WEINSTEIN, CLINTON! LE SUPERNOVA DELLO STARSYSTEM AMERICANO, di Gianfranco Campa

Lo avevamo già, più volte annunciato. Tra i tanti qui a fianco due link http://italiaeilmondo.com/2017/10/22/un-torrido-inverno-di-giuseppe-germinario/

http://italiaeilmondo.com/2017/09/15/755/

Le impalcature dell’attuale sistema di potere americano iniziano a vacillare pericolosamente. La produzione cinematografica americana è uno dei veicoli fondamentali nella costruzione dell’immaginario; indispensabile a fornire una rappresentazione, indispensabile a orientare e a offrire motivi e chiavi di interpretazione alle azioni degli individui e guida e orientamento necessari a plasmare la società alle élites. E’ il modello americano! La cinematografia americana è un pilastro fondamentale della egemonia culturale e politica di quel paese. Nei momenti di crisi acuta ha spesso accentuato il proprio carattere propagandistico, ma ha sempre saputo offrire scorci sottili e di impressionante realismo e veridicità dei pregi, dei difetti e delle crudeltà della società, in particolare la loro. Da alcuni anni, però, si è legata in larga parte, quasi soffocata, ad una frazione precisa e particolare dell’establishment, quello democratico, sposando appieno l’ipocrisia del “politicamente corretto”. Ne ha guadagnato in posizioni di potere, ma ne ha perso pesantemente in credibilità agli occhi di gran parte dello stesso pubblico americano. Da qui, una delle cause del crollo degli incassi e dell’affluenza di pubblico. Da qui, soprattutto, il diretto coinvolgimento nei conflitti tra fazioni politiche e la sovraesposizione, in quanto personaggi pubblici particolarmente in vista, alle gogne politiche e mediatiche tipiche delle fasi di transizione sino a diventare, ormai, vittime sacrificali. Gianfranco Campa ci illustra, ancora una volta, con sagacia e dovizia di particolari, queste dinamiche. Una voce rara, pressoché unica, nello stantio salotto politico italico, della quale si dovrebbe saper approfittare. Buon ascolto, qui sotto_Giuseppe Germinario

QUALE EUROPA?, a cura di Giuseppe Germinario

I redattori di “Italia e il mondo” intendono avviare un dibattito sull’Unione Europea, sulle attuali modalità di costruzione delle relazioni tra gli stati e le realtà istituzionali del continente e sulla possibilità di costruzioni politiche alternative più confacenti ad una politica più autonoma e indipendente rispetto all’attuale condizione di sudditanza e rese sempre più necessarie dall’evidente processo di relazioni multipolari ormai in corso. Alla vivace polemica in corso ormai da anni, paradossalmente, non corrisponde una adeguata produzione di elaborazioni e documenti più puntuali e riflessivi, propedeutici al sostegno di linee politiche più chiare e coerenti. Segno evidente dei ritardi, degli impacci e delle approssimazioni nei quali è impelagata la quasi totalità delle classi dirigenti europee, sia quelle imperanti sia quelle con pretese di alterità.

Qui sotto i link di due primi documenti individuati le cui tesi, ovviamente, non corrispondono necessariamente al pensiero dei redattori del sito:

https://thetrueeurope.eu/uneuropa-in-cui-possiamo-credere/

https://www.forum2000.cz/en/coalition-for-democratic-renewal-2017-event-coalition-for-democratic-renewal

Seguiranno nell’immediato le prime riflessioni

 

DALLE PRIMAVERE AGLI INVERNI DI SOROS. SARANNO CALDI, MOLTO CALDI di Giuseppe Germinario

UN TORRIDO INVERNO

Questo insolito tepore ottobrino, così siccitoso, lascia presagire un torrido ed infuocato inverno.

Dal punto di vista meteorologico potrebbe essere una previsione troppo azzardata; previsioni del tempo attendibili riescono a coprire un arco di tempo ancora troppo breve, di pochi giorni.

È la temperatura politica del pianeta, in particolare negli Stati Uniti e in Europa, che pare surriscaldarsi sino a sfiorare pericolosamente il punto critico di formazione di tempeste distruttive e roghi devastanti.

Provo a collegare, più o meno avventurosamente, quattro episodi apparentemente avulsi tra essi.

  1. Il discorso di Trump all’ONU_ Il 19 Settembre scorso Trump ha pronunciato il suo primo e per ora unico discorso all’ONU. Sul sito ne abbiamo già parlato con dovizia http://italiaeilmondo.com/2017/09/24/httpssoundcloud-comuser-159708855podcast-episode-13/

http://italiaeilmondo.com/2017/09/27/massimo-morigi-a-proposito-del-podcast-episode-13_-lo-smarrimento-dei-vincitori-di-gianfranco-campa/  ; allo stato attuale, potremmo arricchire e corroborare le nostre valutazioni con una ulteriore supposizione. Quel discorso così apparentemente contraddittorio e paradossale potrebbe essere in realtà un tentativo particolarmente sofisticato e pericoloso di mettere a nudo le debolezze, l’inconcludenza e l’avventurismo delle strategie di quello staff militare dal quale è ormai circondato e che sta cercando di erigere una vera e propria barriera in grado di filtrare rigorosamente i contatti del presidente americano. Sembra voler dire: “volete lo scontro con la Russia e la Cina, l’Iran e la Corea del Nord? Ve lo offro su un piatto d’argento e vediamo se avete la reale intenzione e capacità di portarlo avanti, con quali rischi e a che prezzo!”

Il recente viaggio degli esponenti del ramo prevalente dei Saud, dei regnanti quindi dell’Arabia Saudita, in Russia può essere d’altro canto letto non solo come un sussulto di autonomia di quella classe dirigente di fronte allo stallo della politica di destabilizzazione in Medio Oriente e al recupero di autorevolezza della Russia di Putin; ma anche come una sorta di diplomazia parallela e per interposta persona che le forze fautrici dell’avvento di Trump alla Presidenza Americana continuano a portare avanti. Le aperture ben più esplicite dei generali egiziani alla Russia da una parte e i contatti di Bannon, il mentore ufficialmente disconosciuto e reietto, in realtà ancora costantemente e discretamente consultato dal Presidente, con la dirigenza cinese sembrano confermare l’esistenza di questi doppi canali di comunicazioni e di relazioni.

  1. Lo scandalo a sfondo sessuale del produttore cinematografico americano Weinstein e le rivelazioni di wikileaks sul traffico di uranio con la Russia alimentato da personaggi politici di spicco del Partito Democratico americano hanno una cosa essenziale in comune. Entrambi colpiscono al cuore gli esponenti più importanti e decisivi della coorte che ha sostenuto e determinato in questi decenni l’ascesa e il consolidamento dell’affermazione del sodalizio tra neoconservatori e democratici americani. Più che i danni materiali e i vizi privati sbandierati sui media, risalta l’irrimediabile deterioramento di immagine e di credibilità del costrutto ideologico e mediatico sul quale si sono fondati trenta anni di politica estera e di gestione interna di quel paese.

Gli uni assestano un colpo tremendo all’ipocrisia disgustosa del politicamente corretto tanto fervido ed accorato nell’ostentare le pubbliche virtù e la coerenza del rispetto della dignità umana, quanto certosino nel coltivare nel privato della persona e nei canali riservati delle relazioni politiche i soprusi, le sopraffazioni, le meschinerie, i mercimoni più interessati.

Gli altri rivelano le relazioni e gli interessi inconfessabili di una classe dirigente così apertamente ostile alla formazione di un mondo multipolare, la quale ha individuato nella Russia di Putin il nemico acerrimo della pacificazione unipolare e globalistica, salvo intrattenere con settori di essa gli affari e i commerci più loschi. Le vittime sacrificali predestinate appaiono il produttore Weinstein e il politico Podesta, ma il capro espiatorio finale appare ben più emblematico.

  1. L’Open Society di Soros si è vista rimpolpare in breve tempo il proprio salvadanaio di ben 18.000.000.000 (diciotto miliardi) di dollari.gentiloni-soros Una cifra stratosferica in grado di impressionare manipolatori persino particolarmente adusi e avvezzi al denaro come Soros, in grado di muovere eserciti, bande armate, contestatori, manifestanti e Pussy Riot di mezzo mondo. Sino ad ora il nostro paladino delle libertà e del soccorso umanitario ha utilizzato un doppio metro di comportamento al centro e alla periferia dell’Impero, nonché nei confronti dei riottosi più ostinati esterni ad esso. Apertamente violento e destabilizzatore ai margini; più cauto e pervasivo, più suadente man mano che le trame riguardavano la geografia prossima al centro dei poteri. Qualcosa, evidentemente, comincia a cambiare in questa strategia in maniera assolutamente radicale. Come non bastasse saltano nuovamente alla ribalta organizzazioni, quasi sempre legate al filantropo e beneficiarie dei più disparati finanziamenti pubblici e privati, spesso concessi dagli stessi rappresentanti delle vittime delle loro azioni; tutte dedite, con solerzia e qualche dose inevitabile massiccia di stupidità ed ottusità, alla compilazione di liste di prescrizione foriere di una prossima caccia all’untore. Tra queste brilla ultimamente, secondo RT, https://www.rt.com/news/407347-rt-guests-list-ngo/ , l’associazione http://www.europeanvalues.net/ ,con questo documento http://www.europeanvalues.net/wp-content/uploads/2017/09/Overview-of-RTs-Editorial-Strategy-and-Evidence-of-Impact.pdf e secondo questo interessante documento fondativo, corredato da un elenco dei finanziatori sorprendente, ma non troppo http://www.europeanvalues.net/wp-content/uploads/2013/02/VZ2015_ENG_FIN.pdf L’analogia con la caccia alle streghe del Maccarthismo degli anni ’50 è inquietante. A ruoli invertiti, è probabile che le squadracce che vediamo infiltrate nelle manifestazioni di strada antisistema, prointegrazione e via dicendo, diventino lo strumento di giustizia sommaria e di fomentazione provocatoria di questi filantropi.
  2. L’investimento mortale a Charlottesville, in Virginia, di due mesi fa,riviera24-luca-botti-strage-los-angeles-390786 la drammatica strage del cecchino (dei cecchini?) a Las Vegas di due settimane fa, ancora coperta da una fitta e misteriosa coltre di nebbia da cui emergono i sussurri più inquietanti; il tentativo di secessione in Catalogna e lo stesso referendum nel quadrilatero lombardo-veneto annunciano alcune variazioni essenziali sul tema della strategia del caos perpetrata in questi ultimi anni. Le modalità di svolgimento di questi eventi apparentemente sconnessi lasciano sospettare, rispettivamente, a volte una vera e propria provocazione, altre volte una istigazione, altre ancora una manipolazione e per finire una capacità di cogliere opportunità. Non si tratta, quindi, semplicemente, di un complotto ordito a tavolino sin nei particolari; troppo semplicistico! Quanto, piuttosto, di sfruttamento di opportunità create e utilizzate in un contesto di crescente instabilità e di emersione di nuove forze antagoniste, spesso confuse e contraddittorie. Un terreno, tra l’altro, sul quale diventa particolarmente difficile ed insidioso l’intervento politico di forze sovraniste, specie quelle più sensibili alla suggestione della democrazia dal basso e della superiorità dei progetti autonomistici e localistici.

La “strategia del caos” che sino ad ora ha interessato i paesi riottosi al predominio unipolare, in particolare la Russia, ha investito le zone di confine e di contesa ai margini dell’impero, come il Nord-Africa, il Medio Oriente, in parte il Sud-Est Asiatico, l’estremità dell’Europa Orientale pare investire sempre più da vicino i luoghi e la geografia centrale dei centri di potere e delle formazioni sociali connesse attorno secondo gli stessi propositi degli attori-mestatori.

È il segno che lo scontro politico sta investendo direttamente questi centri di potere, piuttosto che essere condotto da essi per interposte persone; li sta costringendo ad un confronto diretto sempre più aspro e risolutivo.

Richiederà il sacrificio di alcuni illustri capri espiatori, alcuni dei quali particolarmente in auge nell’immediato passato.

Nel Partito Repubblicano neoconservatore abbiamo visto cadere qualche testa illustre, ma ancora senza particolare crudeltà.

Nel Partito Democratico americano, la ricomposizione che si sta tentando con buone probabilità di successo tra la componente pragmatica vicina ad Obama e la componente social-radicale prossima a Sanders, il candidato sconfitto da Hillary Clinton alle primarie, in parte lui stesso nominalmente esterno al partito, ma generosamente ricompensato con una buona presa e radicata presenza all’interno di esso, richiederà probabilmente il sacrificio ben più sanguinoso di una intera dinastia politica: quella dei Clinton. Sanguinosa riguardo al futuro delle carriere politiche, ma anche a quello degli averi e della sicurezza economica del sodalizio.

La figura che più si potrebbe attagliare a quella di Hillary Clinton, potrebbe essere metaforicamente proprio quella di Maria Antonietta, vittima predestinata della Rivoluzione Francese.

La signora Rodham Hillary C. si presenta come il capro espiatorio perfetto sul capo riverso della quale costruire le fortune di una nuova classe dirigente ansiosa di liquidare al più presto l’attuale mina vagante dello scenario politico americano: Donald Trump. Una classe dirigente ancora in grado di controllare la quasi totalità delle leve di potere e di controllo e di legarsi ai settori tecnologicamente più vivaci, ma sino ad ora incapace di dare un respiro strategico alla propria iniziativa che riesca a garantire una sufficiente coesione della formazione sociale americana e a coinvolgere in una nuova versione del sogno, buona parte del resto del mondo. Il cumularsi di errori grossolani e di una gretta difesa degli interessi di costoro e la boria legata ad un inguaribile senso di superiorità rischiano di far precipitare quel paese in una crisi analoga a quella che ha prodotto la guerra di secessione di metà ‘800, ma dagli effetti ancora più distruttivi piuttosto che creativi in un contesto di potenza declinante. Non solo, ma di lasciare i propri orfani e sodali disseminati nel mondo, soli ed esposti ad affrontare con scarso sostegno le intemperie e a cercare col tempo nuovi ripari, più per se stessi che per il gregge da accudire, come ogni buon Gattopardo o Generale Badoglio che si comandi.

 La forza e la possibile sopravvivenza delle componenti che hanno espresso Trump risiede proprio nella debolezza strategica dei suoi avversari, piuttosto che nella solidità dei propri mezzi.

Su questo “Italia e il Mondo” cercherà di concentrare la propria attenzione e le proprie scarse energie sin dai prossimi articoli con lo scopo di individuare le opportunità e gli spazi di formazione di una nuova classe dirigente così necessaria a questo nostro “pauvre pays”.

DAL NOSTRO INDIGNATO SPECIALE, di Giuseppe Germinario (scritto il 18/10/2011)

Qui Nuova Yorke! Così annunciava i propri servizi televisivi Ruggero Orlando, il primo corrispondente della RAI negli Stati Uniti. Non so se, effettivamente, le trasmissioni giungessero da oltreatlantico o fossero costruite,con uno scenario artefatto alle spalle del cronista, in gran parte nei più economici studi romani.

Se sono riusciti a riprodurre la battaglia di Tripoli in Qatar, ad uso e consumo della disinformazione e del morale dei combattenti sul posto, figuriamoci con che facilità, pur con i minori mezzi di allora, si riesca a simulare la presenza sul campo degli intrepidi corrispondenti.

Si sa come buona parte degli affanni in diretta dei cronisti, compresi quelli di guerra, siano dovuti alle arrampicate sulle scale di casa propria piuttosto che alle concitazioni e ai rischi di resoconti testimoniali sul posto propri dei classici giornalisti di inchiesta.

Il caso di “occupy Wall Street” rende superfluo ogni dubbio e rende perfettamente superflua anche ogni trasferta, per altro costosa, dei professionisti della verità.

Partito da Madrid, il movimento ha realizzato la maggior evidenza mediatica quando si è insediato in piazza Zuccotti, nei pressi di Wall Street; pare, tuttavia, clonato nelle caratteristiche di fondo.

Con l’eccezione della manifestazione di sabato scorso a Roma, l’adesione di massa a tale movimento è inversamente proporzionale al risalto mediatico garantito dai mass media, quasi a volerne forzare l’esistenza ed il successo in una sorta di accanimento terapeutico.

Di Onda in Onda, l’energia che li muove è, ormai, in via di esaurimento. È come la marea dei piccoli mari chiusi, come l’Adriatico che con i suoi flebili movimenti muove i mille detriti e gli avannotti sino a far intravedere o sfiorare, a questi soggetti passivi, la riva senza mai raggiungerla, due metri avanti e due indietro; non ha la forza di rovesciare sulla riva il prodotto del proprio ventre, in attesa rassegnata della inesorabile risacca che li riporti in alto mare in balia dei pesci più grossi e del caso.

Quanto più, negli anni che procedono, le idee e le rivendicazioni si dissolvono nella nebulosa di bisogni generici, tanto più il rituale si ripete più stancamente e, nella fase crepuscolare, vede apparire, a movimentare la scena, i personaggi più equivoci e le azioni più nichiliste, odiose e distruttive le quali, nel migliore dei casi riescono a prendersela con i totem, nemmeno con i sacerdoti che li hanno fabbricati; in altre parole, il più implicito ed efficace riconoscimento della religione dominante, proprio da parte dei presunti detrattori più viscerali.

Così vediamo sfilare sul palco di Zuccotti Park dispensatori delle peggiori banalità; sulla stampa personaggi, da Obama a Krugman, predisposti alla massima comprensione ma con un minimo di distinzione dei ruoli; per arrivaread Assange e a Draghi, il quale ultimo si dice arrabbiato quanto gli indignati.

Dal conflitto soggettivo di Kramer contro Kramer dei primi due alla sintesi teologica assoluta e perfetta, al mistero del Dio uno e trino impersonificato dal quarto, già massimo dirigente di Goldman & Sachs, poi controllore di quest’ultima nei panni di direttore di Banca d’Italia e BCE ed ora aspirante indignato. Un emulo del Supremo per il quale tempo e spazio non hanno significato.

Non so se tale perfezione sia legata all’abilità del personaggio o alla costrizione dovuta alla scarsezza di attori in grado di rappresentare i vari ruoli sul palcoscenico; propenderei per la seconda ipotesi, vista la facilità con cui le vicende politiche dell’ultimo ventennio hanno di fatto divorato tanti astri nascenti e vecchie volpi.

Sta di fatto che a Zuccotti Park, come altrove, prima si raccolgono le truppe, le si muove e poi si bandisce un’asta dove elencare le rivendicazioni e i beni da reclamare, nonché le prescrizioni da rispettare.

La cornucopia rischia di essere addirittura insufficiente visto che le rivendicazioni dovrebbero soddisfare il 99% della popolazione defraudata dal restante 1%; potrebbe addirittura trasformarsi in un vaso di pandora e seminare tra i questuanti la zizzania ancor prima di stabilire le priorità nell’elenco, pardon nel cahier de doléance del terzo stato al sovrano assoluto.

È la percentualizzazione inconsapevole della previsione di Marx di una moltitudine immensa sfruttata parassitariamente dalla quota restante infima della popolazione, con l’aggravante, rispetto allo scienziato, di considerare l’aspetto distributivo piuttosto che i rapporti di produzione.

A meno di un mese dall’apparizione, l’elenco di richieste e prescrizioni è già impressionante e sorprendente, alcune accettabili, altre decisamente reazionarie e velleitarie; si va dalle energie alternative, al consumo locale, alla sanità e istruzione garantita, al posto di lavoro garantito secondo aspirazioni e livello di istruzione, alla finanza gestita localmente, all’incentivazione della cooperazione, alla redistribuzione della terra.

Le prescrizioni riguardano una precisa gerarchia delle retribuzioni, per altro quantificate, secondo il ruolo assolto nella società, a cominciare da quello privilegiato dell’insegnante, l’abolizione dell’esercito e dell’industria militare, della finanza speculativa; curiosamente, ma forse non casualmente, si chiede la messa in stato di accusa della precedente amministrazione del guerrafondaio Bush per le sue due guerre e la legislazione speciale che ne è derivata, omettendo la richiesta a carico del pacifista Obama, per le sue cinque guerre dichiarate e le innumerevoli sotto copertura attualmente in corso.

Tutto questo, comunque, compreso il folklore, è una caratteristica comune alle onde e ai movimenti di questi ultimi venti anni; come è comune la chiave interpretativa degli eventi legata al predominio del potere economico su quello politico, al dominio e all’asservimento del pianeta alle mire della finanza e delle multinazionali e alla certezza di distruzione del nostro pianeta legata a questo dominio.

Tralascio le implicazioni di tale impostazione, più volte sottolineate dal blog e che impediscono di individuare la natura reale e complessa dei conflitti tra gruppi strategici e stati, il ruolo che in essa hanno i blocchi sociali e le cosiddette masse.

Quello che mi preme sottolineare è l’accentuazione del valore etico e morale delle scelte di quel movimento sino a spingersi alla valutazione della moralità delle persone e all’eticità dei comportamenti, compresa quella dei genitori verso i figli.

Non penso siano i diretti successori ed esegeti degli anabattisti tragicamente isolatisi, nel loro folle rigore e massacrati a Muenster; avendo minori pretese, la conseguenza sarà l’infiltrazione dei peggiori moralisti e demagoghi pronti a distinguere tra mercato corretto e distorto, tra finanza globale e locale e tra politici politicamente corretti e corsari.

Il richiamo alle primavere arabe, la comprensione esercitata da pulpiti i più sorprendenti, le condanne a senso unico dei guerrafondai inducono a pensare che questo movimento non rischia di essere infiltrato e deviato, ma parte già tarato e compromesso; in gran parte i componenti rappresentano la successione di quella parte di ceto medio oggetto di drastico ridimensionamento ed incapace di garantire ai figli un’analoga posizione sociale se non riproponendo una impossibile forma parassitaria ed assistenziale cui si va ad aggiungere una buona parte di ceto medio produttivo in crisi, soprattutto, per il declino di potenza ed economico di numerosi paesi.

La rivendicazione generica di istruzione rappresenta, forse, l’elemento emblematico di questa caratteristica.

Le capacità metamorfiche di queste onde periodiche permettono di inglobare anche singoli aspetti e obbiettivi dei movimenti sovranisti (gestione del debito, sovranità monetaria corrispondente alla sovranità statale) e renderle sfuggenti e oggetto di critica necessaria e sempre aggiornata; la loro fedeltà dichiarata ai principi costitutivi delle varie formazioni (vedi il preambolo del manifesto di “occupy Wall Street”) indica chiaramente la totale subalternità di questo movimento, non al Sistema, ma a singole componenti di esso.

Gli stessi bonari suggeritori, a cominciare da quel filantropo di George Soros, sono gli stessi agenti profittatori della speculazione che spingono, adesso, per un controllo pubblico e per vincoli rigidi delle banche la natura e finalità dei quali è tutta da verificare. Anche su questo riescono a raccogliere miracolosamente il consenso unanime di statisti, o presunti tali e movimentisti folgorati dalla lungimiranza e apertura democratica delle loro fondazioni culturali, compresa quella propinata sulle ali dei cacciabombardieri umanitari.

Tra i primi, da rilevare la sagacia e le capacità preveggenti di D’Alema, presidente del COPASIR, il quale, non più di tre mesi fa, auspicava e preconizzava una ripresa dei movimenti capaci di una spallata risolutiva contro il Governo.

Il futuro immediato, compresa la stesura definitiva del programma, sarà rivelatore dei fini e della composizione di questa ultima vague; quello che è certo, è l’apparente spontaneità di tutto questo; cosa che, il più delle volte, viene confusa con la facile e disordinata ricettività dei messaggi in determinati ambienti, sia in quelli apertamente nichilisti che in quelli più composti.

Questo vale soprattutto per quei paesi destinati a pagare maggiormente il peso del loro degrado e della loro subordinazione, in primo luogo l’Italia.

Il successo di questo tipo di manifestazioni – l’Italia, in questo, pare detenere il primato – è direttamente proporzionale all’ambiguità o inesistenza di programmi e alla quantità di illusioni in omaggio per coprire le peggiori svendite. Il solito modo per raccogliere gli scontenti dietro il carro dei loro benefattori e delle loro sanguisughe.

L’ORA X DELLA CATALOGNA, L’ULTIM’ORA DI PUIGDEMONT, di Giuseppe Germinario

Carles Puigdemont ha confermato la dichiarazione di indipendenza della Catalogna ed auspicato una trattativa con il Governo Centrale di Spagna

Raramente accade di una classe dirigente così platealmente votata al suicidio come quella catalana, senza nemmeno l’aura romantica che spesso riveste i predestinati al sacrificio patriottico. Un epilogo tanto tragico quanto farsesco del destino individuale di questi condottieri. Non di tutti, beninteso. I più scaltri e furbi hanno istigato, hanno saputo defilarsi e alcuni arrivano ora a proporsi come mediatori con buone probabilità di qualche riconoscimento istituzionale nel prossimo futuro.

Un gruppo dirigente evidentemente privo di qualsiasi memoria storica. La Catalogna, in epoca moderna, ha conosciuto vari moti indipendentistici conclusisi inesorabilmente tutti più o meno tragicamente nel giro di pochi giorni o mesi.

Privo di cultura istituzionale visto che non solo ha violato apertamente la legge dello Stato centrale, anche se questo è pressoché la norma nei tentativi secessionistici, pur con le recenti eccezioni legate al dissolvimento del blocco sovietico; ha forzato, violato e gestito malamente le procedure della propria istituzione regionale che hanno portato al referendum e alla proclamazione di indipendenza e dirottato apertamente risorse pubbliche a fini privati legati alla promozione mediatica e lobbistica del progetto secessionistico in particolare negli Stati Uniti.

Privo soprattutto di basilare cultura ed accortezza politiche.

Ha con ogni evidenza del tutto sottostimato le implicazioni militari di un tale atto e la capacità reattiva di uno stato e governo centrale lesi in una delle loro prerogative fondamentali. Il recente accordo tra il Governo Centrale e la Regione Basca che riconosce ad essa ulteriore ampia autonomia e addirittura la prerogativa dell’imposizione fiscale deve averli indotti a sopravvalutare gravemente l’indebolimento delle capacità di difesa delle prerogative dello Stato Centrale. Un indebolimento certamente in atto grazie al processo di integrazione militare nella NATO e politico-economico nell’Unione Europea che ne ha accentuato la subordinazione politica e ridotto l’agibilità, ma non ancora del tutto compiuto. La Spagna ha infatti pagato il proprio relativo e fragile sviluppo economico incentrato soprattutto sull’edilizia, sulla creazione di infrastrutture e sul turismo con una cessione significativa del controllo delle proprie attività industriali più importanti; al pari dell’Italia e di altri paesi europei politicamente malconci e a causa di un contesto territoriale determinato dall’esistenza di ben quattro principali grandi nazionalità, ha ceduto maggiormente alle lusinghe europeiste di una regionalizzazione sovrana in grado di agire direttamente con le istituzioni comunitarie, aggirando le prerogative, il coordinamento e gli indirizzi dello stato centrale. Il risultato è la sovrapposizione di una subordinazione storica alla potenza americana a quella franco-tedesca, analoga a quella italiana anche se parzialmente contenuta dai retaggi nazionalistici più pervasivi legati al recente passato franchista.

Ha sorprendentemente glissato sulla indispensabile compattezza quantomeno della popolazione catalana necessaria a sostenere un confronto così aspro e definitivo. Il movimento indipendentista si sta rivelando invece una realtà politica significativa ma minoritaria non solo nell’intera Catalogna, compresa quella non interessata dall’azione referendaria, ma anche nell’epicentro stesso del conflitto, la zona di Barcellona.

Riguardo all’indispensabile sostegno internazionale necessario a rompere l’isolamento e a trarre energia, aiuto militare e appoggio politico sembra aver ignorato le conseguenze dell’appartenenza della Spagna alla Unione Europea e alla NATO. I legami ed il sostegno internazionale, i quali comunque non mancano, non possono infatti manifestarsi con le stesse modalità che hanno caratterizzato le primavere arabe e i movimenti secessionisti e sovvertitori di questi ultimi anni. La grande novità dell’evento di rottura riguarda proprio la sua collocazione geopolitica; non più ai margini della sfera occidentale e nelle zone di attrito con Russia e Cina, bensì al centro dell’Europa occidentale.

Sul tavolo dei congiurati non potevano certo mancare opzioni più graduali ed avvolgenti che implicassero un’alleanza con le altre comunità nazionali di Spagna, compresa quella della costruzione di uno stato federale ormai resa verosimile e praticabile dal recente accordo già citato con i Paesi Baschi.

Quale nefasta congiunzione astrale ha determinato alla fine l’attuale piega degli eventi?

Certamente hanno assunto un ruolo importante le ambizioni e le rivalità all’interno del gruppo dirigente catalano il quale tenta alla fine di trovare una loro compensazione ed uno loro spazio nella neonata entità statale; ma queste trovano espressione solo nel particolare humus e retroterra alimentatosi nella regione.

Nella Catalogna di questi ultimi anni si è condensato un sodalizio sempre più complice tra un gruppo di politici locali, ben radicati negli interessi della comunità e con una visione megalomane della propria collocazione nel contesto internazionale, e la componente sinistrorsa e movimentista riconducibile a Podemos e Sinistra Unita.

Dei primi va sottolineata la pervicacia con la quale hanno confermato la propria collocazione nella NATO e nella UE, l’ostinazione nella ricerca di un sostegno lobbistico negli ambienti angloamericani, per la verità con ampio dispiego di risorse e scarsi risultati. Apparentemente nulla di anomalo rispetto alla necessaria ricerca di alleanze, sostegno o quantomeno neutralità che tutte le forze irridententistiche, rivoluzionarie portano avanti nella loro azione. I legami professionali e la storia di gran parte di questi dirigenti inducono però a pensare a qualcosa di deleterio.

Dei secondi, in particolare di Podemos, va rilevata con qualche attenzione in più la loro impostazione politica. La formazione di questo gruppo dirigente, in particolare di Pablo Iglesias inizia negli ambienti universitari di Los Angeles, la fucina che ha generato il movimento degli indignati e di Occupy Wall Street  http://italiaeilmondo.com/2017/10/11/dal-nostro-indignato-speciale-di-giuseppe-germinario-scritto-il-18102011/( http://italiaeilmondo.com/2017/10/11/dal-nostro-indignato-speciale-di-giuseppe-germinario-scritto-il-18102011/ )di alcuni anni fa; prosegue con un immersione, non priva di contrasti, nei movimenti culturali latinoamericani che hanno sostenuto le svolte di numerosi regimi di quel continente; si insedia nelle università di Madrid e Barcellona, in particolare negli ambienti accademici, dalle quali partono le spinte organizzative e la formazione del soggetto politico. La quasi totalità dell’impegno si fonda su tecniche di comunicazione basate su un particolare recupero del concetto gramsciano di egemonia; elude il problema del controllo degli strumenti coercitivi e punta sulla manipolazione dei sistemi mediatici, per altro nemmeno controllati direttamente. Si tratta in particolare di imporre un linguaggio e i propri contenuti. Il mondo viene schematicamente diviso tra un 1% di dominanti e un 99% di defraudati; il conflitto deve concentrarsi con azioni di partecipazione dal basso; le rivendicazioni si riducono a mere politiche di diritti e di redistribuzione. In Spagna il successo politico del movimento si basa su una campagna mediatica su scala nazionale e sull’alleanza su base locale con le forze autonomistiche e le varie opposizioni sociali.

Il movimento indipendentista catalano è figlio di queste impostazioni, in linea per altro con i tentativi passati. Fonda la propria azione politica sulla base di colpi di mano e di smaccata manipolazione mediatica degli eventi. Una esasperazione analoga a quella cui stiamo assistendo negli Stati Uniti e che sta minando progressivamente la credibilità degli artefici. La gestione strumentale ed approssimativa del referendum, la montatura della critica verso atti repressivi in realtà alquanto blandi stanno spingendo in un vicolo cieco il gruppo dirigente catalano in una azione puramente simbolica e verbale che potrà trovare alimento, probabilmente, solo in provocazioni sempre più pericolose e strumentali. Non si conoscono le effettive capacità e propensioni del governo catalano a condurre in questa maniera e sino in fondo il gioco; c’è di che dubitarne. Come c’è da dubitare delle solide convinzioni di un popolo indipendentista così lesto a smobilitare la piazza, un minuto dopo le dichiarazioni solenni del Presidente Puigdemontes, non ostante l’ombra minacciosa delle forze lealiste in campo.

La conferma della dichiarazione di indipendenza di oggi al parlamento catalano, con un dilazionamento dei suoi effetti, rappresenta una mossa disperata che non cambierà un destino personale ormai segnato dei responsabili catalani e il declino delle formazioni politiche citate già per altro in corso.

Una debolezza che rischia di spingerli sempre più sotto la protezione e il salvacondotto esterni. Non sono mancati a queste forze gli incoraggiamenti, il sostegno e il supporto dei soliti centri di potere che hanno contribuito a sconvolgere l’intera area mediterranea; nemmeno è mancato il sostegno discreto e qualche incoraggiamento altrettanto discreto di centri presenti nei paesi europei.

È mancato rumorosamente, questa volta, l’aperto e sfrontato supporto diplomatico americano messo all’opera direttamente nelle piazze in Egitto, in Ucraina, in Siria, in Kossovo nel recente passato.

Segno che il fronte non è più così compatto e che il confronto in corso negli Stati Uniti sta lasciando la propria impronta anche in Europa.

Quello in corso in Catalogna rappresenta comunque un test, probabilmente anche una forzatura determinata dalla perdita parziale delle leve di comando, di quanto la politica di destabilizzazione e del caos sia ormai esportabile in Europa. Qualche riflesso visibile lo stiamo vivendo anche in Italia con la vicenda del referendum lombardo-veneto. Friedman tempo fa ci aveva avvertiti. Il suo fallimento indurrà, probabilmente, a riproporre, ma sotto mutate spoglie, quella politica; certamente contribuirà a mettere in crisi e a far piazza pulita di queste sedicenti forze di opposizione perfettamente complementari all’azione degli attuali establishment sino a determinarne l’ulteriore sopravvivenza. Si auspica da più parti il successo di una qualsiasi politica di destabilizzazione, perché potrebbe favorire di per sé la formazione di nuove classi dirigenti più autonome e più sensibili alla costruzione di formazioni sociali più coese ed eque, adatte a sostenere il confronto che sta covando nel mondo. È invece proprio la modalità di svolgimento di questo confronto sia all’interno che tra esse che determina la qualità della formazione dei centri strategici.

Il compito faticoso degli analisti e soprattutto dei pochi politici dediti alla causa è appunto quello di discernere il grano dal loglio piuttosto che dedicarsi alla contemplazione del caos primordiale.

podcast-episode-13_ Lo SMARRIMENTO DEI VINCITORI, di Gianfranco Campa

Può capitare che anche l’uomo politico più ostinato e cinico, ma con ancora qualche residuo anelito di compassione represso nel fondo dell’animo, possa essere indotto ad un moto, magari un semplice cenno, di comprensione e conforto verso il suo più acerrimo avversario. Lo sconforto che ha colto in mondovisione John Kelly, capo di gabinetto presidenziale, proprio nelle fasi più colorite ed impetuose dell’intervento di Trump all’ONU, può spezzare ogni resistenza e senz’altro indurre a questo impulso. Bisognerebbe del resto mettersi, anche se di malavoglia, nei panni dei rappresentanti del vecchio establishment americano, in particolare neocon. Per mesi hanno dovuto metter mano a tutto il proprio arsenale e portare allo scoperto anche gli arnesi più riservati, quelli da esibire più come deterrenza che da mettere all’opera; hanno pregiudicato la credibilità dei mezzi di informazione, della magistratura, dei servizi investigativi e probabilmente di importanti settori delle forze armate, ma alla fine sembrava che fossero finalmente riusciti una volta per tutte ad addomesticare il Presidente riottoso e ad isolarlo dalla congrega di cattivi consiglieri. Ecco invece riemergere senza preavviso il Trump baldanzoso delle origini. E da quale pulpito! Niente meno che dall’assemblea generale dell’ONU; un sinedrio certamente poco produttivo di strategie politiche, ma certamente spettacolare nella funzione di propagazione mediatica e nella costruzione di immagine di un personaggio politico. Durante la sua performance ha rispolverato gran parte del suo repertorio d’antan: “America First”, il Nazionalismo, l’antiglobalismo, l’antimultilateralismo, l’indispensabile funzione dello stato; ha concesso rispetto ed ammirazione agli statisti dediti alla difesa degli interessi nazionali del proprio paese. Con qualche inverosimile acrobazia logica ha sostenuto però la coerenza della propria politica estera e l’incoerenza dei cosiddetti “stati canaglia” e dei loro sostenitori più o meno occulti. Un funambolismo troppo audace anche per i più perspicaci ed aperti interlocutori. La gran cassa dei saccenti, dimentichi delle batoste elettorali, non ha tardato a pontificare sull’inaffidabilità e sull’irrazionalità del Presidente. Faremmo torto alla nostra intelligenza, oltre che a quella di Trump, ad assecondare questa tesi. Gianfranco Campa ci illumina come di consueto sulla ragione principale di questo comportamento, tutt’altro che irrazionale. Trump sa benissimo che il proprio salvacondotto, nell’operazione trasformista ancora in corso, rimane la conservazione di buona parte del consenso del nocciolo duro del proprio elettorato. Il vecchio establishment non vuol capire che strattonature ulteriori rischiano di isolare del tutto Trump e trascinare il paese in un confronto politico interno dalla virulenza paragonabile solo a quella già conosciuta a metà ‘800. Il taglio particolare del discorso, inoltre, è motivato probabilmente da un’altra ragione ancora più imbarazzante; si tratta forse di una volontà manifesta di evidenziare la contraddizione e di chiedere tra le righe comprensione e tregua a quelli che avrebbero dovuto essere i suoi interlocutori privilegiati, primo fra tutti Putin, di una politica estera meno interventista e più condivisa. L’inerzia delle attuali dinamiche geopolitiche rende però pressoché impossibili ulteriori prove d’appello. Lavrov, ciò non ostante, ha dichiarato apertamente che “l’attuale incoerenza della politica estera americana” è la conseguenza delle numerose trappole disseminate dalla vecchia amministrazione Obama ai danni del nuovo presidente. Anche su questo Gianfranco Campa è stato particolarmente lucido in un articolo precedente http://italiaeilmondo.com/2017/03/09/sotto-la-copertura-delle-tenebre-di-gianfranco-campa/  _ Giuseppe Germinario

DEUTSCHLAND ÜBER ALLES?, di Giuseppe Germinario (versione integrale)

trump-merkelI DUE PROTAGONISTI

Di Donald Trump temo che continueremo ancora per mesi se non anni a sorbirci soprattutto i resoconti dettagliati dei suoi difetti o sedicenti tali; dalla maldestra improvvisazione alla ruvidità di modi, dall’affettata eleganza alla volubilità di giudizi, alla rozza ignoranza. Con il nobile intento di salvaguardare l’umanità da questo flagello, i campioni dell’informazione democratica, in particolare il NYT (New York Times) e il WP (Washington Post), dimentichi delle restanti cose del mondo, stanno da tempo concentrando la totalità degli sforzi in questa missione piegando ad essa fatti, realtà e soprattutto deontologia professionale. Con la stessa dedizione, ma con evidente minore fatica, gli innumerevoli corifei dell’informazione europea, pervasi da certezze assolute, non fanno altro che spandere a cuor leggero veline e veleni propinati dai capostipiti. Eppure almeno una caratteristica del Presidente Americano dovrebbe accomunare il giudizio dei pochi fautori e dei tanti detrattori del suo prominente impegno: la capacità di scatenare l’aperto spirito bellicoso anche nelle personalità più prudenti e discrete; tra queste, senza dubbio il Cancelliere tedesco.

Di Angela Merkel, nella vicenda delle intercettazioni americane delle sue conversazioni telefoniche, abbiamo apprezzato la capacità di accettare dal versante amico le peggiori intrusioni e umiliazioni senza alcun pregiudizio dei rapporti, in particolare quelli con Obama e senza apparenti sussulti di orgoglio; nella vicenda del milione di profughi siriani, invece il suo spirito di accoglienza talmente ecumenico da equivocare sulle profferte amorose del branco senza autorizzazione delle interessate, salvo cercare di rifilare con discrezione gran parte degli ospiti ai paesi vicini una volta constatata la loro difficoltà di inserimento e la loro preparazione professionale evidentemente non all’altezza delle aspettative; nella vicenda delle contraffazioni dei dati di emissione degli scarichi delle auto tedesche, abbiamo apprezzato la difesa pur tardiva dello spirito puritano a scapito forse dell’immagine di efficienza del sistema industriale e dei sistemi di controllo tedeschi. Il meglio della sua valenza di amministratrice, almeno sino a pochi mesi fa, è emerso nella vicenda del collasso della Grecia quando con mirabile quadratura è riuscita a conciliare l’aura puritana del rigore contabile con il trasferimento sui bilanci pubblici degli stati europei di gran parte delle esposizioni bancarie tedesche verso quel paese, con il consolidamento dei profitti finanziari delle stesse sul debito restante, con l’acquisizione di buona parte della rete logistica greca e, ciliegina sulla torta, con la vendita a caro prezzo all’esercito ellenico di residuati bellici presenti nei depositi della Bundeswehr. Si sa che le trattative politiche riservano come corollario quasi sempre il lato oscuro della meschinità. Nella graduatoria degli inperturbabili la statista tedesca non detiene certo l’esclusiva, di sicuro è in posizione di ascesa. Tra gli innumerevoli esempi, gli allora Generale Wesley Clark e Segretaria di Stato Madeleine Albright si concessero come bottino della missione umanitaria in Jugoslavja una partecipazione azionaria delle società minerarie del Kosovo; la stessa pletora di funzionari, accademici ed economisti americani e tedeschi accorsi al capezzale della moritura URSS e della nascitura Russia di Boris Eltsin ottenne di scambiare le proprie disinteressate consulenze con una partecipazione attiva al saccheggio di quel paese; per non parlare delle cointeressenze in Ucraina. Anghela, come un re Mida dei nobili principi, è riuscita a trasformare anche la meschinità in rigore risanatorio, sempre però con un profilo dimesso e discreto; da pudico comportamento collaterale a qualità volta al bene pubblico.

UN CONFRONTO PREMATURO

Durante il G7/G20 avviene inopinatamente la sua metamorfosi e la consacrazione da Maria Maddalena del cenacolo europeo ad angelo giustiziere dell’attentatore all’ordine mondiale.

Sono bastati pochi mesi dal gelido saluto al non ancora insediato Presidente Americano, alla imbarazzata visita a Washington per finire con la contrapposizione al G7 per passare da una immagine di capo di governo in verità un po’ dimesso, tutt’al più abile ad agire nell’ombra, a quella di statista orgoglioso in grado di contrapporsi apertamente al neopresidente e, aspetto ben più rilevante, di trasformare la Germania da paese in grado di approfittare in maniera surrettizia delle opportunità della globalizzazione a nazione paladina di questa virtù o in alternativa, secondo le interpretazioni, in grado di contrapporsi, assieme alla Cina, alla prepotenza e all’unilateralismo americano.

Da allora è tutto un fiorire di letteratura e di tesi sul destino manifesto di un paese, inesorabilmente portato a scontrarsi con la nazione egemone; quello che divide i sostenitori riguarda il probabile esito finale dello scontro, ma confronto comunque dovrà essere.

La redazione di Limes, autrice di una per altro pregevole monografia sull’argomento, è la portabandiera più autorevole di questa tesi.

Sono sufficienti pochi atti politici pubblici, concentrati in poche settimane, in aggiunta magari al proposito proclamato di costruzione di un sistema diplomatico e di difesa europei autonomo dagli USA, per promuovere l’attendibilità di una svolta politica così straordinaria?

Già la dinamica e la successione dei recenti eventi da adito a parecchi dubbi.

Intanto il tampinamento postpresidenziale di Obama e l’accoglienza trionfale a lui riservata a Berlino, all’esponente quindi che, assieme a Hillary Clinton, suo successore designato, ha cercato ostinatamente di arginare la tendenza al multipolarismo e di destrutturare gli stati viziati da proprie ambizioni autonome, svelano i legami inestricabili di dipendenza e compromissione con il vecchio establishment nonché le aspettative di ripristino dello “statu quo ante” del cancelliere tedesco. Il veemente appello alla crociata in difesa dell’accordo sul clima di Parigi e del libero mercato globalizzato sventolato al G7 di Taormina, ha mostrato per altro subito la corda al G20 di appena due mesi dopo lasciando in mano alla Merkel un vessillo ridotto ad un cerino consunto con alle spalle truppe scarse e poco convinte a difenderlo. Si potrebbe interpretare come un modo spregiudicato di condurre una danza del quale si possiede il filo conduttore della musica. Più che una condottiera dotata di forza propria in realtà si è rivelata lo strumento di uno schema più grande e complesso giocato per lo più Oltreatlantico. Lo stesso pulpito si è rivelato poco attendibile vista la recente propensione della Germania a limitare le acquisizioni cinesi in Europa rivelando così una evidenza chiara ancora a pochi eletti: il confronto sul libero mercato è una battaglia per determinare regole commerciali più favorevoli ad una o l’altra delle formazioni socieconomiche e ai loro centri dominanti all’interno di logiche geopolitiche operanti all’interno ma non riducibili ad un mero o assolutamente prevalente confronto economico. Una riduttivismo invece che ancora prevale oppure tende a riaffiorare surrettiziamente in gran parte delle tesi, anche nella monografia di Limes.

UN APPROCCIO EVENEMENZIALE

L’approccio evenemenziale presente in gran parte degli studi e soprattutto nella divulgazione mediatica tende a focalizzare e spettacolarizzare un particolare duello a discapito degli altri e dello sguardo d’insieme. Il tentativo stesso di Trump di reimpostare in maniera bilaterale i rapporti e le relazioni tra gli stati può indurre ad accentuare tale interpretazione particolaristica. Un tentativo che se inteso come strategia può trascinare alla rovina gli Stati Uniti e favorire uno sviluppo caotico e gravido di incognite del multipolarismo, ma con qualche possibilità in più, per le potenze intermedie, di assumere una propria peculiare fisionomia. In realtà l’adozione del modello di relazioni bilaterali è del tutto irrealistico e fuorviante perché prescinde dal naturale gioco di alleanze che si dipana nel conflitto politico e il cui successo presuppone proprio ciò che l’attuale svolta politica sta sentenziando inappellabilmente: l’inesistenza di un centro dominante indiscusso. Esso conduce in pratica alla stessa sterilità di chiavi interpretative del concetto di globalizzazione fondato sul movimento atomistico dei singoli agenti sul mercato e sul declino inesorabile del ruolo degli stati nazionali. Se adottato altrimenti come espediente tattico, come da probabile intendimento di Trump, può servire ad una destrutturazione del sistema attuale di relazioni in vista di una ricostruzione più controllata delle sfere di influenza, ma a determinate condizioni: che gli attori in grado di condurre il gioco siano limitati, che riconoscano una reciproca legittimazione e che abbiano un’idea sufficientemente precisa della delimitazione delle sfere di influenza. In un modo o nell’altro si tratta di un processo ormai irreversibile rispetto al quale la classe dirigente dominante tedesca sembra molto più temere le incognite ed apprezzare le attuali rendite di posizione che cogliere le incerte opportunità.

Profetizzare, come prevede la redazione di Limes, uno scontro aperto tra Stati Uniti e Germania pare quantomeno prematuro se non azzardato. E infatti, ad eccezione dei contributi esterni in realtà molto più cauti, gli articoli dei redattori suffragano la tesi sulla base di stereotipi ormai consunti.

Da una parte cerca di fondare l’ineluttabilità del conflitto sulla base dell’incompatibilità tra le due culture. In realtà la storia offre innumerevoli esempi di conflitti atroci e di durature alleanze tra paesi e centri strategici dalle culture difficilmente compatibili. Gli stessi Stati Uniti hanno combattuto almeno tre guerre aperte con il paese a loro culturalmente più affine, il Regno Unito. Negli Stati Uniti, lo rivela la stessa rivista, la componente più numerosa è appunto quella di origine tedesca e la sua cultura ha impregnato pervasivamente la formazione politica e sociale americana, pur affermando in esse una scarsa capacità lobbistica. Paradossalmente, secondo i redattori, una stessa identità culturale avrebbe quindi contribuito decisivamente a determinare la costruzione di una nazione e della sua classe dirigente e nel contempo l’ineluttabile conflitto con il paese di origine di quel ceppo, costituitosi in stato nazionale. Una tesi, quindi, fuorviante, versione edulcorata del più famoso ed altisonante conflitto di civiltà teorizzato da Huntington.

Dall’altra cerca di spiegare la dinamica inesorabile di questo conflitto attraverso il confronto asimmetrico tra il peso e la forza economica crescente del paese europeo e la pervasività e la forza politica di quello americano. Una dinamica che tenta di spiegare non solo le modalità del conflitto tra i due paesi ma anche la natura del dilemma che dovranno risolvere le classi dirigenti degli altri paesi, in particolare quello dell’Italia, di fronte alla alternativa posta della alleanza strategica con uno o l’altro dei contendenti. Un confronto quindi tra il peso militare, la capacità diplomatica e la pervasività dei servizi di intelligence da una parte e la solidità finanziaria, la capacità produttiva e la potenza commerciale dall’altra.

Una chiave esplicativa più sofisticata della prima, ma altrettanto fuorviante e non priva di evidenti punti oscuri e vere e proprie omissioni.

8maggio1945germania-770x300LA RIMOZIONE DI UN EVENTO EPOCALE

Entrambi i limiti interpretativi pagano lo scotto di una rimozione o, nel migliore dei casi, di una valutazione del tutto parziale delle implicazioni di un evento politico epocale cruciale: la sconfitta militare, l’occupazione territoriale, la distruzione di un regime istituzionale, per altro odioso, la riduzione e lo smembramento territoriale della Germania.

La dimensione catastrofica di quella resa consentì ai due vincitori, l’URSS e gli USA, di decidere delle sorti di quel paese. Per quel che ci riguarda più direttamente, in quanto forza di occupazione gli Stati Uniti determinarono il carattere federale oltre che parlamentare del regime nella sua parte sud-occidentale, il suo carattere antisovietico, la limitazione drastica delle forze armate, in particolare quelle terrestri e l’infiltrazione e l’organizzazione delle principali istituzioni e sistemi.

Il carattere di occupazione di quella presenza non ancora risolto definitivamente nemmeno dagli accordi che hanno sancito negli anni ‘90 l’unificazione tedesca.

Una modalità di dominio non risolvibile con il controllo di una parte limitata delle élites dominanti del paese sconfitto e con azioni complottistiche tese a determinare direttamente le azioni dei vertici politici; piuttosto una azione altamente sofisticata e persuasiva tesa soprattutto ad orientare ed indurre, addirittura a creare delle dinamiche inerziali capace di attirare e integrare progressivamente in un sistema occidentale le varie formazioni sociali e i vari stati nazionali caduti nella rete dei liberatori. Un sistema fortemente attrattivo, capace nel rispetto delle gerarchie fondamentali, di offrire sviluppo ed una relativa libertà di azione, ma proprio per questo ancora più pervasivo. In questa trama la Germania Federale ha assunto un ruolo importante, superiore alle stesse aspettative delle élites tedesche emerse dalla sconfitta militare, in parte per merito proprio, soprattutto per scelta del vincitore. Accantonate rapidamente le tentazioni, vellicate soprattutto da Francia e Regno Unito, di ridurre il paese ad una condizione preindustriale, senza nulla cedere sulla capacità di controllo, si optò per un rapido sviluppo che stabilizzasse un paese alleato ai confini cruciali della propria zona di influenza, contribuisse economicamente e produttivamente al sostegno della macchina bellica e neutralizzasse le residue ambizioni egemoniche di Francia e Gran Bretagna. Il pegno da pagare in termini di sovranità fu estremamente pesante con un sistema di controllo e infiltrazione particolarmente intricato e insindacabile, per altro sancito, che riguardava non solo l’intelligence e le forze armate, ma anche il sistema politico, amministrativo e comprendente anche, un aspetto del tutto ignorato dai redattori di Limes come da gran parte dei giornalisti e studiosi, gli organi di informazione e le strutture economiche.

In settant’anni le cose possono cambiare; ma non è questo, sostanzialmente, il caso della Germania.

Le tentazioni e qualche timido e sporadico tentativo di affrancamento non sono certo mancati. Durante la guerra fredda il tentativo più coerente fu portato avanti negli anni ‘70 con l’ “oestpolitik”. Si trattò in realtà di una “interpretazione” troppo estensiva del processo di distensione, più che altro un riconoscimento meno precario delle rispettive zone di influenza, inaugurato dalle due superpotenze. Per ricondurre alla mansuetudine nell’ovile della pecorella inquieta, agli americani fu allora sufficiente assecondare i timori francesi di un rigurgito delle ambizioni tedesche e la loro conseguente improvvisa conversione all’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità Europea e innescare una politica di riarmo missilistico. Con la crisi e la caduta del blocco sovietico si presentò un contesto apparentemente più favorevole a vellicare ambizioni più audaci.

SUSSULTI DI EGEMONIA

Il tentativo più organico e strutturato avvenne nella seconda metà degli anni ‘80 quando, percepita la crisi imminente del blocco sovietico e forte dei legami più o meno circospetti stretti con quella parte della loro classe dirigente legata al commercio e al finanziamento del debito estero, una parte dell’establishment tedesco tentò per alcuni anni di organizzare e sostenere il sistema bancario dei paesi dell’Est-Europa per favorire la ristrutturazione economica e salvaguardare buona parte di quella classe dirigente. Fu l’atto e il momento che suscitò, nei confronti dell’élite tedesca, le stesse premure dedicate a quella italiana. Il luogo di raccolta degli accoliti fu diverso; con gli uni si scelse il Panfilo di Sua Maestà, al largo di Roma; con gli altri un più modesto albergo bavarese. Anche il numero di convitati differiva; ben più numeroso sulla prestigiosa imbarcazione, limitato a meno di dieci persone nel gasthof. Non si è trattato, probabilmente, di un mero omaggio alla italica convivialità rispetto alla proverbiale essenzialità teutonica; deve aver influito la diversa funzione che i comprimari, inglesi nell’una e francesi nell’altra, hanno assunto nell’iniziativa; soprattutto, è stata la perdurante e progressiva frammentazione politica ed istituzionale dell’Italia rispetto alla Germania a determinare le diverse caratteristiche dell’iniziativa, i diversi sviluppi e gli esiti opposti pur in una comune riconfigurazione della subordinazione politica all’alleato d’oltreatlantico.

Il tentativo più intraprendente fu posto in atto durante la guerra civile in Jugoslavia conclusasi, al momento, con la frammentazione di quel paese e con una conflittualità latente pronta a riemergere. L’iniziale spinta propulsiva alla divisione fu data soprattutto dalla Germania sino ad essere rapidamente assorbita pur con qualche attrito significativo da quella americana. L’evento bellico rappresenta comunque una svolta significativa che vede il gruppo dirigente egemone in Germania passare da una politica di cooptazione e sostegno delle vecchie classi dirigenti riformate dei paesi del blocco sovietico ad una di progressiva aperta ostilità verso la Russia e tesa a favorire la liquidazione delle stesse nei paesi dell’Europa Orientale e nei Balcani. Una scelta indubbiamente vantaggiosa nell’immediato perché ha consentito di riprendere e perseguire una politica di influenza ed integrazione economica esattamente lungo i corridoi tracciati dai colonizzatori tedeschi nel corso dei secoli sino alla metà del ‘800 senza dover contestare i legami di subordinazione con lo stato egemone americano e indebolendo vistosamente la posizione politica ed economica dei due altri grandi paesi fondatori della UE, la Francia e l’Italia. Una scelta deleteria dal punto di vista strategico nel caso la Germania dovesse aspirare ad una maggiore e decisiva autonomia politica che richiedesse un avvicinamento duraturo e stabile alla Russia di Putin proprio perché troverebbe nei più importanti paesi dell’Europa Orientale e della penisola scandinava i più fieri oppositori a tale svolta con scarse possibilità di un loro ricambio con centri politici più duttili.

I messaggeri in quell’albergo bavarese devono evidentemente essere stati particolarmente persuasivi anche se assecondati dalle circostanze propizie della morte violenta dei due nuovi paladini della ostpolitik, Herrhausen di Deutsche Bank e Rohwedder di Treuhandanstalt.

Da questi due eventi a cavallo della riunificazione si è dipanata la condizione di un paese ormai al centro di attenzioni e sospetti, ma incapace di una politica assertiva capace di aggregare forze e in grado tutt’al più di neutralizzare e fiaccare le forze di potenziali rivali nel campo “amico” europeo.

Negli ultimi venti anni i pochi atti politici autonomi di quella classe dirigente sono consistiti nella non partecipazione ufficiale alle avventure militari, in particolare Libia ed Iraq, salvo garantire efficacemente, ma in modo discreto, i propri servizi logistici e di intelligence come avvenuto in Libia. Per il resto si è rifugiata in annunci velleitari, quali la creazione di una forza militare congiunta e integrata con i francesi, miseramente fallita o nel perseguimento classico di una politica di influenza a rimorchio nel vicinato, come avvenuto in Ucraina, con grave pregiudizio delle relazioni con i russi o nel supporto opportunistico e lucrativo alla destabilizzazione specie nel Grande Medio Oriente. La Germania, infatti, lemme lemme risulta costantemente tra i primi fornitori ufficiali di armi e munizioni dei Sauditi, impegnati in Yemen, dei Giordani e della pletora di governi a supporto delle primavere.

I LIMITI STRUTTURALI

Una fondata e non frettolosa elezione della Germania a protagonista geopolitico e antagonista naturale degli Stati Uniti non può prescindere da una analisi della condizione strutturale del paese.

La particolare struttura federale già dibattuta nelle università americane a partire dagli anni ‘30 e imposta nel regime di occupazione assegna importanti competenze di politica estera ai laender in cooperazione e spesso in conflitto tra loro e con lo stato centrale, indebolendone di fatto coerenza e incisività. Un esempio significativo si può trarre dal ruolo decisivo assunto dal Governo Bavarese nella fomentazione della guerra civile in Jugoslavja e nella capacità di trascinare altre regioni di stati confinanti su questo indirizzo in opposizione alle direttive dei rispettivi stati nazionali. Una organizzazione istituzionale che riesce comunque a mantenere una propria operatività grazie al ruolo unificante delle grandi associazioni verticali entro le quali si compongono gli interessi lobbistici e gli indirizzi di buona parte dei centri decisionali.

A garantire, più che la coerenza, l’incisività di una struttura così articolata fa difetto però l’estrema permeabilità delle strutture di intelligence e degli apparati coercitivi e di controllo, il retaggio più pesante della disfatta militare e del conseguente regime di occupazione. La vicenda delle intercettazioni americane ai danni della Cancelliera ha semplicemente rivelato il livello di integrazione ed infiltrazione dei servizi tedeschi con quelli americani; la susseguente rimozione del responsabile, più che la volontà una riorganizzazione e una depurazione delle strutture, ha rivelato la stizza di un capo politico per la pubblicità imbarazzante di quei segnali di attenzione. Per il carattere di riservatezza insito, i Servizi di Sicurezza sono particolarmente vulnerabili; la permeabilità, comunque, investe un po’ tutti gli apparati coercitivi e sanzionatori dello stato germanico, compreso quello militare ancora particolarmente debole.

Una chiosa a parte merita il sistema di informazione, quasi del tutto allineato all’ortodossia atlantica. Con l’eccezione di alcune testate nazionali a tiratura limitata ed alcune testate locali il livello di controllo del sistema mediatico è impressionante. Una capacità di indirizzo delle testate e di legame diretto con singoli giornalisti. È del resto notoria la meticolosità con cui i vari centri strategici americani curano le relazioni con i media istituzionali. Le campagne giornalistiche e la manipolazione dell’opinione pubblica sono sempre stati strumenti propedeutici al conflitto politico, al condizionamento dei centri e all’eliminazione degli avversari, anche se la diffusione dei network on line ha in parte facilitato la possibilità di centri politici alternativi e ridefinito le modalità di manipolazione dell’informazione. In Germania, nella fattispecie, colpisce il fatto che la componente più orientata ad una politica autonoma con la Russia, un tempo significativa, trovi sempre meno spazio mediatico e non riesca ormai da anni a creare una opinione pubblica favorevole a sostegno delle proprie scelte.

La chiave di lettura determinante per individuare il peso reale della Germania e la sua collocazione nelle dinamiche geopolitiche riguarda però il ruolo dell’economia nello stabilire il peso strategico e la condizione conflittuale di un paese.

Chi attribuisce alla Germania un ruolo di protagonista assoluto, di competitore e di antagonista di prim’ordine tende ad attribuire più o meno esplicitamente all’economia, nel migliore dei casi ai rapporti sociali economici, il ruolo preponderante e sovradeterminante gli altri ambiti delle attività umane, compresa quella politica, solitamente assumendo il seguente canovaccio.

UNO SCHEMA INTERPRETATIVO LIMITANTE E FUORVIANTE

La capacità di potenza si esprimerebbe soprattutto attraverso il peso economico; il campo preponderante di esercizio della competizione sarebbe il mercato; l’esercizio della potenza si realizzerebbe soprattutto attraverso la capacità commerciale; la sua misura si pondererebbe attraverso i dati macroeconomici del PIL, del saldo commerciale, degli attivi finanziari, nel migliore dei casi anche della presenza preponderante nel settore dei beni di consumo di massa più evoluti e durevoli. Scelte politiche non corrispondenti alla condizione economica sono considerate illogiche, sbagliate o semplicemente degli accidenti della storia destinati a rientrare o a determinare la sconfitta dei soggetti promotori.

Uno schema fuorviante sia in termini generali che affrontando una analisi della condizione della particolare economia tedesca.

Si può partire dalla constatazione che i mercati tengono conto e tendono a conformarsi progressivamente alle sfere di influenza politiche in via di formazione proprio perché gli attori economici privilegiano le condizioni di maggiore stabilità; le stesse grandi aziende, ormai da alcuni anni, tendono a riassumere il controllo diretto della verticale delle filiere produttive seguendo le condizioni di sicurezza politica. In una fase nella quale la leva economica, sotto forma di condizioni di finanziamento ed investimento e di apertura del mercato, di controllo tecnologico, addirittura dei prezzi in numerosi settori specie strategici, viene utilizzata non solo per condizionare, ma come strumento diretto di sanzione e conflitto, la funzione della politica emerge dalla maschera della competizione puramente economica tra gli attori.

Ma il politico, nella sua accezione di essenza, di caratteristica intrinseca, trova il modo di agire in maniera ancora più “subdola” nell’ambito economico; un esempio può essere l’invenzione, l’adozione, l’applicazione su base industriale e la padronanza delle tecnologie.

In Cina, ad esempio, il tentativo imponente di assumere la creazione e la padronanza delle tecnologie, uno dei fondamenti utili a garantire l’autonomia, l’autorevolezza e l’indipendenza delle decisioni della classe dirigente di un paese, passa anche attraverso lo scontro tra i sostenitori dei grandi colossi industriali, eredi delle imprese statali del periodo “socialista”, di fatto ancora sotto controllo politico diretto, e l’ampio settore di medie e piccole aziende, presenti nel sudest del paese molto più dipendenti dalle tecnologie e dai moduli organizzativi occidentali. Nel recente passato è sufficiente rispolverare alcuni casi, l’Olivetti in Italia e il sistema di motore a reazione Arrow in Canada tra i tanti, per constatare che la capacità tecnologica ed organizzativa di una azienda possono determinare gli standard di un mercato solo all’interno di contesti conformati politicamente.

Il mercato, infatti, rappresenta un’area, un campo di azione governato da un insieme di regole di natura politica, frutto di imposizioni e mediazioni, entro il quale agiscono gli attori economici; la rottura e la modifica di queste ultime comporta inevitabilmente ed intrinsecamente atti politici.

L’immagine che ancora si offre del mercato è invece troppo spesso fuorviante e semplicistica.

Il mercato globale viene rappresentato come una rete con un centro regolatorio indefinito e indefinibile; il suo innegabile sviluppo è però artificiosamente amplificato dalla frammentazione politica degli stati che ha trasformato in commercio estero gran parte degli scambi interni degli stati nazionali antecedenti il crollo del blocco sovietico; la sua rappresentazione glissa sull’esistenza e il rafforzamento al suo interno di aree, settori e blocchi attraverso i quali, tra l’altro si veicolano le influenze politiche.

La stessa raffigurazione degli organismi internazionali preposti alla regolazione di esso nasconde il fatto che tali regole non sono affatto neutrali e soddisfacenti in egual misura i vari attori, ma anche, più prosaicamente, che ammettono innumerevoli deroghe, omissioni, clausole particolari e comportamenti discriminatori che lasciano sospettare il peso politico differente dei paesi nella conduzione.

Gli esempi più clamorosi riguardano probabilmente il diverso trattamento riservato a Russia e Cina nei tempi di adesione agli organismi nonché nelle modalità e nella qualità dei trasferimenti di tecnologia occidentale; come pure il diverso trattamento riservato alle cosiddette Tigri Asiatiche e alla Corea del Sud rispetto ad alcuni paesi del Sud-America.

UNA RAPPRESENTAZIONE PIU’ ESAUSTIVA

Questo schema consente, probabilmente, una valutazione più realistica e meno enfatica del peso economico sia intrinseco che rispetto agli altri ambiti dell’azione politica nel determinare la forza geopolitica della Germania e, soprattutto, nel determinare i passi e le condizioni necessari a garantire la sua emersione come attore politico più autonomo.

 hermannsdenkmalLa Germania, a partire dalla fine degli anni ‘80, al pari di tutti i paesi, ha avviato un processo di profonda trasformazione economica concomitante e favorito dalla sua nuova collocazione geopolitica determinata dall’unificazione seguendo però proprie peculiarità.

Ha salvaguardato ed accentuato il carattere dualistico del suo sistema finanziario trasformando, dopo l’uccisione di Herrhausen, la Deutschbank nella quinta banca di investimento al mondo dedita a servizi di consulenza e alla gestione dei nuovi e più speculativi prodotti finanziari e tutelando dalle intromissioni comunitarie il sistema di banche territoriali a tutela dei sistemi locali economici e sociali.

La difesa ostinata della sua politica restrittiva in ambito europeo non serve soltanto a indebolire i suoi concorrenti economici prossimi, l’Italia e la Francia, ma a difenderla dalle loro debolezze e, sinché possibile, dalle implicazioni più rischiose della sua esposizione nei circuiti finanziari dominati dal sistema angloamericano.

Ha governato con lungimiranza il processo di precarizzazione di larghi settori dell’economia industriale e dei servizi, analogo a quello di altri paesi, compensando parzialmente con il welfare pubblico la regressione socioeconomica di vaste aree sociali.

Ha saputo tutelare e sviluppare alcuni settori di produzione di beni di consumi di massa tradizionali ma relativamente più complessi (automobile, agroalimentare, meccanica) mantenendo il pieno controllo della catena produttiva e di valore e decentrando sapientemente la componentistica nei paesi dell’hinterland più affine non garantendo più la quasi esclusiva del settore all’Italia.

germania_economia_apL’attivo commerciale imponente che ne deriva è il frutto non solo di queste politiche, ma anche di un misconosciuto basso livello di investimenti sia pubblici, in particolare delle infrastrutture del paese, che, con sorpresa, privati rispetto ai più importanti paesi dello scacchiere mondiale. Un livello, specie in quelli pubblici che, protrattosi nel tempo analogamente alla condizione dell’Italia, rischia di pregiudicare le stesse capacità tecniche e tecnologiche di ricostruzione. Un attento esame del campione di immagine tedesco, la Volkswagen, rivela sorprendentemente i punti deboli, sopperiti sino ad ora da una indubbia capacità commerciale, del suo settore privato.

L’economia tedesca, tra l’altro, è pervasa, più degli altri paesi europei dagli investimenti statunitensi in importanti settori così come dipende maggiormente dalle esportazioni in America.

La Germania è senz’altro presente in maniera significativa in alcuni settori importanti come quello dei beni industriali, della meccatronica, della chimica, del software applicato; ma è quasi del tutto assente, al pari degli altri paesi europei, nel settore del controllo e della gestione on line dei dati, fondamentale per il controllo dei flussi e dei comandi operativi nell’industria 4.0.

E’ in difficoltà in altri ambiti strategici, tra i quali l’avionica, l’aeronautica, il gps (Galileo) oggetto di ingenti investimenti soprattutto pubblici, frutto soprattutto di ricerche nell’ambito militare francese, ma pregiudicati dai dissidi di gestione tra i paesi cooperanti o dalle limitazioni nell’uso in ambito militare, frutto a loro volta delle imposizioni e delle premure americane.

Il progetto AIRBUS, gestito da Germania, Francia e Spagna, conosce così una fase di crisi acuta ed improvvisa, alimentata anche dai dissidi di gestione, la quale sta rinfocolando le ambizioni di una direzione avulsa dal controllo azionario e le voci di una possibile acquisizione da parte dell’americana General Electric; il progetto Galileo, invece, dopo anni di faticosa gestazione, avversato dalla stessa Commissione Europea al pari di Airbus, vede intaccato il proprio primato tecnologico dalla inibizione della possibilità di applicazione nell’ambito militare.

Sono solo due degli episodi, questi ultimi, rivelatori della dipendenza politica di quel paese in tutti gli ambiti, a partire ancora una volta da quelli prioritari istituzionali e mediatici.

Ci sarebbe anche da aggiungere le considerazioni sugli effetti della politica comunitaria tesa ad impedire sistematicamente la formazione di colossi industriali paragonabili con quelli americani e ultimamente cinesi, ma solo per constatare che la stessa Unione Europea è propedeutica al mantenimento di questa subordinazione dei paesi dell’intero continente.

LE INTENZIONI E LE POSSIBILITA’ DI AFFRANCAMENTO

Ogni atto politico, compresi quelli di politica economica, della classe dirigente germanica va valutato, quindi, secondo l’intenzione e la capacità di affrancamento da tale situazione.

A tutt’oggi non risultano passi decisivi in questa direzione.

Intanto l’aspirazione ad ottenere un vero e proprio trattato di pace apertamente riconosciuto dagli Stati Uniti e da Francia e Gran Bretagna risulta ancora inevasa a distanza di settant’anni, con tutto quello che implica nei diritti e nella discrezionalità di forze militari ancora di occupazione; dal punto di vista istituzionale del ripristino del controllo effettivo su settori chiave dell’apparato statale lo sforzo appare più di immagine che effettivo; da quello invece del sistema di informazione e di formazione dell’opinione pubblica la situazione risulta ancora peggiorata visto il progressivo declino e l’incapacità persuasiva della residua classe dirigente ancora legata alla Oestpolitik.

La stessa crisi del Partito Socialdemocratico non fa che accentuare questa parabola; le lamentele e le rimostranze recenti della classe imprenditoriale tedesca riguardante l’esposizione eccessiva della Merkel contro la Presidenza di Trump sono per di più legate ai rischi di sanzioni commerciali legate al surplus commerciale.

Le tentazioni per una politica più autonoma ed indipendente certamente non mancano. Più che per forza propria potranno trovare ulteriore alimento dalle evidenti forzature che la politica estera americana, attualmente in fibrillazione, sta operando. Queste ultime, in particolare, ultimamente si stanno esercitando sugli ostacoli alla costruzione vitale del secondo gasdotto Northstream tra Russia e Germania in grado di rafforzare il ruolo di hub europeo e di controllore essenziale delle forniture nel continente e sulle pressioni per un aumento dei bilanci di spesa militare. Un loro significativo incremento potrebbe indurre al rafforzamento di un proprio complesso industriale militare propedeutico alla nascita di una struttura di difesa autonoma; una eventualità, però, in controtendenza con le attuali pulsioni autodistruttive operanti sia in Germania che nella stessa Francia.

Lo stesso progetto di cooperazione militare rafforzata portato avanti ultimamente e strombazzato dalla Germania presenta numerosi aspetti di ambiguità:

  • nasce sulle ceneri dell’ipotesi di integrazione delle forze armate tedesche e francesi fallita ad inizio secolo;

  • punta all’integrazione di paesi (Olanda, Romania, Rep. Ceka) appartenenti all’area di influenza tedesca ma particolarmente legati, in funzione antirussa, all’establishment statunitense;

  • si tratta ancora di forze limitate tese, probabilmente, più a compensare la debolezza delle forze operative tedesche e il timore di affrontare le conseguenze esterne di un più pesante riarmo diretto;

  • il debole coinvolgimento della Francia e l’assenza dell’Italia lascia intravedere una funzione di contenimento di questi paesi piuttosto che di affrancamento dalla tutela americana;

  • negli ultimi anni, il carattere antirusso della politica estera tedesca si è ulteriormente accentuato e rischia di diventare irreversibile, non ostante le relazioni economiche non corrispondano esattamente ai proclami sanzionatori; questo comporta dei riflessi diretti nelle opzioni militari.

hermannsdenkmalCONSUNTIVO

In realtà l’attuale classe dirigente tedesca, rispetto al quale non risultano emergere forze alternative credibili, tende inesorabilmente a cacciarsi in una situazione analoga a quella che la hanno trascinata nelle due ultime rovinose guerre mondiali.

Non ha la forza e le caratteristiche per diventare, da sola, l’artefice di un polo politico comparabile con quelli in via di formazione, in competizione con gli Stati Uniti; per ambire a tale condizione dovrebbe puntare razionalmente a stringere un sodalizio meno squilibrato e su basi più paritarie in via prioritaria con la Francia e l’Italia e su questo costruire un rapporto costruttivo con la Russia. Questo implica una ridefinizione dei rapporti e un’azione verso la maggior parte dei paesi dell’Europa Orientale e quelli scandinavi che agevoli un ricambio di quelle classi dirigenti così oltranziste, impegnate ad affermare la propria identità e rafforzare la loro circoscritta influenza regionale a scapito della Russia, scegliendo la via apparentemente più comoda ed immediata: una alleanza politica sempre più stretta con gli Stati Uniti attualmente praticabile soprattutto grazie alla garanzia del retroterra tedesco, ma resa certamente più fragile da una sua defezione. Non si può dire certo che gli ingombranti vicini, Italia e Francia, concedano più di tanto qualche chance a questa eventualità. Una svolta quindi tanto più improbabile per l’azione ricorrente di Francia e Italia di “utilizzo” del potente d’oltreatlantico per regolare le controversie di vicinato in un processo di integrazione atlantista che sta coinvolgendo pesantemente, ormai anche la Francia, anche se non ancora, probabilmente, in maniera irreversibile. Si tratterebbe di rimettere in discussione le modalità di costruzione di un sistema di relazioni costruito negli ultimi trenta anni, laddove la posizione di vassallo privilegiato ha consentito di costruire una formazione sociale sufficientemente solida da garantire un largo consenso e discreti margini di azione.

Più che una subordinazione riottosa sembra per tanto, quello della Germania, un sodalizio consenziente per quanto prono. Una condizione che difficilmente può essere superata senza la formazione di poli alternativi che impediscano di continuare a lucrare sui saldi commerciali e senza un significativo indebolimento della potenza egemone ancora in gran parte da compiersi. L’alternativa, in mancanza di un recupero del controllo pieno delle leve di potere, potrebbe essere una fuga velleitaria in avanti, magari vellicata dalla stessa potenza egemone, propedeutica ad una terza pesante lezione storica.

E L’ITALIA?

In tale contesto inquadrare la collocazione dell’Italia come un paese dibattuto nella scelta tra il contendente tedesco e quello americano con una propensione iniziale per quella teutonica, appare una indicazione fuorviante; del tutto fuori luogo se, come statuisce la redazione di Limes, a questo dilemma corrisponde la formazione sul suolo italico di due blocchi in tenzone tra loro; quello economico sensibile alle sirene germaniche, quello istituzionale, degli apparati di sicurezza legato a quelle americane. Una contrapposizione che non offre una sintesi credibile semplicemente perché uno dei pilastri e ambiti del contenzioso, quello economico, non è assolutamente una prerogativa assoluta e nemmeno prevalente della Germania. La struttura economica italiana, negli ultimi trenta anni ha subito una drammatica perdita di controllo dei propri assetti strategici più importanti, superiore alla stesa distruzione dell’apparato produttivo. La gran parte di quelle attività sono finite in mano americana e poi francese, più che tedesca. È sufficiente scorrere i destini dell’industria aeronautica, dei generatori, della ceramica, della siderurgia specializzata, della meccanica, oltre che dei marchi alimentari, della moda e soprattutto della rete di telecomunicazioni per rivelare una penetrazione ben più articolata e preoccupante. I commensali del banchetto sono numerosi. È sufficiente orientare i propri padiglioni verso la voce dei corifei, tra i tanti Calenda, tutti impegnati ad identificare la globalizzazione con il mercato americano, per individuare le priorità stabilite dalla maggior parte della classe dirigente. L’impegno tedesco si è concentrato, piuttosto, sulla gestione del drenaggio del risparmio, sull’acquisizione di alcuni poli logistici necessari ai flussi dell’industria tedesca, sul controllo parziale ma indiretto della componentistica e sul ridimensionamento della capacità produttiva di un importante competitore.

DIFFICILMENTE

In realtà, sino a quando l’attuale classe dirigente tedesca riuscirà a mantenere in qualche maniera il controllo della costruzione europea per conto terzi, difficilmente la propensione tutta italica a costituire fazioni autodistruttive per conto di podestà stranieri potrà essere soddisfatta e la disputa occuperà inevitabilmente temi più rarefatti, come difficilmente il sodalizio tedesco-americano potrà incrinarsi significativamente, specie in una fase di restaurazione della politica americana ormai vincente.

Difficilmente, però, l’approccio offerto dalla redazione potrà offrire un contributo ad uno sforzo consapevole e proficuo di individuazione di un interesse nazionale capace di raccogliere il consenso delle parti più dinamiche e dignitose della comunità; come pure diventa alquanto arduo individuare, in Europa, nei vari paesi, le forze suscettibili di essere coinvolte.

Quanto alla Germania, se resurrezione dovrà essere, richiederà la realizzazione di numerose condizioni; i timidi vagiti richiederanno tempo per arrivare ad espressioni più articolate e razionali. La stessa formazione sociale tedesca inizia a conoscere importanti crepe nella sua proverbiale coesione con la erosione dei punti di garanzia e stabilità, ma anche di immobilismo. Si sta cominciando dal ruolo dei sindacati; ben presto toccherà anche il sistema periferico di promozione ed assistenza sociale. Bisognerà vedere se gli eventi, ormai incalzanti, concederanno il tempo necessario a compiere le svolte.

12° Podcast _ UNA DINASTIA IN BILICO, di Gianfranco Campa

Questa volta i riflettori puntano a illuminare un altro angolo del palcoscenico a stelle e strisce; quello sino ad ora riservato ai Clinton. Protagonisti, nell’ombra e in primo piano, in questi ultimi venti anni, ma con una pesante ipoteca riguardo al loro futuro politico segnato dalla drammatica sconfitta elettorale alle presidenziali americane. Gli attacchi forsennati a Trump dell’intero vecchio establishment hanno impedito la resa dei conti postelettorale nel Partito Democratico. La sua progressiva normalizzazione tranquillizzerà probabilmente la vecchia classe dirigente e la spingerà a regolare i conti al proprio interno e a gestire in qualche maniera il ricambio. Il contesto geopolitico e sociopolitico è, però, radicalmente mutato rispetto ad appena dieci anni fa. Gli Stati Uniti in qualche maniera devono prendere atto della presenza di altri attori di peso nello scacchiere internazionale; all’interno le basi di consenso dei due partiti tradizionali sono cambiate con una erosione delle basi elettorali e un significativo spostamento di opinione di importanti settori di ceto popolare e medio, come per altro sta avvenendo in maniera più confusa anche in Europa. Sullo sfondo una radicale polarizzazione che impedisce a tutte le forze di assumere il ruolo di forza politica in grado di garantire la coesione del paese. Le emergenti non riescono ancora a sedurre almeno una parte significativa dei settori di punta e più avanzati del paese; le altre sembrano ancora del tutto sorde ai richiami del loro elettorato tradizionale.La paralisi programmatica e progettuale di queste ultime appare sempre più evidente. Come se non bastasse, la possibile formazione autonoma di un nuovo movimento politico, come conseguenza della defenestrazione dei sostenitori originari dallo staff presidenziale, potrebbe catalizzare definitivamente questi settori ed avviare ad una crisi profonda se non irreversibile prima il Partito Repubblicano e poi quello Democratico. Non a caso la componente radicale, più legata ai ceti professionali, del Partito Democratico stesso si è rivelata molto più cauta e sconcertata nei confronti di Trump. Nelle intenzioni della famiglia Clinton questa dovrebbe essere una fase di transizione generazionale, ma con le stesse dinastie come protagoniste; nei fatti Hillary Clinton potrebbe rivelarsi il capro espiatorio perfetto da offrire in cambio della definitiva defenestrazione di Trump e con questo pregiudicare le ambizioni della progenie e di qualche adepto rimasto impigliato in qualche parte del mondo. Fantapolitica? Molto probabile! Questi due anni sono stati però effervescenti e sorprendenti. Le trappole disseminate nello scacchiere internazionale iniziano a stringersi e gli armadi di gran parte di questi esponenti politici, cresciuti e formatisi in altri contesti, sono ricolmi di scheletri pronti alla riesumazione. Lo scontro è apertissimo _ Giuseppe Germinario

ASTRI NASCENTI, STELLE CADENTI, MINE VAGANTI, DI GIUSEPPE GERMINARIO (3° PARTE) – tratto dal sito conflittiestrategie.it

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http://www.conflittiestrategie.it/astri-nascenti-stelle-cadenti-mine-vaganti-1a-parte

http://www.conflittiestrategie.it/astri-nascenti-stelle-cadenti-mine-vaganti-2a-parte

 

Così, il 27 novembre scorso, al convitato di lusso è stata sottratta la sedia e revocato l’invito ai banchetti ufficiali; gli sono rimaste ancora le colazioni riservate di lavoro e le cene tra adepti. Le autorevoli rassicurazioni riguardo ad una sua “caduta in piedi” sono state evidentemente improvvide se non ingannevoli. “Cadere in piedi” in effetti mi pare una dinamica il cui esito improbabile avrebbe dovuto, quantomeno, far insospettire il Cavaliere circa le effettive probabilità di realizzazione. Si tratta di una prodezza balistica alquanto inverosimile, dai connotati prodigiosi propri di una liturgia pasquale o delle ambasce pagane di un messaggero olimpico, di Mercurio nella fattispecie, piuttosto che della precarietà di un normale essere umano. Il disposto combinato di vanagloria e pusillanimità del nostro e di perfida rassicurazione liquidatoria dell’altro hanno alimentato per breve tempo l’illusione che le peggiori dinamiche distruttive nel nostro paese fossero almeno governate e dirette dai nostri controllori d’oltreoceano almeno quanto quelle costruttive, pur entrambe deleterie per gli interessi del nostro paese. Venti anni di berlusconismo ed antiberlusconismo, evidentemente, non possono essere rimossi più che risolti se non con il progressivo sacrificio, per il momento ancora prevalentemente simbolico, del protagonista, non ostante i presumibili auspici contrari dei nostri protettori.

Una sconfitta ed una rimozione, tra l’altro, tutt’altro che scontate nel loro esito finale; il dualismo, al contrario, potrebbe riproporsi sotto altre spoglie.

LE OPZIONI DISPONIBILI

L’eclisse parziale della stella Berlusconi ha intanto concesso ulteriore risalto al fulgore dell’astro nascente, Renzi, la settimana successiva; due eventi che hanno il merito di far uscire allo scoperto le opzioni politiche, chiamarle strategie sarebbe al momento troppo, latenti da tempo negli schieramenti politici.

La prima, marcatamente bipolare, è sostenuta dal neosegretario del PD, ma ha bisogno di un alter ego minimamente credibile nell’altro versante per rendere presentabile la tenzone politica; la seconda, rievocativa della prima repubblica, punta alla costruzione di una coalizione con una forza politica egemone e altre forze minori da supporto. Il nucleo più importante a sostegno di questa opzione risiede ancora, anche se fortemente ridimensionato, nella minoranza del PD ma dispone di solidissimi appoggi nella compagine di governo, in quella parlamentare e nella struttura stessa del partito. Per la natura stessa della proposta, induce però ad alimentare le ambizioni egemoniche o contrattualistiche delle diverse componenti politiche aprendo quest’ultima a diverse subordinate e ad una situazione ancora più conflittuale e frammentata. Il perseguimento di questa opzione da parte dei vari portatori ha portato ad esiti disastrosi.

IL RITORNO DEL VECCHIO

Il PD di Bersani ha celato nello stallo elettorale la perdita di milioni voti, ma ha rivelato solarmente la totale incapacità di una proposta politica minima che non fosse il mero affidamento del futuro del paese al buon cuore dei tutori europei e americani; Scelta Civica di Monti, non ostante la maieutica della CEI (Consiglio Episcopale) coltivata con i due seminari di Todi ( http://www.conflittiestrategie.it/le-apparenze-ingannano-di-giuseppe-germinario), si è rivelata una maschera di cera in grado di ingannare pochi elettori del PDL di Berlusconi e destinata a liquefarsi al primo calore del contenzioso politico; epilogo compiutosi inesorabilmente infatti in pochi mesi.

La reiterazione degli antichi fasti democristiani, oggi come allora, avrebbe avuto bisogno di un fulcro abbastanza solido su cui appoggiarsi e del sostegno esplicito e generoso del protettore americano; due fattori pressoché assenti nell’attuale scenario geopolitico.

Il fulcro, allora, era costituito dalle Partecipazioni Statali e da centri di potere e amministrativi superstiti del fascismo ancora solidi attorno ai quali è stato possibile costruire uno sviluppo industriale complementare ma efficace e, attraverso la collaborazione di organizzazioni di massa collaterali, un blocco sociale sufficientemente coeso grazie al collante ideologico, alla redistribuzione delle risorse, alla gestione meno traumatica ma spesso parassitaria delle ristrutturazioni economiche; il sostegno esterno era relativamente generoso per la necessità di controllare i conflitti sociali, di tenere unito il blocco antisovietico e di scoraggiare eventuali ambizioni autonomistiche degli alleati europei, della Germania e soprattutto della Francia in particolare.

Tutti questi fattori stanno progressivamente  e drammaticamente venendo meno ormai da tempo. Le Partecipazioni Statali sono state ridimensionate e, soprattutto, stanno perdendo ogni funzione di indirizzo e di equilibrio della struttura produttiva del paese. Con tutti gli orpelli parassitari ed assistenzialistici dei quali furono progressivamente gravate, riuscirono comunque, allora, a salvaguardare l’industria di base, a mantenere alcuni settori di punta e, cosa oggi del tutto rimossa dalla memoria, a garantire nel settore dell’agricoltura, della distribuzione commerciale e dell’intermediazione bancaria attività meno condizionate da rapporti di servaggio e suscettibili di sviluppo più equilibrato. Riguardo a quest’ultimo aspetto basterebbe ricordare il ruolo regolatore dell’industria pubblica di trasformazione nell’acquisto dei prodotti agricoli, della funzione della rete pubblica di distribuzione nel garantire gli sbocchi commerciali alle attività industriali e agricole di piccole e medie dimensioni; e invece, proprio la sopravvalutazione unilaterale del “piccolo è bello” proclamata dalla DC ai quattro venti dalla fine degli anni ’70 offrì il cappello ideologico non solo della svendita della grande industria pubblica avviata negli anni ’80, ma anche pose le premesse della crisi della stessa piccola e media industria e azienda agricola iniziata a fine millennio. Al crollo di quel pilastro si cercò di sopperire con l’istituzione di consorzi e distretti, ma con relativo e temporaneo successo; l’assenza di ampie piattaforme industriali e finanziarie hanno impedito il consolidamento dei successi iniziali e favorito l’attuale declino grazie soprattutto all’avventurismo delle modalità di ingresso nel sistema di moneta unica e di relazioni comunitarie.

Oggi, ma ormai da tempo, nessuno di quei fattori è in grado di supportare efficacemente questa opzione politica.

Le Partecipazioni Statali hanno perso gran parte del controllo del sistema finanziario, hanno liquidato interi settori complementari necessari a sostenere l’attività di gran parte del tessuto economico intermedio, hanno mantenuto solo una parte dei settori industriali strategici, in questo condizionati pesantemente da partecipazioni estere affatto paritetiche tese soprattutto a spremere il più possibile rendimenti immediati e ad asservire le attività nei circuiti geoeconomici dominanti nell’area.

La mancanza di direzione politica autorevole e minimamente autonoma del paese sta di fatto spingendo i settori pubblici strategici superstiti su due strade parallele; quelli legati alla ricerca scientifica, specie quella militare ed energetica, e all’energia indirizzate verso una direzione sempre più autonoma da quella del paese, sempre più integrata di fatto e subordinata, spesso ormai anche nominalmente, ai circuiti strategici soprattutto americani e sempre più estromessa da collaborazioni con paesi potenzialmente alternativi al blocco occidentale; quella legata alle grandi infrastrutture del paese (cantieristica, grandi mezzi di trasporto civili, energie alternative in minor misura, ect) destinate ad un maggior controllo, ma comunque a collaborazioni facilmente commutabili in annessioni. Si tratta, è bene precisarlo, di dinamiche in corso in tutti i paesi europei, compresa la stessa Francia, il paese dalla tradizione sovranista più marcata; la qualità del dibattito e della resistenza in atto è comunque differente, a detrimento del ceto politico italiota. Come al solito, le scelte peggiori sono accompagnate e sostenute dai più nobili propositi; nella fattispecie hanno dato il loro indispensabile contributo il pacifismo ipocrita a senso unico e l’ecologismo casereccio nel giustificare questi indirizzi.

La stessa grande industria privata, in gran parte operante in settori complementari e di base, rimpolpata in parte dalle privatizzazioni a buon mercato degli anni ’90, sta subendo un drastico ridimensionamento in parte assorbita e gravitante all’estero, in parte indebolita, attratta dalla prospettiva di facili rendite, dalle avventure nella gestione fallimentare delle reti strategiche nazionali privatizzate (Pirelli nella Telecom tra i tanti esempi illuminanti).

La Pubblica Amministrazione, d’altro canto, ha subito un processo di frammentazione e sovrapposizione di poteri, grazie alla pressione concomitante delle politiche regionaliste europee e del quadro politico nazionale del quale ho parlato in alcuni precedenti articoli.

Di fronte a tale sfacelo, agli epigoni della Prima Repubblica non è riuscito, semmai ci avessero provato, il tentativo di superare la sindrome degli orfanelli, anzi dei trovatelli. Nelle loro mani è rimasto ben poco oltre al connubio con alcuni centri finanziari e al controllo di associazioni, per altro in evidente crisi di rappresentanza, dediti a meri compiti di redistribuzione e contrattazione della condizione professionale o impegnati nel cosiddetto terzo settore. È il motivo di fondo per cui ogni tentativo di ricostruzione di questo schieramento si è risolto in una sommatoria di forze residuali oppure in strutture di partito più complesse ma sostanzialmente immobili e passive. Una dinamica che ha portato  questi gruppi a consegnarsi sempre più mani e piedi alle direttive di centri esteri proprio quando il contesto internazionale consentiva una ridefinizione delle gerarchie intermedie nel blocco euroatlantico a cominciare dal ruolo di potenza regionale della Germania e dal riallineamento nella NATO della Francia a scapito della posizione di rendita dell’Italia.

Il continuo scacco di questa riproposizione di schieramento non sembra scoraggiare per altro nuovi tentativi, questa volta più discreti e sottotraccia. Alla scissione con rammarico di Alfano e alla frammentazione di Scelta Civica corrispondono i movimenti più discreti di Corrado Passera, impegnato a costruire una rete di relazioni tra fondazioni e associazioni da mettere a profitto in caso di implosione del centrodestra.

Già la statura di un tale personaggio che cerca di costruire la propria immagine di successo con le ceneri cosparse sul capo del proprio padre putativo, Carlo Debenedetti, attribuendogli l’esclusiva di quegli stessi insuccessi, l’Olivetti, del quale è stato lui stesso pieno corresponsabile, lascia presagire la caratteristica saliente di questo eventuale schieramento, sia nella versione sinistra-centro, che in quella di centrosinistra che di centrodestra: più che l’interclassismo del dopoguerra, la sommatoria di gruppi impegnati ad accapigliarsi sulle spoglie residue in un campo di azione regolato da altri. La recente sentenza della Corte Costituzionale sul sistema elettorale vigente lascia intravedere in parte anche quali centri istituzionali hanno interesse a consolidare le proprie prerogative e il proprio potere di intervento alimentando questa situazione di conflittualità sterile e crepuscolare.

La caratura e la storia di tutti i fautori di questo progetto, nelle sue varie componenti e ambizioni egemoniche, non fanno che confermare la mancanza di quei tasselli fondamentali che hanno reso possibile il successo democristiano; una sua affermazione non farebbe che sancire la prevalenza di quelle forze e di quei centri istituzionali i quali traggono alimento da una situazione paludosa e in disfacimento che consenta di protrarre condizioni di privilegio e di potere. Mi pare, comunque, un progetto senza speranza, una riedizione di cose già viste, a partire dalla vicenda di Fini, ma con la possibilità di un biglietto di ritorno alla casa madre di almeno una parte dei protagonisti.

Continua ad impressionare, per altro, la debolezza, a cominciare dalla Chiesa Cattolica, dei poteri nazionali “profondi” che orientano le dinamiche politiche; un ulteriore segno del paradosso che sta condannando l’Italia: un paese d’importanza strategica ma con classi dirigenti prive di autorevolezza e luce propria.

LE NOVITA’

A quella ecumenica si oppone l’opzione bipolare, impersonata da Renzi e dal Cavaliere.

Un sistema, quest’ultimo, certamente meno dispendioso economicamente ed organizzativamente e meno bisognoso di raccogliere larghi consensi elettorali; meglio predisposto a seguire con qualche efficacia almeno una parvenza di indirizzo politico dichiarato. In grado, quindi, di offrire all’inquietudine della plebe il capro espiatorio dei costi della politica, qualche vittima annessa, qualche riforma istituzionale; di riorganizzare e snellire in qualche maniera le strutture pachidermiche che stanno letteralmente soffocando il paese.

Dell’attuale segretario del PD ho già parlato nella prima parte di questa trilogia; più che di una rottura politica, si tratta di un processo di cooptazione selettiva delle vecchie strutture. Un processo di ammodernamento che potrà giocare sull’ambiguità di alcune parole d’ordine per raccogliere nuovi sorprendenti alleati ed interlocutori di cui la sinistra è fonte inesauribile. La recente spinta all’introduzione del contratto di lavoro unico, della semplificazione delle normative del codice del lavoro, della ridefinizione e formalizzazione del ruolo del sindacato, tra le troppe cose dette da Renzi, sono problemi sentiti e reali ma posti in funzione di un’ulteriore apertura indiscriminata e subordinata della struttura economica del paese alle influenze non genericamente straniere, ma euroatlantiche; in nome della separazione delle competenze assistenziali e di servizio del sindacato da quelle di rappresentanza, ha trovato una sponda in apparenza sorprendente in quella parte del sindacalismo radicale, rappresentato dalla FIOM di Landini, il quale in nome di una rivendicazione degli interessi della massa, assieme al ridimensionamento politico dell’apparato assistenziale, sta distruggendo ulteriormente il legame professionale costituente il sindacato confederale e di categoria. Le sue ultime proposte di reddito minimo garantito e di istituzione di un unico contratto collettivo per l’industria sono, a questo proposito, il perfetto contraltare all’opzione di abolizione del contratto di lavoro collettivo. Il risultato dei due approcci è identico: entrambe spingeranno a scindere il problema del reddito da quello dello sviluppo economico e delle attività industriali e inaridiranno ulteriormente il residuo patrimonio sindacale legato alla capacità di contrattare gli inquadramenti ed i riconoscimenti professionali e la condizione lavorativa legata all’organizzazione del lavoro. Basterebbe osservare con qualche attenzione l’effettiva composizione delle manifestazioni di queste componenti “radicali” per scorgere il cambiamento di natura dell’attività e la subordinazione politica perfettamente complementare a quella immobilista ancora maggioritaria.

Il prosieguo delle prossime settimane ci rivelerà la natura di queste sortite renziane; ballon d’essai o semplici slogan.

Renzi, però, soffre di un handicap pesante: il fattore tempo. Più passa, più l’equivoco di mantenere la propria forza sul consenso determinante delle vittime predestinate delle sue politiche rischia di smascherarsi; più si allontana la possibilità, già di per sé remota, di conquistare parti consistenti dell’elettorato liberale o riformatore di centrodestra per ora aggiuntive, in futuro sostitutive di buona parte del tradizionale elettorato piddino.

LA RIESUMAZIONE

Berlusconi soffre dello stesso handicap, ma in senso contrario; ha bisogno di tempo. La riesumazione di Forza Italia ha una consistenza molto più reale di quanto sembrano concedere i suoi detrattori abituali e atavicamente perdenti destinata a sopravvivere in qualche maniera al Cavaliere; poggia su uno zoccolo duro formatosi nell’elettorato censitario agli albori dell’unità d’Italia e nel periodo giolittiano e, dopo il sussulto identitario cristallizzatosi per pochi mesi nell’Uomo Qualunque di Giannini degli anni ’50, raccolto nel secondo dopoguerra in una sorta di letargo vigile e inquieto nel ventre democristiano sino agli anni ’80. Una componente importante anti-antifascita e/o a-fascista sempre più diffidente e insofferente verso il sodalizio sempre più stretto tra l’antifascismo del PCI e l’antifascismo azionista e popolare, con progressiva prevalenza di quest’ultimo, consolidatosi definitivamente con il compromesso storico.

Ci provò già Craxi a ridare autonomia ad una parte di quello zoccolo cercando di affiancarla alla componente socialista “libertaria” e manageriale, ma con scarso successo. Ci riuscì Berlusconi, sconvolgendo i piani post-Tangentopoli i cui strateghi pregustavano anzitempo la cavalcata trionfale della “gioiosa macchina da guerra”; successivamente il Cavaliere, ad inizio millennio, riuscì ad innestare, con il PDL, anche buona parte del gruppo dirigente democristiano intermedio restio, dal loro punto di vista, alla riedizione del “compromesso storico”. Col senno di poi, fu l’indizio che la resistenza sorda alla politica del PCI avviata alla fine degli anni ’70 era molto più consistente di quella che appariva sul palcoscenico politico e portò ad una gestione cinica di avvenimenti drammatici come il sequestro Moro e ad una freddezza sorda ma pressoché irrilevante per la difesa degli interessi strategici del paese dispiegati dagli anni ’80, verso le privatizzazioni, l’ingresso nello SME e i conflitti latenti in politica estera, specie sugli scacchieri mediorientale e balcanico.

L’attuale riesumazione di Forza Italia punta alla salvaguardia del consenso di quello zoccolo duro senza una parte della componente libertaria, l’esodo di una quota importante della componente democristiana ciellina e il mantenimento di gran parte di quella legata ad una visione comunitarista/gestionale (Gelmini, ect) e contendendosi con Renzi la componente liberale, in una fase però nella quale il liberal/liberismo può essere il veicolo dell’annichilimento definitivo del paese senza quelle prospettive ingannevoli che ha saputo prospettare negli anni ’90. L’obbiettivo di questa riproposizione è ricondurre forze potenzialmente alternative, sensibili a ipotesi di più autonoma collocazione internazionale del paese e di difesa e sviluppo del proprio patrimonio produttivo, nell’alveo di un partito “responsabile”; da qui i continui appelli al ritorno di Alfano e, nel caso, pronto a raccogliere i cocci di una eventuale rottura degli attuali equilibri europei e in particolare dell’unione monetaria, gestita però dai paesi dominanti piuttosto che dalle principali vittime dell’attuale gestione comunitaria ed euroatlantica.

Una dilazione di tempi che, tra l’altro, coincide con l’esigenza di sopravvivenza personale di Berlusconi nel suo limbo sempre più precario e sempre esposto alla Spada di Damocle giudiziaria.

La cartina di tornasole e il fattore in grado di logorare gli sforzi dinamici nel teatrino è certamente l’attuale Governo degli Inetti.

IL GOVERNO DEGLI INETTI

Della progressiva caduta dei pilastri sui quali il Governo Letta ha fondato, parallelamente al PD, la sua esistenza ho parlato in altro articolo (http://www.conflittiestrategie.it/mago-merlino-e-mago-mago). Gli eventi hanno rivelato immediatamente l’inconsistenza di quei sostegni, rivelatisi piuttosto delle imbragature destinate a soffocare progressivamente il paese.

L’azione di governo sta quindi assumendo la forma di provvedimenti convulsi che, in aggiunta al loro carattere recessivo e predatorio, stanno rendendo sempre più ingarbugliata e opaca l’azione amministrativa.

L’incremento della tassazione sui consumi e della miriade di balzelli si affianca all’introduzione di imposizioni che assorbono tasse, imposte e tributi sino a rendere sempre meno trasparente la corrispondenza tra gestione dei servizi e riscossione dei rispettivi introiti e rendere, quindi, più difficoltosa la verifica dei criteri di gestione di uffici e aziende. La “spending review”, affidata per altro a un economista avulso dal contesto nazionale piuttosto che a un esperto di gestione, non ha la caratteristica di un progetto di riorganizzazione teso a rifinalizzare la spesa pubblica e adottare nuovi moduli, ma un programma di semplice contenimento di spesa affidato all’insieme degli attuali responsabili della gestione amministrativa suddivisi in ben venticinque sottogruppi di lavoro; ho infatti l’impressione che Cottarelli sia stato scelto più per le sue entrature internazionali necessarie a collocare le privatizzazioni che per le competenze legate alla missione ufficiale di cui è stato investito. La destinazione delle relative risorse, tutt’altro che certe, da ricavare si sta allontanando sempre più dal finanziamento della riduzione del cuneo fiscale delle aziende per trasferirsi in parte in provvedimenti assistenziali, ma soprattutto a ridurre lo stock del debito, in ossequio alle direttive europee. Quei pochi provvedimenti adottati, defiscalizzazione di investimenti e ricerca e ricapitalizzazione delle aziende, rischiano così di essere sterilizzati sino a penalizzare pesantemente non tanto le aziende strategiche, già a rischio di esodo dal controllo nazionale, ma anche le stesse aziende dei settori complementari necessari a garantire almeno un qualche ruolo subalterno significativo nello scacchiere internazionale. L’azione di Equitalia e Agenzia Entrate si sta rivelando sempre più quella che è sempre stata: una morsa tesa a spremere sanzioni e aggi dai malcapitati. L’introduzione pressoché indiscriminata di tracciature, verifiche, aggiornamento banale e reiterato di documenti e archivi continuamente duplicati e sovrapposti, sta intralciando sempre più le attività di intermediazione finanziaria e bancaria sino ai semplici pagamenti di bonifici ed altre operazioni già di per sé tracciate e, presumibilmente, intasando le capacità di analisi degli addetti ai controlli. Nei resoconti sulla stampa estera delle riunioni nei consessi comunitari europei, si notano rimostranze e opposizioni qua e là di esponenti governativi spagnoli, irlandesi, francesi; non vi è traccia alcuna di una posizione di qualche peso del Governo Italiano. La retorica europeista continua a spadroneggiare imperterrita presentando come un successo il progetto di unione bancaria che avrà come risultato principale quello di costringere le banche italiane a ridurre le proprie quote di titoli pubblici nazionali, ad esporre di nuovo ulteriormente il debito pubblico sul mercato estero e a ricapitalizzare ulteriormente gli istituti garantendo loro, tra l’altro, l’accesso e l’appropriazione delle riserve auree nazionali. La retorica mondialista spinge in Governo ad avvallare le condizioni peggiori di apertura del mercato eurostatunitense senza nemmeno la minima contropartita dell’ottenimento di una sede giurisdizionale in grado di giudicare i contenziosi tra aziende e tra queste e gli stati nazionali; sede garantita invece a Francia, Germania e Gran Bretagna. L’unico soprassalto di orgoglio nazionale Letta lo ha concesso nella surreale conferenza congiunta con Putin durante la quale, a un presidente russo visibilmente distratto dall’incontro significativo con Papa Francesco, Letta ha sbandierato il maggior successo dell’accordo di cooperazione economica dopo anni di gelo: la cessione da parte di ENI alla Russia della società Artic e dei relativi diritti di esplorazione e estrazione di idrocarburi. Ciliegina sulla torta, subito dopo, il nostro prode si è precipitato in Lettonia a patrocinare in funzione antirussa l’accordo UE-Ucraina a nome dell’Unione e di capi di stato europei ben attenti a non apparire in prima persona nel contenzioso. L’amaro destino di “un leader con le palle”….. al posto della testa; il servo sciocco (http://www.youtube.com/watch?v=vvY9g4UoQks). La gestione sorprendente di affari come Telecom con la piena connivenza con i malmessi spagnoli in un settore strategico per l’economia e la sicurezza del paese in contrapposizione, persino, con una parte importante del PD più sensibile almeno ad un controllo delle reti infrastrutturali e in buona consonanza invece con il neosegretario del PD

Quale sussulto ci si può aspettare del resto da esponenti come Letta e Saccomanni i quali hanno l’ambizione dichiarata di soddisfare le proprie ambizioni personali postgovernative con incarichi di prestigio presso la Comunità Europea?! Gli stessi i quali nel frattempo sembrano impegnati ad attingere per le nomine dagli istituti internazionali di fede atlantica personaggi di dichiarata fede dalemiana, come il prossimo Presidente dell’Istituto di Statistica, non ostante l’affermazione del “nuovo corso rinnovatore” nel PD e il cui ottimismo si spinge al paradosso di una valutazione positiva, legata all’abbassamento dello spread dei titoli pubblici dovuto “al rialzo dei tassi tedeschi con una Germania che inizia ad avere problemi simili agli italiani“.

Un vuoto e una remissività che sta accentuando sempre più i tratti crepuscolari dell’accapigliamento a difesa delle prerogative dei vari gruppi; sono i segnali di una crescente conflittualità sterile e distruttiva di fazioni disposte ad aggrapparsi a qualsiasi appiglio e naviglio altrui, anche il più infido e fragile, ma senza una prospettiva di navigazione salda per l’intero bastimento. Una dinamica resa più trasparente dai sassolini gettati negli ingranaggi dal M5S di Beppe Grillo, ma senza alcun merito aggiuntivo.

Si tratta di una compagine senza capacità innovative, ma in grado, con la sua tradizione ecumenica ed avvolgente, di soffocare ogni anelito e spingere sempre più il paese nella palude. Paradossalmente ha subito una seria battuta d’arresto, ad opera di Renzi, il più indifferente tra gli antiberlusconiani capace però di conquistare l’entusiasmo di questi ultimi, proprio quando la vecchia guardia ha segnato il maggior successo riuscendo a spaccare il PDL, alleandosi con lui. Un merito che Alfredo Reichlin, bontà sua, ha sottolineato nei suoi editoriali. L’eventuale stanco protrarsi di questo conflitto sordido non porterà alla scomparsa politica del sindaco fiorentino, un esito che sarebbe letale per il partito; verosimilmente lo ricaccerà e confinerà nella stucchevole antitesi antiberlusconiana. A far pendere la bilancia per una o per l’altra opzione sarà, presumibilmente, ancora una volta una forza esogena. Settori della magistratura, nel caso volessero accelerare il malinconico e pretestuoso epilogo di Berlusconi oppure figure come Mario Monti, ormai prive di prestigio nazionale, ma in grado con il gruppetto disponibile al Senato, di far precipitare Letta & C. Forze esogene, appunto, perché sappiamo come sia maturata Tangentopoli negli anni ’90 e come il professore abbia costruito la propria carriera all’estero.

Sono i paradossi di un conflitto politico che poggia sul vuoto pneumatico; può fare a meno e sopravvivere persino alle persone in carne e ossa. In un paese dove ancora il prestigio dei santi prevale su quello di Gesù, in mancanza di un condottiero, magari impegnato a redimersi forzosamente, è sufficiente trascinare il gioco con qualche icona da esibire nelle processioni. Il risultato rischia di essere il caos paludoso o un sistema oligarchico policentrico dai poteri tanto concentrati quanto limitati all’interno della formazione sociale.

La risposta dovrà essere un progetto politico fondato più che sul diniego o sulle fuoriuscite liberatorie, sull’individuazione di quei punti e accordi interni e internazionali la cui modifica consenta di riaffermare il recupero di prerogative e agibilità politica nazionali autonome, la riorganizzazione dello stato e di gerarchie funzionali, la formazione di un blocco sociale determinato nel quale ci sia spazio la produzione di risorse necessarie a garantire forza e condizioni dignitose anche agli strati più popolari e riconoscimento delle capacità professionali. Una parte “construens” che finalizzi la parte “destruens” oggi in voga con qualche faciloneria di troppo e con l’interesse sempre meno velato di nostri supervisori a curare opzioni alternative. L’attuale drammatica frammentazione del paese potrebbe rendere agevole la destabilizzazione, ma rendere impossibile una ricostruzione duratura senza una struttura politica capillare e dalle idee chiare. Nel paese operano già troppe forze interne ed esterne tese a ridurre la formazione sociale a poco più di un’entità geografica. Più o meno l’Italia del ‘6/’700.

FIN(e)CANTIERI, a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto il testo apparso sulla rivista “Difesa Online”  con una valutazione molto critica dei contenuti dell’accordo che si va profilando tra l’italiana Fincantieri e la francese STX riguardo al settore della cantieristica navale. Già quattro anni fa in un paio di articoli avevo trattato di un “misterioso documento”, redatto da una inesistente Lisa Jeanne, riguardante le problematiche e il futuro di Finmeccanica, compresa la divisione cantieristica navale. ( http://italiaeilmondo.com/2017/09/13/astri-nascenti-stelle-cadenti-mine-vaganti-2a-parte-di-giuseppe-germinario-gia-pubblicato-sul-sito-conflittiestrategie-it-il-28112013/  in particolare il paragrafo “LE ASPIRAZIONI NASCOSTE DI LISA JEANNE”). Già da allora si paventava il declino inesorabile e il rischio della perdita di controllo della gestione di una azienda strategica; una delle poche capaci di sviluppare tecnologia, di garantire un minimo di autonomia produttiva nel sistema della difesa e di trasferire nel produzione civile le competenze acquisite. Da allora sono stati compiuti ulteriori decisivi passi indietro nella cessione di queste competenze tecniche e nel controllo delle produzioni del complesso militare. Una scelta colpevole già anni fa, addirittura masochistica e criminale in una fase di incipiente multipolarismo nella quale l’ambito della produzione militare strategica, compreso quello navale, non solo viene sempre più tutelato dagli stati decisi a salvaguardare in qualche maniera la propria autonomia decisionale, ma risulta decisivo, grazie alle crescenti commesse e ai maggiori margini economici, al mantenimento della stessa cantieristica civile e delle stesse produzioni civili ad alto contenuto tecnologico. L’Italia, al contrario, con la cessione della Avio, del Nuovo Pignone, con l’assorbimento di Selenia era già sulla strada di un inesorabile declino e una inevitabile sudditanza. Altri settori apparentemente estranei a questi ambiti, come quello della ceramica e della siderurgia specializzata, seguivano la stessa strada. Da allora il cammino è apparso inarrestabile. Ad esso si aggiunge, in conclusione, l’intenzione di Leonardo di concentrarsi sulla sola elicotteristica civile ed ora di Fincantieri nella costruzione di navi commerciali, settori i quali consentono produzioni dai margini ben più ridotti, poco compatibili con livelli elevati di ricerca. Con il rischio sempre più tangibile di vedere ridimensionati, nel medio termine, anche questi settori. Questo dovrebbe essere uno dei temi fondamentali da trattare per chi volesse realmente costruire una forza politica di interesse nazionale, contrapposta alla palude crescente del nostro scenario politico. Altri temi, come quello dell’immigrazione, pur importanti, dovrebbero fungere da corollario. Sarebbe finalmente il discrimine qualificante tra una forza politica in grado di formare una classe dirigente seria, capace di governare e indirizzare un paese ed una invece esposta e vittima di facili demagogie. Qui sotto il testo e il link di riferimento:

 

FINCANTIERI: THE FRENCH CONNECTION E L’ITALIAN JOB

( http://www.difesaonline.it/evidenza/lettere-al-direttore/fincantieri-french-connection-e-litalian-job )di Damiano Trieste)
11/09/17

L’accordo è ormai cosa fatta. I titoli Fincantieri sono infatti in salita da alcuni giorni ed è ricominciato il mantra celebrativo della nascita del polo franco-italiano della cantieristica militare. Il compito è convincere gli italiani che quella che promette di essere una sonora sconfitta in realtà sarà una luminosa vittoria del nostro capitalismo di Stato. I dettagli non sono ancora noti. Ci avventuriamo però in un’ipotesi (sperando di essere in errore), basata sul pessimismo che la storia recente del nostro Paese e dei suoi centri di potere impone. La nostra sfera di cristallo dice che la soluzione adottata, dopo i proclami indignati dei nostri governanti come reazione per la rimessa in discussione da parte di Macron degli accordi già sottoscritti, privilegerà la Francia a scapito l’Italia, nel senso, per essere concreti, del nostro Pil, dei livelli occupazionali, etc..

Ecco quindi la mossa del cavallo con cui Macron farà scacco matto all’Italia (magari con lo zampino di qualche “fraterno” amico italiano): dare vita a un Polo europeo della cantieristica, suddiviso in due rami. A Fincantieri la gestione, ancorché sotto tutela del governo francese (che non cede la maggioranza della proprietà), del nuovo gruppo industriale Saint Nazaire-Fincantieri per il mercantile; alla francese Naval Groups il controllo del ramo militare di Fincantieri (quello redditizio).

L’impresa che tanto ci aveva inorgogliti, finalizzata alla conquista di un pericoloso concorrente francese, si sta trasformando nel soccorso, con fondi pubblici, ai cantieri di Saint Nazaire per non farli fallire e nella cessione al gruppo francese Naval Groups del controllo della nostra Industria Navalmeccanica militare, con conseguenze pesanti anche per Leonardo. Un bel colpo di scena, non c’è che dire.

Considerato il rapporto di forza fra Naval Groups e Fincantieri militare, la prima capacità a essere anemizzata (come sempre è accaduto nei casi precedenti di merger fra aziende italiane e gruppi francesi) sarà quella progettuale, per ridurci al ruolo di semplici subfornitori. Poi seguirà la dismissione di alcuni cantieri italiani destinati a costruire navi militari, considerati esuberanti rispetto a quelli del nuovo gruppo franco-italiano. Il primo a cadere sarà lo storico cantiere di Castellammare di Stabia, su cui peraltro Fincantieri non ha investito da tempo, seguiranno gli altri. Con buona pace dei Sindacati e dell’indotto industriale italiano, Fincantieri non solo continuerà a trasferire ai cantieri Vaard in Romania carichi di lavoro da Riva Trigoso e dal Muggiano, ma si avvarrà anche dei cantieri francesi, a scapito di quelli italiani, per onorare gli impegni sottoscritti per il mantenimento dei livelli occupazionali di Saint Nazaire. Si prepari quindi Monfalcone, Ancona e poi Palermo (che possiede il più grande bacino in muratura del Mediterraneo in grado di ospitare navi da 350.000 tonnellate – foto).

Sul fronte militare, oltre alle conseguenze negative per l’occupazione nella cantieristica e dell’indotto, fra i danni collaterali ci saranno anche i livelli occupazionali delle aziende di Leonardo. Visto che Thales, il suo principale concorrente possiede il 15% di Naval Groups, è evidente che come conseguenza della leadership francese sul ramo militare, i sistemi d’arma e di comando e controllo di Thales saranno privilegiati sulle nuove navi, rispetto a quelli di Leonardo. Considerato che quasi il 50% del valore economico di una nave militare è rappresentato dai suoi equipaggiamenti, il danno in termini di Pil e di occupazione per l’Italia è evidente. Ancora peggiore potrebbe essere lo scenario se il Governo avesse offerto anche Finmeccanica nel pacco dono ai francesi. In questo caso anche Leonardo verrebbe ridotta progressivamente al ruolo di sub-fornitrice dell’Industria francese.

Il Governo italiano riducendo sempre più il bilancio della Difesa ha demolito non solo le potenzialità operative delle Forze Armate, ma con loro ha impoverito la capacità d’innovazione e più in generale la forza dell’industria ad alta tecnologia della Difesa, rendendola sempre più vulnerabile e meno competitiva sui mercati esteri. Esattamente l’opposto di quello che ha fatto la Francia, che ora si appresta ad assorbire anche le nostre ultime capacità autonome nel settore della Difesa.

È inoltre opportuno chiarire che nonostante i proclami per la creazione di un nuovo Airbus Navale, in grado di accelerare l’integrazione della Difesa Europea, Macron non metterà a sistema Europa tutti i suoi cantieri, ma solo quelli in difficoltà di Saint Nazaire, tenendo per la Francia i cantieri navali a più alto contenuto tecnologico, ovvero quelli in grado di costruire le unità militari più sofisticate fra cui i sottomarini, esattamente come già accaduto con l’Airbus Aeronautico. Anche in il quel caso la Francia tenne separati da Airbus, in mani esclusivamente francesi, gli stabilimenti della Dassault, da cui provengono gli ottimi caccia multiruolo Rafale (foto), con cui la Francia ha fatto, spesso con successo, concorrenza al consorzio europeo Eurofighter.

Una volta di più la Francia accorperà sotto la sua leadership un fastidioso concorrente europeo, mantenendo tuttavia nelle sue mani i gioielli di famiglia. Quindi Europa si, ma a guida francese.

Per il settore mercantile, la mancanza della maggioranza della proprietà non consentirà a Fincantieri, probabilmente con suo grande sollievo, di adottare piani industriali aggressivi per rilanciare Saint Nazaire, potendo scaricare sul suo maggior azionista (lo Stato Italiano) i debiti del cantiere francese, che devono essere davvero poderosi, considerato il prezzo irrisorio di 80 milioni di euro a cui sono stati acquistati. Un prezzo fantastico per un affare convenientissimo. Strano che all’asta si sia presentata, unica fra tutti i grandi gruppi cantieristici del mondo, fra cui il colosso tedesco ThyssenKrupp, solo Fincantieri. Possibile che Bono sia stato l’unico a fiutare l’affare?

Ai meno ingenui tutta l’operazione appariva sin dall’inizio come il salvataggio di Saint Nazaire e non un’acquisizione per eliminare un pericoloso concorrente nel segmento delle grandi navi passeggeri, come veniva raccontato al pubblico italiano. Sarebbe stato assai più vantaggioso per Fincantieri lasciare che i cantieri di Saint Nazaire fallissero, senza accollare alla nostra finanza pubblica anche questo fardello. Anche la giustificazione addotta in merito alla mancanza di spazi per costruire navi passeggeri da 200.000 tonnellate non ha senso, visto che Fincantieri possiede a Palermo (foto) un bacino in muratura in grado di contenere navi di grandissimo tonnellaggio (300.000 tons.) molto superiore a quello richiesto per le nuove pur grandi navi passeggeri. Sarebbe bastato investire risorse nel cantiere siciliano invece che all’estero, per disporre di uno stabilimento in grado di reggere la concorrenza sulle navi passeggeri di grande taglia , sempre più richieste dagli armatori internazionali.

Del resto anche la proposta fatta dal ministro dell’economia francese La Maire di dare vita a un Airbus nel settore navale, per vincere le resistenze del governo italiano, è farina del sacco di Bono (facile la verifica sul web), sinora non decollata per le conseguenze negative sull’insieme delle aziende della Difesa italiana. Perché allora è la Francia a proporla e non il nostro Governo, se l’idea era dell’amministratore delegato del gruppo italiano? Un fatto è sicuro, dopo che La Maire ha garantito che l’amministratore delegato e il presidente del nuovo gruppo Franco Italiano nel settore passeggeri sarebbero stati espressione di Fincantieri, anche senza la maggioranza della proprietà, l’atteggiamento di Fincantieri è tornato estremamente collaborativo. Dopo tale annuncio si sono ritrovati Francia e Fincantieri alleati a spingere per far accettare la proposta francese e dall’altra, il Ministro Calenda e Padoan che cercavano di resistere per ottenere maggiori tutele per l’interesse italiano. Ma Fincantieri non era di proprietà di Cassa Depositi e Prestiti, cioè dello Stato Italiano?

Che le conseguenze dell’accordo possano essere nefaste per l’interesse dei cittadini italiani, qualora dovesse essere configurato come anticipato da noi (nella speranza di aver sbagliato), lo dimostrano i precedenti delle fusioni industriali con i francesi, nello spazio e nella missilistica. La Selenia Spazio ad esempio era un’eccellenza mondiale nella costruzione dei satelliti. Da quando è entrata in gioco Thales come sua partner di maggioranza, l’azienda italiana è scomparsa dai radar.

Alla fine dei conti, per la politica italiana la scelta sarà combattere il blocco Francia/Fincantieri o piegarsi, evitando il conflitto con avversari potenti, cercando di salvare la faccia con il racconto dell’Airbus Navale. Si tratta in fondo di arrivare all’elezioni d’Aprile. Si potrà comunque raccontare la favola della vittoria Italiana, perché avremmo ottenuto dai francesi (anche se su proposta francese, ma questa è una sottigliezza) di dare vita al polo industriale europeo per la difesa comune. Diremo anche che non conta chi comanda, ma è lo spirito europeo che miriamo a rafforzare. E poi meglio avere Fincantieri come amica in tempi di elezioni che come nemica. D’altra parte i danni li subiranno gli italiani, ma non subito, fra qualche tempo, a elezioni passate. Un altro settore produttivo strategico sembra quindi destinato a cadere in mani straniere, nell’indifferenza complice dell’opposizione e dei Sindacati.

Se dovesse finire così, Macron avrebbe vinto alla grande. Sarebbe riuscito a non dare agli italiani la proprietà di Saint Nazaire e a prendere il controllo tramite Naval Groups del comparto industriale italiano dedicato alla costruzione di navi militari. Se ciò non fosse già abbastanza, tramite Thales potrebbe assorbire in un abbraccio mortale anche le aziende di Leonardo. In sintesi tutto il settore dell’industria della difesa italiana passerebbe sotto leadership francese. Macron avrebbe fatto il suo dovere nei confronti del popolo che l’ha eletto, quello di difendere gli interessi nazionali francesi. Ma anche noi italiani abbiamo un vincitore: il Dott. Giuseppe Bono. Invece di andare in pensione, dopo 12 anni di regno su Fincantieri, a cui era approdato dopo un periodo a Finmeccanica e prima ancora in Efim, a 73 anni conquisterà un’altra prestigiosa poltrona che gli consentirà di rimanere in sella, con tutti gli annessi e connessi del caso, almeno sino a 77 anni. Vassallo del Re di Francia e non più monarca assoluto di Fincantieri, è vero, ma a 73 anni, quando la maggioranza dei coetanei è in pensione da tempo, si può senz’altro accontentare.

E all’interesse nazionale? Ci penserà qualcun altro.

Oppure no.

(foto: Présidence de la République française / Fincantieri / U.S. Air Force)

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