Categoria: ZIBALDONE
Più realisti del re, di Giuseppe Germinario
Il 6 ottobre il Parlamento Europeo ha adottato una risoluzione sulla “Escalation della aggressione russa all’Ucraina” della quale si riporta il testo in calce.
Lascia allibiti per la forma e per il contenuto.
Di una protervia ed una sfrontatezza tipica delle mosche cocchiere; di una assise, parte di una istituzione ormai nella sua fase crepuscolare, comunque da sempre, ora più di prima, illuminata di luce riflessa.
Non ha valore risolutivo, vista la funzione poco più che decorativa di questa istituzione. A maggior ragione, però, i rappresentanti avrebbero potuto adottare maggiore accortezza nella forma e una postura più equilibrata nel merito.
Al contrario la solerzia più realista del re tipica di chi sa di non avere responsabilità dirette e di poter profluire buone intenzioni a buon mercato.
Nella forma il tono è di un bollettino di guerra propagandistico persino più rozzo e abborracciato dei comunicati e dei resoconti di regime ucraini.
Nel contenuto riporta in maniera stupidamente partigiana come atti di accusa verso la Russia le versioni offerte dai propagandisti ucraini con tutte le omissioni, i travisamenti e le contraffazioni alle quali ci hanno abituato nove mesi di propaganda bellica. Non un cenno ai documentati crimini dei quali amano bearsi pubblicamente gli stessi autori ucraini; nessuna considerazione del carattere civile di una guerra alimentata per anni dai disegni geopolitici anglosassoni e ai quali si prestano ottusamente in particolare le dirigenze dei paesi dell’Europa Orientale, almeno sino a quando si ritroveranno esse stesse vittime di questo gioco. Nessuna richiesta, conseguentemente, di accertamento imparziale dei fatti. Un déjà vu non per questo sufficiente ad essere esorcizzato. Nessuna minima riflessione sulle conseguenze in casa propria di una estensione draconiana di sanzioni e di una possibile, sempre più probabile, estensione del conflitto. Una pedissequa riproposizione, senza per altro averne potere e competenza, del continuo tentativo statunitense di imporre gli strumenti della propria giurisdizione nella regolazione delle relazioni tra paesi terzi. Una faciloneria ed una radicalità propria di figure che sembrano non rendersi conto delle implicazioni potenziali di tali suggerimenti, né del calderone sul quale sembrano serenamente adagiati e imbolsiti.
La risoluzione, per la sua unilateralità, rappresenta la rinuncia ad ogni ambizione di svolgere un qualsiasi ruolo autonomo; sarebbe troppo parlare di mediazione. È una delega in bianco alla attuale leadership statunitense e agli assatanati che siedono al governo in Ucraina. È l’evidenza di un ceto politico che ha ragione e possibilità di esistere solo all’ombra, sempre più ridotta, propria di un mezzogiorno di fuoco, americana. Con l’aggravante di rivelarsi dei “rappresentanti per caso” poco consapevoli di quello che stanno facendo e occupati per lo più nel loro sostanzioso “particulare”; uno strumento di una fazione ben precisa della leadership statunitense; una cordata, quest’ultima, che partendo dalla segreteria di stato arriva ai centri di comando della NATO.
Già visti all’opera ai danni della Presidenza Trump, ora vedono balenare come un incubo un suo possibile ritorno, ma ben più accorto e avveduto. La loro speranza è alzare sempre più il tiro, specie se a pagarne il prezzo principale saranno i propri più solerti alleati in terra europea.
È probabile che il Consiglio Europeo, reale sede decisionale del consesso europeo, sarà più cauto nella forma e nella sostanza della propria condotta. Il bersaglio però è lo stesso.
La stampa ci ha rappresentato a gran cassa nel tetto al prezzo del petrolio e del gas l’argomento focale dell’ultimo Consiglio Europeo.
Niente di più falso. La decisione cogente ha riguardato l’estensione delle sanzioni alla Russia e soprattutto a se stessi e la facoltà di agire arbitrariamente verso gli eventuali trasgressori.
Sempre più, quindi, parte in causa, ma con modalità e finalità decise da altri.
Dio ci scampi più che dai cattivi, dagli stolti. Sempre che qualche manina non sapesse già del precipitare della crisi di oggi ed avesse precorso i tempi.
Buona lettura.
Il Parlamento europeo,
– viste le sue precedenti risoluzioni sulla Russia e l’Ucraina, in particolare quelle del 16 dicembre 2021 sulla situazione al confine ucraino e nei territori dell’Ucraina occupati dalla Russia[1] e del 1º marzo 2022 sull’aggressione russa contro l’Ucraina[2],
– viste le dichiarazioni sull’Ucraina rilasciate dai leader del Parlamento europeo il 16 e il 24 febbraio 2022,
– vista la dichiarazione resa il 24 febbraio 2022 dall’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza a nome dell’UE sull’invasione dell’Ucraina da parte delle forze armate della Federazione russa,
– vista la dichiarazione resa il 24 febbraio 2022 dal Presidente del Consiglio europeo e dalla Presidente della Commissione sull’aggressione militare senza precedenti e non provocata della Russia contro l’Ucraina,
– vista la dichiarazione di Versailles dell’11 marzo 2022,
– viste le conclusioni del Consiglio europeo del 25 marzo 2022,
– vista la dichiarazione resa il 4 aprile 2022 dall’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza a nome dell’UE sulle atrocità russe commesse a Bucha e in altre città ucraine,
– viste le decisioni adottate dal Consiglio in merito alle sanzioni e alle misure restrittive nei confronti della Russia, che comprendono misure diplomatiche, misure restrittive individuali, quali il congelamento dei beni e le restrizioni di viaggio, restrizioni alle relazioni economiche con la Crimea, Sebastopoli e le zone non controllate dal governo di Donetsk e Luhansk, sanzioni economiche, restrizioni ai media e restrizioni alla cooperazione economica,
– visti i principi di Norimberga elaborati dalla Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite, che determinano ciò che costituisce un crimine di guerra,
– visto lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale (CPI),
– vista la Carta delle Nazioni Unite,
– visti le convenzioni di Ginevra e i relativi protocolli aggiuntivi,
– visti l’Atto finale di Helsinki e i successivi documenti,
– viste le risoluzioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 2 marzo 2022 sull’aggressione contro l’Ucraina e del 24 marzo 2022 sulle conseguenze umanitarie dell’aggressione contro l’Ucraina,
– vista la Convenzione delle Nazioni Unite per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio,
– vista la sentenza della Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite del 16 marzo 2022,
– visti la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, il memorandum di Budapest sulle garanzie di sicurezza e il Documento di Vienna e i relativi protocolli aggiuntivi,
– visto l’articolo 132, paragrafi 2 e 4, del suo regolamento,
- considerando che, in conformità della Carta delle Nazioni Unite e dei principi del diritto internazionale, tutti gli Stati godono di pari sovranità e devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato; che la Federazione russa conduce dal 24 febbraio 2022 una guerra di aggressione illegale, non provocata e ingiustificata nei confronti dell’Ucraina e che il 16 marzo 2022 la Corte internazionale di giustizia ha ordinato alla Federazione russa di “sospendere immediatamente le sue operazioni militari nel territorio dell’Ucraina”;
- considerando che dal 24 febbraio 2022 migliaia di civili ucraini hanno perso la vita o sono rimasti feriti durante l’aggressione e l’invasione russe, mentre quasi 6,5 milioni di cittadini ucraini sono stati sfollati all’interno del paese e oltre 4 milioni sono fuggiti nei paesi vicini, a cui si aggiungono le oltre 14 000 persone, sia militari che civili, che hanno perso la vita negli ultimi otto anni a causa dell’occupazione della Crimea da parte della Federazione russa e del conflitto da essa generato nell’Ucraina orientale;
- considerando che, a un mese dall’inizio dell’aggressione russa, la guerra in Ucraina continua a mietere vittime innocenti; che le atrocità commesse dalle truppe russe hanno raggiunto un nuovo livello di efferatezza, come dimostra la scoperta, avvenuta domenica 3 aprile 2022, dei corpi di donne e uomini civili abbandonati nelle strade di Bucha, una città rimasta inaccessibile all’esercito ucraino per almeno un mese; che tali fatti giustificano chiaramente l’istituzione di una commissione internazionale incaricata di indagare su tutti i crimini commessi dall’esercito russo dall’inizio della guerra;
- considerando che l’esercito russo prosegue i bombardamenti indiscriminati e gli attacchi aerei contro zone residenziali e infrastrutture civili, come ospedali, scuole e asili, il che ha causato la distruzione totale o quasi totale di Mariupol, Volnovakha e di altre città e paesi;
- considerando che l’Ucraina ha finora mostrato livelli senza precedenti di resistenza e resilienza, impedendo alla Russia di raggiungere il suo obiettivo bellico iniziale, ossia l’occupazione dell’intero paese;
- considerando che il 5 aprile 2022 la Commissione ha proposto e annunciato nuove sanzioni e sta lavorando a ulteriori pacchetti di sanzioni; che le prime sanzioni dell’UE nei confronti della Federazione russa sono state applicate nel marzo 2014 a seguito dell’annessione illegale della Crimea, avvenuta nel 2014, e che il più recente pacchetto è stato adottato il 15 marzo 2022 a seguito dell’invasione non provocata e ingiustificata dell’Ucraina da parte della Russia, iniziata il 24 febbraio 2022; che l’UE ha altresì adottato sanzioni nei confronti della Bielorussia in risposta al suo coinvolgimento nell’aggressione e nell’invasione russe;
- considerando che le sanzioni stanno avendo effetto, ma che gli acquisti da parte dell’UE di combustibili fossili dalla Russia continuano a fornire al regime mezzi che contribuiscono a finanziare la guerra;
- considerando che l’UE versa fino a 800 milioni di EUR al giorno alla Russia per la fornitura di combustibili fossili, il che ammonta a quasi 300 miliardi di EUR all’anno;
- considerando che studi accademici[3]dimostrano che il divieto delle importazioni di combustibili fossili dalla Russia avrebbe un impatto sulla crescita economica dell’UE che corrisponderebbe a perdite stimate a meno del 3 % del PIL, mentre le potenziali perdite per l’economia russa nello stesso periodo ammonterebbero al 30 % del PIL e sarebbero determinanti per fermare l’aggressione russa;
- considerando che la Presidente Metsola si è rivolta alla Verkhovna Rada il 1º aprile 2022 e ha incontrato il presidente e il primo ministro dell’Ucraina e i leader delle fazioni politiche a nome del Parlamento europeo;
- condanna con la massima fermezza la guerra di aggressione della Federazione russa contro l’Ucraina, nonché il coinvolgimento della Bielorussia in tale guerra, e chiede che la Russia cessi immediatamente tutte le attività militari in Ucraina e ritiri incondizionatamente tutte le forze e attrezzature militari dall’intero territorio dell’Ucraina riconosciuto a livello internazionale; si unisce al dolore del popolo ucraino per le perdite e le sofferenze strazianti subite;
- sottolinea che l’aggressione militare e l’invasione costituiscono una grave violazione del diritto internazionale, in particolare della Convenzione di Ginevra e dei relativi protocolli aggiuntivi e della Carta delle Nazioni Unite, e invita la Federazione russa a tornare ad adempiere alle sue responsabilità, in quanto membro permanente del Consiglio di sicurezza dell’ONU, di mantenimento della pace e della sicurezza nonché a rispettare gli impegni assunti nel quadro dell’Atto finale di Helsinki, della Carta di Parigi per una nuova Europa e del memorandum di Budapest sulle garanzie di sicurezza; ritiene che l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia costituisca un attacco non solo contro un paese sovrano ma anche contro i principi e il meccanismo di cooperazione e di sicurezza in Europa e contro l’ordine internazionale fondato su regole, quale definito dalla Carta delle Nazioni Unite;
- esprime la più grande rabbia e indignazione e indignazione per le atrocità segnalate, tra cui lo stupro e l’esecuzione di civili, gli sfollamenti forzati, i saccheggi e gli attacchi contro infrastrutture civili, come ospedali, strutture mediche, scuole, rifugi e ambulanze, e le sparatorie contro i civili in fuga dalle zone di conflitto attraverso corridoi umanitari prestabiliti, secondo l’impegno assunto dalle forze armate russe in una serie di città ucraine occupate, come Bucha; insiste sul fatto che gli autori dei crimini di guerra e di altre gravi violazioni dei diritti, nonché i funzionari governativi e i leader militari responsabili, devono essere chiamati a risponderne; sostiene pienamente l’indagine avviata dal procuratore della Corte penale internazionale sui crimini di guerra e i crimini contro l’umanità, nonché il lavoro della commissione d’inchiesta dell’Ufficio dell’Alto Commissario per i diritti umani; invita le istituzioni dell’UE ad adottare tutte le misure necessarie presso le istituzioni e le istanze internazionali, così come presso la Corte penale internazionale o altri tribunali ovvero organi giurisdizionali internazionali appropriati, per perseguire le azioni di Vladimir Putin e Aliaksandr Lukashenko quali crimini di guerra e crimini contro l’umanità, e a partecipare attivamente alle relative indagini; chiede l’istituzione di un tribunale speciale delle Nazioni Unite per i crimini in Ucraina; ritiene che sarebbe opportuno avvalersi del meccanismo internazionale, imparziale e indipendente per fornire assistenza in tutte le indagini internazionali sui crimini di guerra commessi in Ucraina; invita gli Stati membri e l’UE a rafforzare la loro capacità di combattere efficacemente l’impunità di coloro che hanno commesso o partecipato a crimini di guerra;
- ribadisce la necessità di mantenere e rafforzare la fornitura di armi per consentire all’Ucraina di difendersi efficacemente; ribadisce il proprio sostegno a tutti gli aiuti di tipo difensivo alle forze armate ucraine offerti individualmente dagli Stati membri e collettivamente attraverso lo strumento europeo per la pace; accoglie con favore la decisione di aumentare di altri 500 milioni di EURl’assistenza all’Ucraina attraverso lo strumento europeo per la pace e chiede di aumentare ulteriormente i contributi concreti per rafforzare urgentemente le capacità di difesa dell’Ucraina, sia a livello bilaterale che nell’ambito dello strumento europeo per la pace;
- sollecita la creazione di corridoi umanitari sicuri per evacuare i civili in fuga dai bombardamenti e il potenziamento delle reti di aiuti umanitari dell’UE in Ucraina (compresi carburante, cibo, medicinali, fornitura di acqua potabile, generatori di energia e campus mobili); suggerisce alla Commissione di introdurre regimi di aiuti inter pares per l’Ucraina al fine di aumentare l’efficacia dell’assistenza;
- sottolinea che la risposta e l’impegno politico dell’UE devono essere in grado di far fronte all’ostilità ed essere commisurati allo sforzo compiuto dai nostri partner ucraini, che condividono gli stessi principi e che lottano e si sacrificano per i valori e i principi europei, la cui portata si estende oltre l’UE nella sua attuale composizione;
- esprime la propria unanime solidarietà al popolo ucraino e alle sue forti aspirazioni a trasformare il proprio paese in uno Stato europeo democratico e prospero; riconosce la volontà dell’Ucraina di partecipare al progetto europeo, come espresso nella sua domanda di adesione all’UE presentata il 28 febbraio 2022; reitera la sua richiesta alle istituzioni dell’Unione di adoperarsi per concedere all’Ucraina lo status di paese candidato all’adesione all’UE, come chiaro segnale politico del loro impegno, a norma dell’articolo 49 del trattato sull’Unione europea e sulla base del merito e, nel frattempo, a continuare ad adoperarsi per la sua integrazione nel mercato unico dell’Unione conformemente all’accordo di associazione; accoglie con favore la dichiarazione di Versailles del Consiglio europeo, in cui si afferma che l’Ucraina è un membro della nostra famiglia europea;
- condanna fermamente la retorica russa che evoca un possibile ricorso all’uso di armi di distruzione di massa da parte della Federazione russa e sottolinea che tale spiegamento sarebbe inaccettabile e darà luogo a gravissime conseguenze; condanna inoltre la presa di possesso da parte delle forze russe di impianti e siti nucleari attivi o disattivati nel territorio dell’Ucraina, sottolineando che la corretta gestione di tali impianti è una questione sanitaria di importanza cruciale per l’intera regione; sottolinea il ruolo essenziale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) nel garantire la sicurezza degli impianti nucleari in Ucraina; sostiene la richiesta delle autorità ucraine al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di adottare immediatamente misure per smilitarizzare la zona di esclusione della centrale nucleare di Chernobyl e di consentire all’AIEA di assumere immediatamente il pieno controllo del sito della centrale nucleare;
- valuta positivamente la rapida adozione di sanzioni da parte del Consiglio e plaude all’unità delle istituzioni dell’UE e degli Stati membri in risposta all’aggressione della Russia contro l’Ucraina, nonché all’elevato livello di coordinamento tra i paesi del G7; invita tutti i partner, in particolare i paesi candidati all’adesione all’UE e i potenziali paesi candidati, ad allinearsi ai pacchetti di sanzioni; accoglie con favore la recente istituzione della task force “Russian Elites, Proxies, and Oligarchs” (élite, mandatari e oligarchi russi), volta a coordinare i lavori dell’UE, del G7 e dell’Australia in merito alle sanzioni nei confronti degli oligarchi russi e bielorussi; invita il Servizio europeo per l’azione esterna e la Commissione a intensificare le loro attività di sensibilizzazione nei confronti dei paesi che non hanno ancora aderito all’UE affinché adottino sanzioni contro la Federazione russa, utilizzando a tal fine l’influenza dell’UE e l’intera gamma di strumenti disponibili a tal fine, nonché fornendo assistenza se necessario; deplora che taluni paesi candidati all’adesione all’Unione europea non si siano allineati alle sanzioni dell’UE; chiede l’elaborazione di un chiaro piano d’azione nei confronti dei paesi terzi che agevolano l’evasione delle sanzioni da parte della Federazione russa; esorta il Consiglio ad adottare ulteriori severe sanzioni che riflettano la continua escalation dell’aggressione russa e le sconcertanti atrocità commesse dalle forze militari russe che innegabilmente si configurano come crimini di guerra;
- invita i leader dell’UE e i leader di altri Stati a escludere la Russia dal G20 e da altre organizzazioni multilaterali di cooperazione, quali il Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti umani, Interpol, l’Organizzazione mondiale del commercio, l’UNESCO e altri, il che costituirebbe un segnale importante del fatto che la comunità internazionale non tornerà a lavorare come di consueto con lo Stato aggressore;
- sottolinea che la piena ed efficace attuazione delle sanzioni esistenti in tutta l’UE e da parte degli alleati internazionali dell’UE deve costituire adesso una priorità; chiede che gli Stati membri individuino e, ove necessario, creino rapidamente una base giuridica per garantire senza indugio il pieno ed effettivo rispetto delle sanzioni all’interno delle giurisdizioni nazionali; invita la Commissione e le autorità di vigilanza dell’UE a monitorare attentamente l’attuazione efficace e completa di tutte le sanzioni dell’UE da parte degli Stati membri e a far fronte alle eventuali pratiche di elusione;
- esorta gli Stati membri a garantire che le penali nazionali in caso di violazione delle sanzioni dell’UE siano efficaci, proporzionate e dissuasive; accoglie con favore l’annuncio di un archivio di informazioni sulle sanzioni e di una tabella di marcia (compresi criteri e un calendario) per passare dall’individuazione di un’inosservanza sistematica delle sanzioni dell’UE alle procedure di infrazione dinanzi alla Corte di giustizia dell’Unione europea;
- invita il Consiglio a imporre ulteriori sanzioni nei confronti di personalità pubbliche che stanno diffondendo propaganda aggressiva in Russia a sostegno dell’aggressione russa contro l’Ucraina;
- chiede di aumentare l’efficacia delle sanzioni esistenti, tra l’altro escludendo, in coordinamento con i partner internazionali dell’UE che condividono gli stessi principi, tutte le banche della Federazione russa dal sistema SWIFT e vietando l’ingresso nelle acque territoriali dell’UE e l’attracco nei porti dell’UE di qualsiasi nave battente bandiera russa, registrata, posseduta, noleggiata, gestita dalla Russia, di qualsiasi nave proveniente da, o diretta verso, un porto russo, o di qualsiasi nave altrimenti collegata alla Russia, compresa la Sovcomflot; chiede il divieto di trasporto merci su strada da e verso il territorio della Russia e della Bielorussia e suggerisce di estendere il divieto di esportazione alle consegne oggetto di contratti stipulati prima dell’entrata in vigore delle sanzioni, ma che non sono ancora state completamente eseguite; chiede l’introduzione di sanzioni secondarie nei confronti di tutte le entità registrate nell’UE e nei paesi terzi che stanno aiutando i regimi russo e bielorusso ad aggirare le sanzioni;
- chiede un embargo totale e immediato sulle importazioni russe di petrolio, carbone e combustibile nucleare e uno per il gas il prima possibile, e sollecita ad abbandonare completamente i progetti Nordstream 1 e 2 e a presentare un piano volto a continuare ad assicurare la sicurezza dell’approvvigionamento energetico dell’UE nel breve termine; invita la Commissione, il Servizio europeo per l’azione esterna e gli Stati membri a definire un piano d’azione globale per l’UE riguardo a ulteriori sanzioni e a comunicare con chiarezza i punti fermi e le tappe dettagliate da seguire per revocare le sanzioni nel caso in cui la Russia adotti provvedimenti intesi a ripristinare l’indipendenza, la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina entro i suoi confini riconosciuti a livello internazionale e ritiri completamente le proprie truppe dal territorio ucraino;
- sottolinea ancora una volta l’importanza della diversificazione delle risorse, delle tecnologie e delle vie di approvvigionamento in campo energetico, in aggiunta a maggiori investimenti nell’efficienza energetica, nelle energie rinnovabili, nelle soluzioni di stoccaggio del gas e dell’elettricità e agli investimenti sostenibili a lungo termine in linea con il Green Deal europeo; pone l’accento sull’importanza di garantire l’approvvigionamento energetico dai partner commerciali dell’UE attraverso gli accordi di libero scambio esistenti e futuri, al fine di ridurre ulteriormente la dipendenza dell’UE dalla Russia, in particolare per quanto riguarda le materie prime; chiede inoltre la creazione di riserve energetiche strategiche comuni e di meccanismi di acquisto di energia a livello dell’UE nell’ottica di rafforzare la sicurezza energetica, riducendo nel contempo la dipendenza energetica esterna e la volatilità dei prezzi; chiede che si inizi a lavorare alla creazione di un’unione del gas, basata sull’acquisto congiunto di gas da parte degli Stati membri;
- esorta gli Stati membri a porre fine alla collaborazione con le imprese russe sui progetti nucleari nuovi ed esistenti, anche in Finlandia, Ungheria e Bulgaria, in cui gli esperti russi possono essere sostituiti da quelli occidentali, e ad abbandonare gradualmente il ricorso ai servizi della Rosatom; chiede di porre fine alla cooperazione scientifica con le imprese energetiche russe, come la Rosatom, e con altre pertinenti entità scientifiche russe; chiede che le sanzioni nei confronti della Bielorussia rispecchino quelle imposte alla Russia al fine di colmare eventuali lacune che consentano a Putin di utilizzare gli aiuti di Lukashenko per eludere le sanzioni;
- incoraggia le organizzazioni internazionali dell’energia a riconsiderare il ruolo della Russia nelle loro attività, compresa la potenziale sospensione dei progetti di cooperazione tra la Russia e l’AIEA, nonché la sospensione della partecipazione russa a progetti multilaterali;
- sottolinea che occorre sequestrare tutti i beni appartenenti ai funzionari russi o agli oligarchi associati al regime di Putin, ai loro rappresentanti e prestanome, nonché alle figure legate al regime di Lukashenko in Bielorussia, e che occorre revocare i visti dell’UE nell’ambito di un divieto totale e immediato dei programmi che offrono passaporti, visti e permessi di soggiorno agli investitori; sottolinea che le sanzioni dovrebbero colpire un più ampio gruppo di funzionari, governatori, sindaci e membri russi dell’élite economica che osservano l’attuale politica del regime di Putin e ne traggono vantaggi;
- chiede di avviare i lavori su un fondo simile al piano Marshall (il fondo fiduciario di solidarietà per l’Ucraina) per ricostruire l’Ucraina dopo la guerra, avviare un massiccio programma di investimenti e sprigionare il potenziale di crescita del paese; ritiene che il fondo dovrebbe essere generoso e finanziato, tra l’altro, dall’UE, dai suoi Stati membri, dai contributi dei donatori e dal risarcimento dei danni di guerra da parte della Russia, anche attraverso i beni russi che sono stati precedentemente congelati in conseguenza delle sanzioni e che dovrebbero essere legalmente confiscati conformemente al diritto internazionale;
- chiede un meccanismo di solidarietà dell’UE per far fronte alle conseguenze economiche e sociali della guerra della Russia contro l’Ucraina e delle sanzioni imposte;
- sottolinea l’importanza di garantire quanto prima la ripresa del corretto funzionamento del settore agricolo ucraino, compiendo tutti gli sforzi possibili per salvaguardare la prossima stagione di semina e produzione e assicurando corridoi sicuri per trasporti, carburante e alimenti da e verso il paese; chiede l’apertura di corridoi verdi onde portare in Ucraina tutto il necessario per mantenere la produzione agricola (ad esempio pesticidi e fertilizzanti) e per far uscire dall’Ucraina tutti i prodotti agricoli che possono ancora essere esportati;
- esprime il suo massimo sostegno alla decisione del procuratore della CPI di avviare un’indagine sui presunti crimini di guerra e crimini contro l’umanità commessi in Ucraina, e sottolinea l’importanza di agire e progredire con rapidità al fine di ottenere le prove necessarie; chiede pertanto un sostegno finanziario e pratico per l’importante lavoro della CPI, ad esempio consentendo alla Missione consultiva dell’UE in Ucraina di coadiuvare la documentazione delle prove;
- chiede che l’UE e i suoi Stati membri istituiscano un meccanismo globale di sanzioni anticorruzione e adottino rapidamente sanzioni mirate nei confronti dei responsabili della corruzione ad alto livello in Russia e Bielorussia;
- ribadisce che la disinformazione russa fa parte dello sforzo bellico della Russia in Ucraina e che le sanzioni dell’UE nei confronti di emittenti di Stato russe possono essere facilmente eluse tramite reti private virtuali, televisione satellitare e funzioni Smart TV; invita la Commissione e gli Stati membri ad applicare pienamente il divieto imposto ai canali di propaganda di proprietà dello Stato russo;
- chiede di estendere gli obblighi di informativa delle istituzioni finanziarie europee al fine di informare le autorità competenti in merito a tutti i beni detenuti da determinati cittadini russi e bielorussi, e non solo ai loro depositi; ricorda che i cittadini dell’UE possono utilizzare lo strumento di informazione della Commissione per denunciare in modo anonimo le violazioni di sanzioni passate, attuali e previste nei confronti di persone ed entità russe e bielorusse; ritiene che l’ambito di applicazione degli elenchi di sanzioni individuali debba essere esteso a chi ha tratto o trae vantaggio da stretti legami con i governi russo e bielorusso; invita la Commissione a sfruttare appieno il quadro antiriciclaggio e a includere la Russia e la Bielorussia nell’elenco delle giurisdizioni ad alto rischio di cui all’articolo 9 della quarta direttiva antiriciclaggio[4]; invita la Commissione a proporre la creazione di un organismo dedicato per monitorare l’applicazione delle sanzioni finanziarie e di altre misure restrittive dell’UE; invita la Commissione a mappare e pubblicare i beni congelati e sequestrati da ciascuno Stato membro; accoglie con favore gli sforzi della società civile e dei giornalisti investigativi volti a rendere noti i beni di proprietà degli oligarchi russi;
- accoglie con favore le decisioni di alcune organizzazioni internazionali, in particolare nel settore della cultura e dello sport, di sospendere la partecipazione della Russia; invita gli Stati membri a ridurre il livello di rappresentanza della Federazione russa e a diminuire il numero di membri del corpo diplomatico e consolare russo nell’UE, in particolare laddove le loro azioni riguardino questioni di spionaggio, di disinformazione o militari; chiede un coordinamento continuo con gli alleati transatlantici e i partner che condividono gli stessi principi, come quelli della NATO, del G7 e dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economici, nonché con i membri dell’Associazione europea di libero scambio, gli Stati associati e i paesi candidati; sottolinea che l’UE dovrebbe reagire con decisione laddove presunti partner non sostengano le sue posizioni;
- incarica la sua Presidente di trasmettere la presente risoluzione al vicepresidente della Commissione/alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, al Consiglio, alla Commissione, ai governi e ai parlamenti degli Stati membri, alle Nazioni Unite, alla NATO, al G7, al Consiglio d’Europa, all’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, al Presidente, al governo e al parlamento dell’Ucraina, al Presidente, al governo e al parlamento della Federazione russa, nonché al Presidente, al governo e al parlamento della Bielorussia.
- [1] Testi approvati, P9_TA(2021)0515.
- [2] GU C 125 del 18.3.2022, pag. 2.
- [3] Tra questi Bachmann et al., Banca centrale europea, Deutsche Bank Research, Oxford Economics, Goldman Sachs, ecc. come riassunto dal Sachverständigenrat zur Begutachtung der gesamtwirtschaftlichen Entwicklung (Consiglio tedesco degli esperti economici) nella sua relazione del marzo 2022 dal titolo “Auswirkungen eines möglichen Wegfalls russischer Rohstofflieferungen auf Energiesicherheit und Wirtschaftsleistung: Auszug aus der aktualisierten Konjunkturprognose 2022 und 2023” (Impatto di una possibile perdita di forniture di materie prime russe sulla sicurezza energetica e sulla performance economica: estratto delle prospettive economiche aggiornate 2022 e 2023).
Il caso del bilanciamento offshore, di John J. Mearsheimer e Stephen M. Walt
Un dilemma già ben presente nel 2016, come ben evidenziato da questo saggio coevo di Walt e Mearsheimer, ma che oggi sta assumendo toni sempre più drammatici nello scontro politico in corso negli USA. Con un aggravante ulteriore: non più un dilemma, ma un trilemma, come cercheremo di chiarire nella prossima intervista di Gianfranco Campa. Giuseppe Germinario
Per la prima volta nella memoria recente, un gran numero di americani mettono apertamente in discussione la grande strategia del loro paese. Un sondaggio Pew dell’aprile 2016 ha rilevato che il 57% degli americani concorda sul fatto che gli Stati Uniti dovrebbero “affrontare i propri problemi e lasciare che gli altri affrontino i loro nel miglior modo possibile”. Durante la campagna elettorale, sia il democratico Bernie Sanders che il repubblicano Donald Trump hanno trovato un pubblico ricettivo ogni volta che hanno messo in dubbio la propensione degli Stati Uniti a promuovere la democrazia, sovvenzionare la difesa degli alleati e intervenire militarmente, lasciando solo la probabile candidata democratica Hillary Clinton a difendere il status quo.
Il disgusto degli americani per la grande strategia prevalente non dovrebbe sorprendere, dato il suo pessimo record nell’ultimo quarto di secolo. In Asia, India, Pakistan e Corea del Nord stanno ampliando i loro arsenali nucleari e la Cina sta sfidando lo status quo nelle acque regionali. In Europa, la Russia ha annesso la Crimeae le relazioni degli Stati Uniti con Mosca sono scese a nuovi minimi dalla Guerra Fredda. Le forze americane stanno ancora combattendo in Afghanistan e in Iraq, senza alcuna vittoria in vista. Nonostante abbia perso la maggior parte dei suoi leader originari, al Qaeda ha metastatizzato in tutta la regione. Il mondo arabo è caduto in subbuglio, in buona parte a causa delle decisioni degli Stati Uniti di effettuare un cambio di regime in Iraq e Libia e dei loro modesti sforzi per fare lo stesso in Siria, e lo Stato Islamico, o ISIS, è emerso dal caos. I ripetuti tentativi degli Stati Uniti di mediare la pace israelo-palestinese sono falliti, lasciando una soluzione a due stati più lontana che mai. Nel frattempo, la democrazia è in ritirata in tutto il mondo e l’uso da parte degli Stati Uniti della tortura, delle uccisioni mirate e di altre pratiche moralmente dubbie ha offuscato la sua immagine di difensore dei diritti umani e del diritto internazionale.
Gli Stati Uniti non si assumono la responsabilità esclusiva di tutte queste costose debacle, ma hanno avuto un ruolo nella maggior parte di esse. Le battute d’arresto sono la naturale conseguenza della grande strategia fuorviante dell’egemonia liberale che Democratici e Repubblicani perseguono da anni. Questo approccio sostiene che gli Stati Uniti devono usare il loro potere non solo per risolvere i problemi globali, ma anche per promuovere un ordine mondiale basato su istituzioni internazionali, governi rappresentativi, mercati aperti e rispetto dei diritti umani. In quanto “nazione indispensabile”, è logica, gli Stati Uniti hanno il diritto, la responsabilità e la saggezza di gestire la politica locale quasi ovunque. Al centro, l’egemonia liberale è una grande strategia revisionista: invece di invitare gli Stati Uniti a sostenere semplicemente l’equilibrio di potere nelle regioni chiave, impegna la forza americana a promuovere la democrazia ovunque ea difendere i diritti umani ogni volta che sono minacciati.
Abbracciando la forza degli Stati Uniti, una strategia di bilanciamento offshore conserverebbe il primato degli Stati Uniti nel futuro.
C’è un modo migliore. Perseguendo una strategia di “bilanciamento offshore”, Washington rinuncerebbe a sforzi ambiziosi per ricostruire altre società e si concentrerebbe su ciò che conta davvero: preservare il dominio degli Stati Uniti nell’emisfero occidentale e contrastare potenziali egemoni in Europa, nord-est asiatico e Golfo Persico. Invece di controllare il mondo, gli Stati Uniti incoraggerebbero altri paesi a prendere l’iniziativa nel controllare le potenze emergenti, intervenendo solo quando necessario. Questo non significa abbandonare la posizione degli Stati Uniti come unica superpotenza mondiale o ritirarsi nella “Fortezza America”. Piuttosto, sfruttando la forza degli Stati Uniti, il bilanciamento offshore conserverebbe il primato degli Stati Uniti nel futuro e salvaguarderebbe la libertà in patria.
FARE GLI OBIETTIVI GIUSTI
Gli Stati Uniti sono la grande potenza più fortunata della storia moderna. Altri stati leader hanno dovuto convivere con avversari minacciosi nei loro stessi cortili – persino il Regno Unito ha affrontato in diverse occasioni la prospettiva di un’invasione dall’altra parte della Manica – ma per più di due secoli gli Stati Uniti non lo hanno fatto. Né le potenze lontane rappresentano una grande minaccia, perché due oceani giganti sono sulla strada. Come disse una volta Jean-Jules Jusserand, ambasciatore francese negli Stati Uniti dal 1902 al 1924: “A nord ha un vicino debole; a sud, un altro debole vicino; a oriente i pesci e a occidente i pesci». Inoltre, gli Stati Uniti vantano un’abbondanza di terra e risorse naturali e una popolazione numerosa ed energica, che gli hanno permesso di sviluppare l’economia più grande del mondo e le forze armate più capaci.
Queste benedizioni geopolitiche danno agli Stati Uniti un’enorme libertà di errore; in effetti, solo un paese sicuro come avrebbe l’audacia di provare a rifare il mondo a propria immagine. Ma gli consentono anche di rimanere potente e sicuro senza perseguire una grande strategia costosa ed espansiva. Il bilanciamento offshore farebbe proprio questo. La sua preoccupazione principale sarebbe mantenere gli Stati Uniti il più potenti possibile, idealmente lo stato dominante sul pianeta. Ciò significa soprattutto mantenere l’egemonia nell’emisfero occidentale.
A differenza degli isolazionisti, tuttavia, i bilanciatori offshore credono che ci siano regioni al di fuori dell’emisfero occidentale per le quali vale la pena spendere sangue e tesori americani per difenderle. Oggi, altre tre aree sono importanti per gli Stati Uniti: Europa, Asia nord-orientale e Golfo Persico. I primi due sono centri chiave del potere industriale e sede di altre grandi potenze mondiali, e il terzo produce circa il 30 per cento del petrolio mondiale .
In Europa e nel nord-est asiatico, la preoccupazione principale è l’ascesa di un egemone regionale che dominerebbe la sua regione, proprio come gli Stati Uniti dominano l’emisfero occidentale. Un tale stato avrebbe un’enorme influenza economica, la capacità di sviluppare armi sofisticate, il potenziale per proiettare potere in tutto il mondo e forse anche i mezzi per superare gli Stati Uniti in una corsa agli armamenti. Un tale stato potrebbe anche allearsi con i paesi dell’emisfero occidentale e interferire vicino al suolo statunitense. Pertanto, l’obiettivo principale degli Stati Uniti in Europa e nel nord-est asiatico dovrebbe essere quello di mantenere l’equilibrio di potere regionale in modo che lo stato più potente di ciascuna regione – per ora rispettivamente Russia e Cina – rimanga troppo preoccupato per i suoi vicini per vagare l’emisfero occidentale. Nel Golfo, intanto,
Il bilanciamento offshore è una grande strategia realistica e i suoi obiettivi sono limitati. La promozione della pace, sebbene auspicabile, non è tra questi. Questo non vuol dire che Washington dovrebbe accogliere con favore il conflitto in qualsiasi parte del mondo, o che non può usare mezzi diplomatici o economici per scoraggiare la guerra. Ma non dovrebbe impegnare le forze militari statunitensi solo per questo scopo. Né è un obiettivo di bilanciamento offshore fermare i genocidi, come quello che colpì il Ruanda nel 1994. L’adozione di questa strategia non precluderebbe tali operazioni, tuttavia, a condizione che la necessità sia chiara, la missione sia fattibile e i leader statunitensi sono fiduciosi che l’intervento non peggiorerà le cose.
COME FUNZIONA?
Sotto il bilanciamento offshore, gli Stati Uniti calibrano la loro posizione militare in base alla distribuzione del potere nelle tre regioni chiave. Se non c’è un potenziale egemone in vista in Europa, nel nord-est asiatico o nel Golfo, allora non c’è motivo di schierare forze di terra o aeree lì e non c’è bisogno di un grande insediamento militare in patria. E poiché ci vogliono molti anni prima che un paese acquisisca la capacità di dominare la propria regione, Washington lo vedrebbe arrivare e avrebbe il tempo di rispondere.
In tal caso, gli Stati Uniti dovrebbero rivolgersi alle forze regionali come prima linea di difesa, consentendo loro di mantenere l’equilibrio di potere nel proprio vicinato. Sebbene Washington possa fornire assistenza agli alleati e impegnarsi a sostenerli se corressero il pericolo di essere conquistati, dovrebbe astenersi dal dispiegare un gran numero di forze statunitensi all’estero. Occasionalmente può avere senso mantenere alcune risorse all’estero, come piccoli contingenti militari, strutture per la raccolta di informazioni o attrezzature preposizionate, ma in generale Washington dovrebbe passare la responsabilità alle potenze regionali, poiché hanno un interesse molto maggiore nell’impedire qualsiasi stato dal dominarli.
Se quelle potenze non possono contenere da sole un potenziale egemone, tuttavia, gli Stati Uniti devono aiutare a portare a termine il lavoro, schierando abbastanza potenza di fuoco nella regione per spostare l’equilibrio a suo favore. A volte, ciò può significare inviare forze prima che scoppi la guerra. Durante la Guerra Fredda, ad esempio, gli Stati Uniti hanno tenuto un gran numero di forze di terra e aeree in Europa per evitare che i paesi dell’Europa occidentale non potessero contenere l’Unione Sovietica da soli. Altre volte, gli Stati Uniti potrebbero aspettare di intervenire dopo l’inizio di una guerra, se una parte sembra destinata a emergere come egemone regionale. Tale è stato il caso durante entrambe le guerre mondiali: gli Stati Uniti sono entrati solo dopo che la Germania sembrava destinata a dominare l’Europa.
In sostanza, l’obiettivo è rimanere offshore il più a lungo possibile, pur riconoscendo che a volte è necessario venire a terra. Se ciò accade, tuttavia, gli Stati Uniti dovrebbero fare in modo che i loro alleati facciano il più possibile il lavoro pesante e rimuovere le proprie forze il prima possibile.
Il bilanciamento offshore ha molte virtù. Limitando le aree in cui le forze armate statunitensi si impegnavano a difendere e costringere altri stati a esercitare il proprio peso, ciò ridurrebbe le risorse che Washington deve dedicare alla difesa, consentirebbe maggiori investimenti e consumi in patria e metterebbe in pericolo meno vite americane. Oggi, gli alleati si liberano regolarmente della protezione americana, un problema che è cresciuto solo dalla fine della Guerra Fredda. All’interno della NATO, ad esempio, gli Stati Uniti rappresentano il 46% del PIL aggregato dell’alleanza, ma contribuiscono per circa il 75% alla sua spesa militare. Come ha scherzato il politologo Barry Posen, “Questo è benessere per i ricchi”.
Il bilanciamento offshore ridurrebbe anche il rischio di terrorismo. L’egemonia liberale impegna gli Stati Uniti a diffondere la democrazia in luoghi sconosciuti, il che a volte richiede l’occupazione militare e comporta sempre l’interferenza con gli assetti politici locali. Tali sforzi alimentano invariabilmente il risentimento nazionalista e, poiché gli oppositori sono troppo deboli per affrontare direttamente gli Stati Uniti, a volte si rivolgono al terrorismo. (Vale la pena ricordare che Osama bin Laden è stato motivato in buona parte dalla presenza delle truppe statunitensi nella sua terra d’origine, l’Arabia Saudita.) Oltre a ispirare i terroristi, l’egemonia liberale facilita le loro operazioni: usare il cambio di regime per diffondere i valori americani mina le istituzioni locali e crea spazi non governati dove possono fiorire estremisti violenti.
Il bilanciamento offshore allevierebbe questo problema evitando l’ingegneria sociale e riducendo al minimo l’impronta militare degli Stati Uniti. Le truppe statunitensi sarebbero state di stanza su suolo straniero solo quando un paese si trovava in una regione vitale e minacciato da un aspirante egemone. In tal caso, la potenziale vittima vedrebbe gli Stati Uniti come un salvatore piuttosto che un occupante. E una volta affrontata la minaccia, le forze militari statunitensi potrebbero tornare indietro all’orizzonte e non rimanere indietro a immischiarsi nella politica locale. Rispettando la sovranità di altri stati, è meno probabile che il bilanciamento offshore favorisca il terrorismo antiamericano.
UNA STORIA RASSICURANTE
Il bilanciamento offshore può sembrare una strategia radicale oggi, ma ha fornito la logica guida della politica estera statunitense per molti decenni e ha servito bene il paese. Durante il diciannovesimo secolo, gli Stati Uniti erano preoccupati di espandersi in tutto il Nord America, costruire uno stato potente e stabilire l’egemonia nell’emisfero occidentale. Dopo aver completato questi compiti alla fine del secolo, si interessò presto a preservare gli equilibri di potere in Europa e nel nord-est asiatico. Tuttavia, ha permesso alle grandi potenze di quelle regioni di controllarsi a vicenda, intervenendo militarmente solo quando gli equilibri di potere si sono interrotti, come durante entrambe le guerre mondiali.
Durante la Guerra Fredda, gli Stati Uniti non avevano altra scelta che andare a terra in Europa e nel nord-est asiatico, poiché i loro alleati in quelle regioni non potevano contenere l’Unione Sovietica da soli. Così Washington forgiò alleanze e stabilì forze militari in entrambe le regioni, e combatté la guerra di Corea per contenere l’influenza sovietica nel nord-est asiatico.
Nel Golfo Persico, tuttavia, gli Stati Uniti sono rimasti al largo, lasciando che il Regno Unito prendesse l’iniziativa nell’impedire a qualsiasi stato di dominare quella regione ricca di petrolio. Dopo che gli inglesi hanno annunciato il loro ritiro dal Golfo nel 1968, gli Stati Uniti si sono rivolti allo scià dell’Iran e alla monarchia saudita per fare il lavoro. Quando lo scià cadde nel 1979, l’amministrazione Carter iniziò a costruire la Rapid Deployment Force, una capacità militare offshore progettata per impedire all’Iran o all’Unione Sovietica di dominare la regione. L’amministrazione Reagan ha aiutato l’Iraq durante la guerra del 1980-88 di quel paese con l’Iran per ragioni simili. L’esercito americano rimase in mare aperto fino al 1990, quando la presa del Kuwait da parte di Saddam Hussein minacciò di aumentare il potere dell’Iraq e di mettere a rischio l’Arabia Saudita e altri produttori di petrolio del Golfo. Per ripristinare l’equilibrio di potere regionale, il George H.
Per quasi un secolo, in breve, il bilanciamento offshore ha impedito l’emergere di pericolosi egemoni regionali e ha preservato un equilibrio di potere globale che ha rafforzato la sicurezza americana. Significativamente, quando i politici statunitensi hanno deviato da quella strategia, come hanno fatto in Vietnam, dove gli Stati Uniti non avevano interessi vitali, il risultato è stato un costoso fallimento.
Gli eventi dalla fine della Guerra Fredda insegnano la stessa lezione. In Europa, una volta crollata l’Unione Sovietica, la regione non aveva più un potere dominante. Gli Stati Uniti avrebbero dovuto ridurre costantemente la loro presenza militare, coltivare relazioni amichevoli con la Russia e affidare la sicurezza europea agli europei. Invece, ha ampliato la NATO e ignorato gli interessi russi, contribuendo a innescare il conflitto sull’Ucraina e avvicinando Mosca alla Cina.
In Medio Oriente, allo stesso modo, gli Stati Uniti avrebbero dovuto tornare al largo dopo la Guerra del Golfo e lasciare che Iran e Iraq si equilibrassero a vicenda. Invece, l’amministrazione Clinton ha adottato la politica del “doppio contenimento”, che richiedeva il mantenimento di forze di terra e aeree in Arabia Saudita per controllare contemporaneamente Iran e Iraq. L’amministrazione di George W. Bush ha quindi adottato una strategia ancora più ambiziosa, denominata “trasformazione regionale”, che ha prodotto costosi fallimenti in Afghanistan e in Iraq. L’amministrazione Obama ha ripetuto l’errore quando ha contribuito a rovesciare Muammar al-Gheddafi in Libia e quando ha esacerbato il caos in Siria insistendo sul fatto che Bashar al-Assad “deve andarsene” e appoggiando alcuni dei suoi oppositori. L’abbandono del bilanciamento offshore dopo la Guerra Fredda è stata una ricetta per il fallimento.
LE SPERANZA CAUTE DELL’EGEMONIA
I difensori dell’egemonia liberale schierano una serie di argomenti poco convincenti per sostenere la loro tesi. Un’affermazione familiare è che solo una vigorosa leadership statunitense può mantenere l’ordine in tutto il mondo. Ma la leadership globale non è fine a se stessa; è desiderabile solo nella misura in cui avvantaggia direttamente gli Stati Uniti.
Si potrebbe inoltre sostenere che la leadership statunitense è necessaria per superare il problema dell’azione collettiva degli attori locali che non riescono a bilanciarsi contro un potenziale egemone. Il bilanciamento offshore riconosce questo pericolo, tuttavia, e chiede a Washington di intervenire se necessario. Né proibisce a Washington di dare consigli o aiuti materiali a stati amici nelle regioni chiave.
Altri difensori dell’egemonia liberale sostengono che la leadership statunitense è necessaria per affrontare le nuove minacce transnazionali che derivano da stati falliti, terrorismo, reti criminali, flussi di profughi e simili. Non solo gli oceani Atlantico e Pacifico offrono una protezione inadeguata contro questi pericoli, affermano, ma la moderna tecnologia militare rende anche più facile per gli Stati Uniti proiettare potenza in tutto il mondo e affrontarli. Il “villaggio globale” di oggi, insomma, è più pericoloso ma più facile da gestire.
Questo punto di vista esagera queste minacce e sopravvaluta la capacità di Washington di eliminarle. Criminalità, terrorismo e problemi simili possono essere una seccatura, ma non sono minacce esistenziali e raramente si prestano a soluzioni militari. In effetti, la costante interferenza negli affari di altri stati – e soprattutto i ripetuti interventi militari – genera risentimento locale e favorisce la corruzione, aggravando così questi pericoli transnazionali. La soluzione a lungo termine ai problemi può essere solo una governance locale competente, non gli sforzi pesanti degli Stati Uniti per sorvegliare il mondo.
Né il controllo del mondo è a buon mercato come sostengono i difensori dell’egemonia liberale, sia in dollari spesi che in vite perse. Le guerre in Afghanistan e in Iraq sono costate tra i 4 e i 6 trilioni di dollari e hanno ucciso quasi 7.000 soldati statunitensi e ne hanno feriti più di 50.000. I veterani di questi conflitti mostrano alti tassi di depressione e suicidio, ma gli Stati Uniti hanno poco da mostrare per i loro sacrifici.
I difensori dello status quo temono anche che il bilanciamento offshore consentirebbe ad altri stati di sostituire gli Stati Uniti all’apice del potere globale. Al contrario, la strategia prolungherebbe il predominio del paese riorientando i suoi sforzi sugli obiettivi fondamentali. A differenza dell’egemonia liberale, il bilanciamento offshore evita di sperperare risorse in costose e controproducenti crociate, che permetterebbero al governo di investire di più negli ingredienti a lungo termine del potere e della prosperità: istruzione, infrastrutture, ricerca e sviluppo. Ricorda, gli Stati Uniti sono diventati una grande potenza rimanendo fuori dalle guerre straniere e costruendo un’economia di livello mondiale, che è la stessa strategia che la Cina ha perseguito negli ultimi tre decenni. Nel frattempo, gli Stati Uniti hanno sprecato trilioni di dollari e hanno messo a rischio il loro primato a lungo termine.
Un altro argomento sostiene che le forze armate statunitensi devono presidiare il mondo per mantenere la pace e preservare un’economia mondiale aperta. Il ridimensionamento, secondo la logica, rinnoverebbe la competizione tra le grandi potenze, inviterebbe rovinose rivalità economiche e alla fine innescherà una grande guerra dalla quale gli Stati Uniti non potrebbero rimanere distaccati. Meglio continuare a fare il poliziotto globale che rischiare una ripetizione degli anni ’30.
Tali paure non sono convincenti. Tanto per cominciare, questa argomentazione presuppone che un maggiore impegno degli Stati Uniti in Europa avrebbe impedito la seconda guerra mondiale, un’affermazione difficile da conciliare con l’incrollabile desiderio di guerra di Adolf Hitler. A volte si verificheranno conflitti regionali, indipendentemente da ciò che fa Washington, ma non è necessario che venga coinvolta a meno che non siano in gioco interessi vitali degli Stati Uniti. In effetti, gli Stati Uniti a volte sono rimasti fuori dai conflitti regionali, come la guerra russo-giapponese, la guerra Iran-Iraq e l’attuale guerra in Ucraina, smentendo l’affermazione che inevitabilmente vengono trascinati dentro. E se il paese è costretto per combattere un’altra grande potenza, meglio arrivare in ritardo e lasciare che altri paesi si facciano carico delle spese. Essendo l’ultima grande potenza ad entrare in entrambe le guerre mondiali, gli Stati Uniti sono emersi più forti da ciascuna per aver aspettato.
Inoltre, la storia recente mette in dubbio l’affermazione che la leadership statunitense preserva la pace. Negli ultimi 25 anni, Washington ha causato o sostenuto diverse guerre in Medio Oriente e alimentato conflitti minori altrove. Se si suppone che l’egemonia liberale aumenti la stabilità globale, ha fatto un pessimo lavoro.
Né la strategia ha prodotto molto in termini di benefici economici. Data la loro posizione protetta nell’emisfero occidentale, gli Stati Uniti sono liberi di commerciare e investire ovunque esistano opportunità redditizie. Poiché tutti i paesi hanno un interesse comune in tale attività, Washington non ha bisogno di interpretare il ruolo di poliziotto globale per rimanere economicamente impegnata con gli altri. In effetti, l’economia statunitense oggi sarebbe in una forma migliore se il governo non spendesse così tanti soldi cercando di governare il mondo.
Il bilanciamento offshore può sembrare una strategia radicale oggi, ma ha fornito la logica guida della politica estera statunitense per molti decenni.
I fautori dell’egemonia liberale affermano anche che gli Stati Uniti devono rimanere impegnati in tutto il mondo per prevenire la proliferazione nucleare. Se riduce il suo ruolo in regioni chiave o si ritira del tutto, si sostiene, i paesi abituati alla protezione degli Stati Uniti non avranno altra scelta che proteggersi ottenendo armi nucleari.
È probabile che nessuna grande strategia si dimostri del tutto efficace nel prevenire la proliferazione, ma il bilanciamento offshore farebbe un lavoro migliore dell’egemonia liberale. Dopotutto, quella strategia non è riuscita a impedire a India e Pakistan di aumentare le loro capacità nucleari, alla Corea del Nord di diventare il nuovo membro del club nucleare e all’Iran di compiere grandi progressi con il suo programma nucleare. I paesi di solito cercano la bomba perché temono di essere attaccati e gli sforzi degli Stati Uniti per un cambio di regime non fanno che aumentare tali preoccupazioni. Evitando il cambio di regime e riducendo l’impronta militare degli Stati Uniti, il bilanciamento offshore darebbe ai potenziali proliferatori un motivo in meno per passare al nucleare.
Inoltre, l’azione militare non può impedire a un determinato paese di ottenere alla fine armi nucleari; può solo guadagnare tempo. Il recente accordo con l’Iran serve a ricordare che la pressione multilaterale coordinata e le severe sanzioni economiche sono un modo migliore per scoraggiare la proliferazione rispetto alla guerra preventiva o al cambio di regime.
A dire il vero, se gli Stati Uniti ridimensionassero le loro garanzie di sicurezza, alcuni stati vulnerabili potrebbero cercare i propri deterrenti nucleari. Questo risultato non è desiderabile, ma gli sforzi a tutto campo per prevenirlo sarebbero quasi certamente costosi e probabilmente non avranno successo. Inoltre, gli aspetti negativi potrebbero non essere così gravi come temono i pessimisti. Ottenere la bomba non trasforma i paesi deboli in grandi potenze né consente loro di ricattare gli stati rivali. Dieci stati hanno varcato la soglia nucleare dal 1945 e il mondo non si è capovolto. La proliferazione nucleare rimarrà una preoccupazione indipendentemente da ciò che fanno gli Stati Uniti, ma il bilanciamento offshore fornisce la migliore strategia per affrontarla.
LA DELUSIONE DEMOCRAZIA
Altri critici rifiutano il bilanciamento offshore perché ritengono che gli Stati Uniti abbiano un imperativo morale e strategico per promuovere la libertà e proteggere i diritti umani. Secondo loro, la diffusione della democrazia libererà in gran parte il mondo dalla guerra e dalle atrocità, mantenendo gli Stati Uniti al sicuro e alleviando le sofferenze.
Nessuno sa se un mondo composto esclusivamente da democrazie liberali si rivelerebbe in effetti pacifico, ma diffondere la democrazia puntando una pistola raramente funziona e le democrazie nascenti sono particolarmente soggette a conflitti. Invece di promuovere la pace, gli Stati Uniti finiscono per combattere guerre senza fine. Ancora peggio, l’alimentazione forzata dei valori liberali all’estero può comprometterli in patria. La guerra globale al terrorismo e il relativo sforzo per impiantare la democrazia in Afghanistan e Iraq hanno portato a prigionieri torturati, uccisioni mirate e un’ampia sorveglianza elettronica dei cittadini statunitensi.
Alcuni difensori dell’egemonia liberale ritengono che una versione più sottile della strategia potrebbe evitare il tipo di disastri che si sono verificati in Afghanistan, Iraq e Libia. Si stanno illudendo. La promozione della democrazia richiede un’ingegneria sociale su larga scala nelle società straniere che gli americani capiscono male, il che aiuta a spiegare perché gli sforzi di Washington di solito falliscono. Lo smantellamento e la sostituzione delle istituzioni politiche esistenti crea inevitabilmente vincitori e vinti, e questi ultimi spesso impugnano le armi in opposizione. Quando ciò accade, i funzionari statunitensi, credendo che la credibilità del loro paese sia ora in gioco, sono tentati di usare la straordinaria potenza militare degli Stati Uniti per risolvere il problema, trascinando così il paese in altri conflitti.
Se il popolo americano vuole incoraggiare la diffusione della democrazia liberale, il modo migliore per farlo è dare il buon esempio. È più probabile che altri paesi emulino gli Stati Uniti se li vedono come una società giusta, prospera e aperta. E questo significa fare di più per migliorare le condizioni in patria e meno per manipolare la politica all’estero.
IL PACIFICATORE PROBLEMATICO
Poi ci sono quelli che credono che Washington dovrebbe rifiutare l’egemonia liberale ma mantenere considerevoli forze statunitensi in Europa, nel nord-est asiatico e nel Golfo Persico solo per evitare che scoppino problemi. Questa polizza assicurativa a basso costo, sostengono, salverebbe vite e denaro a lungo termine, perché gli Stati Uniti non dovrebbero andare in soccorso dopo lo scoppio di un conflitto. Questo approccio, a volte chiamato “impegno selettivo”, sembra allettante ma non funzionerebbe neanche.
Per cominciare, è probabile che ritorni all’egemonia liberale. Una volta impegnati a preservare la pace nelle regioni chiave, i leader statunitensi sarebbero fortemente tentati di diffondere anche la democrazia, sulla base della convinzione diffusa che le democrazie non si combattano tra loro. Questa era la motivazione principale per espandere la NATO dopo la Guerra Fredda, con l’obiettivo dichiarato di ” un’Europa intera e libera “. Nel mondo reale, la linea che separa l’impegno selettivo dall’egemonia liberale viene facilmente cancellata.
I sostenitori dell’impegno selettivo presumono anche che la semplice presenza delle forze statunitensi in varie regioni garantirà la pace, e quindi gli americani non devono preoccuparsi di essere trascinati in conflitti lontani. In altre parole, estendere gli impegni di sicurezza in lungo e in largo comporta pochi rischi, perché non dovranno mai essere onorati.
Ma questa ipotesi è eccessivamente ottimistica: gli alleati possono agire in modo sconsiderato e gli stessi Stati Uniti possono provocare conflitti. In effetti, in Europa, il ciuccio americano non è riuscito a prevenire le guerre balcaniche degli anni ’90, la guerra russo-georgiana del 2008 e l’attuale conflitto in Ucraina. In Medio Oriente, Washington è in gran parte responsabile di diverse guerre recenti. E nel Mar Cinese Meridionale, il conflitto è ora una possibilità reale nonostante il ruolo regionale sostanziale della US Navy. Stazionare le forze statunitensi in tutto il mondo non garantisce automaticamente la pace.
Né l’impegno selettivo affronta il problema del buck-passing. Si consideri che il Regno Unito sta ritirando il suo esercito dall’Europa continentale, in un momento in cui la NATO deve affrontare quella che considera una minaccia crescente dalla Russia. Ancora una volta, ci si aspetta che Washington si occupi del problema, anche se la pace in Europa dovrebbe essere molto più importante per i poteri della regione.
LA STRATEGIA IN AZIONE
Come sarebbe il bilanciamento offshore nel mondo di oggi? La buona notizia è che è difficile prevedere una seria sfida all’egemonia americana nell’emisfero occidentale e, per ora, nessun potenziale egemone si nasconde in Europa o nel Golfo Persico. Ora la cattiva notizia: se la Cina continua la sua impressionante ascesa, è probabile che cercherà l’egemonia in Asia. Gli Stati Uniti dovrebbero intraprendere un grande sforzo per impedirne il successo.
Idealmente, Washington farebbe affidamento sui poteri locali per contenere la Cina, ma questa strategia potrebbe non funzionare. Non solo è probabile che la Cina sia molto più potente dei suoi vicini, ma questi stati si trovano anche lontani l’uno dall’altro, rendendo più difficile formare un’efficace coalizione di bilanciamento. Gli Stati Uniti dovranno coordinare i loro sforzi e potrebbero dover gettare il loro peso considerevole dietro di loro. In Asia, gli Stati Uniti possono davvero essere la nazione indispensabile.
In Europa, gli Stati Uniti dovrebbero porre fine alla loro presenza militare e consegnare la NATO agli europei. Non c’è una buona ragione per mantenere le forze americane in Europa, poiché nessun paese ha la capacità di dominare quella regione. I principali contendenti, Germania e Russia, perderanno entrambi il potere relativo man mano che le loro popolazioni si ridurranno di dimensioni e nessun altro potenziale egemone è in vista. Certo, lasciare la sicurezza europea agli europei potrebbe aumentare il potenziale di problemi lì. Se si verificasse un conflitto, tuttavia, non minaccerebbe gli interessi vitali degli Stati Uniti. Pertanto, non c’è motivo per cui gli Stati Uniti spendano miliardi di dollari ogni anno (e impegnino la vita dei propri cittadini) per prevenirne uno.
Nel Golfo, gli Stati Uniti dovrebbero tornare alla strategia di bilanciamento offshore che gli è servita così bene fino all’avvento del doppio contenimento. Nessuna potenza locale è ora in grado di dominare la regione, quindi gli Stati Uniti possono spostare la maggior parte delle loro forze oltre l’orizzonte.
Per quanto riguarda l’ISIS, gli Stati Uniti dovrebbero lasciare che le potenze regionali si occupino di quel gruppo e limitare i propri sforzi a fornire armi, intelligence e addestramento militare. L’ISIS rappresenta una seria minaccia per loro, ma un problema minore per gli Stati Uniti, e l’unica soluzione a lungo termine sono migliori istituzioni locali, qualcosa che Washington non può fornire.
In Siria, gli Stati Uniti dovrebbero lasciare che la Russia prenda il comando. Una Siria stabilizzata sotto il controllo di Assad, o divisa in ministati in competizione, rappresenterebbe poco pericolo per gli interessi degli Stati Uniti. Sia i presidenti democratici che quelli repubblicani hanno una ricca storia di collaborazione con il regime di Assad e una Siria divisa e debole non minaccerebbe l’equilibrio di potere regionale. Se la guerra civile continua, sarà in gran parte un problema di Mosca, anche se Washington dovrebbe essere disposta ad aiutare a mediare una soluzione politica.
Per ora, gli Stati Uniti dovrebbero perseguire migliori relazioni con l’Iran. Non è nell’interesse di Washington che Teheran abbandoni l’accordo sul nucleare e corri per la bomba, un risultato che diventerebbe più probabile se temesse un attacco degli Stati Uniti, da qui il motivo per riparare le barriere. Inoltre, man mano che le sue ambizioni crescono, la Cina vorrà alleati nel Golfo e l’Iran sarà probabilmente in cima alla sua lista. (In un presagio di cose a venire, lo scorso gennaio, il presidente cinese Xi Jinping ha visitato Teheran e ha firmato 17 accordi diversi.) Gli Stati Uniti hanno un evidente interesse a scoraggiare la cooperazione in materia di sicurezza cinese-iraniana, e ciò richiede un contatto con l’Iran.
L’Iran ha una popolazione significativamente più numerosa e un potenziale economico maggiore rispetto ai suoi vicini arabi, e alla fine potrebbe essere in grado di dominare il Golfo. Se comincerà a muoversi in questa direzione, gli Stati Uniti dovrebbero aiutare gli altri stati del Golfo a bilanciare contro Teheran, calibrando i propri sforzi e la presenza militare regionale all’entità del pericolo.
LA LINEA DI FONDO
Presi insieme, questi passaggi permetterebbero agli Stati Uniti di ridurre notevolmente la propria spesa per la difesa. Sebbene le forze statunitensi rimarrebbero in Asia, i ritiri dall’Europa e dal Golfo Persico libererebbero miliardi di dollari, così come la riduzione della spesa per l’antiterrorismo e la fine della guerra in Afghanistan e altri interventi all’estero. Gli Stati Uniti manterrebbero notevoli risorse navali e aeree e forze di terra modeste ma capaci e sarebbero pronti ad espandere le proprie capacità se le circostanze lo richiedessero. Ma per il prossimo futuro, il governo degli Stati Uniti potrebbe spendere più soldi per i bisogni interni o lasciarli nelle tasche dei contribuenti.
Il bilanciamento offshore è una grande strategia nata dalla fiducia nelle tradizioni fondamentali degli Stati Uniti e dal riconoscimento dei suoi vantaggi duraturi. Sfrutta la provvidenziale posizione geografica del paese e riconosce i potenti incentivi che altri stati hanno per bilanciare contro vicini eccessivamente potenti o ambiziosi. Rispetta il potere del nazionalismo, non cerca di imporre i valori americani alle società straniere e si concentra sulla creazione di un esempio che gli altri vorranno emulare. Come in passato, il bilanciamento offshore non è solo la strategia più vicina agli interessi statunitensi; è anche quello che si allinea meglio con le preferenze degli americani.
https://www.foreignaffairs.com/articles/united-states/2016-06-13/case-offshore-balancing
Gli Stati Uniti devono cambiare rotta in questo momento in Ucraina, di JOSH HAMMER
Chi decide, discute seriamente. Chi obbedisce scimmiotta. Giuseppe Germinario
Siamo ormai lontani da più di sette mesi dalla deplorevole incursione di Vladimir Putin nell’Ucraina orientale e in Crimea. Ma nonostante quel tempo trascorso e tutti i vari sviluppi da allora, la posizione formale degli Stati Uniti sul conflitto è cambiata notevolmente poco. Quella posizione eccessivamente semplificata e manichea, insomma, è quella del massimalismo ucraino: Putin è malvagio, Volodymyr Zelensky è nobile, e — ecco il grande salto logico — gli Stati Uniti sosterranno così lo sforzo ucraino di riconquistare ogni centimetro quadrato di territorio nel Donbas e in Crimea dal suo avversario armato di armi nucleari, apparentemente a prescindere dal costo per i contribuenti statunitensi.
La “lettura” formale della Casa Bianca della chiamata del martedì del presidente Joe Biden con Zelensky riassume in modo appropriato la posizione degli Stati Uniti: “Il presidente Joseph R. Biden, Jr., insieme al vicepresidente Kamala Harris , ha parlato oggi con il presidente ucraino Volodymyr Zelensky per sottolineare che gli Stati Uniti non riconosceranno mai la presunta annessione del territorio ucraino da parte della Russia. Il presidente Biden si è impegnato a continuare a sostenere l’Ucraina mentre si difende dall’aggressione russa per tutto il tempo necessario…” (Enfasi aggiunta.) Traduzione: Difenderemo la tua guerra per riconquistare ogni centimetro quadrato di territorio storicamente conteso ed etnicamente misto, non importa quello che le persone che vivono lì dicono di volere, non importa il costo, e nonostante il fatto che il Il destino del regime di Zelensky a Kiev è sicuro.
In questa fase della guerra, praticamente tutto questo pablum è stupido e controproducente per l’effettivo interesse nazionale degli Stati Uniti in queste aree contese. Il nostro interesse nazionale per il teatro ucraino non coincide con la posizione assolutista di Zelensky; il nostro interesse è per la de-escalation, la distensione e la pace. Ma se vogliamo raggiungere questi obiettivi, specialmente quando la minaccia di una guerra nucleare sta emergendo allo scoperto, molti in Occidente raddoppiano incautamente gli appelli per l’ascesa dell’Ucraina alla NATO , e lo stesso Zelensky, affamato di guerra, sta chiedendo una NATO -ha guidato un “attacco preventivo” contro la Russia —Biden ha bisogno di riconoscere la realtà e cambiare immediatamente la rotta strategica.
Dal primo giorno dell’incursione russa, questa colonna ha sostenuto che (1) l’Ucraina, come la Russia, è un paese profondamente corrotto e oligarchico, e Zelensky è un leader altamente imperfetto; ma (2) nonostante i suoi numerosi difetti e il suo status di pedina della classe globalista di Davos/ONG , Zelensky che rimane al potere a Kiev è preferibile all’ovvia alternativa di uno stato fantoccio di Mosca in stile bielorusso/Alexander Lukashenko. Ma la Russia, con l’eccezione di poche riacutizzazioni qua e là nelle vicinanze, si è ritirata da Kiev e dalle aree circostanti già a maggio. Detto in altro modo, è chiaro al di là di ogni ragionevole dubbio, a questo punto, che Zelensky non sta andando da nessuna parte; lui e il suo governo sono qui per restare. Il destino di Kiev è sicuro.
In questo momento, i combattimenti – e, nel caso della Russia, le recenti (probabilmente fittizie) annessioni – si stanno svolgendo in quattro subregioni dell’estremo oriente dell’Ucraina e, in misura minore, in Crimea. Quelle sono le terre contese che l’amministrazione Biden, e più in generale i tipi di “democrazia liberale occidentale”, hanno ritenuto così esistenzialmente importanti per l’Ucraina e per l’integrità dell ‘”Occidente” che riconquistarle vale apparentemente qualsiasi cosa militare, economica e umanitaria costo, fino a, e molto compreso, lo spettro straziante di una guerra nucleare aperta tra NATO e Russia.
Ancora peggio, quando si tratta delle stesse terre contese, il rinomato sondaggio Gallup del 2014 – l’anno in cui Putin ha marciato per la prima volta in Crimea – ha mostrato che il 73,9% dei Crimea pensava che entrare a far parte della Russia avrebbe migliorato la propria vita e quella delle proprie famiglie (solo il 5,5 % in disaccordo). Per quanto riguarda le varie enclavi del Donbas, come Luhansk e Donetsk, sono molto divise tra ucraini di etnia e russi di etnia; Luhansk, ad esempio, ha una divisione demografica quasi uniforme, 50-50.
Cerchiamo di essere i più chiari possibile: al cittadino americano medio non importa e non dovrebbe importare se una o due sottoregioni slave etnicamente divise, strategicamente irrilevanti e storicamente contestate nell’Ucraina orientale ricevano ordini da Kiev o Mosca. Elon Musk , in un tweet molto criticato all’inizio di questa settimana , ha avuto l’idea giusta: “La pace Ucraina-Russia”, ha affermato, può essere raggiunta al meglio “rifacendo [ing] le elezioni delle regioni annesse [come Luhansk e Donetsk] sotto supervisione delle Nazioni Unite” e “la Russia se ne va se questa è la volontà del popolo”; “La Crimea formalmente parte della Russia, come lo è stata dal 1783 (fino all’errore di Krusciov)”; “Assicurazione dell’acqua in Crimea”; e “L’Ucraina rimane neutrale [tra Russia e NATO]”.
Si può certamente cavillare con i dettagli di Musk: le Nazioni Unite , per esempio, non possono essere un arbitro o un supervisore fidato e neutrale di qualsiasi cosa. Ma questa è certamente l’idea giusta per ciò che gli Stati Uniti, e per estensione l’Occidente, dovrebbero fare e dovrebberomirare a. L’amministrazione Biden, se avesse un po’ di buon senso, userebbe qualsiasi leva per portare Zelensky e Putin al tavolo dei negoziati il prima possibile, eliminando così inequivocabilmente la minaccia di una catastrofe nucleare e districando gli Stati Uniti e la NATO dal la prospettiva straziante di qualcosa che nessun presidente dell’era della Guerra Fredda avrebbe mai accettato: un confronto militare aperto e diretto con il più grande arsenale nucleare del mondo. Ciò comporta certamente il disconoscimento della possibilità dell’adesione dell’Ucraina alla NATO.
Il fatto che la nostra attuale classe dirigente non dimostri alcun interesse per la riduzione del buon senso, e invece dimostri un interesse apparentemente interminabile per l’escalation e il massimalismo territoriale ucraino, la dice lunga su quanto sia lontana quella classe dirigente . Se non altro, si spera che il popolo americano parli e cominci a tenere a freno la nostra sordida classe dirigente assetata di guerra alle urne il mese prossimo.
Josh Hammer è opinionista di Newsweek , conduttore di ” The Josh Hammer Show “, editorialista sindacato e ricercatore presso la Edmund Burke Foundation. Twitter: @josh_hammer .
Il rovescio della medaglia del crollo imperiale, Robert D. Kaplan
Un articolo interessante con qualche evidente forzatura, soprattutto nella valutazione pragmatica della politica estera dell’amministrazione Biden e sulla condizione della leadership russa. Buona lettura, Giuseppe Germinario
Le guerre sono cardini storici. E le guerre mal generate, quando servono come punti culminanti di un declino nazionale più generale, possono essere fatali. Ciò è particolarmente vero per gli imperi. L’impero asburgico, che regnò sull’Europa centrale per centinaia di anni, avrebbe potuto resistere nonostante decenni di decadenza se non fosse stato per la sconfitta nella prima guerra mondiale. Lo stesso vale per l’impero ottomano, a cui dalla metà del diciannovesimo secolo ci si riferiva come “il malato d’Europa”. Come accadde, l’impero ottomano, come quello asburgico, avrebbe potuto lottare per decenni e persino riformarsi, se non fosse schierato dalla parte dei perdenti nella prima guerra mondiale.
Ma le scosse di assestamento di tale punizione imperiale non dovrebbero mai essere sottovalutate o celebrate. Gli imperi si formano dal caos e il crollo imperiale lascia spesso il caos sulla propria scia. Gli stati più monoetnici sorti dalle ceneri dei multietnici imperi asburgico e ottomano si rivelarono spesso radicali e instabili. Questo perché i gruppi etnici e settari e le loro particolari lagnanze, che erano stati placati sotto i comuni ombrelli imperiali, si trovarono improvvisamente da soli e si scontrarono l’uno contro l’altro. Il nazismo e il fascismo in generale hanno influenzato stati e fazioni assassine nei Balcani post-asburgici e post-ottomani, così come gli intellettuali arabi che studiavano in Europa che hanno riportato queste idee nelle loro patrie postcoloniali appena indipendenti, dove hanno contribuito a plasmare l’ideologia disastrosa del baathismo. Winston Churchill ipotizzò alla fine della seconda guerra mondiale che se le monarchie imperiali in Germania, Austria e altrove non fossero state spazzate via al tavolo della pace a Versailles, “non ci sarebbe stato Hitler”.
Il ventesimo secolo è stato in gran parte plasmato dal crollo degli imperi dinastici nei primi decenni e dalle conseguenti guerre e sconvolgimenti geopolitici nei decenni successivi. L’impero è molto denigrato dagli intellettuali, ma il declino imperiale può portare a problemi ancora maggiori. Il Medio Oriente, ad esempio, non ha ancora trovato una soluzione adeguata al crollo dell’Impero Ottomano, come dimostrano le sue sanguinose vicissitudini negli ultimi cento anni.
Tutto questo dovrebbe essere tenuto a mente quando si considera la vulnerabilità di Cina, Russia e Stati Uniti oggi. Questi grandi poteri possono essere anche più fragili di quanto sembri. L’ansiosa previsione richiesta per evitare catastrofi politiche, cioè la capacità di pensare in modo tragico per evitare tragedie, non è stata sviluppata a sufficienza o non è stata evidenziata da nessuna parte a Pechino, Mosca e Washington. Finora, sia la Russia che gli Stati Uniti hanno avviato guerre autodistruttive: la Russia in Ucraina e gli Stati Uniti in Afghanistan e Iraq. Quanto alla Cina, la sua ossessione per la conquista di Taiwan potrebbe portare all’autodistruzione. Tutte e tre le grandi potenze negli ultimi anni e decenni hanno chiaramente dimostrato attacchi fondati su insolitamente cattivi giudizi quando si tratta della loro sopravvivenza a lungo termine.
Se uno o tutti i grandi poteri di oggi si indebolissero drammaticamente, la confusione e il disordine aumenterebbero all’interno dei loro confini e in tutto il mondo. Gli Stati Uniti indeboliti o assediati sarebbero meno in grado di sostenere i propri alleati in Europa e in Asia. Se il regime del Cremlino dovesse vacillare a causa di fattori derivanti dalla guerra in Ucraina , la Russia, istituzionalmente più debole della Cina, potrebbe diventare una versione ipocalorica dell’ex Jugoslavia, incapace di controllare i suoi territori storici nel Caucaso, in Siberia e nell’est Asia. Le turbolenze economiche o politiche in Cina potrebbero scatenare disordini regionali all’interno del paese e anche incoraggiare l’India e la Corea del Nord, le cui politiche sono intrinsecamente vincolate da Pechino.
TERRENO TRASLANTE
Le grandi potenze di oggi non sono imperi. Ma Russia e Cina portano le tracce della loro eredità imperiale. La guerra del Cremlino in Ucraina è radicata negli impulsi che esistevano sia nell’impero russo che in quello sovietico, e le intenzioni aggressive della Cina nei confronti di Taiwan fanno eco alla ricerca dell’egemonia propria della dinastia Qing in Asia. Gli Stati Uniti non si sono mai identificati formalmente come un impero. Ma l’espansione verso ovest in Nord America e le occasionali conquiste territoriali d’oltremare hanno conferito agli Stati Uniti un sapore imperiale nel diciannovesimo secolo e nel dopoguerra hanno goduto di un livello di dominio globale precedentemente noto solo agli imperi.
Oggi, tutte e tre queste grandi potenze devono affrontare un futuro incerto, in cui non si può escludere un collasso o un certo grado di disintegrazione. La serie di problemi è diversa per ciascuno, ma le sfide che ogni paese deve affrontare sono fondamentali per l’esistenza stessa di quel potere. La Russia affronta il rischio più immediato. Anche se in qualche modo prevale nella guerra in Ucraina, la Russia dovrà affrontare il disastro economico di essere disaccoppiata dall’UE e dalle economie del G-7 a meno che non ci sia una vera pace, che ora appare improbabile . La Russia potrebbe già essere il malato dell’Eurasia, come lo era l’Impero Ottomano dell’Europa.
Per quanto riguarda la Cina , la sua crescita economica annuale a due cifre fino è rallentata a una cifra singola e potrebbe presto raggiungere cifre basse a una cifra. Il capitale è fuggito dal paese, con investitori stranieri che vendono molti miliardi di dollari in obbligazioni cinesi e altri miliardi in azioni cinesi. Allo stesso tempo l’economia cinese è maturata e gli investimenti dall’estero sono diminuiti, la sua popolazione è invecchiata e la sua forza lavoro si è ridotta. Tutto ciò non è di buon auspicio per la futura stabilità interna. Lo ha notato Kevin Rudd, presidente dell’Asia Society ed ex primo ministro australiano il quale ha proferito che il presidente cinese Xi Jinping, attraverso le sue politiche stataliste e ferree comuniste, “ha iniziato a strangolare l’oca che, per 35 anni, ha deposto l’uovo d’oro”. Queste dure realtà economiche, minando il tenore di vita del cittadino medio cinese, possono minacciare la pace sociale e il sostegno implicito al sistema comunista. I regimi autoritari, mentre presentano un’aura di serenità, possono sempre marcire dall’interno .
Gli Stati Uniti sono una democrazia, quindi i suoi problemi sono più trasparenti. Ma questo non li rende necessariamente meno acuti. Il fatto è che mentre il deficit federale sale verso livelli insopportabili, lo stesso processo di globalizzazione ha diviso gli americani in due metà in guerra: coloro che sono stati trascinati nei valori di una nuova civiltà cosmopolita mondiale e quelli che la rifiutano per il bene di una più tradizionale e di un nazionalismo religioso. Metà degli Stati Uniti è sfuggita alla sua geografia continentale mentre l’altra metà è ancorata ad essa. Gli oceani sono sempre meno un fattore per isolare gli Stati Uniti dal resto del mondo, che per oltre 200 anni ha contribuito a provvedere alla coesione comunitaria del paese. Gli Stati Uniti erano una democrazia di massa ben funzionante nell’era della stampa e delle macchine da scrivere, ma è molto meno di successo nell’era digitale, le cui innovazioni alimentarono la rabbia populista che portò all’ascesa di Donald Trump .
A causa di questi cambiamenti, sta probabilmente prendendo forma una nuova configurazione di potere globale. In uno scenario, la Russia declina precipitosamente a causa della sua guerra mal generata, la Cina trova troppo difficile ottenere un potere economico e tecnologico sostenuto sotto un Partito Comunista Cinese (PCC) che torna sempre più al leninismo ortodosso e gli Stati Uniti superano i loro disordini interni e alla fine riemerge, come ha fatto subito dopo la Guerra Fredda, come potenza unipolare. Un’altra possibilità è un mondo veramente bipolare in cui la Cina mantenga il suo dinamismo economico anche se diventa più autoritaria. Una terza possibilità è il graduale declino di tutte e tre le potenze, che porta a un maggiore grado di anarchia nel sistema internazionale, con potenze di medio livello, in particolare in Medio Oriente e Asia meridionale, ancora meno contenute di quanto non lo siano già, e Stati europei incapaci di essere d’accordo su tante cose in assenza di una forte leadership americana, con la Russia post-Putin alla sua frontiera.
Quale scenario emergerà dipenderà molto dall’esito delle contese militari. Il mondo sta assistendo a ciò che una grande guerra di terra nell’Europa orientale sta modellando alle prospettive e alla reputazione della Russia come grande potenza. Ucraina ha smascherato la macchina da guerra russa come distintamente appartenente al mondo in via di sviluppo: incline all’indisciplina, alle diserzioni e povera di una logistica inesistente, con un corpo estremamente debole di sottufficiali. Come la guerra in Ucraina, un sofisticato conflitto navale, informatico e missilistico a Taiwan o nel Mar Cinese Meridionale o nel Mar Cinese Orientale sarebbe più facile da iniziare che da finire. Ad esempio, quale sarebbe l’obiettivo strategico degli Stati Uniti una volta che tali ostilità militari fossero iniziate sul serio: la fine del governo del PCC in Cina? In tal caso, come reagirebbe Washington al caos che ne risulterebbe? Gli Stati Uniti hanno appena cominciato a riflettere su queste domande. La guerra, come Washington ha imparato in Afghanistan e in Iraq, è un vaso di Pandora.
STRATEGIA DI SOPRAVVIVENZA
Nessun grande potere dura per sempre. Ma forse l’esempio più impressionante di resistenza è l’impero bizantino, che durò dal 330 d.C. sino alla conquista di Costantinopoli durante la quarta crociata nel 1204, per poi riprendersi e sopravvivere fino alla vittoria finale ottomana nel 1453. Ciò è doppiamente impressionante se si considera che Bisanzio aveva una geografia più difficile e nemici più forti, e di conseguenza maggiori vulnerabilità, rispetto a Roma in Occidente. Lo storico Edward Luttwak ha affermato che Bisanzio “faceva meno affidamento sulla forza militare e più su tutte le forme di persuasione: per reclutare alleati, dissuadere i nemici e indurre potenziali nemici ad attaccarsi a vicenda”. Inoltre, quando combattevano, osserva Luttwak, “i bizantini erano meno inclini a distruggere i nemici che a contenerli, sia per conservare le forze sia perché sapevano che il nemico di oggi poteva essere l’alleato di domani”.
In altre parole, non si tratta solo di evitare grandi guerre quando possibile, ma anche di non essere apertamente ideologici, per poter considerare il nemico di oggi l’amico di domani, anche se ha un sistema politico diverso dal proprio. Non è stato facile per gli Stati Unitifare, visto che vede se stessa come una potenza missionaria impegnata a diffondere la democrazia. I Bizantini hanno inciso una flessibilità amorale nel loro sistema, nonostante la sua presunta religiosità; un approccio realistico che è diventato più difficile da realizzare negli Stati Uniti, in parte a causa del potere di un’establishment mediatico ipocrita. Personaggi influenti nei media americani chiedono incessantemente a Washington di promuovere e talvolta persino far rispettare la democrazia e i diritti umani in tutto il mondo, anche quando ciò danneggia gli interessi geopolitici degli Stati Uniti. Oltre ai media, c’è la stessa classe dirigente della politica estera, che, come ha dimostrato l’intervento militare statunitense in Libia nel 2011, non ha imparato appieno le lezioni del crollo dell’Iraq e di quella che era anche allora la continua intrattabilità dell’Afghanistan. Tuttavia, la risposta relativamente misurata dell’amministrazione Biden in Ucraina – non inserendo truppe statunitensi e consigliando informalmente agli ucraini di non espandere la loro guerra in territorio russo – potrebbe segnare un punto di svolta. In effetti, meno missionari sono gli Stati Uniti nel loro approccio, più è probabile che evitino guerre disastrose. Naturalmente, gli Stati Uniti non devono spingersi fino alla Cina autoritaria, che non tiene lezioni morali ad altri governi e società, affrontando volentieri regimi i cui valori differiscono da quelli di Pechino quando ciò offre alla Cina un vantaggio economico e geopolitico.
Una politica estera statunitense più contenuta potrebbe essere la ricetta per la sopravvivenza a lungo termine della potenza americana. Il “bilanciamento offshore” a prima vista servirebbe come strategia guida di Washington: “Invece di controllare il mondo, gli Stati Uniti incoraggerebbero altri paesi a prendere l’iniziativa nel controllare le potenze emergenti, intervenendo solo quando necessario”, come affermano gli scienziati politici John Mearsheimer e Stephen Walt lo mise in Foreign Affairs nel 2016. Il problema con questo approccio, tuttavia, è che il mondo è così fluido e interconnesso, con crisi in una parte del globo che migrano verso altre parti, che la moderazione potrebbe semplicemente non essere praticabile. Il bilanciamento offshore potrebbe essere semplicemente troppo restrittivo e meccanico. L’isolazionismo prosperò in un’epoca in cui le navi erano l’unico modo per attraversare l’Oceano Atlantico e impiegavano giorni per farlo. Attualmente, una dichiarata politica di moderazione potrebbe solo telegrafare debolezza e incertezza.
Purtroppo, gli Stati Uniti sono destinati a essere coinvolti in crisi estere, alcune delle quali avranno una componente militare. Questa è la natura stessa di questo mondo sempre più popoloso, interconnesso e claustrofobico. Ancora una volta, il concetto chiave è pensare sempre in modo tragico: cioè contemplare gli scenari peggiori per ogni crisi, pur non lasciandosi immobilizzare nell’inerzia generale. È più un’arte e una brillante intuizione che una scienza. Eppure è così che le grandi potenze sono sempre sopravvissute.
Gli imperi possono finire all’improvviso e, quando lo fanno, ne derivano caos e instabilità. Probabilmente è troppo tardi per la Russia per evitare questo destino. La Cina potrebbe farcela, ma sarà difficile. Gli Stati Uniti sono ancora nella posizione migliore tra i tre, ma più a lungo attende di adottare un cambiamento più tragico e realistico nel suo approccio, peggiori saranno le probabilità. Una grande strategia dei limiti è fondamentale. Speriamo che inizi adesso, con la politica di guerra dell’amministrazione Biden in Ucraina.
https://www.foreignaffairs.com/world/downside-imperial-collapse
HOMO VOLUNTARIUS, di Pierluigi Fagan
La Russia vincerà strategicamente anche nello scenario di una situazione di stallo militare in Ucraina, di Andrew Korybko
Tutto ciò che la Russia deve fare è semplicemente continuare ad esistere a dispetto dei complotti politicamente irrealistici della “balcanizzazione” degli Stati Uniti al fine di garantire l’ultima evoluzione della transizione sistemica globale verso la multiplexità.
Il conflitto ucraino , che in realtà è una guerra per procura della NATO guidata dagli Stati Uniti contro la Russia che viene condotta in e attraverso l’ex Repubblica sovietica, sta tendendo a una situazione di stallo militare. Questa osservazione si basa sulla probabilità che la mobilitazione parziale da parte della Russia di riservisti esperti alla fine stabilizzerà la linea di controllo (LOC) tra le regioni recentemente riunificate di Mosca in Novorossiya e i suoi oppositori sostenuti dalla NATO ma con la fronte ucraina.
Non è previsto alcun grande passo avanti da nessuna delle due parti. La NATO è più che in grado di prevenirlo nei confronti della Russia continuando a investire risorse infinite nei suoi delegati mentre Mosca può ricorrere a armi nucleari tattiche per autodifesa come ultima risorsa assoluta per sostenere la sua integrità territoriale . Per questi motivi, la LOC probabilmente rimarrà più o meno la stessa, con solo piccole revisioni che potrebbero al massimo portare la Russia a estendere il suo mandato ai confini amministrativi delle sue quattro regioni più recenti.
Visto come questo risultato emergente non soddisferebbe gli obiettivi che la Russia ha dichiarato all’inizio della sua operazione speciale per quanto riguarda la smilitarizzazione, la denazificazione e la neutralità militare dell’Ucraina , per non parlare della piena liberazione del Donbass, è comprensibile il motivo per cui la maggior parte degli osservatori concluderebbe che un lo stallo equivale a una perdita strategica per la Russia. C’è anche un’altra ragione per questa opinione, vale a dire il fatto che gli Stati Uniti hanno sfruttato il conflitto per riaffermare con successo la loro egemonia sull’Europa.
L’UE non può più essere considerata un attore strategicamente autonomo nella transizione sistemica globale alla multipolarità , essendo invece diventata il più grande stato vassallo degli Stati Uniti e quindi una piattaforma a livello continentale per minacciare perennemente gli interessi di sicurezza nazionale della Russia, anche attraverso mezzi ibridi. In altre parole, le stesse identiche minacce alla sicurezza che la Russia considerava provenienti dall’Ucraina sono state ampliate per includere l’intera Europa, il che rafforza la conclusione di cui sopra.
Tuttavia, quella stessa conclusione è ancora falsa per ragioni che verranno ora spiegate. In primo luogo, la Russia rimane più che in grado di proteggere i suoi interessi fondamentali di sicurezza nazionale, specialmente attraverso la sua leadership globale di tecnologie ipersoniche che garantiscono l’integrità delle sue capacità di secondo attacco nucleare e quindi le impediscono di diventare suscettibile al ricatto nucleare degli Stati Uniti. Ciò significa che è garantita la sua autonomia strategica durante tutto il corso della transizione sistemica globale.
In secondo luogo, la suddetta transizione è stata accelerata senza precedenti a causa delle conseguenze del cambiamento di paradigma a tutto spettro catalizzate dalla sua operazione speciale, in particolare in tutto il Sud del mondo. I tre risultati rilevanti sono che i paesi in via di sviluppo hanno riaffermato la loro autonomia strategica rifiutandosi di sanzionare la Russia; L’ India è intervenuta con decisione per scongiurare preventivamente la sproporzionata dipendenza della Russia dalla Cina; e la traiettoria della superpotenza cinese è stata così deragliata .
In terzo luogo, l’ attuale fase intermedia bipolare della transizione sistemica globale si sta quindi evolvendo verso la tripolarità molto più rapidamente del previsto prima della sua forma finale di multipolarità complessa (“multiplessità”) . Sia le superpotenze americane che quelle (aspiranti) cinesi associate al concetto bipolare stanno quindi perdendo la loro smisurata influenza nel plasmare le relazioni internazionali a causa dell’accelerazione della loro ascesa da parte di grandi potenze multipolari come India , Iran , Turkiye e altre.
In quarto luogo, la rapida evoluzione verso la tripolarità e la multiplexità crea innumerevoli opportunità per stati del Sud del mondo relativamente medi e più piccoli, che naturalmente praticheranno complessi atti di bilanciamento tra loro, crescenti Grandi Potenze multipolari e le due superpotenze. Questa interazione accelererà ulteriormente i processi multipolari, riducendo così l’influenza precedentemente smisurata delle due superpotenze, migliorando le Grandi Potenze e infine dando ai giocatori minori la propria influenza.
E infine, il manifesto rivoluzionario del presidente Putin che ha condiviso il 30 settembre prima di firmare i documenti relativi alla riunificazione di Novorossiya con la Russia continuerà a ispirare processi multipolari in tutto il Sud del mondo, assicurando che le tendenze precedenti rimangano sulla buona strada. L’impatto cumulativo di questi cambiamenti sistemici accelererà quindi la transizione sistemica globale alla multipolarità che è parte integrante dei grandi interessi strategici della Russia.
Se non fosse stato per le scoperte intrecciate di tripolarità-multiplessità create come risultato delle conseguenze sistemiche catalizzate dal suo funzionamento speciale, l’attuale fase intermedia bipolare della transizione sistemica globale sarebbe rimasta lo status quo indefinitamente. In quelle condizioni, la Russia sarebbe stata inevitabilmente costretta a concludere accordi sbilanciati con la Cina per disperazione a scapito della sua autonomia strategica , trasformandosi così nel “junior partner” di Pechino.
A sua volta, l’India sarebbe stata costretta a diventare il “partner minore” degli Stati Uniti per la sua stessa disperazione di ristabilire un senso di equilibrio con la Cina, dopo aver temuto le conseguenze della Russia che avrebbe inavvertitamente sovralimentato la traiettoria di superpotenza del suo vicino. Anche i pari della Grande Potenza dello stato dell’Asia meridionale si sarebbero trovati in situazioni simili legate alla scelta a somma zero di diventare il “partner minore” di una delle due superpotenze a causa della reazione a catena creata dalle scelte di Russia e India.
All’interno di quel sistema bipolare, gli unici stati veramente sovrani sarebbero le due superpotenze poiché la sovranità delle Grandi Potenze sarebbe limitata dal fatto che esse sarebbero costrette a sottomettersi allo status di “partner junior”, che a sua volta condannerebbe relativamente medie e piccole- stati di dimensioni Quel livello più basso della gerarchia internazionale sarebbe stato privato di qualsiasi parvenza di sovranità al di là di qualunque cosa potesse essere loro offerta dalle superpotenze per impedire la loro “defezione” verso l’altro.
Al posto di quel futuro oscuro, che è essenzialmente bipolare e molto più rigido del sistema che c’era durante la Vecchia Guerra Fredda poiché l’aspetto multipolare sarebbe semplicemente superficiale visto che sarebbe essenzialmente controllato dalle due superpotenze, la vera multipolarità è emergente. Ciò rappresenta una grande vittoria strategica non solo per la Russia, ma per l’intera comunità internazionale, il che la rende così una grande sconfitta strategica per gli Stati Uniti.
Mantenendo l’emergente stallo militare in Ucraina, sia attraverso mezzi convenzionali legati alla sua parziale mobilitazione di riservisti esperti come intende, sia ricorrendo a armi nucleari tattiche per autodifesa come ultima risorsa assoluta, se necessario, alla Russia è ancora assicurato il successo strategico a lungo correre. Tutto ciò che deve fare è semplicemente continuare ad esistere a dispetto dei complotti politicamente irrealistici della “ balcanizzazione ” degli Stati Uniti al fine di garantire l’ultima evoluzione della transizione sistemica globale verso la multiplexità.
PUNTO CRITICO?_di Pierluigi Fagan
Marco Giuliani ci ha lasciato
Marco Giuliani ci ha improvvisamente lasciato da una settimana, superata da poco la soglia dei cinquanta anni.
Ha iniziato la collaborazione con Italia e il mondo da circa sei mesi inviando puntualmente il suo articolo settimanale. Non avevo ancora avuto modo di incontrarlo di persona, ma i contatti e le sempre più frequenti conversazioni telefoniche lasciavano intendere nell’immediato futuro una collaborazione sempre più stretta ed una partecipazione diretta alla redazione del sito. La vita riserva spesso sorprese beffarde ed amare. A Marco è capitato proprio questo. Proprio quando aveva raggiunto la sua ultima meta all’università ed aveva cominciato a coltivare ancora più sistematicamente la sua passione, lo studio della storia, in particolare quella del Risorgimento italiano, è venuto meno. La sua cornucopia era già piena di saggi ed articoli; aveva appena prodotto il suo ultimo libro sulla “Italianità negata”, edito proprio in questi giorni da Hoepli e di questo ne avremmo discusso in una videointervista. Il suo fervore sereno e determinato traspariva in ogni conversazione. Il rimpianto di non essere riusciti ad apprezzare pienamente le sue qualità è forte. Un affettuoso saluto alla moglie e ai suoi due giovani figli. Di rimpianti devono averne molto più profondi; certamente non mancherà loro la forza di superare il dolore. Marco deve aver lasciato tanto di sé da mantenere comunque la sua presenza e vicinanza. Giuseppe Germinario
COME, ATTRAVERSO LA SUA PRESENZA IN LIBIA, LA TURCHIA RICATTA L’UE, di Bernard Lugan
Il conflitto ucraino e la politica sanzionatoria imposta dagli Stati Uniti alla Russia hanno accresciuto enormemente l’importanza e la competizione dei paesi, in particolare quelli europei e in primis l’Italia, nell’area sud-orientale del Mediterraneo. Una regione già di per sé altamente instabile. Ad un accresciuto interesse, corrisponde però un drammatico ridimensionamento del peso geopolitico di Francia, Spagna, Grecia e Italia e l’intenzione della attuale leadership statunitense di accontentare e ricondurre in qualche modo le ambizioni turche e di fare dell’Ucraina e di alcuni paesi dell’Europa Orientale i veri pivot, anche energetici, in grado di controllare e condizionare pesantemente eventuali ambizioni autonome della Germania e della Francia. L’Italia è come non data, irrilevante. La Nuland, potente e famigerata sottosegretaria agli esteri americana, ha infatti più volte affermato che si deve semplicemente arrangiare. L’ennesimo scorno per chi, come l’ENI, è stata protagonista delle ricerche di giacimenti in quell’area. Ma forse anche persino l’ENI volge uno sguardo sempre più distratto verso il nostro paese. Buona lettura, Giuseppe Germinario
Certamente non rimprovereremo al Presidente Erdogan di aver difeso gli interessi nazionali del suo Paese, ma gli ectoplasmi dell’UE per essersi piegati alla sua politica.
Per l’UE l’unica seria alternativa al gas russo è quella offerta dal gigantesco giacimento situato nelle acque territoriali di Egitto, Gaza, Israele, Libano, Siria e Cipro (vedi mappa a pagina 9). Riserve di 50 trilioni di m3, o ¼ dei 200 trilioni di m3 stimati di riserve mondiali, più riserve di petrolio stimate in 1,7 miliardi di barili. Tuttavia, è attraverso il gasdotto EastMed che devono avvenire le future esportazioni verso l’Italia e l’intera Ue. Ma, dal 1974, la Turchia, che occupa militarmente e illegalmente la parte settentrionale dell’isola di Cipro, afferma di fatto di avere dei “diritti” territoriali su questo giacimento di gas. Per essere riconosciuta, Ankara blocca il progetto EastMed ricattando l’UE. Per “facilitare” la “riflessione” degli europei, la Turchia ha preso un solido impegno in Libia. Torna indietro. Il 7 novembre 2019, messo alle strette militarmente a Tripoli dalle forze del maresciallo Haftar, il governo di unità nazionale (GUN) guidato da Fayez el-Sarraj, ha chiesto alla Turchia di intervenire per salvarla. Il presidente Erdogan ha accettato in cambio della firma di un accordo marittimo che gli permettesse di ampliare l’area della sua area di sovranità, tagliando la zona economica marittima esclusiva (ZEE) della Grecia situata tra Creta e Cipro, proprio dove deve passare il futuro gasdotto EastMed. Questo accordo, che quindi traccia artificialmente e illegalmente un confine marittimo turco-libico nel mezzo del Mediterraneo, consente alla Turchia di tagliare l’asse del gasdotto EastMed da Cipro poiché quest’ultimo passerà attraverso acque divenute unilateralmente turche. Il presidente Erdogan sa benissimo che questo accordo viola la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), ma la Turchia, il cui obiettivo è l’ampliamento del proprio spazio marittimo, non l’ha firmato, quindi ha potuto affermare che qualsiasi futuro gasdotto o gasdotto richiederà ora un accordo turco. Il 17 dicembre 2019 l’Egitto ha reagito all’accordo turco-pistola con la voce del maresciallo Sisi che ha dichiarato che la crisi libica era una questione di “sicurezza nazionale egiziana”. Essendo economicamente in una situazione disastrosa, l’Egitto, che conta sull’inizio della costruzione del gasdotto verso l’Europa, non può infatti tollerare che questo progetto, per esso vitale, venga messo in discussione dall’annessione marittima della Turchia. Quanto agli europei, a parte le loro solite affermazioni relative al crawling semantico, le loro proteste erano solo circostanziali. C’è da dire che all’epoca il gas russo si stava riversando nell’UE e che lì sarebbe stato versato ancora di più grazie ai gasdotti del Nord Europa… Ma, da allora, in Ucraina è scoppiata la guerra e, dato la “crociata democratica” decisa contro Mosca e le sanzioni contro la Russia, è facile capire che l’Ue ora farà di tutto per accelerare la messa in servizio del gasdotto EastMed, e questo, a costo della capitolazione alle richieste turche. La guerra in Ucraina ha infatti “aperto il gioco”, consentendo alla Turchia di scommettere su tutti i fronti contemporaneamente: – Mantiene buoni rapporti con la Russia, che le fornisce il 60% del proprio fabbisogno di gas e alla quale è legata da un partnership instaurata attraverso il gasdotto Turkstream che, attraverso il Mar Nero, aggira l’Ucraina. Pur sapendo che geopoliticamente, un giorno o l’altro scoppierà una grave crisi tra i due paesi del Mar Nero…
– Sa che, presi per la gola dalle proprie sanzioni, gli europei faranno di tutto per mettere in servizio il gasdotto EastMed. Ma, per questo, la Turchia dovrà avere la sua “quota” nello sfruttamento del giacimento del Mediterraneo orientale. Ciò avverrà a costo del riconoscimento, in forma diretta o indiretta, dell’annessione della parte settentrionale di Cipro da parte della Turchia? Ciò sarebbe singolare in un momento in cui una vera guerra è stata lanciata contro una Russia che cerca di recuperare il Donbass, la vecchia terra russa staccata artificialmente dalla madrepatria dai bolscevichi per indebolire il peso nazionale russo all’interno dell’URSS (Unione dei Soviet Repubbliche Socialiste)… In una UE senza memoria e senza spina dorsale, tutto è davvero possibile…