comunità dei media alternativi . Diversi giorni dopo, Putin ha canalizzato il primo ministro indiano Modi durante un incontro con i principali giornalisti dei BRICS per chiarire che “i BRICS non sono un’alleanza anti-occidentale; sono semplicemente non-occidentali”.
Tokayev ha ancora intenzione di partecipare agli incontri di questa settimana in formato BRICS Plus/Outreach, quindi la sua controparte russa potrebbe sperare che ciò che lui e Lavrov hanno detto nei giorni successivi all’annuncio del suo rappresentante possa convincerlo a riconsiderare. Anche se rimane recalcitrante a causa delle pressioni occidentali, è importante ricordare ciò che Lavrov ha detto su come “non sia necessario unirsi” ai BRICS per raccogliere alcuni dei suoi benefici, in particolare per quanto riguarda qualsiasi progetto regionale che potrebbe presto svelare.
Questo punto riecheggia quello sollevato il mese scorso su come ” l’appartenenza o la mancanza di appartenenza ai BRICS non sia in realtà un grosso problema “, poiché qualsiasi paese può ancora coordinare l’accelerazione dei processi di multipolarità finanziaria con quei paesi senza essere una parte formale della loro rete. Questo è il punto centrale dei BRICS, che non sono mai stati quelli di servire come alternativa all’ONU o di assemblare un’alleanza anti-occidentale, ma semplicemente di unire i loro sforzi per riformare il sistema finanziario globale.
Sono possibili anche altre forme di cooperazione, ma tutto rimane strettamente volontario poiché i membri non accettano di cedere alcun grado della loro sovranità ai BRICS al momento dell’adesione, quindi qualsiasi altra iniziativa possa essere discussa durante il summit di questa settimana sarebbe solo facoltativa. Considerando questo, non è importante se il Kazakistan si unisca formalmente ai BRICS o meno poiché manterrebbe la sua sovranità in entrambi i casi, ma si spera che coopererà comunque volontariamente con i BRICS, indipendentemente da ciò che deciderà di fare
L’India e la Cina hanno tenuto diversi cicli di colloqui sul loro confine conteso dal 2020, ma non c’è stata alcuna svolta fino a quando i legami indo-statunitensi sono diventati caratterizzati dalla sfiducia a seguito dello scandalo dell’estate 2023 e di tutto ciò che ne è seguito, soprattutto negli ultimi mesi.
L’India ha annunciato all’inizio di questa settimana che essa e la Cina hanno concordato di pattugliare la loro zona di confine contesa come avveniva prima dei letali scontri nella valle del fiume Galwan del giugno 2020. Ciò è stato possibile grazie al fatto che la Cina ha finalmente soddisfatto la richiesta di lunga data dell’India, che a sua volta ha spianato la strada ai loro leader per tenere un incontro bilaterale a margine del vertice BRICS di questa settimana a Kazan. Ciò di cui molti non si rendono conto, tuttavia, è che gli Stati Uniti sono stati inavvertitamente responsabili della facilitazione dell’accordo.
Questa analisi qui di inizio maggio spiega come lo scandalo dell’estate 2023 su un presunto tentativo di assassinio indiano contro un terrorista-separatista designato da Delhi con doppia cittadinanza americana sul suolo degli Stati Uniti abbia rappresentato un punto di svolta nei loro legami. Gli Stati Uniti hanno poi continuato con il loro gioco del poliziotto buono, poliziotto cattivo contro l’India, prima di spingere il Canada a escalare la sua relativa disputa con l’India all’inizio di questo mese. Anche prima degli ultimi sviluppi, tuttavia, i legami tra India e Stati Uniti si erano già notevolmente inaspriti sulla questione.
L’India e la Cina hanno tenuto diversi cicli di colloqui sul loro confine conteso dal 2020, ma non c’è stata alcuna svolta fino a quando i legami indo-statunitensi sono diventati caratterizzati dalla sfiducia a seguito dello scandalo dell’estate 2023 e di tutto ciò che ne è seguito. La Cina si è resa conto che il precedente livello di fiducia tra i due non tornerà mai più, il che ha placato le sue preoccupazioni sul fatto che l’India stia giocando un ruolo di primo piano nella politica di contenimento degli Stati Uniti. Questo cambiamento di percezione ha portato la Cina a riconsiderare la sua politica informale nei confronti della disputa sui confini.
La Cina era stata riluttante a tornare allo status quo ante bellum, in quanto considerato una concessione unilaterale che avrebbe potuto dare un segnale di debolezza e peggiorare la sua posizione nel Mar Cinese Meridionale. La drastica flessione dei legami indo-statunitensi, tuttavia, ha portato a percepire quanto sopra come un mezzo pragmatico per gestire le suddette preoccupazioni circa il contenimento della Cina da parte dell’India in coordinamento con gli Stati Uniti. Il miglioramento dei legami sino-indiani potrebbe quindi porre dei limiti al futuro miglioramento di quelli indo-americani.
Soddisfare finalmente la richiesta dell’India di risolvere le tensioni post-Galwan e di conseguenza rimettere in carreggiata la loro partnership in mezzo alla drammatica flessione dei legami indo-americani potrebbe precludere la possibilità che l’India partecipi allo schema di contenimento degli Stati Uniti. Nessun miglioramento dei legami indo-statunitensi avverrebbe a scapito di quelli sino-statunitensi, se ciò accadrà dopo che questo delicato problema sarà stato finalmente ricucito e l’India non avrà più la stessa percezione di minaccia nei confronti della Cina.
La Cina e l’India hanno una naturale complementarietà economica e se i due maggiori Paesi del mondo trovassero il modo di liberare tutto il loro potenziale reciproco risolvendo le loro delicate questioni territoriali e ripristinando di conseguenza la fiducia reciproca, gli affari globali comincerebbero a ruotare intorno a loro. Per questo motivo gli Stati Uniti hanno cercato di dividerli e dominarli attraverso la guerra dell’informazione e la loro politica di “triangolazione” kissingeriana, che però è fallita dopo aver esagerato con le pressioni sull’India per lo scandalo di Estate 2023.
A proposito di ciò, gli Stati Uniti non hanno mai rispettato l’India come partner paritario e hanno invece cercato di sottometterla come un vassallo, chiedendo all’India di conformarsi alle sanzioni unilaterali dell’Occidente contro la Russia, cosa inaccettabile sia per motivi economici che di principio. Gli Stati Uniti temevano anche l’ascesa astronomica dell’India come Grande Potenza dall’inizio dell’operazione speciale , alimentata in larga misura dall’energia russa scontata, poiché questa ha accelerato i processi multipolari a scapito della sua egemonia unipolare.
Questo spiega perché il Bangladesh abbia sfruttato lo scandalo dell’estate 2023 per peggiorare i loro legami, si sia intromesso nelle precedenti elezioni generali di quest’anno e abbia persino contribuito a rovesciare il governo del Bangladesh qualche mese fa per fare pressione sull’India e indurla ad assecondare le sue richieste, per poi punirla quando ciò non è avvenuto. I legami militari e commerciali rimangono stabili per ora, ma non si può dare per scontato, dal punto di vista dell’India, che questo rimanga tale, dato che i loro legami politici continuano a deteriorarsi a causa dello scandalo dell’estate 2023.
Possono gestire tranquillamente la loro competizione in Bangladesh e cercare di trovare un modus vivendi lì, mentre l’ingerenza degli Stati Uniti non è stata diretta né abbastanza intensa come in altre elezioni da peggiorare seriamente i loro legami, ed è per questo che lo scandalo dell’estate 2023 rimane la più problematica delle loro dispute. Invece di lasciare che si plachi, gli Stati Uniti continuano a inasprirlo a intervalli periodici, sia da soli che attraverso il loro proxy canadese. Questo ha informato l’India che gli Stati Uniti hanno intenzioni malevole e non ci si potrà mai più fidare del tutto.
Di conseguenza, l’India si è rallegrata del fatto che la Cina abbia finalmente deciso di soddisfare la sua richiesta di lunga data di risolvere le tensioni post-Galwan e di rimettere in carreggiata i legami bilaterali, dimostrando agli Stati Uniti che l’India non diventerà mai un suo vassallo. Inoltre, l’India ha anche dimostrato di essere abbastanza influente da accelerare ulteriormente i processi multipolari a scapito dell’egemonia unipolare degli Stati Uniti, come vendetta per essere stata maltrattata, anche se il suo partner ribelle potrebbe ancora non cambiare strada.
Anche nella remota possibilità che lo faccia, la fiducia reciproca che caratterizzava i loro legami prima dello scandalo dell’estate 2023 non tornerà mai più, escludendo così la possibilità che l’India contenga la Cina in coordinamento con gli Stati Uniti in futuro. Ciò è particolarmente vero dopo che la Cina ha appena rimosso il principale fattore di irritazione nelle loro relazioni negli ultimi quattro anni, responsabile della dimensione militare dei legami indo-statunitensi che ha spinto la Repubblica Popolare a ipotizzare che l’India stesse cercando di contenerla insieme agli Stati Uniti.
A posteriori, e a condizione che l’incipiente riavvicinamento sino-indiano continui, la campagna di pressione degli Stati Uniti contro l’India potrebbe essere vista come una svolta per il modo in cui è pronta a rimodellare le dinamiche strategiche della transizione sistemica globale. Il significativo miglioramento delle relazioni sino-indiane potrebbe portarle a liberare il loro pieno potenziale reciproco, che, in caso di successo, rivoluzionerebbe le relazioni internazionali e porrebbe fine ancora più rapidamente all’egemonia unipolare degli Stati Uniti.
Gli ucraini e il loro Stato hanno sputato in faccia ai polacchi per troppo tempo, motivo per cui la maggior parte di questi ultimi ora vuole gettare coloro che li hanno succhiati nel tritacarne russo per vendicarsi.
Dopo aver condiviso il contesto statistico in evoluzione per coloro che sono interessati, è ora il momento di evidenziare cosa ha mostrato l’ultimo sondaggio. Solo poco più della metà dei polacchi (53%) sostiene l’accettazione di più rifugiati ucraini, mentre due terzi (67%) vogliono deportare i maschi ucraini in età di leva (25-60 anni). Meno della metà (46%) sostiene che l’Ucraina continui a combattere la Russia, un po’ meno (39%) vuole che rinunci al territorio in cambio della pace e un po’ di più (44%) crede che ciò accadrà comunque.
Il contesto militare-strategico in cui sono stati ottenuti questi risultati è che la Polonia ha confermato a fine agosto, diverse settimane prima che il sondaggio fosse condotto tra il 12 e il 22 settembre, di aver già raggiunto il massimo del suo supporto militare all’Ucraina. Anche i media mainstream come la CNN hanno iniziato a condividere scorci di quanto tutto fosse diventato negativo per l’Ucraina. La disputa sul genocidio della Volinia , che fa infuriare profondamente la maggior parte dei polacchi, è tornata alla ribalta delle relazioni bilaterali all’inizio di settembre.
Questa confluenza di fattori ha contribuito a catalizzare le tendenze preesistenti scoperte dai sondaggi citati in precedenza e ha portato alla sorprendente situazione in cui due terzi dei polacchi vogliono deportare i maschi ucraini in età di leva, anche se meno della metà sostiene che l’Ucraina continui a combattere la Russia. In altre parole, vogliono mandarli a morte per una causa che loro stessi non sostengono più, il che allude a un sentimento di vendetta nei loro confronti di cui solo ora si sta discutendo tra alti funzionari.
Il ministro della Difesa Wladyslaw Kosiniak-Kamysz ha detto a un intervistatore la scorsa settimana che “Il fatto è che la nostra società è molto scioccata nel vedere giovani ucraini alla guida delle migliori auto, che trascorrono i weekend in hotel a cinque stelle. E questo è ingiusto nei confronti dei polacchi, che contribuiscono all’assistenza sanitaria, ai sussidi, all’istruzione, per non parlare delle forniture di armi e di altre forme di assistenza”. Lui stesso ha anche espresso risentimento nei confronti dei suoi pari ucraini a livello statale, accusandoli di dare per scontato l’aiuto polacco.
Nelle sue parole, “Abbiamo dato all’Ucraina equipaggiamento militare per un valore di oltre 15 miliardi di złoty e siamo stati i primi a farlo quando gli altri si chiedevano se potevano inviare qualcosa. Se noi, come Polonia, non avessimo dato loro tutti quei carri armati, aerei e altre armi, non ci sarebbe nessuno ad aiutarli oggi. E ho la sensazione che la parte ucraina non se lo ricordi, non sia consapevole che se non fosse stato per questo aiuto polacco, non avrebbero raggiunto la fase in cui sono oggi. Questo non è giusto”.
Ne consegue quindi che un numero crescente di polacchi si è stufato dei rifugiati ucraini e della guerra per procura dopo aver avuto la sensazione che il loro paese fosse stato sfruttato. I polacchi sono un popolo generoso, ma hanno anche abbastanza amor proprio da non tollerare l’ingratitudine di coloro che aiutano. Gli ucraini e il loro stato hanno sputato in faccia ai polacchi per troppo tempo, motivo per cui la maggior parte di questi ultimi ora vuole gettare coloro che hanno succhiato loro sangue nel tritacarne russo per vendetta.
Ho lavorato duramente per guadagnarmi la fiducia degli indiani dopo averla persa, mentre Karolina ha appena tradito la fiducia che si era guadagnata da oltre 1,2 milioni di loro con ciò che ha appena fatto.
La YouTuber polacca super popolare Karolina Goswami, il cui canale “India In Details” ha oltre 1,2 milioni di iscritti, ha svelato una stravagante teoria della cospirazione russo-Khalistan per avvelenare la corsa al vertice BRICS di questa settimana. Dal minuto 5:40 al 7:05 di questo video qui , lei insinua che il Cremlino ha doppi standard su questo problema perché RT a volte mi mette in una piattaforma nonostante io abbia scritto in precedenza in modo positivo sul Khalistan per Geopolitica, che è un think tank collegato al filosofo russo Alexander Dugin.
Karolina poi mi diffama come “un’importante risorsa ‘pro-Russia’ per i russi” prima di suggerire che i media indiani stanno ignorando ciò che ho scritto anni fa per quel sito su questo problema perché ora dico “cose ‘dolci’ e ‘meravigliose’ sull’India”. Termina i suoi attacchi alla mia reputazione chiedendo che la Russia “prenda le misure appropriate contro questi articoli spazzatura e verifichi la fonte dei finanziamenti di quest’uomo e le sue vere intenzioni”. Suggerisce anche che le autorità indiane chiedano alla Russia di rimuovere quei vecchi articoli.
Vorrei affrontare tutto punto per punto. Per cominciare, devo ammettere che sono stato molto critico nei confronti dell’India dal 2015 al 2021 perché avevo l’impressione che si stesse orientando verso gli Stati Uniti a spese della Russia e che stesse anche rischiando una guerra catastrofica con la Cina che avrebbe consentito all’America di dividere e governare più facilmente l’Asia. Questo paradigma ha plasmato le mie analisi di quel paese durante quel periodo, ma le mie opinioni si sono evolute man mano che l’India ricalibrava il suo atto di bilanciamento geopolitico (politica di ” multi-allineamento “), che ho spiegato ampiamente qui:
Tutte e cinque le analisi sono per il Russian International Affairs Council (RIAC), uno dei think tank più prestigiosi della Russia, tanto che il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov è presidente del consiglio di amministrazione . Sono anche arrivate dopo la mia serie Khalistan di diversi anni prima. A questo proposito, in linea con il paradigma obsoleto che ho utilizzato durante quel periodo quando ho analizzato l’India, mi sono allineato con ciò che può essere descritto come visioni di estrema sinistra nei confronti di quel paese.
Da giovane ero un uomo di sinistra, ma mi sono evoluto fino a diventare il conservatore-nazionalista che sono orgogliosamente oggi, eppure sono rimaste alcune tendenze persistenti che hanno continuato a manifestarsi nel mio lavoro, in particolare per quanto riguarda i conflitti interni all’India. Di conseguenza ho abbracciato la causa Khalistani, ma me ne sono allontanato nel 2021, quando ho capito che c’era molto di più di quanto pensassi. Allo stesso modo, ho fatto lo stesso per quanto riguarda il Kashmir , e oggigiorno le mie opinioni su entrambi sono cambiate.
Mentre prima ero a favore dell’indipendenza del Kashmir e del Khalistani, ora sono un fermo sostenitore della preservazione dell’integrità territoriale dell’India, il che è in linea con il mio nuovo paradigma di analisi. Non mi scuserò mai per la mia precedente difesa, poiché ero sincero con le mie intenzioni, ma come tutti gli analisti onesti, ho tenuto conto di ciò con analisi di follow-up che riflettevano la mia nuova comprensione di queste questioni. Poiché il Khalistan è al centro della stravagante cospirazione di Karolina, ecco la mia biblioteca aggiornata di lavori su questo argomento:
Come si può vedere da queste quasi due dozzine di analisi, molte delle quali menzionano questo argomento e linkano ad alcuni di quegli articoli nonostante non vi siano dedicate, ho fatto del mio meglio per mettere le cose in chiaro e correggere le percezioni di coloro che potrebbero essere stati influenzati dal mio lavoro obsoleto. È quindi molto disonesto da parte di Karolina descrivermi nel weekend come “un elemento ‘pro-Khalistani'” quando è molto chiaro che non sostengo più quella causa e mi sono dedicato a combatterla.
Passando ad affrontare gli altri suoi attacchi dopo aver sfatato quello, RT non mi ha mai ospitato per discutere di questo problema e i loro inviti a unirmi ai loro programmi non sono approvazioni di ogni singola cosa che abbia mai scritto o detto, né è il caso di qualsiasi canale che invita qualcuno. Karolina è ancora una volta disonesta quando suggerisce che le mie rare apparizioni nei loro programmi equivalgono a un’approvazione del mio lavoro obsoleto che da allora ho rinnegato.
Quanto al motivo per cui Geopolitica l’ha pubblicato, è un think tank indipendente che a volte cerca di generare discussioni su questioni delicate, e non c’è mai stata alcuna indicazione che sostengano le mie opinioni. Il rapporto di Dugin con loro non significa nemmeno che abbia letto quegli articoli, né che sia d’accordo con loro, anche se lo ha fatto. Karolina ha poi fatto riferimento a false affermazioni sul fatto che lui fosse il “filosofo di Putin” per insinuare che i miei articoli per il suo sito in qualche modo influenzano indirettamente Putin tramite Dugin. È super bizzarro.
È anche altrettanto assurdo che lei pretenda che le autorità russe “controllino la fonte del [mio] finanziamento”, il che suggerisce che io stia violando la rigida legislazione del paese sugli agenti stranieri. Ciò è assolutamente falso ed è reso ancora più ridicolo dal fatto che io, un orgoglioso americano-polacco con doppia cittadinanza polacca, vivo ancora a Mosca senza alcun problema legale nonostante la campagna di controspionaggio nazionale in corso da due anni e mezzo che coincide con l’operazione speciale.
Se ci fosse stata anche la più remota possibilità che potessi violare la legge, sarei già stato arrestato o addirittura deportato, soprattutto perché ho la doppia cittadinanza di due “paesi ostili” ufficialmente designati che la Russia ritiene stiano conducendo una guerra per procura contro di essa. Ciò ovviamente non è accaduto, ed è proprio perché non c’è verità in ciò che ha insinuato, che si aspettava maliziosamente che avrebbe manipolato i servizi di sicurezza per causarmi problemi legali. È estremamente immorale da parte sua.
Karolina critica anche la Russia in alcuni dei suoi video come questi qui , qui , qui , qui e qui e cerca di mettere gli indiani contro di essa, inoltre è anche cittadina di un “paese ostile” ufficialmente designato (Polonia), quindi le sue richieste alle autorità russe cadranno inevitabilmente nel vuoto. Non solo, ma potrebbero anche chiedere ai loro partner strategici di decenni in India “di verificare la fonte dei [suoi] finanziamenti e le [sue] vere intenzioni” dopo la sua provocazione di infowar proprio prima del vertice dei BRICS.
Dal punto di vista speculativo delle agenzie di sicurezza russe, non si può escludere che i “soliti noti” possano essere dietro al suo riesumare il mio lavoro obsoleto e travisarlo come rappresentante delle opinioni del Cremlino su questa delicata questione in questo particolare momento, in modo da rovinare lo spirito del vertice BRICS di questa settimana. Non è un segreto che l’Occidente stia facendo pressione sull’India affinché prenda le distanze dalla Russia e stia cercando di manipolare la percezione che gli indiani hanno di essa, ecco perché la Russia potrebbe chiedere all’India di esaminare i suoi collegamenti.
Dopo aver spiegato perché non sto violando la rigida legislazione russa sugli agenti stranieri come lei ha suggerito, il che è un insulto alla professionalità dei servizi di sicurezza del paese data la loro continua campagna di controspionaggio a livello nazionale, ora smentirò la sua diffamazione secondo cui sono “una risorsa ‘pro-Russia’”. Per essere chiari, mi considero orgogliosamente un membro amico della Russia della comunità Alt-Media , ma non sono una “risorsa” dello stato come lei lascia intendere, ed è pericoloso per lei, in quanto polacca super popolare, insinuare che lo sia.
Sono fieramente indipendente e critico in modo costruttivo la Russia ogni volta che ritengo che sia giustificato, anche per quanto riguarda l’operazione speciale, poiché sostengo fermamente la grande strategia multipolare del paese. I miei lavori associati mirano a informare chiunque abbia influenza qui e possa leggerli sui modi in cui possono migliorare l’implementazione delle politiche a questo scopo. Pertanto, a volte sono molto schietto e di conseguenza mi esprimo in modi che nessun “bene ‘pro-Russia’” farebbe mai, come chiunque può vedere di seguito:
Ho anche chiamato educatamente Medvedev su X qui e qui per aver usato l’insulto “polacco” due volte in uno dei suoi post all’inizio di quest’anno per riferirsi a noi polacchi, cosa che ho fatto in difesa di principio del mio gruppo etnico a causa dell’orgoglio che ho nell’essere polacco, ma che sarebbe inaccettabile per qualsiasi “risorsa ‘filo-russa’”. Ho spiegato all’inizio di maggio 2022 che ” Ciò che viene disonestamente diffamato come ‘propaganda russa’ è solo la visione del mondo multipolare “, che è ciò che sostengo: una visione del mondo multipolare e non “propaganda russa”.
Diffamandomi come una “risorsa ‘pro-Russia’” ai suoi oltre 1,2 milioni di abbonati, Karolina sta dando falsa credibilità alla teoria della cospirazione che altri hanno precedentemente spinto su di me, che potrebbe manipolare i servizi di sicurezza polacchi per causarmi problemi legali. Sta quindi giocando un doppio gioco insinuando che sto violando le severe leggi russe sugli agenti stranieri per causarmi problemi legali in Russia, ma poi diffamandomi come una “risorsa pro-Russia” per causarmi problemi in Polonia.
Ho già fatto causa a una giornalista polacca con una portata sui social media molto più piccola di Karolina per avermi diffamato come “agente dell’FSB” a gennaio e quindi esplorerò se posso fare causa anche a lei, anche se non è più sotto la giurisdizione della nostra patria comune. Il mio sogno è di portare un giorno mio figlio piccolo (a cui ho dato un nome tradizionale polacco) in Polonia quando sarà cresciuto per mostrargli la nostra gloriosa eredità. Ora sono preoccupato, tuttavia, che la diffamazione di Karolina potrebbe causarmi qualche problema lì se lo facessi.
Amo la Polonia, anche se critico in modo costruttivo le sue politiche, proprio come faccio con la Russia, ma so anche che il nostro governo è nel mezzo di un’isteria anti-russa, motivo per cui sono preoccupato che la diffamazione di questa YouTuber super popolare possa essere sfruttata come pretesto per rovinarmi la vita se dovessi tornare in Polonia. Ciò che ha fatto Karolina è quindi estremamente immorale, molto pericoloso e persino decisamente spregevole quando si tratta di lei che cerca di manipolare i servizi di sicurezza russi contro di me, il suo connazionale.
Non ho paura di vivere nella Federazione Russa come Polacco, che non è l’Impero Russo né l’Unione Sovietica e quindi non ha mai implementato alcuna politica statale mirata contro il nostro gruppo etnico, ma lei, in quanto Polacca nata e cresciuta, è ben consapevole di ciò che i suoi stati predecessori ci hanno fatto nel corso dei secoli. Per lei cercare di manipolare i servizi di sicurezza russi contro di me con il falso pretesto implicito che sto violando la sua rigida legge sugli agenti stranieri è qualcosa che nessun Polacco veramente patriottico farebbe mai da solo.
Ciò che si aspetta è qualcosa di peggio dei guai legali dovuti ai precedenti storici a cui ho accennato, nessuno dei quali accadrà per le ragioni che ho già spiegato, e questo rende le sue intenzioni l’incarnazione del male. Lo stesso vale per ciò che ha detto esplicitamente sul fatto che io sia “una risorsa ‘pro-Russia’”, poiché potrei non essere più in grado di vivere il mio sogno di portare il mio bambino dal nome tradizionale polacco in Polonia per mostrargli la nostra gloriosa eredità quando crescerà se le autorità crederanno alla sua bugia.
Karolina voleva maliziosamente rovinarmi la vita qui in Russia e in Polonia, per non parlare degli Stati Uniti dove sono nato e cresciuto con orgoglio, attraverso le sue doppie ma contraddittorie diffamazioni nei miei confronti come “una risorsa ‘pro-Russia’” e anche come possibile violatrice della rigida legislazione russa sugli agenti stranieri. Ecco perché esplorerò se posso citarla in giudizio per diffamazione. Anche se non fosse possibile, mi opporrò sempre strenuamente alle sue false descrizioni di me e al modo in cui ha deliberatamente travisato il mio lavoro.
Tornando a ciò che l’ha spinta a fare tutto questo, sono personalmente convinto che volesse rovinare lo spirito del Summit BRICS di questa settimana inventando la sua stravagante teoria della cospirazione russo-khalistana, in cui mi ha ridicolmente messo al centro attraverso le sue allusioni disoneste sui miei legami con lo Stato. Ha riesumato opere obsolete di anni fa che da allora ho rinnegato attraverso le mie quasi due dozzine di serie analitiche su questo argomento nell’ultimo anno per spingere quella falsa narrazione in questo particolare momento.
Non è lei, non io, a non essere una vera amica dell’India. Come si dice, “lo zelo di un convertito è più forte di quello di un credente nato”, e la mia conversazione politica da quella che alcuni possono descrivere come una visione del mondo “anti-indiana” o almeno “critica nei confronti dell’India” a una visione indofila che ho elaborato con orgoglio in cinque analisi per il prestigioso RIAC russo (dove Lavrov è presidente del consiglio di amministrazione) lo dimostra. Al contrario, sta cercando di manipolare il governo indiano e il suo popolo contro di me e la Russia con pretesti disonesti.
La mia evoluzione come analista è un modello da seguire per gli altri. Ognuno dei miei pari dovrebbe rendere conto pubblicamente ogni volta che i propri lavori risultano inaccurati, come è stato il mio caso con il mio su Khalistan e sulla grande strategia indiana in senso più ampio. Abbiamo l’obbligo professionale di mettere le cose in chiaro correggendo le percezioni di coloro che potrebbero essere stati influenzati da ciò che abbiamo scritto in precedenza. Tuttavia, la maggior parte lo fa raramente, poiché l’ego e i secondi fini, siano essi ideologici e/o finanziari, si mettono in mezzo.
A differenza della maggior parte dei miei coetanei, non mi vergogno di correggermi quando sbaglio, come è successo con il Khalistan o quando la mia visione del mondo cambia, come è successo con l’India, ergo perché scrivo con approvazione di quel paese ogni settimana e lo faccio da fine 2021, quando ho avuto la mia epifania. Ho lavorato duramente per guadagnarmi la fiducia degli indiani dopo averla persa, mentre Karolina ha appena tradito la fiducia che si era guadagnata da oltre 1,2 milioni di loro con quello che ha appena fatto. Spero che la chiameranno per questo, proprio come hanno chiamato me nel corso degli anni
Come ha affermato Putin riferendosi a Modi, “I BRICS non sono un’alleanza anti-occidentale; sono semplicemente non-occidentali”, il che è importante che gli osservatori lo ricordino poiché viene spesso erroneamente descritta come anti-occidentale.
L’incontro di venerdì tra Putin e i principali giornalisti dei BRICS ha toccato un’ampia gamma di argomenti, tra cui le relazioni della Russia con Israele che sono state analizzate qui , ma il presente articolo si concentrerà solo sulle lodi che ha riversato sull’India per smentire le false percezioni degli Alt-Media secondo cui si tratterebbe di un ” Trojan”.Cavallo ”. Nell’ordine in cui ha menzionato l’India durante il suo incontro, Putin ha iniziato descrivendola come una “potenza con una crescita positiva record” il cui “potenziale economico in espansione porterà alla loro maggiore influenza globale”.
Poco dopo ha aggiunto che “Il Primo Ministro dell’India l’ha detto meglio. Ha detto che i BRICS non sono un’alleanza anti-occidentale; sono semplicemente non-occidentali. Questa distinzione è molto importante e ha un grande significato”. Questo è stato seguito da una breve storia dei BRICS in cui Putin ha ricordato a tutti che è iniziato come RIC quando Russia, India e Cina si sono riunite a San Pietroburgo all’inizio del secolo. L’India è quindi descritta come il paese con la terza più grande parità di potere d’acquisto al mondo.
Putin ha menzionato l’India insieme a Cina, Brasile e Sudafrica più avanti durante l’incontro come i paesi con cui la Russia sta discutendo l’uso delle valute digitali. Ha anche parlato molto dell’interesse dei russi per i film indiani quando gli è stato chiesto da uno dei giornalisti di quel paese, il che lo ha portato a fare un’osservazione su quanto siano richiesti i prodotti farmaceutici indiani in Russia. Qualche tempo dopo sono state dette alcune parole sull’interesse dell’India per la rotta marittima settentrionale della Russia .
Poi ha completato il tutto verso la fine concordando con un giornalista indiano che il suo paese, la Cina, il Brasile e altri potrebbero potenzialmente contribuire a risolvere la questione ucraina.Conflitto prima di esprimere ottimismo sul futuro dei BRICS. Ciò che si può vedere dai paragrafi precedenti di elogi che Putin ha riversato sull’India è che la rispetta sinceramente e Modi. Sono considerati partner fidati e affidabili, a differenza delle speculazioni che alcuni hanno diffuso negli ultimi anni sul fatto che siano burattini americani.
In effetti, i legami indo-americani hanno subito un duro colpo il giorno prima del suo incontro con i principali giornalisti dei BRICS dopo che il Dipartimento di Giustizia ha incriminato un funzionario indiano in relazione al presunto tentativo dell’estate 2023 di assassinare un terrorista-separatista designato da Delhi con doppia cittadinanza statunitense su suolo americano. Non rientra nell’ambito di questa analisi elaborare quello scandalo, ma i lettori interessati possono saperne di più qui , che discute anche della dimensione canadese di questa questione più ampia che è molto più intensa.
Come ha detto Putin quando ha canalizzato Modi, “BRICS non è un’alleanza anti-occidentale; è semplicemente non-occidentale”, il che è importante che gli osservatori lo ricordino poiché è comunemente mal interpretato come anti-occidentale. Questa è sempre stata una fallacia, poiché i suoi quattro membri fondatori e il Sudafrica avevano tutti relazioni decenti con l’Occidente prima del 2022, dopodiché la Russia ha arrancato mentre gli altri sono rimasti abbastanza positivi. I nuovi membri Egitto, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti hanno legami ancora migliori con essa rispetto agli altri.
Dire che gli stretti legami commerciali e militari dell’India con gli USA sono presumibilmente un tradimento dei BRICS, come hanno fatto alcuni nella comunità dei media alternativi, è quindi disonesto. I BRICS sono solo una piattaforma per accelerare i processi di multipolarità finanziaria e, come spiegato qui il mese scorso, i paesi non devono nemmeno esserne membri per coordinare le loro politiche con gli altri. Elogiando l’India come ha fatto, Putin ha contribuito a ricordare a tutti questo fatto e, si spera, lo incorporeranno nei loro futuri report sui BRICS.
La Moldavia è una società profondamente divisa, come dimostrano gli ultimi risultati del referendum, anche ignorando i sospetti credibili di frode a favore della parte vincente.
La presidente moldava Maia Sandu si è vantata di come il referendum da lei avviato per l’adesione all’UE sia stato approvato di misura nonostante la presunta “lotta ingiusta” contro la sua fazione, che ha attribuito a “gruppi criminali” sostenuti dall’estero che avrebbero presumibilmente cercato di comprare 300.000 voti. Il portavoce dell’UE Peter Strano è stato più diretto nel dichiarare che “Abbiamo notato che questo voto si è svolto sotto un’interferenza e un’intimidazione senza precedenti da parte della Russia e dei suoi delegati, che miravano a destabilizzare i processi democratici”.
Il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha chiesto che “alcune prove (di questa presunta frode) venissero presentate al pubblico” e ha messo in dubbio i risultati dopo un drammatico cambio di rotta tardivo per la parte pro-UE che somigliava sospettosamente a quanto accaduto in alcuni stati indecisi durante le elezioni statunitensi del 2020. L’opposizione ha anche segnalato centinaia di violazioni mentre il giornalista irlandese Chay Bowes ha affermato che la Moldavia ha reso disponibili solo 10.000 schede in Russia nonostante mezzo milione di espatriati avessero diritto al voto.
Vale anche la pena di menzionare che la Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha visitato la Moldavia all’inizio di questo mese, dove ha promesso al suo popolo quasi 2 miliardi di dollari di sostegno finanziario dal suo blocco nei prossimi tre anni. Inoltre, la fase preparatoria di questo referendum e delle elezioni presidenziali che si sono tenute lo stesso giorno (il primo turno è stato vinto da Sandu, quindi il ballottaggio si terrà il 3 novembre) ha visto una repressione dell’opposizione sponsorizzata dallo Stato , comprese affermazioni diffamatorie secondo cui sarebbero sostenute dalla Russia.
Tutto ciò ha reso il referendum moldavo sull’UE né libero né equo, e lo stesso vale per il primo turno delle elezioni presidenziali, ma l’Occidente ha manipolato in anticipo le percezioni circa l’ingerenza straniera in modo da addossare la colpa alla Russia, anche se loro stessi erano gli unici colpevoli di ciò. Vogliono mantenere Sandu al potere in modo che possa guidare l’adesione della Moldavia all’UE, che può poi essere spacciata per una vittoria politica nel mezzo della guerra per procura fallimentare dell’Occidente contro la Russia in Ucraina.
La realtà è che la Moldavia è una società profondamente divisa, come dimostrano gli ultimi risultati del referendum, anche se si ignorano i sospetti credibili di frode a sostegno della parte vincente. Dopo tutto, la tangente di fatto da 2 miliardi di $ di Von der Leyen ha portato solo a un margine di vittoria ufficiale esiguo, pari a circa 12.000 voti, ovvero allo 0,78%. Ciò è dovuto al fatto che molti moldavi sono scettici sui benefici connessi a un’occidentalizzazione a pieno titolo, in particolare nel dominio socio-economico.
Temono che LGBT+ venga imposto al loro paese tradizionalmente conservatore e sono preoccupati per le conseguenze dell’istituzionalizzazione del loro rapporto già sbilanciato con l’UE. Mentre la schiacciante vittoria di Sandu al primo turno potrebbe essere interpretata da alcuni come contraddittoria se vista con questo in mente, non è così netta come alcuni potrebbero pensare. Ha vinto il 42,45% dei voti rispetto al 25,98% del suo sfidante più vicino Alexandr Stoiangogo solo perché l’opposizione era divisa.
Il terzo classificato Renato Usatii ha preso il 13,79%, ma c’è la possibilità che chieda ai suoi sostenitori di votare per Stoianoglo durante il secondo turno o che lo facciano da soli a causa di alcune delle loro piattaforme sovrapposte. Anche se Stoianoglo desse del filo da torcere a Sandu, potrebbe alla fine ricorrere alla frode per vincere e respingere qualsiasi accusa in merito indicando i risultati ristretti del referendum UE. L’ipotetica vittoria di Stoianoglo nonostante la sua possibile frode potrebbe anche innescare una Rivoluzione colorata .
Nel caso in cui lei rimanga al potere come previsto, con le buone o con le cattive, allora supervisionerà la sincronizzazione dello stato moldavo con Bruxelles, che sarà poi probabilmente usata come arma per reprimere ulteriormente l’opposizione con l’obiettivo di imporre una cosiddetta “dittatura liberale”. Le linee di frattura socio-politiche della Moldavia potrebbero rompersi proprio come quelle tra essa e la Transnistria tre decenni fa, tuttavia, nel qual caso potrebbe richiedere aiuti militari alla vicina Romania, membro della NATO.
Gli osservatori dovrebbero anche ricordare che ” la Transnistria potrebbe diventare il filo conduttore di una guerra più ampia ” se attaccata da Moldavia, Ucraina e/o Romania, indipendentemente dal fatto che la sequenza di eventi sopra menzionata si verifichi, anche se potrebbe essere un rischio che l’Occidente è disposto a correre per le sue ragioni. La pericolosa strategia di ” escalation to de-escalate ” è stata sempre più discussa per disperazione per costringere la Russia a fare concessioni nella zona delle operazioni speciali, quindi questa possibilità non può essere esclusa.
Anche se non venisse lanciata alcuna guerra di continuazione contro la Transnistria e la Moldavia mantenesse la sua indipendenza nominale, il successo previsto di Sandu al secondo turno, unito al risultato ufficiale esiguo del referendum UE, può essere spacciato per una vittoria politica contro la Russia. Tuttavia, ciò non cambierà il fatto che le dinamiche strategico-militari della guerra per procura dell’Occidente contro la Russia in Ucraina continuano a volgere a favore del nemico, il che è molto più significativo in termini di quadro generale.
Nessuno dovrebbe aspettarsi che la comunità dei media alternativi corregga le false percezioni che il “Potemkinismo” ha associato alla politica russa nei confronti di Israele nella mente del loro pubblico nel corso degli anni.
Venerdì Putin ha tenuto un incontro con i principali giornalisti dei BRICS, la cui trascrizione era già disponibile in russo qui sabato mattina, mentre quella in inglese qui non è ancora stata pubblicata integralmente al momento della stesura. Ha discusso di una vasta gamma di questioni, ma il presente articolo si concentrerà sull’importante intuizione che ha condiviso sulla politica della Russia nei confronti di Israele, che è travisata sia dalla Alt-Media Community (AMC) che dai loro rivali Mainstream Media (MSM). Ecco alcuni briefing di base:
Per riassumere, la Russia ha sempre sostenuto la soluzione a due stati e la necessità di garantire la sicurezza di Israele, ma è contraria agli atti di terrorismo contro Israele guidati dalla frustrazione palestinese per la mancanza di progressi sulla suddetta soluzione e alla punizione collettiva dei palestinesi da parte di Israele ogni volta che ciò accade. La Russia si oppone anche a tutte le richieste di distruzione di Israele e all’imposizione di sanzioni contro di esso che non siano state prima approvate dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. L’AMC e i MSM, tuttavia, raramente informano il loro pubblico di questi fatti.
Entrambi hanno invece propagato la falsa percezione che la Russia sia segretamente alleata con l’Iran contro Israele, ognuno in anticipo rispetto alla propria agenda ideologica, con l’AMC che considera questo qualcosa di lodevole mentre i MSM lo ritengono condannabile. Putin sa che la politica del suo paese nei confronti di Israele è grossolanamente travisata dai MSM ed è per questo che ha colto l’occasione per chiarirlo quando gli è stato chiesto più volte venerdì, la prima volta in merito a una risoluzione delle ostilità in corso.
Ha iniziato ricordando a tutti l’impegno della Russia per una soluzione a due stati e la sua convinzione che la mancata attuazione sia alla base di tutti i problemi attuali. Ha poi fatto riferimento alle sue numerose conversazioni con la leadership israeliana su questo e alla sua opinione che la loro prevista soluzione incentrata sull’economia non sia praticabile poiché è convinto che anche questioni spirituali, storiche e di altro tipo debbano essere affrontate. Crede anche nel rilancio dei colloqui multilaterali e nell’espansione del numero di partecipanti.
A Putin è stato poi chiesto delle tensioni tra Israele e Iran. Ha confermato che la Russia ha un rapporto di fiducia con entrambi e che avrebbe quindi aiutato a mediare tra loro se richiesto, poiché non vuole una guerra più grande. Si è rifiutato di commentare i recenti attacchi di Israele, che potrebbero essere un riferimento al bombardamento del consolato iraniano a Damasco e all’assassinio del capo di Hezbollah Seyyed Hassan Nasrallah, ma non è stato così reticente quando si è trattato di terrorismo contro Israele. Ha detto che ne condanna ogni manifestazione.
L’ultima domanda su Israele è arrivata verso la fine del loro incontro e ha riguardato ancora una volta le sue tensioni con l’Iran. Putin ha ribadito che la Russia non interferirà nelle loro relazioni, ma ha ripetuto la sua offerta di mediare tra loro, anche sul Libano, a cui si faceva riferimento nella domanda, se richiesto. Questo è stato tutto ciò che ha detto su Israele, ma tutto ciò che ha condiviso durante l’incontro ha sfatato la falsa percezione della politica russa nei suoi confronti, promossa dall’AMC e dai MSM.
I MSM sono irredimibili perché spinti dal desiderio di screditare la Russia e quindi mentiranno deliberatamente sulle loro politiche, specialmente verso Israele, ma l’AMC dovrebbe essere diverso perché è considerato amico della Russia. Quest’ultima osservazione rende ancora più confuso il motivo per cui i top influencer raramente informano il loro pubblico dei fatti sulla sua politica verso Israele. Il motivo è che la stragrande maggioranza di loro sono attivisti pro-palestinesi e non analisti della politica estera russa.
Di conseguenza preferiscono travisare la Russia come se fosse dalla loro parte contro Israele invece di condividere la verità sul suo atto di bilanciamento, poiché quella stessa verità non li aiuterà a generare altrettanta influenza, a promuovere la loro ideologia e/o a sollecitare tante donazioni quanto alimentando le aspettative di pia illusione del loro pubblico. Questi secondi fini spiegano i loro resoconti imprecisi, che fuorviano enormemente il loro pubblico ogni volta che ciò viene fatto da influencer di alto livello che sono considerati “adiacenti allo stato”.
Questo si riferisce a coloro che sono invitati in Russia per partecipare a eventi ufficiali come il Multipolarity Forum di febbraio, il St. Petersburg International Economic Forum di estate e l’Eastern Economic Forum di autunno, et al. Gli osservatori occasionali presumono quindi che ci debba essere del vero nelle loro insinuazioni e in alcuni casi anche nelle affermazioni vere e proprie che la Russia è segretamente alleata con l’Iran contro Israele, altrimenti i loro partner russi che li hanno invitati a quegli eventi li spingerebbero gentilmente a correggere i loro resoconti inesatti.
La realtà, però, è che qualcosa che può essere descritto come ” Potemkinismo “, o la creazione calcolata di realtà artificiali per scopi strategici, sembra essere in gioco. Le interpretazioni errate della politica estera russa, specialmente nei confronti di Israele, sono tacitamente autorizzate a proliferare senza ostacoli a causa dell’aspettativa che migliorino la sua posizione di soft power agli occhi del pubblico di riferimento. Questo è un approccio rischioso, però, poiché coloro che in seguito si imbattono nella verità, che la Russia non nasconde, potrebbero sentirsi ingannati e turbati.
Altri potrebbero fidarsi così tanto dei principali influencer AMC “adiacenti allo stato” da rifiutare la verità dopo averla scoperta, come immaginare che Putin stia “giocando a scacchi 5D per far impazzire i sionisti” dopo aver appreso del suo elogio decennale di Israele o dell’incontro di venerdì, aggrappandosi così alle bugie che sono state raccontate loro. Indipendentemente dal risultato, qualsiasi politica di soft power basata su inganni e falsità come quella “Potemkinista” sui legami russo-israeliani alla fine si rivela controproducente, eppure lo spettacolo continua.
Questo perché coloro che all’interno del paese invitano questi importanti influencer dell’AMC agli eventi ufficiali credono sinceramente che questo approccio aiuti la Russia, ergo perché non li spingono gentilmente a correggere i loro resoconti inaccurati sulla sua politica estera. Non ci sono inoltre cicli di feedback praticabili per valutare quanto ciò sia controproducente, né figure interessate esterne a questa rete di soft power possono intervenire per risolvere il problema a causa della natura strettamente segmentata del sistema “a compartimenti stagni” della Russia.
Il risultato finale è che i principali influencer dell’AMC come quello che ha affermato che ” due agenzie di intelligence di due diverse nazioni asiatiche ” hanno corroborato la sua storia sull’abbattimento da parte della Russia di un F-35 israeliano con armamento nucleare in Giordania lo scorso aprile non hanno mai chiarito le cose, ma rimangono comunque “adiacenti allo stato”. Come è stato scritto in precedenza, l’impressione che hanno gli osservatori occasionali è che ci debba essere del vero, altrimenti sarebbero già state prese delle misure correttive, confondendo ulteriormente le percezioni della politica russa.
La confusione che ne consegue è aggravata tra coloro che sono a conoscenza dell’articolo 282 del Codice penale russo che proibisce “l’incitamento all’odio o all’inimicizia, nonché l’umiliazione della dignità umana”. Chiunque lo faccia “sulla base di sesso, razza, nazionalità, lingua, origine, atteggiamento verso la religione, nonché affiliazione a qualsiasi gruppo sociale” è passibile di azione penale, eppure il principale influencer dell’AMC sopra menzionato fa regolarmente riferimento al ” Talmudo”.psicopatici ” sul loro canale Telegram mentre altri usano un linguaggio ancora più duro su X.
Ciò avviene impunemente, nonostante alcuni di loro si trovino all’interno della Russia mentre pubblicano quei messaggi, sebbene un cittadino russo medio o un ospite straniero non sarebbe mai in grado di esprimersi in quel modo senza temere di essere multato o incarcerato. Allo stesso modo, la Guardia Nazionale sta ora lavorando con la Federazione delle comunità ebraiche in Russia per combattere l’antisemitismo (che Putin ha condannato durante un evento sull’Olocausto a Gerusalemme nel gennaio 2020), ma questi importanti influencer dell’AMC non hanno nulla di cui preoccuparsi.
Sono protetti dai loro partner russi che li invitano a partecipare a eventi ufficiali e sono quindi intoccabili, non importa cosa possano dire o fare, perché i fini “Potemkinisti” di promuovere il soft power in questo modo sono considerati giustificare i mezzi legalmente discutibili che vengono impiegati. È già stato spiegato perché questo approccio è controproducente, ma non cambierà, quindi nessuno dovrebbe aspettarsi che l’AMC corregga le false percezioni che il “Potemkinismo” associa alla politica russa nei confronti di Israele.
Per quanto riguarda il futuro dei rapporti con l’India, la palla è nel campo degli Stati Uniti.
I legami tra India e Canada si sono intossicati a fine settembre 2023 dopo che Trudeau ha accusato quel paese di aver assassinato un terrorista-separatista designato da Delhi con doppia cittadinanza sul suo territorio all’inizio di quell’estate. L’India ha negato le accuse e ha sospeso brevemente i visti per i cittadini canadesi. Gli Stati Uniti hanno quindi mosso le proprie accuse simili contro l’India, il che ha danneggiato notevolmente la fiducia reciproca , ma l’India finora ha gestito questa disputa molto meglio di quella con il Canada. Ecco cinque briefing di base:
L’ultimo sviluppo su questo fronte è stata l’espulsione da parte dell’India di sei diplomatici canadesi , tra cui l’Alto Commissario, dopo che Trudeau ha accusato l’Alto Commissario indiano e altri di coinvolgimento diretto nell’assassinio dell’estate 2023, nonostante abbia continuato a nascondere qualsiasi prova a sostegno di questa affermazione. Trudeau ha successivamente affermato che il Canada ha ricevuto prove del suo presunto coinvolgimento dall’alleanza di condivisione di intelligence Five Eyes guidata dagli Stati Uniti.
La rottura de facto dei legami indo-canadesi ha quindi le impronte digitali degli Stati Uniti dappertutto. L’obiettivo è usare il Canada come suo rappresentante per mettere in discussione la reputazione internazionale dell’India come punizione per essersi rifiutata di sanzionare la Russia, per non parlare del rafforzamento provocatorio della loro partnership strategica nei settori energetico , finanziario , tecnologico e persino artico negli ultimi due anni e mezzo. Gli Stati Uniti vogliono anche creare il pretesto per possibili sanzioni, probabilmente mirate in questo scenario, e incoraggiare l’opposizione indiana.
L’obiettivo principale è quello di fare pressione sull’India affinché riconsideri la sua politica estera indipendente, che sta accelerando i processi di tri – multipolarità nella transizione sistemica globale e quindi accelerando la fine dell’egemonia unipolare degli Stati Uniti. I politici americani preferirebbero un ordine mondiale bi-multipolare in cui il loro paese divide ampiamente il mondo con la Cina se non riescono ad aggrapparsi con successo a quello vecchio. L’ascesa astronomica dell’India come grande potenza renderà ciò impossibile a meno che non vi ponga presto fine per primi.
Il problema però è che spingersi troppo oltre nel contenere l’India, il che include il rovesciamento del governo del Bangladesh per gettare i semi di minacce alla sicurezza simili a quelle ucraine che potrebbero costringere l’India a capitolare, rischia che l’India “diventi canaglia” rattoppando i suoi problemi con la Cina . In quello scenario, quei due potrebbero cacciare gli Stati Uniti dall’Asia continentale e dare un colpo mortale all’unipolarismo molto più rapido di quanto si aspettassero la maggior parte degli entusiasti multipolari, ecco perché gli Stati Uniti stanno procedendo con molta cautela almeno per ora.
Ciò spiega il suo modus operandi di usare il Canada come suo artiglio, poiché le conseguenze della rottura dei suoi legami con l’India su questa questione non sono minimamente così drastiche come se dovessero rompersi i legami indo-americani. Potrebbero esserci delle interruzioni commerciali e di immigrazione , che non si sono ancora verificate , ma sarebbero comunque gestibili. Se i legami indo-americani si rompessero, allora ciò potrebbe cambiare l’ordine mondiale come sostenuto sopra, ma comporterebbe pesanti costi economici per entrambi che nessuno dei due vuole rischiare al momento.
Dal punto di vista degli Stati Uniti, è meglio per il Canada subire un colpo economico gestibile allo scopo di mettere in discussione la reputazione internazionale dell’India, che i suoi decisori politici si aspettano possa essere sufficiente a far sì che l’India riduca finalmente la sua politica estera indipendente in una certa misura, anche se non finisce per scaricare la Russia. Questi calcoli potrebbero essere fuori luogo, tuttavia, poiché l’India ha dimostrato più e più volte che raddoppierà gli sforzi in segno di sfida ogni volta che si troverà sotto pressione.
Tuttavia, non si può andare oltre, poiché i suoi legami con la Cina restano turbati dalla loro disputa di confine irrisolta e dal dilemma di sicurezza che ne è derivato. L’India non si sente a suo agio nel fare concessioni territoriali unilaterali alla Cina per entrare in un riavvicinamento, ma teme anche lo scenario in cui gli Stati Uniti concludono un accordo con la Cina alle sue spalle se i legami indo-americani peggiorano ulteriormente. Ecco perché ha fatto del suo meglio per gestire la sua disputa di tipo canadese con gli Stati Uniti nel modo più diplomatico possibile .
La palla è quindi nel campo degli Stati Uniti quando si tratta del futuro dei legami con l’India. Possono o fermare questo aspetto della loro politica punitiva evitando un’ulteriore escalation su questo problema, imporre sanzioni mirate dopo aver recentemente accusato un dipendente del governo indiano di un crimine associato al costo potenziale di spaventare l’India in un riavvicinamento con la Cina, o agire alle spalle dell’India per stipulare un accordo di bi-multipolarità sino-americana a sue spese. Gli Stati Uniti devono ancora decidere, ma potrebbero aspettare fino a dopo le elezioni per farlo.
Non si può escludere che stiano solo fingendo di essere intransigenti su questo tema e che la Germania stia giocando per aiutare il suo partito alleato a ottenere il controllo della presidenza l’anno prossimo.
L’afflusso di invasori immigrati clandestini che si spacciavano per rifugiati, giunti in massa in Polonia dalla Bielorussia, ha spinto la prima a costruire la propria recinzione lungo alcune parti del confine. Lo scoppio dell’UcrainaIl conflitto poco dopo portò a una tregua che iniziò a riprendere solo nell’estate del 2023, dopodiché la Polonia e gli Stati baltici iniziarono a respingere con la forza alcuni invasori. La Finlandia poi ampliò la propria politica qualche mese fa sospendendo temporaneamente le domande di asilo per alcune categorie di persone.
Quel nuovo membro della NATO aveva accusato la Russia di aver trasformato in armi i processi migratori come vendetta per l’adesione alla NATO, riecheggiando le accuse della Polonia e degli Stati baltici contro di essa e la Bielorussia. Da parte loro, questi ultimi due hanno negato di farlo, anche se si può sostenere che stanno quantomeno chiudendo un occhio su questi processi come risposta asimmetrica all’aggressione della NATO contro di loro. In ogni caso, la tendenza attuale è stata quella dei membri orientali dell’UE di rafforzare la sicurezza dei loro confini.
Indubbiamente, alcuni dei mezzi attraverso cui la Polonia ha perseguito questa politica dall’estate scorsa vanno ben oltre il fermare gli invasori immigrati clandestini e mirano in realtà a peggiorare le tensioni convenzionali con la Russia, come spiegato qui all’epoca. L’ultima mossa non comporta tali rischi, tuttavia, e potrebbe effettivamente ridurre alcune delle suddette tensioni rendendo meno probabile che le forze di sicurezza polacche si sentano spinte a sparare oltre confine per autodifesa.
Alcuni osservatori erano preoccupati che la nuova legge dell’estate che consente loro di usare la forza letale contro gli invasori immigrati clandestini impunemente in risposta a minacce attive potesse portare a una crisi internazionale, date le crescenti tensioni convenzionali tra Russia-Bielorussia e NATO lungo la frontiera polacca. Questi timori si attenueranno se meno immigrati clandestini tenteranno di invadere la Polonia dalla Bielorussia dopo la sospensione dei loro diritti di asilo, il che a sua volta può portare entrambi gli schieramenti a gestire meglio queste pericolose tensioni.
Un altro vantaggio è che il candidato del Primo Ministro in carica Donald Tusk per le elezioni presidenziali dell’anno prossimo (chiunque sarà) ora ha molte più possibilità di vincere dopo aver fatto appello al sentimento pubblico su questo tema e aver quindi posto quel ramo del governo sotto il controllo del suo partito. L’attuale stallo tra il (molto imperfetto) presidente conservatore-nazionalista uscente e il premier liberal-globalista filo-germanico ha impedito l’ulteriore imposizione della volontà tedesca sulla Polonia.
La Polonia si è ampiamente subordinata alla Germania nell’ultimo anno da quando Tusk è tornato al potere, come spiegato qui , ma c’è sempre di più che potrebbe fare, il che potrebbe accadere se i liberal-globalisti vincessero la presidenza dopo aver fatto appello al sentimento conservatore-nazionalista su questo tema. Pertanto, non si può escludere che stiano solo fingendo di essere intransigenti su questo tema e che la Germania stia giocando per aiutare il loro partito alleato a ottenere il controllo su quel ramo del governo l’anno prossimo.
È sorprendente che la Corea del Sud preferisca che lungo la DMZ ci siano più truppe nordcoreane contro cui combattere in caso di ripresa della guerra che in Ucraina e che sia persino disposta a esaurire alcune delle sue gargantuesche scorte accumulate per prepararsi allo scenario peggiore solo per il bene di Kiev.
Le affermazioni secondo cui la Corea del Nord avrebbe inviato truppe per combattere l’Ucraina, che circolano da due settimane e sono state recentemente analizzate qui, hanno suscitato una risposta ipocrita da parte della Corea del Sud. Il suo viceministro degli Esteri ha prima convocato l’ambasciatore russo per chiedere l’immediato ritiro delle truppe del vicino settentrionale. A ciò ha fatto seguito la dichiarazione di un alto collaboratore presidenziale ai media, secondo cui Seul potrebbe presto inviare armi difensive e forse anche offensive all’Ucraina, se non se ne andranno.
Ciò implicherebbe anche che la Corea del Sud si senta finalmente abbastanza a suo agio nell’esaurire alcune delle sue gargantuesche scorte per il bene dell’Ucraina, anche se si sarebbe potuto pensare che le avrebbe tenute in mano in seguito alle voci secondo cui la Corea del Nord avrebbe già inviato granate, missili e ora anche truppe in Russia. Dopo tutto, tutto ciò che la Corea del Nord avrebbe dato alla Russia è qualcosa in meno che tiene in riserva per un eventuale uso contro la Corea del Sud, ma la risposta ipocrita di Seul contraddice questa logica.
Visto che i suoi interessi non sono serviti dall’avere più truppe ed equipaggiamenti nordcoreani lungo la DMZ, questo può solo significare che sono responsabili altri motivi, ovvero le pressioni degli Stati Uniti sulla Corea del Sud per aiutare a perpetuare il conflitto ucraino mentre si avvicina a quello che potrebbe presto diventare un punto di svolta. La Russia sta vincendo di gran lunga la “gara della logistica“/”guerra di logoramento“, tanto che persino la CNN ha recentemente richiamato l’attenzione su questo fatto. È quindi sempre più urgente che l’Ucraina si procuri proiettili sudcoreani.
L’incapacità di farlo nella misura richiesta, che non si può dare per scontata anche se una decisione positiva verrà presto presa o è già stata segretamente presa, aumenterebbe notevolmente le possibilità che l’Occidente costringa l’Ucraina a scendere a compromessi con la Russia. Anche in questo scenario, tuttavia, non si può dare per scontato che la Russia accetti qualsiasi accordo le venga offerto. Potrebbe continuare a combattere fino a raggiungere altri obiettivi, soprattutto se si sentisse incoraggiata dalla possibilità che le linee del fronte crollino presto.
In ogni caso, tutto ciò potrebbe essere potenzialmente scongiurato finché l’Ucraina avrà i proiettili necessari per tenere la linea del fronte o almeno per impedirne il crollo. La conquista di Pokrovsk da parte della Russia potrebbe accelerare le dinamiche strategico-militari che già tendono a suo favore, cosa che l’Ucraina deve assolutamente evitare se vuole perpetuare il conflitto. Ecco il motivo per cui l’Ucraina ha un disperato bisogno di più granate e altre attrezzature dalla Corea del Sud in questo particolare momento.
Sebbene alcuni possano sospettare che la Corea del Sud voglia perpetuare il conflitto ucraino esaurendo alcune delle sue gargantuesche scorte al fine di reindirizzare più truppe nordcoreane lontano dalla DMZ il più a lungo possibile, questa ipotesi presuppone una crisi di reclutamento in Russia, il che è discutibile. Se ne è parlato negli ultimi due anni e mezzo, ma non se n’è mai fatto nulla, dato che la Russia continua a guadagnare gradualmente terreno nel Donbass, quindi non ci sono precedenti per darle credito.
La Corea del Sud, quindi, probabilmente non avrebbe in mente alcun “piano scacchistico a 5D” per approvare l’invio di proiettili e altri aiuti militari all’Ucraina con il pretesto di aiutare Kiev a contrastare il reclutamento di nordcoreani segnalato dalla Russia, ma starebbe solo capitolando alle pressioni degli Stati Uniti di lunga data. Mentre piccole quantità potrebbero essere inviate prima delle elezioni, non si prevede nulla di significativo fino a dopo, e ciò potrebbe anche non avvenire se Trump vincesse e cercasse di porre fine a questa guerra per procura in tempi brevi.
Indipendentemente da ciò che accadrà, gli osservatori dovrebbero ricordare l’ipocrisia della risposta della Corea del Sud a queste ultime indiscrezioni, in quanto costituisce un’ulteriore prova della crescente influenza degli Stati Uniti sui suoi calcoli strategico-militari. Nessuno ha mai dubitato dell’esistenza di questa influenza, dal momento che si stima la presenza di 24.000 truppe statunitensi nel Paese, ma finora la Corea del Sud aveva dato la priorità ai propri interessi di sicurezza nazionale, così come la sua leadership li intendeva sinceramente, anche se questo sembra finalmente cambiare.
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Il saggio apparso su Foreign Affairs, del quale propongo il link in testa ed alcuni brevi stralci qui di seguito, è la sintesi ed il compendio di un testo ben più corposo, redatto dal Carnegie Endowment for International Peace e riportato integralmente qui sotto.
Rappresenta, se ben interpretato dal sottoscritto, una sorta di desiderata, particolarmente cauto nella esposizione, ma evidente nella finalità, particolarmente significativo, vista anche la sede che lo ospita. Giusto per sottolineare l’importanza del saggio, la Carnegie è ritenuta la più importante fondazione statunitense; il suo presidente uscente, Burns, è l’attuale direttore della CIA. Rappresenta un invito, cauto nei modi, ma determinato nel merito, che non trascura di offrire “consigli” nelle modalità di perseguimento da parte della futura leadership statunitense. Non sono da escludere intenti surrettizi, diversi dai propositi dichiarati. Si vedrà.
Qui, alcuni estratti dell’articolo:
“Mentre il mondo si evolve, gli Stati Uniti devono adattarsi o subirne le conseguenze. Il processo di adattamento, tuttavia, è solitamente lento, se mai avviene. I presidenti Donald Trump e Joe Biden hanno tentato di orientare la politica estera degli Stati Uniti verso nuove direzioni, ma hanno incontrato la resistenza di attori nazionali ed esteri. Le difficoltà incontrate non sono una sorpresa.”
“Ma la guerra è finita (Afghanistan), dimostrando che cambiamenti significativi nella politica estera degli Stati Uniti non sono impossibili. Questa è una buona notizia, perché ora sono necessari grandi aggiustamenti. L’era in cui gli Stati Uniti potevano controllare il mondo è finita e Washington si trova invischiata in conflitti che ha sempre meno capacità di risolvere.”
“qualsiasi sforzo per orientare la politica estera degli Stati Uniti in una nuova direzione incontrerà sicuramente ostacoli formidabili, e il nuovo presidente avrà bisogno di un piano per superarli.”
“La politica estera degli Stati Uniti si svolge in un ecosistema istituzionale concepito durante la Seconda Guerra Mondiale, ampliato durante la Guerra Fredda e mantenuto nel periodo di egemonia americana successivo alla Guerra Fredda.
Ma le burocrazie forti sono anche condizionate a preservare il modo di fare esistente. Ciascuna agenzia tutela naturalmente la propria missione e le proprie risorse, e i grandi cambiamenti sono sempre una minaccia per qualcuno.
Questo comportamento può sembrare partigianeria, un’accusa che Trump ha mosso quando era presidente. In realtà, spesso si tratta semplicemente di ciò che la burocrazia statunitense è programmata per fare.
In un sistema già resistente al cambiamento, la psicologia umana rafforza l’inerzia. La socievolezza umana, il conformismo e la fallacia dei costi irrecuperabili – che porta le persone a raddoppiare il corso di un’azione fallimentare – contribuiscono a mantenere lo status quo.
Le forze che ostacolano il cambiamento sono state evidenti durante gli anni di Trump e Biden. Entrambi i presidenti hanno cercato di spostare l’attenzione degli Stati Uniti verso l’Asia
Naturalmente, l’invasione scioccante della Russia e l’eroica difesa dell’Ucraina hanno richiesto l’attenzione degli Stati Uniti. Tuttavia, fornire aiuti all’Ucraina, impegnarsi a sostenerla “fino a quando sarà necessario” e lasciare la porta aperta all’adesione dell’Ucraina alla NATO non erano le uniche risposte possibili. Ad esempio, l’amministrazione Biden avrebbe potuto dedicare maggiori energie alla promozione dei negoziati tra Russia e Ucraina, respingere l’obiettivo dichiarato di Kyiv
Data la forza delle forze che favoriscono la continuità nella politica estera degli Stati Uniti, l’amministrazione che entrerà alla Casa Bianca a gennaio avrà bisogno di un piano se vuole apportare cambiamenti importanti. Ma un piano realistico non dovrebbe prevedere l’emarginazione o la trasformazione della burocrazia.
Alcuni consiglieri nell’orbita di Trump sperano di aggirare questo problema in un eventuale secondo mandato, sminuzzando la funzione pubblica, ma questo approccio ha un aspetto negativo significativo: più Trump riempie la burocrazia di lealisti inesperti, meno competenti saranno queste agenzie per attuare qualsiasi cambiamento politico egli voglia.
L’approccio migliore consiste nel coinvolgere le agenzie chiave nella politica preferita dal Presidente. La Casa Bianca deve individuare i burocrati più influenti e convincerli che il cambiamento non serve solo all’interesse nazionale, ma anche a quello delle loro agenzie.
A volte gli agenti del cambiamento devono lavorare tra più agenzie attraverso canali formali o informali.
I politici devono anche progettare e articolare le loro proposte tenendo conto della psicologia umana. Per superare i pregiudizi a favore dello status quo, possono tracciare un percorso di cambiamento graduale o inquadrare la nuova politica come un semplice aggiornamento di quella esistente.
Il cambiamento politico è spesso presentato al meglio in modi che sfruttano l’avversione alle perdite, la tendenza psicologica ad assegnare maggiore importanza all’evitare le perdite che al realizzare guadagni di pari entità.
Infine, un’amministrazione alla ricerca del cambiamento deve cogliere le crisi quando si presentano. La maggior parte dei cambiamenti significativi nella politica estera degli Stati Uniti dal 1945 sono avvenuti in tempi di sconvolgimenti.
Se il prossimo presidente vuole cambiare le cose, deve essere pronto a spendere un prezioso capitale politico. Le amministrazioni entranti spesso danno priorità alle questioni interne e scelgono la via della minor resistenza in politica estera.
Un’amministrazione Harris o Trump avrà diverse opportunità per cambiare rotta e, sebbene nessun cambiamento sarà facile da ottenere, alcuni metodi funzioneranno meglio di altri. Una questione incombente è cosa fare con l’Ucraina. Se il prossimo presidente cercherà di porre fine alla guerra nel breve termine, dovrà affrontare una decisa opposizione in patria da parte di elementi della burocrazia e di membri del Congresso. Anche altri Paesi interessati al conflitto, come l’Ucraina e la Russia e i membri della NATO, potrebbero cercare di ostacolare gli sforzi…
Piuttosto che rinnegare completamente la precedente strategia statunitense, la nuova amministrazione dovrebbe sottolineare come il suo approccio servirebbe a raggiungere i principali obiettivi perseguiti da Washington sin dall’inizio della guerra nel 2022, ovvero evitare una guerra diretta tra la NATO e la Russia
Se Harris vincesse, potrebbe voler esercitare una pressione maggiore di quella esercitata da Biden per convincere Israele ad accettare un cessate il fuoco con Hamas o Hezbollah o a ridurre i danni ai civili causati dalle campagne militari israeliane.
Inoltre, Harris potrebbe contrastare le pressioni di Washington per diventare sempre più duro nei confronti della Cina, scegliendo invece di basarsi sui recenti progressi diplomatici di Biden con Pechino. Anche Trump potrebbe cercare di concentrarsi sulla lotta alla guerra commerciale, moderando al contempo la competizione sulla sicurezza tra Stati Uniti e Cina.
La storia è piena di resti di imperi imprigionati dall’abitudine. Oggi la politica estera degli Stati Uniti rischia di andare incontro allo stesso destino.
Cambiare questa dinamica sarà difficile, ma il cambiamento è assolutamente necessario. Il Paese merita leader che riconoscano questa necessità.”
Come può cambiare la politica estera degli Stati Uniti?
Apportare cambiamenti strategici in politica estera è difficile per gli Stati Uniti. Si pensi, ad esempio, alle sfide che l’ex presidente Donald Trump e l’attuale presidente Joe Biden hanno affrontato negli sforzi delle loro amministrazioni per ritirare le forze militari statunitensi dall’Afghanistan. Nonostante anni di sforzi fallimentari per portare pace e stabilità in quel Paese, e nonostante le scarse prove che un miglioramento sarebbe arrivato senza un grande riorientamento dell’approccio statunitense, la resistenza a cambiare rotta era enorme. Ci è voluto un outsider, Donald Trump, per avviare il processo e un insider di lunga data, Joe Biden, per portarlo a termine. Anche il ritiro degli Stati Uniti dal Vietnam all’inizio degli anni ’70, che oggi pochi criticherebbero, ha richiesto diversi anni, anche dopo che un enorme movimento di protesta in patria e all’estero lo aveva richiesto.
Affinché il cambiamento strategico si concretizzi, l’elezione di un presidente che vuole il cambiamento è necessaria ma non sufficiente. Lo sforzo di Trump di imprimere un nuovo corso al ruolo globale dell’America, a prescindere dai suoi punti di forza e di debolezza, ne è un esempio. Nei settori in cui le sue idee hanno sfidato la saggezza diffusa nel Partito Repubblicano, nel Congresso o nella burocrazia della sicurezza nazionale, è stato ostacolato. Solo quando Trump ha perseguito obiettivi già favoriti da gruppi importanti dell’establishment della politica estera ha ottenuto risultati. Ad esempio, è riuscito a strappare l’accordo nucleare con l’Iran perché questa azione godeva di un sostegno profondo e di lunga data tra i leader repubblicani, ma non è riuscito a ritirare le forze statunitensi dalla Siria perché pochi altri erano d’accordo. L’approccio di Trump alla politica estera ha generato un immenso dramma, ma un cambiamento limitato nel ruolo dell’America nel mondo. Indipendentemente dal fatto che si pensi che questo risultato sia stato migliore o peggiore, è una testimonianza del potere della continuità nella politica estera degli Stati Uniti.
Ci è voluto un outsider, Donald Trump, per avviare il processo e un insider di lunga data, Joe Biden, per portarlo a termine.
Oggi, un numero crescente di analisti sostiene che gli Stati Uniti hanno bisogno di un grande riorientamento strategico. Essi sostengono che gli Stati Uniti debbano essere più selettivi nei loro impegni e coinvolgimenti se vogliono rimanere sicuri e prosperi nei decenni a venire. L’era dell’iperpotenza americana è finita, e il Paese non può permettersi una politica di elargizione ovunque e in ogni momento. Ciò non significa che l’America debba ritirarsi dal mondo, annullare tutti i suoi impegni esistenti o non assumerne di nuovi. Ma senza una maggiore disciplina negli impegni assunti dagli Stati Uniti, e senza una riduzione di alcuni di essi, la loro politica estera potrebbe diventare proibitiva e rischiosa, mentre le priorità più alte soffrono di negligenza. Nel peggiore dei casi, il mantenimento dell’attuale traiettoria potrebbe porre le basi per una guerra globale catastrofica.
Nei due decenni successivi alla fine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno goduto di una supremazia senza pari, con capacità militari ed economiche relative e assolute che superavano di gran lunga quelle di qualsiasi altra potenza mondiale. Questa posizione di straordinario privilegio le ha permesso di perseguire politiche senza preoccuparsi troppo di come fossero viste o influenzate dalle altre potenze mondiali. La supremazia era un lusso strategico che consentiva agli Stati Uniti di adottare un programma di politica estera trasformativo, volto a costruire un ordine mondiale liberale con se stessi al centro. Questo approccio aveva inizialmente una logica strategica e ha ottenuto molti risultati positivi. Negli anni Novanta, gli Stati Uniti hanno contribuito a stabilizzare i Balcani, devastati dalla guerra, e hanno aumentato le possibilità di radicamento della democrazia nell’Europa centrale e orientale. In questo periodo, centinaia di milioni di persone in tutto il mondo sono state sottratte alla povertà. Tuttavia, lo stesso lusso strategico ha anche permesso a Washington di perseguire una campagna globale di ampio respiro sulla scia degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, che l’ha portata a commettere l’errore strategico di invadere l’Iraq e a trasformare una campagna mirata contro Al Qaeda in Afghanistan in un’operazione di nation-building che alla fine è fallita. Inoltre, hanno portato a un’invasione eccessiva in Europa e hanno gettato le basi per un’invasione eccessiva in Asia.
Questa eredità lascia gli Stati Uniti con un approccio al mondo poco adatto alle sfide di oggi e di domani. I funzionari statunitensi sono da tempo preoccupati per l’ascesa della Cina e di una Russia revanscista, ma fino a poco tempo fa si concentravano su altre questioni. Evitare la realtà del relativo declino del potere e della legittimità dell’America si è ritorto contro gli Stati Uniti a partire dalla metà degli anni ’90, quando il presidente russo Vladimir Putin ha lanciato la guerra contro l’Ucraina e il presidente cinese Xi Jinping ha avviato il Paese su una strada più nazionalista e assertiva. Gli Stati Uniti si trovano ora ad affrontare un mondo più multipolare che mai nella loro storia di prima potenza mondiale. Nei prossimi decenni, le dinamiche delle grandi potenze decideranno questioni fondamentali di guerra e pace, prosperità e sicurezza, cooperazione e competizione. Questa nuova realtà internazionale emergente, unita agli esiti sconfortanti delle guerre statunitensi in Iraq e Afghanistan, suggerisce che il Paese trarrebbe beneficio se riuscisse a riformare e aggiornare il proprio approccio al mondo. Farlo, tuttavia, sarà estremamente difficile.
La politica estera degli Stati Uniti si occupa di ogni nazione del mondo, di ogni potenziale questione transnazionale e di ogni istituzione mondiale. Anche l’approccio americano al mondo è altamente istituzionalizzato. Queste realtà impediscono a un nuovo presidente o a una nuova amministrazione di introdurre un grande cambiamento, soprattutto se questo cambiamento implica essere più selettivi e fare meno. Questo rapporto identifica e analizza le principali fonti di resistenza al cambiamento strategico negli Stati Uniti, in modo che coloro che cercano di cambiare la rotta del Paese, in particolare nel contesto di una nuova amministrazione, abbiano un quadro più chiaro di come ciò possa avvenire.
Il cambiamento strategico coinvolge molti fattori e questo rapporto non può pretendere di averli identificati tutti. In futuro potrebbero essere importanti alcuni fattori che non sono esistiti in passato. Tuttavia, analizzando i casi di cambiamento strategico dal 1945, la nostra ricerca indica che i seguenti fattori sono particolarmente importanti:
Una grave crisi esterna
uno sforzo concertato della Casa Bianca per superare le resistenze burocratiche
la volontà del presidente di spendere capitale politico per cambiare rotta
rami esecutivi e legislativi uniti del governo
Un approccio che affronti gli ostacoli psicologici al cambiamento
Non tutti questi fattori devono essere presenti perché si verifichi un cambiamento. Tuttavia, essi erano presenti in diversi casi di cambiamento significativo della politica estera negli ultimi settantacinque anni. Anche gli studi sulla creazione della politica estera evidenziano il loro ruolo.
Approccio
Le domande principali che hanno guidato la ricerca per questo rapporto sono:
Quali sono le principali fonti di resistenza al cambiamento strategico e perché si manifestano?
Che tipo di eventi esogeni rendono più o meno probabile il cambiamento strategico?
Quali approcci possono utilizzare i sostenitori del cambiamento strategico per raggiungere i loro obiettivi?
Abbiamo preso in considerazione trenta possibili tentativi di cambiamento strategico dal 1900 prima di restringere il campo a cinque, tutti avvenuti dopo la Seconda guerra mondiale:
L’adozione da parte dell’amministrazione di Harry S. Truman dell’NSC-68, che ha definito la strategia della guerra fredda per almeno due decenni.
Il ritiro dal Vietnam dell’ex presidente Richard Nixon, uno dei pochi casi di successo e di intenzionale ridimensionamento nella storia moderna della politica estera degli Stati Uniti.
Il tentativo dell’ex presidente Jimmy Carter di ritirare le forze americane dalla Corea del Sud, l’unico caso di fallimento del cambiamento tra i casi di studio
La decisione dell’amministrazione Bill Clinton di lanciare l’allargamento dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO) dopo la Guerra Fredda, ridisegnando gli impegni di sicurezza degli Stati Uniti in Europa.
La reazione dell’amministrazione di George W. Bush all’11 settembre, con profondi cambiamenti negli obiettivi e nel ruolo dell’America nel mondo, nonché negli strumenti per perseguirli.
Per ogni caso abbiamo posto una serie di domande di base sulla natura del tentativo di cambiamento strategico e sulle forze politiche e sociali che lo hanno spinto o contrastato. I casi presentati non sono studi esaustivi di questi eventi, ma analisi concise di come e perché la politica è cambiata. I casi di studio sono poi integrati con i risultati della letteratura secondaria pertinente, in gran parte proveniente dalle scienze politiche, compresi sottocampi come lo sviluppo politico americano, la politica comparata, le relazioni internazionali e la teoria organizzativa. Abbiamo anche esaminato la letteratura economica sui costi irrecuperabili e gli studi di psicologia sulla teoria delle prospettive, la teoria motivazionale e altro ancora.
Non esistono due casi di cambiamento di politica estera uguali per portata o scala, e non esiste una linea di demarcazione netta tra il semplice cambiamento di politica e il vero cambiamento strategico.
Non esistono due casi di cambiamento di politica estera uguali per portata o scala, e non esiste una linea di demarcazione netta tra il semplice cambiamento di politica e il vero cambiamento strategico. Uno studio del 1990 identifica quattro tipi di cambiamento di politica estera, che vanno dagli aggiustamenti di politica ai grandi riorientamenti internazionali.1 Noi ci siamo concentrati sui cambiamenti più vicini a questi ultimi per qualificarli come strategici: questi cambiamenti avevano implicazioni importanti di per sé o erano emblematici di un più ampio sforzo di riorientamento di un’amministrazione. È interessante notare che il cambiamento strategico più radicale nella politica estera degli Stati Uniti degli ultimi otto decenni è avvenuto attraverso il processo nazionale della Seconda guerra mondiale.
Note
1Charles F. Hermann, “Cambiare rotta: When Governments Choose to Redirect Foreign Policy”, International Studies Quarterly 34, no. 1, (marzo 1990): 3-21.
autori
Christopher S. ChivvisSeniorFellow e direttore del Programma Statecraft americano
Jennifer KavanaghEsistentericercatore senior, Programma di Statistica Americana
Sahil LaujiEsecutivoJames C. Gaither Junior Fellow, Programma Statista Americano
Adele MalleEsistenteborsista junior James C. Gaither, Programma Statista Americano
Samuel Orloff Ex borsista junior James C. Gaither, Programma di Statistica Americana
Stephen Wertheim Borsista senior, Programma Statistico Americano
Reid Wilcox Ex analista di ricerca
L’NSC-68 e la guerra di Corea
L’ex segretario di Stato Dean Acheson ha notoriamente definito il documento programmatico NSC-68 del Consiglio di Sicurezza Nazionale (NSC) “uno dei documenti più significativi della nostra storia”.1 La sua adozione nel 1950 sotto Truman ha determinato un cambiamento strategico nella politica estera degli Stati Uniti che ha gettato le basi per almeno i due decenni successivi della Guerra Fredda. Il documento ha stimolato l’aumento della spesa per la difesa, ha globalizzato la strategia di contenimento degli Stati Uniti e si è allontanato da una strategia di deterrenza incentrata principalmente sulle armi nucleari. L’NSC-68 ha suscitato una notevole opposizione all’interno dell’amministrazione e del Congresso.
Tuttavia, una serie di fattori portarono alla sua adozione nella prima metà del 1950, tra cui cambiamenti di personale, manovre burocratiche, uno sforzo concertato per vendere la nuova strategia e soprattutto lo scoppio della guerra di Corea nel giugno 1950.
Il razionale
Il 23 settembre 1949, Truman scioccò il Paese annunciando che l’Unione Sovietica aveva testato con successo le armi nucleari.2 Il documento politico noto come NSC-68, redatto da un gruppo di studio interdipartimentale, iniziò come una rivalutazione della strategia americana alla luce di questo evento.3 Con la fine del monopolio atomico statunitense, i funzionari ritenevano che il vantaggio strategico che gli Stati Uniti detenevano nei confronti dell’Unione Sovietica non fosse più assicurato.4 Paul Nitze, il direttore della pianificazione politica del Dipartimento di Stato che guidò l’esercitazione, temeva che se Washington non avesse aumentato la spesa per la difesa, le forze convenzionali americane sarebbero state paralizzate, creando un pericoloso eccesso di dipendenza da un effimero vantaggio nucleare.5 Egli inoltre non era d’accordo con la valutazione, sviluppata sotto il suo predecessore George Kennan, che i sovietici non sarebbero diventati più aggressivi una volta in possesso di armi nucleari. Al contrario, Nitze riteneva che un’Unione Sovietica dotata di armi nucleari avrebbe adottato una “mentalità da primo colpo” molto piùbellicosa6.
L’ex direttore della pianificazione politica del Dipartimento di Stato Paul Nitze.(Foto di JHU Sheridan Libraries/Gado/Getty Images)
Anche altri eventi internazionali indussero i responsabili politici a rivalutare la strategia statunitense. Tra questi, la vittoria di Mao Zedong nella guerra civile cinese e la formazione, nell’ottobre 1949, della Repubblica Popolare Cinese (RPC), la formazione sovietica della Germania Est nello stesso mese e il Trattato di Amicizia firmato tra l’Unione Sovietica e la RPC nel febbraio 1950.7 Questi eventi spinsero i redattori dell’NSC-68 ad assumere una visione globale ed estesa della Guerra Fredda. In particolare, Nitze mise in guardia dai pericoli che la RPC potesse fungere da “trampolino di lancio” per le avanzate comuniste in Asia e avvertì che l’Unione Sovietica stava intensificando il suo impegno in Austria, Germania, Indocina eCorea8.
In breve, gli autori dell’NSC-68 vedevano un monolite comunista a guida sovietica che stava avanzando e temevano che la posizione relativa dell’America si fosse fortemente degradata nel corso del 1949-1950.9
L’opposizione
All’inizio, l’NSC-68 fu accolto con scetticismo all’interno e all’esterno del governo. All’interno dell’esecutivo, le spinte si concentrarono sul costo delle raccomandazioni e sulle altre ramificazioni della sua analisi, mentre importanti repubblicani al Congresso e fuori dal governo sollevarono obiezioni di parte.
Particolarmente controversa fu la proposta di un rapido rafforzamento militare contenuta nell’NSC-68. Il segretario alla Difesa Louis Johnson si oppose inizialmente alla strategia, definendo a un certo punto il progetto di Nitze “una cospirazione”.10 Omar Bradley, presidente degli Stati Maggiori Riuniti, temeva analogamente che una spesa dispendiosa per la difesa avrebbe danneggiato l’industria nazionale, un fattore determinante per la potenza americana.11 Al di là dell’establishment della difesa, i funzionari del Bureau of the Budget misero in guardia sul fatto che l’aumento delle spese militari avrebbe potuto limitare la crescita economica.12 Persino coloro che simpatizzavano con alcuni elementi dell’NSC-68 – tra cui l’ex presidente della Commissione per l’energia atomica David Lilienthal e l’assistente segretario di Stato per gli affari pubblici Edward W. Barrett – ritenevano che molti dei suoi obiettivi potessero essere raggiunti senza i forti aumenti della spesa per la difesa che esso richiedeva.13
Anche diplomatici in servizio ed ex diplomatici obiettarono.Kennan, ad esempio, non era d’accordo con le motivazioni alla base dello studio, rifiutando l’idea che “la ‘guerra fredda’, in virtù di eventi al di fuori del nostro controllo, abbia improvvisamente preso una piega drastica a nostro svantaggio” a causa della sperimentazione sovietica di armi nucleari, uno sviluppo che considerava prevedibile.14 Charles Bohlen, l’ex ambasciatore a Mosca, sosteneva che l’NSC-68 semplificasse eccessivamente gli obiettivi sovietici e creasse una falsa equivalenza tra le capacità e le intenzioni sovietiche.15L’assistente segretario di Stato per gli affari economici Willard Thorp ha suggerito che il divario enorme tra l’economia sovietica e quella americana avrebbe limitato la capacità di Mosca di sfidare gli StatiUniti16.La Central Intelligence Agency (CIA), inoltre, sosteneva che era improbabile che il Cremlino assumesse la postura altamente aggressiva che era alla base delle argomentazioni di Nitze e dei suoi coautori.17 Facendo eco a Kennan, l’eminente scienziato J. Robert Oppenheimer criticò l’abbraccio dell’NSC-68 alla bomba all’idrogeno perché non riusciva a porre fine alla dipendenza dalle armi nucleari.18
Quando la Casa Bianca iniziò ad agire sulla base delle raccomandazioni del NSC-68, i repubblicani si opposero nuovamente.Il senatore Robert Taft denunciò l’amministrazione per aver ceduto “l’iniziativa strategica”.19 Consentendo all’Unione Sovietica di determinare dove gli Stati Uniti avrebbero preso posizione contro l’avanzata del comunismo, l’NSC-68 definì gli interessi statunitensi in termini di minaccia sovietica piuttosto che attraverso criteri oggettivi indipendenti dall’avversario.20Anche Taft attaccò gli aumenti di spesa, sostenendo che c’era un “limite a ciò che un governo può spendere in tempo di pace e mantenere comunque un’economia libera, senza inflazione”.21 Al di là del Congresso, l’ex presidente Herbert Hoover criticò Truman per aver perseguito politiche aggressive che avrebbero potuto danneggiare l’economia.22Anche l’ala internazionalista del Partito Repubblicano criticò il cambiamento strategico avviato dall’NSC-68, con l’allora Segretario di Stato John Foster Dulles che accusò l’amministrazione Truman di “sbilanciare il bilancio [e] abbassare il valore del dollaro” con un programma che “minacciava le libertà civili in patria ”23.
L’opposizione al cambiamento strategico rappresentato dall’NSC-68 era quindi sostanziale e il destino delle sue raccomandazioni politiche era inizialmente tutt’altro che certo.
Superare l’opposizione
Nel 1950, l’NSC-68 acquistò slancio per diverse ragioni, tra cui i cambiamenti di personale, le politiche all’interno della burocrazia federale e gli sforzi concertati all’interno e all’esterno del governo per promuovere il nuovo approccio.Inoltre, lo scoppio della guerra di Corea nel giugno 1950 si rivelò decisivo per garantire l’attuazione dell’NSC-68.
Nel 1950, l’NSC-68 acquistò slancio per diverse ragioni, tra cui i cambiamenti di personale, le politiche all’interno della burocrazia federale e gli sforzi concertati all’interno e all’esterno del governo per promuovere il nuovo approccio.
I cambiamenti di personale nell’amministrazione che precedettero la stesura dell’NSC-68 furono cruciali per rendere possibili maggiori spese per la difesa.Kennan lasciò la carica di capo dello staff di pianificazione politica del Dipartimento di Stato alla fine del 1949, consentendo al più falco Nitze di succedergli.24 La promozione di Nitze coincise con la fine del mandato di Frank Pace a capo dell’Ufficio del Bilancio, che eliminò un altro oppositore ben posizionato dell’aumento della spesa per la difesa.25 Questi cambiamenti misero in disparte i rimanenti sostenitori di un tetto di bilancio, come il segretario alla Difesa Johnson, e crearono un’apertura per i sostenitori di una spesa più elevata per “colpire la mente di massa del ‘top government’”.26
Gli autori dell’NSC-68 si adoperarono anche per superare i loro oppositori attraverso un’abile politica e manovre burocratiche durante il processo di stesura.27 Nonostante il titolo, l’NSC-68 non fu composto dal personale dell’NSC, ma fu il prodotto di un piccolo gruppo di studio di funzionari del Dipartimento di Stato e del Pentagono che la pensavano allo stesso modo.Operando al di fuori dei canali formali della burocrazia e includendo molti dei suoi vice, Nitze si assicurò che i suoi coautori fossero già favorevoli alla sua strategia.28 Quando gli fu presentato un “ fatto compiutovirtuale” ,Johnson acconsentì all’NSC-68.29 Nitze si assicurò anche di ottenere il sostegno di Acheson prima di avviare lo studio.30 Come consigliato da Acheson, omise le stime degli aumenti di spesa impliciti nelle raccomandazioni dell’NSC-68.31
Nitze e i suoi coautori fecero leva anche sul pensiero degli assistenti del presidente per la politica interna.Il presidente del Council of Economic Advisors, Leon Keyserling, abbracciava il deficit spending keynesiano.Keyserling aveva in mente programmi nazionali, ma se l’economia statunitense poteva sostenere l’aumento della spesa pubblica in un settore, poteva farlo anche in un altro.32
Nitze negò anche che l’NSC-68 rappresentasse un cambiamento strategico, sminuendone l’importanza e inquadrandolo invece come continuità strategica.Egli continuò a sostenere che l’NSC-68 non rompeva con l’approccio di Kennan ed era coerente con la dottrina statunitense consolidata.33 Questa tenue affermazione riflette un calcolo secondo il quale de-enfatizzare la portata dell’allontanamento del documento dallo status quo avrebbe aumentato la probabilità di adozione delle sue prescrizioni.34
I funzionari dell’amministrazione fecero di tutto per assicurarsi il sostegno pubblico alle raccomandazioni dell’NSC-68.Ritenevano che l’opinione pubblica desiderasse un’azione risoluta in risposta all’Unione Sovietica, ma che avrebbe potuto rimanere indifferente di fronte al massiccio programma di spesa che il documento comportava.35 L’amministrazione lanciò quindi una campagna di pubbliche relazioni per convincere il popolo americano che l’Unione Sovietica era una minaccia seria e che era necessario un rafforzamento militare per affrontarla.I sostenitori dell’NSC-68 si rivolsero al pubblico per “fomentare il sentimento”.36 Barrett invocò una “campagna di allarmismo” per vendere il documento,37 e molti funzionari di spicco iniziarono a parlare della minaccia sovietica in modo iperbolico.38 In questo senso, Acheson pronunciò una serie di discorsi in cui avvertiva che:“Non c’è mai stato, nella storia del mondo, un sistema imperialista paragonabile a quello di cui dispone l’Unione Sovietica”.39 Attaccando coloro che temevano che la strategia avrebbe fatto un buco nel bilancio federale, Truman disse che ”la vera minaccia alla nostra sicurezza non è il pericolo di bancarotta.Dopo lo scoppio della guerra di Corea, Truman si spinse ancora più in là, chiedendo un aumento delle forze armate fino a 3,5 milioni e dichiarando lo stato di emergenza nella speranza che questa azione avrebbe avuto “grandi effetti psicologici sul popolo americano ”41.
I fautori dell’NSC-68 furono sostenuti da un’ondata di sentimenti anticomunisti.Nel febbraio del 1950, il senatore repubblicano Joseph McCarthy lanciò le prime accuse di infiltrazione comunista contro l’amministrazione, rafforzando la necessità di apparire “duri” nei confronti del comunismoglobale42.Anche i gruppi di pressione e di opinione dell’élite giocarono un ruolo importante, come ad esempio il Committee on Present Danger, un gruppo di interesse anticomunista fondato alla fine del 1950 e di cui facevano parte l’ex sottosegretario alla Difesa Tracy Voorhess, James B. Conant di Harvard, Vannevar Bush della Carnegie Institution di Washington e l’ex segretario alla Guerra RobertPatterson43.
Nonostante questi sforzi, Truman inizialmente accantonò l’NSC-68 per la mancanza di stime dei costi.44 A cambiare il suo calcolo fu lo scoppio della Guerra di Corea nel giugno del 1950.45 I funzionari statunitensi interpretarono l’invasione della Corea del Sud da parte della Corea del Nord come una prova che l’Unione Sovietica stava organizzando un’offensiva internazionale.46L’attacco sembrò anche illustrare che il deterrente nucleare da solo non era sufficiente a prevenire la belligeranza comunista e che un rafforzamento militare convenzionale sarebbe stato vantaggioso.47 Nel frattempo, l’improvvisa trasformazione della penisola coreana da teatro periferico della competizione della Guerra Fredda ad alta priorità americana sembrò convalidare l’ampia visione del NSC-68 sugli interessi di sicurezza degli Stati Uniti.48
Con il proseguire della guerra, le sfide affrontate dalle forze americane portarono l’attenzione politica sull’insufficiente prontezza delle forze.49 La copertura negativa della guerra si rifletté negativamente su Johnson e sulla sua disciplina fiscale.Il suo licenziamento da parte di Truman, nel settembre del 1950, eliminò forse il più importante oppositore di un aumento delle spese per ladifesa50.Da parte sua, il Congresso approvò con poco dissenso due proposte di legge integrative, stanziando 35,3 miliardi di dollari oltre i 13,3 miliardi accantonati per l’anno 1951.51 Questa azione attraversò il proverbiale Rubicone: come ha scritto il politologo Robert Jervis, “una volta che il bilancio sfondò il vecchio tetto e l’economia non crollò, gran parte della resistenza crollò”.52 La guerra di Corea portò anche a una nuova enfasi sull’Asia e a una nuova attenzione sull’importanza delle capacità convenzionali per la conduzione di guerre limitate contro gli Stati comunisti non sovietici.53Senza la guerra di Corea, l’NSC-68 forse non sarebbe stato adottato e attuato.54
L’eredità
L’NSC-68 ha plasmato l’ampiezza, la portata e la natura della strategia della guerra fredda degli Stati Uniti negli anni Cinquanta e Sessanta.Il primo effetto fu sui livelli di spesa.Subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli Stati Uniti tagliarono la spesa annuale per la difesa da 81,6 miliardi di dollari nel 1945 a 13,1 miliardi nel 1947, riducendo nello stesso periodo il numero di uomini sotto le armi da 12 milioni a 1,6 milioni.55 Anche dopo l’inizio della Guerra Fredda, alla fine degli anni ’40, i politici e i responsabili politici cercarono di limitare la spesa per la difesa.Truman, con il sostegno bipartisan del Congresso, si impegnò a mantenere il bilancio del Pentagono al di sotto dei 15 miliardi di dollari all’anno, e la spesa militare consumò circa il 5% del prodotto nazionale lordo (PNL) dal 1947 al 1950.56 Kennan riteneva che gli Stati Uniti potessero perseguire una strategia di contenimento entro i limiti del tetto di bilancio, facendo affidamento semplicemente su “due divisioni di marina di alta qualità”.“57 L’NSC-68 segnò un’inversione di rotta, affermando che “le considerazioni di bilancio dovranno essere subordinate al fatto che potrebbe essere in gioco la nostra stessa indipendenza come nazione”.58 La spesa per la difesa aumentò precipitosamente, superando di gran lunga il tetto di bilancio fissato da Truman.Tra il 1952 e il 1954, il bilancio militare si gonfiò fino a raggiungere il 15% del PNL, costituendo quasi il 70% della spesa federale.59 Il conservatorismo fiscale aveva lasciato il posto a un nuovo “keynesianismo militare”, che “svincolò i bilanci della difesa da limiti di spesa che in precedenza erano sembrati economicamente e politicamente immutabili”.60 L’NSC-68 inaugurò il processo di riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite.
L’NSC-68 ha inaugurato un’inversione di rotta, affermando che “le considerazioni di bilancio dovranno essere subordinate al fatto che potrebbe essere in gioco la nostra stessa indipendenza come nazione”.
L’NSC-68 ha anche globalizzato la strategia di contenimento, ampliando la portata del ruolo militare dell’America. Dopo la Seconda guerra mondiale, Kennan aveva sostenuto che tre dei cinque centri di potere mondiali si trovavano in Europa e che gli Stati Uniti avrebbero dovuto concentrare lì i propri sforzi.61 Altre regioni, tra cui la maggior parte dell’Asia, erano state inizialmente relegate a priorità secondaria.62 Al contrario, l’NSC-68 rifiutava “le distinzioni tra interessi periferici e vitali”. Il contenimento non sarebbe più stato limitato a centri di potere selezionati; gli autori del documento abbracciarono una visione massimalista di un perimetro di difesa globale o “eurasiatico”.63 Gli Stati Uniti procedettero a rafforzare le proprie difese in Europa occidentale e in Asia simultaneamente.64
Infine, l’NSC-68 risolse un dibattito sul ruolo che le armi nucleari avrebbero dovuto svolgere nella politica di difesa. I sostenitori di una strategia di difesa fortemente incentrata sulla deterrenza nucleare sottolineavano i vantaggi militari e fiscali offerti da queste nuove e potentiarmi65, mentre i detrattori, come Kennan e Lilienthal, sottolineavano i rischi potenzialmente catastrofici che una simile strategia avrebbe comportato.66 L’NSC-68 risolse questo dibattito, non schierandosi da una parte o dall’altra, ma invocando un ampio incremento delle forze convenzionali accanto alle armi nucleari.67 Nitze in seguito inquadrò il documento come un passaggio “dalla dipendenza primaria dalle armi nucleari alla costruzione di forze convenzionali”.68 Ma questo non significava che gli Stati Uniti avessero diminuito le dimensioni del loro arsenale nucleare o che avessero abbracciato una politica di non primo uso.69 Intrapresero parallelamente lo sviluppo della bomba all’idrogeno.70 Accoppiando i progressi nucleari con l’attenzione alla deterrenza convenzionale, gli autori dell’NSC-68 cercarono di assicurare che gli Stati Uniti non dipendessero completamente dalla deterrenza nucleare nell’eventualità di uno scontro limitato con l’Unione Sovietica.71
Questi cambiamenti si dimostrarono duraturi. Anche se il presidente Dwight Eisenhower, con la sua politica di sicurezza New Look, puntò su una difesa meno costosa, sostenuta dalla deterrenza nucleare, non si distaccò definitivamente dalla strategia del NSC-68.72 La sua amministrazione continuò l’approccio globale, appoggiando i colpi di stato in Guatemala e in Iran, formulando la “teoria del domino” per il Sud-Est asiatico,73 e impegnando gli Stati Uniti nella difesa del Vietnam del Sud.74 La spesa per la difesa diminuì inizialmente, ma rimase ben al di sopra del vecchio tetto di bilancio di Truman.75 D’altra parte, la valutazione pessimistica dell’NSC-68 sulle intenzioni sovietiche svanì dopo la guerra di Corea.76
Il presidente successivo John F. Kennedy seguì le orme di Nitze sostenendo che il suo predecessore aveva posto un’enfasi eccessiva sulla deterrenza nucleare.77 Il suo successore Lyndon B. Johnson evidenziò l’eredità del NSC-68 nel 1964 quando dichiarò: “Siamo la nazione più ricca della storia del mondo. Il crescente impegno degli Stati Uniti nel Vietnam del Sud negli anni Sessanta fu una conseguenza della globalizzazione del contenimento della Guerra Fredda del NSC-68.79 Gli studiosi hanno persino individuato dei legami tra la valutazione di Nitze sull’Unione Sovietica contenuta nel documento e la retorica assertiva dei presidenti Ronald Reagan e George W. Bush.80 Le spese per la difesa degli Stati Uniti non sono mai più scese ai livelli precedenti alla Guerra di Corea e gli Stati Uniti continuano a spendere enormi somme per la difesa.81
Note
1Dean Acheson, citato in Ken Young, “Revisiting NSC-68”, Journal of Cold War Studies 15, n. 1 (inverno 2013): 3.
2Samuel F. Wells, Jr., “Sounding the Tocsin: NSC 68 and the Soviet Threat”, International Security 4, no. 2 (Fall 1979): 117.
3National Security Council, United States Objectives and Programs for National Security, NSC 68 (Washington, DC: Casa Bianca, 1950), 3.
4Paul Nitze, “The Development of NSC 68” in “NSC 68 and the Soviet Threat Reconsidered”, International Security 4, no. 4 (primavera 1980): 172.
5Ken Young, “Revisiting NSC-68”, Journal of Cold War Studies 15, no.1 (Winter 2013): 27, 30-31.
6Joseph M. Siracusa, “NSC 68: A Reappraisal”, Naval War College Review 33, no. 6 (novembre-dicembre 1980): 10.
7Wells, Jr., “Sounding the Tocsin: NSC 68 and the Soviet Threat”,117.
8National Security Council, United States Objectives and Programs for National Security, NSC 68 (Washington, DC: Casa Bianca, 1950), 30; Samuel F. Wells, Jr., “Sounding the Tocsin: NSC 68 and the Soviet Threat”, International Security 4, n. 2 (autunno 1979): 125.
9Alcuni resoconti revisionisti hanno sostenuto che l’NSC-68 non fosse una risposta ai pericoli percepiti dell’espansionismo sovietico e che riflettesse invece preoccupazioni economiche relative a questioni come il “dollar gap”. Si veda ad esempio Curt Cardwell, NSC 68 and the Political Economy of the Early Cold War (Oxford: Oxford University Press, 2011).
10Paul Nitze, citato in Ken Young, “Revisiting NSC-69”, Journal of Cold War Studies 15, no.1 (Winter 2013): 21.
11Steven Casey, “Vendere l’NSC-68: The Truman Administration, Public Opinion, and the Politics of Mobilization, 1950-51”, Diplomatic History 29, no. 4 (settembre 2005): 665.
12Sam Postbrief, “Departure from Incrementalism in US Strategic Planning: The Origins of NSC-68”, Naval War College Review 33, no. 2 (marzo-aprile 1980): 49.
13Wells, Jr., “Sounding the Tocsin: NSC 68 and the Soviet Threat”, 117.
14George Kennan, citato in Samuel F. Wells, Jr., “Sounding the Tocsin: NSC 68 and the Soviet Threat”, International Security 4, n. 2 (autunno 1979): 128; Rebecca Lissner, Wars of Revelation:The Transformative Effects of Military Intervention on Grand Strategy (Oxford: Oxford University Press, 2021), 34.
15Wells, Jr., “Sounding the Tocsin: NSC 68 and the Soviet Threat”, 136; Ken Young, ‘Revisiting NSC-69’, Journal of Cold War Studies 15, no.1 (Winter 2013): 20. Sebbene entrambi abbiano contestato la cupa valutazione dell’NSC-68 sugli obiettivi sovietici, nessuno dei due si è opposto in modo inattaccabile a un aumento della spesa per la difesa, soprattutto se tale spesa fosse stata accompagnata da una minore dipendenza dalla deterrenza nucleare. Si veda Sam Postbrief, “Departure from Incrementalism in US Strategic Planning: The Origins of NSC-68”, Naval War College Review 33, n. 2 (marzo-aprile 1980): 51; John Lewis Gaddis, George F. Kennan:An American Life (New York: Penguin, 2011), 398.
16Wells, Jr., “Sounding the Tocsin: NSC 68 and the Soviet Threat”, 135-136.
17Rebecca Lissner, Guerre di rivelazione:The Transformative Effects of Military Intervention on Grand Strategy (Oxford: Oxford University Press, 2021), 34.
18Samuel F. Wells, Jr., “Sounding the Tocsin: NSC 68 and the Soviet Threat”, International Security 4, no. 2 (Fall 1979): 129; Paul Nitze, “The Development of NSC 68” in “NSC 68 and the Soviet Threat Reconsidered”, International Security 4, no. 4 (primavera 1980): 176.
19John Lewis Gaddis, Strategie di contenimento:A Critical Appraisal of Postwar American National Security Policy (New York: Oxford University Press, 1982), 119.
20Gaddis, Strategie di contenimento, 98.
21Robert A. Taft, citato in John Lewis Gaddis, Strategies of Containment, 120.
22Herbert Hoover, citato in John Lewis Gaddis, Strategies of Containment:A Critical Appraisal of Postwar American National Security Policy (New York: Oxford University Press, 1982), 119.
23Gaddis, Strategie di contenimento, 120-121.
24Sam Postbrief, “Departure from Incrementalism in US Strategic Planning: The Origins of NSC-68”, Naval War College Review 33, n. 2 (marzo-aprile 1980): 39; John Lewis Gaddis, George F. Kennan:An American Life (New York: Penguin, 2011), 362-386.
25Ken Young, “Revisiting NSC-69”, Journal of Cold War Studies 15, no.1 (Winter 2013): 21-22.
26Dean Acheson, Present at the Creation:My Years in the State Department (New York: W.W. Norton, 1969), 374.
27Young, “Revisiting NSC-69”, 19.
28Wells, Jr., “Sounding the Tocsin”, 130.
29John Lewis Gaddis, Strategie di contenimento, 107; Young, “Revisiting NSC-69”, 22; Wells, Jr., “Sounding the Tocsin: NSC 68 and the Soviet Threat”, 131; Sam Postbrief, ”Departure from Incrementalism in US Strategic Planning: The Origins of NSC-68”, Naval War College Review 33, n. 2 (marzo-aprile 1980): 48.
30Wells, Jr., “Sounding the Tocsin”, 130.
31Gaddis, George F. Kennan, 391; Ken Young, “Revisiting NSC-69”, Journal of Cold War Studies 15, no.1 (Winter 2013): 38.
32John Lewis Gaddis, Strategies of Containment, 93-94; Benjamin O. Fordham, “Domestic Politics, International Pressure, and Policy Change: The Case of NSC-68”, The Journal of Politics 64, no. 1 (febbraio 2002): 67; Paul Nitze, “The Development of NSC 68” in “NSC 68 and the Soviet Threat Reconsidered”, International Security 4, no. 4 (primavera 1980): 173; Sam Postbrief, “Departure from Incrementalism in US Strategic Planning: The Origins of NSC-68”, Naval War College Review 33, no. 2 (marzo-aprile 1980): 49.
33Young, “Revisiting NSC-69”, 12.
34Young, “Revisiting NSC-69”, 13-14.
35Wells, Jr., “Sounding the Tocsin”, 128; e Steven Casey, “Selling NSC-68: The Truman Administration, Public Opinion, and the Politics of Mobilization, 1950-51”, Diplomatic History 29, no. 4 (settembre 2005): 660; si veda anche Odd Arne Westad, “Contenere la Cina? NSC-68 as Myth and Dogma”, SAIS Review 19, no. 1 (inverno-primavera 1999): 86-7.
36Ernest May, American Cold War Strategy:Interpreting NSC 68 (Bedford/St. Martin’s, 1993), 43.
37EdwardW. Barrett, citato in John Lewis Gaddis, Strategies of Containment, 119; Casey, “Selling NSC-68: The Truman Administration, Public Opinion, and the Politics of Mobilization, 1950-51”, 660.
38Gaddis, Strategie di contenimento, 108.
39Casey, “Vendere l’NSC-68”, 661.
40Harry S. Truman, citato in John Lewis Gaddis, Strategie di contenimento, 122.
41Casey, “Vendere l’NSC-68”, 684.
42Samuel F. Wells, Jr., “Sounding the Tocsin”, 117, 126; Casey, “Selling NSC-68”, 661-663.
43Samuel F. Wells, Jr., “Sounding the Tocsin”, 142. Il Committee on Present Danger era solo un esempio di come le élite influenzassero la politica estera degli Stati Uniti nell’era Truman. Si veda Samuel F. Wells, Jr., “Sounding the Tocsin: NSC 68 and the Soviet Threat”, International Security 4, n. 2 (autunno 1979): 145. Sulle origini del comitato, si veda Chad Levinson, “Partners in Persuasion: Extra-Governmental Organizations in the Vietnam War”, Foreign Policy Analysis 17, no. 3 (luglio 2021): 11.
44Wells, Jr., “Sounding the Tocsin”, 137-138.
45Alcuni studiosi hanno sostenuto che l’NSC-68 portò alla guerra di Corea, piuttosto che la guerra di Corea contribuì a realizzare il cambiamento strategico immaginato dai suoi autori. Ad esempio, si veda Benjamin O. Fordham, Building the Cold War Consensus:The Political Economy of U.S. National Security Policy, 1949-51 (Ann Arbor: University of Michigan Press, 1998). Questa linea di pensiero è stata respinta da altri studiosi in quanto “difficilmente sostenibile”, “nel migliore dei casi, tenue” e come un’affermazione priva di prove che si basa sulla “dubbia ipotesi che gli effetti procedano invariabilmente da un’intenzione consapevole”. Ken Young, “Revisiting NSC-69”, Journal of Cold War Studies 15, no.1 (inverno 2013): 9; Joseph M. Siracusa, “NSC 68: A Reappraisal”, Naval War College Review 33, no. 6 (novembre-dicembre 1980): 11; John Lewis Gaddis, Strategies of Containment:A Critical Appraisal of Postwar American National Security Policy (New York: Oxford University Press, 1982), 109.
46Marc Trachtenberg, “A ‘Wasting Asset’: American Strategy and the Shifting Nuclear Balance, 1949-1945”, International Security 13, no. 3 (inverno 1988-1989): 17.
47John Lewis Gaddis, Strategies of Containment:A Critical Appraisal of Postwar American National Security Policy (New York: Oxford University Press, 1982), 100.
52Robert Jervis, “The Impact of the Korean War on the Cold War”, The Journal of Conflict Resolution 24, no. 4 (dicembre 1980): 58.
53Rebecca Lissner, Guerre di rivelazione:The Transformative Effects of Military Intervention on Grand Strategy (Oxford: Oxford University Press, 2021), 35; Robert Jervis, “The Impact of the Korean War on the Cold War”, 581-582.
54Robert Jervis, “L’impatto della guerra di Corea sulla guerra fredda”, 584-585.
55Rebecca Lissner, Guerre di rivelazione, 31.
56Wells Jr., “Sounding the Tocsin”, 123; Paul Nitze, “The Development of NSC 68”, in “NSC 68 and the Soviet Threat Reconsidered”, International Security 4, no. 4 (primavera 1980): 171; Gaddis, Strategies of Containment, 58; John A. Thompson, A Sense of Power: The Roots of America’s Global Role (Ithaca and London: Cornell University Press, 2015), 231.
57Paul Nitze, “The Development of NSC 68” in “NSC 68 and the Soviet Threat Reconsidered”, International Security 4, no. 4 (primavera 1980): 172; Ken Young, “Revisiting NSC-69,” Journal of Cold War Studies 15, no.1 (Winter 2013): 19.
58National Security Council, United States Objectives and Programs for National Security, NSC 68 (Washington, DC: Casa Bianca, 1950), 56.
59Thompson, A Sense of Power: The Roots of America’s Global Role, 231.
60Lissner, Guerre dell’Apocalisse, 44.
61John Lewis Gaddis, “NSC 68 and the Problem of Means and Ends”, in “NSC 68 and the Soviet Threat Reconsidered”, International Security 4, no. 4 (primavera 1980): 165.
62Rebecca Lissner, Wars of Revelation:The Transformative Effects of Military Intervention on Grand Strategy (Oxford: Oxford University Press, 2021), 28.
63John Lewis Gaddis, “NSC 68 and the Problem of Means and Ends”, in “NSC 68 and the Soviet Threat Reconsidered”, International Security 4, no. 4 (primavera 1980): 166; National Security Council, United States Objectives and Programs for National Security, NSC 68 (Washington, DC: Casa Bianca, 1950) 57, 61; Young, “Revisiting NSC-68”, 16.
64Marc Trachtenberg, “A ‘Wasting Asset’: American Strategy and the Shifting Nuclear Balance, 1949-1954”, International Security 13, no. 3 (inverno 1988-1989): 31; Jervis, “The Impact of the Korean War on the Cold War”, 580-581; Beatrice Heuser, “NSC 68 and the Soviet Threat: A New Perspective on Western Threat Perception and Policy Making”, Review of International Studies 17, no. 1 (1991): 38-39; National Security Council, United States Objectives and Programs for National Security, NSC 68 (Washington, DC: Casa Bianca, 1950), 17-18.
65Wells, Jr., “Sounding the Tocsin”, 119-120.
66 Wells, Jr., “Sounding the Tocsin”, 119-120.
67Gaddis, Strategie di contenimento, 100.
68Paul Nitze, “The Development of NSC 68” in “NSC 68 and the Soviet Threat Reconsidered”, International Security 4, no. 4 (primavera 1980): 172.
74Jervis, “The Impact of the Korean War on the Cold War”, 586-587; Gaddis, Strategies of Containment, 239.
75Lissner, Guerre di rivelazione, 54. Alcuni hanno sostenuto che, per ironia della sorte, questi spostamenti negli Stati Uniti portarono anche a un nuovo rafforzamento militare dell’Unione Sovietica. Si veda Wells, Jr., “Sounding the Tocsin”, 158.
79Cfr. Gaddis, Strategies of Containment, 239; John Lewis Gaddis, “NSC 68 and the Problem of Means and Ends”, in “NSC 68 and the Soviet Threat Reconsidered”, International Security 4, no. 4 (primavera 1980): 170.
80Young, “Revisiting NSC-69”, 4, 12.
81Cfr. Martin Calhoun, “U.S. Military Spending, 1945-1996”, Center for Defense Information, 9 luglio 1996, http://academic.brooklyn.cuny.edu/history/johnson/milspend.htm.
autori
Christopher S. Chivvis Senior Fellow e Direttore del Programma di Stategrafia Americana
Jennifer Kavanagh Ex collaboratore senior del Programma di Stategrafia Americana
Sahil Lauji Ex borsista junior James C. Gaither, Programma Statista Americano
Adele Malle Ex borsista junior di James C. Gaither, Programma di statistica americana
Samuel Orloff Ex borsista junior di James C. Gaither, Programma Statista Americano
Stephen Wertheim Borsista senior, Programma Statista Americano
Reid Wilcox Ex analista di ricerca
Il ritiro dal Vietnam e il riorientamento strategico di Nixon
Quando entrò in carica nel 1969, Richard Nixon temeva che gli Stati Uniti fossero rimasti indietro nella competizione della Guerra Fredda con l’Unione Sovietica. Per ripristinare la sua competitività, intraprese un importante riorientamento della politica estera. Forse l’elemento più importante e più difficile di questo riorientamento fu il ritiro delle truppe americane dal Vietnam, dove erano state impegnate in una guerra in escalation per un decennio. La pressione dell’opinione pubblica per un cambiamento era immensa e Nixon dovette affrontare una resistenza limitata. Egli superò le resistenze incontrate attraverso la segretezza e la centralizzazione del processo decisionale alla Casa Bianca.
Come la guerra stessa, il ritiro lasciò cicatrici nella psiche nazionale.
Il ritiro dal Vietnam segnò un grande cambiamento nel ruolo dell’America nel mondo, un’inversione concreta della strategia dell’NSC-68 di contrastare le forze comuniste ovunque. Come la guerra stessa, il ritiro ha lasciato cicatrici nella psiche nazionale. A distanza di quasi mezzo secolo, pochi criticherebbero la decisione di Nixon di uscire dal conflitto, anche se alcuni ne criticherebbero la lentezza. Questo è stato uno dei casi più importanti di cambiamento strategico degli Stati Uniti nel ventesimo secolo e l’unico dei casi esaminati in questo rapporto che ha comportato un tentativo riuscito di ritiro.
Razionale
Quando Nixon fu eletto presidente, circa 530.000 truppe statunitensi si trovavano in Vietnam, un aumento massiccio rispetto ai 16.300 dispiegati cinque anni prima.1 L’offensiva del Tet lanciata dal Vietnam del Nord nel gennaio 1968 aveva costretto il presidente Lyndon B. Johnson e i suoi consiglieri ad ammettere che era improbabile che una continua escalation del coinvolgimento militare potesse produrre una vittoria a costi accettabili. Johnson aveva quindi interrotto parzialmente la campagna di bombardamenti degli Stati Uniti nella primavera del 1968 e aveva spinto per una soluzione negoziata, rifiutandosi di ricandidarsi alla presidenza.2
Questo è stato uno dei casi più importanti di cambiamento strategico degli Stati Uniti nel ventesimo secolo e l’unico dei casi esaminati in questo rapporto che ha comportato un tentativo riuscito di ritiro.
Anche Nixon vedeva quel ritiro come essenziale, ma non per le stesse ragioni. Egli riteneva che fosse la chiave per rafforzare gli Stati Uniti nella competizione a lungo termine con l’Unione Sovietica. Nixon e il suo influente consigliere per la sicurezza nazionale Henry Kissinger volevano ridurre le tensioni e i costi della competizione della Guerra Fredda perseguendo la distensione con Mosca e aprendo le relazioni con la Repubblica Popolare Cinese.3 Miravano a ridurre l’onere della difesa e a dare agli Stati Uniti maggiore flessibilità in un ordine mondiale che stava diventando meno dominato dalla potenza americana.
Il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon nello studio ovale, circondato da telegrammi provenienti da tutto il Paese che sostengono la sua politica di ritiro dal Vietnam.(Foto di Bettmann Archive/Getty Images)
Nixon e Kissinger ritenevano che la loro visione strategica richiedesse un ritiro dal Vietnam, ma che non sarebbe apparso come una sconfitta e avrebbe danneggiato il prestigio degli Stati Uniti. Per questo Nixon adottò un approccio inflessibile ai negoziati di pace, lanciando campagne di bombardamento indiscriminate per ottenere un accordo migliore e consegnando gradualmente la guerra al Vietnam del Sud attraverso una politica divietnamizzazione4.
L’opposizione
Nixon e Kissinger affrontarono una resistenza limitata al loro piano di ritiro dal Vietnam. Il Congresso, l’opinione pubblica e gran parte della comunità della difesa sostenevano la decisione. Alcuni volevano addirittura accelerare il ritiro. Ciononostante, vi erano circoli che si opponevano.
Il gruppo più importante che si opponeva al ritiro era composto da conservatori falchi, sia all’interno che all’esterno del Congresso, che temevano che la perdita della guerra avrebbe diminuito la credibilità degli Stati Uniti con gli alleati chiave e la competitività strategica con l’Unione Sovietica e la Cina. Inoltre, si opponevano alla distensione in generale, preferendo un approccio rigido a tutti gli aspetti della politica estera statunitense. Ma, paradossalmente, diedero a Nixon e Kissinger la copertura per perseguire un ritiro graduale, fungendo da baluardo contro i membri del Congresso contrari alla guerra che spingevano per un ritiro immediato e per tagli alla spesa per la difesa.5 Questi falchi dovettero comunque essere placati man mano che il ritiro proseguiva e continuarono ad avere un certo ascendente sulle decisioni di Nixon, soprattutto all’approssimarsi delle elezioni del 1972, perché egli dipendeva dal loro sostegno all’interno del suo Partito Repubblicano.
Un secondo importante gruppo di oppositori era costituito dai vertici militari, tra i quali il ritiro non era affatto popolare. Tra questi vi erano ufficiali di alto livello al Pentagono, come il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito William Westmoreland e il Presidente dei Capi di Stato Maggiore congiunti Earle Wheeler, nonché ufficiali dislocati in Vietnam.6 Il generale Creighton Abrams, ad esempio, comandante delle forze nel Paese, si oppose fermamente al ritiro.7 Egli rifiutò la strategia di Nixon di vietnamizzazione sulla base del fatto che nessuna quantità di addestramento, assistenza militare o armamenti avrebbe permesso alle forze sudvietnamite di diventare autosufficienti.8 Altri capi militari ritenevano di poter ancora vincere la guerra se avessero avuto a disposizione risorse aggiuntive e se avessero potuto combattere senza restrizioni.9 Ad esempio, speravano che il Congresso avrebbe generato truppe aggiuntive attivando le riserve.10 Essi dipinsero valutazioni molto più ottimistiche della guerra e dei suoi progressi di quanto non facessero gli osservatori esterni o la stampa – valutazioni in seguito criticate come fuorvianti e incomplete.11
Infine, il ritiro fu osteggiato anche dai leader sudvietnamiti, che temevano giustamente di essere sconfitti senza il sostegno americano. Per evitare che rovinassero i colloqui di pace, Nixon e Kissinger esclusero i funzionari sudvietnamiti dai negoziati segreti con il Vietnam del Nord. Il presidente sudvietnamita Nguyen Van Thieu riuscì a impedire la firma della versione dell’ottobre 1972 dell’accordo di pace di Kissinger, definendola una ricetta per il “suicidio”.
Egli protestò ferocemente contro la clausola del “cessate il fuoco in atto”, che consentiva alle forze nordvietnamite di rimanere all’interno del territoriomeridionale12.
Superare l’opposizione
Il ritiro degli Stati Uniti dal Vietnam fu ampiamente sostenuto a livello nazionale e internazionale. Tuttavia, molti sostenitori erano favorevoli a un ritiro più rapido di quello che Nixon alla fine realizzò. La Casa Bianca si affidò alla segretezza e alla politica di vietnamizzazione per assicurare che la guerra stava per finire.
Nixon superò la resistenza alle sue intenzioni nel modo in cui superò la maggior parte delle resistenze durante il suo mandato: attraverso la segretezza e il processo decisionale centralizzato. Nascose al Congresso e all’opinione pubblica l’espansione dei bombardamenti statunitensi in Cambogia e Laos nel 1969,13 la verità sulle insidie della vietnamizzazione e, per un certo periodo, i negoziati per un accordo di pace. Inoltre, mise la maggior parte dell’autorità decisionale e attuativa nelle mani di Kissinger e del Consiglio di Sicurezza Nazionale.14 Questo permise a Nixon di eliminare la maggior parte delle resistenze burocratiche.
Allo stesso tempo, il presidente superò la resistenza dei falchi conservatori intensificando periodicamente i bombardamenti e conducendo il ritiro lentamente.
Il ritmo del ritiro era in teoria legato ai progressi della vietnamizzazione, ma in realtà il legame tra le due cose era tenue e la maggior parte della cerchia di Nixon sapeva che le forze del Vietnam del Sud difficilmente avrebbero retto senza il sostegno degli Stati Uniti.15 La vietnamizzazione fece comunque guadagnare tempo e ridusse la pressione politica per un ritiro più rapido. Il processo permise a Kissinger di condurre lunghi negoziati con il Vietnam del Nord fino alla firma di un accordo nel gennaio 1973, poco prima dell’inizio del secondo mandato diNixon16.
Nixon godeva dell’appoggio di molti esponenti della politica estera statunitense, compresi i principali esponenti della sua amministrazione. Tra questi spiccava il segretario alla Difesa, Melvin Laird. Forte sostenitore della vietnamizzazione, raccomandò un ritiro molto più rapido di quello voluto da Nixon. La sua posizione era dettata dalla sua valutazione sul campo della guerra e dalla sua sensazione che l’opinione pubblica non fosse più disposta a tollerare la guerra.17 Anche il segretario di Stato William Rogers era favorevole, anche se fu largamente messo da parte.18
Al Congresso c’era un forte sostegno bipartisan per il ritiro.19 Molti membri acclamavano la vietnamizzazione come un segno di progresso. Molti parlamentari accolsero la riduzione del Vietnam come un segno di progresso, ma molti altri sostennero la necessità di un ritiro più rapido e di tagli al bilancio della difesa. I senatori democratici J. William Fulbright, Mark Hatfield e George McGovern furono tra le voci più forti a favore del ritiro.20 La leadership repubblicana al Congresso giocò un ruolo particolarmente importante, facendo capire che Nixon avrebbe potuto perdere l’appoggio politico del partito se non fosse andato avanti.21 Allo stesso tempo, il presidente superò la resistenza dei falchi conservatori intensificando periodicamente i bombardamenti e conducendo il ritiro lentamente.22 Per evitare gli ostacoli al Congresso, Nixon si affidò all’azione esecutiva e alle operazioni segrete, nascondendo ai deputati che stava espandendo la guerra in Cambogia e Laos e i dettagli dei negoziati.23 Anche Laird si adoperò per superare le pressioni del Congresso, fungendo da intermediario e portavoce per vendere l’approccio di Nixon al ritiro.24
Nixon superò la resistenza dei capi militari in alcuni modi. In primo luogo, si affidò a Laird, che sosteneva il ritiro, per convincerli e far avanzare il processo. In secondo luogo, la segretezza e l’autorità decisionale consolidata privarono il Pentagono di gran parte della visibilità sulle azioni della Casa Bianca. Infine, Nixon mantenne la lealtà dei comandanti militari continuando a bombardare pesantemente la regione e dando garanzie di voler vincere la guerra. E, cosa forse più importante, l’autorità dei falchi nelle forze armate fu fortemente minata dalla pubblicazione dei Pentagon Papers nel 1971, che rivelarono che i leader civili e militari statunitensi avevano mentito all’opinione pubblica sull’andamento dellaguerra25.
Paradossalmente, l’obiettivo del ritiro fu favorito dall’opposizione del Congresso al modo in cui Nixon lo stava attuando. Quando Nixon ritardò il ritiro delle truppe, il Congresso cercò di forzare la mano. Nel dicembre 1969, approvò un emendamento alla legge sulla spesa per la difesa che tagliava i fondi per le operazioni in Laos e Thailandia. Quando Nixon inviò migliaia di truppe in Cambogia nella primavera del 1970, il Congresso approvò un secondo emendamento che tagliava i fondi per le operazioni anche in quel Paese.26 Nel gennaio 1971, inoltre, abrogò la Risoluzione del Golfo del Tonchino del 1964, che aveva fornito l’autorizzazione per la guerra in Vietnam. Il Congresso prese in considerazione, ma non approvò, numerose proposte di legge che avrebbero richiesto un ritiro immediato. Nel 1973, dopo la firma dell’accordo di pace, tagliò i fondi per qualsiasi ulteriore operazione militare nella regione, pur consentendo la prosecuzione degli aiuti militari e umanitari.27 Ciò impedì a Nixon di dare seguito alla sua intenzione di utilizzare i bombardamenti per far rispettare l’accordo. Infine, nello stesso anno, il Congresso approvò la War Powers Resolution, che imponeva ai presidenti di notificare entro quarantotto ore l’invio di forze armate in combattimento e di ottenere l’autorizzazione del Congresso per le ostilità entro sessanta giorni. Senza la graduale escalation di pressioni da parte del Congresso, l’amministrazione Nixon avrebbe potuto impiegare più tempo per ritirarsi dalVietnam28.
Paradossalmente, l’obiettivo del ritiro fu favorito dall’opposizione del Congresso al modo in cui Nixon lo stava attuando.
Il cambiamento di strategia in Vietnam fu anche il prodotto di una massiccia protesta dell’opinione pubblica americana, che si oppose fermamente al proseguimento della guerra. Secondo i dati del Pew, nel 1965 il 24% degli intervistati rispose “sì” alla domanda se gli Stati Uniti avessero commesso un errore inviando truppe in Vietnam, mentre il 60% rispose “no”. Nel 1968, quando Nixon si candidò alla presidenza, il 46% disse che la campagna militare era stata un errore, mentre il 42% era ancora favorevole. Quando entrò in carica nel gennaio del 1969, il 52% affermava che la guerra era un errore; all’inizio del suo secondo mandato, nel 1973, questa percentuale aveva raggiunto il 60%.29 I sondaggi sempre più negativi influirono in modo significativo sul numero di consensi personali di Nixon. L’opposizione pubblica alla guerra portò a proteste e marce crescenti, che esercitarono ulteriori pressioni sul presidente. Ad esempio, nel 1969 le proteste mensili prevedevano una veglia a lume di candela davanti alla Casa Bianca, durante la quale venivano letti ad alta voce i nomi dei soldati morti in Vietnam.30 Nixon cercò di placare il malcontento dell’opinione pubblica facendo appello alla “maggioranza silenziosa” per chiedere più tempo e illustrando i pericoli di un ritiro immediato. Sapeva che il fallimento in Vietnam era stato la rovina di Johnson ed era determinato a non subire un destino simile.32 Di conseguenza, l’avvicinarsi delle elezioni del 1972 determinò i tempi del ritiro.
Anche i fattori a livello internazionale contribuirono all’attuazione del ritiro. Nel Vietnam del Sud, la dipendenza di Thieu da Washington non gli permise di fermare il ritiro. Dopo aver ottenuto la promessa di continuare l’assistenza militare, nel gennaio 1973 firmò un accordo che era in gran parte uguale a quello che aveva annullato mesi prima.33 La Cina e l’Unione Sovietica sostennero la decisione di Nixon, sperando che portasse all’unificazione sotto il governo comunista. Tuttavia, ciò non significava che fossero pronte ad aiutarlo a raggiungere un accordo di pace, perché non vedevano un grande vantaggio nel rendere le cose facili agli Stati Uniti e perché stavano cercando di scavalcarsi a vicenda per ottenere influenza in Vietnam.34 Nel 1970 e nel 1971, ad esempio, l’Unione Sovietica aumentò i finanziamenti al Vietnam del Nord, mentre i leader cinesi, tra cui Mao, incoraggiavano il suo leader, Le Duc Tho, a concentrarsi sulla lotta e sulla vittoria finale.35 Mosca e Pechino divennero un po’ più disponibili a spingere il Vietnam del Nord a negoziare nel 1972, dopo che Nixon e Kissinger avanzarono una proposta che chiedeva solo che passasse un “intervallo decente” tra il ritiro degli Stati Uniti e qualsiasi cambiamento nella situazione politica del Vietnam.36 Nixon e Kissinger riuscirono anche a convincere i leader sovietici e cinesi che legami più stretti sarebbero stati possibili se la questione del Vietnam fosse stata archiviata.
L’eredità
Nixon ritirò le truppe americane dal Vietnam, ma solo nel 1973, dopo la morte di altre migliaia di soldati americani e di centinaia di migliaia di soldati vietnamiti.37 Le sfide che Nixon dovette affrontare lungo il percorso suggeriscono la difficoltà di effettuare grandi cambiamenti in politica estera, soprattutto quando questi richiedono una riduzione degli impegni globali degli Stati Uniti e anche quando tali cambiamenti sono ampiamente popolari.
Data la caduta di Saigon nel 1975, è discutibile che Nixon abbia raggiunto la “pace con onore”, ma ha posto fine al coinvolgimento degli Stati Uniti nel Paese. Il successo nell’attuazione di questo importante cambiamento strategico dipendeva da diversi fattori, tra cui soprattutto il sostegno della maggioranza del Congresso, che appoggiava i suoi obiettivi generali, ma non i suoi metodi; una forte autorità esecutiva e l’uso della segretezza; un ambiente internazionale favorevole. Sebbene l’opinione pubblica e le pressioni sul bilancio siano state catalizzatrici del cambiamento, non ne hanno dettato la direzione o la forma. Le sfide più grandi che Nixon dovette affrontare furono quelle di come assecondare e smussare coloro che, all’interno del Congresso e della comunità della sicurezza nazionale, si opponevano alla sua visione.
Il ritiro dal Vietnam ebbe conseguenze strategiche importanti e di vasta portata, alcune delle quali durano ancora oggi. Ebbe effetti diretti sulle forze armate statunitensi. Nel 1973, il Congresso pose fine al servizio di leva.38 La leva era stata una delle caratteristiche principali dell’era del Vietnam e una delle ragioni per cui gli effetti della guerra si erano propagati in tutta la società. Il passaggio a una forza interamente volontaria migliorò l’efficienza e l’efficacia delle forze armate.39 Con la fine della guerra, l’Esercito spostò la sua attenzione dalla controinsurrezione alle operazioni convenzionali, con l’Europa che tornò a essere il principale teatro operativo.40 Infine, l’esperienza del Vietnam portò a uno sforzo per rivedere l’uso delle riserve, che non erano state richiamate durante la guerra e quindi erano diventate un rifugio per chi cercava di evitare la leva. Venne introdotto il concetto di “forza totale” per integrare efficacemente la componente attiva e quella di riserva.41
Il ritiro interessò anche il Congresso, che riaffermò le proprie prerogative in materia di politica estera e di difesa. In primo luogo, la War Powers Resolution, approvata con il veto di Nixon, limitò l’autorità e la discrezione dei presidenti quando si trattava di intraprendere una guerra e di dispiegare forze militari.42 In secondo luogo, il Congresso divenne più attivo nell’usare il suo “potere della borsa” e l’azione legislativa per forzare la mano del presidente. Ad esempio, nel 1993 ha approvato una legge che obbligava il ritiro delle truppe statunitensi dalla Somalia dopo il fallimento delle operazioni militari.43 Alcune delle restrizioni imposte dal Congresso al potere esecutivo hanno avuto anche effetti indesiderati. Hanno spinto i presidenti a fare affidamento su azioni segrete, attacchi con i droni e altri tipi di attività meno trasparenti e visibili, ma sulle quali hanno il pieno controllo. In terzo luogo, dopo la guerra del Vietnam, il Congresso ha assunto un ruolo più ampio nella definizione delle spese militari e dei bilanci della difesa. Tuttavia, il suo coinvolgimento ha probabilmente reso difficile apportare modifiche alla struttura del bilancio della difesa e tagliare i programmi tradizionali, perché la spesa militare è diventata legata alla politica elettorale.44 Infine, il Congresso ha preso provvedimenti dopo la guerra per rivedere l’infrastruttura di intelligence e le autorità concesse alle varie agenzie governative, ancora una volta per limitare la discrezionalità del ramo esecutivo e garantire la responsabilità, che era stata carente sotto Nixon.45
Più in generale, con l’aiuto di Kissinger, Nixon realizzò un significativo riorientamento della politica estera degli Stati Uniti, anche se all’inizio avvenne lentamente. Ad esempio, i due funzionari ristabilirono i legami con la Cina e conclusero una serie di accordi per il controllo degli armamenti con l’Unione Sovietica. Il successo della Dottrina Nixon, che mirava a trasferire gli oneri della difesa sugli alleati e sui partner degli Stati Uniti, fu tuttavia alterno. Nel suo secondo discorso inaugurale, Nixon dichiarò che “è passato il tempo in cui l’America farà suo il conflitto di ogni altra nazione, o renderà il futuro di ogni altra nazione una nostra responsabilità, o presumerà di dire ai popoli di altre nazioni come gestire i propri affari”. Nixon tenne gli Stati Uniti fuori da altri importanti impegni militari, ma interferì comunque nei conflitti in tutto il mondo. Sostenne il Pakistan nella sua guerra con l’India del 1971 e inviò massicci aiuti militari per sostenere Israele nella sua guerra con gli Stati arabi del 1973, tra gli altri interventi. Tuttavia, Nixon pose le basi per una politica estera statunitense più sobria nel mezzo decennio successivo.46
Nixon lasciò l’incarico prima di poter davvero sfruttare il margine di manovra che aveva creato, ma il suo successore portò avanti alcuni aspetti dell’approccio più sobrio alla sicurezza e alla politica militare che aveva cercato. Carter cercò di condizionare il sostegno degli Stati Uniti agli alleati al rispetto dei diritti umani, ma alla fine riuscì anche a bilanciare interessi e valori, completando la normalizzazione delle relazioni con la Cina e continuando i negoziati per il controllo degli armamenti con l’Unione Sovietica.47 L’invasione sovietica dell’Afghanistan costrinse tuttavia Carter a tornare a una strategia più conflittuale basata sul contenimento. Egli ritirò dal Senato il trattato SALT II (Strategic Arms Limitation Talks), inviò aiuti ai regimi anticomunisti e agli insorti con scarso rispetto dei diritti umani e aumentò le spese per la difesa.48 Anche quando gli Stati Uniti tornarono a confrontarsi con la Guerra Fredda, lo spettro della guerra del Vietnam continuò a infondere maggiore moderazione alla politica estera.
2Larry Berman, Planning A Tragedy:The Americanization of the War in Vietnam(New York: W. W. Norton, 1982) 121, 152; David M. Barrett, “The Mythology Surrounding Lyndon Johnson, His Advisers, and the 1965 Decision to Escalate the Vietnam War”, Political Science Quarterly 103, no. 4 (inverno 1988-1989): 47-73.
3Simon Serfaty, “L’eredità di Kissinger: Old Obsessions and New Look”, The World Today 33, no.3 (marzo 1977): 81-89.
4John A. Farrell, Richard Nixon:The Life (Vintage, 2017).
5Jussi Hanhimaki, “Selling the ‘Decent Interval’: Kissinger, Triangular Diplomacy, and the End of the Vietnam War, 1971-73”, Diplomacy & Statecraft 14, no. 1 (1 marzo 2003): 159-94; Farrell, Richard Nixon.
6Gregory A. Daddis, Withdrawal:Reassessing America’s Final Years in Vietnam, 1a edizione (New York, NY: Oxford University Press, 2017).
13GeneraleCreighton Abrams, “Abrams Messages #3303”, Center for Military History, 2 giugno 1969; Daddis, Withdrawal.
14George C. Herring, From Colony to Superpower:U.S. Foreign Relations Since 1776 (Oxford University Press, 2003), capitolo 17; e Megan Reiss, “Strategic Calculations in Times of Austerity: Richard Nixon”, in Peter Feaver (ed), Strategic Retrenchment and Renewal in the American Experience, Army War College, Carlisle Barracks, PA, Strategic Studies Institute, 2014.
15Herring, Dalla colonia alla superpotenza.
16Herring, Dalla colonia alla superpotenza; Farrell, Richard Nixon.
17Melvin Laird Report to the President, 13 marzo 1969, Folder 13, Box 70, NSC Files, Vietnam Subject Files, RNL; Dale Van Atta, With Honor:Melvin Laird in War, Peace, and Politics(Wisconsin: University of Wisconsin Press, 2008).
18Daddis, Ritiro.
19Julian E. Zelizer, “Congress and the Politics of Troop Withdrawal”, Diplomatic History 34, no. 3 (giugno 2010): 529-541.
20Randall B. Woods, “La colomba di Dixie: J. William Fulbright, the Vietnam War, and the American South”, in Randall B. Woods, Vietnam and the American Political Tradition:The Politics of Dissent (New York: Cambridge University Press, 2003).
21Thomas Schwartz, A Henry Kissinger and American Power:A Political Biography (New York:Hill and Wang, 2020).
22Farrell, Richard Nixon.
23Hanhimaki, “Selling the ‘Decent Interval’”; Daddis, Withdrawal; Farrell, Richard Nixon.
24Hanhimaki, “Selling the ‘Decent Interval’”; Farrell, Richard Nixon; Herring, From Colony to Superpower; e Reiss, “Strategic Calculations in Times of Austerity”.
33Hanhimaki, “Selling the ‘Decent Interval’”; Thomas Schwartz, A Henry Kissinger and American Power:A Political Biography (New York:Hill and Wang, 2020); Department of State,“Foreign Relations of the United States, 1969-1976”, 251.
39Rostker, “The Evolution of the All-Volunteer Force”.
40Richard Lock-Pullan, “‘An Inward Looking Time’: The United States Army, 1973-1976”, The Journal of Military History 67, no. 2, (aprile 2003): 483-511.
41Lock-Pullan, “‘An Inward Looking Time’”.
42Zelizer, “Il Congresso e la politica del ritiro delle truppe”.
43Zelizer, “Il Congresso e la politica del ritiro delle truppe”.
44Zelizer, “Il Congresso e la politica del ritiro delle truppe”.
45Dipartimentodi Stato,“Foreign Relations of the United States, 1969-1976”, 135-155.
46Mark Moyar, “Grand Strategy after the Vietnam War”, Orbis 53, no. 4 (agosto 2009): 591-610,
47Moyar, “La grande strategia dopo la guerra del Vietnam”.
48Moyar, “Grande strategia dopo la guerra del Vietnam”.
autori
Christopher S. ChivvisSeniorFellow e Direttore del Programma di Stategrafia Americana
Jennifer KavanaghEsistentericercatore senior, Programma di Stategrafia Americana
Sahil LaujiEsecutivoJames C. Gaither Junior Fellow, Programma di Statistica Americana
Adele MalleEsistenteJames C. Gaither Junior Fellow, Programma Statista Americano
Samuel OrloffEsistenteJames C. Gaither Junior Fellow, Programma Statista Americano
Stephen Wertheim Borsista senior, Programma Statistico Americano
Reid Wilcox Ex analista di ricerca
Il tentativo fallito di Carter di ritirare le forze dalla Corea del Sud
Quando entrò in carica nel 1977, il presidente Jimmy Carter aveva promesso di ritirare tutte le forze di terra statunitensi dalla Corea del Sud, ponendo fine a un impegno trentacinquennale e riconfigurando drasticamente una delle due principali alleanze di sicurezza dell’America in Asia orientale. Carter aveva l’autorità costituzionale di determinare il dispiegamento delle forze all’estero1, ma non c’era praticamente alcun sostegno per questo cambiamento di politica nella burocrazia della sicurezza nazionale o all’interno del Congresso. Carter, di conseguenza, si trovò ad affrontare un’opposizione feroce che lo portò a ritardare, annacquare e infine ad abbandonare l’obiettivo del ritiro. Nel caso di Carter, la mancanza di sostegno istituzionale al suo desiderio di imporre ulteriori restrizioni agli impegni statunitensi all’estero spiega in larga misura il suo fallimento.
Il razionale
Carter promise per la prima volta di ritirare le truppe statunitensi dalla Corea del Sud all’inizio della campagna presidenziale del 1976.2 L’obiettivo era quello di ritirare tutti i 42.000 effettivi statunitensi nel corso del suo mandato.3 Nel maggio 1977, egli diede ordine di ritirare 6.000 truppe entro la fine del 1978. Ordinò inoltre il ritiro di tutte le truppe entro la fine del 1982. Allo stesso tempo, introdusse misure volte a bilanciare questo cambiamento. Carter chiarì che Washington intendeva ancora onorare il trattato di mutua difesa con Seoul, ma anche che considerava le relazioni di sicurezza “non statiche”, bensì dinamiche e mature per ilcambiamento5.
Soldati statunitensi della Seconda Divisione di Fanteria durante una sessione di addestramento nel 1975 nei pressi di Camp Casey, in Corea del Sud, a 15 miglia dalla Zona Demilitarizzata che separa la Corea del Nord da quella del Sud.(Foto di UPI/Bettmann Archive/Getty Images)
Le origini del piano di Carter riflettono il suo obiettivo più ampio di ridurre gli impegni esteri degli Stati Uniti e di condizionare il sostegno agli alleati e ai partner ai diritti umani. In primo luogo, dopo il Vietnam, Carter e molti dei suoi consiglieri temevano di essere inavvertitamente trascinati in un’altra guerra in Asia e cercarono di ridurre l’impegno militare degli Stati Uniti in quel Paese per evitare di rimanere “intrappolati in un Paese piccolo e secondario”.6 L’incidente di Panmunjom dell’estate del 1976, in cui i soldati nordcoreani uccisero due truppe statunitensi in una disputa nella zona demilitarizzata, acuì questi timori nel team di Carter e nell’opinione pubblica.7 In un sondaggio dell’aprile 1975, solo il 14% degli intervistati era favorevole a un coinvolgimento degli Stati Uniti nel caso in cui la Corea del Nord avesse attaccato la Corea delSud8. In secondo luogo, i diritti umani erano un punto centrale della piattaforma di politica estera di Carter e questo rendeva il leader sudcoreano, Park Chung-hee, un partner scomodo.9 Egli aveva preso il potere con un colpo di stato nel 1961 e si era poi seduto in cima a uno stato repressivo e autoritario.10 Carter collegò esplicitamente la sua proposta di ritiro alla situazione dei diritti umani di Park in un discorso del 1976, affermando di ritenere che “dovrebbe essere chiarito al governo sudcoreano che la sua oppressione interna è ripugnante … e mina il sostegno per il nostro impegno in quel paese”.11
Sostegno
Inizialmente il ritiro di Carter ha ricevuto un certo sostegno. Le pagine editoriali di molti dei principali quotidiani dell’epoca pubblicarono, ad esempio, articoli di opinione a sostegno del ritiro, suggerendo un certo sostegno all’interno della comunità di esperti per i cambiamenti che Carter stava proponendo.12 Ci fu anche un certo sostegno iniziale da parte del Congresso. Il partito democratico del presidente godeva della maggioranza in entrambe le camere del Congresso e il ritiro aveva il sostegno di diversi influenti senatori democratici – come George McGovern, John Culver e Alan Cranston – che condividevano la preoccupazione del presidente che la presenza di truppe statunitensi in Corea del Sud rischiasse di intrappolare l’America in un altro indesiderato fiascoasiatico13.
Tuttavia, il sostegno iniziale al piano all’interno dell’amministrazione fu tiepido e molti nella sua stessa amministrazione nutrivano dubbi sulla proposta.14 Carter esortò i suoi consiglieri a pensare che qualsiasi tentennamento sulla politica avrebbe potuto spingere Park ad aumentare le tensioni nella penisola coreana per impedire il ritiro, e si adoperò per convincere gli assistenti a sostenere la sua politica.15 Il sottosegretario di Stato per gli affari politici Phillip Habib appoggiò il piano, ma, secondo quanto riferito, passò poco tempo a cercare di promuoverlo.16 L’assistente segretario per gli affari dell’Asia orientale e del Pacifico Richard Holbrooke fu un primo sostenitore e difese la politica in pubblico nel maggio 1977.17 (In seguito divenne un importante oppositore.)18 Molti funzionari in privato nutrivano dubbi sulla proposta, ma erano pubblicamente favorevoli e inizialmente non opposero resistenza, ritenendo che fosse loro dovere sostenere il nuovo presidente o dimettersi.19 Michael Armacost, che si occupava della Corea del Sud all’NSC, ricordò in seguito le diffuse riserve e l’iniziale esitazione a manifestarle al presidente.20 Il consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski disse in seguito di essere inizialmente “indifferente” alla proposta.21 Gli fu ordinato da Carter di difenderla quando l’opposizione aumentò.22
L’opposizione
Alla fine, però, i gruppi di opposizione al ritiro erano molto più grandi e potenti e riuscirono a ostacolare i piani di ritiro di Carter. Carter si trovò ad affrontare una strada in salita fin dall’inizio e questi ostacoli non fecero che crescere nel tempo.23 Man mano che si chiudeva la prima finestra di opportunità per il presidente di attuare il ritiro, l’opposizione si coagulava.
Il piano era molto impopolare per l’Esercito, che aveva intrapreso una “strategia che consisteva nel fare gradualmente leva sul Congresso, sui media e su elementi della burocrazia, come i servizi di intelligence, per esaurire la determinazione di un’amministrazione presidenziale”.24 Gli ufficiali dell’Esercito in Corea del Sud cominciarono a sviluppare “un piano informale” per opporsi al ritiro già nel marzo 1977,25 e cercarono di coltivare legami più stretti con i membri del Congresso e con la comunità dei servizi di intelligence. Il generale Cyrus Vessey, comandante delle forze statunitensi in Corea, osservò in seguito che durante le visite al Congresso “non credo che abbiamo fatto qualcosa che definirei disonesto o fuorviante. D’altra parte, non abbiamo certo detto loro che il piano del presidente Carter era una buona idea”.26 Non tutta la resistenza militare era sotterranea. Nel maggio 1977, il generale John Singlaub, capo di stato maggiore di Vessey, disse a un giornalista che la proposta di Carter non era saggia e “avrebbe portato alla guerra” nella penisola.27 Carter convocò immediatamente Singlaub a Washington per un rimprovero diretto, ed egli fu sollevato dal suo incarico con la motivazione che non avrebbe eseguito fedelmente la politica.28 Singlaub continuò tuttavia a essere ritratto favorevolmente dalla stampa.29 Molti all’interno della leadership dell’Esercito si risentirono del suo trattamento e rafforzarono la loro determinazione ad opporsi alla politica.30
Nel maggio 1977 i capi di stato maggiore congiunti accettarono a malincuore di sostenere il ritiro nell’arco di quattro o cinque anni, a condizione che fosse sostenuto da aumenti di spesa compensativi. Essi proposero il ritiro di 7.000 truppe entro la fine del 1982 e sottolinearono costantemente l’incapacità del Presidente di fornire una motivazione militare convincente per la proposta.31 Quando l’esame del piano cominciò a crescere, essi ottennero una sede pubblica alla Camera dei Rappresentanti per attaccarlo.32 Nel 1976 era stata creata una sottocommissione della Commissione Servizi Armati della Camera, guidata dal rappresentante democratico Samuel Stratton, un oppositore del ritiro, che ottenne il sostegno per studiarne tutti gli aspetti. I suoi membri si rivolsero ripetutamente alla stampa con le loro preoccupazioni per tutto il 1977.33 Testimoniando davanti alla sottocommissione in maggio, Singlaub disse che la stragrande maggioranza degli ufficiali dell’Esercito in Corea del Sud era contraria, ribadì che non erano stati consultati, espresse le sue preoccupazioni per la mancanza di concessioni reciproche da parte della Corea del Nord e sottolineò l’importanza delle forze di terra statunitensi come deterrente.34 Questo portò l’attenzione su una questione che era stata in gran parte esclusa dall’opinione pubblica.
Dopo questa testimonianza pubblica, gli oppositori al Congresso iniziarono ad aumentare la pressione. Avendo visto l’impatto delle osservazioni di Singlaub, gli oppositori convocarono il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Bernard Rogers per testimoniare nell’agosto 1977.
Egli affermò che i Capi di Stato Maggiore non erano stati consultati sull’opportunità di ritirare le truppe dalla Corea del Sud e parlò a lungo del contributo delle forze statunitensi alla deterrenza nellapenisola35.
Testimoniando davanti alla sottocommissione in maggio, Singlaub ha affermato che la stragrande maggioranza degli ufficiali dell’esercito in Corea del Sud era contraria, ha ribadito di non essere stato consultato, ha espresso preoccupazione per la mancanza di concessioni reciproche da parte della Corea del Nord e ha sottolineato l’importanza delle forze di terra statunitensi come deterrente.
Gli attacchi al piano sono aumentati in Senato. Un blocco di influenti senatori della Commissione per le Relazioni Estere era guidato dal democratico John Glenn, un pilota decorato della Guerra di Corea con una credibilità pubblica sulla questione. Egli pubblicò un rapporto che spiegava perché le forze statunitensi in Corea del Sud erano essenziali per scoraggiare un attacco dal nord. In privato ha promesso di “andare al muro con Carter” su questo tema.
Il senatore repubblicano Charles Percy disse ai funzionari dell’amministrazione che avrebbe guidato un’opposizione repubblicana unitaria alritiro36.
Pochi tra i membri del Congresso che sostenevano la politica si dimostrarono molto propensi al mercanteggiamento con i suoi oppositori. Inizialmente la Casa Bianca pensava che i legislatori attenti ai diritti umani avrebbero appoggiato la proposta, ma pochi di loro si schierarono pubblicamente in sua difesa.37 Quando il segretario alla Difesa Harold Brown informò decine di legislatori sul piano nel luglio del 1977, non un solo rappresentante o senatore si espresse a favore, e molti espressero preoccupazioni.38
I funzionari dell’esecutivo che si opponevano al ritiro cominciarono a unirsi. Nell’estate del 1977 si formò un gruppo “informale per l’Asia orientale”, composto da Holbrooke, Armacost, il vice segretario alla Difesa per gli affari internazionali Morton Abramowitz e altri, che si riuniva quasi settimanalmente per riunire i principali responsabili e sviluppare tattiche per ostacolare l’attuazione del piano. Questi funzionari erano preoccupati per la natura aleatoria del ritiro e per i suoi effetti sulla percezione internazionale della potenza e della determinazione americana.39 I funzionari erano combattuti tra il senso di lealtà e di dovere verso Carter e la loro opposizione al ritiro. Alla fine decisero di “condurre una battaglia contro la mente del Presidente”, per poi passare a sostenere un ritardo, un annacquamento o un ritiro della proposta.40 Holbrooke la definì in seguito “una ribellione su larga scala contro il Presidente”.41 In mezzo alla crescente tempesta politica che si scatenava, i funzionari si trovarono di fronte a una serie di problemi, tra i quali il ritiro di Carter e l’opposizione al ritiro.
In mezzo alla crescente tempesta politica che circondava la proposta di ritiro, nell’aprile del 1978 Carter si incontrò con i vertici dei Dipartimenti della Difesa e di Stato e con i principali esperti asiatici, in un momento “critico” per la proposta, secondoBrzezinski42. Prima dell’incontro, Brzezinski – uno dei pochi alleati rimasti a Carter – informò il Presidente che “tutti, persino [il Segretario di Stato] Vance, sono contro di te”.43 I membri dell’“Asia orientale informale” espressero la loro opposizione e avvertirono che, se si fosse andati avanti con il calendario, si sarebbe rischiato di perdere il già tiepido sostegno dello Stato Maggiore. Sotto la pressione del suo stesso staff, Carter accettò a malincuore di ridurre il primo ritiro a sole 800 truppe da combattimento e 1.600 non combattenti, invece delle 6.000 originariamentepreviste44.
Nell’inverno 1978-1979, nuove stime dell’intelligence minarono ulteriormente le proposte di Carter, concentrando l’attenzione della burocrazia e del Congresso sulla crescita delle forze armate della Corea del Nord. Nel 1977, la Defense Intelligence Agency (DIA) aveva riferito di una divisione di carri armati completamente nuova in Corea del Nord, di un aumento considerevole del numero di pezzi di artiglieria e di schieramento avanzato e di una crescita delle forze speciali.45 Il comando dell’esercito americano a Seul incaricò quindi l’agenzia di condurre un’analisi completa delle capacità della Corea del Nord, dando luogo a un flusso di informazioni che sostenevano la posizione dell’“Asia orientale informale” e l’opposizione del Congresso.46 Carter si infuriò quando ricevette l’analisi della DIA e dubitò della sua veridicità, ma il danno era ormai fatto. A quel punto, la proposta di ritiro era ormai agli sgoccioli e gli assistenti convinsero il presidente, nel gennaio 1979, ad autorizzare una nuova revisione dei livelli di truppe in Corea del Sud. Durante la revisione, Carter ricevette numerosi memorandum che sostenevano che il ritiro doveva essere almeno “sostanzialmente ritardato”.47
L’opposizione al ritiro venne anche, non a caso, dalla Corea del Sud, il cui governo si unì all’opposizione interna per ostacolare il piano. Nel marzo 1977, Brzezinski e Vance avevano incontrato il ministro degli Esteri del Paese a Washington per trasmettere il messaggio di Carter che il ritiro sarebbe stato eseguito e che conteneva duri avvertimenti sulle violazioni dei diritti umani.48 Park all’inizio esitò ad opporsi apertamente a Carter, ma alla fine sferrò un duro attacco alla politica in sua presenza quando il presidente visitò Seoul nel giugno 1979. Carter si infuriò, passando un biglietto a Brzezinski: “Se continua così ancora a lungo, ritirerò tutte le truppe dal Paese!”49.
Anche il Giappone si oppose precocemente e con ostinazione al ritiro. Dopo aver saputo del disagio di Tokyo, Carter inviò il vicepresidente Walter Mondale a incontrare il primo ministro Yasuo Fukuda nel febbraio 1977. Nonostante il suo personale disagio nei confronti di questapolitica50, Mondale ripeté gran parte delle dichiarazioni di Carter in campagna elettorale, sollevando il problema dei diritti umani del governo Park e insistendo sul fatto che Seul avrebbe potuto gestire la propria difesa se si fosse impegnata. Fukuda non era convinto e cercò di convincere Mondale a chiedere a Carter di cambiareidea51.
Alla fine, l’opposizione alla proposta di ritiro fu più forte di quanto Carter potesse resistere e il piano fu “rinviato a tempo indeterminato” nell’agosto 1979. Una volta insediatosi nel 1981, Ronald Reagan invertì ufficialmente lapolitica52.
L’eredità
Il fallimento di Carter nel portare avanti il suo piano di ritiro delle truppe dalla Corea del Sud illustra la misura in cui la burocrazia governativa, il Congresso, i servizi armati e i governi stranieri possono collaborare per minare la volontà di un presidente in materia di politica estera. Gran parte delle difficoltà di Carter nell’ottenere uno slancio verso il suo obiettivo derivava dalla generale mancanza di sostegno e dalle ampie e potenti circoscrizioni che si opponevano al cambiamento. Carter si alienò anche coloro che avrebbero potuto simpatizzare con il suo obiettivo, con una determinazione che passò per testardaggine e non prendendo sul serio le preoccupazioni dei suoi consiglieri.53 Una gestione più attenta di queste forze opposte e un maggiore investimento nella costruzione di un quorum di sostegno al suo piano prima di cercare di farlo passare attraverso la burocrazia avrebbero potuto portare a un risultato diverso.
Gran parte della difficoltà di Carter nel guadagnare slancio verso il suo obiettivo derivava dalla generale mancanza di sostegno e dalle ampie e potenti circoscrizioni che si opponevano al cambiamento.
Tuttavia, l’esperienza di Carter è un altro esempio di quanto possa essere difficile realizzare grandi cambiamenti nella politica estera degli Stati Uniti, specialmente quelli che riducono la presenza e gli impegni globali degli Stati Uniti. Se il fallimento del suo piano per la Corea del Sud non è stato il motivo per cui la presidenza di Carter non è durata più di un mandato, potrebbero esserlo state le sue più ampie restrizioni e il suo programma di politica estera, visto come troppo morbido nei confronti degli avversari degli Stati Uniti e non abbastanza concentrato sulla sicurezza nazionale degli Stati Uniti, soprattutto quando le tensioni con l’Unione Sovietica sono riemerse alla fine del suo primo mandato.
3“Documenti pubblici dei Presidenti: Jimmy Carter. Book 1”, University of Michigan, 343; Michael Mazarr, Jennifer Smith e William Taylor Jr, ‘U.S. Troop Reductions from Korea, 1970-1990’, The Journal of East Asian Affairs, 4, No. 2 (Summer/Fall 1990): 256-286.
4Cyrus Vance, Hard Choices:Critical Years in America’s Foreign Policy, (New York: Simon and Schuster, 1983), 128.
5Aaron Savage Brown, “I dolori del ritiro: Carter and Korea, 1976-1980” (tesi di laurea: North Carolina State University, 2011); e ”Presidential Statement: Carter’s Request to Congress for Aid to Korea“,CQ Almanac 1977, 33a edizione, 62-E-63-E.Washington, DC:Congressional Quarterly, 1978. http://library.cqpress.com/cqalmanac/cqal77-863-26256-1200640.
6Richard Holbrooke, “Escaping The Domino Trap”, New York Times Magazine, 7 settembre 1975, https://www.nytimes.com/1975/09/07/archives/escaping-the-domino-trap-after-the-debacle-in-vietnam-wheredowe.html.
7Toby Luckhurst, “The DMZ ‘Gardening Job’ That nearly Sparked a War”, BBC News, 21 agosto 2019, https://www.bbc.com/news/world-asia-49394758; Robert Risch, U.S. Ground Force Withdrawal from Korea:A Case Study in National Security Decision-Making, Foreign Service Institute, 24th Seminar in National and International Affairs, 1982, 18.
8Don Oberdorfer, “The Charter Hill”, in The Two Koreas:A Contemporary History, (New York: Basic Groups, 2013).
9Lyong Choi, “Human Rights, Popular Protest, and Jimmy Carter’s Plan to Withdraw U.S. Troops from South Korea”, Diplomatic History 41, no. 5, (novembre 2017).
12Hwan Ok, “La politica di ritiro dalla Corea del Presidente Carter”.
13Hwan Ok, “La politica di ritiro dalla Corea del Presidente Carter”.
14I funzionari dell’amministrazione studiarono attentamente il documento e conclusero che non potevano suggerire alcuna opzione diversa dal ritiro delle truppe di terra. Cyrus Vance, Hard Choices:Critical Years in America’s Foreign Policy, (New York: Simon and Schuster, 1983).
15Riunione dell’NSC, 27 aprile 1977, NSA, SM, FE, Box 3, JCL. In: Scott Kauffman, Plans Unraveled:The Foreign Policy of the Carter Administration(Illinois: Northern Illinois University Press, 2009), 68.
16Kauffman, Plans Unraveled, 101.
17George Packer, Il nostro uomo:Richard Holbrooke and the End of the American Century, (New York: Knopf, 2020), 168.
18Joe Wood, “Persuadere un presidente: Jimmy Carter and American Troops in Korea”, Kennedy School of Government Case Study (1996): 99.
19Oberdorfer, “La collina della Carta”.
20Oberdorfer, “La collina della Carta”.
21Wood, “Persuadere un presidente”.
22Oberdorfer, “La collina della Carta”.
23Hwan Ok, “La politica di ritiro dalla Corea del Presidente Carter”.
24Eric B. Setzekorn, “Rivolta politica: Army Opposition to the Korea Withdrawal Plan”, Parameters 48, no. 3 (2018): 10.
25Setzekorn, “Rivolta politica”, 12.
26Setzekorn, “Policy Revolt”, 12, 14.
27“General on the Carpet”, Time Magazine, 30 aprile 1977.
28HwanOk, “La politica di ritiro dalla Corea del presidente Carter”.
30HwanOk, “Politica di ritiro dalla Corea”, 47-51.
31Wood, “Persuadere un presidente”.
32William H. Gleysteen Jr., Massive Entanglement, Marginal Influence:Carter e la Corea in crisi. (Washington D.C.: Brookings Institution Press, 1999): 22.
33Robert Rich, “Interview with Robert G. Rich Jr”, intervistato da Thomas Dunnigan, State Department Oral History Project, gennaio 1994: 20.
34HwanOk, “La politica di ritiro dalla Corea del presidente Carter”, 71-72.
35Eric B. Setzekorn, “Rivolta politica: Army Opposition to the Korea Withdrawal Plan”, Parameters 48, no. 3 (2018): 24.
36Cyrus Vance, Hard Choices:Critical Years in America’s Foreign Policy, (New York: Simon and Schuster, 1983), 128-129.
37Wood, “Persuadere un presidente”, 104.
38Wood, “Persuadere un presidente”, 105.
39Betty Glad, Un estraneo alla Casa Bianca:Jimmy Carter, His Advisors, and the Making of American Foreign Policy (Ithaca: Cornell University Press, 2009), 36.
40Thomas Stern, “Interview with The Honorable Morton J. Abramowitz, 2011”, The Association for Diplomatic Studies and Training Foreign Affairs Oral History Project, 10 aprile 2007.
41Oberdorfer, “La collina della Carta”.
42“Memorandum per Cyrus Vance, Harold Brown e Zbigniew Brzezinski”, di Richard Holbrooke, Morton Abramowitz, Michael Armacost e Michel Oksenberg, 4 aprile 1978, Biblioteca Jimmy Carter.
43“Memorandum per Cyrus Vance, Harold Brown e Zbigniew Brzezinski”.
44Michael Mazarr, Jennifer Smith e William Taylor Jr, “U.S. Troop Reductions from Korea, 1970-1990,” The Journal of East Asian Affairs, 4, No. 2 (Summer/Fall 1990): 256-286.
45Wood, “Persuadere un presidente”, 105.
46Larry Niksch, “Il ritiro delle truppe statunitensi dalla Corea del Sud: Past Shortcomings and Future Prospects”, Asian Survey 21, no. 3 (marzo 1981), 326-328.
47Memorandum per il Segretario della Difesa da Russell Murray, Assistente del Segretario della Difesa, Analisi e Valutazione dei Programmi, Oggetto: PRM-45, 6 giugno 1979, Top Secret. Archivio della sicurezza nazionale.
50Gaddis Smith, Morality, Reason & Power:American Diplomacy in the Carter Years (New York: Hill and Wang, 1986), 104.
51Kaufman, Plans Unraveled, 68.
52Savage Brown, “I dolori del ritiro”, 58.
53Robert Rich, “Intervista con Robert G. Rich Jr”, intervistato da Thomas Dunnigan, State Department Oral History Project, gennaio 1994.
autori
Christopher S. Chivvis Borsista senior e direttore del Programma di Stategrafia Americana
Jennifer Kavanagh Ex collaboratore senior, Programma di Stategrafia Americana
Sahil Lauji Ex borsista junior James C. Gaither, Programma Statista Americano
Adele Malle Ex borsista junior di James C. Gaither, Programma di statistica americana
Samuel Orloff Ex borsista junior di James C. Gaither, Programma Statista Americano
Stephen Wertheim Borsista senior, Programma Statista Americano
Reid Wilcox Ex analista di ricerca
Clinton e l’allargamento della NATO
Quando l’Unione Sovietica crollò alla fine del 1991, era tutt’altro che scontato che l’alleanza transatlantica si sarebbe espansa nell’Europa centrale e orientale. La NATO aveva perso il suo scopo primario di dissuadere l’Armata Rossa dal dominare la regione. Il presidente George H. W. Bush cercò di preservare la NATO, ma non cercò di allargarla, se non alla parte orientale della Germania riunificata. Quando entrò in carica nel 1993, anche Clinton non aveva intenzione di espandere la NATO. Al contrario, ha puntato sulla cooperazione con la Russia. A tal fine, l’amministrazione Clinton sviluppò il Partenariato per la pace, un programma per costruire relazioni militari statunitensi più strette in Europa e in Eurasia, anche con la Russia. Il partenariato avrebbe potuto consentire alla NATO di rinviare indefinitamente la questione se e quando estendere la piena adesione all’alleanza a nuovi Paesi. Tra il 1994 e il 1996, tuttavia, l’amministrazione decise non solo di allargare la NATO a tre nuovi membri – la Repubblica Ceca, l’Ungheria e la Polonia – ma anche di intraprendere l’allargamento come un processo aperto attraverso il quale avrebbero aderito altri Stati dell’area euro-atlantica.
Il presidente degli Stati Uniti Bill Clinton e le autorità invitate celebrano la ratifica dell’allargamento della NATO in una cerimonia alla Casa Bianca a Washington.Firmando il documento, il presidente ha ufficialmente concesso l’approvazione per l’ingresso di Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca nell’alleanza NATO.(Foto di Paul J. Richards/AFP via Getty Images)
L’allargamento della NATO ha rappresentato un profondo cambiamento strategico per gli Stati Uniti in termini di impegno di difesa, obiettivi e implicazioni per le relazioni con la Russia. In qualità di prima potenza militare dell’alleanza, gli Stati Uniti si sono effettivamente assunti l’impegno di difendere ogni nuovo Stato che vi avesse aderito. L’allargamento ha quindi ampliato il perimetro di difesa statunitense in Europa e ha rafforzato la leadership degli Stati Uniti nell’alleanza. Inoltre, l’allargamento della NATO faceva parte dell’allargamento degli obiettivi globali fondamentali dell’America dopo la Guerra Fredda. Dopo aver perseguito l’obiettivo negativo di contenere il potere sovietico, gli Stati Uniti hanno ora adottato l’obiettivo positivo di diffondere il loro modello di democrazia liberale di mercato. Di conseguenza, per promuovere la transizione dell’Europa centrale e orientale dal comunismo, l’amministrazione Clinton fece dipendere l’ammissione alla NATO da criteri politici. Infine, scegliendo l’allargamento al di là delle obiezioni di Mosca, gli Stati Uniti hanno effettivamente privilegiato le relazioni con i nuovi e aspiranti membri della NATO rispetto a quelle con la Russia.
Razionale
Perché gli Stati Uniti, nell’ambiente di sicurezza relativamente benigno dell’Europa degli anni ’90, hanno scelto di allargare un’alleanza precedentemente progettata per scoraggiare o sconfiggere l’Armata Rossa?
La prima motivazione era che l’allargamento della NATO avrebbe permesso agli Stati Uniti di rimanere stabilmente la potenza militare preminente in Europa.1 Per i funzionari statunitensi, la lezione delle due guerre mondiali e della guerra fredda era che la forza militare degli Stati Uniti all’estero era essenziale per la pace e la prosperità, mentre l’alternativa era un inaccettabile “isolazionismo”.2 La NATO era l’ovvio veicolo per mantenere l’America in Europa e al vertice. Ma i politici americani temevano che l’alleanza, e forse più in generale l’impegno globale degli Stati Uniti, non sarebbe sopravvissuta se fosse rimasta “congelata nel passato”, come disse Clinton nel 1995.3 La NATO aveva bisogno di un nuovo scopo convincente. Come ha avvertito il consigliere per la sicurezza nazionale Anthony Lake, “se la NATO non sarà disposta nel tempo ad assumere un ruolo più ampio, perderà il sostegno dell’opinione pubblica e tutte le nostre nazioni perderanno un legame vitale con la sicurezza transatlantica ed europea”.4
Nel 1993, Lake annunciò che “l’allargamento della libera comunità mondiale di democrazie di mercato” avrebbe soppiantato il contenimento della Guerra Fredda come principio organizzativo della politica estera statunitense.5 L’allargamento della NATO divenne l’incarnazione istituzionale di questa dottrina. Avrebbe permesso agli Stati Uniti di “rimanere permanentemente impegnati nel contribuire a preservare la sicurezza dell’Europa”, come scrisse il vice segretario di Stato Strobe Talbott nel 1995.6 Se la NATO era stata creata per contenere la minaccia dell’aggressione sovietica, la NATO si sarebbe allargata per contenere la minaccia del ritiro americano.
Se la NATO era stata creata per contenere la minaccia dell’aggressione sovietica, la NATO si sarebbe allargata per contenere la minaccia del ritiro americano.
La seconda motivazione dell’allargamento della NATO era quella di promuovere la democrazia all’interno degli Stati post-comunisti in Europa e la loro stabilità. I politici simpatizzavano con questi Paesi e volevano sostenere dissidenti diventati presidenti come Václav Havel della Repubblica Ceca e Lech Wałęsa della Polonia, che chiedevano l’ammissione dei loro Paesi nella NATO. Per consolidare le transizioni verso la democrazia liberale e impedire il ritorno dei comunisti, nel 1995 la NATO sviluppò dei criteri per l’adesione che includevano un sistema politico democratico, un’economia di mercato e il controllo civile delle forze armate.7 Questi criteri avrebbero agito come incentivo una tantum per incoraggiare le riforme. Sebbene il programma Partnership for Peace avesse promosso anche militari professionali e controllati da civili, comprendeva automaticamente tutti gli Stati europei e quindi non poteva usare la prospettiva dell’adesione come leva. L’influenza della NATO sulle riforme era ulteriormente rafforzata dal fatto che l’adesione all’alleanza era ampiamente vista come un precursore dell’adesione all’UE.
I funzionari statunitensi ritenevano inoltre che la diffusione della democrazia avrebbe garantito la pace, in linea con la teoria della pace democratica che all’epoca era in voga nei circoli intellettuali e politici.8 L’allargamento avrebbe quindi promosso la stabilità in Europa, in un momento in cui i conflitti etno-nazionalistici nell’ex Jugoslavia dimostravano che la regione avrebbe potuto subire una destabilizzazione più ampia. I politici temevano che queste nazioni, se lasciate perennemente nel limbo tra Est e Ovest, potessero un giorno tornare al loro passato di guerra e nazionalismo, che aveva contribuito a scatenare due guerre mondiali. Per dirla con Clinton, “la minaccia per noi ora non è tanto l’avanzata degli eserciti quanto l’instabilità strisciante”.9 La sola prospettiva di entrare nella NATO, ha scritto Talbott, potrebbe “promuovere tra le nazioni dell’Europa centrale e dell’ex Unione Sovietica una maggiore volontà di risolvere pacificamente le controversie e di contribuire alle operazioni di mantenimento della pace”.10
La terza motivazione è stata articolata in modo obliquo e non universalmente condivisa: dissuadere la Russia. Approfittando della debolezza di Mosca dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, l’allargamento della NATO avrebbe messo l’Occidente nella posizione più vantaggiosa per contenere la potenza russa se e quando si fosse ripresa. A tal fine, portare i Paesi dell’Europa centrale e orientale sotto la garanzia di sicurezza dell’articolo 5 della NATO aveva più valore che coinvolgerli nel Partenariato per la pace. Solo la prima soluzione dissuaderebbe una Russia rinata dall’attaccare questi Paesi, che le nazioni alleate si impegnerebbero a difendere.
L’amministrazione non ha voluto accentuare questa logica. Come si legge in un memorandum del 1994 del Consiglio di Sicurezza Nazionale, “la logica della ‘politica assicurativa’/‘copertura strategica’ (cioè il neo-contenimento della Russia) sarà mantenuta solo sullo sfondo, raramente articolata ”11. Da un lato, la NATO si presentava come un club politico aperto a qualsiasi Stato europeo che soddisfacesse criteri oggettivi di adesione. Concepita come tale, una NATO allargata non era rivolta alla Russia e non divideva l’Europa. D’altra parte, la NATO è rimasta un’alleanza militare. Nella misura in cui accoglieva nuovi membri perché la Russia poteva minacciarli, lo scopo era proprio quello di tracciare una linea di demarcazione in Europa, che potesse spostarsi continuamente verso est per ottenere nuove conquiste.
Infine, nel contesto di un ambiente di sicurezza dominato dagli Stati Uniti, l’allargamento della NATO sembrava per lo più privo di costi. Qualsiasi potenziale conflitto con la Russia si sarebbe verificato molti anni, se non decenni, dopo. Gli esperti hanno discusso sui costi dell’allargamento, ma solo una minoranza di critici ha avvertito che le conseguenze strategiche sarebbero state pesanti.
L’opposizione
Formidabili attori nazionali e internazionali si sono opposti all’espansione dell’alleanza guidata dagli Stati Uniti ad altri Paesi, in assenza della minaccia sovietica. Tra i loro ranghi vi erano funzionari del Pentagono e diplomatici orientati verso la Russia, un contingente di accademici e intellettuali e la leadership russa.
L’allargamento ha incontrato una significativa opposizione nella burocrazia governativa statunitense, in particolare tra i leader del Dipartimento della Difesa e gli esperti di Russia del Dipartimento di Stato e dell’NSC. Prima che fosse chiaro che Clinton intendeva espandere la NATO, i leader civili e militari del Pentagono sostenevano che non era saggio ammettere nuovi membri nel prossimo futuro. Temevano che l’allargamento avrebbe danneggiato le relazioni con la Russia e diffidavano dal creare nuovi obblighi di difesa dei Paesi dell’Europa centrale e orientale, in parte perché l’ingresso di nuovi membri avrebbe potuto mettere a rischio la coesione dell’alleanza. I primi due segretari alla Difesa dell’amministrazione, Les Aspin e William Perry, si sono opposti all’allargamento, così come il generale John Shalikashvili, che è stato presidente degli Stati Maggiori Riuniti dal 1993 al 1997 e ha lavorato con altri funzionari del Pentagono per ideare il Partenariato per lapace13.
Alcuni diplomatici si sono opposti all’allargamento anche per il timore di ostacolare le riforme democratiche della Russia e la sua cooperazione con gli Stati Uniti. I funzionari che tenevano a forti relazioni con Mosca erano contrari all’allargamento, mentre i funzionari responsabili del resto d’Europa tendevano a sostenerlo. Come scrive James Goldgeier, “coloro che consideravano le relazioni tra Stati Uniti e Russia come il singolo obiettivo più importante, di gran lunga superiore alle altre priorità statunitensi nella regione, si opponevano categoricamente all’allargamento o ritenevano che potesse essere preso in considerazione solo molto più avanti nel tempo”.14 Nel 1993, Talbott, il più influente esperto di Russia del Dipartimento di Stato, si schierò a favore del Partenariato per la pace e contro qualsiasi tempistica rapida per un potenziale allargamento. Aveva il sostegno di Thomas Pickering, ambasciatore in Russia, e di altri esperti di Russia ed Eurasia. In seguito Talbott divenne uno dei principali sostenitori dell’allargamento, ma anche allora cercò di minimizzare i danni alle relazioni con laRussia15.
Inoltre, molti accademici e intellettuali si sono opposti all’allargamento considerandolo un errore strategico. Lo storico John Lewis Gaddis osservò nel 1998: “Non ricordo nessun altro momento nella mia esperienza di storico praticante in cui ci sia stato meno sostegno, all’interno della comunità degli storici, per una posizione politica annunciata”.16 La pagina editoriale del New York Times esortava la NATO a non espandersi, così come l’editorialista del giornale per gli affari esteri, Thomas Friedman.17 E sebbene la maggior parte degli ex funzionari governativi sostenesse l’allargamento, tra i ranghi dell’opposizione c’erano luminari come George Kennan, il senatore democratico Sam Nunn e l’ex consigliere per la sicurezza nazionale Brent Scowcroft.18
Infine, la Russia si oppose fortemente all’allargamento della NATO. Sebbene il presidente russo Boris Eltsin alla fine abbia acconsentito al primo round conclusosi nel 1999, proprio come il presidente sovietico Mikhail Gorbaciov aveva acconsentito all’ingresso della Germania riunificata nella NATO, le élite politiche di Mosca vedevano l’alleanza come una minaccia per la Russia e ritenevano che la sua estensione verso est fosse dannosa per gli interessi e la sicurezza della Russia. Ad esempio, nel 1995 Eltsin avvertì pubblicamente che la crescita della NATO verso i confini della Russia “significherà una conflagrazione di guerra in tutta Europa”. Se i Paesi dell’ex Patto di Varsavia si unissero alla NATO, disse, “stabiliremo immediatamente legami costruttivi con tutte le repubbliche ex sovietiche e formeremo un blocco”.19 Il Cremlino riteneva inoltre di aver ricevuto garanzie da funzionari statunitensi nel 1990 che l’alleanza non si sarebbe espansa a est della Germania.20 I timori della Russia sono stati esacerbati dagli interventi della NATO nei Balcani, che hanno preso di mira gli altri slavi della Russia e hanno comportato le prime operazioni militari della NATO fuori area.
Sostegno
Il sostegno all’allargamento della NATO negli Stati Uniti era modesto prima che l’amministrazione Clinton decidesse di intraprendere questa politica nel 1994. Non era una richiesta del grande pubblico e non c’era una campagna d’élite ben organizzata per realizzarlo. Tuttavia, l’allargamento aveva sostenitori influenti e l’accettazione è cresciuta quando l’amministrazione ha sostenuto l’obiettivo di espandere la NATO.
Non era una richiesta dell’opinione pubblica e non c’era una campagna d’élite ben organizzata per realizzarlo. Tuttavia, l’allargamento ha avuto sostenitori influenti e l’accettazione è cresciuta una volta che l’amministrazione ha appoggiato l’obiettivo di espandere la NATO.
Molti leader dei Paesi dell’ex Patto di Varsavia e dell’Unione Sovietica hanno espresso apertamente il desiderio di aderire alla NATO.21 Nel 1991, Cecoslovacchia, Ungheria e Polonia hanno formato il Gruppo di Visegrad, in parte per cercare di essere inclusi nella NATO. Avendo guidato i loro Paesi fuori dal comunismo, Havel e Wałęsa ispirarono simpatia a Washington e fecero un’impressione favorevole a Clinton quando nel 1993 gli comunicarono di persona il loro desiderio di entrare nella NATO.22 Una volta che il Presidente sostenne l’allargamento, gli ambasciatori ceco, ungherese e polacco, in coordinamento con la Casa Bianca, viaggiarono attraverso gli Stati Uniti per fare campagna per la ratifica da parte del Senato del Trattato Nord Atlantico emendato.23
Alcuni funzionari dell’amministrazione sollecitarono l’allargamento con forza e tempestività. Tra questi, Clinton, Lake e Richard Holbrooke, assistente del Segretario di Stato per gli affari europei. Anche ex funzionari di alto profilo associati a entrambi i partiti politici – tra cui James Baker, Zbigniew Brzezinski e Henry Kissinger – erano convinti sostenitori.24 Sebbene i membri del Congresso non abbiano chiesto a gran voce l’allargamento della NATO negli anni precedenti al 1994, il Congresso è stato costantemente favorevole all’allargamento. I repubblicani della Camera hanno incluso una disposizione per l’espansione della NATO nel loro Contratto con l’America, la piattaforma con cui hanno conquistato la maggioranza nel 1994.25
Gli americani di origine mitteleuropea sono stati grandi sostenitori di questa politica. Anche se sembravano sostenere l’allargamento nella stessa proporzione della popolazione generale, hanno spinto molto per questo. Il Congresso polacco-americano e altre organizzazioni simili si mobilitarono intorno alla questione. L’amministrazione apprezzava il sostegno di queste comunità etniche, che costituivano un collegio elettorale concentrato negli Stati elettoralmente importanti del Midwest superiore.26 Per trarre vantaggi politici dall’allargamento, Clinton annunciò, durante la campagna per la rielezione del 1996, che la NATO sarebbe stata ampliata nel prossimo futuro.27 Anche le aziende del settore della difesa apprezzavano il piano, che avrebbe portato all’allargamento della NATO.
Anche le aziende del settore della difesa apprezzarono il piano, che prometteva di aprire nuovi mercati potenzialmente lucrativi per i loro prodotti. Nel 1996 la Lockheed Martin presentò i suoi F-16 ai funzionari della Repubblica Ceca, dell’Ungheria e della Polonia. Il vicepresidente dell’azienda, Bruce Jackson, ha presieduto il Comitato statunitense per l’espansione della NATO, che ha ospitato eventi per i membri del Congresso con la partecipazione di una serie di expolitici28.
Superare l’opposizione
Per realizzare il loro programma, il numero inizialmente modesto di sostenitori dell’allargamento ha dovuto superare tre ostacoli principali: ottenere l’appoggio della Casa Bianca, ridurre al minimo l’ostruzione della Russia e convincere il Senato a ratificare il Trattato Nord Atlantico modificato.
I sostenitori dell’allargamento all’interno dell’esecutivo non hanno superato i loro avversari attraverso il processo interagenzie, ma li hanno aggirati. Nel 1993, l’amministrazione ha scelto il Partenariato per la pace come posizione di compromesso che avrebbe impedito l’allargamento della NATO nel breve termine, ma avrebbe mantenuto viva la possibilità in seguito. Lake, Holbrooke e i loro alleati procedettero a sminuire quel compromesso, incaricando il personale del Consiglio di Sicurezza Nazionale di preparare proposte per procedere con l’allargamento e inserendo frasi favorevoli all’allargamento nei discorsi di Clinton e del vicepresidente Al Gore. Nel 1994, Clinton fece diverse espressioni di sostegno all’idea di espandere la NATO, che tecnicamente erano in linea con il Partenariato per la Pace, ma davano manforte a coloro che cercavano un allargamento a breve termine.29 Holbrooke approfittò di queste dichiarazioni per dare istruzioni alla burocrazia di attuare la nuova politica.30 Alla fine del 1994, i leader del Pentagono percepirono che il presidente era impegnato nell’allargamento e il Consiglio di Sicurezza Nazionale preparò dei piani per far entrare nuovi Paesi nella NATO entro i tempi rapidi che erano stati rifiutati l’anno precedente.31 Per realizzare il loro programma, i leader del Pentagono, inizialmente modesti, prepararono delle proposte per l’allargamento.
Per realizzare il loro programma, il numero inizialmente modesto di sostenitori dell’allargamento ha dovuto superare tre ostacoli principali: ottenere l’appoggio della Casa Bianca, ridurre al minimo l’ostruzione della Russia e convincere il Senato a ratificare il Trattato Nord Atlantico modificato. I sostenitori dell’allargamento all’interno dell’esecutivo non hanno superato i loro avversari attraverso il processo interagenzie, ma li hanno aggirati.
Una volta che la Casa Bianca ha appoggiato pienamente l’allargamento, il più grande ostacolo potenziale era rappresentato dal Cremlino. Se la leadership russa avesse scelto di condizionare relazioni costruttive con l’Occidente all’abbandono dell’allargamento della NATO, questa posizione avrebbe potuto dissuadere Clinton o il Senato dall’andare avanti. I campioni dell’allargamento all’interno dell’amministrazione hanno quindi fatto di tutto per minimizzare i danni immediati alle relazioni tra Stati Uniti e Russia. Talbott, divenuto vicesegretario di Stato, attuò un approccio su due binari: espandere la NATO e tranquillizzare la Russia, che culminò nel NATO-Russia Founding Act del 1997.32 La Casa Bianca sostenne la campagna di rielezione di Eltsin nel 1996 non solo fornendo alla Russia assistenza finanziaria al momento giusto, ma anche aspettando fino a dopo per annunciare che la NATO si sarebbe espansa.33 Inoltre, gli Stati Uniti e la NATO hanno ventilato la possibilità che una Russia democratica possa un giorno entrare a far parte dell’Alleanza.34 Queste misure non hanno convinto il governo russo a sostenere l’allargamento, ma hanno fatto sì che Eltsin accettasse di dissentire. Questo è bastato. Ottenere l’acquiescenza della Russia ha permesso all’amministrazione di sminuire (o rinviare) gli aspetti negativi della sua politica, limitando così l’opposizione in Senato.
La Casa Bianca ha superato l’opposizione anche ideando un metodo particolare per far entrare i Paesi nella NATO. Per massimizzare le possibilità di successo del primo ciclo di allargamento, l’amministrazione sviluppò un approccio riassunto dalle frasi “piccolo è bello” e “robusta porta aperta”, secondo le parole di Ronald Asmus, che, in qualità di vice assistente del Segretario di Stato per gli affari europei, fu incaricato di attuare la politica.35 La NATO avrebbe ammesso pochi Stati all’inizio, chiarendo che candidati più numerosi e più controversi, come gli Stati baltici, avrebbero ricevuto una seria considerazione in futuro. Di conseguenza, gli scettici dell’allargamento in Senato si trovarono inizialmente di fronte alle candidature di tre Paesi, Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia, che suscitavano particolare simpatia. Coloro che erano favorevoli a un allargamento più rapido ed esteso, invece, hanno sostenuto il primo round come un trampolino di lancio verso questo risultato, mentre avrebbero potuto opporsi a un allargamento una tantum se questo avesse significato lasciare molti Paesi dell’Europa orientale fuori dalla NATO per il prossimo futuro. Quando il Senato ratificò il primo ciclo di allargamento con un voto di 80 a 19 nel 1998, “l’approvazione era praticamente assicurata prima ancora che iniziasse il dibattito”, scrisse il Washington Post36.
L’eredità
Il caso dell’allargamento della NATO mostra come un gruppo di politici determinati possa catalizzare un cambiamento strategico, portando una questione marginale in cima all’agenda e contrastando l’opposizione interna ed esterna. I proponenti di alto livello hanno fatto una mossa in due fasi per aggirare il processo inter-agenzie: hanno fatto in modo che il presidente e il vicepresidente appoggiassero pubblicamente le loro idee, e poi hanno usato questa approvazione per spingere la politica attraverso la burocrazia.
I sostenitori di alto livello hanno fatto una mossa in due fasi per aggirare il processo inter-agenzie: hanno ottenuto che il presidente e il vicepresidente appoggiassero pubblicamente le loro idee, e poi hanno usato tale approvazione per spingere la politica attraverso la burocrazia.
L’allargamento è diventato realtà anche perché godeva del sostegno di segmenti organizzati dell’opinione pubblica e risuonava con la disposizione ideologica del Paese verso la leadership globale. Gli oppositori dell’allargamento non avevano questi vantaggi. Inoltre, hanno dovuto affrontare un ulteriore svantaggio: le loro argomentazioni si basavano sul potenziale di ramificazioni negative a lungo termine, che potevano essere lasciate a un altro presidente e forse a un’altra generazione. In questo senso, il caso dell’allargamento può illustrare sia la possibilità che i limiti della capacità di cambiamento strategico dell’America.
In un contesto di sicurezza dominato dagli Stati Uniti, l’amministrazione Clinton è riuscita ad allargare la NATO facendo sembrare questa politica per lo più priva di costi. Gli esperti hanno discusso sui costi, ma solo una minoranza di critici ha avvertito che le conseguenze strategiche sarebbero state gravi.37 Per la maggior parte degli analisti, un potenziale conflitto militare si sarebbe verificato in un futuro lontano, quando l’economia russa avrebbe potuto riprendersi e la NATO avrebbe potuto espandersi verso Paesi più vicini e di maggiore interesse per la Russia. Estendendo l’adesione all’alleanza solo a tre Paesi e segnalando al contempo l’imminenza di ulteriori round, l’amministrazione Clinton ha anticipato i benefici e ha scaricato i costi.
Estendendo l’adesione all’alleanza solo a tre Paesi e segnalando al contempo l’imminenza di ulteriori round, l’amministrazione Clinton ha anticipato i benefici e arretrato i costi.
In particolare, iniziando in piccolo e promettendo di ammettere altri Paesi alla NATO in base a criteri politici, l’amministrazione ha trasformato l’allargamento in un processo aperto, difficile da limitare o fermare. Dal crollo dell’Unione Sovietica, la NATO è passata da sedici a trentuno membri e la sua porta rimane aperta. I pochi Paesi dell’Europa centrale e orientale rimasti fuori sono rimasti in una zona cuscinetto sempre più ristretta tra l’Occidente e la Russia. Questa situazione ha incoraggiato altri Paesi a cercare di entrare nell’alleanza. La Georgia e l’Ucraina hanno presentato richieste di adesione, anche se molti membri non volevano ammetterli. La Russia ha combattuto una guerra con la Georgia nel 2008 e ha invaso l’Ucraina nel 2014 e nel 2022, in parte per precludere la possibilità che un giorno potessero entrare nella NATO. La politica della “porta aperta” degli anni ’90, che avrebbe dovuto appianare le divergenze con la Russia, ha poi peggiorato le relazioni, una volta che è diventato ovvio che la Russia non sarebbe entrata nella NATO, ma i Paesi il cui allineamento la Russia riteneva vitale per i suoi interessi sì.
Inoltre, enfatizzando i razionali politici piuttosto che quelli militari per l’allargamento e rinviando i candidati più problematici alle tornate successive, i responsabili politici hanno di fatto optato per ottenere un rapido cambiamento politico piuttosto che per ottenere chiarezza su quanto i futuri leader americani o l’opinione pubblica potrebbero davvero desiderare di spingersi per sostenere l’articolo 5 in caso di attacco a un membro della NATO appena ammesso. Dopo il primo ciclo di allargamento, il Senato ha prestato meno attenzione agli altri candidati all’adesione, anche se molti di essi erano militarmente meno capaci e difendibili dei tre originari. Questo era nelle intenzioni dell’amministrazione Clinton. Ma il risultato è che oggi la credibilità degli impegni di difesa degli Stati Uniti nell’ambito della NATO è forse più incerta di quanto non sarebbe stata se i sostenitori dell’allargamento avessero condotto un dibattito approfondito sui costi e sui rischi di estendere l’ombrello di sicurezza degli Stati Uniti a un gran numero di Paesi.
Note
1Rajan Menon e William Ruger, “NATO Enlargement and US Grand Strategy: A Net Assessment”, International Politics 57, no. 3 (giugno 2020): 372.
2Ad esempio, si veda Madeleine Albright, “Dichiarazione sulla ratifica del Senato all’allargamento della NATO”, 30 aprile 1998, https://1997-2001.state.gov/statements/1998/980430d.html. Si veda anche Bill Clinton, “Dichiarazione sull’approvazione del Senato dell’allargamento della NATO”, 30 aprile 1998, https://www.govinfo.gov/content/pkg/WCPD-1998-05-04/pdf/WCPD-1998-05-04-Pg748-2.pdf.
4Anthony Lake, “From Containment to Enlargement” (discorso, Washington D.C., 21 settembre 1993), Johns Hopkins University School of Advanced International Studies.
11Memorandum, “Anthony Lake a Bill Clinton, 13 ottobre 1994”, citato in Sergey Radchenko, “Nothing but Humiliation for Russia: Moscow and NATO’s Eastern Enlargement, 1993-1995”, Journal of Strategic Studies 43, nos. 6-7 (2020): 800.
12Ad esempio, nel settembre 1994 Talbott ha messo in guardia dal procedere in modo così brusco “che l’espansione della NATO, quando si verificherà, sarà per definizione una punizione, o un ‘neo-contenimento’, dell’Orso cattivo”. Memorandum, “Strobe Talbott to Warren Christopher”, 12 settembre 1994, citato in M.E. Sarotte, Not One Inch:America, Russia, and the Making of the Post-Cold War Stalemate (New Haven: Yale University Press, 2021), 195.
13Stephen Kinzer, “NATO Favors U.S. Plan for Ties With the East, but Timing Is Vague”, New York Times, 22 ottobre 1993, https://www.nytimes.com/1993/10/22/world/nato-favors-us-plan-for-ties-with-the-east-but-timing-isvague.html; William J. Perry, My Journey at the Nuclear Brink (Stanford, CA: Stanford University Press, 2015), 127; James Goldgeier, Not Whether But When:The US Decision to Enlarge NATO (Washington, DC: Brookings Institution Press, 1999), 126-127; Sarotte, “How to Enlarge NATO: The Debate Inside the Clinton Administration, 1993-1995”, International Security 44, no. 1 (Summer 2019): 14.
14Goldgeier, Not Whether But When, 158.
15RonaldD. Asmus, Opening NATO’s Door (New York: Columbia University Press, 2002), 44-45; Goldgeier, Not Whether But When, 136-137.
16John Lewis Gaddis, “History, Grand Strategy and NATO Enlargement”, Global Politics and Security 40, no. 1 (1998): 145.
20SvetlanaSavranskaya e Tom Blanton, “NATO Expansion; What Gorbachev Heard”, National Security Archive, Briefing Book #613, 12 dicembre 2017, https://nsarchive.gwu.edu/briefing-book/russia-programs/2017-12-12/nato-expansion-what-gorbachev-heard-western-leaders-early. Per il dibattito sul fatto che l’Occidente si sia impegnato a non espandere la NATO, si veda Mark Kramer, “The Myth of a No-NATO-Enlargement Pledge to Russia”, Washington Quarterly 32, no. 2 (aprile 2009): 39-60; Mary Elise Sarotte, “Not One Inch Eastward? Bush, Baker, Kohl, Genscher, Gorbaciov, and the Origin of Russian Resentment towards NATO Enlargement in February 1990”, Diplomatic History 34, no. 1 (January 2010): 119-140; Joshua R. Itzkowitz Shifrinson, “Deal or No Deal? The End of the Cold War and the U.S. Offer to Limit NATO Expansion”, International Security 40, no. 4 (primavera 2016): 7-44.
21M.E. Sarotte, Not One Inch (New Haven: Yale University Press, 2021), 69 e 79.
22Asmus, Opening NATO’s Door, 24-25; Goldgeier, Not Whether But When, 20.
25Newt Gingrich e Dick Armey, “Republican Contract with America”, 27 settembre 1994, http://media.mcclatchydc.com/static/pdf/1994-contract-with-america.pdf; Lawrence J. Korb, “Who’s in Charge Here? National Security and the Contract with America”, The Brookings Review 13, no. 4 (autunno 1995): 4-7.
26 Goldgeier, Not Whether But When, 61-62, 100-101.
28William Hartung, Prophets of War: Lockheed Martin and the Making of the Military-Industrial Complex (New York: Bold Type Books, 2012), 193-6; Goldgeier, Not Whether But When, 137-8.
29Goldgeier, Not Whether But When, 62-71.
30GorgePacker, Il nostro uomo:Richard Holbrooke and the End of the American Century (New York: Knopf, 2019), 321.
31Goldgeier, Not Whether But When, 71; M.E. Sarotte, Not One Inch, 206-208.
Christopher S. ChivvisSeniorFellow e Direttore del Programma di Stategrafia Americana
Jennifer KavanaghEsistentericercatore senior, Programma di Stategrafia Americana
Sahil Lauji Ex borsista junior James C. Gaither, Programma di Stategrafia Americana
Adele Malle Ex borsista junior di James C. Gaither, Programma Statista Americano
Samuel Orloff Ex borsista junior di James C. Gaither, Programma Statista Americano
Stephen Wertheim Borsista senior, Programma Statista Americano
Reid Wilcox Ex analista di ricerca
L’11 settembre e la guerra globale al terrorismo
Dopo gli attentati dell’11 settembre, l’amministrazione di George W. Bush si è imbarcata in una guerra globale al terrorismo (GWOT) a tempo indeterminato, che ha abbracciato l’idea di guerra preventiva, ha portato all’invasione dell’Iraq e ha ridotto la priorità data a Cina e Russia. Si trattava di un cambiamento importante nella strategia degli Stati Uniti e di una brusca svolta rispetto al tradizionale approccio al mondo incentrato sugli Stati per concentrarsi sugli attori non statali. Le altre potenze mondiali sarebbero state giudicate in base all’allineamento con gli Stati Uniti sulla loro nuova priorità: l’antiterrorismo.
La nuova strategia comportava non solo un aumento delle risorse per le operazioni militari, ma anche un importante spostamento nell’allocazione delle risorse tra gli strumenti di sicurezza nazionale. Sono state introdotte nuove operazioni segrete, tra cui la cooperazione con i servizi segreti stranieri e l’impiego di forze letali contro i terroristi all’estero. Il Comando congiunto per le operazioni speciali è passato da una forza di 2.000 uomini a 25.000, secondo le stime, dispiegati in settantacinque Paesi all’apice della GWOT.2 Le istituzioni diplomatiche e militari sono state trasformate per le operazioni di nation-building.3 L’affidamento a contractor militari privati durante la GWOT si è quasi centuplicato rispetto agli organici dell’epoca della Guerra del Golfo.4 L’amministrazione ha anche intrapreso il più grande cambiamento nell’allocazione delle risorse tra gli strumenti di sicurezza nazionale.
L’amministrazione ha anche intrapreso la più grande riorganizzazione del governo federale dalla seconda guerra mondiale, riunendo ventidue agenzie e uffici sotto l’egida del nuovo Dipartimento della SicurezzaNazionale5.L’Ufficio del Direttore dell’Intelligence Nazionale (DNI) è stato creato per supervisionare la condivisione dell’intelligence in tutto il governo e fungere da principale consigliere del presidente in materia di intelligence, e al suo interno è stato creato il Centro Nazionale Antiterrorismo.6 I Dipartimenti di Stato e del Tesoro, così come il Federal Bureau of Investigation (FBI), hanno subito importanti cambiamenti e una rifocalizzazione sul compito di combattere il terrorismo a livello globale.7
L’amministrazione Bush ha deliberatamente sfruttato l’apertura creata dall’11 settembre per attuare non solo una strategia volta a contrastare il terrorismo, ma anche un’ampia visione del ruolo dell’America nel mondo che stava sviluppando da anni.
La trasformazione della strategia statunitense dopo l’11 settembre illustra come una grande crisi possa aprire le porte a un cambiamento di vasta portata.Ma questo cambiamento non era inevitabile né predeterminato dagli attacchi terroristici sul suolo americano o dalla natura della crisi.L’amministrazione Bush ha deliberatamente sfruttato l’apertura creata dall’11 settembre per attuare non solo una strategia volta a contrastare il terrorismo, ma anche un’ampia visione del ruolo dell’America nel mondo che stava sviluppando da anni.
La logica
Al livello più elementare, la motivazione della GWOT era evidente.L’America era stata attaccata da Al-Qaeda e doveva vendicare l’attacco ed eliminare la minaccia.Questo gruppo terroristico transnazionale sarebbe stato sconfitto come se fosse uno Stato tradizionale.Per prevenire ulteriori attacchi, gli Stati Uniti avrebbero eliminato anche altri gruppi terroristici salafiti-jihadisti e coloro che li sostenevano in tutto il mondo.La GWOT è diventata così una campagna a tempo indeterminato contro i terroristi e i loro sponsor.Bush ha dichiarato che “non finirà finché ogni gruppo terroristico … non sarà stato trovato, fermato e sconfitto”.8
Il Presidente degli Stati Uniti George W. Bush parla al telefono con il Vicepresidente Dick Cheney a bordo dell’Air Force One l’11 settembre 2001, dopo la partenza dalla base aerea di Offutt in Nebraska.(Foto di Eric Draper/La Casa Bianca/Getty Images)
L’amministrazione Bush avrebbe potuto optare per una strategia più limitata che prevedeva solo la disattivazione di Al-Qaeda, evitando di eliminare il terrorismo in generale, oppure una strategia che si concentrava più sulla difesa della patria che sull’antiterrorismo globale.[…]
L’amministrazione ha approfittato della crisi per rovesciare il presidente e dittatore iracheno Saddam Hussein, che non aveva alcun legame con Al-Qaeda. Le motivazioni di questa mossa sono state molto discusse, ma sicuramente riguardavano i timori degli Stati Uniti sulle sue possibili armi di distruzione di massa (ADM) e il fatto che fosse una spina nel fianco degli Stati Uniti fin dalla Guerra del Golfo.
La GWOT si concentrava sulla negazione di rifugi sicuri ai terroristi per prevenire futuri attacchi, sull’azione preventiva e sul cambio di regime per ostacolare la potenziale minaccia di “Stati canaglia” e di terroristi alla ricerca di armi di distruzione di massa, nonché sulla promozione della democrazia e sulla costruzione di una nazione per contrastare le radici del terrorismo. Il perseguimento di questi obiettivi ha richiesto la ristrutturazione delle istituzioni di sicurezza nazionale; non solo le forze armate, la comunità di intelligence, il Dipartimento della Difesa e il Dipartimento di Stato sono stati in qualche modo riformati, ma anche il Tesoro e altre agenzie hanno ampliato i loro ruoli tradizionali per sostenere le operazioni di antiterrorismo, la stabilizzazione delle aree di crisi e gli sforzi di ricostruzionepost-bellica9.
Il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld ha esortato gli Stati Uniti a pensare in modo più ampio rispetto alla guerra contro Al-Qaeda e alla rimozione del regime talebano in Afghanistan; è necessario considerare altri Paesi che forniscono rifugi sicuri, finanziamenti e sostegno alle attività terroristiche.10 Per proteggere con successo gli americani, ha sostenuto, Washington deve impedire “ad altri di pensare che il terrorismo contro gli Stati Uniti possa far progredire la loro causa”.11 Il vicepresidente Dick Cheney ha affermato che la politica dell’amministrazione sarebbe stata quella di amministrare “la piena collera degli Stati Uniti” sulle nazioni che forniscono rifugio e sostegno ai terroristi.12 L’eliminazione dei rifugi sicuri per i terroristi sarebbe andata oltre il territorio fisico, includendo i sistemi legali, informatici e finanziari che consentivano ai terroristi di operare e prosperare.13
Grazie all’impareggiabile superiorità delle forze armate statunitensi, Bush e i suoi consiglieri ritenevano che quella che consideravano l’avversione al rischio della Guerra Fredda dovesse essere sostituita da un approccio più aggressivo anche nei confronti di altri problemi transnazionali.14 La proliferazione delle armi di distruzione di massa era in cima alla loro lista, subito dopo il terrorismo. Si cercò quindi di contrastare aggressivamente e di impegnarsi in un cambio di regime contro gli Stati canaglia che potevano possedere o acquisire le armi di distruzione di massa, con la motivazione che tali Stati avrebbero potuto non solo usarle, ma anche fornirle ai terroristi.15 Mentre uno Stato canaglia o un gruppo terroristico non potevano sconfiggere l’America sul campo di battaglia, l’amministrazione Bush e altri temevano che potessero lanciare un’arma di distruzione di massa contro gli Stati Uniti, uccidendo migliaia o addirittura milioni di americani.16
La nuova strategia era radicata nelle opinioni che il presidente e i suoi consiglieri avevano sviluppato nel corso dei tre decenni precedenti. Erano fortemente concentrati sul ripristino della potenza militare americana dopo quella che ritenevano una ignominiosa sconfitta in Vietnam.17 Molti consiglieri di Bush erano stati, negli anni Settanta e Ottanta, fautori di uno sforzo più sostanziale per affrontare l’Unione Sovietica.18 Paul Wolfowitz e Lewis Libby, che hanno servito ad alti livelli nel Dipartimento della Difesa durante l’amministrazione, sono stati gli autori della Defense Planning Guidance del 1992, che sosteneva che il contenimento e la deterrenza erano diventati antiquati con la fine della Guerra Fredda e che gli Stati Uniti avrebbero dovuto prevenire il riemergere di una nuova superpotenza rivale, salvaguardare gli interessi degli Stati Uniti (come l’accesso al petrolio del Golfo Persico), promuovere i valori americani ed essere pronti ad agire unilateralmente quandonecessario19. Il documento era stato fatto trapelare e infine accantonato a causa di una controversia pubblica, ma quando Wolfowitz e Libby tornarono al governo, trovarono l’opportunità di attuare il loro piano neoconservatore dopo l’11 settembre. Nel discorso sullo Stato dell’Unione del 2002, Bush affermò che l’amministrazione intendeva andare oltre l’Afghanistan e combattere un “asse del male” – Iran, Iraq e Corea del Nord – che cercava di produrre armi di distruzione di massa e poteva fornirle ai terroristi. Questo ha fornito un ampio quadro di riferimento per gli Stati Uniti per perseguire un cambiamento di regime in Iraq e in altre nazioni. 20
In questo contesto, l’amministrazione ha anche cercato di diffondere la democrazia con nuovi mezzi coercitivi, tra cui operazioni di nation-building sostenute militarmente, sulla base del fatto che una governance non democratica era una causa di fondo del terrorismo. La Dottrina Bush affermava che l’unico modello sostenibile per il successo di un Paese era quello di annunciare “la libertà, la democrazia e la libera impresa” e che la loro promozione avrebbe lavorato insieme alla potenza militareamericana22. In definitiva, l’amministrazione mirava a vincere la “battaglia delle idee” facendo avanzare la sua versione della libertà e della dignità umana attraverso la promozione della democrazia per sconfiggere il terrorismo nel lungo periodo.23 Questa aspirazione si sarebbe scontrata con il perseguimento dei suoi obiettivi antiterroristici, che spesso si basavano sulla cooperazione con gli autocrati, ma faceva parte di una visione strategica complessiva abbastanza coerente, che è stata ampiamente attuata dopo l’11 settembre.
L’opposizione
Lo shock dell’11 settembre ha contribuito a garantire un’opposizione limitata alle riforme, ma ci sono state molte discussioni burocratiche su come dovevano essere gli aspetti particolari di queste riforme. Ad esempio, l’Esercito degli Stati Uniti era riluttante ad accettare le riduzioni di forze proposte da Rumsfeld nel suo sforzo di modernizzare le capacità di difesa per la guerra non convenzionale, che andavano contro la sua visione del ruolo che consisteva nel condurre operazioni di combattimento terrestre su larga scala, del tipo di quelle condotte nella Seconda Guerra Mondiale e per le quali si era preparato durante la Guerra Fredda.24 C’erano anche guerre di territorio all’interno della comunità dell’intelligence, in particolare tra la CIA e il nuovo Direttore dell’Intelligence Nazionale (DNI). Le competenze del DNI, in qualità di principale consigliere del Presidente in materia di intelligence e capo dell’intera comunità di intelligence degli Stati Uniti, si sono intromesse nei ruoli da tempo consolidati della CIA, il cui direttore e altri membri dell’agenzia ritenevano di essere stati ingiustamente giudicati dalla Commissione sull’11 settembre e puniti dalla legislazione successiva, che ha declassato la CIA quando ha creato ilDNI25. Anche Rumsfeld cercò di indebolire il DNI nel tentativo di proteggere l’autorità del Pentagono, mentre l’FBI si oppose al potere del DNI sulle sue funzioni di sicurezza nazionale.26 Alla fine, tuttavia, sebbene questi attriti burocratici abbiano ostacolato la funzione prevista delle riforme, non hanno fatto deragliare il più ampio sforzo di attuare un cambiamento strategico nella politica estera.
Alcune delle misure attuate dall’amministrazione si sono anche scontrate con sfide legali, tra cui quella dell’ufficio legale del Dipartimento di Giustizia, che nel 2004 ha sostenuto che il programma di sorveglianza Stellarwind dell’Agenzia per la Sicurezza Nazionale era andato oltre la portata dell’autorità del presidente e violava gli statuti federali che proteggono gli americani dalle violazioni governative.27 Quando Bush si è messo di traverso al Dipartimento riautorizzando il programma, alcuni dei suoi più alti funzionari hanno minacciato dimissioni di massa, che alla fine hanno portato il presidente ad accettare un campo di applicazione più limitato per il programma.28
C’è stata anche una resistenza burocratica all’adozione del nation building come principale attività di sicurezza nazionale. Ad esempio, la creazione di un rappresentante speciale del Dipartimento di Stato per i conflitti, la stabilizzazione e la ricostruzione non ha avuto un sostegno significativo da parte del Segretario di Stato o di un collegio elettorale del Congresso che la sostenesse, e alla fine è stata messa da parte in Afghanistan e in Iraq, di gran lunga le due operazioni di nation building più importanti dell’epoca.29
Molti attori stranieri si sono opposti alla nuova visione strategica di Bush, soprattutto quando questa è cresciuta in termini di portata e di dimensioni. Il Pakistan, ad esempio, ha spesso minato gli sforzi americani durante la guerra in Afghanistan, continuando a sostenere finanziariamente e logisticamente i Talebani.30 Le incursioni americane nelle case e le uccisioni di civili hanno indotto il presidente afghano Hamid Karzai a chiedere ripetutamente un cambiamento nella strategia antiterrorismo dell’amministrazione.31 La Turchia ha rifiutato il permesso alle forze americane di utilizzare il suo territorio per invadere il nord dell’Iraq, il che ha reso necessario un fastidioso dispiegamento aereo.32 La Russia e diversi membri della NATO, come la Russia e l’Iraq, hanno rifiutato il permesso di utilizzare il loro territorio per invadere l’Iraq. La Russia e diversi membri della NATO, come il Canada, la Francia e la Germania, si sono opposti all’invasione dell’Iraq, chiedendo invece ispezioni sulle armi e soluzioni diplomatiche.33 Poiché gli Stati Uniti hanno adottato un approccio unilaterale dopo aver fallito nell’ottenere una risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che giustificasse l’invasione, il segretario generale dell’ONU Kofi Annan ha avvertito Washington e i suoi alleati che le loro azioni avrebbero violato la Carta dell’ONU e in seguito ha dichiarato che l’invasione era illegale.34
Infine, c’è stata un’opposizione da parte dell’opinione pubblica nazionale ed estera al cambiamento strategico. Le organizzazioni per i diritti umani e civili, ad esempio, hanno intentato cause contro le tattiche di tortura dell’amministrazione e le violazioni delle libertà delle comunità musulmane americane.35 Le critiche dell’opinione pubblica nazionale e internazionale a questi cambiamenti sono aumentate nel corso della presidenza Bush.
Superare l’opposizione
L’amministrazione Bush ha superato con relativa facilità la limitata resistenza al suo tentativo di riorientare la politica estera degli Stati Uniti. I neoconservatori e i falchi dell’amministrazione hanno guidato il cambiamento, ma esso ha avuto anche un ampio sostegno all’interno della burocrazia della sicurezza nazionale e del Congresso, oltre che da parte di altri governi. I funzionari della difesa, dell’intelligence, dello sviluppo e delle istituzioni diplomatiche hanno lavorato per riorientare il loro posto di lavoro verso la lotta al terrorismo. E lo shock dell’11 settembre ha contribuito a garantire che Bush potesse superare qualsiasi resistenza.
Nonostante alcune resistenze da parte dei democratici, soprattutto nel caso della guerra in Iraq, la GWOT ha goduto di un sostegno bipartisan al Congresso grazie al consenso sulla necessità di chiedere conto agli autori dell’11 settembre e di prevenire un altro attacco alla patria. Il Congresso ha approvato due autorizzazioni nel 2001 e nel 2002 per l’uso della forza militare a sostegno del cambiamento di strategia. Ha inoltre approvato leggi chiave per la riforma dell’intelligence e della sicurezza nazionale, tra cui il Patriot Act, l’Homeland Security Act e l’Intelligence Reform and Terrorism Prevention Act. E ha aumentato e riorientato i bilanci della sicurezza nazionale per combattere il terrorismo a livello globale. Gli stanziamenti del Congresso per le Operazioni di Contingenza d’Oltremare e le attività legate alla GWOT hanno totalizzato 803,5 miliardi di dollari dal 2001 al 2008 (o 100,4 miliardi di dollari all’anno in media).36 Nel 2008, la spesa per l’antiterrorismo ha raggiunto l’apice di 260 miliardi di dollari, pari al 22% del bilancio discrezionale federale totale.37
Anche l’opinione pubblica ha sostenuto ampiamente la GWOT. Settimane dopo l’11 settembre, il 71% degli americani ha dichiarato di essere a favore di una guerra più ampia contro i gruppi terroristici e le nazioni che li hanno aiutati, piuttosto che limitarsi a punire militarmente i terroristi responsabili degli attentati.38 Nei sondaggi, il 90% ha regolarmente espresso approvazione per l’azione militare in Afghanistan e il 72% ha sostenuto l’invasione dell’Iraq nel 2003.39 C’è stata anche un’ampia approvazione per la ristrutturazione del governo al fine di facilitare gli sforzi dell’antiterrorismo, con, ad esempio, il 69% degli americani che approvavano la proposta di Bush di creare il nuovo Dipartimento della Sicurezza Nazionale.40
Gli Stati Uniti hanno avuto anche un ampio sostegno da parte di altri Paesi per la loro nuova strategia, compresi stretti alleati come il Regno Unito e anche la Russia.41 I servizi di intelligence stranieri hanno collaborato con gli Stati Uniti per fornire competenze locali sulle attività dei terroristi. Più di ottanta Paesi hanno permesso agli Stati Uniti di condurre operazioni segrete contro Al-Qaeda e i suoi proxy sul loro territorio, e molti hanno contribuito a tali sforzi.42 Una coalizione globale e diversificata ha sostenuto gli Stati Uniti attraverso campagne militari, intelligence e collaborazione con le forze dell’ordine, e il congelamento dei beni dei terroristi.43
L’eredità
I cambiamenti apportati dall’amministrazione Bush si sono basati su fattori preesistenti nella politica estera e di sicurezza degli Stati Uniti, in particolare la forza delle forze armate e il globalismo post-Guerra Fredda, ma hanno comunque rappresentato un importante riorientamento strategico. Con l’invasione dell’Iraq, Bush e i suoi consiglieri hanno dato inizio a un’era in cui gli Stati Uniti hanno rinnegato le lezioni della guerra del Vietnam, spingendosi molto più in là che in qualsiasi altro momento dalla Seconda guerra mondiale nell’uso della forza militare per rifare il mondo secondo le preferenze statunitensi. Gli Stati Uniti si sono impegnati in un’opera di nation building e di antiterrorismo su larga scala, hanno modificato ampiamente la loro spesa e hanno attuato riforme istituzionali di vasta portata che sono rimaste in gran parte in vigore vent’anni dopo. I presidenti successivi, Obama e Trump, hanno cercato di allontanare l’America dalla rotta imboccata da Bush, ma hanno trovato difficoltà a causa delle continue trame dei gruppi terroristici d’oltreoceano e della misura in cui la strategia di Bush era istituzionalizzata nella burocrazia governativa e nella comunità della politica estera. Ci sono voluti due decenni e una grande lotta interna perché Biden portasse a termine le operazioni statunitensi in Afghanistan. Molti altri elementi della strategia dell’amministrazione Bush rimarranno probabilmente per decenni.
Le crisi creano finestre per il consenso interno e internazionale e per il cambiamento strategico.
Il caso dell’amministrazione Bush evidenzia chiaramente come le crisi creino finestre per il consenso interno e internazionale e per il cambiamento strategico. Dopo l’11 settembre, il desiderio di ritenere i terroristi responsabili e di prevenire un altro attacco al suolo americano era unanime. Bush ha sfruttato questa finestra per esaltare l’antiterrorismo, la guerra preventiva e il ruolo globale e militarizzato degli Stati Uniti, e ha dovuto affrontare poche reazioni immediate. Un cambiamento nella politica estera era quasi una certezza dopo gli attentati, ma i dettagli, la portata e l’entità del cambiamento sono stati determinati dal Presidente e dalla sua squadra.
4Karli Johnston, “Contractor militari privati: Lessons Learned in Iraq and Increased Accountability in Afghanistan”, Georgetown Journal of International Affairs 10, no. 2 (2009): 93-99.
6Lauren C. Clark, “Le lotte statutarie delle agenzie amministrative: THE DIRECTOR OF NATIONAL INTELLIGENCE AND THE CIA IN A POST-9/11 WORLD”, Administrative Law Review 62, no. 2 (2010): 545-72, 546; “Mission/Vision dell’NCTC”, visitato l’11 gennaio 2022, https://www.dni.gov/index.php/nctc-who-we-are/mission-vision.
8Thomas Kean e Lee Hamilton, The 9/11 Commission Report:Final Report of the National Commission on Terrorist Attacks upon the United States, vol. 3 (Government Printing Office, 2004), 408.
9Kilcullen, Porter e Burgos, “Counterinsurgency Guide”, 30, 50.
10Michael J. Mazarr, Leap of Faith:Hubris, Negligence, and America’s Greatest Foreign Policy Tragedy, (New York: PublicAffairs, 2019), 123.
11Mazarr, Leap of Faith, 123; Donald Rumsfeld, Known and Unknown, 342.
12James Mann, Rise of the Vulcans:The History of Bush’s War Cabinet, prima edizione (New York, N.Y.: Penguin Publishing Group, 2004), 303.
13Dipartimentodi Stato, “Strategia nazionale per la lotta al terrorismo”.
22Bush, “La strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America”, 3.
23Dipartimentodi Stato, “Strategia nazionale per la lotta al terrorismo”.
24Eric V. Larson et al., “Defense Planning in a Time of Conflict: A Comparative Analysis of the 2001-2014 Quadrennial Defense Reviews, and Implications for the Army”, Rand Corporation, 13.
25Christopher Kojm, intervista personale di Sahil Lauji, virtuale, 22 ottobre 2021.
26Loch K. Johnson, National Security Intelligence, 2a edizione (Cambridge, UK Malden, MA: Polity, 2017), 32; Helen Fessenden, “The Limits of Intelligence Reform”, Foreign Affairs 84, no. 6 (2005): 106-20,. 118.
28Savage, “George W. Bush ha fatto una ‘correzione’ retroattiva dell’NSA dopo la resa dei conti nella stanza dell’ospedale”.
29BrendanBallou, “Why America’s Nation Building Office Failed and What Congress Had to Do With It”, International Journal of Security and Development, n. 1 (24 settembre 2014): 3; Bureau of Public Affairs Department Of State, The Office of Electronic Information, “About S/CRS” (18 settembre 2008), https://2001-2009.state.gov/s/crs/c12936.htm.
32Ali Balci e Murat Yesiltas, “La nuova politica mediorientale della Turchia: The Case of the Meeting of the Foreign Ministers of Iraq’s Neighboring Countries”, Journal of South Asian and Middle Eastern Studies 29, no. 4 (2006): 18.
34Nicholas J. Wheeler, “La dottrina Bush: The Dangers of American Exceptionalism in a Revolutionary Age”, Asian Perspective (2003), 183-216. 212; Ewen MacAskill e Julian Borger, “Iraq War Was Illegal and Breached UN Charter, Says Annan”, The Guardian, 16 settembre 2004, sec. Notizie dal mondo, https://www.theguardian.com/world/2004/sep/16/iraq.iraq.
36Brendan W. McGarry e Emily M. Morgenstern, “Overseas Contingency Operations Funding: Background and Status”, Congressional Research Service, 6 settembre 2019, 10, https://sgp.fas.org/crs/natsec/R44519.pdf.
43Dipartimentodi Stato, “La guerra globale al terrorismo”.
autori
Christopher S. Chivvis Senior Fellow e Direttore del Programma di Stategrafia Americana
Jennifer Kavanagh Ex collaboratore senior del Programma di Stategrafia Americana
Sahil Lauji Ex borsista junior James C. Gaither, Programma Statista Americano
Adele Malle Ex borsista junior di James C. Gaither, Programma di statistica americana
Samuel Orloff Ex borsista junior di James C. Gaither, Programma Statista Americano
Stephen Wertheim Borsista senior, Programma Statista Americano
Reid Wilcox Ex analista di ricerca
Analisi e lezioni
I casi di studio presentati in questo rapporto dimostrano che la realizzazione di grandi cambiamenti strategici nella politica estera degli Stati Uniti coinvolge non solo la Casa Bianca, ma anche la burocrazia governativa, il Congresso, la più ampia comunità di esperti, l’opinione pubblica e gli attori stranieri. Per avere successo, i fautori del cambiamento devono tenere conto in qualche misura di tutti questi attori.
Questo capitolo trae conclusioni dai casi di studio e aggiunge spunti di riflessione da altri casi e dalla letteratura scientifica pertinente. Identifica gli insegnamenti pratici per i futuri leader e politici statunitensi che cercheranno di realizzare grandi cambiamenti in politica estera.
Il capitolo inizia spiegando perché la crisi facilita il cambiamento ed esplorando le implicazioni di questa scoperta. Esamina poi il motivo per cui varie parti della burocrazia governativa tendono a resistere ai grandi cambiamenti, come hanno fatto in quasi tutti i casi. Il capitolo propone tre modi per incoraggiare la burocrazia ad adottare più volentieri i cambiamenti. Il capitolo spiega poi perché il Congresso è importante per il cambiamento strategico, identificando le condizioni politiche in cui è probabile che sostenga il cambiamento piuttosto che opporvisi. Le sezioni successive esaminano il ruolo dell’opinione pubblica e la psicologia del cambiamento, che suggeriscono come convincere i numerosi attori coinvolti nella politica estera della necessità di un cambiamento. Il capitolo si conclude considerando i limiti del potere presidenziale nell’apportare grandi cambiamenti al ruolo dell’America nel mondo, sostenendo che un approccio incrementale e riformista è probabilmente il più efficace.
La crisi facilita il cambiamento
I casi di studio dimostrano che la crisi è un grande motore e facilitatore del cambiamento e che i leader di politica estera dovrebbero avere un’idea di come potrebbero usare una crisi per aprire o precludere opportunità di cambiare strategia. Il caso dell’11 settembre rende evidente l’importanza delle crisi, ma le crisi internazionali hanno stimolato il cambiamento anche nei casi dell’NSC-68 e della guerra del Vietnam. È vero l’adagio “Mai sprecare una buona crisi”. Le crisi generano plasticità politica, aprendo la porta al cambiamento strategico. In assenza di una crisi, un presidente che voglia apportare cambiamenti significativi in politica estera si trova di fronte a un compito molto più difficile.
Si consideri l’impatto dello scoppio della guerra di Corea sulla strategia statunitense della guerra fredda. L’approccio globale da falco sviluppato da Nitze nell’NSC-68 inizialmente incontrò l’opposizione all’interno e all’esterno del governo. Il piano fu sostanzialmente accantonato nella primavera del 1950 e riprese vita solo con lo scoppio della guerra di Corea in giugno. L’invasione della Corea del Sud da parte della Corea del Nord sembrò sostenere la tesi centrale del NSC-68, secondo cui gli Stati Uniti non potevano permettersi di concentrarsi esclusivamente sulla competizione con l’Unione Sovietica in Europa. Lo scoppio della guerra creò anche un senso di urgenza che i sostenitori dell’NSC-68 sfruttarono per trasformare la loro strategia in realtà. Di conseguenza, gli Stati Uniti adottarono una concezione più geograficamente espansiva e militarmente centrata di come condurre la guerra fredda.
Gli attentati dell’11 settembre rappresentano un caso ancora più chiaro di come una crisi di politica estera favorisca grandi cambiamenti. Gli attacchi terroristici hanno creato un desiderio così forte a livello nazionale di punire Al-Qaeda e di prevenire un altro attacco sul suolo americano da dare all’amministrazione Bush una mano libera in politica estera come mai nessuna presidenza dalla Seconda guerra mondiale. La Casa Bianca utilizzò la crisi non solo per dare maggiore priorità all’antiterrorismo, ma anche per aumentare la spesa per la difesa e attuare una grande strategia neoconservatrice volta a costruire la democrazia in Medio Oriente attraverso la forza militare.
Al contrario, il tentativo fallito di Carter di ritirare le forze statunitensi dalla Corea del Sud illustra la difficoltà di ottenere un cambiamento significativo senza una crisi che lo motivi e ne galvanizzi il sostegno. Carter entrò in carica sulla scia di crisi economiche e di politica estera: il picco dell’inflazione del 1973 e la guerra del Vietnam. Quest’ultima fu una delle ragioni per cui volle ridurre la posizione militare degli Stati Uniti in Asia, ritirando le forze dalla Corea del Sud. Al momento del suo insediamento, tuttavia, questi problemi avevano perso intensità. Il sostegno al ritiro dalla Corea del Sud si è disperso nel tempo e Carter è stato costretto ad accantonare l’idea.
La crisi non è sempre necessaria per un grande cambiamento. L’amministrazione Biden si è ritirata dall’Afghanistan nel 2021 in assenza di una crisi di politica estera. Ha deciso di ritirare le forze statunitensi nel primo anno di amministrazione, durante un periodo di luna di miele in cui il presidente godeva ancora di un forte sostegno da parte del suo stesso partito e del controllo del Congresso. La politica era stata perseguita anche da Trump, rendendo più difficile per i repubblicani al Congresso criticare aspramente il ritiro. Nel 2021, inoltre, le prove che gli Stati Uniti non stavano raggiungendo gli obiettivi dichiarati in Afghanistan si erano accumulate nel corso degli anni, indebolendo la resistenza al cambiamento e rendendo il ritiro popolare tra un’ampia maggioranza dell’opinione pubblica americana.
Perché le crisi facilitano il cambiamento? Uno dei motivi è che tendono a generare un impulso emotivo all’azione, rendendo le persone più propense a ripensare i loro presupposti e obiettivi fondamentali. In un momento di crisi, l’opinione pubblica, il Congresso e la burocrazia governativa desiderano una risposta. La pressione per l’azione non è sempre una buona cosa, perché a volte la politica migliore è evitare di agire in primo luogo – in altre parole, non fare nulla – ma se la Casa Bianca punta a un cambiamento importante, una crisi genera un’atmosfera permissiva affinché il cambiamento acquisti trazione.
Le crisi possono anche sommergere le convinzioni esistenti con informazioni che non le confermano. In tempi normali, le persone tendono a interpretare i fatti in base ai quadri mentali esistenti, piuttosto che rivedere i quadri stessi. Ma una crisi può indurre le persone a rivedere le ipotesi, se un quadro esistente si è rivelato inadeguato a comprendere il mondo e ha generato conseguenze dannose.1 Inoltre, le crisi generano un senso di urgenza, che può generare lo slancio necessario a superare l’inerzia. Gli esperti di cambiamento nelle aziende, per esempio, hanno sottolineato che il senso di urgenza può essere essenziale per un cambiamento su larga scala, perché aiuta a generare un’azione collettiva.2
Tuttavia, una crisi non determina una particolare risposta politica, anche se crea la base emotiva e psicologica per il cambiamento. Anche shock come l’11 settembre o la guerra di Corea sono stati interpretati in modi diversi e avrebbero potuto produrre risultati politici diversi. Le alternative politiche sono sempre disponibili. Ad esempio, nel caso dell’11 settembre, le scelte di portare avanti la guerra globale al terrorismo e di invadere l’Iraq sono state modellate dalla cultura strategica americana, dalla percezione della minaccia preesistente nei confronti dell’Iraq e da altri fattori.3 Durante e dopo una crisi, i responsabili politici saranno in disaccordo sulle cause della crisi, sulle potenziali risposte ad essa e sugli obiettivi e gli interessi di alto livello in gioco. Alcuni possono vedere i propri interessi avanzati o indeboliti dalle alternative offerte. Inoltre, quando una crisi ha innescato un cambiamento strategico, questo è stato spesso concepito e proposto prima della crisi. Piuttosto che emergere dalle proprietà oggettive della crisi stessa, la “soluzione” – come nei casi dell’NSC-68 e dell’invasione dell’Iraq – esisteva già come idea e poi è stata accettata grazie alla convinzione che la crisi sarebbe stata evitata o sarebbe stata più facile da affrontare se il cambiamento strategico fosse stato adottato prima.
Tuttavia, esiste certamente una relazione tra le crisi di politica estera e i cambiamenti strategici che hanno prodotto. La guerra di Corea ha contribuito a rafforzare le raccomandazioni a livello mondiale dell’NSC-68 perché si trattava di una crisi in Asia, non in Europa. Gli attentati dell’11 settembre hanno portato a cambiamenti volti ad affrontare la nuova minaccia delle organizzazioni terroristiche e degli attori del Medio Oriente. Qualsiasi Casa Bianca avrebbe adottato una maggiore enfasi sul terrorismo, anche se non tutte le politiche adottate dall’amministrazione Bush sono state rese inevitabili dagli stessi attacchi dell’11 settembre.
In assenza di grandi shock esterni, il cambiamento strategico rimane molto difficile nella politica estera degli Stati Uniti, dove le politiche sono spesso altamente istituzionalizzate e sostenute da molti interessi e gruppi nel Congresso, nelle diverse burocrazie governative, nella comunità degli esperti e nel pubblico in generale.
Né qualsiasi crisi di politica estera sarà sufficiente a generare un cambiamento importante. In assenza di grandi shock esterni, il cambiamento strategico rimane molto difficile nella politica estera degli Stati Uniti, dove le politiche sono spesso altamente istituzionalizzate e sostenute da molti interessi e gruppi nel Congresso, nelle diverse burocrazie governative, nella comunità degli esperti e nel pubblico in generale. Inoltre, le crisi possono facilitare alcuni tipi di cambiamento, ma non altri. Nella maggior parte dei casi, a partire dalla Seconda guerra mondiale, le crisi hanno generalmente innescato un forte impulso a “fare qualcosa”, portando a un’espansione dei programmi e delle attività statunitensi e facendo sì che una politica di contenimento ricevesse poca attenzione. Le crisi – che si tratti della guerra di Corea, della fine della guerra fredda o dell’11 settembre – non favoriscono di norma una politica estera disciplinata.
Perché le burocrazie resistono al cambiamento
La maggior parte dei casi di studio rivela l’importanza della resistenza burocratica al cambiamento. A volte, come quando le burocrazie militari e civili hanno organizzato una campagna contro il tentativo di Carter di ridurre le risorse in Corea del Sud, la resistenza ha avuto successo. In altri casi, la resistenza è stata ostacolata, sia dalle manovre di un piccolo gruppo all’interno della burocrazia, sia dalla segretezza della Casa Bianca, sia dalle pressioni del Congresso e dell’opinione pubblica.
Le diverse burocrazie governative sono strumenti essenziali attraverso i quali il potere deve fluire quando i presidenti utilizzano il potere politico, diplomatico, di intelligence e altre forme di potere. I presidenti non possono trascurarle o aggirarle quando cercano di introdurre cambiamenti in politica estera.4 Non c’è diplomazia senza il Dipartimento di Stato e non c’è azione militare senza il Pentagono. Le burocrazie forti rendono gli Stati Uniti più potenti e più capaci, ma sono difficili da cambiare e rendono difficile il cambiamento.
Le burocrazie di politica estera sono organizzazioni altamente complesse che godono di un grande grado di indipendenza e mantengono relazioni profonde con il Congresso e con comunità di esperti esterne al governo. Hanno anche forti valori, culture e prospettive interne sulla politica estera. Non sorprende che perseguano abitualmente i propri interessi che trascendono le amministrazioni e che resistano agli ordini presidenziali di fare cose per cui non sono state organizzate e programmate.
Obama, ad esempio, è entrato alla Casa Bianca promettendo di chiudere il centro di detenzione statunitense di Guantanamo Bay, ma ha incontrato una forte opposizione da parte di alcuni settori della burocrazia della sicurezza nazionale che hanno contrastato con successo il suo piano.5 La resistenza è stata varia in tutto il governo, ma il fallimento di Obama è la prova di come le burocrazie siano condizionate a preservare il modo esistente di fare le cose – in questo caso a preservare la politica emersa dopo gli attacchi dell’11 settembre. Anche l’amministrazione Trump ha dovuto affrontare molte resistenze burocratiche sulla politica estera.6 Trump tendeva a dipingere questo ostacolo come derivante da un nefasto “Stato profondo” e da una funzione pubblica dominata da avversari politici.7 I fattori burocratici parrocchiali erano probabilmente più importanti.8
Uno dei motivi per cui le burocrazie resistono al cambiamento è il timore che minacci i loro interessi. I Dipartimenti di Stato e della Difesa tendono a resistere ai cambiamenti quando si aspettano che questi impongano loro nuovi requisiti, limitino i loro bilanci, danneggino la loro influenza istituzionale nel processo decisionale sulla sicurezza nazionale o alterino la loro missione di base. I burocrati possono anche resistere al cambiamento se temono che sia costoso e complicato da attuare. I grandi cambiamenti di politica estera richiedono inevitabilmente nuove procedure e routine burocratiche. Queste si discostano da quelle esistenti e hanno sostenitori all’interno della burocrazia, che si opporranno al cambiamento. La cultura organizzativa è un’altra fonte di resistenza: le burocrazie hanno un’identità e i funzionari pubblici sono convinti della loro organizzazione, del suo ruolo e del motivo per cui fanno ciò che fanno.9 Questo dà loro un senso di missione che guida il loro lavoro. Se la Casa Bianca cerca di attuare una politica contraria alla cultura organizzativa che anima una burocrazia, la resistenza è quasi certa.
I grandi cambiamenti di politica estera richiedono inevitabilmente nuove procedure e routine burocratiche.
Inoltre, anche quando viene chiesto di attuare una strategia i cui obiettivi sono in gran parte accettati dalla burocrazia, i funzionari hanno una forte propensione a utilizzare le capacità esistenti, anche se queste non sono adatte al compito. I funzionari si faranno portavoce dell’adeguatezza delle capacità esistenti della loro organizzazione perché ritengono che questo sia il loro compito. È improbabile che ammettano, o talvolta riconoscano, che nuovi obiettivi politici richiedono nuovi modi e mezzi.10 Ad esempio, la tendenza degli Stati Uniti a ricorrere allo strumento militare è in parte un riflesso delle dimensioni delle loro capacità militari e del Pentagono rispetto ad altri attori della politica estera.
La tendenza delle burocrazie ad aggrapparsi alle procedure e agli strumenti esistenti per attuare nuove politiche – anche quando non sono appropriate – fa parte di un più ampio problema di agente principale che ogni Casa Bianca deve affrontare nel trattare con agenzie come il Dipartimento di Stato, il Pentagono e la comunità di intelligence. Il problema è che il presidente deve delegare l’attuazione alla burocrazia, che ha una conoscenza e un controllo maggiori dei risultati rispetto al presidente. Poiché può essere molto difficile per il principale monitorare l’attuazione, l’agente finisce per avere un ampio margine di manovra per plasmare la politica. Una volta che la Casa Bianca ha deciso di apportare un particolare cambiamento di politica, può sollecitare, fare pressione, monitorare e convincere le diverse burocrazie a fare ciò che vuole, ma non può essere del tutto sicura di quanto queste si adegueranno.11 Parte del problema deriva dal fatto che le competenze necessarie per attuare un cambiamento di politica estera possono spesso essere trovate solo all’interno della burocrazia. I presidenti possono comprendere le linee generali della politica estera che desiderano, ma quasi certamente non hanno le competenze necessarie per capire come attuarla. Paradossalmente, più la Casa Bianca attinge alle competenze delle organizzazioni necessarie per l’attuazione, come il Dipartimento della Difesa, più importerà la cultura e gli obiettivi di quell’organizzazione nella politica, e meno probabile sarà ilcambiamento12.
Le burocrazie hanno a disposizione diversi mezzi per opporsi ai cambiamenti che non gradiscono.13 Ad esempio, i funzionari possono sfidare direttamente gli ordini. Questo approccio, tuttavia, comporta molti rischi e non è sempre efficace. Ad esempio, le numerose dimissioni dal Dipartimento di Stato durante l’amministrazione Trump hanno avuto scarso effetto sulla politica della Casa Bianca.14 Potrebbero persino essere state accolte con favore da un’amministrazione che voleva sventrare la burocrazia. In alternativa, il semplice fatto di non eseguire gli ordini o di agire molto lentamente – lo “slow rolling” – è una strategia meno rischiosa e più efficace. Per esempio, il Dipartimento della Difesa ha ripetutamente rallentato gli ordini di Trump di ritirare le forze statunitensi dalla Siria, dove sono rimaste quando ha lasciato l’incarico.15 Il Dipartimento, che ha speso sangue e tesori per combattere in quel Paese per anni, ha visto questi ordini come precipitosi e capricciosi, e così i leader militari hanno fatto leva sulla loro conoscenza delle realtà operative per ritardare e ostacolare ciò che il presidente voleva.
Le burocrazie possono anche far trapelare informazioni negative alla stampa, collaborare con gli alleati al Congresso per minare gli obiettivi politici, incoraggiare le reti di esperti al di fuori del governo ad attaccare la Casa Bianca e fare appello a interessi particolari per combattere il cambiamento.16 Nell’attuale ambiente politico polarizzato e sensazionalistico, ci sarà quasi sempre un appetito per le fughe di notizie da parte dei media e un insieme di interessi volenterosi e potenti pronti ad approfittarne per ostacolare nuove politiche o semplicemente per segnare punti politici di parte.
La resistenza burocratica al cambiamento ha portato alcuni esperti a mettere in guardia sull’emergere di uno “Stato profondo” che ostacola gli obiettivi dei presidenti democraticamente eletti.17 Questa accusa può essere fuorviante, perché è improbabile che la burocrazia governativa agisca come un fronte unito in opposizione o a sostegno degli obiettivi della Casa Bianca.18 Agenzie diverse hanno da perdere o da guadagnare dal cambiamento delle politiche in modi diversi, quindi la resistenza varierà di conseguenza. La resistenza varierà anche all’interno di alcune grandi burocrazie, come il Dipartimento della Difesa, o tra le molteplici agenzie che compongono la comunità dell’intelligence statunitense. Un elemento chiave di una gestione di successo della burocrazia sarà quindi sempre l’identificazione preventiva delle aree di resistenza o di difesa, in modo da poter neutralizzare la resistenza e potenziare i sostenitori.
Conquistare le burocrazie al cambiamento
Quando la resistenza burocratica al cambiamento delle politiche è solidamente radicata negli statuti legali, c’è poco che la Casa Bianca possa fare per superarla. Molti statuti, tuttavia, lasciano spazio all’interpretazione da parte di avvocati delle diverse burocrazie o dell’Ufficio di consulenza legale del Dipartimento di Giustizia. In teoria, sostituire coloro che danno interpretazioni che contraddicono una modifica proposta sarebbe un modo per superare le resistenze. Ma un’iniziativa del genere sarebbe eticamente discutibile e potrebbe essere oggetto di contestazioni legali. Fortunatamente, ci sono altri modi per far sì che le burocrazie accettino i cambiamenti.
Il primo e più importante è quello delle nomine politiche. Tutte le amministrazioni nominano alleati politici in posizioni chiave nelle diverse burocrazie governative, e nel ramo esecutivo ci sono diverse migliaia di tali nomine. Possono cambiare le agenzie per renderle più conformi all’agenda del presidente piuttosto che alla propria.19 Gli incaricati politici possono anche aiutare a superare la resistenza al cambiamento spostando i dirigenti con opinioni radicate.
L’uso delle nomine politiche presenta tuttavia dei limiti. Sebbene possa sembrare che la nomina di un maggior numero di funzionari nelle burocrazie aumenti il controllo della Casa Bianca sul loro comportamento, può essere difficile trovare persone leali e pronte ad abbracciare il cambiamento, oltre che qualificate per attuarlo. Le campagne politiche attirano esperti esterni leali, ma non garantiscono la loro competenza come esperti e funzionari governativi. Coloro che possiedono le competenze necessarie per comprendere, riformare e riorganizzare le burocrazie hanno maggiori probabilità di avere opinioni simili a quelle delle burocrazie e quindi sono meno adatti ad attuare i cambiamenti, anche se sono politicamente fedeli al presidente. Al contrario, gli incaricati che sono fedeli al presidente e condividono il desiderio di cambiamento dell’amministrazione possono avere meno probabilità di avere le conoscenze specialistiche e l’autorità necessarie per essere efficaci nel fare pressione per il cambiamento burocratico. Alcuni incaricati, invece, vengono scelti per motivi diversi dalla loro lealtà e competenza nel lavoro. Le nomine ad ambasciatori, ad esempio, sono spesso una ricompensa per i grandi donatori della campagna elettorale. Di conseguenza, almeno alcuni incaricati politici non avranno le conoscenze politiche, le capacità di gestione o di persuasione necessarie per cambiare le burocrazie a cui sono assegnati.
Il secondo metodo consiste nell’affidare al personale dell’NSC il compito di guidare il cambiamento. Alcuni presidenti preferiscono utilizzare il CNS in un ruolo di coordinamento tra le agenzie, altri come uno dei principali motori della politica. Un NSC di coordinamento può incoraggiare la continuità piuttosto che il cambiamento, perché è improbabile che le diverse burocrazie che coordina producano politiche che vadano ben oltre le loro capacità, interessi e punti di vista esistenti. Pertanto, un CNS con il potere di dirigere la politica estera è spesso necessario per guidare qualsiasi cambiamento significativo di direzione.
Tuttavia, conferire all’NSC il potere di fare qualcosa di più che coordinare la politica pone delle sfide istituzionali. Il personale dell’NSC può intimidire, convincere e premiare le proprie controparti nelle diverse burocrazie, ma non ha autorità diretta su di esse. I vice segretari aggiunti, i segretari aggiunti e i sottosegretari prendono ordini dai funzionari di gabinetto ai vertici dei loro dipartimenti, non dalla Casa Bianca. Inoltre, è probabile che anche i membri dello staff dell’NSC più abili ed esperti non abbiano le competenze tecniche necessarie per tradurre in modo convincente gli obiettivi della Casa Bianca in azioni specifiche che la burocrazia deve intraprendere. In alternativa, nominare all’NSC persone che abbiano le competenze necessarie per dirigere le burocrazie significa scegliere personale che provenga dall’interno della burocrazia e che quindi ne condivida in qualche misura i valori e la cultura. Il conferimento al CNS di un ruolo attivista tende inoltre a ridurre la capacità del personale del CNS, già sovraccarico, di effettuare l’analisi strategica necessaria per una buona politicaestera20.
La terza soluzione consiste nel convincere la burocrazia della necessità di un cambiamento e nel dedicare al compito l’attenzione del presidente e del gabinetto. I presidenti impegnati nel cambiamento dovranno usare il loro capitale politico e il loro potere di persuasione. Lo staff di comunicazione della Casa Bianca si occuperà di vendere qualsiasi cambiamento importante all’opinione pubblica e lo staff di collegamento con il Congresso farà lo stesso per il Congresso, ma la persuasione presidenziale deve essere rivolta anche alla burocrazia. La Casa Bianca deve progettare una campagna interna volta a convincere la funzione pubblica che il cambiamento è necessario e non pericoloso, anche se non ci si può aspettare che lo sforzo conquisti tutte le parti di una burocrazia avversa al cambiamento. Dovrebbe anche inquadrare il cambiamento in termini di perdite che lo status quo crea non solo per la nazione, ma anche per i gruppi specifici che devono attuare il cambiamento.21 Uno sforzo sostenuto di comunicazione da parte del presidente e anche del vicepresidente, del consigliere per la sicurezza nazionale e dei segretari di Stato e della Difesa, sotto forma di discorsi, promemoria e visite ai dipartimenti, darà i suoi frutti nella realizzazione della nuova politica estera. Idealmente, questo sforzo identificherà gli influenzatori interni alla burocrazia che possono essere convinti del cambiamento.
È fondamentale che un cambiamento importante della politica estera sia molto più facile in periodi di prosperità fiscale. La paura di perdere i finanziamenti è una motivazione centrale per le burocrazie e un motivo fondamentale per cui resistono al cambiamento. Quando c’è denaro a sufficienza e ci sono meno lotte di bilancio, le burocrazie sono meno inclini a temere i cambiamenti e più propense ad accoglierli. Un corollario è che un cambiamento volto a ridurre la spesa per la politica estera sarà intrinsecamente più difficile da realizzare rispetto a uno che sia neutro o che aumenti la spesa. Questo è un enigma importante per coloro che cercano di ridurre la spesa degli Stati Uniti per la politica estera, che si tratti di difesa, diplomazia o aiuti esteri.
Inoltre, è probabile che le burocrazie cambino lentamente, soprattutto in assenza di una grande crisi che le stimoli. Spingerle troppo può essere controproducente. La cultura della burocrazia governativa è profondamente radicata e quasi impossibile da rovesciare nell’arco di tempo di una presidenza di due mandati. La difficoltà di cambiare la cultura organizzativa è uno dei motivi per cui gli esperti sconsigliano alle aziende di tentare cambiamenti di vasta portata e raccomandano invece di concentrarsi sulla modifica dei compiti e dei processi.22 Ci sono sempre aspetti positivi della cultura organizzativa, e tenere in considerazione questi punti di forza per elogiarli mentre ci si concentra sull’eliminazione di alcuni aspetti problematici avrà maggiori possibilità di successo.23
Cercare di aggirare la burocrazia governativa consolidando il processo decisionale in un piccolo gruppo e agendo in segreto, come fece la Casa Bianca di Nixon, può facilmente ritorcersi contro.
Cercare di aggirare la burocrazia governativa consolidando il processo decisionale in un piccolo gruppo e agendo in segreto, come fece la Casa Bianca di Nixon, può facilmente ritorcersi contro. L’amministrazione Trump ha anticipato la resistenza della burocrazia, ma ha finito per generarla o esacerbarla, a volte agendo in segreto e altre volte agendo troppo pubblicamente, ad esempio annunciando la politica via Twitter prima di consultare le burocrazie. Il presidente ha piazzato gruppi ristretti di incaricati politici ai vertici di agenzie come il Dipartimento di Stato e il DNI, che poi si sono isolati dalle loro organizzazioni. Tentando di aggirare la maggior parte delle agenzie di cui aveva bisogno per attuare la sua politica estera, l’amministrazione tendeva ad aumentare la probabilità che la burocrazia lavorasse contro di lei.
Anche licenziare un gran numero di burocrati è improbabile che funzioni. Non c’è un serbatoio pronto di funzionari competenti per occupare posti di lavoro relativamente poco retribuiti nella burocrazia, soprattutto se viene eliminato uno dei principali vantaggi di queste posizioni, la sicurezza del posto di lavoro.
Il ruolo del Congresso nel cambiamento
Spesso si ritiene che il Congresso sia impotente nell’adempimento dei suoi doveri costituzionali in materia di politica estera. Secondo questa logica, qualsiasi sforzo per realizzare un cambiamento strategico potrebbe anche ignorare il ramo legislativo. Ma questa visione è al massimo una verità parziale. Le discussioni sulla strategia troppo spesso ignorano il ruolo cruciale del Congresso nel cambiamento strategico. Il sostegno del Congresso è stato un fattore importante per superare le obiezioni burocratiche all’allargamento della NATO, mentre l’opposizione del Congresso ha amplificato la resistenza burocratica nel caso del tentativo fallito di Carter di ritirare le forze dalla Corea del Sud.
Secondo la Costituzione, il Congresso ha ampi poteri di politica estera, tra cui il diritto di dichiarare guerra, raccogliere forze militari, imporre tasse, tariffe, stanziare fondi, dare il proprio parere e consenso sui trattati e confermare le nomine di alto livello nella burocrazia della politica estera. Tuttavia, negli anni Settanta molti lamentavano la mancanza di potere del Congresso sulla Casa Bianca in materia di politica estera. Il War Powers Act del 1973 aveva lo scopo di limitare a novanta giorni l’uso della forza militare da parte dell’esecutivo senza l’autorizzazione del ramo legislativo, ma il Congresso non l’ha ancora invocato per far cessare un’importante operazione militare in corso.24 La presidenza è emersa ancora più dominante durante l’amministrazione di George W. Bush, quando il ramo esecutivo ha rivendicato ampie prerogative e il Congresso ha diminuito la propria influenza autorizzando rapidamente una guerra al terrorismo a tempo indeterminato.25 Il Congresso non ha ancora revocato le autorizzazioni alla guerra che aveva approvato nel 2001 e nel 2002.
Studi recenti, tuttavia, indicano come il Congresso abbia talvolta un’influenza sulla politica estera maggiore di quanto sembri. I legislatori possono esercitare, e lo fanno regolarmente, un’influenza attraverso mezzi indiretti e diretti.26 Quando si tratta di politica estera, le relazioni tra il Congresso e l’esecutivo assomigliano più a un braccio di ferro che a una strada a senso unico.27
Il potere del Congresso sulla politica estera è più limitato durante una crisi, quando il ramo esecutivo ha il proverbiale coltello dalla parte del manico. Ciò è particolarmente vero nelle fasi iniziali, quando la Casa Bianca ha accesso a un maggior numero di informazioni e intelligence e ha la possibilità di dispiegare forze sul campo, cambiando così le circostanze oggettive. A quel punto, il timore di essere accusati di mancanza di patriottismo in una crisi incoraggia molti membri del Congresso a trattenere le critiche e a sostenere il presidente.28
Il potere limitato del Congresso durante le crisi di sicurezza nazionale può contribuire a spiegare perché a volte si ritiene che la sua influenza sia così bassa. In una crisi, l’attenzione dell’opinione pubblica è massima, gli eventi sono drammatici, l’attenzione è concentrata sulla Casa Bianca e il Congresso è relegato ai margini. Quando il dramma iniziale svanisce, tuttavia, il Congresso può essere meglio informato tenendo audizioni ed esaminando l’intelligence. Può anche valutare i risultati ottenuti finora dall’approccio del Presidente. I leader del Congresso potrebbero allora diventare più coraggiosi e disposti a opporsi al Presidente.
Negli ultimi anni, il Congresso ha fatto valere la sua influenza con altri metodi, oltre a fornire consulenza e consenso sui trattati e ad esercitare la sua autorità costituzionale di dichiarare la guerra.29 Il Congresso può invece influenzare l’opinione pubblica quando i leader si esprimono a favore o contro elementi specifici della politica estera dell’amministrazione, come è accaduto con gli aumenti e le diminuzioni dei livelli di truppe durante le guerre in Afghanistan e in Iraq. Il Congresso può anche discutere di leggi critiche nei confronti della politica dell’amministrazione o tenere audizioni per spingere la Casa Bianca a cambiare rotta.30 Non bisogna esagerare l’impatto delle audizioni del Congresso o delle dichiarazioni dei leader del Congresso, ma queste azioni fanno la differenza sensibilizzando l’opinione pubblica e aumentando i costi politici che la Casa Bianca deve sostenere per persistere con una politica estera impopolare.31
Il Congresso è in qualche modo più potente quando la scala del cambiamento politico è ampia e le truppe di terra statunitensi non sono in pericolo. Può usare il “potere della borsa” e la sua autorità statutaria per cambiare la struttura delle agenzie e quindi influenzare il loro potere assoluto o relativo. Ad esempio, il Congresso potrebbe tentare di sminuire il ruolo della forza militare e di rafforzare la diplomazia aumentando il budget del Dipartimento di Stato. Oppure potrebbe cercare di rallentare o addirittura bloccare la crescita del bilancio della difesa nel tentativo di promuovere la razionalizzazione all’interno del Dipartimento della Difesa o di ridurne l’influenza, come ha fatto l’amministrazione Obama con la politica del “sequestro”. Il riequilibrio della spesa dalla difesa alla diplomazia è stato storicamente difficile da realizzare, anche se sostenuto dai leader del Pentagono, ma rientra nei poteri del ramo legislativo. Quando si tratta di supplementi di bilancio, come la legislazione approvata per assistere l’Ucraina, il Congresso può avere un’influenza maggiore rispetto ai casi in cui i bilanci sono in vigore da molti anni.
Il Congresso può anche influenzare le politiche e le capacità delle agenzie finanziando nuovi programmi al loro interno, o può persino creare, smantellare o riorganizzare le agenzie. A volte il Congresso ha imposto all’esecutivo tali riorganizzazioni, come ha fatto negli anni ’90 il Congresso controllato dai repubblicani quando ha consolidato l’Agenzia per il controllo degli armamenti e il disarmo e l’Agenzia per l’informazione degli Stati Uniti nel Dipartimento di Stato.
Sebbene sia stato spesso considerato inattivo dopo l’11 settembre, il Congresso è stato determinante nel progettare e approvare la legislazione che ha trasformato l’antiterrorismo nel fulcro della politica estera degli Stati Uniti. Come si è detto, ha approvato due importanti autorizzazioni all’uso della forza militare che hanno sostenuto il cambiamento di strategia dell’amministrazione Bush, oltre a pezzi di legislazione chiave che hanno rimodellato la burocrazia della sicurezza nazionale, tra cui il Patriot Act, l’Homeland Security Act e l’Intelligence Reform and Terrorism Prevention Act. Il Congresso ha anche usato il suo potere di bilancio per aumentare e riorientare i bilanci della sicurezza nazionale verso la nuova guerra globale al terrorismo.
Quando è probabile che il Congresso sostenga il cambiamento e quando no
Il Congresso ha la capacità di promuovere il cambiamento strategico, ma spesso rimane passivo o lo ostacola. In quali condizioni potrebbe scegliere di sostenere il cambiamento strategico e in quali condizioni potrebbe opporsi al cambiamento?
Il Congresso contiene molte fonti di resistenza al cambiamento. In un organo di 535 membri, e anche all’interno dei due partiti, è inevitabile che vi sia una varietà di opinioni diverse, ma la tendenza a sostenere lo status quo è solitamente forte. La psicologia umana resiste al cambiamento (vedi discussione successiva). I membri del Congresso si sono spesso impegnati pubblicamente a sostenere aspetti importanti del consenso prevalente, soprattutto se occupano posizioni importanti per il cambiamento, come i seggi nelle commissioni per gli stanziamenti o in altre commissioni pertinenti. Cambiare posizione li espone ad accuse di incoerenza, almeno in assenza di una crisi importante o di uno sconvolgimento dell’opinione pubblica. E anche se i membri del Congresso sono d’accordo con la necessità di un cambiamento, potrebbero non avere abbastanza a cuore la politica estera per spendere un prezioso capitale politico su di essa. Soprattutto alla Camera dei Rappresentanti, i cui membri devono essere rieletti ogni due anni, può essere troppo rischioso spendere il capitale politico su questioni diverse da quelle interne importanti per glielettori32.
La resistenza al cambiamento da parte del Congresso è rafforzata dai membri che hanno ragioni politiche di interesse personale per sostenere lo status quo, come il mantenimento delle basi militari o degli impianti di produzione di armi nel loro distretto o stato. L’importanza dell’industria della difesa in alcune aree ha creato un collegio elettorale nel Congresso che ha un grande interesse a mantenere specifici programmi di armamento e un’elevata spesa per la difesa in generale. Il mantenimento di questi programmi può essere di importanza esistenziale per questi membri,33 che si opporranno a qualsiasi cambiamento di politica estera che richieda una modifica della struttura delle forze e delle acquisizioni del Pentagono. Al contrario, il costo della spesa per la difesa è distribuito su tutta la nazione. Questo interesse diffuso non incentiva fortemente particolari membri del Congresso a spingere per i tagli.
Inoltre, anche quando i membri ritengono necessario un cambiamento, le motivazioni politiche di parte possono prevalere sulle loro opinioni personali. È improbabile che i presidenti che cercano un cambiamento strategico ottengano la cooperazione del Congresso quando quest’ultimo è controllato dal partito di opposizione. Potrebbero tentare di superare l’opposizione del Congresso attraverso un massiccio dispendio di capitale politico e una disciplinata priorità della politica estera rispetto a tutti gli altri obiettivi, ma è improbabile che tentino una di queste strade a meno che il Paese non sia impegnato in una guerra politicamente rilevante. Allo stesso modo, è improbabile che il Congresso spinga un presidente verso una politica estera alternativa quando i due rami del governo sono uniti sotto il controllo dello stesso partito. I deputati non vogliono creare problemi politici alla Casa Bianca o perdere il favore del proprio partito. Anche quando il governo è unito, quindi, i presidenti devono spendere tempo e capitale politico per convincere il Congresso a sostenere il cambiamento, poiché è improbabile che il loro partito offra un sostegno incondizionato.
Anche quando il governo è unito, quindi, i presidenti devono spendere tempo e capitale politico per convincere il Congresso a sostenere il cambiamento, poiché è improbabile che il loro partito offra un sostegno incondizionato.
Nonostante queste fonti di resistenza, il Congresso può avere un forte incentivo a premere per il cambiamento quando il governo è diviso, soprattutto quando il partito di maggioranza del Congresso cerca il cambiamento e la Casa Bianca si oppone. In questo scenario, il Congresso sarà libero di imporre costi e vincoli al Presidente. Ciò è iniziato a verificarsi quando i Democratici hanno preso il controllo del Congresso nel 2006 e si sono agitati per modificare l’approccio di Bush alla guerra in Iraq, contribuendo così a gettare i semi dell’eventuale ritiro dell’America. Forzare un cambiamento su un presidente riluttante è difficile a causa della sfida dell’azione collettiva (soprattutto data la scarsa rilevanza della politica estera), delle complessità del processo legislativo e delle maggioranze di due terzi necessarie per superare il veto presidenziale. Tuttavia, i momenti di disunione del governo possono offrire opportunità per la promozione di nuove idee di politica estera che sfidano lo status quo.
Opinione pubblica e cambiamento
L’opinione pubblica a volte gioca un ruolo importante nel cambiamento strategico. Nel caso della guerra del Vietnam, un’ondata di indignazione pubblica è stata un fattore chiave per il ritiro degli Stati Uniti e per altri aggiustamenti strategici. Allo stesso modo, nel caso dell’11 settembre, l’opinione pubblica ha chiesto a gran voce di vendicarsi di Al-Qaeda. In questi casi, quando l’opinione pubblica si attiva e non può essere facilmente placata, il cambiamento diventa quasi inevitabile. In altri casi, tuttavia, l’opinione pubblica non è un fattore decisivo. Gli americani comuni hanno spesso un certo interesse e conoscenza di una questione, ma la loro opinione si rivela malleabile. Ad esempio, molti americani cercavano di contenere le spese per la difesa dopo la Seconda guerra mondiale e gli autori dell’NSC-68 temevano che il sentimento pubblico potesse impedire al Congresso di approvare livelli più elevati di spesa per la difesa. Tuttavia, l’amministrazione Truman riuscì a convincere l’opinione pubblica che la minaccia globale del comunismo richiedeva un forte incremento militare. Allo stesso modo, nei casi dell’allargamento della NATO e del fallito ritiro di Carter dalla Corea del Sud, gli americani erano in gran parte disinteressati e l’opinione pubblica ha svolto un ruolo limitato.
Gli studiosi indicano tre fattori principali che determinano l’opinione pubblica. Il primo è l’interesse personale. Il modello razionale-attivista ritiene che i cittadini formino opinioni ragionevoli in base ai loro interessi finanziari e di altro tipo.34 Questo modello presuppone che i cittadini abbiano il tempo e le risorse per seguire la politica e che i media che consumano siano equilibrati e accurati.
Il secondo fattore è l’affiliazione ai partiti. Nel modello dei partiti politici, i cittadini assumono le opinioni politiche dei principali gruppi a cui si affiliano, e negli Stati Uniti i partiti politici forniscono le affiliazioni più rilevanti. In questo caso, i cittadini non si formano accuratamente opinioni indipendenti, ma scelgono il partito che meglio rappresenta le loro opinioni e tendono ad assorbire molte delle opinioni espresse dai membri del loro partito.35 Mentre il Modello Razionale-Attivista impone ai cittadini l’onere di prendersi il tempo necessario per formarsi un’opinione su una serie di questioni, il Modello dei Partiti Politici richiede loro solo di scegliere l’affiliazione al proprio partito.
Il terzo fattore è l’influenza delle élite. La classica opera di Walter Lippman, Public Opinion, sostiene che la maggior parte degli americani trae le proprie opinioni politiche da “ciò che gli altri hanno riferito”.36 Questi “altri” hanno un interesse e una competenza particolari nel settore in questione e comunicano le loro opinioni al pubblico di massa. Questo gruppo di esperti è definito in senso lato come “élite politiche”, che comprendono politici, giornalisti, funzionari, attivisti especialisti37.
Questi tre motori dell’opinione pubblica spesso si sovrappongono. Ad esempio, quando i cittadini si formano un’opinione dopo aver ascoltato un discorso di un politico del partito che sostengono, il modello del partito politico e il modello dell’influenza delle élite operano contemporaneamente. Un politico può anche influenzare l’opinione dei cittadini che sostengono un altro partito politico, secondo il Modello razionale-attivista e il Modello dell’influenza d’élite.
Questi modelli indicano le circostanze in cui è probabile che l’opinione pubblica si attivi maggiormente e diventi un fattore importante di cambiamento strategico. Il modello razionale-attivista suggerisce che l’opinione pubblica si attiva quando una particolare politica ha un effetto diretto sull’interesse personale di gran parte del pubblico.38 Questo modello aiuta a spiegare l’ambiente politico permissivo dopo l’11 settembre, quando molti americani hanno percepito il terrorismo globale come una minaccia diretta alla loro sicurezza e quindi hanno sostenuto una risposta militare. L’amministrazione Truman offre un altro esempio della rilevanza del modello razionale-attivista. L’ansia iniziale di Truman che un aumento delle tasse per finanziare le raccomandazioni del NSC-68 avrebbe attivato l’opinione pubblica statunitense contro un rafforzamento militare indicava la sua consapevolezza della potenza dell’interesse personale come motore dell’opinione pubblica. La sua decisione di condurre una campagna per convincere gli americani che il comunismo rappresentava una minaccia reale alla loro sicurezza mostra anche come la messaggistica d’élite possa influenzare l’opinione pubblica.
Le politiche che non riguardano direttamente ampi segmenti della cittadinanza hanno meno probabilità di attivare l’opinione pubblica.39 La maggior parte degli americani ha poco tempo per la politica internazionale e i media si concentrano principalmente sulla politica e sugli eventi interni.40 Una questione di politica estera deve superare la barriera dell’attenzione per attivare l’opinione pubblica. Un tema di politica estera deve superare la barriera dell’attenzione per attivare l’opinione pubblica. Ciò accade quando c’è un dibattito di parte o quando i media ne discutono in modo significativo tra le élite politiche.41 Nei casi del previsto ritiro di Carter dalla Corea del Sud e dell’allargamento della NATO di Clinton, il tema non ha mai superato la barriera dell’attenzione.
Le questioni di parte possono superare la barriera dell’attenzione perché attirano l’attenzione dei media e perché è probabile che i cittadini fortemente di parte seguano ciò che dicono e fanno i loro rappresentanti di partito. Gli americani che si identificano fortemente con un partito politico – democratici liberali e repubblicani conservatori – hanno maggiori probabilità di rispondere accuratamente alle domande sulla politica estera.42 Questo dato suggerisce che la partigianeria può attivare l’opinione pubblica solo tra gli americani con una forte affiliazione di partito. Ad esempio, negli anni successivi all’11 settembre, alcuni leader democratici hanno messo in guardia contro l’invasione dell’Iraq, attivando così il segmento di pubblico con una forte inclinazione democratica, ma non un numero sufficiente di cittadini per fermare l’invasione del200343.
Anche i dibattiti tra le élite politiche – compresi i giornalisti, gli attivisti e gli specialisti – possono attivare l’opinione pubblica su questioni di politica estera, purché si svolgano alla luce del sole.44 I media svolgono un ruolo significativo nella formazione dell’opinione pubblica quando coprono questi dibattiti. Anche quando i media non dicono ai telespettatori esattamente cosa pensare, “hanno un successo sbalorditivo nel dire ai lettori cosa pensare”.45 Ad esempio, la discussione d’élite nei mass media ha giocato un ruolo chiave nella formazione dell’opposizione alla guerra del Vietnam. Come disse Nixon, “i mezzi di informazione americani erano arrivati a dominare l’opinione pubblica nazionale circa il suo scopo e la sua condotta…”. . . Nei notiziari televisivi di ogni sera e nei giornali di ogni mattina la guerra veniva raccontata battaglia per battaglia… Più che mai, la televisione mostrava le terribili sofferenze umane e il sacrificio della guerra”.46
La psicologia del cambiamento
Per realizzare un cambiamento importante in politica estera è necessario che molti attori del processo modifichino una serie di convinzioni. Il cambiamento strategico spesso implica la priorità di alcuni valori rispetto ad altri, l’adozione di nuove spiegazioni per un problema o persino la modifica delle ipotesi di base sul funzionamento del mondo. Significa ammettere almeno qualche errore. Questo rende il cambiamento psicologicamente scomodo per molti, ed estremamente scomodo per alcuni. Come chiunque altro, i politici e gli esperti possono fare di tutto per far sì che i fatti si conformino alle loro teorie su un problema, piuttosto che adeguare queste teorie di fronte a nuove prove. La politica, il carrierismo e la socievolezza umana aggravano questo effetto psicologico.
I politici, ad esempio, cercano normalmente di essere coerenti nel tempo con i loro impegni e le loro opinioni politiche, per evitare di essere accusati di fare le bizze o di non sostenere nulla. I leader politici possono ammettere e ammettono gli errori, ma farlo può essere costoso in un ambiente politico competitivo. Quando c’è rancore di parte sulla politica estera, è difficile per i politici cambiare rotta perché così facendo si esporrebbero agli attacchi “te l’avevo detto” degli avversari politici. Ciò suggerisce che la partigianeria che domina oggi la politica americana renderà più difficile per i singoli presidenti cambiare la politica estera rispetto alle epoche precedenti.
Gli esperti di politica estera, inoltre, a volte fanno di tutto per evitare di ammettere gli errori per motivi pratici, soprattutto perché farlo non favorisce quasi mai la carriera. I più giovani, meno impegnati nelle posizioni dello status quo, sono potenziali sostenitori del cambiamento, ma il carrierismo può facilmente smorzare la loro volontà di agire come tali se ciò significa affrontare interessi potenti a Washington o all’estero. Poiché l’élite della politica estera è separata da altre comunità professionali e relativamente distaccata dalla politica dei gruppi di interesse e dei partiti, i suoi membri sono incentivati a mantenere buoni rapporti tra loro per conservare il posto di lavoro mentre entrano ed escono dal governo.
Questa tendenza alla stasi è aggravata dalla socievolezza umana, che nella maggior parte dei circoli di politica estera incoraggia il conformarsi allo status quo.
Questa tendenza alla stasi è aggravata dalla socievolezza umana, che nella maggior parte dei circoli di politica estera incoraggia il conformismo allo status quo. Il conformismo ha dei lati positivi: l’attuazione della politica estera è uno sforzo complesso e cooperativo, e sarebbe disastroso se ognuno cercasse di perseguire le proprie preferenze personali. Ma una forte inclinazione allo status quo, dovuta al desiderio di accettazione sociale, è controproducente in situazioni in cui c’è una seria necessità di cambiamento. Questo potrebbe essere uno dei motivi per cui è stato necessario un outsider, Trump, per rompere il tabù di criticare lo sforzo degli Stati Uniti per sconfiggere i Talebani e ricostruire l’Afghanistan.
Per queste ragioni, se cambiare rotta richiede di affrontare gli errori del passato e di superare la sensazione di aver perso tempo, risorse o personale, allora è improbabile che il cambiamento avvenga, almeno finché le persone che hanno commesso quegli errori restano a capo della politica. Sono necessarie prove schiaccianti e credibili per convincere coloro che sono impegnati in una politica esistente a cambiare le loro opinioni, e raccogliere queste prove può richiedere molto tempo.
La fallacia del costo del sole è stata molto studiata nel mondo degli affari. È ampiamente riconosciuto che gli investitori e i manager hanno una forte tendenza irrazionale a mantenere la rotta una volta effettuato un particolare investimento di tempo, denaro o sforzo, anche quando le perdite aumentano. Il problema si aggrava con l’aumentare dell’entità delle perdite: maggiori sono i costi irrecuperabili, maggiore è lo sforzo che si tende a fare per difendere la vecchia rotta. In politica estera, alcuni studiosi hanno usato l’avversione alle perdite per spiegare il motivo per cui gli Stati Uniti hanno mantenuto la rotta in Vietnam anche quando le prove del fallimento siaccumulavano47.
Questa psicologia sembra essere stata in gioco nella gestione da parte del Dipartimento della Difesa del programma di addestramento delle forze di sicurezza nazionali afghane nel decennio precedente al ritiro degli Stati Uniti del 2021. Per anni, il Pentagono ha insistito sul fatto che stava facendo progressi nell’addestramento di queste forze, ma questi rapporti si sono rivelati molto esagerati. Gli ufficiali che li hanno redatti e approvati hanno probabilmente cercato di assicurarsi che i programmi potessero continuare, per evitare che la mancanza di progressi venisse alla luce.48 Più soldi si spendevano, più era importante che il programma avesse successo. Nessuno al Dipartimento della Difesa ha deciso di spendere miliardi per un programma che non ha avuto successo, tanto meno di dissimulare i risultati ai politici e all’opinione pubblica. Ma una volta che la fallacia del costo del sole si è imposta, è diventato difficile cambiare rotta e si è tentati di esagerare i progressi e minimizzare le battute d’arresto.
Il risultato è che il cambiamento strategico ha maggiori probabilità di essere realizzato se inquadrato come un modo per prevenire le perdite dello status quo piuttosto che per raccogliere i guadagni del cambiamento.
Il risultato è che è più probabile che il cambiamento strategico si realizzi se inquadrato come un modo per prevenire le perdite rispetto allo status quo piuttosto che per raccogliere guadagni dal cambiamento. È improbabile che una nuova strategia che offra la possibilità di evidenti guadagni a fronte del rischio di evidenti perdite convinca i politici a cambiare opinione e ad abbracciarla. Ma un approccio nuovo che riduce il rischio di perdite, anche se preclude l’opportunità di guadagni, può trovare un pubblico più ricettivo. Gli oppositori del cambiamento, da parte loro, possono avere successo concentrandosi sul rischio di perdite, che siano di sicurezza, potere, ricchezza o prestigio. In questo modo possono bloccare una proposta di cambiamento, anche se è probabile che porti a dei guadagni in questi stessi settori.
Quanto è potente il Presidente?
Molti pensano che il Presidente goda di ampi poteri in materia di politica estera e di sicurezza nazionale, una visione resa popolare da Arthur M. Schlesinger Jr. che negli anni ’70 coniò il termine “presidenza imperiale”.49 Ma studi recenti dipingono un quadro più complesso dei poteri del Presidente in materia di politica estera, che molti di coloro che hanno prestato servizio nell’esecutivo potrebbero trovare più vicino alla realtà. Pochi contesterebbero il fatto che il Presidente abbia poteri molto più ampi nell’agire “al di là della riva del mare” che a livello nazionale. Ma anche in politica estera, la Casa Bianca opera sotto molti vincoli legali, procedurali e soprattutto politici.50 Il Congresso, i gruppi di interesse, le burocrazie governative e l’opinione pubblica possono influenzare la politica e inibire le ambizioni presidenziali. Il diritto di dirigere la potenza militare del Pentagono rende i presidenti estremamente potenti, ma la loro latitudine nell’uso di questa capacità militare (come di qualsiasi altra capacità) rimane circoscritta.
Ancora più importante, il potere del presidente è notevolmente ridotto quando si tratta di cambiamenti strategici su larga scala. Una cosa è poter inviare forze in battaglia con un tratto di penna, un’altra è modificare l’approccio e la posizione fondamentale degli Stati Uniti nel mondo. Il livello di difficoltà aumenta con il livello di ambizione; più grande è il cambiamento strategico, più i vincoli del presidente si avvicinano a quelli della politica interna. L’idea di lunga data che esistano “due presidenze ”51– una per la politica estera e una per la politica interna – comincia a crollare.
Il più delle volte, la Casa Bianca vuole tenere gran parte del capitale politico in riserva per le iniziative di politica interna, e la squadra di politica estera di un presidente entrante probabilmente scoprirà che le sue idee passano in secondo piano rispetto alle questioni interne.
Ogni presidente entra in carica con un certo capitale politico, acquisito grazie alla campagna elettorale, all’esperienza passata, al sostegno di gruppi chiave e ad altri fattori. Il più delle volte, la Casa Bianca vuole tenere gran parte di questo capitale politico in riserva per le iniziative di politica interna, ed è probabile che la squadra di politica estera di un presidente entrante scopra che le sue idee passano in secondo piano rispetto alle questioni interne. Una crisi potrebbe contribuire a focalizzare l’attenzione sulle carenze della strategia prevalente, ma anche in questo caso il presidente probabilmente non spenderà la maggior parte del suo capitale politico in politica estera. Inoltre, se le possibilità di cambiare con successo la politica estera non sono elevate, il presidente potrebbe non essere disposto a spendere il capitale politico in primo luogo, per evitare che il fallimento diminuisca la sua statura e renda più difficile andare avanti su altri fronti.
Inoltre, per i presidenti moderni il tempo a disposizione per agire è piuttosto limitato. L’orologio inizia a ticchettare al momento dell’insediamento e la maggior parte delle amministrazioni ritiene di avere poco tempo per realizzare molte cose. Nel secondo anno di mandato si profilano le elezioni di metà mandato e un anno dopo inizia la campagna elettorale per le elezioni presidenziali. Anche se questo può aiutare a concentrare le menti sulle priorità principali, i cambiamenti di politica estera raramente sono priorità principali e i cambiamenti strategici di vasta portata richiedono tempo.52 Il ritiro dell’amministrazione Biden dall’Afghanistan è stato possibile in parte perché è avvenuto così presto nel corso del mandato presidenziale.
Un grande cambiamento nella politica estera
Se le lezioni precedenti indicano qualcosa, indicano quanto possa essere difficile realizzare grandi cambiamenti nella politica estera degli Stati Uniti. Ad esempio, le amministrazioni che si sono succedute hanno lottato per spostare la politica estera verso l’Asia, un cambiamento che sia le amministrazioni repubblicane che quelle democratiche hanno abbracciato da oltre un decennio. Una spiegazione comune per la difficoltà nel realizzare questo cambiamento è che gli eventi duraturi nel mondo, in particolare i conflitti in Europa e in Medio Oriente, lo hanno impedito. Da questo punto di vista, le forze esogene – ad esempio i terroristi, gli Stati falliti, il programma di armi nucleari dell’Iran o l’aggressione russa – hanno costretto gli Stati Uniti a rimanere una potenza militare a livello mondiale. Non c’è dubbio che l’ambiente globale inevitabilmente modella e condiziona la politica e la strategia estera degli Stati Uniti, ma questo rapporto mostra che questi effetti esterni non raccontano l’intera storia. Gli eventi d’oltreoceano sono filtrati da un sistema ampio e complesso che governa l’elaborazione della politica estera degli Stati Uniti ed è intellettualmente, politicamente e burocraticamente codificato per rispondere con forza alle crisi in molte parti del mondo. Questo sistema è intrinsecamente resistente al cambiamento.
L’amministrazione Biden ha sempre sostenuto che la sua priorità è l’Asia e che la Cina è la “minaccia che incalza” l’esercito statunitense, eppure ha speso un enorme capitale politico, finanziario e militare per sostenere l’Ucraina e Israele nei rispettivi conflitti. È chiaro che gli eventi in entrambi i Paesi hanno giocato un ruolo indispensabile, ma anche le forze istituzionali, ideologiche e psicologiche più profonde descritte in questo rapporto.
In Europa, la calma sperata dai funzionari di Biden è stata infranta da una crisi esterna. Tuttavia, la risposta dell’amministrazione a questa crisi è stata quella di espandere il ruolo di sicurezza dell’America in Europa, creando così un nuovo status quo in cui gli Stati Uniti hanno un impegno profondo e costoso nei confronti dell’Ucraina. La crisi in sé non è stata provocata dall’America e la risposta dell’amministrazione Biden è stata plasmata da una complessa serie di fattori, tra cui la convinzione del Presidente che il mondo sia diviso tra autocrazia e democrazia e il suo desiderio di rassicurare gli alleati europei sull’impegno degli Stati Uniti per la loro sicurezza. Ma la strategia americana nei confronti della guerra in Ucraina è stata anche una conseguenza di forze che questo rapporto esamina, tra cui il gruppo di esperti europei a Washington che per decenni hanno cercato di portare l’Ucraina in Occidente, si sono fortemente identificati con gli alleati americani della NATO e si sono opposti a cambiare il modus operandi della NATO, come la sua politica delle porte aperte e la sua dichiarata aspirazione ad ammettere l’Ucraina in futuro.53
In Medio Oriente, l’amministrazione ha superato con successo la resistenza interna ed esterna a porre fine al coinvolgimento degli Stati Uniti nella guerra in Afghanistan, ma su altre questioni è andata nella direzione opposta rispetto alle intenzioni iniziali. Un’amministrazione che un tempo cercava di ridimensionare il ruolo degli Stati Uniti nella regione, ora propone che gli Stati Uniti firmino un trattato di sicurezza vincolante con l’Arabia Saudita. Come nel caso dell’Ucraina, le dinamiche alla base di questa politica sono ovviamente complesse, ma l’inversione di rotta è fortemente indicativa delle forze inerziali esaminate in questo rapporto.
Un’amministrazione che un tempo cercava di ridimensionare il ruolo degli Stati Uniti nella regione, ora propone che gli Stati Uniti firmino un trattato di sicurezza vincolante con l’Arabia Saudita.
Nel corso degli ultimi vent’anni, gli Stati Uniti hanno costruito un insieme molto significativo di interessi mediorientali all’interno e all’esterno del governo americano, in gran parte grazie alla guerra globale al terrorismo. Gli esperti del Medio Oriente tendono a considerare la loro regione come parte integrante della politica estera statunitense. Naturalmente sviluppano raccomandazioni politiche che presuppongono o rafforzano la centralità della regione nella più ampia strategia statunitense e spesso attribuiscono un valore immenso alle partnership di sicurezza dell’America nella regione. Le forze inerziali che ne derivano contribuiscono a spiegare la riluttanza dell’amministrazione a ridurre le forze statunitensi nel Comando centrale, a parte il ritiro dall’Afghanistan, il suo profondo impegno ad aiutare la risposta militare del governo israeliano agli attacchi terroristici di Hamas del 7 ottobre 2023 e il suo entusiasmo per un trattato di sicurezza con l’Arabia Saudita. A differenza del caso della guerra in Ucraina, in cui i fattori morali e ideologici spiegano una parte della politica statunitense, la politica mediorientale dell’amministrazione Biden è meglio compresa come conseguenza di opinioni burocratiche, congressuali e pubbliche istituzionalizzate sulla regione.
I fattori esaminati in questo rapporto, quindi, giocano un ruolo nella spiegazione delle difficoltà che l’amministrazione ha incontrato nel rivolgere la propria attenzione all’Asia. Ciò non significa che la Casa Bianca di Biden abbia attribuito una bassa priorità all’Asia: al contrario, l’amministrazione ha lavorato energicamente per rafforzare le alleanze e i partenariati nell’Indo-Pacifico, vincere la competizione tecnologica tra Stati Uniti e Cina e, dal 2023, rafforzare i contatti diplomatici con Pechino. Ma le risorse statunitensi, compresi il tempo e l’energia del presidente e dei suoi più alti funzionari di politica estera, sono state spesso dirottate altrove. Queste distrazioni sarebbero state maggiori se non fosse che al Congresso esiste un sostegno bipartisan per contrastare la Cina e che il Dipartimento della Difesa ha ormai considerato la Cina come il suo principale avversario da quasi un decennio.
Gli ostacoli al cambiamento, e la sfida di superarli, sono stati ancora più chiari durante i precedenti quattro anni sotto Trump. Durante il suo mandato, Trump ha cercato di ridurre la misura in cui gli Stati Uniti si sono fatti carico della sicurezza europea e si sono impegnati in importanti operazioni militari in Medio Oriente. In entrambi i casi, ha incontrato una forte resistenza da parte della burocrazia della sicurezza nazionale, del Congresso e delle élite della politica estera.
Trump ha promesso di adottare un approccio più aggressivo se sarà eletto presidente nel 2024. Come hanno sottolineato media e think tank, potrebbe cercare di sostituire un gran numero di dipendenti pubblici con fedelissimi del partito.54 Come discusso in precedenza, tuttavia, questo metodo ha dei limiti reali. Il processo di sostituzione di un gran numero di dipendenti pubblici non solo richiederebbe tempo e sarebbe disordinato, ma porterebbe anche a burocrazie meno efficaci. Se una seconda amministrazione Trump dovesse sostituire 500 manager di medio livello dell’intelligence con 500 manager di medio livello provenienti dalle aziende americane, la raccolta e l’analisi dell’intelligence statunitense ne risentirebbero probabilmente per la maggior parte del suo mandato. Alla fine, i sostituti potrebbero imparare il loro lavoro. Nel processo, però, potrebbero acquisire alcune delle stesse opinioni dei loro predecessori. Inoltre, l’amministrazione Trump potrebbe faticare a trovare funzionari di alto e medio livello che condividano l’impegno a cambiare la politica estera degli Stati Uniti in un modo particolare. Gli esperti di politica estera allineati a Trump sono divisi in diversi campi di politica estera in competizione traloro55, quindi anche se la sua amministrazione fosse in grado di trovare e installare nel governo un gran numero di funzionari di politica estera fedeli al presidente e burocraticamente competenti, potrebbero non essere in grado di adottare un programma coerente di cambiamento strategico.
In definitiva, è possibile che la strategia americana sia influenzata almeno tanto dal contesto interno quanto dalle pressioni del contesto globale, in particolare dalle forze istituzionali, politiche e intellettuali che agiscono sull’establishment della politica estera. Solo il più convinto cultore della scuola neorealista delle relazioni internazionali negherebbe che gli affari interni influenzino la politica estera. Ma i fattori interni possono essere ancora più importanti di quanto gli studiosi abbiano pensato. Senza grandi scosse al sistema, gli eventi esterni sono filtrati attraverso il paradigma strategico esistente, che diversi studiosi del periodo successivo alla Guerra Fredda hanno chiamato egemonia o primato liberale, e attraverso le istituzioni politiche e burocratiche che hanno sostenuto tale paradigma.56 Con la pianificazione, la volontà politica, le giuste condizioni e la giusta crisi, tuttavia, il cambiamento è possibile, anche se richiede tempo.
Note
1Charles F. Hermann, “Cambiare rotta: When Governments Choose to Redirect Foreign Policy”, International Studies Quarterly 34, n. 1 (marzo 1990): 13.
3Michael J. Mazarr, Leap of Faith:Hubris, Negligence, and America’s Greatest Foreign Policy Tragedy (New York: PublicAffairs, 2019).
4Stephen Ross, “The Economic Theory of Agency: The Principal’s Problem”, The American Economic Review, 63, n. 2, (1973), 134-39, http://www.jstor.org/stable/1817064.
7Joel D. Aberbach e Bert A. Rockman, “Clashing Beliefs within the Executive Branch: The Nixon Administration Bureaucracy”, American Political Science Review 70, no. 2, (1976); Richard L. Cole e David A. Caputo, ”Presidential Control of the Senior Civil Service: Assessing the Strategies of the Nixon Years”, American Political Science Review 73, no. 2, (1979): 399-409; Jim Eisenmann, “Trump’s Plan to Gut the Civil Service”, Lawfare(blog), 8 dicembre 2020; e Jonathan Lemire, “Trump White House Sees ‘Deep State’ Behind Leaks, Opposition”, Associated Press, 14 gennaio 2017, https://apnews.com/363ccdba946548bfa4b855ae38d1797a/Trump-White-House-sees-%22deep-state%22-behind-opposition-leaks.
8Graham Allison, Essence of Decision:Explaining The Cuban Missile Crisis (Londra: Pearson PTR, 1999), 145.
9Allison, Essence of Decision, 153.
10Allison, Essence of Decision, 176-177.
11Suglisforzi dell’NSC per controllare le burocrazie si veda John Gans, White House Warriors:How the National Security Council Transformed the American Way of War (New York, NY: Norton, 2019).
12Terry Moe, “The Politics of Bureaucratic Structure”, in John Chubb e Paul Peterson, Can the Government Govern?(Washington D.C.: Brookings Institution Press, 1989).
16Andrew Rudalevige, Managing the President’s Program:Presidential Leadership and Legislative Policy Formulation (Princeton, NJ: Princeton University Press, 2002); David E. Pozen, “The Leaky Leviathan: Why the Government Condemns and Condones Unlawful Disclosures of Information”, Harvard Law Review (2013).
17Marc Ambinder e D.B. Grady, Deep State:Inside the Government Secrecy Industry (Hoboken: Wiley, 2013); Mike Lofgren, The Deep State:The Fall of the Constitution and the Rise of a Shadow Government (New York, NY: Penguin, 2016), 34-36; Peggy Noonan, “The Deep State”, Wall Street Journal, 28 ottobre 2013, https://blogs.wsj.com/peggynoonan/2013/10/28/the-deep-state.
18Rebecca Ingber, Bureaucratic Resistance and the National Security State (Iowa City: U. of Iowa College of Law, 2018).
19David Lewis, The Politics of Presidential Appointments:Political Control and Bureaucratic Performance (Princeton, NJ: Princeton University Press, 2008).
24Ellen Collier e Richard Grimmett, “The War Powers Resolution: Concepts and Practice“, Congressional Research Service, R42699 (2019), 64; Mark Landler e Peter Baker, ‘Trump Vetoes Measure to Force End to U.S. Involvement in Yemen War’, New York Times, 16 aprile 2019, https://www.nytimes.com/2019/04/16/us/politics/trump-veto-yemen.html.
26William Howell e Jon Pevehouse, While Dangers Gather:Congressional Checks on Presidential War Powers (Princeton, NJ; Princeton University Press, 2007); Howell e Pevehouse, “Presidents, Congress and the Use of Force”, International Organization 59, no. 1 (Winter 2005), 209-232; James M. Lindsay, Congress and the Politics of U.S. Foreign Policy (Johns Hopkins University Press, 1994); James M. Lindsay, “Congress, Foreign Policy, and the New Institutionalism”, International Studies Quarterly 38, no. 2 (1994): 281-304; David Johnson, Congress and the Cold War (Cambridge University Press: 2006).
27Jeremy Rosner, The New Tug-of-War: Congress, the Executive Branch, and National Security (Washington, DC: Carnegie Endowment for International Peace, 1995); Rebecca Hersman, Friends and Foes:How Congress and the President Really Make Foreign Policy (Washington, D.C.: Brookings, 2001).
28Douglas Kriner, After the Rubicon:Congress, Presidents, and the Politics of Waging War (Chicago, IL: University of Chicago Press, 2010).
29Peruna difesa della supremazia presidenziale in materia di guerra e pace, si veda John Yoo, The Powers of War and Peace:The Constitution and Foreign Affairs after 9/11 (Chicago, IL: University of Chicago Press, 2005). Per una difesa dell’autorità del Congresso si veda Harold Koh, The National Security Constitution:Sharing Power After the Iran-Contra Affair (New Haven, CT: Yale University Press, 1990).
30Douglas Kriner, “Presidents, Domestic Politics, and the International Arena” in George Edwards e William Howell, The Oxford Handbook of the American Presidency (Oxford, U.K.: Oxford University Press, 2009).
31Douglas L. Kriner, After the Rubicon(Chicago, IL: The University of Chicago, 2010), 7.
32Vedilo scettico del potere del Congresso negli affari esteri: Barbara Hinkley, Less than Meets the Eye (Chicago, IL: University of Chicago Press, 1994).
33Rebecca Thorpe, The American Warfare State:The Domestic Politics of Military Spending (Chicago, IL: University of Chicago Press, 2014).
34Robert S. Erikson e Kent L. Tedin, American Public Opinion:Its Origins, Content, and Impact, 10th edition (New York: Routledge, 2019), 19.
35Erikson e Tedin, American Public Opinion, 20.
36WalterLippmann, Public Opinion, Reissue edition (New York: Free Press, 1997), 59.
37John R. Zaller, The Nature and Origins of Mass Opinion, (Cambridge, UK: Cambridge University Press, 1992), 6.
38Philip J. Powlick e Andrew Z. Katz, “Defining the American Public Opinion/Foreign Policy Nexus”, Mershon International Studies Review 41, No. 1, (maggio 1998), 36.
39Powlick e Katz, “Defining the American Public Opinion/Foreign Policy Nexus”, 36.
40Powlick e Katz, “Defining the American Public Opinion/Foreign Policy Nexus”, 31.
41Zaller, La natura e le origini dell’opinione di massa, 97.
49Arthur M. Schlesinger Jr., The Imperial Presidency (Boston: Houghton Mifflin, 1973). Si veda anche Bruce Ackerman, The Decline and Fall of the American Republic (Cambridge: Harvard University Press, 2010), 87-116; e Martin S. Flaherty, “The Most Dangerous Branch”, Yale Law Journal 105, no. 7 (maggio 1996): 1725, 1732.
50Scott C. James, “Historical Institutionalism, Political Development, and the Presidency”, in George C. Edwards III e William G. Howell, The Oxford Handbook of the American Presidency (Oxford: Oxford University Press, 2009).
51Douglas Kriner, “Presidents, Domestic Politics, and the International Arena”, in George Edwards e William Howell, The Oxford Handbook of the American Presidency (Oxford, U.K.: Oxford University Press, 2009).
52Come alcune delle raccomandazioni più ambiziose contenute in Barry Posen, Restraint:A New Foundation for U.S. Grand Strategy Restraint (Ithaca, NY: Cornell Studies in Security Studies, 2014).
53Christopher S. Chivvis, “America Needs a Realistic Ukraine Debate”, in Survival: February-March 2024 (Routledge, 2024).
56Stephen M. Walt, L’inferno delle buone intenzioni:America’s Foreign Policy Elite and the Decline of U.S. Primacy (New York: Farrar, Straus and Giroux, 2018); e Barry R. Posen, Restraint:A New Foundation for U.S. Grand Strategy(Ithaca, NY: Cornell University Press, 2015).
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Qui sotto illustriamo le posizioni sostenute dai tre principali paesi (Russia, Cina, Stati Uniti) al vertice ASEAN tenutosi sino a ieri, 11 ottobre. Al netto delle esigenze di comunicazione, si riescono comunque ad individuare le diversità di impostazione offerte. Sarà interessante riflettere sulle implicazioni e sul reale interesse dei paesi europei e dell’Italia nel presentarsi in un contesto così cruciale al carro e stretti dai vincoli della NATO. Se possibile vedremo di illustrare le posizioni degli altri paesi più importanti che si affacciano in quell’area. Giuseppe Germinario
Abbiamo completato i nostri incontri nell’ambito del 19° Vertice dell’Asia orientale. Il Presidente della Russia Vladimir Putin mi ha incaricato di rappresentarlo a questo evento.
Le discussioni hanno dimostrato che i nostri colleghi occidentali, che sono partner dell’ASEAN, proprio come la Russia, la Cina e l’India – questi colleghi occidentali hanno cercato di minare l’architettura economica e di sicurezza multilaterale che si è sviluppata nel corso di decenni con l’ASEAN al centro e che ha dimostrato la sua rilevanza ed efficacia.
Tuttavia, oggi è evidente che gli Stati Uniti e i loro alleati hanno deciso di attirare la regione Asia-Pacifico nella sfera di interessi della NATO creando tutte queste associazioni militari e politiche ristrette ed esclusive a guida statunitense. Tra queste c’è la troika formata da Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud. C’è anche il trio Stati Uniti, Giappone e Filippine. Per l’Indo-Pacifico, hanno creato il Quad, che comprende Australia, Nuova Zelanda, Corea del Sud e Giappone. Tutto ciò non favorisce gli sforzi collettivi, mentre frammenta questo spazio comune dividendolo in amici e nemici.
Abbiamo evidenziato che questa politica occidentale può portare alla militarizzazione della regione, minacciando anche la stabilità e lo sviluppo sostenibile nella parte asiatica del nostro continente condiviso.
La Russia ha ribadito il suo incrollabile sostegno ai Paesi dell’ASEAN nei loro sforzi per preservare la pace e garantire una cooperazione paritaria con tutti i partner dell’ASEAN.
L’Occidente vuole fare dell’ASEAN il suo partner principale. E lo scopo principale di questa partnership sarebbe quello di contrastare gli interessi di Russia e Cina. Per quanto riguarda le relazioni della Russia con l’ASEAN, da oltre tre decenni stiamo costruendo la nostra cooperazione strategica con questa associazione sulla base di un’agenda indipendente e libera da qualsiasi considerazione politica momentanea. L’anno prossimo ricorrerà il 20° anniversario del primo vertice Russia-ASEAN e dell’adozione della Dichiarazione congiunta sul partenariato progressivo e globale.
Invece di utilizzare gli eventi organizzati nell’ambito del Vertice dell’Asia orientale per perseguire interessi politici acquisiti, la Russia ha optato per la promozione di iniziative in diversi ambiti, tra cui la risposta alle pandemie, i contatti interpersonali, compreso il turismo, e il sostegno al volontariato. Offriamo percorsi pratici per lavorare insieme che possono portare benefici a tutti i partecipanti e sosteniamo una cooperazione paritaria e reciprocamente vantaggiosa.
Durante questo incontro, abbiamo presentato una proposta per lavorare insieme sullo sviluppo dei territori remoti. Si tratta di un tema importante per noi, come per molti Paesi dell’ASEAN.
Durante l’incontro odierno, abbiamo esposto e diffuso la nostra prospettiva generale in materia di connettività culturale e sociale, che è diventata particolarmente rilevante considerando la diffusione di ideologie distruttive e i tentativi di offuscare ed eliminare i valori tradizionali.
Alcune idee che abbiamo ascoltato dai nostri colleghi dell’ASEAN sul rafforzamento dell’architettura regionale possono essere considerate complementari alla ben nota iniziativa della Russia di creare un’architettura di sicurezza indivisibile e di sviluppo equo per l’Eurasia.
L’Associazione ha ospitato per la terza volta al Vertice dell’Asia orientale il Segretario generale dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai. Egli ha avanzato una proposta positiva per promuovere contatti più stretti tra la SCO e l’ASEAN in vari ambiti rilevanti per i Paesi coinvolti. Abbiamo potuto constatare che la SCO e l’ASEAN sono partner naturali non solo in termini di geografia, ma anche considerando il fermo impegno dei Paesi membri nei confronti dei principi di cooperazione sovrana e reciprocamente vantaggiosa, tenendo conto degli interessi reciproci.
Abbiamo accolto con favore il fatto che diversi Paesi ASEAN vogliano stringere legami più stretti con i BRICS. Oggi questa struttura è una delle pietre miliari di un ordine mondiale multipolare. Tra pochi giorni, Kazan ospiterà il Vertice dei BRICS, che sarà un grande evento internazionale. Diversi Paesi dell’ASEAN sono stati invitati a parteciparvi e hanno accettato l’invito.
Non abbiamo dubbi che gli approcci che sviluppiamo all’interno dei BRICS per affrontare varie questioni di attualità possano servire anche ai partecipanti ai vertici dell’Asia orientale, in particolare agli Stati membri dell’ASEAN.
Domanda: Cosa o chi ha impedito l’adozione della dichiarazione finale?
Sergey Lavrov: In poche parole, la dichiarazione finale non è stata adottata a causa dei persistenti tentativi di Stati Uniti, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda di trasformarla in una dichiarazione puramente politica, contrariamente alla prassi decennale dei vertici dell’Asia orientale, che si riduce a impedire la saturazione delle dichiarazioni con narrazioni geopolitiche conflittuali. Negli ultimi anni, queste dichiarazioni si sono concentrate sulla cooperazione pratica in ambito economico, commerciale, degli investimenti e umanitario. È evidente a tutti che i tentativi di politicizzare queste sfere di lavoro sono controproducenti.
Lo scorso anno abbiamo adottato il Piano d’azione del Vertice dell’Asia orientale. Quest’anno abbiamo presentato una serie di proposte pratiche volte a realizzare progetti nei settori previsti dal piano.
L’Occidente ha sistematicamente ostacolato queste azioni, pretendendo che ci assumessimo la responsabilità di tutti i peccati capitali in relazione agli sviluppi in Ucraina, dove gli Stati Uniti e i loro alleati hanno provocato un colpo di Stato e da allora sostengono le attività del regime criminale di Kiev. Questo è il motivo principale. Le nazioni dell’ASEAN si rendono perfettamente conto che questo non può promuovere la cooperazione nel formato dei vertici dell’Asia orientale.
Domanda: Quando commentando i risultati della riunione dei ministri degli Esteri Russia-ASEAN tenutasi qui, in Laos, nel luglio 2024, lei ha affermato che l’Associazione ha sostenuto l’idea e apprezzato la promozione da parte della Russia di un’architettura centrata sull’ASEAN nella regione. Quali azioni dell’ASEAN la Russia apprezza nel contesto delle sue preoccupazioni regionali?
Sergey Lavrov: Per il ruolo centrale dell’Associazione. Siamo convinti che il rafforzamento del suo ruolo centrale, che è un compito difficile quando i nostri colleghi occidentali cercano di dividere l’ASEAN, richieda una grande volontà politica. I Paesi dell’ASEAN ce l’hanno di sicuro.
Domanda: Poco prima del vertice, il nuovo primo ministro giapponese ha proposto di creare un analogo asiatico della NATO. Ha affermato che altrimenti sarebbero possibili nuovi conflitti nella regione. Cosa potrebbe minacciare la regione e cosa si può fare per respingere queste minacce?
Sergey Lavrov: Qualsiasi forma di militarizzazione e qualsiasi proposta relativa a nuovi blocchi militari è gravata dal rischio di scontri, che possono evolvere in una “fase calda”.
Per quanto riguarda il Giappone, siamo seriamente preoccupati per la sua ri-militarizzazione. Avendo dimenticato le lezioni della Seconda guerra mondiale, le autorità giapponesi hanno dichiarato di aver aumentato le spese per la difesa e di aver incrementato le proprie dottrine di base con una capacità di attacco preventivo.
Il Giappone sta aumentando il suo coinvolgimento nei piani di difesa balistica globale degli Stati Uniti, con il possibile dispiegamento in Giappone di missili lanciati da terra a raggio intermedio e più corto. In generale, si sta preparando a rafforzare la propria capacità militare sia in ambiti tradizionali che in nuovi ambiti, come il cyberspazio e lo spazio esterno.
Il Giappone sta partecipando a un maggior numero di esercitazioni navali con gli Stati Uniti e altri Paesi della NATO. Si sta lavorando per allineare i formati dei blocchi ristretti. Uno è il partenariato Giappone-Corea del Sud-Stati Uniti e l’altro è la piattaforma Stati Uniti-Giappone-Filippine, in via di costituzione.
Il Giappone ha dichiarato apertamente di essere pronto a partecipare a missioni nucleari congiunte con gli Stati Uniti e di essere interessato ad aderire al progetto AUKUS. Questo comporta rischi evidenti. Ne discutiamo regolarmente all’AIEA.
Questo chiaro rifiuto di abbandonare la via dello sviluppo pacifico è per noi motivo di preoccupazione. Potrebbe portare al collasso dell’attuale architettura globale e alla sua sostituzione con l'”ordine basato sulle regole”, di cui il Primo Ministro giapponese ha parlato a lungo durante il nostro incontro di oggi. Questa politica è attivamente e apertamente incoraggiata dagli Stati Uniti.
L’ambasciatore statunitense in Giappone ha recentemente dichiarato che gli Stati Uniti stavano pensando di creare una “coalizione di difesa commerciale” di circa 50 Paesi della regione Asia-Pacifico per “isolare Pechino economicamente”. In altre parole, l’aggressività e il confronto non sono incoraggiati solo nella sfera politico-militare, ma anche in quella economica, ostacolando così l’idea universale di promuovere formati inclusivi di cooperazione economica reciprocamente vantaggiosa.
Domanda:
Sergey Lavrov: Questo argomento non è stato sollevato nelle sessioni plenarie.
Come ho detto, alcuni Paesi dell’ASEAN sono stati invitati al Vertice BRICS di Kazan del 22-24 ottobre. Hanno accettato l’invito. Quindi, li vedrete tutti lì.
Domanda: Anche prima di questo vertice, la stampa statunitense scriveva che gli Stati Uniti avrebbero cercato di mettere in primo piano il conflitto nel Mar Cinese Meridionale e quello in Ucraina. Ci sono riusciti?
Sergey Lavrov: Ci hanno provato, ma il tentativo non ha avuto alcuna risposta tra i membri dell’ASEAN. I partecipanti del gruppo filo-occidentale, tra cui Giappone, Nuova Zelanda e Australia, hanno fatto eco alla retorica statunitense, ma ciò non ha avuto alcun effetto effettivo sulla discussione.
Nella vita reale, gli Stati Uniti stanno costruendo alleanze politico-militari di tipo chiuso. Questa politica mira a contenere sia la Cina che la Russia.
La questione del Mar Cinese Meridionale è stata sollevata molto spesso nelle dichiarazioni dei partecipanti. Il premier cinese Li Qiang, che ha rappresentato Pechino all’evento, ha ribadito il suo interesse a che tutte le questioni relative alle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale siano risolte sulla base del diritto internazionale – in particolare, la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 – e nel quadro dei negoziati in corso tra Cina e ASEAN. Le parti hanno già adottato due dichiarazioni sui principi che dovrebbero guidare il loro ulteriore lavoro. Ora sono vicine a un accordo su un Codice di condotta nel Mar Cinese Meridionale.
Domanda: Lei ha già detto che Washington ha bloccato l’adozione della dichiarazione finale dell’EAS. Tuttavia, gli Stati Uniti continuano davvero a usare la piattaforma del Vertice dell’Asia orientale per combattere Russia e Cina?
Sergey Lavrov: Esatto. Questi sono gli obiettivi della loro attuale politica di promozione di un “Indo-Pacifico libero e aperto”. Si tratta di uno slogan paradossale, dato che tutte le misure pratiche adottate dagli Stati Uniti e dai loro alleati mirano a escludere Russia e Cina e a conquistare il maggior numero possibile di membri dell’ASEAN dalla loro parte. Washington sta corteggiando attivamente le Filippine. Il concetto da cui gli Stati Uniti sono attualmente guidati non fa alcun riferimento a una regione indo-pacifica “libera e aperta”.
Quando oggi gli Stati Uniti e i loro alleati hanno ribadito all’unanimità il loro impegno a favore del ruolo centrale dell’ASEAN nel facilitare la cooperazione nella regione, sono stati disonesti, per usare un eufemismo. In realtà, tutto ciò che fanno è finalizzato a contenere la Russia e la Cina. Tutto ciò che è stato realizzato nel formato centrato sull’ASEAN per decenni viene ora sacrificato a questo obiettivo. Quel formato era conveniente per tutti e incorporava gli interessi di ogni singola parte interessata. La natura distruttiva delle azioni di Washington nella regione è quindi evidente.
Domanda: Due giorni fa, l’ambasciatore ucraino in Turchia ha detto che, secondo le sue informazioni, una conferenza di pace sull’Ucraina potrebbe tenersi a dicembre. Ritiene che la Russia debba reagire a questo tipo di allusioni, visto che i risultati delle elezioni presidenziali statunitensi saranno annunciati a novembre?
Sergey Lavrov: Non seguo le dichiarazioni rilasciate di tanto in tanto dai rappresentanti ucraini a vari livelli. Non siamo interessati.
Il Presidente della Russia Vladimir Putin ha esposto molto chiaramente la nostra posizione quando ha parlato al Ministero degli Esteri il 14 giugno. Questa politica viene attuata in modo coerente.
Domanda: I media europei continuano a commentare l’Ucraina. In particolare, l’italiano Corriere della Sera ha scritto che Vladimir Zelensky potrebbe accettare un cessate il fuoco sugli attuali fronti se gli venissero date garanzie di sicurezza dagli Stati Uniti e un’adesione accelerata all’Unione Europea. Come commenterebbe il fatto che tali dichiarazioni vengano diffuse dai media, nonché il tono e il contenuto di queste pubblicazioni?
Sergey Lavrov: Ad essere sincero, non ho commenti in merito. Ogni giorno spuntano fuori alcune notizie come una scatola da gioco. Vladimir Zelensky dice una cosa oggi e un’altra domani, quando la sua amministrazione – o come la chiamano, l’ufficio del Presidente dell’Ucraina – lo corregge.
Non vedo perché seguirlo. Quando i politici sono seri, lo si vede nei fatti reali, sul campo. Fanno passi concreti. In questo momento, quello che vediamo sul campo è che le nostre forze armate raggiungono coerentemente gli obiettivi previsti. Finora non abbiamo sentito nulla di grave nelle dichiarazioni dei politici.
Domanda: Secondo le dichiarazioni ufficiali, il parlamento iraniano sta prendendo seriamente in considerazione la possibilità di un ritiro del Paese dal TNP in previsione di un possibile attacco missilistico di rappresaglia da parte di Israele. Pensa che se l’Iran si ritirasse da questo trattato, il suo prossimo passo potrebbe essere quello di creare armi nucleari? Quante possibilità ci sono che gli attori internazionali riescano a convincere Israele ad astenersi da un nuovo attacco missilistico contro l’Iran?
Sergey Lavrov: Penso che qui ci siano quattro what-if. Se succede qualcosa, e se qualcuno reagisce in un certo modo…
Preferiamo basarci sui fatti, come ho detto rispondendo alla domanda precedente.
In ogni Paese ci sono politici o parlamentari che fanno dichiarazioni che non riflettono la strategia pratica o la politica ufficiale del loro governo. Ne abbiamo visto molti esempi.
Per quanto riguarda lo stato attuale delle cose, l’AIEA, che monitora da vicino il programma nucleare iraniano, non vede alcuna indicazione che l’Iran stia iniziando a spostarlo verso una dimensione militare. Queste valutazioni vengono regolarmente presentate al Consiglio dei governatori. Ci affidiamo a queste valutazioni professionali.
Ma se dovessero essere messi in atto piani o minacce per attaccare le strutture nucleari pacifiche della Repubblica Islamica dell’Iran, ciò equivarrebbe a una grave provocazione.
SECRETARIO BLINKEN: Primo Ministro, grazie mille. Grazie per averci accolto di nuovo in Laos. E grazie per la sua leadership come presidente dell’ASEAN quest’anno.
Desidero inoltre ringraziare il Dr. Kao per la sua gestione dell’ASEAN e anche la Cambogia – e il Primo Ministro Hun Manet – per aver ricoperto il ruolo di coordinatore del Paese americano, cosa che apprezziamo molto.
Primo Ministro Ibrahim, vorrei anche dirle che non vediamo l’ora che la Malesia assuma la presidenza il prossimo anno.
Sono molto onorato di essere qui a nome del Presidente Biden. Porto anche i calorosi saluti del Vicepresidente Harris, che ha rappresentato gli Stati Uniti all’evento dei leader dello scorso anno.
Negli ultimi quattro anni, gli Stati Uniti e l’ASEAN hanno reso la nostra partnership più forte e più ampia di quanto non sia mai stata prima. Il Presidente Biden è stato onorato di ospitare per la prima volta i leader dell’ASEAN per un vertice speciale a Washington – e di elevare le relazioni tra Stati Uniti e ASEAN a una partnership strategica globale.
Ogni giorno, la nostra cooperazione contribuisce a migliorare la vita di un miliardo di persone, creando opportunità economiche, promuovendo l’innovazione tecnologica e portando avanti una visione condivisa di un Indo-Pacifico aperto, prospero e sicuro, con l’ASEAN al centro.
Stiamo rafforzando i legami economici che da tempo uniscono i nostri Paesi: gli Stati Uniti restano la prima fonte di investimenti diretti esteri nei Paesi ASEAN, una misura significativa di fiducia nel futuro e un potente generatore di posti di lavoro e opportunità.
Insieme, stiamo migliorando il monitoraggio delle epidemie di malattie infettive; stiamo potenziando le reti elettriche della regione; stiamo combattendo il crimine informatico e le truffe online; stiamo promuovendo un’intelligenza artificiale sicura e affidabile.
Tutta questa cooperazione è radicata nei legami duraturi tra i nostri popoli, che da decenni imparano l’uno dall’altro, fanno affari insieme e sono arricchiti dalle rispettive culture.
Siamo stati orgogliosi di celebrare il 10° anniversario della Young Southeast Asian Leaders Initiative, un’iniziativa che conta più di 160.000 membri online e continua a crescere.
Far progredire la nostra visione comune significa anche unirsi per affrontare le sfide comuni a tale visione – dall’aggravarsi della crisi in Myanmar, al comportamento destabilizzante della Repubblica Democratica Popolare di Corea, alla guerra di aggressione della Russia in Ucraina, che continua a violare i principi al centro della Carta delle Nazioni Unite e al centro del Trattato di amicizia e cooperazione dell’ASEAN.
Restiamo preoccupati per le azioni sempre più pericolose e illegali della Cina nel Mar Cinese Meridionale e Orientale, che hanno ferito persone e danneggiato imbarcazioni di Paesi dell’ASEAN e contraddicono gli impegni assunti per la risoluzione pacifica delle controversie. Gli Stati Uniti continueranno a sostenere la libertà di navigazione e di sorvolo nell’Indo-Pacifico.
Crediamo anche che sia importante mantenere il nostro impegno condiviso per proteggere la stabilità attraverso lo Stretto di Taiwan.
Ma sia che si tratti di rispondere a sfide globali urgenti o di far progredire le speranze comuni dei nostri popoli, il rapporto tra gli Stati Uniti e l’ASEAN continuerà a essere essenziale.
Vi ringrazio ancora per la vostra ospitalità e per la giornata di oggi.
Secretary Blinken press availability in Vientiane, Laos.
Secretary of State Antony J. Blinken press availability in Vientiane, Laos
SECRETARIO BLINKEN: Buon pomeriggio a tutti. Permettetemi di iniziare ringraziando il Primo Ministro Sonexay, il Ministro degli Esteri Saleumxay per la loro calorosa ospitalità e anche per la loro straordinaria organizzazione dell’ASEAN, con il Laos in testa nell’ultimo anno.
Ma permettetemi anche di iniziare, in modo più appropriato, dicendo che, naturalmente, la nostra attenzione, la nostra concentrazione e i nostri cuori sono anche con i molti americani nel sud-est degli Stati Uniti che sono stati colpiti, in primo luogo, dall’uragano Helene e dall’uragano Milton; molte persone nella regione si stanno ancora riprendendo dal tifone del mese scorso, e stiamo pensando anche a loro.Ma credo che questo non faccia altro che sottolineare la nostra comune umanità. Abbiamo così tante persone in questa regione che sono state colpite dal tifone, e così tante persone in patria che sono state colpite dagli uragani.
Con questo incarico ho compiuto 20 viaggi nell’Indo-Pacifico e sono stato in 8 dei 10 Paesi dell’ASEAN. Sono qui in Laos perché – come dice spesso il Presidente Biden – gran parte del nostro futuro sarà scritto nell’Indo-Pacifico.
Riconoscendo questa realtà, quasi tre anni fa gli Stati Uniti hanno definito una strategia ambiziosa per portare avanti una visione condivisa per una regione indo-pacifica libera, aperta, prospera, connessa, sicura e resiliente. Oggi, grazie alla diplomazia di questi ultimi tre anni e mezzo, gli Stati Uniti e i nostri partner indo-pacifici sono più vicini e più allineati che mai, e questo è certamente il caso dell’ASEAN.
Nel 2022, il Presidente Biden ha promesso quella che ha definito una “nuova era” nelle relazioni tra Stati Uniti e ASEAN. Insieme, abbiamo elevato le nostre relazioni a un Partenariato strategico globale. Abbiamo ampliato la nostra collaborazione su priorità di lunga data, come le questioni economiche e la difesa, ma anche lanciato molte nuove iniziative in molti nuovi settori – dalla salute pubblica all’energia pulita, all’uguaglianza delle donne – riaffermando a ogni passo il ruolo centrale che l’ASEAN deve svolgere.
Qui in Laos, il nostro Partenariato globale continua a dare risultati per la nostra gente: migliorando la salute materna e infantile, sostenendo lo sviluppo sostenibile, curando le ferite della guerra, investendo nel potenziale dei nostri popoli e nei legami tra di essi. Questa attenzione ai bisogni e alle aspirazioni del nostro miliardo di persone è ciò che anima il nostro lavoro di oggi con gli Stati Uniti e l’ASEAN e al Vertice dell’Asia orientale.
I legami economici straordinariamente solidi tra gli Stati Uniti e l’ASEAN sono da tempo al centro delle nostre relazioni. Gli Stati Uniti sono il primo fornitore di investimenti diretti esteri dell’ASEAN e questo è molto significativo, perché indica che c’è un’enorme fiducia e un’enorme fiducia nel futuro.Le persone non fanno investimenti se non hanno questa fiducia nel futuro. Ed è anche, naturalmente, un enorme generatore di posti di lavoro e di opportunità. Abbiamo più di 62 – scusate, 6.200 aziende americane che operano nella regione, sostenendo centinaia di migliaia di posti di lavoro a livello locale, ma anche in tutti i 50 stati degli Stati Uniti.
Nei nostri incontri di oggi, ci siamo impegnati non solo a far crescere questa partnership, ma anche a continuare a modernizzarla. Per esempio, stiamo lavorando per implementare l’ASEAN Single Window, un portale unico che renderà il commercio regionale più veloce, più economico e più affidabile. Abbiamo già delle innovazioni, per esempio quelle che rendono più facile lo scambio di moduli doganali e altri documenti per via elettronica; questa iniziativa da sola ha ridotto i tempi delle transazioni di quattro giorni e ha fatto risparmiare più di 6,5[1] miliardi di dollari.
Con l’economia digitale dell’ASEAN che si prevede raggiungerà i 2.000 miliardi di dollari entro il 2030, stiamo dotando i professionisti e gli studenti della regione delle competenze necessarie per avere successo in questa economia del 21° secolo.
Riconoscendo il potere dell’intelligenza artificiale di accelerare i progressi verso gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile – porre fine alla povertà, sradicare la fame, portare l’assistenza sanitaria a un maggior numero di persone – abbiamo adottato oggi una dichiarazione dei leader USA-ASEAN sull’intelligenza artificiale, in modo che i nostri Paesi possano contribuire insieme allo sviluppo, all’uso e alla governance di un’intelligenza artificiale sicura, protetta e affidabile.
Inoltre, grazie a un nuovo compact quinquennale, una partnership tra l’ASEAN e l’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale, stiamo aiutando l’ASEAN a identificare le aree in cui la regione potrebbe avere bisogno di maggiori capacità – ad esempio, la pianificazione di progetti infrastrutturali – in modo da poter garantire che stiamo soddisfacendo i bisogni più urgenti della regione. Una delle cose che ho sentito dai nostri colleghi è l’importanza di concentrarsi sulle competenze – sulla riqualificazione, sull’aggiornamento, sull’aiuto a costruire capacità umane oltre che pratiche – infrastrutture e capacità tecnologiche.
Fondamentalmente, questo sottolinea il fatto che il fondamento della partnership tra gli Stati Uniti e l’ASEAN è la nostra gente. Quest’anno segna un decennio dell’Iniziativa dei Giovani Leader del Sud-Est Asiatico; ricordo di aver partecipato alla sua fondazione durante l’amministrazione del Presidente Obama; ora abbiamo una partnership straordinaria che coinvolge oltre 160.000 giovani.
Per sostenere questo slancio, stiamo raddoppiando il programma YSEALI e il numero di studenti Fulbright dell’ASEAN che studieranno negli Stati Uniti. Abbiamo già istituito un Centro ASEAN a Washington per contribuire a promuovere maggiori legami economici e culturali tra le nostre nazioni.
Stiamo anche lavorando per liberare il potenziale di tutte le nostre persone. Sulla base del primo dialogo ad alto livello dell’ASEAN sui diritti dei disabili, svoltosi lo scorso anno, stiamo lavorando per rendere l’economia e le infrastrutture dell’ASEAN più accessibili e più inclusive per le persone con disabilità.
Tutti questi investimenti – nelle nostre economie, nei nostri sistemi sanitari, nelle nostre infrastrutture, nel clima, nelle persone – sono positivi per le persone nei Paesi dell’ASEAN e per gli americani in patria: creano posti di lavoro, alimentano l’innovazione, affrontano le sfide che possiamo affrontare efficacemente solo quando lavoriamo insieme.
Questo vale anche per le questioni regionali e globali di interesse comune. Continuiamo a sottolineare l’importanza di sostenere la libertà di navigazione e di sorvolo nel Mar Cinese Meridionale e Orientale, nonché la necessità di mantenere la pace e la stabilità attraverso lo Stretto di Taiwan.
Stiamo intensificando i nostri sforzi per tracciare un futuro più pacifico, inclusivo e democratico per il Myanmar e per affrontare il comportamento pericoloso e destabilizzante della Repubblica Democratica Popolare di Corea. Stiamo difendendo la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale dell’Ucraina e la capacità dei popoli ovunque di tracciare la propria rotta, di scegliere il proprio futuro liberi dalla forza, dalla coercizione e dall’aggressione.
Abbiamo anche discusso del conflitto in Medio Oriente. Questa settimana è trascorso un anno dal terribile attacco del 7 ottobre contro Israele, in cui, tra l’altro, i cittadini dei Paesi ASEAN sono stati tra le centinaia di persone brutalmente uccise o catturate da Hamas, tra cui sei cittadini thailandesi che ancora oggi rimangono in ostaggio. Continuiamo a impegnarci intensamente per prevenire un conflitto più ampio nella regione, per riportare a casa tutti gli ostaggi, per fornire assistenza ai gazesi che ne hanno disperatamente bisogno e porre fine al conflitto, per raggiungere una soluzione diplomatica in Libano, per sostenere il diritto di Israele a difendersi dall’Iran e dai suoi proxy terroristici, per trovare un percorso che consenta di arrestare il ciclo di violenza e di procedere verso un Medio Oriente più integrato e prospero.
Vorrei anche notare che, mentre gli Stati Uniti e i nostri partner dell’Indo-Pacifico si sono avvicinati in questi ultimi tre anni e mezzo, abbiamo anche lavorato per approfondire i legami tra i partner di questa regione e quelli di tutto il mondo, in particolare in Europa; l’ASEAN e l’UE hanno tenuto il loro primo vertice in assoluto nel 2022 e hanno ampliato la cooperazione su tutto, dalla sicurezza informatica all’antiterrorismo al cambiamento climatico, rafforzando i nostri sforzi in queste aree.
Questa crescente collaborazione tra le regioni riflette il fatto che i nostri destini sono intrecciati. Per migliorare la vita dei nostri popoli è necessario coordinarsi in modi nuovi, costruire nuove coalizioni, rinvigorire e reimmaginare i partenariati esistenti. L’incontro di oggi ha dimostrato ancora una volta la potenza e la possibilità di questi partenariati, e sono grato a tutti i nostri amici dell’ASEAN per i loro continui sforzi per portare avanti una visione comune per la regione e per il nostro futuro condiviso. Grazie.
MR PATEL: Prenderemo quattro domande. Inizieremo con Alex Aliyev di Turan News.
DOMANDA: Grazie mille. Signor Segretario, è un piacere vederla. Ho una domanda multipla, se non le dispiace. Vorrei iniziare con la Russia –
SEGRETARIO BLINKEN: (Impercettibile.)
QUESTIONE: Per favore – (risate) – vorrei iniziare con il russo Lavrov, perché l’abbiamo vista nella stessa stanza allo stesso evento questa mattina. Eravamo curiosi di sapere se avesse avuto qualche interazione diretta con lui durante i suoi impegni qui. E se posso, Signor Segretario, gradirei anche il suo pensiero sull’ultimo rapporto in patria. Segretario, apprezzerei anche il suo pensiero sull’ultima notizia proveniente da casa che suggerisce che l’ex Presidente Trump ha avuto ben sette telefonate private con Putin da quando ha lasciato l’incarico. E so che lei ha chiarito che si occupa di politica, non di politica. Tenendo presente questo, signor Segretario, mi chiedevo se il fatto che Putin riceva telefonate dall’ex Presidente degli Stati Uniti mina la sua politica di isolamento di Putin a causa della sua brutale guerra in Ucraina.
E ora, a nome dei miei colleghi, vorrei parlare di Taiwan, perché, come sapete, la Cina ha intensificato la sua minaccia militare su Taiwan durante la celebrazione della sua festa nazionale. Qual è il messaggio degli Stati Uniti, signor Segretario, alla Cina in vista dei previsti colloqui tra i leader dei due paesi?Secondo lei, l’evento politico di routine dovrebbe essere un pretesto per l’aumento delle attività militari della Cina vicino a Taiwan? E quanto è importante, secondo lei, che la Cina mantenga lo status quo di Taiwan, lo Stretto di Taiwan, come via d’acqua internazionale? Grazie mille, signor Segretario.
SECRETARIO BLINKEN: Grazie. Per quanto riguarda il Ministro Lavrov, no, non abbiamo parlato direttamente, ma ero nella stanza quando ha fatto il suo intervento a nome della Russia.Lui era in sala quando io ho fatto il mio intervento a nome degli Stati Uniti. Quindi credo si possa dire che ci siamo sentiti. Purtroppo non ho sentito nulla di nuovo sull’aggressione russa in corso contro l’Ucraina.
Penso che paese dopo paese in sala, senza parlare a nome loro, abbiano detto chiaramente che questa aggressione deve finire, e deve finire non solo perché è un’aggressione contro il popolo ucraino – è un’aggressione contro i principi che sono al centro del sistema internazionale e che sono così necessari per cercare di aiutarci a preservare la pace e la stabilità, compreso il rispetto per la sovranità, l’integrità territoriale, l’indipendenza.
È sorprendente che così tanti Paesi che si trovano a mezzo mondo di distanza, nell’Indo-Pacifico, si preoccupino profondamente di ciò che sta accadendo in Ucraina e il motivo, ancora una volta, è che sanno che se a un Paese viene permesso di agire impunemente e di commettere atti di aggressione, questo è un segnale per gli aspiranti aggressori di tutto il mondo: la stagione è aperta.E questo sarà negativo per tutti. Quindi, ancora una volta, l’ho ascoltato. Non posso dire se mi abbia ascoltato, ma non ho sentito nulla di nuovo.
Per quanto riguarda le telefonate di cui ha parlato, tutto ciò che posso dirle è questo: l’amministrazione non era a conoscenza di alcuna telefonata, e quindi non posso né confermare né commentare.
Per quanto riguarda Taiwan, ciò che ha colpito, ancora una volta, è il forte desiderio di tutti i Paesi dell’ASEAN – e questo si estende ben oltre l’ASEAN, ma anche i Paesi presenti in sala – di vedere che la pace e la stabilità siano mantenute attraverso lo Stretto di Taiwan. E posso dirvi che per quanto riguarda il cosiddetto discorso del 10/10, che è un esercizio regolare, la Cina non dovrebbe usarlo in alcun modo come pretesto per azioni provocatorie. Al contrario, vogliamo rafforzare – e molti altri Paesi vogliono rafforzare – l’imperativo di preservare lo status quo e di non intraprendere alcuna azione che possa minarlo.
Si tratta di una questione molto sentita in tutta la regione: l’importanza di preservare la pace e la stabilità in generale, ma anche un aspetto che, a mio avviso, riguarda la vita, il sostentamento e il futuro di tutti i Paesi della regione e, probabilmente, di tutti i Paesi del mondo. Il 50% del traffico commerciale di container passa ogni giorno attraverso lo Stretto di Taiwan. Più del 70% dei semiconduttori di alta gamma di cui il mondo ha bisogno sono prodotti a Taiwan.
MR PATEL: Andremo ora a Souksakhone da – Vientiane Times.
QUESTIONE: Benvenuto in Laos, signor Segretario. Spero che abbia apprezzato il suo soggiorno (inudibile).
SEGRETARIO BLINKEN: Grazie.
QUESTIONE: Sono Souksakhone del Vientiane Times, rappresentando il nostro team di media laotiani. Lei ha accennato brevemente alle crescenti relazioni tra attori laotiani e statunitensi. Il Partenariato globale è stato istituito da quasi 10 anni. E sono curioso di sapere, per favore, quale impatto significativo ha prodotto finora questo partenariato globale potenziato? E come vede che andrà avanti nel prossimo decennio? E poi ha anche accennato brevemente agli UXO. Gli UXO (inudibile) sono un grosso problema in Laos, mentre i leader riuniscono i loro vertici qui a Vientiane. Una persona è stata ferita proprio questa settimana dall’esplosione di UXO – i campi da gioco degli studenti rimangono insicuri.Il Presidente Obama si è impegnato a fare di più e a stanziare fondi per risolvere il problema degli UXO. Cosa è stato fatto per mantenere questa promessa? È in grado di rassicurare l’impegno degli Stati Uniti per aiutare il Laos ad affrontare il problema degli UXO (priorità costante del partenariato tra Stati Uniti e Laos)?Laos? Grazie.
SECRETARIO BLINKEN: Grazie mille. I nostri Paesi sono partner da tempo, ma credo che, per quanto riguarda il suo punto di vista, il Partenariato globale che abbiamo stabilito nel 2016, guidi le relazioni. E quello che stiamo facendo è lavorare costantemente per aggiornarlo e rafforzarlo e assicurarci che risponda ai bisogni delle persone. Questa è la nostra responsabilità. Per esempio, una delle cose di cui abbiamo parlato è di lavorare ancora di più insieme per aiutare a costruire la capacità umana qui in Laos, aiutando soprattutto i giovani ad avere le competenze necessarie per avere successo nell’economia e in un’economia sempre più globale. Pertanto, il lavoro che svolgeremo attraverso il partenariato su aspetti quali l’aggiornamento e la riqualificazione, se necessario, è un aspetto che sarà sempre più centrale.
Dobbiamo sempre tornare a chiederci in che modo ciò che stiamo facendo insieme stia giovando alla nostra gente; in che modo stia producendo risultati tangibili? E naturalmente lo sta facendo in una serie di aree, e ne ho descritte alcune pochi minuti fa; ma questo focus sullo sviluppo reale delle capacità è, credo, qualcosa che vedrete sempre più spesso.
Per quanto riguarda gli ordigni inesplosi, si tratta di un imperativo continuo e di un impegno profondo. Abbiamo stanziato quasi 400 milioni di dollari nel corso degli anni per aiutare a gestire gli ordigni inesplosi. Questo ci ha permesso di rimuoverne di più e certamente in questo periodo di tempo ha fatto sì che meno persone siano rimaste ferite. Ma si tratta di una necessità continua e di una responsabilità continua che prendiamo molto sul serio. Grazie.
MR PATEL: Passa a Julia Jester di NBC News.
QUESTIONE: Grazie, signor Segretario. Nel suo discorso di apertura ha accennato al fatto che il conflitto in Medio Oriente è stato affrontato qui all’ASEAN. Alcuni leader hanno criticato la posizione degli Stati Uniti nei confronti di Israele e di Gaza. Quali sono state le critiche che ha sentito dai leader e cosa ha detto loro per rassicurarli sui progressi compiuti per un cessate il fuoco?E per quanto riguarda il Libano, l’ultima novità è che Netanyahu sta facendo pressioni sui cittadini libanesi affinché scelgano un nuovo leader, minacciandoli di subire una “distruzione e sofferenza” simile a quella di Gaza, se non toglieranno Hizballah dal potere. Crede che spetti al popolo libanese l’onere di rovesciare il gruppo terroristico? E se così non fosse, gli Stati Uniti sosterrebbero Israele nell’intraprendere azioni parallele a quanto fatto a Gaza?
E se posso, a proposito di Gaza, l’amministrazione Biden ha detto che gli Stati Uniti stanno avendo, tra virgolette, conversazioni “urgenti” con Israele per garantire che gli aiuti umanitari raggiungano Gaza, in particolare la parte settentrionale di Gaza. Gli Stati Uniti sono disposti, in conformità con la legge Leahy, a porre restrizioni agli aiuti militari statunitensi a Israele se gli Stati Uniti determinano che Israele sta effettivamente bloccando la consegna di aiuti umanitari?
SECRETARIO BLINKEN: Grazie. Non voglio parlare a nome di altri Paesi, se non per dire che, sì, noi – e come ho detto, la situazione generale in Medio Oriente, così come pezzi specifici di essa, è emersa in molte delle conversazioni che abbiamo avuto.E credo che ci sia una profonda preoccupazione in tutta la regione su diversi fronti, ma soprattutto su un aspetto che ci sta molto a cuore: cercare di evitare che il conflitto a Gaza, iniziato con i terribili attacchi del 7 ottobre, si diffonda, si estenda ad altri luoghi e ad altri fronti.
E una delle cose su cui ho rassicurato molti dei nostri colleghi è stata l’intensa attenzione degli Stati Uniti, che si è protratta per un anno, nel fare proprio questo: evitare che questi conflitti si diffondano.
Purtroppo, abbiamo, tra le altre cose, un cosiddetto asse di resistenza guidato dall’Iran che cerca di creare altri fronti in diversi luoghi; stiamo lavorando duramente attraverso la deterrenza e la diplomazia per evitare che ciò accada.
Ovviamente condividiamo anche la profonda preoccupazione per la situazione dei bambini, delle donne e degli uomini di Gaza, che da un anno a questa parte si trovano sotto il terribile fuoco incrociato dell’istigazione di Hamas.E sono davvero preoccupato per l’inadeguatezza dell’assistenza che sta arrivando loro. Questo è particolarmente vero nel nord, ma non esclusivamente nel nord.
Per quanto riguarda la legge, ripeterò semplicemente ciò che ho sempre detto: “Applicheremo la legge”. Ho l’obbligo costante di garantire che l’assistenza che forniamo sia conforme alla legge, sia che si tratti della legge Leahy, sia che si tratti del diritto umanitario internazionale, sia che si tratti di altri aspetti di nostra competenza.
Infine, per quanto riguarda il Libano, una delle sfide principali che abbiamo visto in Libano è il fatto che Hizballah ha effettivamente assunto molte funzioni statali, in particolare per quanto riguarda il mantenimento delle armi, cosa che non dovrebbe accadere.E parte dell’uscita di Israele dal Libano erano importanti intese contenute nelle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU – 1701, 1559 – che, tra le altre cose, assicuravano che le forze non presenti al confine tra il Paese – certamente non forze irregolari come Hizballah – e gli attori non statali dovessero essere disarmati. Ebbene, questo non è accaduto, e Hizballah ha rappresentato una minaccia continua per Israele da allora.
Quando è successo l’orrore del 7 ottobre, il giorno dopo Hizballah si è unito a loro, cercando di creare un altro fronte; nel processo, i razzi e le altre munizioni che stavano lanciando verso il nord di Israele hanno costretto la gente a fuggire dalle loro case, e circa 70.000 israeliani hanno dovuto lasciare le loro case.
Allo stesso modo, nel Libano meridionale – perché Israele ha risposto agli attacchi di Hizballah – molte persone hanno dovuto abbandonare le loro case; questo è ben prima delle ultime settimane; questo è ciò che è accaduto nel corso dell’ultimo anno. E tutti noi abbiamo un forte interesse nel cercare di contribuire a creare un ambiente in cui le persone possano tornare alle loro case e viverci in modo sicuro e protetto, e i bambini possano tornare a scuola.
Israele ha quindi un chiaro e legittimo interesse a farlo; il popolo libanese vuole la stessa cosa; crediamo che il modo migliore per arrivarci sia un’intesa diplomatica, su cui stiamo lavorando da tempo e su cui siamo estremamente concentrati in questo momento.
Ora, Israele ha il diritto di difendersi dagli attacchi terroristici provenienti da Hizballah, da Hamas o da chiunque altro, ma è anche di vitale importanza che, nel farlo, si concentri sull’assicurare che i civili siano protetti e, ancora una volta, non vengano presi in un terribile fuoco incrociato.
Per quanto riguarda il futuro del Libano, la decisione spetta al popolo libanese, non a nessun altro, a nessun attore esterno, che si tratti degli Stati Uniti, di Israele o di altri attori della regione.Ma è chiaro che il popolo libanese ha un interesse, un forte interesse, a che lo Stato si affermi e si assuma la responsabilità del Paese e del suo futuro. La presidenza è vacante da due anni e per il popolo libanese avere un capo di Stato sarebbe molto importante. Ma questo spetta ai libanesi e a nessun altro.
Abbiamo avuto colloqui, ho avuto colloqui con i Paesi di tutta la regione e con gli stessi libanesi, e ciò che ne ho ricavato è un forte desiderio non solo da parte dei molti Paesi che sono preoccupati per il Libano, ma soprattutto da parte degli stessi libanesi di vedere lo Stato alzarsi, affermarsi, assumersi la responsabilità per la vita dei suoi cittadini.E ancora, un modo per farlo sarebbe risolvere la questione della presidenza vacante, ma ci sono una serie di altre cose su cui so che i libanesi sono concentrati e che possono fare la differenza.
Gli Stati Uniti e molti altri Paesi vogliono aiutare; abbiamo fornito quasi 160 milioni di dollari di assistenza umanitaria supplementare per cercare di aiutare i numerosi sfollati, molti dei quali appartengono alla comunità sciita.Allo stesso modo, da tempo sosteniamo l’unica istituzione che unisce praticamente tutti i libanesi, le Forze armate libanesi, e anche molti altri Paesi.
Penso quindi che ci siano diverse cose che gli altri possono fare per sostenere lo Stato libanese che si alza e si assume la responsabilità per il popolo e per il futuro del Paese, ma le decisioni fondamentali su come farlo appartengono al popolo libanese.
QUESTIONE: Gli Stati Uniti sosterrebbero Israele?
MR PATEL: Domanda finale.
SECRETARIO BLINKEN: Chiedo scusa, qual era la –
QUESTIONE: Gli Stati Uniti sosterrebbero Israele se Netanyahu desse seguito alla minaccia che il popolo libanese andrebbe incontro alla morte e alla distruzione, una distruzione come…
SECRETARIO BLINKEN: Non ho intenzione di entrare nel merito delle ipotesi; posso solo dire che siamo concentrati sulla risoluzione diplomatica della situazione dei confini e sul sostegno a qualsiasi cosa i libanesi decidano di fare in termini di affermazione delle proprie responsabilità.
MR PATEL: Ultima domanda, Tan Tam Mei del The Straits Times.
QUESTIONE: Quale sarà la futura – quindi ok, scusate. La politica futura per l’ASEAN sotto i possibili candidati presidenziali in arrivo è ancora un po’ confusa e confusa. Quindi mi chiedevo per l’ASEAN, cosa possiamo aspettarci per le relazioni tra Stati Uniti e ASEAN a gennaio? E anche, quali preoccupazioni hanno condiviso con voi i leader dell’ASEAN su eventuali nuovi cambiamenti?
SECRETARIO BLINKEN: Sentite, non posso – come molti di voi sanno, come mi piace dire, non mi occupo di politica, mi occupo di politica. Quindi tutto ciò di cui posso parlare è la politica degli Stati Uniti e il modo in cui la stiamo perseguendo ora.Ogni speculazione sul futuro è solo una speculazione, tranne che per questo: credo che negli Stati Uniti ci sia una profonda consapevolezza che, come ho detto e come ha detto il Presidente Biden, il nostro futuro è nell’Indo-Pacifico.Noi stessi siamo una potenza del Pacifico, ma se guardiamo alla parte del mondo in cui c’è una crescita straordinaria, un’energia straordinaria, un’innovazione straordinaria, è proprio l’Indo-Pacifico. E tutto ciò che abbiamo fatto negli ultimi tre anni e mezzo è stato rafforzare i nostri legami, approfondire il nostro impegno, costruire nuovi partenariati in un’ampia varietà di modi – sia con i singoli Paesi che con istituzioni fondamentali come l’ASEAN.
Ho ricordato che questo è il mio 20° viaggio nell’Indo-Pacifico in qualità di Segretario di Stato. Quindi sì, ci sono molte altre cose in ballo – in Medio Oriente, in Russia e in Ucraina – ma questa è solo una piccola prova del fatto che, anche con tutto il resto, la nostra attenzione è rimasta intensamente su questa regione. E ancora una volta, è perché è così critica per il nostro futuro – per le vite e i mezzi di sussistenza degli americani.
Quindi, alla luce di ciò, sono convinto che questo approccio di base continuerà a prescindere da chi sarà il presidente, perché è così palesemente nel nostro interesse.
Quindi, finché resteremo risolutamente concentrati sugli interessi del nostro popolo, questi interessi ci porteranno, ci inviteranno, a continuare a fare ancora di più non solo con l’ASEAN e i Paesi che la compongono, ma in tutto l’Indo-Pacifico. E credo davvero fortemente che questa sia una questione di consenso bipartisan e qualcosa che non cambierà.
Il premier cinese Li Qiang partecipa al 19° vertice dell’Asia orientale a Vientiane, Laos, 11 ottobre 2024. [Foto/Xinhua]
VIENTIANE, 11 ottobre – Il premier cinese Li Qiang ha invitato venerdì tutte le parti a mantenere la pace e la tranquillità, a perseguire il mutuo beneficio e i risultati vantaggiosi per tutti e a promuovere con decisione l’apertura e la cooperazione, per creare un futuro più luminoso per l’Asia orientale e per il mondo.
Li ha formulato questa proposta in tre punti intervenendo al 19° Vertice dell’Asia orientale a Vientiane.
Attualmente il mondo è entrato in un nuovo periodo di turbolenze e cambiamenti e la ripresa economica globale manca di slancio, ha affermato Li.
Ricordando che quest’anno ricorre il 70° anniversario dei Cinque principi della coesistenza pacifica, Li ha affermato che in un mondo di cambiamenti e caos, la coesistenza pacifica è ancora più preziosa, e l’uguaglianza, il rispetto e il beneficio reciproci, così come il perseguimento comune della stabilità, sono di grande importanza per il rapido sviluppo dell’Asia.
Per sostenere l’equità e la giustizia internazionali, il mondo dovrebbe continuare a trarre saggezza dai cinque principi, ha aggiunto Li.
Oggi i cinque principi non sono superati, ma duraturi, il che evidenzia ulteriormente il loro valore nel tempo e la loro importanza a livello mondiale, ha affermato Li.
La Cina è disposta a lavorare con tutte le parti per promuovere ulteriormente i Cinque principi della coesistenza pacifica, concentrarsi sulla costruzione di una comunità con un futuro condiviso per l’umanità, costruire meglio il consenso, approfondire la fiducia reciproca, rafforzare la cooperazione e creare un futuro più luminoso per la regione e il mondo, ha detto Li.
Li ha invitato tutte le parti a mantenere la pace e la tranquillità, a continuare a sostenere un’architettura regionale aperta, inclusiva e incentrata sull’ASEAN e a seguire la strada della governance della sicurezza regionale basata su un’ampia consultazione, un contributo comune e benefici condivisi.
Per quanto riguarda il perseguimento di vantaggi reciproci e risultati vantaggiosi per tutti, Li ha dichiarato che la Cina è disposta a collaborare con tutte le parti per attuare attivamente l’Iniziativa di sviluppo globale proposta dal Presidente cinese Xi Jinping, sfruttare appieno i rispettivi vantaggi complementari, aumentare gli investimenti nella trasformazione verde, nell’economia digitale e in altre aree necessarie ai Paesi regionali, e raggiungere meglio uno sviluppo inclusivo e universalmente vantaggioso.
Ha invitato i Paesi della regione a essere estremamente vigili e a frenare con decisione le azioni che mettono in pericolo la stabilità regionale e aumentano il rischio di conflitti.
Per quanto riguarda la promozione dell’apertura e della cooperazione, Li ha chiesto di attuare in modo completo e di alta qualità il Partenariato economico globale regionale, di accelerare la costruzione dell’area di libero scambio Asia-Pacifico, di far progredire l’integrazione economica regionale e di evitare di trasformare le questioni economiche e commerciali in questioni politiche e di sicurezza.
Li ha affermato che lo sviluppo regionale e la prosperità non possono essere raggiunti senza la pace e la stabilità nel Mar Cinese Meridionale, aggiungendo che la Cina si è sempre impegnata a rispettare il diritto internazionale, compresa la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, e a seguire la Dichiarazione sulla condotta delle parti nel Mar Cinese Meridionale.
La Cina ha sempre insistito nel risolvere le differenze con i Paesi interessati attraverso il dialogo e la consultazione e nel portare avanti attivamente la cooperazione pratica in mare, ha dichiarato Li.
Attualmente, la Cina e i Paesi dell’ASEAN stanno promuovendo attivamente la consultazione sul Codice di condotta nel Mar Cinese Meridionale e si stanno impegnando per una sua rapida conclusione, ha aggiunto.
I Paesi interessati al di fuori della regione dovrebbero rispettare e sostenere gli sforzi congiunti della Cina con i Paesi regionali per mantenere la pace e la stabilità nel Mar Cinese Meridionale e svolgere un ruolo costruttivo nella pace e nella stabilità regionale, ha dichiarato Li.
VIENTIANE, 10 ottobre – I leader della Cina e dei Paesi dell’ASEAN hanno annunciato giovedì la sostanziale conclusione dei negoziati per l’aggiornamento della versione 3.0 dell’Area di Libero Scambio (ALS) Cina-ASEAN, aprendo la strada a uno degli ALS più popolosi e solidi del mondo, che potrà svolgere un ruolo più importante nel promuovere lo sviluppo regionale in un contesto di crescente protezionismo globale.
L’annuncio è stato fatto in occasione del 27° vertice Cina-ASEAN, che fa parte di una serie di incontri dei leader sulla cooperazione in Asia orientale che iniziano mercoledì, tra cui il 27° vertice ASEAN Plus Three (APT) e il 19° vertice dell’Asia orientale.
L’importante risultato fornisce garanzie istituzionali alla Cina e all’ASEAN per costruire insieme i super mercati, ha dichiarato il premier cinese Li Qiang intervenendo all’incontro, salutandolo come un passo significativo nel portare avanti l’integrazione economica dell’Asia orientale e nel dimostrare il loro inequivocabile sostegno al multilateralismo e al libero scambio.
Sia la Cina che l’ASEAN hanno confermato che accelereranno il lavoro di revisione legale e le procedure interne per promuovere la firma del protocollo di aggiornamento 3.0 nel 2025, ha dichiarato giovedì il Ministero del Commercio cinese in un comunicato.
La costruzione dell’area di libero scambio Cina-ASEAN è stata completata nel 2010 e i negoziati per la versione 3.0 dell’FTA sono iniziati nel novembre 2022.
“L’accordo di libero scambio Cina-ASEAN 3.0, migliorato e più aperto, promuoverà i vantaggi reciproci e i risultati vantaggiosi per tutti”, ha dichiarato Yong Chanthalangsy, rappresentante del Laos presso la Commissione intergovernativa per i diritti umani dell’ASEAN. “La Cina e l’ASEAN sono una comunità dal futuro condiviso. Gli sforzi congiunti di entrambe le parti per costruire un FTA Cina-ASEAN 3.0 più aperto sono anche l’incarnazione dello spirito di una comunità con un futuro condiviso per l’umanità.”
Il premier cinese ha espresso la speranza di esplorare con l’ASEAN più modi e mezzi per connettersi e condividere i mercati, in modo da generare un impulso allo sviluppo più forte e duraturo per entrambe le parti e fornire un sostegno più solido alla prosperità condivisa della regione e del mondo in generale.
La Cina è rimasta il primo partner commerciale dell’ASEAN per 15 anni consecutivi, mentre l’ASEAN è stato il primo partner commerciale della Cina per quattro anni consecutivi.
I dati ufficiali mostrano che nei primi sette mesi di quest’anno, il loro commercio ha raggiunto i 552 miliardi di dollari, con un aumento del 7,7% rispetto all’anno precedente, rappresentando circa un sesto del volume totale del commercio estero cinese nello stesso periodo.
“Con una popolazione combinata di oltre 2 miliardi di persone, il mercato di Cina e ASEAN è enorme”, ha osservato Chanthalangsy. “La Cina e l’ASEAN, geograficamente vicine, con i rispettivi vantaggi e una forte complementarietà economica, possono sostenersi a vicenda e allo stesso tempo avere bisogno l’una dell’altra. L’accordo di libero scambio Cina-ASEAN 3.0 renderà più conveniente la circolazione delle merci e il commercio tra le due parti e darà nuovo slancio al rispettivo sviluppo economico”.
Gli sforzi della Cina e dell’ASEAN sono in sintonia con il tema del 44° e 45° vertice dell’ASEAN, “ASEAN: Enhancing Connectivity and Resilience” (ASEAN: migliorare la connettività e la resilienza), che sottolinea l’ambizione del blocco di rispondere a varie sfide pressanti e cogliere le opportunità per costruire una comunità regionale più integrata, connessa e resiliente.
La Cina sosterrà sempre fermamente l’integrazione dell’ASEAN, la costruzione della comunità e la sua indipendenza strategica ed è pronta a collaborare con i Paesi dell’ASEAN per elevare il partenariato strategico globale Cina-ASEAN a un livello superiore, ha dichiarato Li.
Come ha sottolineato il presidente cinese Xi Jinping, la Cina continuerà a seguire il principio dell’amicizia, della sincerità, del mutuo vantaggio e dell’inclusione e a collaborare con gli altri Paesi della regione per costruire una migliore comunità asiatica.
A tal fine, ha affermato il premier, la Cina e l’ASEAN devono creare una rete di connettività multidimensionale per consentire uno sviluppo senza ostacoli dell’Asia in futuro, espandere la cooperazione nei settori emergenti per migliorare la sostenibilità della crescita dell’Asia in futuro e approfondire gli scambi culturali e interpersonali per consolidare le fondamenta dell’amicizia dell’Asia in futuro.
I leader dell’ASEAN presenti al vertice hanno applaudito il forte slancio di crescita del partenariato strategico globale ASEAN-Cina, osservando che la cooperazione tra ASEAN e Cina in vari campi ha dato risultati fruttuosi, migliorando notevolmente il benessere delle persone nella regione.
“Questo aggiornamento dell’accordo di libero scambio è una mossa importante, soprattutto in questo periodo di crescente protezionismo nel mondo”, ha dichiarato il primo ministro di Singapore Lawrence Wong durante il vertice ASEAN-Cina.
I risultati di questo vertice “non solo andranno a beneficio della Cina e dei Paesi ASEAN, ma contribuiranno anche a rafforzare la stabilità e la prosperità della regione Asia-Pacifico”, ha dichiarato Seun Sam, analista politico presso la Royal Academy of Cambodia.
Sempre giovedì, Li ha partecipato al 27° vertice dell’APT, dove ha sottolineato la disponibilità della Cina ad avere uno scambio di opinioni approfondito con tutte le parti sulle principali questioni di cooperazione regionale e a contribuire a rendere la regione un importante motore per lo sviluppo globale.
Li ha dichiarato che la Cina continuerà a collaborare con tutte le parti per dare piena attuazione al meccanismo di cooperazione dell’APT, sostenere la centralità dell’ASEAN nell’architettura regionale, promuovere lo sviluppo a lungo termine, solido e stabile della regione e infondere maggiore certezza ed energia positiva all’Asia e al mondo.
Il premier ha invitato a compiere sforzi costanti per aumentare la resilienza dello sviluppo regionale, migliorare la stabilità e la competitività dei sistemi industriali regionali e attuare l’accordo di partenariato economico globale regionale (RCEP) con un’elevata qualità.
“La Cina auspica di accelerare il riavvio dei negoziati per l’area di libero scambio tra Cina, Giappone e Regno Unito”, ha aggiunto.
I leader presenti all’incontro hanno affermato che il mondo è testimone di una crescente complessità e incertezza e che la cooperazione APT, che ha dato un importante contributo al mantenimento della stabilità regionale e alla promozione dello sviluppo regionale, si trova di fronte a un’opportunità di ulteriore sviluppo.
Domanda (ritradotta dall’arabo): Trasmettiamo questa intervista con il Ministro degli Esteri Sergey Lavrov da Mosca, Russia. Grazie per aver trovato il tempo di parlare con Sky News Arabia.
Sergey Lavrov: Grazie per avermi invitato a farlo.
Domanda (ritradotta dall’arabo): Sono lieto di incontrarla in questo momento storico, considerando che sono passati oltre due anni dall’inizio dell’operazione militare speciale in Ucraina. Mosca è ancora impegnata nelle sue richieste iniziali o possiamo sperare di vederla ammorbidire la sua linea per il bene della pace?
Sergey Lavrov: Non si tratta tanto delle esigenze della Russia quanto di quelle del diritto internazionale. Quando si chiede di risolvere il conflitto in base ai principi della Carta delle Nazioni Unite, si aggiunge sempre la frase “sulla base del rispetto della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina”. Tuttavia, la frase sull’integrità territoriale è preceduta nella Carta delle Nazioni Unite dal requisito del rispetto del diritto delle nazioni all’autodeterminazione. È il diritto all’autodeterminazione che ha guidato tutti i processi di decolonizzazione, soprattutto in Africa. L’Unione Sovietica è stata tra i Paesi che hanno avviato questi processi. È su nostra iniziativa che nel 1960 è stata adottata la relativa Dichiarazione.
Le discussioni su cosa abbia la precedenza – l’integrità territoriale o il diritto delle nazioni all’autodeterminazione – sono iniziate all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel XX secolo. Queste lunghe discussioni hanno portato all’adozione della voluminosa Dichiarazione. La parte di cui parliamo ora dice chiaramente che tutti i Paesi devono rispettare l’integrità territoriale degli Stati i cui governi rispettano il diritto delle nazioni all’autodeterminazione e quindi rappresentano l’intera popolazione che vive nel loro territorio. È risaputo che i neonazisti che hanno preso il potere in Ucraina a seguito di un colpo di Stato nel febbraio 2014 non rappresentavano né la Crimea né il Donbass.
Anche prima di parlare del diritto delle nazioni all’autodeterminazione, la Carta delle Nazioni Unite afferma che ogni persona ha diritto a tutti i diritti umani senza distinzioni di alcun tipo, come razza, sesso, lingua o religione. Le leggi ucraine vietano l’uso della lingua russa in tutte le sfere della vita. Una legge recente ha vietato la Chiesa ortodossa ucraina canonica. In altre parole, coloro che chiedono di risolvere il conflitto sulla base della Carta delle Nazioni Unite dovrebbero leggerla più attentamente.
Domanda (ritradotta dall’arabo): La rivoluzione arancione è diventata il punto di partenza di tutto. Ci rendiamo conto che la Russia ora gioca un ruolo importante nella risoluzione dei conflitti sulla scena internazionale. L’operazione militare speciale è una pietra miliare importante nella trasformazione della comunità internazionale e dell’ordine mondiale? La Russia è pronta per ostilità più ampie?
Sergey Lavrov: Lei ha detto che il colpo di Stato è stato una delle fasi principali che alla fine ci ha portato alla situazione a cui stiamo assistendo. Questo colpo di Stato è stato indotto e sostenuto dai Paesi occidentali. In seguito, abbiamo avvertito per molti anni che il popolo russo, che ha trascorso tutta la sua vita nei territori incorporati nello Stato ucraino durante il periodo sovietico, non doveva essere trattato in questo modo. Per secoli il popolo russo ha sviluppato questo territorio, che non deve assolutamente essere trascinato nella NATO. Lo abbiamo avvertito per molto tempo. Ma, dopo aver nutrito, cresciuto e allevato i neonazisti, l’Occidente ha continuato inequivocabilmente a sostenerli come strumento di guerra contro la Federazione Russa.
È ovvio per chiunque capisca cosa sta succedendo e sappia cosa sia la giustizia, che la giustizia è dalla nostra parte. La giustizia implica che ogni persona ha il diritto di mantenere la propria identità, in base al modo in cui è stata cresciuta e ai propri desideri. La Maggioranza Globale, i Paesi africani, asiatici e latino-americani, sono diventati apprensivi dopo che l’Occidente ha iniziato a usare il regime neonazista ucraino come strumento di lotta contro la Russia. Tutti hanno iniziato a chiedersi su chi Washington avrebbe sfogato il suo malcontento la prossima volta e a chi avrebbe potuto non piacere. Ebbene, può non piacere a nessuno;
In questo senso, lei ha assolutamente ragione. L’operazione militare speciale ha un significato mondiale perché sostiene un ordine mondiale multipolare in cui tutti i Paesi, senza eccezioni, sono uguali. Vorrei ricordare ancora una volta la Carta delle Nazioni Unite. Essa afferma espressamente che l’ONU si basa sull’uguaglianza sovrana degli Stati. Gli Stati Uniti e i loro satelliti non rispettano e non onorano mai questo principio. La Maggioranza Globale è interessata a porre fine all’attuale stato di cose quando gli americani pretendono che tutti rispettino un ordine basato su regole, piuttosto che sul diritto internazionale. E le loro regole dipendono sempre dal capriccio di Dio, come diciamo qui.
Quando è stato necessario privare la Serbia del Kosovo, hanno proclamato la sua indipendenza senza alcun referendum. Dissero che il popolo del Kosovo stava esercitando il proprio diritto all’autodeterminazione. Alcuni anni dopo, dopo che i nazisti avevano preso il potere a Kiev, la popolazione della Crimea ha tenuto un referendum e ha optato per la riunificazione con la Russia, con numerosi osservatori internazionali che hanno monitorato l’evento. Gli americani hanno denunciato questo atto, affermando che violava l’integrità territoriale.
La maggior parte delle persone provenienti dall’Africa, dall’Asia e dall’America Latina con cui comunico, sanno di cosa si tratta. Gli Stati Uniti vogliono convincere tutti di essere un egemone e che nessuno può contraddirli, qualunque cosa facciano. Di conseguenza, gli Stati Uniti affermano che è necessario infliggere alla Russia una “sconfitta strategica” sul campo di battaglia. La vedono come una minaccia esistenziale per loro stessi, una minaccia alla loro egemonia. Se la verità dovesse prevalere (e certamente prevarrà), vedrebbero questa situazione come una loro sconfitta che evidenzia la perdita della loro reputazione, autorità e prestigio. Inoltre, molti smetterebbero di temerli.
Domanda (ritradotta dall’arabo): Ha anticipato la mia domanda. Vorrei parlare della “sconfitta strategica” che l’Occidente desidera tanto. L’Occidente oggi è come un bambino che gioca con i fiammiferi. La Russia vuole un’escalation?
Sergey Lavrov: Nessuna escalation. Avete ragione, stanno giocando. Sembrano davvero avere una mentalità da bambini, anche se sono adulti che occupano posizioni di responsabilità: ministri, primi ministri, cancellieri, presidenti, ecc.
Da diversi mesi si parla di Russia che si limita a minacciare e a menzionare alcune “linee rosse”, che l’Occidente continua a superare senza che nulla accada.
In effetti, il Presidente della Russia Vladimir Putin ha recentemente commentato questa situazione a San Pietroburgo. Se verranno attuate, le iniziative di fornire all’Ucraina missili a lungo raggio statunitensi, francesi e britannici e di dare il via libera a colpire qualsiasi obiettivo all’interno della Russia significheranno che i Paesi della NATO sono in guerra con la Russia.
Per fortuna, a Washington ci sono alcune persone ragionevoli che se ne rendono conto. La NATO sta conducendo una guerra contro la Russia. Ma si tratta di una guerra ibrida, una guerra per procura che gli ucraini combattono per loro. Quando si tratta di sistemi missilistici occidentali a lungo raggio, è chiaro a tutti che gli ucraini non saranno in grado di usarli. Solo gli specialisti del Paese che ha realizzato le armi saranno in grado di puntarle, di fornire dati satellitari e di assegnare le missioni di volo.
Parlando della “sconfitta strategica” sul campo di battaglia, non voglio citare i politici occidentali, ma ci sono persone negli Stati Uniti e in Europa che hanno prestato attenzione durante le loro lezioni di storia e hanno imparato bene. Napoleone e poi Adolf Hitler hanno cercato di infliggerci una sconfitta strategica. Entrambi hanno radunato sotto i loro vessilli la maggior parte dell’Europa – Paesi che si erano obbedientemente sottomessi, che erano stati occupati e che avevano fornito i loro militari, i loro eserciti da comandare a Bonaparte e Adolf Hitler. Entrambe le campagne si conclusero con un disastro. Anche in questo caso, chiunque sia colto e conosca bene la storia ne è perfettamente consapevole.
Oggi, proprio come durante la Seconda Guerra Mondiale, la coalizione guidata dagli Stati Uniti (circa 50 Paesi obbedienti) ci sta aggredendo usando il regime ucraino per combattere, un regime palesemente nazista proprio come quello di Adolf Hitler.
In una situazione come questa, nessuno dovrebbe dimenticare il carattere del popolo russo. Lo stiamo vedendo in prima linea. I tentativi di agitare le acque o di seminare discordia nella nostra società portano sempre al risultato opposto. È più unita che mai e non vediamo altro modo che sconfiggere i nazisti, che stanno ancora una volta invadendo la nostra storia, la nostra terra e la nostra lingua.
Domanda (ritradotta dall’arabo): C’è una domanda nel contesto dei riferimenti all’uso di armi nucleari da parte della Russia. Conosciamo la dottrina della Federazione Russa in questo ambito. Ogni volta che le “linee rosse” vengono superate, ci si chiede dove si trovino realmente nel contesto delle armi nucleari.
Sergey Lavrov: Parliamo di “linee rosse” nella speranza che le nostre valutazioni e dichiarazioni vengano ascoltate da decisori intelligenti. È sciocco dire che premeremo il pulsante rosso, se domani non farete quello che vi chiedo.
Sono certo che i responsabili delle decisioni sono consapevoli di ciò che intendiamo in queste situazioni. Nessuno vuole una guerra nucleare. Lo abbiamo detto più volte.
Lasciate che vi assicuri che abbiamo armi il cui uso comporterà gravi conseguenze per i padroni del regime ucraino. Queste armi sono disponibili e in pieno stato di allerta.
Domanda (ritradotta dall’arabo): Vorrei parlare del Medio Oriente, dei suoi sviluppi e in particolare del coinvolgimento dell’Occidente. Oggi si parla molto della partnership strategica della Russia con gli iraniani. Le notizie dicono che la Russia ha ricevuto missili dall’Iran e che la Russia, a sua volta, estende le tecnologie nucleari a quel Paese. Di questo si scrive e si parla. Qual è la sua risposta a queste accuse?
Sergey Lavrov: Lo stesso dicono della Repubblica Popolare Democratica di Corea. Approssimativamente lo stesso. Interagiamo con l’Iran, la Corea del Nord o qualsiasi altro Paese dal punto di vista economico, politico e tecnico-militare; rigorosamente nel quadro del diritto internazionale, senza violare nessuno dei nostri impegni internazionali. Non significa nulla se gli Stati Uniti inventano dieci frottole al giorno, accusandoci di tutti i peccati mortali. O meglio, significa solo una cosa: non amano la Russia come rivale sulla scena internazionale.
Mi permetta di sottolineare ancora una volta che nelle relazioni con l’Iran o con qualsiasi altro Paese non violiamo alcuna norma del diritto internazionale, comprese quelle che regolano la cooperazione tecnico-militare.
Credo che l’Iran e i suoi vicini (le monarchie arabe e altri Paesi arabi) siano interessati a cooperare tra loro. Appartengono alla stessa regione ed è inevitabile che vivano fianco a fianco. Accolgo con favore il processo in corso tra l’Arabia Saudita e la Repubblica Islamica dell’Iran. Hanno normalizzato le loro relazioni. Si sta promuovendo il dialogo anche su molte altre questioni. Sono convinto che sia nell’interesse dell’Iran e dei suoi vicini arabi stabilire relazioni di vicinato, normali e buone. Ciò consentirà di sviluppare la cooperazione economica a vantaggio di tutti questi Paesi e di collaborare più efficacemente sulla scena internazionale per sostenere gli interessi dei Paesi del Sud e dell’Est globale;
Domanda (ritradotta dall’arabo): Durante la visita di Joe Biden in Arabia Saudita, è stato detto che Cina e Russia potrebbero potenzialmente riempire il vuoto lasciato dagli Stati Uniti nella regione. Può commentare questa affermazione? C’è davvero un vuoto lì? Quali sono le relazioni della Russia con i Paesi di questa regione? Vorrei anche sollevare il tema del conflitto palestinese-israeliano.
Sergey Lavrov: Per quanto riguarda il vuoto lasciato dagli Stati Uniti, esaminiamo gli ultimi 50-70 anni, durante i quali gli Stati Uniti si sono posti numerosi obiettivi a gran voce e con orgoglio, il principale dei quali è stato quello di introdurre la democrazia in varie regioni del pianeta.
Prendiamo il Vietnam. Quali obiettivi erano stati annunciati? Quali sono stati raggiunti? Centinaia di migliaia di civili sono stati uccisi e sono state usate armi proibite. Nessun obiettivo è stato raggiunto. Sono saliti a bordo dei loro elicotteri e se ne sono andati.
Hanno trascorso ancora più tempo (20 anni) in Afghanistan. Non hanno fatto alcuno sforzo per sviluppare l’economia del Paese. Si sono vantati di aver soppresso la minaccia terroristica. Alla fine sono fuggiti. Abbiamo visto tutti il video di un aereo che quasi schiacciava gli afghani che cercavano di fuggire con loro. Hanno abbandonato al loro destino tutti coloro che hanno collaborato con loro, migliaia e migliaia di persone.
Oppure prendete l’Iraq. Quali obiettivi hanno raggiunto gli americani in Iraq? Ora si chiede loro di andarsene. Per più di due anni, il governo e il parlamento iracheno hanno detto di non avere più bisogno degli americani. Eppure, gli americani non vogliono andarsene. Cosa stanno cercando di ottenere lì?
Siria. Che cosa hanno ottenuto in Siria?
Ciò che sta accadendo tra Palestina e Israele è sconvolgente. Gli esperti faticano a ricordare una tragedia o una catastrofe umanitaria come questa. Sottolineo che tra poco sarà un anno. Alcuni mesi fa, in Occidente sono state pubblicate delle statistiche che hanno rivelato che nei dieci mesi dall’inizio dell’operazione israeliana sono morti venti volte più civili palestinesi che nei dieci anni di guerra in Donbass dopo il colpo di Stato del 2014. In Donbass sono state contate entrambe le parti: le persone che vivono in Donbass e quelle che sono rimaste nel territorio controllato dal regime di Kiev. In dieci mesi sono morte venti volte più persone che in dieci anni.
L’attacco terroristico avvenuto il 7 ottobre 2023 è stato oltraggioso. Tutte le persone ragionevoli lo condannano. Tuttavia, è inaccettabile rispondere a un crimine con un altro crimine, soprattutto attraverso il metodo proibito della punizione collettiva dei civili.
Lei ha menzionato il vuoto parlando della politica statunitense nella regione. Quando il 7 ottobre 2023 si è verificato l’attacco terroristico e Israele ha iniziato la sua brutale operazione, il Segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha dichiarato, nel suo intervento all’Assemblea generale, di condannare l’attacco terroristico. Ma non è avvenuto nel vuoto. Intendeva dire che le decisioni delle Nazioni Unite sulla creazione di uno Stato palestinese non sono state attuate per decenni. Non è rimasto quasi nulla dei territori che avrebbero dovuto costituire lo Stato palestinese.
Guardate la reazione della leadership israeliana quando Guterres ha detto che l’attacco terroristico non è avvenuto nel vuoto. Il rappresentante permanente di Israele presso l’ONU a New York (colui che all’epoca ricopriva questa carica) ha dato in escandescenze. Chiese che Guterres venisse destituito dalla sua posizione.
L’impunità è una qualità deleteria. Abbiamo detto più volte ai nostri colleghi israeliani che l’Unione Sovietica, il nostro Paese, ha fatto più di chiunque altro su questa terra per salvare gli ebrei e sconfiggere coloro che hanno scatenato l’Olocausto. Non sono stati solo gli ebrei a perire nell’Olocausto, ma anche un numero enorme di russi, bielorussi, ucraini, kazaki e altri popoli che vivevano sul territorio dell’attuale Russia o sul territorio dell’Unione Sovietica hanno perso la vita.
Quando alcuni funzionari giustificano le loro azioni dicendo che loro – il popolo ebraico – sono stati vittime dell’Olocausto e quindi possono essere perdonati, si tratta di una tendenza preoccupante. È un segno dell’eccezionalismo caratteristico della Germania di Hitler e della sua ideologia.
Ho molti amici in Israele. La stragrande maggioranza di loro capisce che la questione di uno Stato palestinese deve essere risolta e che sopprimere i diritti naturali del popolo palestinese è inaccettabile.
Domanda (ritradotta dall’arabo): A proposito di esportazione della democrazia (come dicono gli americani), cosa pensa la Russia dei processi democratici negli Stati Uniti e degli attentati alla vita di Donald Trump, che sono direttamente collegati all’Ucraina?
Sergey Lavrov: Gli attuali sviluppi negli Stati Uniti sono una manifestazione del loro “complesso di esclusività” e di superiorità, che abbiamo appena menzionato in relazione alla politica degli Stati Uniti in Medio Oriente e al sostegno di Washington alle violazioni delle autorità israeliane di tutte le disposizioni del diritto umanitario internazionale.
La democrazia di tipo americano è una loro invenzione. Se a loro piace quel sistema di potere statale, in cui la vittoria elettorale non è concessa al candidato per cui la maggioranza dei cittadini ha votato, ma all’altro candidato, che se lo tengano pure e lascino in pace le altre nazioni.
Ricordo di aver parlato con l’allora Segretario di Stato americano Condoleezza Rice, che criticò il nostro processo elettorale. Risposi che negli Stati Uniti le elezioni non sono dirette, ma in due fasi. Di conseguenza, un candidato che riceve una minoranza di voti a volte finisce alla Casa Bianca. Ha detto che ne sono consapevoli, ma che non è un nostro problema e che se ne occuperanno da soli. Non sarebbe opportuno applicare la stessa logica ad altri Paesi?
Alcuni Paesi, ad esempio nel Golfo Persico, sono a loro agio con la monarchia, e perché dovrebbe importare a qualcuno se la gente è soddisfatta della propria vita? La Cina ha un sistema di governo diverso e lo stesso vale per la Russia.
Quando gli Stati Uniti dicono di combattere per la democrazia, ingannano il mondo. Stanno combattendo per portare al potere persone che faranno gli ordini degli americani. Questo è quanto. Non stanno facendo nient’altro.
Credo che i politici americani, se chiedete loro perché parlano solo di esportare il loro modello di democrazia in tutto il mondo, e propongono di parlare di democrazia nelle relazioni internazionali, si rifiuteranno di farlo. Vi diranno che gli affari internazionali si basano su un “ordine basato su regole”. Tuttavia, la democrazia, così come definita nella Carta delle Nazioni Unite, si basa sull’uguaglianza sovrana degli Stati.
Prendete qualsiasi crisi che abbia coinvolto gli Stati Uniti dopo o anche prima della creazione dell’ONU. La politica estera statunitense non ha mai rispettato il principio dell’uguaglianza sovrana degli Stati.
Quindi, visto che Condoleezza Rice mi ha detto che era il loro sistema e che dovevamo lasciarli in pace, dico agli americani che dovrebbero applicare questo principio anche agli altri Paesi. Hanno un sistema diverso. Lasciateli stare e non interferite negli affari degli altri.
Domanda (ritradotta dall’arabo): Alcuni sostengono che il mondo ha bisogno che Donald Trump mantenga la poltrona [alla Casa Bianca] per i prossimi quattro anni, che questo gioverebbe al mondo.
Il presidente Putin ha recentemente fatto una battuta sulle elezioni statunitensi. Ha detto che la Russia ha sostenuto Kamala Harris. In che modo la Russia sta adattando la sua politica al futuro presidente? Quanto cambierà?
Sergey Lavrov: Era una battuta. Il Presidente Putin ha un buon senso dell’umorismo. Spesso scherza durante le sue dichiarazioni e interviste.
Non vedo differenze a lungo termine nel nostro atteggiamento nei confronti delle elezioni attuali o precedenti negli Stati Uniti, perché sono governati dal famigerato “Stato profondo””;
Il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden si trova in uno stato fisico che gli impedisce di guidare il Paese da molto tempo. Ma il Paese continua a far girare questi “ingranaggi”. Continua la campagna militare attraverso l’agenzia del regime ucraino e in altre parti del mondo. Continua a bloccare tutte le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che sollecitano un cessate il fuoco a Gaza e sulla sponda occidentale del fiume Giordano. La “macchina” è al lavoro. Ed è pronta ad affrontare qualsiasi rivale che possa minacciare il dominio americano.
Gli americani stanno spingendo la Cina come principale minaccia per il loro Paese. Hanno introdotto molte sanzioni contro la RPC (ma non tante quante contro la Russia). Stanno tagliando i canali con cui le moderne tecnologie arrivano in Cina, nel tentativo di rallentare lo sviluppo di questo settore. La Cina svilupperà le tecnologie da sola, ma ci vorrà un po’ più di tempo.
Cosa stanno facendo gli occidentali nei confronti delle esportazioni cinesi, soprattutto di auto elettriche, batterie per auto elettriche e altri prodotti? Mentre il Presidente Xi Jinping era in visita in Francia, la Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen è venuta a Parigi e ha dichiarato pubblicamente che stava imponendo dazi del 100% sulle auto elettriche cinesi, perché, ha detto, i veicoli erano troppo economici e questo stava danneggiando i produttori europei. Ma dov’è la concorrenza leale che l’Occidente era solito promuovere come principio fondamentale? O l’inviolabilità della proprietà e molto altro? Tutto questo appartiene ormai al passato.
Non mi faccio illusioni sul leader statunitense. [Quando Donald Trump era presidente] ha avuto diversi incontri con Vladimir Putin. Sono stato anche ricevuto alla Casa Bianca un paio di volte. È stato amichevole. Ma l’amministrazione Trump ha regolarmente e costantemente introdotto sanzioni contro la Federazione Russa e tali sanzioni erano piuttosto pesanti.
Alla fine abbiamo concluso che l’autosufficienza era l’opzione migliore. Non riporremo mai più le nostre speranze nell’arrivo di un “bravo ragazzo” alla Casa Bianca o in qualsiasi altra capitale occidentale, che aiuti a raddrizzare le cose nel nostro Paese.
Domanda (ritradotta dall’arabo): Abbiamo iniziato la nostra conversazione parlando dell’importanza del continente africano. La Russia vi ha ottenuto alcuni successi grazie alla cooperazione, anche militare, con diversi Paesi. Qual è la visione della Russia sul suo ruolo in questa regione?
Sergey Lavrov: Abbiamo visto questo ruolo per decenni, quando abbiamo sostenuto attivamente (ne ho già parlato) la lotta dei popoli africani per ottenere l’indipendenza, scrollarsi di dosso il giogo coloniale e porre fine alla politica dell’apartheid. Le nazioni africane e i loro leader apprezzano il nostro contributo allo sforzo per costruire un mondo migliore e garantire l’uguaglianza. Vediamo che le giovani generazioni di africani vengono educate al rispetto della nostra storia comune.
Non abbiamo mai tratto benefici unilaterali dalle nostre relazioni con i Paesi africani. Basti pensare ai numerosi impianti industriali che l’Unione Sovietica ha costruito nella Repubblica Araba d’Egitto. Oggi questi impianti sono la spina dorsale dell’economia e dell’industria del Paese. Attualmente stiamo costruendo una centrale nucleare e creando una zona industriale russa nell’area del Canale di Suez. Ne abbiamo discusso il 16 settembre 2024, quando il ministro degli Esteri egiziano Badr Abdelatty era in visita nella Federazione Russa.
Quando l’Unione Sovietica ha stabilito relazioni con altri Paesi africani, ha sempre contribuito allo sviluppo delle basi della loro economia sovrana e alla creazione di un sistema di istruzione. Ogni anno, decine di migliaia di africani continuano a studiare nelle università russe. I Paesi interessati hanno istituito associazioni di ex alunni delle università sovietiche e russe.
La nostra comune eredità storica predetermina l’attuale livello di amicizia e di cooperazione reciprocamente vantaggiosa. La Federazione Russa non era nelle migliori condizioni, sia sociali che economiche, dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. A quel tempo, abbiamo dedicato molta meno attenzione all’espansione della nostra collaborazione con gli amici africani. Negli ultimi 15 anni, continuiamo a sviluppare queste relazioni dopo aver ripristinato l’economia e normalizzato la vita del nostro Stato e della nostra società.
Ad oggi si sono svolti due vertici Russia-Africa (nel 2019, a Sochi e nel 2023, a San Pietroburgo). Nel novembre 2024, Sochi ospiterà la prima riunione dei ministri degli Esteri russo-africani, in conformità con una decisione del vertice del 2023. Insieme ai nostri colleghi africani stiamo pianificando di tenere un vertice regolare due o tre anni dopo nel continente africano.
Abbiamo un programma fitto. La Commissione dell’Unione africana e il governo della Federazione russa hanno elaborato un piano d’azione fino alla fine del 2026. Esso comprende tutte le sfere della nostra collaborazione, tra cui l’economia e gli investimenti, nonché la sfera sociale, l’istruzione e gli scambi culturali. Possiamo constatare che i nostri amici africani sono sinceramente interessati (su base reciproca) ad ampliare la collaborazione.
Domanda (ritradotta dall’arabo): L’associazione BRICS si sta espandendo rapidamente, consolidando le sue posizioni e cooperando con diversi Paesi. Molti Stati vorrebbero unirsi ad essa. Allo stesso tempo, questa associazione sta affrontando alcune sfide. Come affrontate queste sfide? Qual è la sua idea di cooperazione di successo per il mondo intero?
Sergey Lavrov: La ricetta è molto semplice: è necessario rispettare pienamente il diritto internazionale. Prima di tutto, cito ancora una volta la Carta delle Nazioni Unite, questa implica il principio dell’uguaglianza sovrana degli Stati e della non ingerenza negli affari interni degli altri. È necessario promuovere una collaborazione basata su un equilibrio di interessi che dobbiamo trovare. Proprio come l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, la Lega degli Stati Arabi e il Consiglio di Cooperazione del Golfo, il BRICS funziona sulla base del consenso. Il BRICS è un’associazione basata su un atteggiamento di rispetto reciproco e sulla considerazione reciproca degli interessi degli altri.
Non esiste un principio simile nell’Unione Europea o nella NATO. Gli Stati Uniti sono l’egemone e non tollerano obiezioni alle loro politiche. L’Unione Europea e Bruxelles hanno creato una burocrazia che dice ai Paesi sovrani cosa fare. I cittadini non hanno votato per questa burocrazia. Hanno invece votato per i loro presidenti e primi ministri; e in seguito è stato istituito un sistema burocratico di comune accordo. Basta guardare il comportamento irrispettoso dei funzionari di Bruxelles al giorno d’oggi.
Una situazione simile è impossibile nei Paesi BRICS. L’associazione sostiene il principio del consenso reale, piuttosto che artificiale (quando qualcuno è costretto ad accettare), con l’obiettivo principale di trovare accordi che riflettano l’accordo reciproco di tutti i partecipanti. Non è facile. Più sono i partner, più è difficile trovare un accordo. Ci vuole più tempo per finalizzare un accordo basato sul consenso rispetto a una soluzione basata sul voto. Tuttavia, tali accordi sono molto più resistenti e praticabili di qualsiasi cosa imposta dall’esterno. Questo è l’intero e semplicissimo segreto.
La BRI sta sviluppando la cooperazione in campo economico e finanziario. C’è una nuova banca per lo sviluppo, che si sta rafforzando. C’è una cooperazione in politica, nella sfera umanitaria, nello sport, nell’istruzione e nella cultura. Quest’anno, in qualità di presidente dei BRICS, abbiamo già organizzato 150 eventi e ne abbiamo in programma altre decine. Tutti questi eventi sono di grande interesse e vedono la partecipazione di delegazioni, ministeri, parlamenti e organizzazioni pubbliche. Osserviamo gli eventi nei Paesi BRICS e notiamo il genuino interesse dei loro cittadini.
Ciò fornisce una solida base per lo sviluppo di un partenariato strategico all’interno dell’associazione. Attualmente i BRICS comprendono 10 Paesi, il cui numero è raddoppiato rispetto all’anno scorso. Più di 30 Paesi hanno già presentato domanda di interazione o di adesione all’associazione. Al vertice che si terrà a Kazan in ottobre, uno dei principali punti all’ordine del giorno sarà l’esame delle domande degli Stati che desiderano interagire e collaborare con i BRICS.
Domanda (ritradotta dall’arabo): Volevamo discutere di un problema comune: il superamento dell’egemonia del dollaro e le sanzioni imposte dagli Stati Uniti a Russia e Iran. Questa situazione era stata prevista in precedenza. In particolare, si era detto che il dollaro sarebbe stato usato come arma contro la Russia e l’Iran. Ora, nonostante tutto questo, la Russia vuole davvero che Donald Trump torni alla Casa Bianca?
Sergey Lavrov: Donald Trump ha denunciato la politica dell’attuale amministrazione che, come ha esplicitamente dichiarato, distrugge il ruolo del dollaro e mina la forza economica degli Stati Uniti, che si basa fortemente sul dollaro. Il debito nazionale statunitense è di 36.000 miliardi di dollari. I soli interessi sul debito nazionale statunitense ammontano a 1.000 miliardi di dollari all’anno. Senza contare il capitale del debito. Donald Trump ha dichiarato direttamente che le sanzioni imposte dall’amministrazione Biden, sfruttando la capacità del dollaro di essere una valuta di riserva globale, sono dannose per l’economia statunitense.
Sono d’accordo con lui. Inoltre, sono d’accordo non perché lo voglia, ma perché la stragrande maggioranza dei Paesi è già cauta su qualsiasi transazione nell’economia globale in cui sarebbe dipendente dal dollaro. Questa dipendenza persiste. È enorme, anche nella Repubblica Popolare Cinese, in India e nella maggior parte delle economie mondiali. Questa dipendenza è già stata riconosciuta come un fenomeno che mette a rischio lo sviluppo dei Paesi. Il dollaro viene gradualmente sostituito dai regolamenti in valuta nazionale.
Al vertice BRICS dello scorso anno, il Presidente del Brasile Luiz Inacio Lula da Silva ha suggerito che i BRICS dovrebbero prendere in considerazione la creazione di una piattaforma di pagamento alternativa che potrebbe essere utilizzata dai membri dell’associazione e da altri Paesi interessati. Questo compito è stato fissato per il vertice di Kazan, che sarà presieduto dal Presidente della Russia Vladimir Putin. Ci aspettiamo di ricevere dai ministri delle finanze e dalle banche centrali dei Paesi BRICS un rapporto su come creare piattaforme di pagamento alternative. Oltre il 90% del nostro commercio con la Cina avviene in valute nazionali che evitano il dollaro. Nel commercio con l’India, questa percentuale ha raggiunto il 60%. Stiamo iniziando a orientarci verso queste forme di interazione con la maggior parte dei Paesi. È chiaro che gli Stati Uniti continuano a stampare dollari e utilizzano queste banconote svalutate per mantenere la loro politica di pressione economica sugli altri Paesi. Tuttavia, questa epoca si sta avvicinando al suo declino.
Domanda (ritradotta dall’arabo): Naturalmente non si possono dividere la politica, l’economia e le relazioni con l’Europa. Perché la Russia non ha tagliato le esportazioni di gas all’Europa nonostante il suo atteggiamento negativo nei confronti della Russia? Perché continua a inviare gas all’UE?
Sergey Lavrov: Siamo persone oneste. Abbiamo firmato contratti a lungo termine con l’Europa. Rispettiamo sempre i nostri obblighi, a differenza dell’Europa o degli Stati Uniti.
Abbiamo lavorato per decenni durante l’era sovietica, a partire dagli anni ’70, per sviluppare una cooperazione reciprocamente vantaggiosa nella sfera della fornitura di gas. È stato grazie al gas russo a prezzi accessibili che i settori energetici dell’Europa, e in primo luogo della Germania, e le loro economie nel complesso hanno avuto un andamento così positivo.
Il cancelliere Olaf Scholz ha dichiarato in un’intervista che è stata la Russia a tagliare le esportazioni di gas in Europa. Perché una persona adulta dovrebbe mentire? Tutti sanno cosa è successo. Quando Angela Merkel era cancelliere, gli Stati Uniti impedirono alla Germania di lanciare i gasdotti Nord Stream 1 e 2 e di utilizzare il più costoso – molto più costoso – GNL americano. Oggi l’Europa copre il suo fabbisogno energetico di base con il gas naturale liquefatto, compreso il GNL americano. Ma se qualcuno volesse acquistare il nostro gas, non ci rimettiamo ai nostri accordi. Siamo vicini. Ci sono gasdotti. Sebbene tre tratti del Nord Stream siano stati fatti esplodere, esistono altri percorsi per i gasdotti, anche attraverso l’Ucraina e la Türchia, attraverso il Mare di Mezzo. Se la cooperazione è reciprocamente vantaggiosa, perché darsi la zappa sui piedi?
Un anno fa, ho letto una dichiarazione del ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire, che affermava che le industrie in Europa, compresa la Francia, pagavano l’elettricità quattro volte di più che negli Stati Uniti. Questo è esattamente ciò che volevano gli Stati Uniti.
Cercano sempre di sbarazzarsi dei rivali. Quando hanno visto la Russia come rivale, hanno creato un regime antirusso, russofobo e nazista in Ucraina e lo hanno messo contro il nostro Paese. Anche l’UE era un rivale per gli Stati Uniti. Non è più un rivale e non lo sarà mai, se interpreto correttamente le tendenze di sviluppo in Europa.
L’Europa si sta deindustrializzando. Quando uno dei migliori asset della Germania – l’industria automobilistica – inizia a trasferire la produzione in altri Paesi e la Volkswagen chiude i pantaloni e licenzia migliaia di dipendenti, è suggestivo.
La burocrazia europea sta seguendo obbedientemente la strada tracciata dagli Stati Uniti. Ma sempre più Paesi dell’UE si stanno rendendo conto che questo non è nel loro interesse, ma in quello del loro partner d’oltreoceano.
Domanda (ritradotta dall’arabo): Non posso fare a meno di chiederle della Cina per descrivere completamente la situazione. Quando le relazioni di partenariato strategico saranno elevate al livello di una coalizione? Questo avverrà? Si sono svolte esercitazioni militari, comprese quelle nel Mar del Giappone. Le relazioni tra Russia e Cina si stanno sviluppando attivamente. È possibile affermare che i due Paesi stabiliranno una coalizione affiatata?
Sergey Lavrov: Queste relazioni sono le migliori di tutta la storia dei legami Russia-Cina. Sono proprio strategici.
Ci chiedono spesso quando ci muoveremo per stabilire un’alleanza militare. Non siamo obbligati a farlo. Organizziamo regolarmente esercitazioni militari, comprese quelle navali, terrestri e aeree. I nostri eserciti collaborano, mantengono relazioni amichevoli, imparano a condurre operazioni congiunte e si addestrano insieme. Tutto questo avviene senza alcuna alleanza di tipo NATO. Continueremo certamente la nostra collaborazione strategica in tutti gli ambiti, senza eccezioni.
Manteniamo un volume di scambi reciproci da record, che ha raggiunto circa 230 miliardi di dollari nel 2023. Questi volumi tendono ad aumentare ulteriormente. Manteniamo la più stretta cooperazione reciprocamente vantaggiosa nel campo dell’energia e di tutto ciò che è legato alle forniture di gas e all’industria dell’energia nucleare.
I nostri legami culturali, umanitari e di istruzione si stanno sviluppando. La lingua russa sta diventando sempre più popolare in Cina, mentre la lingua cinese sta diventando più popolare in Russia. Siamo due grandi Stati e due grandi nazioni, oltre che vicini immediati. Abbiamo interessi comuni nel facilitare la nostra sicurezza, soprattutto quando gli Stati Uniti stanno cercando di promuovere un sistema di tipo NATO nella regione dell’Asia-Pacifico e stanno creando vari blocchi, tra cui l’AUKUS, nonché altre organizzazioni trilaterali e quadrilaterali. Ovviamente, tutto questo viene fatto in funzione di un obiettivo apertamente dichiarato: contenere la Cina e la Russia. Dobbiamo essere vigili e questo ci avvicina ancora di più. Siamo partner naturali.
Domanda (ritradotta dall’arabo): Quali sono le relazioni della Russia con gli Emirati Arabi Uniti? Abbiamo notato che queste relazioni hanno raggiunto un livello completamente nuovo. Gli Emirati Arabi Uniti svolgono un ruolo importante nel rimpatrio dei prigionieri di guerra russi e ucraini, un ruolo molto importante. Come si può commentare?
Sergey Lavrov: Le relazioni con tutti i Paesi arabi, senza eccezioni, comprese quelle con i sei Stati del Golfo Persico, si basano su incontri regolari tra i nostri leader e sui trattati firmati. Queste relazioni abbracciano tutte le sfere, senza eccezioni. Vorrei sottolineare in particolare la nostra collaborazione nell’ambito dell’organizzazione OPEC+ e del Forum dei Paesi esportatori di gas. Si tratta di una buona base materiale e oggettiva per il nostro partenariato strategico con gli Emirati Arabi Uniti, l’Arabia Saudita, il Qatar e altri Paesi del Golfo Persico.
Infatti, i nostri amici degli Emirati Arabi Uniti, dell’Arabia Saudita e del Qatar stanno dando il loro contributo alla risoluzione delle questioni umanitarie, nel contesto della nostra operazione militare speciale. Come avete notato, questo include lo scambio di prigionieri di guerra. Plaudiamo a questa cooperazione, che mira ad aiutare ad affrontare i destini della gente comune in linea con motivazioni genuine, piuttosto che per scopi di auto-pubblicità e PR.
Domanda (ritradotta dall’arabo): La mia ultima domanda riguarda il Libano. Il Ministero degli Esteri russo ha rilasciato una dichiarazione sugli ultimi sviluppi in Libano, ovvero l’esplosione di cercapersone rivolti a membri di Hezbollah. Si tratta di un’escalation. Dal momento che lei e il Presidente Vladimir Putin mantenete i contatti con tutte le parti in conflitto, come valutate la situazione?
Sergey Lavrov: Siamo contrari a qualsiasi escalation. Purtroppo, c’è chi cerca di scaldare la situazione al massimo, in particolare per provocare l’interferenza delle forze armate statunitensi nella regione. Questo è del tutto ovvio. Basta ricordare l’assassinio di Ismail Haniyeh durante la cerimonia funebre del Presidente Ibrahim Raisi nella capitale della Repubblica Islamica dell’Iran. Non riesco a immaginare nulla di più cinico. Apprezzo il fatto che la Repubblica Islamica dell’Iran non abbia avuto un crollo, come si suol dire, o non sia scivolata in azioni militari di risposta su larga scala. Si pensava che l’Iran avrebbe fatto qualcosa che avrebbe fatto interferire le forze armate degli Stati Uniti nella situazione.
Forse gli sviluppi intorno al Libano sono simili. Credo che Hezbollah si stia comportando con moderazione, considerando le sue capacità. Vogliono provocarlo con lo stesso obiettivo di rendere inevitabile l’interferenza degli Stati Uniti nella guerra. Credo che l’amministrazione Biden sia consapevole di questo pericolo. Ovviamente, non vogliamo che scoppi una grande guerra.
A questo punto, la cosa principale è ottenere un cessate il fuoco completo nella Striscia di Gaza e in tutti i territori palestinesi, risolvere prontamente le questioni umanitarie, riprendere le forniture di aiuti nei volumi richiesti e, ovviamente, avviare negoziati sostanziali sulla creazione di uno Stato palestinese come terzo passo necessario. Senza di ciò, le esplosioni di violenza in Medio Oriente continueranno.
Domanda (ritradotta dall’arabo):
Sergey Lavrov: Personalmente, ho buoni rapporti con molti dei miei colleghi israeliani, compresi quelli precedenti. Parlando della politica mediorientale, il Presidente Vladimir Putin sottolinea il pieno impegno della Russia per la sicurezza e gli interessi fondamentali dello Stato di Israele.
Non a caso ho menzionato la necessità di attuare le risoluzioni che richiedono di risolvere le questioni mediorientali sulla base di due Stati, in modo che due Stati indipendenti e sovrani, Israele e Palestina, esistano come buoni vicini, sicuri l’uno per l’altro e per l’intera regione. Questo approccio essenziale non ha bisogno di spiegazioni: è conforme agli interessi sia di Israele che della Palestina.
In tutte le nostre azioni sottolineiamo sempre che nessuna soluzione sarà praticabile se non garantirà la sicurezza di Israele, tra le altre cose, ma non a spese della sicurezza degli altri.
Tale retorica dovrebbe essere presa sul serio, non minimizzata, ma non dovrebbe neanche essere esagerata.
Lavrov ha rilasciato un’intervista illuminante a Sky News Arabia in cui ha spiegato cosa spera di ottenere la Russia parlando delle sue linee rosse. I Mainstream Media (MSM) sono convinti che siano prive di significato e che tutte queste linee possano essere attraversate senza timore della Terza guerra mondiale, mentre la Alt-Media Community (AMC) interpreta tutta questa retorica come un accenno a una risposta nucleare in quell’evento. Si scopre che hanno entrambi ragione e torto per metà, secondo quanto rivelato da Lavrov sui calcoli del suo paese:
“Sembra proprio che abbiano una mentalità infantile (l’Occidente), nonostante siano adulti e ricoprano posizioni di responsabilità: ministri, primi ministri, cancellieri, presidenti, ecc.
Da diversi mesi si parla del fatto che la Russia si limita a minacciare e menzionare alcune “linee rosse”, che l’Occidente continua a oltrepassare senza che accada nulla.
…
Parliamo di “linee rosse” nella speranza che le nostre valutazioni e dichiarazioni vengano ascoltate da chi prende le decisioni in modo intelligente.
È stupido dire che premeremo il pulsante rosso, se domani non farete come vi chiedo. Sono sicuro che i decisori siano consapevoli di cosa intendiamo in queste situazioni. Nessuno vuole una guerra nucleare.
Lo abbiamo detto più e più volte. Lasciate che vi assicuri che abbiamo armi il cui uso comporterà gravi conseguenze per i padroni del regime ucraino”.
Ricordiamo che Putin ha descritto l’espansione della NATO in Ucraina come il superamento di una linea rossa per la Russia durante il suo discorso del 24 febbraio 2022, in cui annunciava l’inizio dell’espansione speciale della Russia. operazione :
“Non possiamo restare inerti e osservare passivamente questi sviluppi. Sarebbe una cosa assolutamente irresponsabile da parte nostra. Qualsiasi ulteriore espansione dell’infrastruttura dell’Alleanza del Nord Atlantico o gli sforzi in corso per ottenere un punto d’appoggio militare nel territorio ucraino sono inaccettabili per noi… Non è solo una minaccia molto reale per i nostri interessi, ma per l’esistenza stessa del nostro stato e per la sua sovranità. È la linea rossa di cui abbiamo parlato in numerose occasioni. L’hanno oltrepassata.
…
Non ci dovrebbero essere dubbi per nessuno che qualsiasi potenziale aggressore andrà incontro a sconfitta e conseguenze nefaste se attaccasse direttamente il nostro paese… Non importa chi cerca di ostacolarci o, a maggior ragione, di creare minacce per il nostro paese e il nostro popolo, devono sapere che la Russia risponderà immediatamente e le conseguenze saranno come non ne avete mai viste in tutta la vostra storia. Non importa come si svilupperanno gli eventi, siamo pronti. Sono state prese tutte le decisioni necessarie a questo riguardo”.
Prima di procedere, ecco cinque briefing di base che i lettori potrebbero essere interessati a rivedere:
Ora analizzeremo tutto nel contesto della spiegazione di Lavrov sulle linee rosse della Russia.
Fin dall’inizio, il riferimento di Putin a questo era in relazione al motivo per cui aveva autorizzato l’operazione speciale, vale a dire per fermare la continua espansione della NATO in Ucraina, sebbene all’epoca clandestina. In seguito ha anche esplicitamente messo in guardia contro chiunque “attacchi direttamente il nostro paese”, cosa che la NATO non ha ancora fatto, sebbene consentire all’Ucraina di usare le sue armi a lungo raggio a tale scopo sarebbe un’esagerazione. Da allora, tuttavia, l’Ucraina ha attaccato direttamente la Russia in numerose occasioni, ma non è seguita alcuna risposta nucleare.
L’ultima parte del suo discorso sopra menzionato, in cui il leader russo ha avvertito di come “le conseguenze saranno come non ne avete mai viste in tutta la vostra storia” se “si frappongono sul nostro cammino o, a maggior ragione, creano minacce per il nostro Paese e il nostro popolo”, è la più controversa. Il modo in cui ha formulato il tutto implicava fortemente che le armi nucleari sarebbero state utilizzate se la NATO avesse trasformato il conflitto in una guerra per procura, ma a posteriori potrebbe aver alluso allo scenario di un attacco diretto della NATO.
In ogni caso, non si è ancora verificato alcun attacco del genere, né la Russia ha utilizzato armi nucleari nonostante il conflitto sia indiscutibilmente diventato una guerra di logoramento per procura con la NATO. Questa osservazione, unita al modo in cui il pubblico occidentale ha inizialmente interpretato le sue intenzioni, ha fatto pensare che la Russia non facesse sul serio nel ricorrere alle armi nucleari per difendere le sue linee rosse, incoraggiando così il “mission creep”. Tuttavia, per tutto il tempo, la NATO deve ancora oltrepassare la linea rossa definitiva di attaccare direttamente la Russia.
A questo punto è rilevante fare riferimento all’intuizione dell’ultima intervista di Lavrov. Come ha detto il massimo diplomatico russo, “Parliamo di ‘linee rosse’ nella speranza che le nostre valutazioni e dichiarazioni vengano ascoltate da intelligenti decisori. È sciocco dire che premeremo il pulsante rosso, se domani non farete come vi chiedo”. Ciò mette in contesto ciò che Putin intendeva rispetto a ogni linea rossa implicita, a parte quella su un attacco diretto della NATO contro la Russia.
L’espansione della NATO in Ucraina prima del 2022 ha esplicitamente oltrepassato la linea rossa della Russia, come lo stesso Putin ha descritto, ma né quella né la decisione del blocco di trasformare il conflitto in una guerra di logoramento per procura e gli attacchi diretti dell’Ucraina (anche contro i civili usando armi e intelligence della NATO) hanno portato a una risposta nucleare. Col senno di poi, le dichiarazioni fortemente formulate di Putin avevano lo scopo di scoraggiare gli ultimi due al fine di ridurre la possibilità che queste escalation degenerassero in una terza guerra mondiale, cosa che lui vuole evitare.
Hanno comunque continuato a farlo, ma con un graduale approccio di “bollitura delle rane” che ha dato alla Russia il tempo di adattarsi alla “nuova normalità” senza sentirsi abbastanza minacciata da intensificare drasticamente, riducendo così le possibilità della spirale di cui sopra. Mentre questa osservazione potrebbe sembrare suggerire che i media mainstream avessero ragione su come le linee rosse della Russia possano essere oltrepassate senza timore della Terza guerra mondiale, è importante ricordare che la NATO non oserà ancora oltrepassare la sua linea rossa definitiva di attaccare direttamente la Russia.
Considerando questo, sia i MSM che l’AMC avevano ragione e torto per metà. Il primo aveva ragione sul fatto che alcune linee rosse possono essere oltrepassate senza innescare una risposta nucleare, esattamente come ha appena confermato Lavrov, ma si sbaglia sul fatto che presumibilmente non ci sono linee rosse il cui attraversamento provocherebbe mai questo. Allo stesso modo, il secondo ha ragione sul fatto che una risposta nucleare è possibile se vengono oltrepassate determinate linee rosse, ma si sbaglia nell’implicare che l’attraversamento di qualsiasi linea rossa porterebbe automaticamente a ciò.
La conclusione è che il famoso discorso di Putin sulle linee rosse era principalmente inteso a scoraggiare un attacco diretto dalla NATO, con l’obiettivo supplementare di scoraggiare il coinvolgimento indiretto del blocco nel conflitto. Il primo è riuscito mentre il secondo no, né l’Ucraina è stata scoraggiata dall’attaccare direttamente la Russia, ma le linee rosse sono ancora alluse per trasmettere all’Occidente che certe escalation dovrebbero essere evitate. Tale retorica dovrebbe essere presa sul serio, non minimizzata, ma non dovrebbe nemmeno essere esagerata.
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Negli ultimi due giorni le cose sono rallentate un po’, perché sia l’esercito russo che quello ucraino si sono riposizionati, uno sfruttando le mosse dell’altro e viceversa.
In particolare, l’Ucraina ha ritirato alcune forze da Kursk e Ugledar, come la 72ª Brigata, per rinforzare finalmente Pokrovsk. Di conseguenza, la Russia ha spostato alcune unità e questo ha avuto due effetti immediati: la direzione di Pokrovsk è leggermente rallentata a causa dell’afflusso di nuove riserve ucraine, mentre la direzione di Ugledar è stata viceversa attivata, in quanto i comandanti russi hanno approfittato del ritiro delle unità per catturare nuovi territori come il villaggio di Preschistovka a ovest.
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Come nota Ropcke, la Russia ha dimostrato di essere ancora in grado di condurre assalti corazzati su larga scala, quando necessario, e con poche perdite, dato che l’Ucraina non è stata in grado di pubblicare granché in relazione a questo attacco, come normalmente fa:
Ci sono state anche notizie che l’AFU ha ritirato alcune strade a New York e Toretsk, ma si è trattato di contrattacchi minori. L’avanzata russa a Pokrovsk, d’altra parte, non si è fermata del tutto, con la conquista di nuovo territorio nell’ala meridionale, che ha iniziato a far apparire il calderone in formazione a nord di Krasnogorovka sempre più disastroso per l’Ucraina:
Molto probabilmente, i russi hanno solo apparentemente smesso di “avanzare” verso la vera e propria città di Pokrovsk perché prima stanno mettendo in sicurezza i fianchi. È strategicamente insensato estendere un saliente troppo lontano senza appiattire il fronte. Quindi potrebbero scegliere di mettere in sicurezza tutti i fianchi per appiattire il fronte e avvicinarsi a Pokrovsk nella disposizione più sicura e compatta possibile:
Questo faciliterebbe l’eventuale presa di Pokrovsk in un accerchiamento da sud, senza estendere eccessivamente un cuneo vulnerabile. Certo, potrebbero non farlo, perché tutto dipende da come i comandanti sul campo giudicano la vulnerabilità dei loro fianchi in base alla forza della resistenza e delle riserve ucraine su questo asse. Se i comandanti ritengono di poter iniziare l’accerchiamento di Pokrovsk senza troppe preoccupazioni, allora potrebbe avvenire più rapidamente. Ma il punto è che non mi sorprenderebbe se conservassero Pokrovsk per molto tempo dopo, e lavorassero prima a far crollare tutti quei mini-cauldron e i fianchi per creare un trampolino di lancio il più potente possibile sull’agglomerato Pokrovsk-Mirnograd.
Il fatto che la direzione di Ugledar sia stata attivata sembra suggerire un piano del genere, perché la cattura della regione di Ugledar supporta l’idea di far crollare l’intera area a est di Kurakhove. Questo è particolarmente vero se si considera che “si dice” che Syrsky stia preparando un contrattacco su larga scala ai fianchi del cuneo di Pokrovsk attraverso tutte le rimanenti brigate di riserva, in un replay dei diversi tentativi di attacco ai fianchi all’inizio di quest’anno ad Avdeevka, quando le forze russe avanzarono verso Stepove-Berdychi-Ochertino, ecc.
Ora commentiamo le questioni geopolitiche più ampie.
I riverberi del massiccio attacco di Poltava continuano a riecheggiare man mano che trapelano ulteriori informazioni sulle conseguenze.
Per esempio, molti hanno dubitato del collegamento con la Svezia, respingendo la tesi degli “addestratori/mercenari svedesi uccisi” come un’esagerazione, nonostante il fatto che il Ministro della Difesa svedese, responsabile della transizione della Svezia nella NATO, si sia scioccamente dimesso letteralmente un giorno dopo.
Una cosa che pochi hanno notato è che nei filmati successivi all’attacco, secondo quanto riferito, c’erano anche soccorritori di lingua svedese che aiutavano i feriti:
È emersa una storia interessante.
Dopo l’attacco missilistico a Poltava, si vede un uomo che parla svedese o norvegese.
Un’altra nota interessante è che un ufficiale americano di stanza in Polonia, che era un “leader eccezionale”, è misteriosamente morto ed è sotto inchiesta.
Sono solo divagazioni schizofreniche, ma ho trovato interessante la tempistica.
Forse qualcuno che parla svedese può discriminare ulteriormente quanto sopra, in particolare il discorso di sottofondo confuso.
Inoltre, il precedente blogger ucraino ha fornito un video di aggiornamento sull’attacco, in cui ribadisce nuovamente la sua rivendicazione delle perdite:
Altre notizie “interessanti” continuano ad arrivare, come quella che un tenente colonnello di alto rango dell’esercito americano è “morto improvvisamente” nel suo appartamento in “Polonia” il giorno successivo ai massicci attacchi russi a Poltava e Lvov:
Immediatamente dopo il massiccio attacco delle forze aerospaziali russe all’Ucraina, il tenente colonnello dell’esercito statunitense Joshua Kamara è morto in Polonia. Aveva 45 anni. È stato riferito che è morto nel campo militare dell’esercito americano a Poznan. Kamara è stato insignito della Legion d’Onore, della Stella di Bronzo e della Medaglia al Merito, oltre ad altri riconoscimenti.
È così che succede. I missili atterrano a Poltava e gli ufficiali dell’esercito americano muoiono improvvisamente da qualche parte in Polonia. Inoltre, il numero di ufficiali della NATO uccisi dopo il nostro attacco ha già raggiunto le decine.
Ciò avviene in concomitanza con la notizia che uno sciame di aerei da trasporto della NATO è stato registrato in discesa sulla Polonia, presumibilmente per evacuare la massa di rappresentanti della NATO morti:
La prova più evidente dell’efficacia dell’attacco missilistico su Poltava è stato lo sciame di aerei medici della NATO (USA, Germania, Polonia, Romania).
Stavano evacuando sia gli istruttori feriti che i corpi morti. In città come Berlino, la polizia sorvegliava i convogli di ambulanze che si recavano agli ospedali entro sera. (Testimonianza di un seguace)
Allo stesso tempo, è iniziata la “legalizzazione” del personale NATO morto: Il tenente colonnello dell’esercito statunitense Joshua Kamara è morto improvvisamente in Polonia.
Davanti a noi ci sono molti incidenti inaspettati di elicotteri, yacht e jet privati o escursioni in tutto il mondo, con la scomparsa improvvisa di personale NATO.
“A seguito dell’attacco, circa 500 specialisti sono stati uccisi e feriti. Tra i morti e i feriti ci sono militari delle forze armate ucraine e della Guardia Nazionale – specialisti delle comunicazioni, operatori di sistemi di guerra radio-elettronica, intelligence elettronica, veicoli aerei senza pilota, nonché mercenari stranieri provenienti da Polonia, Francia, Germania e Svezia, che stavano addestrando le forze armate ucraine”.
Ci furono anche voci di altre morti, come quella, non confermata, di un soldato polacco che sarebbe morto “misteriosamente” in Polonia.
Ora Lloyd Austin ha dato una risposta piuttosto traballante alla ripetuta domanda sul perché all’Ucraina non sia stato dato il permesso di colpire obiettivi russi più profondi. Ascoltate come si contorce per confabulare una risposta credibile:
Il fatto è che gli Stati Uniti hanno accordi segreti sulla linea rossa con la Russia e sarebbe semplicemente troppo imbarazzante per le figure dell’establishment statunitense ammetterlo, perché sarebbe un enorme segnale di debolezza sulla scena mondiale dover dire: “Mi dispiace, ma non possiamo permettere che colpiscano così in profondità la Russia, altrimenti la Russia ha promesso risposte asimmetriche molto dolorose alle nostre forze, ai nostri sforzi e ai nostri interessi in tutto il mondo, che si rivelerebbero impossibili da contrastare”.
Per molti versi, questo è perfettamente comprensibile, perché per gli Stati Uniti anche solo ammettere quali siano queste debolezze sarebbe una grave violazione della sicurezza nazionale, in quanto permetterebbe ad altri avversari di sapere con precisione dove la Russia tiene gli Stati Uniti “per le palle”, rivelando così le principali vulnerabilità americane. Quindi, chiaramente, non si può biasimare l’establishment statunitense per non aver detto la verità e per essere stato costretto a mettere insieme queste misere scuse una dopo l’altra.
Il fatto è che gli Stati Uniti stanno facendo un pericoloso gioco di equilibri a livello mondiale in questo momento, tra Russia, Cina e Iran/Houthis. Il comando statunitense sa che se si spinge troppo oltre in uno di essi, gli altri due ne approfittano immediatamente. È una presa molto fragile quella che le forze armate statunitensi mantengono sul loro impero, ampiamente sovraccarico e in crisi, e per la prima volta nella storia stanno diventando piuttosto cauti, poiché il pericolo è diventato sempre più palpabile per i responsabili politici.
Certo, ora c’è il rumore che circonda la prossima wunderwaffe dei missili JASSM, che ha un raggio d’azione preoccupantemente ampio, anche se in realtà è solo per il JASSM-ER (Extended Range), che l’Ucraina probabilmente non otterrà, almeno non fino a molto più in là nel tempo, quando la disperazione richiederà un’altra grande spinta morale.
Il JASSM normale raggiunge i 360 km circa, poco più dei 300 km massimi dell’ATACMS. Piuttosto che essere una deliberata “espansione” della capacità, come alcuni pensano, suppongo che l’iniezione del potenziale JASSM possa essere solo per rifornire le scorte di ATACMS in diminuzione, e in breve renderlo più una continuazione della stessa capacità piuttosto che l’introduzione di una nuova. Gli ATACMS non sono molto numerosi: si dice che ne siano stati costruiti solo 3.700 in totale. 600 di questi sono stati già “sparati in combattimento” dagli Stati Uniti e una parte dei rimanenti è stata venduta agli alleati. Pertanto, gli Stati Uniti potrebbero avere solo qualcosa come 2.000 o meno missili ATACMS, forse addirittura 1.000-1.500, come ho letto una volta. E questo è doppiamente problematico perché hanno smesso di produrli in favore di un imminente sostituto soprannominato PrSM o Precision Strike Missile, anche se presumibilmente hanno ricominciato a produrli all’inizio di quest’anno, anche se questo rimane discutibile.
In ogni caso, anche al culmine della produzione potevano produrre solo 100-150 missili all’anno. 18 paesi diversi, secondo wiki, usano o hanno ordinato l’uso di ATACMS. Quindi i 3.700 missili prodotti in vita devono essere divisi tra loro, rendendo possibile che gli Stati Uniti stessi ne abbiano solo 1.000-1.500 o meno. Ciò significa che anche dare all’Ucraina un paio di centinaia di missili potrebbe rappresentare una parte considerevole dell’intero stock statunitense.
Pertanto, i JASSM non sono una sorta di “escalation” contro la Russia, ma piuttosto una disperata misura di ripiego intesa semplicemente come continuazione della capacità ucraina di colpire almeno alcuni obiettivi operativi russi.
Il JASSM, come ho scritto di recente su X, è significativamente inferiore allo Storm Shadow perché si basa principalmente sulla guida GPS/INS, che può essere ampiamente degradata dall’EW russo. Lo Storm Shadow ha la capacità di correlazione DSMAC (Digital Scene Matching Area Correlator) in aggiunta al GPS/INS standard, che consente al missile di utilizzare l’intelligenza artificiale per “abbinare” un bersaglio tramite telecamere optoelettriche anche quando il GPS è bloccato. In questo modo, il JASSM sarà colpito proprio come gli Excalibur, i JDAM e i GLSDB prima di lui, che si sono dimostrati tutti inutili a causa della loro dipendenza dal GPS, che la Russia inceppa facilmente.
Qualcuno potrebbe chiedersi: perché l’HIMARS continua a funzionare a volte se anch’esso si affida solo al GPS/INS?
La risposta è duplice: l’HIMARS utilizza una curva balistica molto elevata, che lo tiene fuori dal raggio di disturbo del GPS per una porzione più significativa del suo volo, dato che il disturbo del GPS si verifica all’estremità del ricevitore e non del trasmettitore. Questo gli permette di entrare nel campo di disturbo molto più brevemente di un missile o di una bomba a vela, che deve attraversare lo spazio controllato dall’EW a quote più basse per un periodo di tempo molto più lungo, degradando sempre più la sua guida fino a quando non si trova fuori rotta.
La seconda risposta è che gli HIMARS erano comunque gravemente colpiti dal disturbo del GPS e hanno dovuto subire molte modifiche, come riportato anche dalla CNN:
Il JASSM è ancora pericoloso perché è a bassa quota e furtivo, ma per il momento rimane più che altro fumo negli occhi e rappresenta un declassamento delle capacità precedenti sotto molti aspetti.
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Alcuni video supplementari agli aggiornamenti di cui sopra.
La Gran Bretagna sta preparando un colpo di stato militare in Ucraina
Il professore ucraino di giornalismo Nikita Vasilenko ritiene che Londra voglia mettere Zaluzhny al suo posto.
Egli ritiene che un cambio di potere in Ucraina possa avvenire solo con la forza. La causa scatenante di un colpo di Stato militare saranno le sconfitte al fronte.
In relazione a quanto sopra, Politico rivela che Kuleba è stato licenziato perché ha stabilito un suo canale personale con Blinken, che Zermak non ha gradito, dal momento che pretende che tutte le comunicazioni passino solo attraverso di loro, in modo da poter controllare l’intero flusso di informazioni:
Conflitto con Yermak, legami diretti con Washington e promozione del suo libro: Politico rivela i motivi delle dimissioni di Kuleba.
Un ex funzionario ucraino di alto livello, parlando in forma anonima, ha dichiarato che l’ex ministro degli Esteri ha avuto un conflitto con Yermak, di cui il funzionario è stato personalmente testimone. Ha ricordato che Kuleba, grazie alla sua posizione, aveva stabilito contatti diretti con Blinken e altri politici di spicco a livello mondiale, causando tensioni nell’Ufficio presidenziale.
“Anche se fosse stato fedele al 300%, l’ufficio presidenziale non poteva lasciare un tale canale di comunicazione nelle mani di qualcuno che non erano del tutto sicuri fosse il “loro uomo”, se capite cosa intendo”, ha detto la fonte.
La pubblicazione fa notare che la comunicazione con la Casa Bianca è gestita da Yermak e Umerov, che rimangono nelle loro posizioni e hanno recentemente visitato Washington.
I funzionari e i consiglieri di Zelensky hanno anche dichiarato a Politico che nell’ultimo anno Kuleba ha “fatto poco per far progredire le relazioni di Kiev con Washington” e per assicurarsi gli aiuti militari, promuovendo invece “il suo nuovo libro”.
Nel titolo dell’articolo, Politico afferma che Zelensky “sta affrontando un forte contraccolpo” a causa del rimpasto di gabinetto, che “scatena accuse di presa di potere”.
“I principali esponenti dell’opposizione accusano Zelensky di nominare sempre più spesso persone appartenenti a una stretta cerchia di fedeli alleati e sostenitori in posizioni di governo, nel tentativo di consolidare il potere attorno al suo ufficio”, si legge nella pubblicazione, che cita la valutazione di un membro del partito di Poroshenko, European Solidarity.
Il deputato di Servant of the People Merezhko nega che vengano nominati solo coloro che sono vicini al potere, citando l’esempio di Umerov, che proviene dal partito Holos.
Un funzionario della Casa Bianca, parlando in forma anonima del rimpasto del governo ucraino, ha detto che “potrebbero esserci motivi di preoccupazione”.
Un Syrsky chiaramente intossicato ha rilasciato un’intervista ad un Amanpour medicato, ammettendo il rafforzamento di Pokrovsk con nuove riserve, pur mentendo sul fatto che la Russia non è affatto avanzata nell’ultima settimana, cosa che invece è chiaramente avvenuta:
Infatti, un comandante della 47a Brigata, Mykola Melnyk, ha apertamente contraddetto il suo C-in-C riferendo quanto i russi siano effettivamente avanzati:
Altre figure di spicco ucraine hanno apertamente deriso Syrsky per aver mentito apertamente:
Qui ammette che “i militari arruolati devono essere messi al fronte il prima possibile”:
Afferma che i soldati appena arruolati vengono sottoposti a un mese di addestramento e ad altre due settimane di addestramento “specialistico” prima di essere scaricati sul fronte. Naturalmente, i prigionieri di guerra catturati riferiscono che la norma più realistica è che tutto questo si riduca a una o due settimane al massimo: l’esagerazione di Zelensky rappresenta semplicemente lo scenario “ideale” che pochi ottengono nella pratica.
Anche Zelensky ha rilasciato una nuova intervista, in cui ha continuato a delineare il suo piano per porre fine alla guerra, sottolineando il fatto che l’operazione Kursk era finalizzata a ritirare le truppe russe da altre zone “problematiche” del fronte:
Sembra sempre più che Zelensky voglia disperatamente porre fine alla guerra quest’anno:
Il leader ucraino Vladimir Zelensky ha esortato i Paesi della NATO a fare pressione sulla Russia affinché accetti le condizioni di pace di Kiev in autunno. Ha fatto questa dichiarazione durante un incontro con il Segretario alla Difesa statunitense Lloyd Austin nella base aerea di Ramstein, in Germania. Gli incontri regolari a Ramstein hanno lo scopo di coordinare gli aiuti militari a Kiev.
Se si sommano tutte le azioni intraprese di recente da Zelensky, si comincia ad avere un quadro molto chiaro di un piano ben preciso:
Andare all in in una scommessa all’ultimo sangue sul Kursk con le sue ultime riserve.
Licenziare l’intero gabinetto in un grandioso “rimpasto” per mantenere il potere ancora per un po’.
Implorare continuamente la fine della guerra, dei negoziati, ecc. e, in particolare, entro la fine di quest’anno, come se avesse una tabella di marcia interna molto precisa che indica che il tempo sta per scadere.
Cosa si ottiene?
Le conclusioni che ne traggo sono le seguenti:
Sa che i suoi uomini si stanno esaurendo
Sa che il suo mandato di governo si sta esaurendo
Sa che il suo capitale politico si sta esaurendo, con l’Europa che si sta indebolendo e gli Stati Uniti che potrebbero presto eleggere Trump, che taglierà il cordone ombelicale dell’Ucraina.
Sa che la Russia sta diventando sempre più forte sotto tutti i punti di vista: economico, militare, sociale e politico.
Sa che l’anno prossimo i problemi sistemici della rete elettrica ucraina saranno catastrofici e ingestibili, causando un caos imprevedibile nella società e nella sua volontà nei suoi confronti.
Zelensky sembra avere due scelte: o continuare la guerra, che si biforca in due possibilità: essere violentemente rovesciato da un colpo di stato, sia esso sponsorizzato dall’Occidente o dai suoi stessi gruppi nazionalisti o dalla società, dopo che il suo mandato politico è scaduto, dato che ora sta operando in tempo illegale, o essere distrutto o catturato da una Russia che prevale.
L’altra scelta è quella di porre fine alla guerra: il problema è che ora è piuttosto impopolare nella società e mantiene la presa sul potere solo attraverso la legge marziale, che richiede ostilità attive. Tuttavia, egli potrebbe pensare che se riuscirà a elaborare un qualche grande accordo di pace che possa essere venduto come molto favorevole all’Ucraina, gli verrà data una possibilità di sopravvivere politicamente. L’unico modo per farlo sarebbe porre fine alla guerra con qualche concessione importante all’Ucraina, come l’invito immediato alla NATO come membro a pieno titolo, ma sappiamo tutti che questo non accadrà mai. Sta esaurendo le opzioni, e nessuna di queste sembra particolarmente appetibile.
Alla fine dei conti, una cosa è certa: sembra che sappia che il tempo sta per scadere, perché continua a parlare di quest’anno come della fine della guerra finale.
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La presidente della commissione per il bilancio della Rada in Ucraina riferisce che sono finiti i soldi per pagare i militari almeno fino al 20 settembre:
“Il Ministero della Difesa ci ha informato che non ha fondi sufficienti per pagare l’indennità di combattimento fino al 20 settembre. Tuttavia, prima di quella data avremo votato gli emendamenti al bilancio dello Stato. Al momento non posso darvi la data esatta della sessione della Verkhovna Rada, ma ci aspettiamo che il voto abbia luogo il 17 o il 18 settembre”. ha detto Pidlasa durante un telethon ucraino.
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Sono state presentate nuove statistiche sulla fuga di massa di uomini ucraini dal Paese:
‼️ 🇺🇦🏴☠️ fuga di massa dall’Ucraina continua: altri 400.000 sono partiti dall’inizio dell’anno, nonostante la riduzione dei sussidi in Europa – Banca Nazionale
▪️From l’inizio di gennaio al 19 agosto 2024, il numero di migranti ucraini all’estero è aumentato di quasi 400.000 persone, e ha raggiunto i 6,7 milioni, ha riferito la Banca Nazionale nella sua revisione macroeconomica mensile per settembre.
▪️The principali Paesi con il maggior numero di rifugiati ucraini sono: Germania – 1,1 milioni di persone, Polonia – 976 mila persone, Repubblica Ceca – 361 mila persone.
▪️At stesso tempo, i Paesi destinatari stanno gradualmente inasprendo le condizioni di soggiorno dei nostri cittadini.
▪️”La carenza di personale, soprattutto qualificato, rimane elevata. Dopo un leggero calo, probabilmente causato dalla diminuzione della domanda dovuta alle chiusure delle imprese a causa di interruzioni di corrente, secondo un sondaggio dell’IEI (Istituto per la ricerca economica), la carenza di lavoratori qualificati ha raggiunto un nuovo massimo. Secondo un sondaggio del Centro Razumkov, il 60% dei lavoratori dipendenti (datori di lavoro, assunti), dei comproprietari di imprese, dei lavoratori autonomi) ha indicato una carenza di personale nella propria impresa”, si legge nella nota della NBU.
RVvoenkor
Questo fa seguito all’ultimo articolo di Die Welt, che accusa la Russia di aver scatenato una nuova crisi dei rifugiati costringendo l’Ucraina a un esodo di massa quest’inverno:
Die Welt prevede un esodo di massa di persone dall’Ucraina in inverno.
▪️ L’articolo afferma:
In tutto il Paese si stanno già verificando interruzioni di corrente a rotazione. In estate sono forse un piccolo inconveniente e causano problemi reali solo quando si tratta di unità di refrigerazione o strutture di stoccaggio. In inverno, però, una situazione del genere potrebbe portare a una catastrofe su larga scala. Milioni di persone fuggirebbero in massa.
▪️ La pubblicazione osserva che rimane solo la metà della capacità di produzione energetica dell’Ucraina e la situazione potrebbe diventare estremamente difficile entro l’inverno.
L’intensità con cui le centrali elettriche sono diventate un bersaglio è illustrata dal solo Gruppo DTEK, che gestisce sei centrali termiche. Queste sei centrali sono state colpite in totale 180 volte dal febbraio 2022. Tre dipendenti sono stati uccisi e più di 50 feriti. DTEK ha perso circa il 90% della sua capacità produttiva.
Il denaro non è l’unico problema quando si tratta di riparare i danni. Ogni colpo provoca un grande cantiere. Le riparazioni richiedono tempo. Secondo un portavoce della centrale elettrica, ci vuole almeno un mese solo per rimuovere i detriti – strutture del tetto cadute, travi, attrezzature danneggiate e macerie. Ci vorranno poi almeno sei mesi, ma più probabilmente un anno e mezzo, per riparare gli impianti.
Se tutto questo non è a posto, c’è il rischio di morte per freddo, disastri sanitari e, di conseguenza, l’esodo di massa di milioni di persone. La centrale elettrica in questione si trova direttamente su questa linea del fronte. I danni ne sono la testimonianza.
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Per quanto riguarda le statistiche, MediaZona continua a registrare un tasso di perdite russe relativamente basso negli ultimi tempi:
Sostengono che spesso c’è un ritardo di un mese o due nell’ottenere statistiche accurate, poiché i necrologi spesso impiegano quel tempo a raggiungere il web per essere scoperti dai loro investigatori, ma in ogni caso la tendenza al ribasso è evidente. Possiamo quindi mettere a tacere le affermazioni ucraine secondo cui l’offensiva estiva russa del 2024 sta generando un “logorio senza precedenti” nelle Forze Armate russe. Noterete che questo è l’ultimo appiglio a cui si aggrappano per tenere a galla la loro propaganda. Se non fosse per la narrazione che la Russia sta subendo perdite massicce, sarebbero costretti ad ammettere che l’offensiva estiva ad ampio raggio è un affare molto grande, che ha creato sfondamenti devastanti. Finora sono stati in grado di liquidare le loro ingenti perdite territoriali solo con la scusa delle “perdite elevate”, dicendo: “Tutto questo territorio che stiamo perdendo verso Pokrovsk non significa nulla in cambio dell’abbattimento dell’intero esercito russo” .
In realtà, possiamo vedere che non si sta distruggendo nulla, nonostante l’offensiva russa degli ultimi mesi sia stata la più grande dell’intera guerra, se si conta il numero totale di fronti attivi. Eppure le perdite sembrano essere le più basse in assoluto dalla “tregua” dell’estate 2022, quando la Russia era impegnata a riorientare le sue scarse forze dopo il ritiro di Kiev, proprio prima che l’Ucraina ne approfittasse e lanciasse le offensive di Kherson e Kharkov.
I lettori più attenti noteranno che diversi resoconti diretti di alcuni miei recenti articoli da entrambi i lati hanno lasciato intendere che i recenti assalti hanno visto pochissime perdite russe. L’ultima volta un comandante russo ha detto che il nuovo assalto alla zona di Ugledar non ha registrato alcuna perdita per la sua squadra; qualche tempo prima, ho pubblicato un rapporto ucraino che diceva che i russi stanno catturando le loro posizioni con pochissime perdite a causa dell’incapacità degli ucraini di colpirli a causa delle nuove tattiche di “dispersione” che sfruttano l’avanzamento veloce delle motociclette insieme alle scarse munizioni ucraine. .
A questo proposito, volevo condividere questo post che contestualizza in modo toccante alcune delle mie elaborazioni su questa posizione. Questo è per tutte le persone che gridano a gran voce che la Russia ha bisogno di mettere in atto una seconda ondata di mobilitazione – ci sono molti piccoli ma importanti dettagli logistici che trascurano e che rendono la proposta non così semplice come immaginano:
Senza cosa non ha senso la seconda ondata di mobilitazione? Esatto, senza la mobilitazione dell’economia. Ma qui tutto è… complicato.
In mezzo all’ennesima conversazione sulla necessità di una seconda ondata di mobilitazione, vorrei davvero porre una domanda: l’economia la reggerà? Inoltre, stiamo parlando di un settore puramente “militare”: abbiamo una produzione sufficiente di veicoli gommati, attrezzature, ricambi auto e molto altro. Poi possiamo ricordare che le banche cinesi stanno iniziando a rispettare le sanzioni, e i pezzi di ricambio da lì tardano ad arrivare – sia per gli UAV che per le auto. E qui ci viene da pensare: quanto è realistico “partorire” istantaneamente attrezzature per 100-150 mila persone? E qui non ha senso guardare all’Ucraina: il loro processo di cattura è continuo, e forniscono equipaggiamenti a tutta la NATO.
Inoltre, una ripetizione della mobilitazione del 2022 è un colpo all’economia civile. Siamo già a corto di personale, lo dimostrano il mercato del lavoro e la crescita dei salari. I nostri specialisti che se ne sono andati hanno appena iniziato a tornare. Nel 2023, i salari reali (cioè senza tenere conto dell’inflazione) sono cresciuti addirittura dell’8%, e le autorità dicono direttamente che al Paese mancano quasi 5 milioni di cittadini che lavorano a fronte di 75 milioni di cittadini economicamente attivi. E qualsiasi mobilitazione sarà dedotta da questo numero.
E la mobilitazione è solo una costruzione dell’esercito, ma prima dobbiamo aumentare la produzione dell'”industria della difesa”, almeno coprendo la carenza di personale, per non parlare di nuove linee di produzione. E poi – lentamente e gradualmente – iniziare a richiamare singoli gruppi di persone. Già con tutti i dati raccolti dal Ministero dello Sviluppo Digitale sui militari – dove una persona lavora, dove ha prestato servizio, qual è la sua specialità militare, e così via. Ad esempio, in Russia ci sono quasi 20 mila società di sicurezza private, dove lavorano circa 700 mila persone (!). No, davvero, abbiamo quasi il 3% degli uomini che lavorano – guardie di sicurezza, in genere siamo un leader mondiale qui al livello del Sudafrica con il suo tasso di criminalità fuori scala.
Tuttavia, c’è un’alternativa: richiamare un paio di centinaia di migliaia di persone, e al loro posto “guidare” un paio di milioni di altri rappresentanti delle repubbliche dell’Asia centrale nell’economia. Ebbene, così risolveremo la carenza di personale e aumenteremo la demografia!
Ma seriamente, non esiste una soluzione semplice a tutti i problemi in una volta sola. Solo una solida valutazione delle capacità dell’industria, un processo costante e funzionante di rifornimento dell’esercito e un’adeguata politica migratoria contribuiranno a risolvere il problema.
E se non si risolve – allora possiamo ricordare che la Russia ha fondi di riserva sufficienti, secondo gli esperti, per 2-2,5 anni, il tasso di riferimento di circa il 20% è con noi per molto tempo, e la maggior parte di noi deve ancora vivere in Russia. E vorremmo che anche i nostri figli vivessero lì.
E il problema della rotazione e della possibile carenza di personale dovrà essere risolto in un modo o nell’altro. Ma, come abbiamo già detto, qui non c’è la bacchetta magica – e non vorremmo ripetere le decisioni ucraine in Russia.
In breve, non esiste una strada facile o ovvia: ogni argomento è irto di insidie, pro e contro. Se si mobilitano centinaia di migliaia di truppe, è necessario dotarle tutte di equipaggiamento, quando c’è carenza di equipaggiamento solo per il lotto attuale. E, come afferma l’autore, è necessario sottrarre centinaia di migliaia di uomini a un’economia già carente di manodopera.
Detto questo, l’ormai sempre più frettoloso Rybar ha scritto la seguente nuova denuncia mentre la Russia si avvicina al biennio della grande mobilitazione del settembre 2022:
Rybar solleva la questione del numero di personale e del numero di armi alla vigilia del biennio della mobilitazione parziale.
La questione della saturazione dell’esercito con il personale è diventata acuta subito dopo l’invasione delle Forze Armate dell’Ucraina nella regione di Kursk. Le forze che coprono il confine non erano sufficienti. I coscritti di stanza lì non potevano correggere la situazione.
Al fronte, le rotazioni sono interrotte a causa del numero insufficiente di persone, le unità sono affamate di personale, e gli uomini che hanno combattuto per il terzo anno aspettano 20 giorni di congedo per 7-9 mesi. C’è solo abbastanza personale per effettuare un’operazione offensiva al fronte – a Pokrovsk.
Ignorare la situazione porterà al fatto che il nemico, a causa dell’espansione della leva, potrebbe ottenere un vantaggio numerico nel prossimo futuro e passare a contro-azioni più attive al fronte, e allora sarà necessario condurre di nuovo un reclutamento di emergenza nell’esercito, ma in condizioni sfavorevoli – come è stato nell’autunno del 2022. C’è ogni ragione per supporre che la leadership politico-militare tirerà fino all’ultimo.
Nonostante non sia d’accordo con lui, offro pareri discordanti solo per dare alle persone un’ampia prospettiva e consentire loro di farsi un’idea propria. L’esercito russo ha carenze di personale, certo, ma non si avvicina ai livelli dell’AFU. Abbiamo indicazioni abbastanza solide che gli attuali livelli di reclutamento della Russia sono superiori a quelli dell’AFU: la Russia aveva una media di 1.000 al giorno o 30.000 arruolamenti al mese, ora aumentati di recente a 1.700 al giorno – secondo quanto riferito – dopo l’esplosione di Kursk.
L’Ucraina è presumibilmente scesa a 10-15k mobilitazioni forzate al mese, anche se alcuni hanno affermato di averne quasi 30.000. In entrambi i casi, nella migliore delle ipotesi, stanno eguagliando il reclutamento russo, ma non lo superano. Tuttavia, poiché le loro perdite sono maggiori, significa che si stanno logorando più velocemente. .
Ricordiamo che l’Ucraina ha quasi 30 oblast, ognuno dei quali ha decine se non centinaia di città, e alcune grandi città. Per rifornire 1.000 KIA al giorno – come esempio – ognuno di questi ~30 oblast ha bisogno solo di pressare 30 uomini al giorno, dato che 30 uomini x 30 oblast = quasi ~1.000 uomini al giorno reclutati. Dato che ogni oblast ha molto più di 30 città, questo può essere rappresentato come il reclutamento di un solo uomo da ogni città al giorno, cosa che, come si può immaginare, è probabilmente molto facile da fare.
Ecco alcuni dei reclutamenti amichevoli in corso solo negli ultimi giorni o due:
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Un altro esempio molto avvincente del nuovo drone FPV russo Vandal in fibra ottica in azione a Kursk. Qui si intrufola in un nascondiglio ucraino, il suo segnale non cade nonostante le ostruzioni di cemento, mentre si avvicina lentamente ai militanti che stanno riposando e li finisce:
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Oltre ai “simboli tattici” sui veicoli blindati bielorussi inviati al confine con l’Ucraina, sono state avvistate conversioni complete in gabbie anti-drone, che molti considerano giustamente una vera e propria preparazione per un’azione di qualche tipo:
Poi, come se nulla fosse, due giorni fa un drone sconosciuto è stato abbattuto sopra Gomel, in Bielorussia:
Sebbene alcuni sospettino che si tratti di uno Shahed russo fuori rotta, il primo vice comandante delle forze aeree e di difesa aerea bielorusse, colonnello Sergei Frolov, ha dichiarato che è in corso un’indagine:
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Per chi fosse interessato, il discorso completo di Putin al 9° Forum economico orientale di Vladivostok:
Sommario:
Discorso integrale del presidente Putin al 9° Forum economico orientale di Vladivostok
-L’Estremo Oriente è diventato la roccaforte della Russia nella nuova realtà economica globale, ha sottolineato il Presidente Vladimir Putin nel suo discorso alla sessione plenaria del Forum economico orientale (EEF). .
– Ha osservato che il futuro sviluppo della Russia dipende in larga misura dalla crescita della regione dell’Estremo Oriente come porta d’accesso ai mercati promettenti e in via di sviluppo dell’Asia e del Sud globale. .
– Putin ha salutato il vasto potenziale della regione per una maggiore esplorazione geologica, ha sottolineato la necessità di potenziare la capacità della Northern Sea Route e ha invitato altri Paesi a partecipare allo sviluppo delle vie di trasporto della regione. .
– Il capo di Stato russo ha parlato dei piani per un nuovo porto in acque profonde con la partecipazione di aziende bielorusse e cinesi, nonché della proposta di costruire centrali nucleari nell’Estremo Oriente russo. .
– Il successo dell’attuazione di tutti questi ambiziosi piani e dell’intera economia del futuro dipende innanzitutto dalle persone, ha osservato il leader russo durante la sessione plenaria dell’EEF.
È molto probabile che entro il 2100-2200 la regione più potente della Russia si trovi nell'”estremo oriente”, e che Vladivostok sia la nuova capitale del Paese. Mosca e San Pietroburgo sono cresciute grazie ai legami con la potenza economica dell’Europa, ma il futuro appartiene all’Asia ed è probabile che Vladivostok non abbia altra scelta che diventare la nuova potenza economica della Russia nel futuro a lungo termine.
Ecco un articolo che illustra nel dettaglio tutte le realizzazioni del forum per chi fosse interessato. .
L’Estremo Oriente russo vedrà un’attenzione particolare e uno sviluppo nei prossimi anni, e ora è un momento migliore che mai per chiunque sia interessato a emigrare in Russia per prendere in considerazione la regione, Soprattutto se si considera che la nuova clemenza della Russia per la residenzaa chiunque richieda lo status di rifugiato ideologico dall’Occidente..
Il Presidente Vladimir Putin ha firmato il 19 agosto un decreto che offre agli stranieri che condividono i valori spirituali e morali della Russia e che cercano di sfuggire ai distruttivi ideali neoliberali dell’Occidente, un permesso di soggiorno temporaneo in Russia.
Secondo la nuova legge, il permesso di soggiorno temporaneo verrebbe concesso al di fuori della quota approvata dal governo russo e senza la necessità di confermare la conoscenza della lingua russa, della storia russa e delle leggi di base. Tuttavia, i richiedenti dovranno presentare una dichiarazione scritta, indicando le ragioni del trasferimento, alla missione diplomatica o all’ufficio consolare russo locale.
Hai letto bene: ora puoi ottenere la residenza senza superare un esame di lingua russa. A questo si aggiunge la precedente legge di Putin sugli ettari liberia data-dl-uid=”284″>per l’Estremo Oriente, che stabilisce che:
La Legge sull’ettaro dell’Estremo Oriente, o Legge Federale del 1 maggio 2016, No. 119 FL, è una legge del Presidente russo Vladimir Putin per dare 1 ettaro (2,5 acri) di terra gratuita nell’Estremo Oriente russo a cittadini russi e stranieri a patto che vi vivano per cinque anni.
Il piano consente solo ai cittadini russi di possedere la terra. Gli stranieri possono aderire al programma, ma non possono possedere la terra fino a 5 anni dopo essere immigrati in Russia.I gruppi consolidati (di almeno 20 lotti) saranno inoltre dotati di infrastrutture di base. A dicembre 2017, più di 107.000 persone hanno fatto domanda e 40.000 sono diventate proprietarie della terra.
Non c’è momento migliore o più facile per sfuggire alle grinfie dell’Occidente.
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E grazie ancora a coloro che continuano a fornire traduzioni. Le versioni in spagnolo sono disponibili qui, e alcune versioni italiane dei miei saggi sono disponibili qui. Anche Marco Zeloni sta pubblicando alcune traduzioni in italiano, per le quali ha creato un sito web dedicato qui.Grazie infine ad altri che pubblicano occasionalmente traduzioni e riassunti in altre lingue. Una seconda traduzione in francese di uno dei miei saggi da parte di Hubert Mulkens è ora pronta e spero di pubblicarla tra una settimana o poco più. Hubert ha gentilmente offerto anche altre traduzioni. Sono sempre felice che questo accada: tutto ciò che chiedo è che me lo diciate in anticipo e mi forniate un riconoscimento.
Finora non ho scritto nulla sull’ultima crisi in Medio Oriente, perché, pur conoscendo un po’ la regione, non sono sicuro di avere qualcosa di originale da dire, e non voglio aggiungermi ai mucchi di frasi fatte usa e getta e di schegge di indignazione morale che si trovano ovunque. Ce ne sono già abbastanza.
Ma ho pensato che sarebbe stato utile, ancora una volta, fare un passo indietro e guardare ad alcuni fattori di fondo: non la malvagità di individui o governi, ma piuttosto un insieme di enigmi geografici e politici ai quali non c’è di fatto soluzione. Non si tratta di problemi unici del Levante, e nemmeno del Medio Oriente: sono problemi generali che derivano dal progressivo trionfo dello Stato-nazione come modello predefinito di organizzazione politica nel mondo. La mia tesi è che si è trattato di un’idea sbagliata, o perlomeno infelice, ma che ora non possiamo farci nulla e dobbiamo riconoscerlo, convivere con le conseguenze e cercare di alleviarle al meglio. Non è una tesi molto incoraggiante, ma se non si hanno idee positivamente buone, si può almeno smettere di attuare quelle cattive.
Oggi è difficile rendersi conto che lo Stato nazionale è un’invenzione molto moderna, e che per la stragrande maggioranza della storia le persone hanno vissuto in altre forme di polarità: imperi, regni, principati, città-stato, città libere e semplici comunità, insediate o meno. I resti di questi sistemi sono ancora visibili in alcune aree: ci sono zone dell’Africa, per esempio, dove le distanze sono così grandi e la densità di popolazione così bassa, che gli abitanti hanno solo la più vaga idea di quale sia il Paese in cui teoricamente vivono.
Tutte le entità politiche sono il risultato dell’applicazione del potere alla divisione dello spazio, e di solito anche alla sua organizzazione interna. Le entità politiche sono altamente contingenti – non accadono e basta – e, come vedremo, le forze politiche che riescono a strutturare lo spazio fisico non sempre lo fanno in modo saggio e spesso finiscono per creare problemi per il futuro. Eppure dal 1945, e ancor più dalla fine della Guerra Fredda, il modello dello Stato-nazione liberale è stato investito del potere di spazzare via tutto ciò che aveva davanti. Il mondo si è frammentato in entità territoriali sempre più piccole e, più o meno matematicamente, le crisi sono proliferate di conseguenza. Nulla di scoraggiato, tuttavia, il sistema internazionale vede come rimedio a queste crisi la creazione di un numero ancora maggiore di Stati-nazione.
Vorrei ora soffermarmi su alcune delle parole che ho già usato (e su alcune altre) e sulla loro origine. La comprensione di queste parole chiarirà, spero, una parte della confusione che circonda la divisione dello spazio in entità politiche, e getterà anche luce su formulazioni come la famosa (anche se improbabile) “soluzione dei due Stati” al problema ebraico-palestinese. Come sarà chiaro, parole come “nazione”, “Stato”, “Paese” e “popolo” (a cui si potrebbe aggiungere l’anacronistico “razza”) sono usate indistintamente, a volte come sinonimi, a volte confondendosi l’una con l’altra, e lo sono state per centinaia di anni. Inoltre, mentre il vocabolario delle lingue influenzate dal latino (compreso l’inglese) è relativamente coerente, in altre lingue ci sono ampie variazioni.
Prendiamo la parola “nazione”. Al giorno d’oggi, ha in gran parte lo stesso significato di “paese” e la sua forma aggettivale di solito descrive qualche bene o caratteristica collettiva del paese nel suo complesso: quindi, debito nazionale, servizio sanitario nazionale, ecc. Ma in realtà “nazione” deriva da una radice latina che ha a che fare con la “nascita”, conservata in parole come “natalità” e persino “natura”. La migliore ipotesi sulla definizione originale sarebbe qualcosa come “persone nate nello stesso luogo” e, in alcuni usi, “nello stesso momento” o “nelle stesse circostanze”. La parola è stata applicata in francese ai vari gruppi di studenti stranieri che studiavano a Parigi nel Medioevo: Una volta abitavo proprio dietro l’angolo della rue des Irlandais, dove si trovava la “nazione” degli studenti irlandesi. Sono attestati usi della parola per descrivere persone che svolgevano la stessa professione, soprattutto se provenivano o vivevano nella stessa zona. L’importanza di questo è che “nazione” era solo un marcatore di identificazione collettiva: non c’era alcun suggerimento che l’essere membro di una “nazione” definisse fondamentalmente o desse diritto a qualcosa. L’equivalente moderno più vicino, suppongo, sarebbe “comunità”. In alcuni casi, l’appartenenza a una nazione implicava la possibilità di essere trattati in modo diverso dalle autorità: il caso degli ebrei era ovviamente emblematico. Quindi una data unità politica era generalmente composta da più di una nazione, perché era costruita sulla base del solo potere sul territorio. A seconda dei risultati di guerre e matrimoni, le “nazioni” potevano essere presenti in più entità politiche diverse e persino antagoniste, e nessuno pensava che ciò fosse strano. Era solo l’organizzazione pre-statale delle persone nello spazio disponibile. In alcuni casi, inoltre, quelle che oggi chiamiamo “nazioni” erano in realtà solo entità politiche. In molte parti dell’Africa, le scarse comunicazioni hanno incoraggiato il perpetuarsi della lingua e di piccole distinzioni culturali, ma le differenze essenziali tra le “tribù” erano di natura politica e i sottogruppi potevano spostarsi da una all’altra.
Oppure prendiamo la parola “stato”. Sia in inglese che in francese ha due significati ben distinti, per ragioni che non approfondiremo in questa sede. In alcuni contesti, “stato” significa la stessa cosa di “paese”. Si parla quindi di “Stati parte” di un trattato, di “Stati canaglia” e di “Stati post-coloniali”. Ma si riferisce anche all’apparato permanente che governa e amministra lo Stato (il Paese). Quindi, quando si parla di “fallimento dello Stato” o di “arretramento dello Stato”, si ha in mente proprio questo. Parlare di “Stati falliti” o più gentilmente di “Stati fragili” può significare l’una o l’altra cosa o entrambe allo stesso tempo, a seconda dell’interlocutore: così i fallimenti seriali dell’Occidente nella “costruzione di uno Stato” e nella “costruzione di una nazione”, spesso considerati la stessa cosa. Così anche il paradosso di Paesi che sono ulteriormente suddivisi in “Stati” con poteri considerevoli, come il Belgio, la Germania, il Brasile e gli Stati Uniti, ma che in quanto “Stati” (Paesi) sono parti di trattati amministrati dallo “Stato” (amministrazione), ma di cui gli “Stati” (sottounità) non sono parti. Se questo sembra folle, lo è e, al di là della meritata derisione, è pericoloso perché è una dimostrazione della confusione intellettuale senza speranza con cui l’Occidente cerca di immischiarsi nel resto del mondo. E non siamo ancora arrivati alla questione dello Stato liberale.
E prendiamo la parola finale “popolo”, a volte usata al plurale. Questa parola deriva in realtà dal latino populus, che significa, appunto, “popolo”, e ci dà “popolare”, “popolazioni” e naturalmente “populismo”. Una definizione del dizionario, come la maggior parte delle definizioni al plurale, si riferisce a “esseri umani che costituiscono un gruppo o un’assemblea o sono legati da un interesse comune”, o in altre parole essenzialmente la definizione di “nazione” data sopra. Ma, come nota il dizionario, esistono anche altri significati, equivalenti a “popolazione” o semplicemente “gruppo”, come nel caso di “chi non la pensa come me dovrebbe essere bandito”. Perciò mi sono spesso chiesto cosa intendessero davvero i redattori della Carta delle Nazioni Unite quando affermavano di parlare a nome dei “popoli delle Nazioni Unite”, e se intendessero tutti la stessa cosa.
Soprattutto perché, oltre allo scompiglio causato dalle differenze di comprensione tra inglese e francese (le due principali lingue del sistema internazionale, dopo tutto), c’è il piccolo aspetto che la maggior parte delle crisi della storia recente si sono verificate in Paesi in cui nessuna delle due lingue è dominante e in cui i concetti di nazione, Stato e popolo – e in generale di identità – sono molto diversi. In molti casi, infatti, non è nemmeno chiaro se i termini inglesi o francesi abbiano un valore, e possono solo confondere le cose. Così, nel caso di attualità, un tempo si sarebbe potuto dire che i palestinesi erano un “popolo”, poiché vivevano nello stesso luogo, e secondo alcune definizioni anche una “nazione”. All’epoca non erano uno “Stato”, dato che nel mondo c’erano pochissimi Stati, ma c’era comunque uno “Stato” (prima ottomano e poi britannico). Ora i palestinesi non sono più descritti come una “nazione”, anche se sembrano ancora un “popolo”. Non hanno realmente uno “Stato” (Paese), anche se hanno gli attributi di uno “Stato” (amministrazione), probabilmente due. Quindi non so davvero cosa intendano le persone che parlano di uno “Stato palestinese” e di una “soluzione a due Stati” in questo contesto, e non sono sicuro che lo facciano nemmeno loro.
Nel frattempo, gli ebrei, a lungo descritti come “popolo” e “nazione”, pur non avendo uno Stato in entrambi i sensi, hanno ora uno Stato in entrambi i sensi, anche se i non ebrei ne sono cittadini e la maggior parte degli ebrei (della nazione? del popolo?) non vive lì, ma in altre nazioni (Paesi) e tra altri popoli (popolazioni), dove, tuttavia, spesso formano un gruppo di persone politicamente potente.
Se si trattasse solo di esporre la confusione e la frequente ignoranza del pensiero occidentale e internazionale su persone, Stati e confini, allora credo che sarebbe ancora una linea di critica valida. Ma un punto molto più fondamentale è che un pensiero pigro di questo tipo in realtà oscura il problema fondamentale. Definirei tale problema come l’irrimediabile discrepanza tra il concetto liberale di Stato (Paese) e la realtà di come le persone hanno vissuto e vogliono vivere. Le soluzioni al problema ebraico-palestinese, per citare solo quello attuale più visibile, in genere partono da una comprensione errata e imprecisa del modo in cui le persone pensano alle questioni di identità e alla loro lealtà verso strutture di livello superiore.
Considerate: come ho sottolineato, per la stragrande maggioranza della storia umana, le comunità e le strutture politiche hanno escluso il modello dello Stato-nazione. Le identità iniziali erano costruite attorno a parentele e clan, e alcuni di questi clan arrivavano a dominarne altri. (Il modello dei clan deboli che pagano tributi a quelli più forti è durato a lungo in Africa ed è stato ripreso nelle relazioni tra le comunità africane e le potenze coloniali europee). Nelle aree a densità di popolazione relativamente elevata, si dimostrò possibile costruire comunità centralizzate (non chiamiamole “Stati” per il momento) basate su monarchie ereditarie. La natura di queste comunità era quella di espandersi, soprattutto sotto governanti capaci, e questa espansione era di solito violenta. Il risultato era quello di mettere sotto controllo altre comunità (dove non venivano sterminate), con le loro risorse che spesso rendevano possibili ulteriori conquiste. Così, il concetto tradizionale di Impero. Ciò che è importante ai nostri fini è la posizione dei vari popoli che facevano parte di queste strutture poliglotte. Erano sudditi e vivevano nei possedimenti di governanti che potevano trovarsi a migliaia di chilometri di distanza. Potevano vedere occasionalmente un rappresentante di questo potere lontano, ma spesso la vita quotidiana continuava come prima. L’identità e la lealtà si rivolgevano alle comunità locali, alle città, alla lingua e alla cultura. Nelle società pre-monoteistiche, la religione era sufficientemente flessibile da permettere di incorporare facilmente nuove divinità nei pantheon esistenti: ciò che contava, dopo tutto, era l’efficacia degli dei.
Questo modello di sovrani lontani e comunità locali durò a lungo: in Europa, solo la caduta degli Imperi Asburgico e Romanov ne decretò la fine. Franz Kafka, per fare un esempio noto, era un suddito di lingua tedesca dell’Impero asburgico, nato da una famiglia ceco-ebraica a Praga, allora capitale del Regno di Boemia, una filiale interamente controllata dall’Impero con sede a Vienna. Questo tipo di identità a più livelli e di appartenenza a diverse comunità era del tutto normale all’epoca. La realtà era che gli imperi non potevano funzionare in altro modo. Finché le comunità si comportavano bene e non cercavano l’autonomia o addirittura l’indipendenza, venivano lasciate in pace e gli Asburgo sperimentarono persino i parlamenti locali. Ma le rivolte palesi, come quella dell’Ungheria nel 1848, furono brutalmente represse.
Non mi addentrerò ulteriormente nell’intricata storia degli imperi e della loro caduta: ciò che è interessante sono le forze che hanno contribuito alla fine degli imperi e le strutture che sono sorte per sostituirli. In linea di massima, possiamo descrivere queste pressioni come originate dall’ideologia liberale e le strutture come la creazione di Stati nazionali liberali (come è avvenuto anche dopo il 1989). Ricordiamo che il liberalismo ha avuto origine dalla resistenza delle classi medie urbane al potere reale e dal desiderio di prendere quel potere per sé. Il liberalismo, desideroso di spazzare via il vecchio sistema gerarchico e deferente e di sostituirlo con nuovi sistemi di governo razionali e scientifici, vedeva nello Stato nazionale un passo in questa direzione. Invece di essere il suddito di un re o di un imperatore, il cittadino dello Stato nazionale sarebbe stato un individuo indipendente che massimizzava l’utilità. Per coloro che avevano tempo e denaro da dedicare alla politica, e per la parte della popolazione che i liberali erano disposti a far votare, la politica divenne un esercizio essenzialmente transazionale. L’elettorato (limitato) era chiamato regolarmente, come in un’assemblea degli azionisti, a scegliere tra i diversi programmi presentati dai vari partiti politici. In questo modo, la ragione e la logica avrebbero sostituito la tradizione e la superstizione.
Il prototipo dello Stato-nazione fu, ovviamente, la Francia. La portata della modernizzazione del Paese dopo il 1789 e l’imposizione dell’ideologia repubblicana hanno stupito gli osservatori stranieri. Dall’imposizione forzata del sistema metrico decimale al tentativo di distruggere le tradizionali strutture di potere provinciali attraverso la creazione di Dipartimenti, numerati secondo nomi ordinati alfabeticamente, sembrava davvero che il futuro fosse arrivato, ed era lo Stato nazionale liberale. (Inutile dire che dietro e sotto tutto questo c’erano importanti elementi di continuità: ce ne sono sempre).
Ma ciò che colpisce è l’universalità dell’ideologia. Al livello più alto, i “diritti dell’uomo e del cittadino” furono dichiarati universali, applicabili a tutte le persone in ogni momento, e minarono di fatto tutti i sistemi di governo tradizionali. A livello nazionale, la lealtà del cittadino non era più verso un sovrano, o comunque verso una Chiesa, ma verso la Repubblica, che a sua volta aveva dei doveri nei confronti del cittadino. E la Repubblica, con la sua Libertà, Uguaglianza e Fraternità, non erano solo parole: insieme alla separazione tra Chiesa e Stato, erano il fondamento di un intero programma politico. La chiave era che la Nazione, la cui incarnazione era la Repubblica, non era ascrittiva, ma volontaria. Si poteva diventare francesi accettando la Repubblica e la sua ideologia, indipendentemente dal luogo di nascita. Il grande storico francese Ernest Renan descrisse una nazione (si riferiva alla Francia, ovviamente) come un plébiscite de tous les jours, cioè un “referendum senza fine”. In altre parole, una nazione era costituita da coloro che desideravano farne parte, a prescindere dall’origine.
La nuova Repubblica non fu priva di problemi e difficoltà: attraverso l’Impero, la Restaurazione e ancora l’Impero con intermezzi democratici, ci vollero fino al 1870 perché il sistema prevalesse definitivamente, e altri trent’anni per portare finalmente la Chiesa in posizione subordinata allo Stato. (Ironia della sorte, il sistema è ora minacciato dall’ingresso di un gran numero di persone che non credono nella Libertà, nell’Uguaglianza e nella Fraternità e che vogliono riportare la religione nella vita pubblica).
Ma per certi versi questo era un esempio facile. La Rivoluzione era stata di classe e sostenuta dalla borghesia liberale in tutto il Paese. Ci fu una resistenza (in particolare in Vandea e in Bretagna), ma su base ideologica piuttosto che identitaria. I tentativi di introdurre l’istruzione obbligatoria e di imporre il francese parigino sono stati spesso contrastati, ma non si sono mai verificati gravi conflitti etnici o regionali e l’introduzione del suffragio universale ha fatto sì che i francesi votassero su base ideologica.
Ma la maggior parte degli altri casi è stata più difficile. La Francia, dopo tutto, era un unico Paese, unito nei suoi attuali confini dalla fine del XVII secolo. Ma quanto era trasferibile questa idea ai movimenti nazionalisti liberali dell’Impero asburgico o ottomano? Come si è visto, non molto. La Francia non faceva parte di un Impero e la sua trasformazione da regno con sudditi a Repubblica con cittadini fu quindi relativamente semplice. Non c’erano popolazioni “etnicamente francesi” al di fuori dei confini che chiedevano l’unità, anche se al contrario c’erano territori d’oltremare etnicamente molto diversi dalla Metropole che facevano parte della Francia. Nonostante i tentativi di parte della destra di riconfigurare l’idea di “francesità” in senso razziale, piuttosto che culturale/politico (con un breve successo durante la parentesi di Vichy), le definizioni razziali sono state tenute a bada fino a quando non sono state resuscitate da parti della sinistra nell’ultima generazione.
Ma la maggior parte dell’Europa e la maggior parte del mondo (per ripetere) vivevano in imperi o sistemi politici simili, dove i “popoli” erano sparsi. Naturalmente, gli stessi Imperi erano consapevoli di questi problemi di “nazionalità”, o nel caso degli Ottomani di religione, ma per loro si trattava di un problema di gestione. Chiunque abbia letto il libro di Musil Uomo senza qualità avrà familiarità con gli sforzi degli Asburgo per trovare il modo di placare i sentimenti nazionalisti. Se avessero avuto tempo a sufficienza e un ambiente permissivo, è possibile che questi imperi avrebbero avuto una fine pacifica. Ma la storia dei grandi Imperi – Romanov, Asburgo, Ottomano – è una fine improvvisa ed esplosiva, seguita da conflitti tra “popoli”. Del resto, anche la fine degli imperi britannico e francese in Africa (di breve durata) ha prodotto talvolta gli stessi problemi. Ma perché, quando gruppi diversi hanno vissuto in prossimità l’uno dell’altro per generazioni (anche se non sempre senza tensioni), la fine dell’Impero ha creato tali problemi?
La prima e più ovvia ragione è la presenza di un’autorità o di una lealtà superiore. È consuetudine criticare gli inglesi e i francesi per aver “messo in competizione” le varie forze politiche del Medio Oriente e dell’Africa, come avevano fatto un tempo gli Ottomani. Ma per molti versi si trattava solo di una gestione sensata, che assicurava che tutte le principali comunità e i leader più importanti avessero interesse alla stabilità, con il potere centrale a disposizione per imporla, se necessario. Le identità locali, etniche e religiose potevano essere importanti, ma erano secondarie. Una versione più muscolare di questo sistema è stata utilizzata nell’ex Jugoslavia, dove il nazionalismo è stato tenuto sotto controllo attraverso un attento bilanciamento e un’identità ufficiale jugoslava di fratellanza e unità, con i dissidenti nazionalisti inviati all’estero o in prigione a seconda di quanto fossero una minaccia. In una situazione di questo tipo, ciò che ho descritto come la questione primaria della politica, chi mi proteggerà? trova risposta nella presenza di un’autorità superiore.
La seconda ragione deriva dalla prima. Se un territorio imperiale diventa, da un giorno all’altro, uno Stato sovrano, la domanda fondamentale è: chi lo controlla? A questo punto, compare il fantasma di Carl Schmitt, per insistere sull’importanza della sua domanda preferita: Chi è il mio nemico? In un territorio imperiale o in uno stato comunista multietnico, il fatto che la vostra comunità sia una minoranza potrebbe non avere molta importanza. Ma se improvvisamente si diventa una minoranza in un Paese indipendente, allora può avere molta importanza, perché la comunità maggioritaria, naturalmente, si riterrà autorizzata a prendere le leve del potere, democraticamente o meno. In effetti, in una democrazia, un partito o una coalizione politica che rappresenti una maggioranza etnica o religiosa può, in modo del tutto legale, estromettere le altre comunità dal potere: questo è accaduto per cinquant’anni in Irlanda del Nord, ad esempio. Così anche la necessità di diventare la popolazione maggioritaria, una pratica che va dall’emigrazione ebraica nella Palestina mandataria, al più alto tasso di natalità tra i cattolici dell’Ulster che li ha resi presto la comunità maggioritaria.
Non dovrebbe accadere, ovviamente, perché per i teorici della democrazia liberale la politica è solo una questione di vantaggi economici, quindi non c’è motivo per cui questioni come l’etnia o la religione debbano dividere le persone: dopo tutto, sono reliquie del passato che oggi nessuno prende sul serio. E quando accade, come di solito accade, viene offerta un’accozzaglia di spiegazioni, dall’istigazione straniera ai malvagi “imprenditori della violenza” agli “odi ancestrali”. La verità è di solito più semplice. Se si toglie l’apparato di lealtà formale a un Impero o a un sistema politico generale e l’effetto deterrente del potere di quel sistema, la gente è da sola e ha paura. A quel punto, i numeri diventano critici e il controllo delle leve del potere e delle forze di sicurezza, o la prevenzione del loro controllo da parte di un’altra comunità, è essenziale. Quando le autorità di Sarajevo hanno licenziato i non musulmani dalla polizia nel 1992, deve essere sembrata loro una precauzione elementare. Per le altre comunità, ovviamente, si trattava di una minaccia.
Infatti, in questo tipo di situazione, non sono le forze armate nemiche, ma la popolazione stessa ad essere una minaccia: quindi, forse, Gaza. Seguendo la logica di Schmitt, il mio nemico è qualsiasi membro di un’altra comunità, quindi la mia sicurezza sta nell’espellere qualsiasi membro di quella comunità dall’interno della mia. Il fenomeno della “pulizia etnica” – così etichettato in Bosnia ma ben più antico – non è quindi necessariamente basato sull’odio o sul pregiudizio: è una tecnica strategica per assicurarsi il controllo del territorio. Se c’è una storia di astio e di conflitto tra i gruppi – e spesso è così – diventa anche un metodo di autoprotezione di base.
Questo è il problema che il mondo ha affrontato nell’ultimo secolo circa, con la fine dei grandi imperi. I tentativi di affrontarlo hanno prodotto risultati che vanno dal dubbio al disastro: come suggerirò, il problema potrebbe non avere una risposta. La panacea universale per questi problemi è il “diritto dei popoli all’autodeterminazione”, un concetto che risale al nazionalismo romantico del XIX secolo. Era oscuro allora ed è diventato essenzialmente privo di significato oggi, soprattutto con la scomparsa della credenza nelle differenze “razziali” tra i popoli e il crescente scetticismo sul concetto stesso di etnia. Come è stato spesso sottolineato, l’argomento è essenzialmente circolare: finché non ci si accorda su chi sia il “popolo”, non ci può essere autodeterminazione. Il trucco, quindi, consiste nell’identificare come “popolo” coloro che si sa già che eserciteranno la loro determinazione in un determinato modo.
Il concetto liberale di “popolo” va a malapena oltre l’idea di un insieme di attori economici indipendenti che vivono in un territorio contingente. Tuttavia, la maggior parte dei “popoli” è costruita da molto più di questo, ed è raro che i confini coincidano perfettamente con i “popoli”;”Tutta una serie di termini, dal germanico Volk allo slavo Narod, mescolano ipotesi di cultura, lingua, eredità e persino legami di sangue per creare un “popolo” che può essere geograficamente disperso, ma è comunque un “popolo”. Se c’è stata “una” causa della Seconda Guerra Mondiale, è stato il fatto che il Volk tedesco era sparso in vari Paesi e i nazisti volevano riunirlo. Ma l’atteggiamento mentale persiste: quando la Croazia divenne indipendente nel 1991, gli osservatori internazionali si stupirono del fatto che alcuni dei seggi del parlamento croato fossero riservati ai rappresentanti dell’etnia croata che viveva all’estero, la maggior parte dei quali erano cittadini di altri Paesi. Ma gran parte del mondo considera questo fatto normale.
Quindi, a pensarci bene, è stata la Prima e non la Seconda Guerra Mondiale a essere all’origine della maggior parte dei problemi del mondo di oggi. Distruggendo da un giorno all’altro strutture sovranazionali e multietniche di alto livello, ha creato problemi enormi. Scegliendo l'”autodeterminazione” come soluzione, senza riflettere sul suo significato, si è assicurata che quei problemi sarebbero stati insolubili senza la forza bruta, e forse nemmeno allora. Infatti, se si considerano i luoghi in cui sono sorte crisi e instabilità politiche negli ultimi trent’anni, dai Balcani al Levante, fino alla Libia, all’Algeria e alla Tunisia, questi sono tutti territori di conquista arabo-ottomana: persino lo Yemen è stato aggiunto all’Impero nel 1517. Questo non perché l’Impero Ottomano fosse particolarmente cattivo – anche se si tende a romanticizzarlo – ma per la sua organizzazione della popolazione in gruppi religiosi e per la velocità e la natura del suo crollo e del vuoto lasciato dietro di sé. In un senso molto reale, stiamo ancora affrontando le conseguenze della caduta di tre imperi nel 1918.
Le potenze vincitrici erano almeno consapevoli che i territori ottomani non potevano trasformarsi in modo intelligente in Stati nazionali da un giorno all’altro. (Il sistema dei mandati della Società delle Nazioni è stato molto criticato, ma è difficile capire quali altre opzioni avrebbero evitato un conflitto senza fine. Se avete insegnato o partecipato a seminari sul Medio Oriente, sarete abituati a sentirvi rinfacciare l’Accordo Sykes-Picot e la “spartizione del Medio Oriente” come se foste personalmente responsabili. Ma in realtà l’Accordo (che non fu attuato nella sua forma originale) riguardava essenzialmente sfere di interesse su territori che, un giorno, sarebbero potuti diventare Stati indipendenti quando le condizioni fossero state giuste. A quei tempi, semplicemente, in Medio Oriente non si pensava a uno Stato-nazione, così come in Africa, ma alla continuazione degli stessi tipi di strutture che avevano governato queste aree per migliaia di anni.
Questa era ancora l’ipotesi, ad esempio, nel 1939, e l’enorme contributo che gli Imperi e i Mandati diedero alla lotta contro il nazismo sembrava confermarlo. Ma abbastanza rapidamente, gli inglesi e i francesi si resero conto che la situazione era economicamente insostenibile e cominciarono a cercare una via d’uscita. A questo punto, lo Stato-nazione liberale era ben avviato verso ciò che è oggi: una norma internazionale preventiva e incontestabile, senza curarsi delle conseguenze. I padri dell'”indipendenza” africana, ad esempio, ipnotizzati dalla teoria occidentale e desiderosi di copiare l’Uomo Bianco, pensavano di ritagliare nuovi Stati nazionali da parti dei territori imperiali, secondo le modalità approvate. Hanno voltato le spalle ai metodi tradizionali africani di organizzazione politica e alle varie idee panafricaniste dell’epoca, e si sono lanciati nell’idea di creare Stati nazionali di stampo europeo per decreto dall’alto verso il basso. Hanno portato in Africa quella che Basil Davidson descriveva tempo fa come la “maledizione dello Stato-nazione”, che continua a creare scompiglio. I leader più saggi, come Julius Nyerere, il primo leader della Tanzania, hanno almeno istituito gli Stati monopartitici perché temevano che le elezioni in Paesi etnicamente diversi sarebbero state fonte di conflitti: l’esperienza recente suggerisce che avevano ragione.
Ci sono alcune precisazioni da fare. In Africa, ad esempio, c’erano alcuni territori che di fatto erano già Paesi (Swaziland, Ruanda e Burundi sono esempi classici) e c’era la Rhodesia, che era una sorta di Paese sotto il controllo dei bianchi. Ma la maggior parte degli altri Paesi africani sono stati semplicemente creati: La Nigeria e il Sudan, ad esempio, sarebbero potuti diventare due Paesi anziché uno e, di conseguenza, sarebbero stati probabilmente più stabili. Ma né le potenze uscenti, né la comunità internazionale, né tanto meno gli aspiranti leader, erano disposti ad accettare che la creazione di Stati nazionali per decreto potesse comportare dei problemi.
L’Algeria è un caso emblematico. Paese africano e in precedenza provincia ottomana, era una colonia almeno dall’epoca romana. Prima del 1962 non esisteva un Paese chiamato “Algeria”: il nome stesso significa “le isole” in arabo. L’FLN, guidato da un gruppo di intellettuali di ispirazione occidentale (i neuf historiques) si prefiggeva di creare uno Stato nazionale sotto il suo controllo. Eliminando in modo spietato i loro rivali, compresi quelli che favorivano soluzioni di compromesso, lanciarono una guerra sanguinosa che alla fine portò i francesi a cedere il potere all’FLN, che aveva istituito un governo provvisorio al Cairo. La repressione generalizzata e i conflitti letali tra i dirigenti dell’FLN portarono molti algerini a cercare l’esilio in Francia: un processo che continua ancora oggi. Tuttavia, è impossibile dire se la visione dell’FLN di uno Stato nazionale di stampo europeo sotto il loro controllo abbia mai ottenuto un sostegno maggioritario. .
In effetti, se c’è una critica forte da fare alla generazione di leader e intellettuali che hanno cercato di creare Stati nazionali sotto il loro controllo dai relitti degli imperi, è che lo hanno fatto in gran parte secondo le norme occidentali, e in parte secondo le norme della teoria rivoluzionaria nazionalista-marxista in voga all’epoca. (Per esempio, Franz Fanon ebbe un’educazione francese molto classica in un liceo della Martinica prima di unirsi alle forze francesi libere durante la guerra. Grazie a una borsa di studio per gli studi di medicina in Francia, il governo gli ha concesso di frequentare le lezioni di filosofia dell’esistenzialista Maurice Merleau-Ponty, e in seguito ha subito l’influenza di Sartre).
Una delle intuizioni chiave del filosofo scozzese David Hume era che non si può dedurre “dovrebbe” da “è”. In altre parole, mentre lo Stato-nazione è venerato nell’odierno mondo liberale come l’apice della realizzazione umana e il più alto sviluppo dell’evoluzione politica umana, la sua ubiquità e il potere politico dell’idea non dicono nulla sulla sua intrinseca validità o superiorità rispetto ad altri sistemi. L’effetto principale dello Stato-nazione, dopo tutto, è stato quello di dividere le persone le une dalle altre. Ha creato criminalità su vasta scala attraverso il contrabbando e il traffico, ha creato instabilità politica tra gli Stati attraverso le dispute sulle frontiere e sul commercio, e all’interno degli Stati attraverso le lotte per il controllo del territorio. Il sionismo è stato un movimento abbastanza standard del XIX secolo di “autodeterminazione” degli Stati nazionali, e le tragedie che ha provocato erano più o meno matematicamente prevedibili.
Ho già citato il grande scrittore egiziano-libanese Amin Malouf, la cui famiglia cristiana copta fu costretta a fuggire dall’Egitto dopo l’indipendenza. Suo padre ha sempre guardato con nostalgia agli anni ’30 e ’40 in Egitto come a un’epoca d’oro di stabilità e prosperità. E certamente, rispetto al Medio Oriente odierno, frammentato e violento, doveva sembrarlo. Per citare un caso quotidiano, sotto gli Ottomani la regione era attraversata da ferrovie, che hanno continuato a funzionare anche sotto i Mandati. Ad esempio, era possibile viaggiare da Istanbul a Damasco a Medina, con una puntatina a Haifa. (Tim Butcher racconta che il suo tentativo di attraversare l’Africa via terra è stato ispirato dai racconti di sua nonna che da ragazza viaggiava da sola in treno da Città del Capo a Kinshasa.
Naturalmente, non possiamo ristabilire l’Impero Ottomano o quello Asburgico, anche se lo volessimo, così come non potremmo far rivivere l’Impero Romano. Ho preso parte a troppe discussioni tristi in Africa e in Medio Oriente sui fallimenti dello Stato-nazione che si sono concluse con l’affermazione: “Bene, ma questo è ciò che abbiamo e dobbiamo imparare a conviverci”. Esistevano, ovviamente, alternative e vie non percorribili. Il panafricanismo degli anni Sessanta avrebbe potuto funzionare, ma non ha mai avuto una vera possibilità. In gran parte del mondo arabo, invece, c’è stata una forte tendenza alla secolarizzazione e alla modernizzazione fino agli anni ’70 (il Partito comunista iracheno era il più grande del mondo dopo Cina e Russia), ma una combinazione di sconfitte nelle guerre con Israele del 1967 e del 1973 e la Rivoluzione iraniana del 1979 hanno messo fine a tutto questo.
Non sorprende quindi che, dopo decenni di fallimenti di diversi sistemi in Medio Oriente e in alcune parti dell’Africa, l’Islam politico sia spesso visto come l’unica cosa rimasta da provare. Dopotutto, supera finalmente il problema dello Stato-nazione, proprio come ha tentato di fare il neoliberismo dell’UE, anche se con lo stesso approccio distruttivo e persino nichilista. Alla fine, le conseguenze della caduta degli imperi sono ancora il principale problema di sicurezza nel mondo di oggi: è un peccato che lo Stato-nazione non sia la risposta.
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Netanyahu e coloro che lo circondano potrebbero non rendersi conto di quanto questo possa cambiare drasticamente la politica regionale della Russia, considerando il modo in cui tutto viene sempre più percepito dal Cremlino, dato il contesto in evoluzione della Nuova Guerra Fredda.
Il Rappresentante Permanente russo presso le Nazioni Unite Vasily Nebenzia ha avvertito Israele di “certe conseguenze politiche” nel caso in cui inviasse alcuni dei suoi patrioti a Ucraina attraverso gli Stati Uniti, come CNN ha recentemente riferito che si sta negoziando tra loro. Questo avviene in mezzo al graduale deterioramento dei loro legami da quando l’attacco furtivo di Hamas l’anno scorso, nonostante l’orgoglioso filosemitismo di sempre del Presidente Putin che può essere approfondito qui. I cinque pezzi che seguono documentano il percorso che ha portato a quest’ultimo sviluppo:
Riassumendo, Israele ha iniziato a descrivere in modo errato l’atto di bilanciamento della Russia nell’ultimo conflitto (i cui dettagli possono essere letti qui) e a flirtare con l’idea di inviare sistemi di allerta precoce a Kiev, il che ha spinto la Russia a inasprire la sua retorica contro Israele e a flirtare con l’armare i suoi nemici dell’Asse della Resistenza. Finora, il loro scontro è rimasto nell’ambito delle percezioni e della retorica reciproca, ma il potenziale armamento dell’Ucraina da parte di Israele con sistemi di difesa aerea potrebbe portare a un reciproco armamento russo dell’Asse della Resistenza.
La prerogativa spetta a Israele, poiché è più facile per lui armare indirettamente l’Ucraina che per la Russia armare indirettamente l’Asse della Resistenza. Inoltre, Netanyahu potrebbe calcolare che l’invio di armi difensive non oltrepasserà la linea rossa politica della Russia, ma potrebbe fargli guadagnare un po’ di sollievo dalle pressioni degli Stati Uniti, di cui i lettori possono saperne di più qui. Non è chiaro se andrà fino in fondo con quanto riferito di recente dalla CNN, ma se lo farà, Nebenzia ha lasciato intendere che la reazione iniziale della Russia sarà di tipo politico.
Quello che probabilmente intendeva segnalare è che il suo Paese potrebbe ospitare altre delegazioni di Hamas in futuro, ma questa volta per discutere di legami bilaterali invece che di liberazione di ostaggi come durante le precedenti visite dall’inizio dell’ultimo conflitto, e/o ordinare ai suoi media di promuovere decisamente la narrativa anti-israeliana. Finora sono stati piuttosto equilibrati, ma la situazione potrebbe cambiare se la decisione venisse presa. Un’altra possibilità è quella di permettere alla Siria di usare finalmente gli S-300 per difendersi, nonostante finora le sia stato negato questo diritto per fini di de-escalation:.
È improbabile che la Russia inverta subito la rotta su questa questione ultra-sensibile, dopo aver già provocato l’ira di molti dei suoi sostenitori nella comunità degli Alt-Media mantenendola in vigore per così tanto tempo. Ciononostante, rimane una misura reciproca appropriata se Israele arma l’Ucraina, anche se per il momento ci si aspetta che si trattenga, dato che una volta concessa l’autorizzazione non si può più tornare indietro. In tal caso, i legami bilaterali non si ristabiliranno per anni, vanificando tutto il duro lavoro del Presidente Putin.
Detto questo, la Russia sembra effettivamente perdere la pazienza nei confronti di Israele e si può affermare che ha molto più da guadagnare facendo questa mossa, attesa da tempo, e solidificando i suoi legami strategici con l’Asse della Resistenza guidato dall’Iran, di quanto non abbia da perdere aggrappandosi alle speranze di una partnership regionale con Israele. Questa scuola di pensiero era praticamente inesistente nelle comunità politiche russe prima dell’ultimo conflitto, ma questo dimostra quanto tutto sia cambiato da allora.
L’ascesa di una fazione politica pro-Resistenza è parallela a quella pro-BRI, che i lettori possono conoscere meglio qui, e sono praticamente una cosa sola grazie alla sovrapposizione delle loro visioni del mondo. I loro rispettivi rivali sono la fazione filo-israeliana e quella equilibratrice/pragmatista, che sono anch’esse praticamente un tutt’uno in questo contesto regionale, poiché vogliono evitare una dipendenza regionale potenzialmente sproporzionata dall’Iran mantenendo legami strategici con Israele, anche se questi vanno a scapito dell’Iran.
Mentre la Russia sta ricalibrando la sua strategia asiatica, come spiegato qui e sembra quindi porre un freno all’espansione finora astronomica dell’influenza della fazione pro-BRI, quella pro-Resistenza potrebbe ricevere una spinta fondamentale se Israele inviasse i suoi Patriot in Ucraina attraverso gli Stati Uniti. Questa potrebbe essere la goccia che fa traboccare il vaso e spinge i politici a sostenere le raccomandazioni politiche di questo gruppo, che potrebbero vedere la Russia autorizzare la Siria a usare gli S-300 contro Israele, come spiegato.
Per essere chiari, la fazione pro-Resistenza esiste per lo più solo nei media internazionali finanziati pubblicamente dalla Russia e tra i loro associati (anche informali), con un’influenza quasi nulla all’interno dei suoi think tank, sebbene alcuni di essi si stiano avvicinando alle loro opinioni. La fazione filo-israeliana/equilibratrice/pragmatica rimane predominante ed è per questo che l’attuale politica è rimasta in vigore per così tanto tempo, nonostante le ripetute provocazioni di Israele che avrebbero potuto portare a un cambiamento di politica molto tempo fa se ci fosse stata la volontà politica.
Questo stato di cose, tuttavia, potrebbe cambiare in modo decisivo se Israele armasse indirettamente l’Ucraina con i suoi Patriots. Netanyahu e coloro che lo circondano potrebbero non rendersi conto di quanto questo potrebbe cambiare drasticamente la politica regionale della Russia, considerando il modo in cui tutto viene sempre più percepito dal Cremlino, visto il contesto in evoluzione della Nuova Guerra Fredda. Israele dovrebbe quindi pensarci due volte per non rischiare di catalizzare lo scenario peggiore nelle relazioni con la Russia.
È giunto ormai da tempo il momento che il Pakistan metta i suoi soldi dove dice e cominci a fare ciò che è necessario per dimostrare che non si sta limitando a trascinare la Russia.
Gli osservatori dell’Asia meridionale hanno seguito da vicino l’incontro tra il presidente russo Putin e il primo ministro pakistano Shehbaz Sharif a margine del vertice SCO di questa settimana ad Astana per capire se questi due saranno in grado di rompere la loro impasse sull’espansione globale dei legami. Si sono incontrati l’ultima volta due anni fa al vertice SCO del 2022 a Tashkent, che all’epoca fu analizzato qui . Il precedente articolo con collegamento ipertestuale ha attirato l’attenzione sulle grandi speranze di Putin di raggiungere un accordo energetico strategico con il Pakistan.
Ciò non si è concretizzato perché il Pakistan rimane riluttante a sfidare gli Stati Uniti nonostante questi ultimi abbiano precedentemente chiarito che non saranno imposte sanzioni secondarie contro i partner energetici della Russia. Il postmodernocolpo di statoIl regime instaurato nell’aprile 2022 dopo la scandalosa cacciata dell’ex primo ministro Imran Khan prende la maggior parte – ma soprattutto non tutti – gli spunti dall’America. Anche se sanno che non saranno sanzionati per l’acquisto di queste risorse, sanno comunque che gli Stati Uniti lo disapprovano.
Questa intuizione mette in luce l’insincerità dei commenti che Sharif ha fatto a Putin secondo la trascrizione ufficiale del Cremlino che può essere letta qui . Il leader pakistano ha affermato che il commercio si avvicina al miliardo di dollari, ma ha omesso di menzionare che ciò è in gran parte dovuto alle esportazioni di grano russo verso il suo paese. Il suo suggerimento di “muoversi ulteriormente” nella direzione di maggiori importazioni di petrolio ignora il fatto che la palla è nel suo campo ed è così già da un anno da quando il Pakistan ha sospeso a tempo indeterminato tali spedizioni con pretesti dubbi.
Lo stesso si può dire della proposta di Sharif di ripristinare il baratto tra i loro paesi, la cui decisione è stata approvata più di un anno fa ma da allora non è successo nulla di significativo. Alcune esportazioni di frutta e cuoio hanno raggiunto il mercato russo, ma si trattava solo di prove intese a dimostrare la fattibilità del commercio attraverso il corridoio di trasporto nord-sud attraverso l’Iran e l’Azerbaigian. Se ci fosse la volontà, a questo punto il baratto sarebbe aumentato, ma si è invece trasformato in un’altra deludente opportunità persa.
Come è stato spiegato qui alla fine di marzo, il Pakistan deve liberarsi dal giogo dell’egemonia americana per espandere in modo completo i legami con la Russia, anche se per ora questa rimane una fantasia politica dal momento che l’attuale accordo politico è stato istituito con il sostegno degli Stati Uniti. A volte estende i limiti di quanto lontano può spingersi senza affrontare l’ira dell’America, come per quanto riguarda i legami con Cina e Iran , ma la cricca al potere sa che concludere un accordo energetico strategico con la Russia oltrepasserebbe una linea rossa invisibile.
Tuttavia, Putin ha ritenuto che valesse la pena menzionare il suo interesse in tal senso poiché è il fattore chiave nel determinare se le relazioni bilaterali rimangono cordiali o si evolvono in un partenariato strategico , l’ultimo dei quali potrebbe verificarsi se un simile accordo venisse raggiunto parallelamente a un accordo transnazionale. -Corridoio commerciale afghano . Esistono le basi affinché i loro legami raggiungano quel livello, anche se spetta interamente al Pakistan decidere se raggiungeranno o meno quel punto, e finora sembra che non sia seriamente interessato a che ciò accada.
Astenersi da risoluzioni ostili dell’Assemblea generale dell’ONU sulla Russia e lodare di tanto in tanto il ruolo regionale di quel paese sono solo segnali superficiali di sostegno che non si sono ancora tradotti in qualcosa di tangibile. Sono mosse benvenute, su questo non c’è dubbio, ma è ormai da tempo che il Pakistan metta i suoi soldi dove dice e cominci a fare ciò che è necessario per dimostrare che non si sta limitando a trascinare la Russia. Mantenere lo status quo va bene, ma se questo è tutto ciò che il Pakistan vuole, allora dovrebbe essere chiaro al riguardo.
C’è voluta la presidenza di turno ungherese del Consiglio d’Europa perché Orban visitasse finalmente Kiev, il che aumentava le possibilità che non venisse maltrattato da Zelenskyj per vendetta delle sue opinioni.
Il viaggio del primo ministro ungherese Viktor Orban a Kiev all’inizio di questa settimana ha suscitato molta attenzione poiché era la prima volta che visitava la capitale ucraina dall’ultima fase del conflitto NATO-russo.la guerra per procura in quel paese è scoppiata quasi due anni e mezzo fa. I media si sono concentrati soprattutto sulla sua proposta che l’Ucraina accettasse un cessate il fuoco per facilitare i colloqui di pace, proposta che come prevedibile è stata respinta , dando così l’impressione che la sua visita mirasse solo a questo e fosse quindi fallita.
Il nocciolo della questione è che sia i comunicati stampa ungherese che quelli ucraini affermano che lo scopo del suo viaggio era quello di fare progressi nelle relazioni bilaterali. L’interesse di Orban per la pace, che di recente potrebbe essere stato stuzzicato ancora di più da Zelenskyj che ha lasciato intendere che tali colloqui potrebbero aver luogo tramite un mediatore proprio come hanno fatto quelli per l’accordo sul grano, era secondario rispetto a questo obiettivo. A questo proposito, voleva soprattutto garantire che Kiev rispetti finalmente i diritti degli ungheresi nella regione di Zakarpattia.
Questa “ dimensione umanitaria poco discussa della posizione dell’Ungheria nei confronti del conflitto ucraino ” gioca un ruolo importante nel motivo per cui Budapest si rifiuta di armare Kiev o di consentire ai suoi alleati della NATO di farlo attraverso il suo territorio. Quella regione appartenne alla civiltà ungherese per oltre un millennio, ma finì sotto il controllo cecoslovacco dopo la prima guerra mondiale, prima della quale tornò brevemente in mano ungherese dal 1939 al 1945, per poi essere trasferita all’Ucraina sovietica alla fine della seconda guerra mondiale. .
Le politiche di coscrizione forzata di Kiev hanno avuto un impatto enorme sulla minoranza ungherese del paese, alcuni dei quali sono stati catturati dalla Russia ma poi inviati in Ungheria nel giugno 2023 su loro richiesta invece che tornare in Ucraina. Quell’incidente è stato analizzato qui in quel momento per coloro che volessero saperne di più. L’importanza sta nel fatto che gli ungheresi arruolati non si sentivano a proprio agio nel tornare in Ucraina a causa delle politiche discriminatorie contro il loro gruppo minoritario.
Orban è obbligato a garantire nel miglior modo possibile gli interessi dei suoi coetnici, ma finora ha rifiutato di viaggiare in Ucraina a tale scopo poiché finora non è stato fatto alcun progresso in merito, sebbene la presidenza di turno del Consiglio d’Europa del suo paese gli abbia dato l’opportunità di farlo esplorando anche un cessate il fuoco. Ha visitato Kiev non solo come Primo Ministro ungherese, ma come rappresentante del Consiglio d’Europa, assicurandosi così che Zelenskyj non cercasse di metterlo in ombra o di umiliarlo ma lo trattasse invece con rispetto.
Sebbene il viaggio riguardasse principalmente la risoluzione di questioni bilaterali, il contesto diplomatico del nuovo ruolo dell’Ungheria nell’UE nel semestre successivo ha creato un’atmosfera molto migliore che se si fosse trattato di un viaggio puramente bilaterale con Orban che avrebbe partecipato esclusivamente in qualità di Primo Ministro ungherese. . Inoltre, Zelenskyj sa che avrà bisogno dell’accordo di Orban se l’Ucraina vuole fare ulteriori progressi verso l’adesione all’UE, non importa quanto superficiale possa essere alla fine. Ciò a sua volta lo ha reso più disponibile ai negoziati bilaterali.
L’unico risultato tangibile del loro incontro è stato che Orban si è impegnato a costruire e finanziare tutte le scuole ucraine di cui la comunità ha bisogno in Ungheria a causa dell’afflusso di rifugiati. È stata una mossa intelligente poiché spinge Zelenskyj a rispondere reciprocamente ripristinando i diritti della minoranza ungherese anche se non si è ancora impegnato in nulla di tangibile. I colloqui sono in corso, anche se, a giudicare dall’ottimismo di Orban, la questione verrà risolta con un accordo globale di cooperazione.
Tutto sommato, è stata necessaria la presidenza di turno ungherese del Consiglio d’Europa perché Orban visitasse finalmente Kiev, il che aumentava le possibilità che non venisse maltrattato da Zelenskyj per vendetta delle sue opinioni. Anche se ha affrontato il tema del cessate il fuoco, il vero scopo del suo viaggio, come confermato da entrambe le parti, era quello di rafforzare i legami bilaterali, che rimangono problematici ma potrebbero presto normalizzarsi. La sua visita può quindi essere valutata come un passo positivo nella giusta direzione, ma ci vorrà ancora del tempo perché dia i suoi frutti, se mai ce ne saranno.
Non ci sono prove che il presidente Putin abbia mai preso seriamente in considerazione una cosa del genere.
La Alt-Media Community (AMC) si riferisce al gruppo eterogeneo di media, influencer e appassionati non mainstream, alcuni dei quali reagiscono in modo eccessivo e riportano in modo errato notizie conformi alle loro aspettative di pio desiderio o addirittura talvolta fuorviano deliberatamente il loro pubblico. Questo è stato il caso del popolare account X “BRICS News”, che ha oltre mezzo milione di follower ed è affiliato a un sito di criptovaluta con sede negli Stati Uniti , ma alcuni presumono erroneamente che sia affiliato a BRICS.
Martedì hanno twittato quanto segue : “APPENA ARRIVATO: la Russia armerà gli Houthi dello Yemen con missili da crociera balistici antinave”. Il loro pubblico, molti dei quali presumono erroneamente che l’assegno d’oro di “BRICS News” confermi il suo status di account di notizie ufficiale dei BRICS a meno che non facciano clic su quel simbolo per vedere con chi è veramente affiliato, hanno dato questa affermazione per scontata. In realtà, tuttavia, si tratta di un esempio di “BRICS News” che riporta erroneamente ciò che affermavano questi due articoli o che fuorvia deliberatamente il pubblico al riguardo:
Il primo proveniva da “Middle East Eye” (MEE), con sede nel Regno Unito ma, secondo quanto riferito, finanziato dal Qatar , che ha citato un anonimo “alto funzionario statunitense” che ha detto loro che “il presidente Vladimir Putin ha preso in considerazione la possibilità di fornire ai combattenti ribelli Houthi crociere antinave missili” ma il principe ereditario saudita avrebbe posto il veto. La seconda notizia, nel frattempo, era semplicemente Newsweek che riportava le affermazioni di cui sopra. Nessuno dei due rapporti afferma che la Russia armerà effettivamente gli Houthi, a differenza di quanto twittato da “BRICS News”.
Ecco tre briefing di base che spiegano perché la Russia è riluttante a farlo:
Il primo documenta la realtà oggettivamente esistente delle relazioni russo-houthi basandosi su fonti ufficiali, che smentiscono l’affermazione di molti membri dell’AMC secondo cui i due sarebbero alleati militari. La Russia ha criticato pubblicamente gli Houthi al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, mentre il ministro degli Esteri Lavrov li ha criticati in altre occasioni, ciascuno a causa delle loro obiezioni agli attacchi di quel gruppo contro navi civili. Esistono legami politici, soprattutto per ragioni pragmatiche legate al controllo del gruppo sullo Yemen del Nord, ma la questione è solo questa.
Per quanto riguarda il secondo, documenta la crescente vicinanza tra la Russia e il governo yemenita di Aden, riconosciuto dall’ONU, con il quale gli Houthi sono in guerra già da quasi un decennio, il che si allinea in gran parte con lo Yemen del Sud. La Russia di solito dà priorità ai legami con i governi legittimi rispetto ai gruppi ribelli, anche se esistono eccezioni come le sue relazioni con il generale libico Haftar. Detto questo, lo Yemen è un caso in cui si segue il libro, ed è contrario a sacrificare gli stretti legami con Aden armando gli Houthi.
Il briefing finale menziona verso la fine che è improbabile che la Russia armi gli Houthi perché non vuole rischiare di rovinare le relazioni con l’Arabia Saudita, che è in guerra con quel gruppo già da quasi un decennio e con la quale la Russia gestisce congiuntamente il petrolio globale. mercato tramite l’OPEC+. Anche se è possibile che l’armamento speculativo da parte della Russia dell’Asse della Resistenza in Siria e Iraq (in circostanze specifiche) possa portare indirettamente a un flusso di armi nelle mani degli Houthi, essa non lo approverebbe.
Questa intuizione aiuta a comprendere meglio ciò che la fonte anonima di un “alto funzionario statunitense” del MEE avrebbe detto loro riguardo a come il leader russo “abbia preso in considerazione l’idea di fornire” missili da crociera antinave agli Houthi, ma presumibilmente il suo suggerimento sia stato posto il veto dal principe ereditario saudita. Anche se non si può sapere con certezza data l’opacità di questo argomento, è possibile che la loro fonte dica la verità, anche se con l’avvertenza che tutto potrebbe non essere così chiaro come potrebbero supporre gli osservatori casuali.
Per spiegare, MEE ha riferito che “Secondo l’intelligence statunitense, il principe ereditario dell’Arabia Saudita Mohammed bin Salman è intervenuto per impedire a Putin di fornire missili agli Houthi…’Putin ha ingaggiato Mohammed bin Salman che ha chiesto alla Russia di non portare avanti l’accordo,’ ha detto a MEE un alto funzionario americano”. Ciò suggerisce che il principe ereditario abbia programmato una telefonata con il leader russo per dirgli di non procedere con una simile mossa, non che il presidente Putin abbia chiesto il permesso ma sia stato rifiutato.
L’amministrazione di Mohammed Bin Salman potrebbe essersi imbattuta in voci al riguardo online, come quelle diffuse dall’AMC da quando gli Houthi hanno iniziato il blocco delle vie navigabili della regione, o aver ottenuto informazioni da altre fonti secondo cui alcuni russi ne stavano discutendo. Per quanto riguarda la seconda possibilità, questo articolo tocca la recente emergenza di una fazione pro-Asse all’interno della comunità politica russa, che è ancora subordinata a quella filo-israeliana.
Tuttavia, alcune comunicazioni potrebbero essere state intercettate dai sauditi (o da qualcun altro che ha trasmesso loro il messaggio) da parte di alcuni dei loro membri e/o potrebbero averne parlato con colleghi stranieri che poi glielo hanno trasmesso, rendendo così necessario l’intervento del principe ereditario. chiamata. Mohammed Bin Salman avrebbe preso molto sul serio entrambe le sequenze di eventi considerando quanto sia stata costosa la guerra quasi decennale del suo Regno contro gli Houthi anche senza che loro avessero armi russe.
Il fatto che abbia chiamato il presidente Putin per discutere di questo (ammesso che sia successo, cioè), non avrebbe significato automaticamente che la Russia stava per armare gli Houthi, ma è stato poi posto il “veto” all’ultimo minuto come molti nell’AMC senza sapere come. le cose funzionano ora potrebbe pensare dopo aver letto quei rapporti. In realtà, non ci sono prove che il leader russo abbia mai preso seriamente in considerazione la questione, ed è molto più probabile che la fazione pro-Resistenza, attualmente non influente, sia stata l’unica in Russia a discuterne.
Mentre l’approccio della Russia nei confronti di Israele potrebbe cambiare se armasse l’Ucraina di Patriots attraverso gli Stati Uniti, come nel suddetto pezzo con collegamento ipertestuale sulla fazione pro-Resistenza menzionata, non ci sono linee di faglia emergenti nei legami della Russia con l’Arabia Saudita che possano ipotizzare un cambiamento nella politica. verso di esso. Gli Houthi hanno già capacità missilistiche da crociera antinave, come hanno ripetutamente dimostrato, quindi la questione se riceveranno tali missili dalla Russia in futuro è irrilevante in senso pratico.
L’unico motivo per cui questa notizia è ancora in circolazione è perché alcuni membri dell’AMC credono fermamente che ciò accadrà (o sia già accaduto), stanno deliberatamente fuorviando il loro pubblico su questo per qualsiasi motivo, e/o le agenzie di spionaggio straniere come quelli del Qatar e degli Stati Uniti che vogliono dividere Russia e Arabia Saudita. Si consiglia pertanto ai membri responsabili dell’AMC di non condividere tali rapporti o di prestare loro falso credito poiché non esiste alcuna base fattuale per ritenere che la Russia armerà gli Houthi.
Sebbene l’amministrazione Biden sia controllata da liberali-globalisti che credono che gli Stati Uniti dovrebbero continuare a lasciare che l’UE se ne occupi come ricompensa per il loro allineamento ideologico, gli imperativi strategico-militari nei confronti della Cina hanno già spinto il Pentagono ad attuare parzialmente Il piano di Trump.
Martedì Politico ha pubblicato un articolo su come “ il piano di Trump per la NATO sta emergendo ”, in cui cita alcune fonti anonime e registrate per descrivere il suo approccio nei confronti del blocco se verrà rieletto. Si basa su un documento politico scritto dalla dottoressa Sumantra Maitra nel febbraio 2023 per il Center for Renewing America, affiliato a Trump. Intitolato “ Pivoting the US Away from Europe to a Dormant NATO ”, spiega in dettaglio come gli Stati Uniti possono convincere l’UE a difendere l’Europa mentre gli Stati Uniti si concentrano sul contenimento della Cina in Asia.
Il punto è che gli Stati Uniti trarrebbero finanziamenti da attività non essenziali della NATO che non hanno nulla a che fare con la difesa del blocco da un attacco russo, cosa che Maitra ritiene non realistica in ogni caso a causa della mancanza di volontà e capacità, consentendogli così di farlo. tornare alla sua missione principale e ridurre il peso burocratico. Tutti sarebbero costretti ad aumentare le spese militari per rimanere sotto l’ombrello nucleare degli Stati Uniti, ma le coalizioni del sottoblocco si assumerebbero la responsabilità di difendere il fianco orientale, non gli Stati Uniti.
La proposta di Maitra mira a porre fine all’era del freeloading europeo trasferendo bruscamente sulle loro spalle il peso della difesa continentale, con gli Stati Uniti che si trasformano in un “bilanciatore offshore” nei confronti dell’Eurasia (soprattutto rispetto a Cina e Russia) e “un fornitore logistico di ultima istanza” per l’UE. Nell’ambito di questa transizione, l’UE svilupperebbe industrie della difesa transfrontaliere invece di mantenere quelle puramente nazionali in modo da migliorare l’interoperabilità, facilitando così il suddetto ruolo logistico degli Stati Uniti.
Per quanto riguarda l’articolo di Politico, che si basa sul brief politico di Maitra nei modi appena spiegati, Trump 2.0, secondo quanto riferito, fermerebbe anche l’espansione della NATO, mentre prende in considerazione l’idea di congelare l’ accordo NATO-russo.guerra per procura lungo la linea di contatto. In linea di principio, questo approccio potrebbe soddisfare alcune delle richieste di garanzia di sicurezza della Russia, creando così le basi per un compromesso pragmatico . Basti dire che all’Ucraina non sarebbe permesso di aderire alla NATO, anche se manterrebbe comunque legami militari con l’Occidente.
Sebbene l’amministrazione Biden sia controllata da liberali – globalisti che credono che gli Stati Uniti dovrebbero continuare a lasciare che l’UE se ne occupi come ricompensa per il loro allineamento ideologico, gli imperativi strategico-militari nei confronti della Cina hanno già spinto il Pentagono ad attuare parzialmente Il piano di Trump. Ciò ha preso la forma di promuovere la rapida ripresa della leadership militare tedesca nell’UE attraverso la “ Fortezza ”. Europa ”, che le due analisi precedenti, collegate in collegamento ipertestuale, descrivono ampiamente.
In breve, l’idea è che gli Stati Uniti facciano affidamento su un sottoblocco guidato dalla Germania per contenere la Russia in Europa su ordine degli Stati Uniti mentre gli Stati Uniti “ritornano verso l’Asia” per contenere la Cina, cosa che sarebbe facilitata dalla sua strategia. “rivale amichevole” subordinazione totale della Polonia come “partner minore” di Berlino. Come la Germania, anche la Polonia vuole costruire la più grande forza terrestre dell’UE, e gli sforzi di questi due paesi possono completarsi a vicenda se saranno coordinati dagli Stati Uniti attraverso la suddetta gerarchia.
Lo “ Schengen militare ” concordato dai due paesi a febbraio, al quale ha recentemente aderito anche la Francia , potrebbe presto espandersi fino a includere gli Stati baltici e accelerare così la costruzione della prevista “ linea di difesa dell’UE ” lungo i confini orientali del blocco. . Questi processi si stanno già svolgendo nonostante l’agenda ideologica dell’amministrazione Biden proprio perché il Pentagono si è reso conto che questo è il modo migliore per mantenere la leadership militare americana nella Nuova Guerra Fredda .
Gli Stati Uniti non possono restare impantanati in una “guerra eterna” europea, che è ciò che potrebbe diventare la guerra per procura NATO-Russia in Ucraina se Mosca non riuscisse a ottenere una svolta militare grazie alla sua leadership nella “ corsa alla logistica ”. “ guerra di logoramento ”, altrimenti l’ascesa della Cina diventerebbe incontrollabile. Ciò spiega perché il falco anti-russo Kaja Kallas ha affermato il mese scorso che l’Ucraina può ottenere la “vittoria” anche senza riconquistare le regioni perdute, mentre Biden ha affermato più o meno nello stesso periodo che potrebbe non aderire alla NATO .
Si tratta di concessioni importanti che ridimensionano gli obiettivi fino ad allora massimalisti dell’Occidente in quel conflitto, sebbene coincidano anche con ulteriori escalation come consentire apertamente all’Ucraina di colpire qualsiasi obiettivo all’interno della Russia, inviare difese aeree aggiuntive in Ucraina e prendere in considerazione la possibilità di contrarre ufficialmente le PMC lì, ecc. al. Questa contraddizione è spiegata dalla lotta tra la fazione liberale-globalista al potere negli Stati Uniti e i suoi rivali relativamente meno radicali che vogliono “riorientarsi verso l’Asia” il prima possibile.
Il primo vuole una “guerra eterna” in Europa per ragioni ideologiche in modo da unire l’Occidente attorno alla “leadership morale” degli Stati Uniti poiché inquadra la Nuova Guerra Fredda come una battaglia tra “democrazie e autocrazie”, mentre il secondo ha più realismo tra le loro fila vedono tutto dal punto di vista geopolitico. Di conseguenza, i liberali-globalisti danno priorità al contenimento della Russia , mentre i loro rivali danno priorità al contenimento della Cina . Il crescente attrito tra loro in questo momento cruciale della Nuova Guerra Fredda è responsabile di questi segnali contrastanti.
Tuttavia, anche se l’esito della loro lotta non è chiaro poiché molto dipenderà dalle elezioni presidenziali americane, il fatto è che l’amministrazione Biden ha ancora presieduto all’attuazione parziale del piano di Trump, come già spiegato. Un’ulteriore prova di ciò include la prima “ Strategia per l’industria della difesa ” dell’UE, che Politico ha riassunto qui , dimostrando così che la proposta industriale transfrontaliera di Maitra viene avanzata parallelamente a quella del sottoblocco.
Questi sviluppi militari, politici e diplomatici mirano a ottimizzare la proiezione di potenza degli Stati Uniti, date le loro limitate capacità industriali al momento, e la ritrovata intensa concorrenza da parte dei Cino – Russi.Intesa e le ultime dinamiche strategiche del conflitto ucraino. Questi fattori sono confluiti nell’ultimo anno per spingere il Pentagono a promulgare in modo indipendente alcune delle politiche suggerite da Maitra, anche se i suoi politici potrebbero essere stati completamente all’oscuro dei suoi suggerimenti.
Se i delegati democratici dei liberal-globalisti rimarranno alla Casa Bianca, allora la visione di Maitra probabilmente rimarrà solo parzialmente attuata poiché è improbabile che gli Stati Uniti mettano fine all’era dello scroccone europeo a causa degli interessi ideologici di quella cricca dominante. Se Trump tornasse, tuttavia, tutti dovrebbero aspettarsi che i suoi piani vengano attuati in modo più completo, anche se alla fine potrebbero comunque non raggiungere i loro obiettivi massimalisti per ragioni attualmente imprevedibili.
La fazione pro-BRI emersa in Russia lo scorso anno è probabilmente responsabile di ciò, ma il danno che ha arrecato alla percezione popolare delle relazioni bilaterali sarà presto corretto mentre la Russia continua a ricalibrare la sua strategia asiatica riportandola alle sue radici pragmatiche/equilibrate originali. .
Membro associato presso l’Istituto per gli studi e l’analisi della difesa finanziato dal Ministero della difesa indiano Swasti Rao ha sensibilizzato sulle rappresentazioni incoerenti dell’integrità territoriale del suo paese da parte del Ministero degli affari esteri russo, RT e Sputnik nel periodo precedente al viaggio del primo ministro Narendra Modi Là. Il suo post su X può essere letto qui , che è stato poi ripreso e riportato da The Print qui . Prima di analizzare questo scandalo, è importante condividere con il lettore alcuni briefing di fondo:
Questi articoli sostengono che nell’ultimo anno in Russia è emersa una fazione politica pro-BRI, che crede che un ritorno al bi-multipolarismo sino-americano sia inevitabile, quindi il loro paese dovrebbe quindi accelerare la traiettoria della superpotenza cinese come vendetta contro gli Stati Uniti per tutto ciò che sta facendo. fatto dal 2022. La loro crescita astronomica è stata recentemente frenata dai viaggi del presidente Putin in Corea del Nord e Vietnam, insieme ai progressi tangibili compiuti nella conclusione di un patto logistico militare a lungo negoziato con l’India.
Fino a questi ultimi tre sviluppi, avvenuti in rapida sequenza, sembrava che la Russia stesse scivolando verso una dipendenza potenzialmente sproporzionata dalla Cina. I “rivali amichevoli” della fazione pro-BRI sono gli equilibratori/pragmatisti, che vogliono scongiurare il suddetto scenario facendo affidamento sull’India come contrappeso alla Cina , e sono responsabili delle ultime mosse politiche. La Russia ha quindi ricalibrato la sua strategia asiatica giusto in tempo per l’imminente visita del Primo Ministro Modi.
Tuttavia, questo processo è ancora in fase di elaborazione e ci vorrà del tempo per identificare ovunque i progressi compiuti dalla fazione pro-BRI nell’ultimo anno, con l’obiettivo di invertire parte di ciò che hanno fatto. Considerando questo delicato contesto politico, è quindi molto probabile che questa fazione sia stata responsabile delle rappresentazioni incoerenti dell’integrità territoriale dell’India che Rao ha colto. Di conseguenza, si prevede che saranno inevitabilmente corretti, ma ciò potrebbe accadere prima se l’India dovesse sollevare il problema con la Russia.
L’ex ambasciatore indiano in Russia Venkatesh Verma ha dichiarato a The Hindu che il viaggio del primo ministro Modi “invertirà la percezione nella comunità internazionale di una deriva nelle relazioni bilaterali”, come sostenuto anche da alcuni media indiani secondo il suo predecessore Kanwal Sibal in un articolo per RT . Questo organo di informazione ha appena pubblicato un articolo del dottor Alexey Kupriyanov, uno dei giovani esperti russi più promettenti sull’India, in cui affronta i timori dell’India che la Cina voglia imporre l’unipolarità guidata dalla Cina in Asia .
Anche se l’ex ambasciatore Sibal collabora regolarmente con RT, questo è stato il primo contributo del dottor Kupriyanov, che hanno notato “è stato scritto per la sessione ‘BRICS: un passo verso una nuova architettura mondiale’ del forum internazionale ‘Primakov Readings’ ed è stato il primo pubblicato su Izvestia, tradotto e curato dal team RT. Pertanto, è chiaro che è stata presa una decisione editoriale – probabilmente per volere dei loro sostenitori statali – per amplificare la sua intuizione a livello mondiale, confermando così le osservazioni di una ricalibrazione politica.
Dopotutto, sarebbe stato impensabile solo poche settimane fa, quando la fazione pro-BRI stava ancora esercitando un’influenza senza precedenti sui media internazionali russi finanziati con fondi pubblici (come attraverso gli esempi menzionati da Rao), immaginare che avrebbero pubblicato un pezzo questo è critico nei confronti della Cina. L’esistenza stessa dell’articolo del dottor Kupriyanov in prima pagina, che hanno cercato e tradotto per aumentare la consapevolezza globale della sua intuizione, dimostra che le cose stanno cambiando dietro le quinte.
Ciò dovrebbe dare speranza a Rao e ad altri che hanno colto le recenti tendenze secondo cui la Russia riparerà il danno che la fazione pro-BRI ha inflitto alla percezione popolare dei legami bilaterali con l’India. Erano così presi dallo zelo ideologico che non si rendevano conto che alcune delle loro mosse, come cambiare il modo in cui veniva rappresentata l’integrità territoriale dell’India, causavano preoccupazione per un possibile cambiamento nella politica. La Russia farebbe quindi bene a tenerli d’occhio in futuro per evitare altri passi falsi del genere.
Sembra che i cospiratori siano dissidenti nostrani senza alcun legame con la Russia, anche se potrebbero avere qualche legame con membri scontenti delle forze armate.
Il procuratore generale ucraino ha rivelato lunedì che la SBU ha sventato un presunto complotto simile a quello del J6 per prendere il potere a Kiev il giorno prima, orchestrando una protesta che sarebbe deliberatamente sfociata in una rivolta i cui partecipanti, tra cui personale militare e PMC, avrebbero poi preso d’assalto la Rada. . Zelenskyj allarma da novembre sul cosiddetto “Maidan 3” che, secondo lui, era stato organizzato dalla Russia contro di lui, quindi è molto probabile che interpreterà quest’ultimo sviluppo come prova di quel presunto complotto.
È utile ai suoi interessi politici screditare la possibilità che si sia trattato di un tentativo di cambio di regime veramente interno, che potrebbe anche potenzialmente essere legato a membri scontenti delle forze armate, indipendentemente dal fatto che abbiano qualche legame con l’ex comandante in capo Zaluzhny. Era il principale rivale di Zelenskyj prima di essere sostituito e designato come nuovo ambasciatore ucraino nel Regno Unito ed era dell’opinione che fosse diventato impossibile raggiungere gli obiettivi massimalisti di Zelenskyj nel conflitto.
Gli osservatori dovrebbero anche ricordare che il mandato di Zelenskyj è scaduto a fine maggio, quindi è illegittimo a causa della convincente argomentazione legale avanzata dal presidente Putin il mese scorso secondo cui il presidente della Rada è ora il capo dello stato se la Costituzione ucraina viene ancora rispettata. Inoltre, c’è molta rabbia per le misure di coscrizione forzata del paese che sono aumentate a causa della nuova spinta della Russia nella regione ucraina di Kharkov all’inizio di maggio, per cui al giorno d’oggi esiste davvero un autentico sentimento antigovernativo.
Non si può quindi escludere che si tratti effettivamente del lavoro di autentici dissidenti nazionali senza alcun rapporto con la Russia, nonostante ciò che Kiev potrebbe affermare. Mentire sul presunto legame di quel paese con i cospiratori ha il duplice scopo di giustificare ulteriori repressioni sulla società e allo stesso tempo ricordare all’Occidente la presunta “minaccia russa” in vista del vertice NATO della prossima settimana, nel tentativo di spingerli a estendere un sostegno più significativo all’Ucraina .
Anche la tempistica con cui tutto si è svolto merita un ulteriore esame tenendo presente quell’evento imminente. Secondo il procuratore generale, i colpevoli hanno iniziato a diffondere messaggi antigovernativi sui social media a maggio e hanno continuato a farlo fino a giugno, cosa che presumibilmente ha attirato l’attenzione dello Stato. Si può quindi supporre che le autorità fossero a conoscenza di tutto riguardo a questo complotto fin dall’inizio e che quindi non abbia mai rappresentato una minaccia credibile.
Il motivo per cui non è stato arrestato immediatamente potrebbe essere stato quello di identificare l’intera portata dei loro piani e smascherare tutti gli altri all’interno di questa rete per eliminarli tutti in una volta. Ciò è abbastanza sensato, ma potrebbe esserci stato anche un ulteriore motivo in gioco, vale a dire assicurarsi che questa storia circoli nel periodo precedente al vertice della NATO per le ragioni politiche egoistiche di Zelenskyj già menzionate, invece di introdurla prematuramente nel dibattito pubblico. ecosistema informativo globale con settimane di anticipo.
Inoltre, visto che secondo quanto riferito l’Ucraina ha iniziato un rafforzamento militare lungo il confine bielorusso, è possibile che Kiev abbia pianificato di rendere pubbliche queste notizie tipo J6 più o meno nello stesso periodo al fine di sfruttare le prevedibili accuse di coinvolgimento russo nel complotto come pretesto per le suddette misure. In questo modo, questa mossa potrebbe essere interpretata come “difensiva”, anche se è probabilmente basata almeno sulla trasmissione dell’intento di minacciare l’alleato di mutua difesa della Russia, il cui scopo è stato spiegato qui .
Mettendo tutto insieme, sembra che i cospiratori siano dissidenti nostrani senza alcun legame con la Russia, anche se potrebbero avere qualche legame con membri scontenti delle forze armate. Le autorità erano a conoscenza dei loro piani fin dall’inizio, ma hanno rifiutato di arrestarli subito poiché volevano ottenere maggiori informazioni. Tuttavia, il secondo motivo era che questa storia coincidesse con le ultime tensioni bielorusse e con l’imminente vertice della NATO, forse presagendo così ulteriori escalation occidentali .
Morales e Milei rappresentano rispettivamente l’estrema sinistra e l’estrema destra, ma ciascuno di loro ha concluso in modo indipendente che l’ex generale boliviano Zuniga stava dicendo la verità la scorsa settimana quando ha affermato che il presidente Arce gli aveva chiesto di organizzare un falso colpo di stato.
L’ex presidente boliviano Evo Morales e il presidente argentino in carica Javier Milei , che rappresentano rispettivamente l’estrema sinistra e l’estrema destra, sono entrambi usciti allo scoperto per accusare ufficialmente l’attuale presidente boliviano Luis Arce di aver simulato il fallito tentativo di colpo di stato della scorsa settimana. Il generale Juan Jose Zuniga aveva precedentemente affermato che Arce gli aveva chiesto di mettere in scena un dramma politico per aumentare la sua popolarità in un contesto di tensioni intra-sinistra con Morales e una crisi economico-finanziaria in rapido peggioramento, ma inizialmente non era stato ritenuto credibile.
Tuttavia, considerando che due figure popolari ai lati opposti dello spettro politico sono appena diventate strane compagne di letto, ci sono ora motivi per riconsiderare ciò che ha affermato Zuniga e chiedersi se Arce abbia effettivamente orchestrato questo bizzarro tentativo di colpo di stato che non aveva nessuna delle solite tracce della CIA . Dopotutto, Morales e Milei hanno visioni del mondo completamente diverse, eppure ciascuno è arrivato indipendentemente alla conclusione che Zuniga stesse effettivamente dicendo la verità.
Potrebbe esserci anche un po’ di opportunismo politico in gioco, visto che Morales ha interesse a screditare Arce mentre gareggia per diventare il candidato del partito di sinistra al potere durante le elezioni del prossimo anno nonostante gli ostacoli legali mentre Milei odia tutti i socialisti, non importa quanto siano moderati. Forse. Tuttavia, l’ottica di questi due che escono allo scoperto e accusano Arce di aver inscenato un “auto-colpo di stato” è potente, e sicuramente spingerà gli osservatori a riflettere più profondamente su questa teoria.
Nel caso in cui ci fosse qualcosa di vero, Arce potrebbe effettivamente aver pensato che ciò avrebbe aumentato la sua popolarità nei confronti di Morales e allo stesso tempo avrebbe distratto dalla crisi economico-finanziaria in corso, quest’ultima che avrebbe potuto poi pensare di poter far girare in relazione al presunto colpo di stato. La CIA ha una lunga storia di ingerenze in Bolivia, quindi dopo quel fallito cambio di regime sarebbero state gettate le basi per accusarla di aver presumibilmente intrapreso in anticipo una guerra economico-finanziaria contro la Bolivia.
A questo punto, è impossibile dire cosa sia realmente accaduto poiché ciascuna parte del dibattito ha argomenti convincenti a proprio sostegno, anche se ciò non significa che non si possa avanzare una previsione generale. Le conseguenze dell’accusa di Morales ad Arce di aver architettato un falso colpo di stato aggraveranno la rivalità tra i due e allargheranno ulteriormente il divario all’interno della sinistra in vista delle elezioni presidenziali del prossimo anno. È imprevedibile che si riconcilieranno dopo questo e i loro sostenitori probabilmente diventeranno feroci nemici gli uni degli altri.
A seconda di come si svilupperanno le tensioni tra loro nel prossimo futuro, Arce potrebbe fare affidamento sui militari per reprimere i sostenitori di Morales, soprattutto se organizzano proteste a livello nazionale che chiudono le strade principali e peggiorano la già difficile crisi economico-finanziaria del paese. Detto questo, non si può dare per scontato che l’esercito storicamente allineato con gli Stati Uniti rimanga fedele ad Arce, con la possibilità che alcuni membri anziani si sentano profondamente offesi dal fatto che lui abbia presumibilmente orchestrato un falso colpo di stato con Zuniga.
La loro istituzione appare più debole che mai e fu umiliata dopo che Zuniga obbedì alle richieste di Arce di lasciare il palazzo presidenziale. Se percepissero che è diventato più vulnerabile di prima in seguito a quanto appena accaduto, in gran parte a causa del crescente divario all’interno della sinistra, allora potrebbero organizzare un vero e proprio colpo di stato per deporlo. In tal caso, potrebbero benissimo essere collusi con la CIA, e non si può escludere che anche loro cerchino l’appoggio di Milei a causa del loro allineamento ideologico antisocialista.
Per quanto riguarda il leader argentino, non vuole né Arce né Morales al potere nella porta accanto, inoltre ha anche ragioni politiche egoistiche nel sostenere qualsiasi colpo di stato contro di loro (anche se solo in seguito mantenendo aperti i corridoi commerciali se il Brasile di sinistra li blocca come punizione) per distrarre dai problemi domestici. Milei potrebbe anche calcolare che farebbe all’Occidente un grande favore che potrebbe poi ripagare in un modo che aiuti ad alleviare la crisi economico-finanziaria dell’Argentina.
Tenendo presenti queste variabili, ci sono ragioni per aspettarsi che la Bolivia rimarrà impantanata in una crisi multilaterale che è pronta a intensificarsi man mano che il paese si avvicina alle elezioni presidenziali del prossimo anno. Arce dovrà fare i conti con un Morales quasi letteralmente ribelle e gestire la sfiducia dei militari, per non parlare di garantire che la crisi economico-finanziaria non sfugga di mano. Ciascuno di questi compiti è estremamente difficile da solo, per non parlare di tutti insieme, e potrebbe non essere in grado di farcela.
Sequestrare fondi è completamente diverso dall’arrestare un funzionario, ma nessuno dei due sarebbe possibile senza che lo stato preso di mira si assumesse dei rischi investendoli all’estero e facendo in primo luogo viaggiare quelle cifre verso paesi conformi alla Corte penale internazionale.
L’ex presidente russo e vicepresidente in carica del Consiglio di sicurezza Dmitry Medvedev ha affermato durante il suo discorso al Forum legale internazionale di San Pietroburgo della scorsa settimana che il sequestro dei beni di un paese e l’arresto dei suoi funzionari all’estero potrebbero essere considerati casus belli. Si riferiva ai fondi russi per un valore di circa 300 miliardi di dollari che l’Occidente ha congelato nel 2022 e ai “mandati di arresto” della “Corte penale internazionale” (CPI) nei confronti del presidente Putin e di altri funzionari russi.
Però ha metà ragione e metà torto per le ragioni che ora verranno spiegate. Da un lato entrambe le azioni sono aggressive e mirano a danneggiare lo Stato preso di mira, ma in realtà è solo l’arresto dei suoi funzionari che potrebbe prevedibilmente portare allo scoppio delle ostilità convenzionali. Dopotutto, la Russia non si è nemmeno impossessata reciprocamente di una quantità equivalente di beni occidentali all’interno della sua giurisdizione dopo che i suoi erano stati sequestrati in Occidente, sebbene questa sia stata una mossa saggia per mantenere la fiducia internazionale.
Se la Russia avesse fatto esattamente la stessa cosa dell’Occidente, allora i paesi di tutto il mondo potrebbero temere che un giorno anche la Russia possa impossessarsi dei loro beni in caso di crisi, esattamente come ora sospettano che l’Occidente potrebbe fare ed è per questo che la Russia ha ragione. sostenendo che questa mossa ha danneggiato la reputazione dell’Occidente. In ogni caso, il punto è che la Russia non ha considerato motivo di guerra la confisca dei suoi beni in Occidente poiché non ha ancora risposto, rendendo così l’affermazione di Medvedev poco più che retorica.
Tuttavia, ha ragione su come l’arresto dei funzionari di un paese possa facilmente costituire ciò, dal momento che è impossibile immaginare che la Russia o chiunque altro non risponda in modo significativo se il loro capo di stato o i massimi leader militari vengono arrestati all’estero. Gli Stati Uniti, o chiunque sia ad arrestare quelle figure, ovviamente conoscerebbero le conseguenze che ciò comporterebbe, ma allo stesso modo, anche quelle figure avrebbero dovuto conoscere i rischi che corrono viaggiando in paesi dove ciò potrebbe accadere.
Lo stesso si può dire della Russia che mantiene in Occidente asset per un valore di 300 miliardi di dollari, che rischiavano sempre di essere congelati e sequestrati in caso di crisi, ma che rimanevano comunque lì perché era redditizio e i politici pensavano che non sarebbe successo nulla. a loro. Nella loro mente, l’Occidente non avrebbe mai toccato quei fondi a causa del danno reputazionale autoinflitto che ne sarebbe derivato, come è stato spiegato, il che era ovviamente un errore di calcolo anche se fatto in modo abbastanza innocente.
Tuttavia, sequestrare fondi è completamente diverso dall’arrestare un funzionario, ma nessuno dei due sarebbe possibile senza che lo stato preso di mira si assumesse dei rischi investendoli all’estero e facendo in primo luogo trasferire tali cifre verso paesi conformi alla Corte penale internazionale.Il punto generale di Medvedev, tuttavia, è solido, ovvero che gli atti di aggressione non convenzionali possono essere considerati casus belli, ma solo l’arresto di funzionari (indipendentemente da quanto sconsiderati possano essere i loro piani di viaggio) costituirebbe probabilmente una risposta militante.
La potenziale operazione bielorussa dell’Ucraina sembra basata sul calcolo di Kiev secondo cui la Russia potrebbe reagire in modo eccessivo in qualche modo, provocando l’intervento convenzionale della NATO che Zelenskyj spera o reindirizzando le truppe dalla linea del fronte esistente a quella nuova, creando così un’apertura da sfruttare.
Negli ultimi giorni i media bielorussi e russi sono stati inondati di notizie sulle nuove tensioni lungo il confine ucraino-bielorusso causate dal presunto rafforzamento militare dell’Ucraina lì:
Ciò fa seguito alle preoccupazioni della Bielorussia nell’ultimo anno dall’inizio della controffensiva, alla fine fallita, di Kiev che potrebbe presto essere attaccata direttamente dall’Ucraina e/o dalla NATO:
Questi sviluppi sopra menzionati coincidono con l’aumento delle tensioni NATO-Russia mentre l’Occidente intensifica la sua delegaguerra in Ucraina per la disperazione di ottenere una sorta di vittoria strategica nonostante le probabilità:
Tutte le informazioni sopra menzionate verranno ora riassunte per comodità del lettore prima di analizzare il significato del presunto rafforzamento militare dell’Ucraina lungo il confine bielorusso.
Il motivo per cui questa sequenza di escalation è così pericolosa è perché la Russia potrebbe temere che qualsiasi forza d’invasione NATO su larga scala che potenzialmente attraversi il Dnepr possa prepararsi ad attaccare le sue nuove regioni. Il dilemma della sicurezza NATO-Russia è così grave in questo momento, a causa delle escalation precedentemente elencate, che tali intenzioni non possono essere escluse con sicurezza se ciò accadesse. La Russia potrebbe quindi ricorrere alle armi nucleari tattiche come ultima risorsa di autodifesa, ergo le sue recenti esercitazioni .
Il presidente Putin preferirebbe che questo scenario oscuro non si realizzasse, ed è per questo che ha recentemente condiviso una generosa proposta di cessate il fuoco nel tentativo di scongiurarlo. Come era prevedibile, l’Ucraina si è rifiutata di ritirarsi dai confini amministrativi delle nuove regioni della Russia, come da lui richiesto, e starebbe invece rafforzando le sue forze lungo il confine bielorusso in preparazione di una possibile offensiva. Mentre il presidente Putin rimane aperto al compromesso , Zelenskyj rimane chiaramente recalcitrante, probabilmente a causa dei timori sul suo futuro politico .
La potenziale operazione bielorussa dell’Ucraina sembra basata sul calcolo di Kiev secondo cui la Russia potrebbe reagire in modo eccessivo in qualche modo, provocando l’intervento convenzionale della NATO che Zelenskyj spera o reindirizzando le truppe dalla linea del fronte esistente a quella nuova, creando così un’apertura da sfruttare. Il primo potrebbe verificarsi se si ricorresse alle armi nucleari tattiche come ultima risorsa di autodifesa o si lanciasse un’altra offensiva dalla Bielorussia, l’ultima delle quali La Repubblica ha riportato all’inizio di maggio scatenerebbe un intervento della NATO.
Per quanto riguarda la seconda dimensione del rischioso calcolo di Kiev, i politici potrebbero aspettarsi significativi guadagni sul campo che potrebbero costringere la Russia a dare priorità a questo nuovo fronte rispetto a quelli esistenti, alleviando così l’enorme pressione sull’Ucraina. In tal caso, potrebbe sfruttare qualunque apertura possa emergere per tornare all’offensiva lungo i fronti orientale e/o meridionale, cosa che potrebbe convenientemente avvenire prima del prossimo vertice della NATO dal 9 all’11 luglio e fornire così un notevole impulso al morale occidentale.
Tuttavia, questa scommessa potrebbe anche fallire e ritorcersi tremendamente contro l’Ucraina, ad esempio se la Russia riuscisse davvero presto a fare una svolta militare in prima linea e poi invadesse il resto delle sue nuove regioni proprio perché Kiev ha erroneamente assegnato così tante delle sue forze all’esercito bielorusso. confine. Inoltre, anche se la NATO potrebbe intervenire convenzionalmente a suo sostegno, l’Ucraina potrebbe perdere molto più territorio a est del Dnepr se il blocco rimanesse sulla sponda occidentale per gestire il dilemma della sicurezza con la Russia.
Allo stesso tempo, è anche possibile che l’intelligence occidentale abbia identificato un serio punto debole da qualche parte lungo il confine bielorusso e abbia detto all’Ucraina di sfruttarlo, nel qual caso questa scommessa potrebbe almeno parzialmente ripagare. È prematuro prevederne il successo o l’insuccesso in ogni caso, ma in ogni caso gli osservatori farebbero bene a tenere d’occhio il confine bielorusso-ucraino poiché il rafforzamento militare di Kiev sembra essere qualcosa di serio e non solo una finta per “psiche- fuori” la Russia.
La realtà è che lo sapevano da sempre, ma lo hanno nascosto mentendo e affermando che qualsiasi affermazione in tal senso era “propaganda russa” e/o una “teoria del complotto”, tutto perché in realtà approvavano che i democratici installassero un segnaposto letterale nel testo. Casa Bianca che è liberale – globalistal’élite potrebbe controllare. È stato un rinfrescante cambio di passo da parte di Trump, che era troppo indipendente per i loro gusti nonostante le sue occasionali capitolazioni alle loro richieste, e ha anche rassicurato gli alleati dell’America che lo detestavano.
Entrambi hanno accettato la menzogna secondo cui Biden è in ottime condizioni mentali per ragioni di convenienza politica, ma ora è impossibile continuare più a lungo con la farsa, ecco perché fingono tutti sorpresa e shock. All’élite non dovrebbe essere permesso di farla franca con il loro ultimo gaslighting e dovrebbero essere smascherati per uno dei più grandi insabbiamenti della storia americana. Il paese è governato da un’oscura rete di élite transnazionali e nazionali unite dalla loro ideologia radicale liberale-globalista.
Biden è stato scelto come candidato dei democratici nel 2020 proprio perché era già rimbambito e quindi completamente controllabile. Quel partito, che funge da volto pubblico della suddetta rete d’élite, voleva qualcuno che facesse tutto ciò che chiedevano sul fronte della politica interna ed estera. In particolare, hanno cercato di trasformare l’America in un inferno liberal-globalista mentre intensificavano il contenimento della Russia in Ucraina da parte della NATO , ma la seconda politica è fallita dopo lo speciale iniziata l’operazione .
Tuttavia, non avranno mai un’altra possibilità di insediare qualcuno come Biden dal momento che il 2020 è stato un anno elettorale eccezionale a causa del referendum su Trump – che una parte significativa del pubblico è stata precondizionata a credere erroneamente sia il nuovo Hitler – e per posta- nelle votazioni a causa del COVID-19. Queste condizioni non potranno mai più essere replicate nello stesso modo, non importa quanto duramente le élite ci provino, motivo per cui hanno deciso di mantenere Biden come loro candidato invece di sostituirlo all’inizio.
Anche se ora c’è una spintadialcuni vogliono che venga sostituito durante l’imminente convention nazionale del partito, Politico e NBC News, tra gli altri, hanno entrambi sottolineato che questo sarebbe un processo difficile, quindi non c’è alcuna garanzia che ci proveranno seriamente. Detto questo, potrebbe anche subire una sorta di emergenza che lo rende inabile più di quanto non sia già, quindi lo scenario non può essere escluso. In tal caso, faranno comunque tutto il possibile per far luce sul fatto che non avevano idea che fosse così malsano.
Qualsiasi riconoscimento della loro consapevolezza rivelerebbe il loro ruolo nel colpo di stato di fatto del 2020 , che è stato l’ultimo delle élite dopo quelli del 2001, 1974 e 1963. All’epoca, l’11 settembre veniva sfruttato come pretesto per prendere la sicurezza nazionale. stato al suo livello successivo, mentre le dimissioni di Nixon di fronte allo scandalo Watergate della CIA avevano lo scopo di rimuovere un leader visionario veramente indipendente e popolare. Per quanto riguarda l’assassinio di Kennedy, molti credono che avesse lo scopo di fermare il suo ritiro programmato dal Vietnam .
L’ultimo colpo di stato dell’élite aveva lo scopo di potenziare la preesistente traiettoria liberale-globalista degli Stati Uniti dopo che Trump l’ha parzialmente compensata con le sue politiche nazionaliste-conservatrici, che hanno reso necessario provocare una guerra per procura con la Russia al fine di unificare l’Occidente attorno a questa causa ideologica. Il danno è già stato riparato e in gran parte è irreparabile, ma il ritorno al potere di Trump sarebbe comunque meglio per gli americani e per il resto del mondo, motivo per cui le élite sono fermamente contrarie.
Indipendentemente dal fatto che venga presa o meno la decisione di sostituire Biden, che ha i suoi vantaggi come mettere al ballottaggio un candidato più attraente per il pubblico ma anche i suoi svantaggi come alimentare il panico sulle prospettive elettorali del partito, l’élite farà di tutto per nascondere ciò che sa della sua senilità. Riconoscere che lo sapevano lascerebbe pochi dubbi nella mente di molti sul fatto che le elezioni del 2020 siano state in realtà l’ultimo colpo di stato dell’élite, ed è per questo che stanno esagerando con il gaslighting su come sono sorpresi.
In India non vengono maltrattati i cristiani, sono solo le bande terroristiche-separatiste del Myanmar che sfruttano il cristianesimo come falso pretesto per i loro crimini ad essere prese di mira dalle forze di sicurezza. Il piano americano di creare uno stato cristiano per procura fuori dalla regione attraverso i militanti estremisti Kuki fallirà.
L’ ultimo rapporto della Commissione statunitense per la libertà religiosa internazionale (USCIRF) ha criticato l’India per i suoi presunti abusi nei confronti delle minoranze religiose, con un’enfasi specifica posta su quelle cristiane. I rapporti precedenti tendevano a concentrarsi sui musulmani e recentemente sui sikh, con i primi tradizionalmente sostenuti dai democratici degli Stati Uniti mentre un terrorista separatista designato a Delhi dal secondo è al centro dell’ultima disputa indo-americana di cui si può leggere qui. poiché spiegare va oltre lo scopo di questo pezzo.
Un mese prima, alla fine di aprile, “ gli evangelici americani avevano definito anticristiana la recinzione del confine tra India e Myanmar ” dopo che “Christianity Today” del defunto Billy Graham aveva pubblicato un pezzo di successo su quel paese, che col senno di poi può essere visto come un tentativo di far inasprire i repubblicani. La narrazione dei democratici sui presunti abusi statali contro i musulmani si combina quindi con quella emergente sui presunti abusi contro i cristiani per creare un sostegno bipartisan per adottare una linea più dura contro l’India.
Gli Stati Uniti non dimenticheranno mai come l’India abbia orgogliosamente respinto pressioni senza precedenti affinché scaricasse la Russia e si sia invece impegnata con aria di sfida a raddoppiare i legami con essa, il che ha dimostrato che questo stato dell’Asia meridionale rimane strategicamente autonomo nella Nuova Guerra Fredda nonostante i suoi stretti legami con gli Stati Uniti. Anche se i due condividono interessi nella gestione dell’ascesa della Cina, interessi che oggi si concretizzano nella tacita riapertura del “ Tibet”Domanda ”, gli Stati Uniti sono ancora arrabbiati con il loro partner per aver rifiutato di diventare un procuratore .
Qui sta il motivo per cui l’USCIRF ha iniziato a enfatizzare il presunto abuso dei cristiani da parte dell’India, poiché questa narrazione emotiva di guerra dell’informazione è intesa a garantire il sostegno bipartisan per le sanzioni potenzialmente imminenti del tipo che la commissione ha esplicitamente raccomandato nel suo rapporto. Sebbene abbiano suggerito solo misure mirate, la loro eventuale imposizione intossicarebbe comunque i legami bilaterali, per non parlare del fatto che gli Stati Uniti seguissero il loro consiglio di sollevare la questione in tutti gli eventi bilaterali e multilaterali.
È con questi scenari credibili in mente, i cui scritti erano già sul muro prima della pubblicazione dell’ultimo rapporto provocatorio, che il Primo Ministro Modi ha deciso di visitare presto la Russia per rafforzare ulteriormente il loro partenariato strategico speciale e privilegiato come copertura contro i rapporti indo-americani. problemi. Il ministro degli Esteri russo Lavrov ha recentemente elogiato l’India per il suo approccio multipolare alle relazioni internazionali, che pone le basi affinché il prossimo vertice Modi-Putin diventi una pietra miliare nei loro rapporti.
Le ultime false preoccupazioni degli Stati Uniti sui legami tecnologici indo-russi, che secondo la mente della strategia indo-pacifica potrebbero ostacolare la cooperazione indo-americana in questa sfera, non impediranno in alcun modo una più stretta cooperazione tra loro. Il governo indiano sapeva già che gli Stati Uniti erano inaffidabili, ma il rapporto dell’USCIRF ha dimostrato che, al di là di ogni dubbio, nella mente del suo popolo, che si oppone all’adozione di sistemi ibridi,Guerra contro di loro manipolando le percezioni sul loro stato-civiltà storicamente cosmopolita .
In India non vengono maltrattati i cristiani, sono solo le bande terroristiche-separatiste del Myanmar che sfruttano il cristianesimo come falso pretesto per i loro crimini ad essere prese di mira dalle forze di sicurezza. Il piano americano di ricavare uno stato cristiano per procura fuori dalla regione attraverso i militanti estremisti Kuki fallirà e la Russia sosterrà pienamente l’India, anche attraverso l’ulteriore invio di armi e munizioni, mentre difende la sua integrità territoriale di fronte a questo tradimento da parte dei suoi nuovo partner strategico.
Il punto centrale del rebranding di quella che era stata inizialmente concettualizzata come “Linea di difesa del Baltico” è quello di commercializzare questo progetto come un progetto paneuropeo inclusivo che si suppone sia stato costruito per il “bene superiore” dei cittadini del blocco.
La Polonia e gli Stati baltici hanno appena richiesto finanziamenti all’UE per finanziare quella che ora chiamano la ” Linea di difesa dell’UE “, che in realtà è solo l’ultimo rebranding della “Linea di difesa del Baltico” di gennaio, che è stata poi ribattezzata “Scudo del Baltico” prima della sua ultima iterazione . È stato durante la seconda fase concettuale che il progetto si è unito alla Polonia e ha gettato le basi per un’iniziativa congiunta “Shield”. Ecco cinque briefing di base per quei lettori che non hanno seguito da vicino questo progetto:
Per riassumere, gli Stati Uniti prevedono che la Germania utilizzi lo “Schengen militare” per accelerare la costruzione della “ FortezzaEuropa ”, che consentirà alla Germania di contenere la Russia per volere degli Stati Uniti, mentre gli Stati Uniti “ritorneranno verso l’Asia” per contenere in modo più vigoroso la Cina. Le due analisi precedenti, collegate tramite collegamenti ipertestuali, elaborano il concetto di “Fortezza Europa” per coloro che desiderano saperne di più. Questo progetto è fondamentalmente incentrato sul ripristino della traiettoria di superpotenza tedesca perduta da tempo con il sostegno americano.
La sua rilevanza per la “Linea di Difesa dell’UE” è che il finanziamento (almeno parziale) del blocco guidato dalla Germania servirà probabilmente come pretesto per un coinvolgimento diretto della Germania nella sua costruzione, soprattutto se Lettonia ed Estonia aderiranno allo “Schengen militare” durante il prossimo futuro. Vertice della NATO come previsto da una delle analisi precedentemente citate. La richiesta della Polonia di assistenza alla polizia tedesca per proteggere il confine del blocco con la Bielorussia facilita anche la probabilità che Berlino svolga un ruolo di primo piano nella costruzione della “Linea di difesa dell’UE”.
Una delle altre analisi menzionate in precedenza era collegata alla nuova cortina di ferro che dovrebbe calare sull’UE dall’Artico all’Europa centrale, con i suoi confini più settentrionali che si riferiscono allo scenario in cui la Finlandia si unisce a quella che ora è stata ribattezzata “Linea di difesa dell’UE”. . In tal caso, una moderna linea Maginot verrebbe costruita lungo il confine UE/NATO-Russia, anche se questa volta con la Germania a prendere l’iniziativa nella sua costruzione (e con il pieno sostegno americano) al posto della Francia.
Il punto centrale del rebranding di quella che era stata inizialmente concettualizzata come “Linea di difesa del Baltico” è quello di commercializzare questo progetto come un progetto paneuropeo inclusivo che si suppone sia stato costruito per il “bene superiore” dei cittadini del blocco. Questa nozione ha lo scopo di giustificare il finanziamento dell’UE dal momento che la Polonia e gli Stati baltici non vogliono pagare da soli l’intero conto (né probabilmente possono permetterselo), rafforzando allo stesso tempo la falsa percezione di una cosiddetta “minaccia russa” progettata per radunare il popolo del blocco attorno a questa causa condivisa.
Considerando la sovrapposizione di interessi militari, politici e strategici in gioco, si dovrebbe quindi dare per scontato che la “linea di difesa dell’UE” verrà probabilmente costruita e funzionerà quindi come la nuova cortina di ferro. Simboleggerà la Nuova Guerra Fredda per la prossima generazione e garantirà che le tensioni NATO-Russia rimangano la “nuova normalità”. Nessuna normalizzazione tra questi due paesi sarà mai possibile dopo la costruzione di queste fortificazioni, ma è esattamente ciò che gli Stati Uniti vogliono per dividerli e governarli indefinitamente.
A Lavrov è stato chiesto direttamente di esprimere la sua opinione sull’osservazione secondo cui “l’India ora tende maggiormente verso gli Stati Uniti”, che il suo interlocutore ha provocatoriamente aggiunto che ora è anche un’opinione tra alcuni in Russia.
Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha condiviso alcuni approfondimenti dettagliati sulla geopolitica indiana durante le letture di Primakov di mercoledì , che è importante interpretare considerando il dibattito tra alcuni nella comunità Alt-Media (AMC) sul ruolo di quel paese nella transizione sistemica globale . Nell’ordine dei punti che ha sollevato su questo argomento, il massimo diplomatico russo ha iniziato descrivendo la troika Russia-India-Cina (RIC) del suo predecessore Yevgeny Primakov come l’antenata dei BRICS.
Ha poi espresso la fiducia che l’India farà ciò che è necessario per continuare a svilupparsi nel caso in cui venga mai sanzionata dagli Stati Uniti come lo è attualmente la Cina e non sia in grado di acquistare la tecnologia di quel paese. Lavrov ha poi parlato della partecipazione dell’India al Quad, facendo riferimento all’insistenza di quel paese sul fatto che i suoi interessi non hanno nulla a che fare con la cooperazione militare , ma avvertendo tuttavia che gli Stati Uniti sperano ancora di coinvolgere quel gruppo in tali piani contro la Cina.
Successivamente è stato chiesto direttamente a Lavrov di esprimere la sua opinione sull’osservazione secondo cui “l’India ora tende maggiormente verso gli Stati Uniti”, che il suo interlocutore ha provocatoriamente aggiunto che ora è anche un’opinione tra alcuni in Russia. Probabilmente si trattava di un riferimento alla fazione politica pro-BRI emersa lo scorso anno, che ritiene che la Russia dovrebbe accelerare la traiettoria della superpotenza cinese anche a costo di diventare il suo “partner junior” come vendetta contro gli Stati Uniti per tutto ciò che è accaduto dal 2022. .
Hanno una visione a somma zero delle relazioni internazionali poiché sono convinti che una forma di bi-multipolarità sino-americana sia inevitabile e di conseguenza sospettano che la politica di multiallineamento dell’India sia solo una scusa per mascherare la sua inclinazione verso gli Stati Uniti. I loro “rivali amichevoli” sono la fazione equilibratrice/pragmatica, che crede che sia ancora possibile ostetricare il complesso multipolarismo in collaborazione con l’India, che considerano un contrappeso per evitare preventivamente una dipendenza potenzialmente sproporzionata dalla Cina.
Questo contesto è fondamentale da tenere a mente poiché inquadra l’intuizione che Lavrov ha condiviso in risposta. Ha iniziato ricordando a tutti quanto siano antiche le loro relazioni strategiche e quanto siano diventate forti nei quasi ottant’anni trascorsi dall’indipendenza dell’India. Ha poi fatto riferimento ancora una volta al RIC, ma ha aggiunto che non è stato in grado di incontrarsi negli ultimi anni perché l’India ha richiesto prima la risoluzione della sua disputa sul confine con la Cina , cosa che Lavrov ha detto che “noi (Russia) capiamo”.
La cosa successiva che ha detto è stata che gli Stati Uniti non vogliono che il RIC si riunisca, suggerendo così che quei due dovrebbero risolvere rapidamente questa impasse per non promuovere inavvertitamente gli interessi americani del divide et impera. Su questo argomento, Lavrov si è basato sul suo precedente avvertimento sui piani degli Stati Uniti per affermare esplicitamente che “è anche chiaro che gli Stati Uniti stanno cercando di trascinare l’India nel progetto anti-Cina. Tutti capiscono di cosa stiamo parlando”, ma poi ha lodato l’India per aver sfidato le pressioni degli Stati Uniti per scaricare la Russia.
Un altro punto importante sottolineato da Lavrov è stato quello di attirare l’attenzione su come Cina e India siano in rapporti di complessa interdipendenza con il modello occidentale di globalizzazione formato dagli Stati Uniti, anche se ha subito chiarito che comprendono ancora la necessità di riformare questo sistema. Le sue osservazioni, riassunte nei due paragrafi precedenti, possono essere interpretate come un sincero riconoscimento di quanto sia grave la disputa sino-indocana e dell’impatto che può avere sulla multipolarità.
Ha pragmaticamente evitato di incolpare entrambe le parti, anche se la sua battuta su come “noi (Russia) comprendiamo” la posizione dell’India di non riprendere i colloqui RIC fino a quando la disputa sul confine con la Cina non sarà risolta suggerisce una educata riaffermazione della coerente politica di Mosca di sostenere sempre le pretese di Delhi su quelle di Pechino. Questa insinuazione è stata poi controbilanciata da avvertimenti sui secondi fini degli Stati Uniti in alcuni dei loro impegni con l’India, senza tuttavia implicare che l’India sarà mai ricettiva nei loro confronti.
Il commento finale di Lavrov su come i partner RIC del suo Paese si trovano in relazioni di complessa interdipendenza con il modello occidentale di globalizzazione aveva lo scopo di trasmettere che la Russia comprende il motivo per cui India e Cina sono ancora impegnate nel dialogo e nel commercio con gli Stati Uniti. Il segnale inviato è che i sostenitori del suo paese nell’AMC non dovrebbero speculare sconsideratamente che uno di questi due abbia motivi nefasti nel mantenere quelle relazioni come alcuni hanno fatto rispetto a quelli indo-americani.
India e Cina continueranno a mettere i loro interessi nazionali al primo posto poiché i loro leader li capiscono veramente quando trattano con gli Stati Uniti, e i legami di fiducia della Russia con ciascuno di loro significano che la sua stessa leadership non metterà in dubbio le loro intenzioni poiché sa che sono non diretti contro il loro paese. Anche così, la Russia preferirebbe che questi due risolvessero la loro disputa sui confini il prima possibile poiché teme che gli Stati Uniti la sfruttino per dividerli e governarli, il che potrebbe avere gravi implicazioni per l’Eurasia.
Questo non vuol dire che la Russia tema lo scenario in cui l’India diventi un burattino americano, ma solo che comprende la loro convergenza indipendente di interessi nei confronti della Cina, che oggi sta assumendo la forma di una tacita riapertura della “questione Tibet” come spiegato qui e qui . Ciò spiega perché si è iniziato a promuovere un nuovo sistema di sicurezza eurasiatico al fine di creare idealmente le condizioni affinché India e Cina possano risolvere in modo sostenibile i loro problemi e ridurre di conseguenza il rischio di un altro conflitto.
I lettori possono saperne di più su questi sforzi qui e qui , che vanno oltre lo scopo di questa analisi dettagliata, ma sono rilevanti se si ricorda che il Primo Ministro Modi è pronto a visitare Mosca il mese prossimo, quindi anche questo potrebbe finire all’ordine del giorno dei suoi colloqui. con il presidente Putin. Nel complesso, il risultato dell’intuizione di Lavrov sulla geopolitica indiana è che la Russia ha una comprensione matura e articolata della sua politica di multi-allineamento, e confida che l’India rimarrà sempre un partner affidabile.
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