Stati Uniti! Aggrappati al potere, lontani dalla realtà_con Gianfranco Campa

La NATO ha avviato esercitazioni a ridosso della Russia coinvolgendo soprattutto i paesi dell’Europa Orientale e interessando anche l’area del Mar Nero.

Alle esercitazioni partecipano militari dell’Ucraina e della Georgia, sostenute dagli Stati Uniti ma non appartenenti alla NATO. Una vera e propria provocazione nei confronti della Russia. Un ulteriore fattore di instabilità in uno scenario che vede il proliferare incontrollato di conflitti aperti in Medio Oriente, di inediti attriti al limite dell’incidente militare tra alleati, nella fattispecie tra Turchia, Francia e Italia; un peggioramento brusco delle relazioni diplomatiche tra alleati storici (Stati Uniti e Messico). Una situazione caotica cui corrisponde una situazione interna agli Stati Uniti nella quale l’amministrazione Biden non sembra avere il controllo della situazione e nemmeno una percezione accettabile della realtà. Una condizione ben lontana dal siparietto offerto dai nostri organi di informazione. L’opposizione pare invece radicarsi sempre più nella società e in settori della pubblica amministrazione e dello Stato. Lo stesso Trump pare essere una pedina importante del movimento alternativo, continua a subire le attenzioni faziose degli avversari, ma non è più il soggetto indispensabile alla sopravvivenza del movimento_Buon ascolto, ne vale proprio la pena_ Giuseppe Germinario

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MASCHERA E VOLTO DEL POLITICAMENTE CORRETTO, di FF

FF da una parte e alcuni altri intellettuali di matrice marxiana, tra i quali Andrea Zhok e Alessandro Visalli, dall’altra sono sicuramente la punta di diamante di una critica al neoliberalismo, intesa come pervasiva ideologia dominante sussunta dal capitalismo; in grado quindi, grazie a questo connubio, di ridurre progressivamente la società ad un conglomerato di individui in condizione di isolamento nichilista, tenuti paradossalmente insieme da una forma inedita di totalitarismo e autoritarismo. Tutti giustamente antepongono al concetto di individuo quello fondativo di comunità, giacché ciascuno può quanto meno essere definito individuo solo in quanto appartenente ad una comunità e ad un sistema di relazioni sociali. Arrivati a questa sacrosanta constatazione la critica sembra però da tempo arenarsi correndo addirittura continuamente il rischio di ricadere in concezioni superate nella loro rappresentazione sistemica e dogmatica, smentite dagli sviluppi storici dei due secoli passati. Il contesto è prematuro e le difficoltà enormi da superare prima di riuscire in un vero salto teorico ed individuare nuove chiavi interpretative utili alla costruzione di orientamenti politici alternativi efficaci. La riesumazione di vecchi termini per tentare di perimetrare nuovi concetti non aiuta di certo a compiere questo salto così necessario. Il termine socialismo è appunto uno di questi escamotage di fatto fuorvianti. Con socialismo, nella accezione più coerente e riconosciuta nella fase di massima spinta dei movimenti rivoluzionari tra seconda metà del XIX e prima metà del XX, si è intesa una forma di regime transitorio necessario ad estinguere il rapporto sociale di produzione capitalistico in favore di quello comunista grazie al quale si sarebbe reso superflua una qualsiasi forma di regime politico, tanto più se basato sulla forza e sull’oppressione tra diseguali. Come si sa, la dura realtà delle cose ha spostato a data da determinarsi il compimento di una tale missione e ha reso sempre meno univoca la definizione di un tale regime oltre a costringere a celare fin quando possibile le prosaiche efferatezze rese necessarie al procrastinarsi di tali regimi, nella loro forma più radicale e coerente. Tali esperimenti, con ogni evidenza, sono falliti e si sono trasformati nella negazione delle migliori intenzioni perché in sostanza avevano l’ambizione di costruire “l’uomo nuovo” pieno delle sue virtù e privo delle sue abiezioni piuttosto che proporre un nuovo regime politico, comunque necessario, in grado di valorizzare diversamente le une e le altre, tutte presenti nella natura umana e nella storia dei rapporti politico-sociali. In questo alveo ha trovato un suo spazio ed una sua legittimazione la velleità della programmazione e del calcolo centralistici integrali delle attività economiche sulla falsariga dei grandi passi in avanti offerti dal capitalismo con la sua spinta al calcolo e all’ottimizzazione dei fattori economici; velleità confutata alla fine anche da marxisti stessi di provata fede, ma non dogmatici del calibro di Althusser e Bettelheim. Hanno nascosto nuove gerarchie e diseguaglianze dietro una rappresentazione egualitaria più rozza e altrettanto ingannevole, nel medio periodo, di quella proposta dall’eguaglianza tra possessori dei mezzi di produzione e possessori della mera forza lavoro proposta dagli apologeti del capitalismo. Il termine socialismo, in una accezione ormai sempre più vaga e sempre più vicina al significato di comunitarismo sta servendo in realtà a contrapporre sempre più la presunta superiorità morale e funzionale del regime cinese rispetto a quello americano; il controllo politico del rapporto sociale capitalistico e dei capitalisti in particolare operante in Cina rispetto al dominio (potere) politico detenuto direttamente dai capitalisti, in particolare di quelli finanziari, negli Stati Uniti. In Cina prevarrebbe il senso comunitario e politico delle scelte, negli Stati Uniti, con il neoliberismo imperante, prevarrebbe totalitariamente e irrimediabilmente la visione economicistica e individualistica delle relazioni tale da disgregare senza via d’uscita la società e da garantire il potere politico pressoché esclusivo, piuttosto che il dominio, di capitalisti sempre più arroccati. In Cina prevarrebbe con successo la partecipazione, la mediazione politica positiva e la sintesi politica rispetto agli stessi interessi economici; negli Stati Uniti sarebbero gli interessi economici capitalistici a prevalere e a dettare legge sino a ridurre tutta la vicenda umana al suo aspetto economico. In realtà è vero che in Cina, su base territoriale e provinciale, vigono forme di partecipazione, mediazione e composizione politica frutto di antiche tradizioni, ma anche del persistente municipalismo comunitario nato con la rivoluzione comunista e della sua convivenza con la diffusione della iniziativa privata individuale disconosciute nel mondo occidentale anche nelle sue reali modalità di formazione delle gerarchie e di sviluppo dei conflitti. Anche negli Stati Uniti, a dire il vero, esiste a livello territoriale una diffusa base civica e comunitaria viva e vivace anche se dalle forme diverse e spesso parassitarie e decadenti nelle sue aree metropolitane. L’emergere di una figura come Trump non fa che confermare questa permanente vitalità.
La visione neoliberale e neoliberista trova certamente ragione d’essere negli Stati Uniti ma soprattutto, anche se non esclusivamente, come rappresentazione ideologica da dare in pasto al popolo americano e ai paesi subalterni. Rimarrà uno strumento ed una rappresentazione necessari e decisivi solo fino a quando le élites e i centri decisionali riterranno di poter imporre e riproporre la loro visione e il loro dominio unipolare. E’ il permanere di questa ambizione, in condizioni impraticabili, che li potrebbe spingere a procrastinare questa rappresentazione e a correre verso il disastro. Nel loro bagaglio teorico e politico esistono però altri armamentari alternativi, paragonabili a quelli russi e cinesi o anche possibili adattamenti della matrice liberale, già per altro intravedibili in alcune emergenti forme di realismo politico.
Saranno in ultima istanza le scelte politiche e il loro grado di realismo a determinare la prevalenza delle diverse forme di rappresentazione.
Cambiano invece le dinamiche verticali di esercizio del potere centrale all’interno dei due paesi. Sulla base della tradizione confuciana, la selezione delle élites e soprattutto degli attori nei centri decisionali in Cina avviene attualmente su una base più meritocratica rispetto a quella americana; è anche vero, però, che quella stessa tradizione ha conosciuto nel tempo, nei secoli, alti e bassi nella sua efficacia ed efficienza grazie alle dinamiche interne e alle eterne contrapposizioni con i potentati locali, spesso e volentieri veri e propri signori della guerra. Dinamiche che in forme diverse si ripropongono anche ora in quel paese. Come pure ad una maggiore efficacia e stabilità corrisponde una progressiva rigidità rispetto all’esercizio americano; rigidità che potrebbe rendere più difficoltosi e dolorosi eventuali adattamenti.
Ciò che sembra offrire maggiori opportunità e potenzialità alle élites cinesi rispetto a quelle americane è stata soprattutto l’abilità delle prime a sfruttare gli spazi offerti dalla globalizzazione a propulsione americana e dalle velleità di un impossibile controllo unipolare di quest’ultima, specie a partire dalla presidenza Clinton. Una dinamica ascendente rispetto a quella americana quantomeno stazionaria; in grado quindi di fornire strumenti di coesione maggiori, almeno teoricamente.
Un dinamismo cinese che deve ancora trovare conferme definitive di successo rispetto alla progressiva chiusura degli spazi e alla capacità di reazione della potenza a stelle e strisce.
Elites che a loro volta ospitano entrambe, a pieno titolo nel proprio seno, anche se con pesi diversi ma non opposti nella funzione capitalisti e finanzieri.
Se socialista quindi si può definire, quello cinese, è solo per la permanenza del ruolo del partito negli equilibri politici, certamente non per le finalità ultime, specie millenaristiche, di quel regime. A conferma della similarità tra le due formazioni emergono le tentazioni di controllo totalitario e integrale della popolazione, già operante in alcune città cinesi, legato all’uso ostentato delle nuove tecnologie informatiche rispetto alle modalità più surrettizie e meno esplicite, ma simili nella sostanza, in atto sul suolo americano.
Quanto alla politica estera non si tratta di superiore levatura morale nei comportamenti, quanto di capacità di potenza, di ambizioni territoriali legati alla capacità, di sapienza diversa. Sono questi i parametri che dovrebbero orientare le scelte politiche e geopolitiche degli altri paesi, compresi l’Italia.
In aggiunta a questi rilievi rimane un altro grande vuoto e comprensibile omissione nell’individuazione della natura dei regimi di potenze attive nelle dinamiche geopolitiche: la sostanza, la natura e le modalità operative della formazione sociale russa e delle sue élites; riemerse a pieno titolo nell’agone geopolitico, capaci di collocare esplicitamente l’azione politica come metro delle scelte nei vari campi e di offrire una visione di comunità esente da rimembranze socialiste.
In conclusione l’azione politica può essere motivata dalla volontà di garantire le condizioni politiche di giustizia, benessere, uguaglianza ed emancipazione degli strati popolari di una società, sempre specificando l’accezione da offrire a quei termini. Del resto la quasi totalità delle rivoluzioni hanno sbandierato tali finalità per riproporre nuove gerarchie e nuove modalità di esercizio del potere. Fondamentale è garantire la dinamicità, il ricambio e l’allargamento delle modalità di formazione delle classi dirigenti; soprattutto rimane essenziale rifuggire dalle tentazioni di cambiamento della natura umana foriere di drammatiche e tragiche eterogenesi dei fini a scapito di quelle stesse componenti sociali che si vorrebbe difendere ed emancipare.
Buona lettura_Giuseppe Germinario
MASCHERA E VOLTO DEL POLITICAMENTE CORRETTO, di FF
A differenza di quanto comunemente si ritiene, nella attuale società occidentale non prevale affatto una forma di estremo relativismo culturale, dato che in realtà si tratta di un relativismo solo apparente.
Infatti, se davvero prevalesse una qualche forma di relativismo culturale (dato che un estremo relativismo culturale è praticamente impossibile), la nostra società sarebbe caratterizzata dalla tolleranza e dal rispetto nei confronti di coloro che non condividono gli schemi concettuali dell’ideologia liberale politicamente corretta. Viceversa il politicamente corretto non ammette che vi siano opinioni o idee diverse da quelle neoliberali, tanto è vero che si cerca di vietare, anche con la forza (della legge), tutto quello che si contrappone al “pensiero (unico) neoliberale”.
Da un lato, quindi, il liberalismo politicamente corretto, ossia soprattutto il neoliberalismo di sinistra, si contraddistingue per una negazione radicale dell’idea stessa di “natura umana”, in quanto si tratterebbe solo di “metafisica” – quasi che la metafisica fosse una forma di superstizione e non contraddistinguesse gran parte della cultura europea (e sotto questo aspetto difficilmente si può negare che anche una acritica e “semplicistica” interpretazione del pensiero di Nietzsche e Heidegger abbia favorito questa assurda concezione della metafisica) -; dall’altro, però, i valori dell’ideologia neoliberale vengono considerati assoluti e indiscutibili, come se l’ideologia neoliberale fosse una teoria scientifica che solo un “troglodita” potrebbe mettere in discussione.
Il risultato è che dei gruppi di pressione particolarmente aggressivi e appoggiati dal grande capitale, che ovviamente ha tutto l’interesse ad eliminare tutto ciò che può ancora ostacolare la mercificazione di ogni ambito vitale, sono ormai in grado di diffondere la loro immagine (fasulla) del mondo, senza (almeno per ora) incontrare nessuna seria “resistenza”, giacché il politicamente corretto, come ogni forma di totalitarismo, può contare sul conformismo culturale nonché sul timore di essere emarginati ed “esclusi” se ci si azzarda ad “andare controcorrente”.
Pertanto, non sorprende nemmeno che più si è conformisti più si venga considerati “trasgressivi”. Guitti di vario genere (non solo cantanti e attori ma pure giornalisti e intellettuali) vengono così considerati “personaggi trasgressivi” solo perché diffondono i più triti luoghi comuni del politicamente corretto, godendo peraltro del pieno sostegno dei media degli oligarchi neoliberali.
Si è quindi perfino giunti a vedere dappertutto il fascismo – ossia ciò che l’ideologia neoliberale considera fascismo – tranne quello presente nella propria testa, al punto che il politicamente corretto si configura come una paradossale forma di permissivismo autoritario e di anticonformismo conformista. Si assiste perciò anche a grottesche forme di “disarcionamento”, giacché ormai rischia di venire accusato di essere fascista, sessista, razzista od omofobo e via dicendo pure chi è considerato un difensore del politicamente corretto. Insomma, quel che conta è solo spingersi sempre più avanti, per paura di essere “sorpassati” e finire tra le file dei “reprobi”.
In questo senso, quelli che per semplicità si possono definire i “destri” (neofascisti, razzisti, “nazipopulisti” od omofobi che siano) sono i migliori, anche se inconsapevoli, alleati dei neoliberali di sinistra (ovverosia sono degli “idioti” – nel senso etimologico del termine – socialmente e politicamente utili), giacché forniscono loro la giustificazione per imporre la propria (aberrante) ideologia politicamente corretta.
Il politicamente corretto costruisce così dei muri ben peggiori di quelli che vorrebbe abbattere e al tempo stesso giustifica le peggiori forme di diseguaglianza economica e sociale, con la scusa di difendere i cosiddetti “diritti individuali” che sovente altro non sono che espressione della ideologia della classe dominante.
In sostanza, il neoliberalismo di sinistra, anche se in apparenza rifiuta la “logica” secondo cui il Politico si struttura e si articola in base all’alternativa “o amico o nemico”, di fatto cerca di imporre proprio questa “logica” in ogni ambito sociale (in primis nel sistema educativo) strumentalizzando la miseria culturale e il disordine mentale della destra cosiddetta “populista”.
Di questo ne dovrebbero essere consapevoli coloro che, pur non ignorando le “dure repliche” della storia del Novecento, ritengono che l’unica società razionale possibile (certo non intendendo per razionale solo la mera razionalità strumentale) sia una società socialista. Vale a dire che è sul “terreno” del Politico (geopolitica e antropologia politica incluse) che ci si può ancora opporre, secondo una prospettiva socialista e comunitaria, all’ideologia neoliberale politicamente corretta.
Tuttavia, ciò è possibile solo se si abbattono “vecchi” steccati ideologici e se ci si libera definitivamente di una concezione economicistica nonché di quell’ottuso scientismo che anziché ostacolare favorisce proprio le peggiori forme di irrazionalismo e di anti-intellettualismo, come la stessa vicenda del Covid ha ampiamente dimostrato.
Dovrebbe essere chiaro cioè che un conto è riconoscere che il processo di civilizzazione non sarebbe possibile se non ci fossero dei progressi, sia sotto il profilo sociale che sotto quello culturale, e un altro è invece l’ideologia progressista che spaccia per progresso la dissoluzione di ogni legame comunitario e di ogni “espressione culturale” che non siano “funzionali” all’attuale società di mercato ovvero si considera come un progresso l’annientamento di tutto quel che può ostacolare gli interessi del grande capitale sedicente “cosmopolita”.
Nondimeno, si deve ammettere che la fine di quello che si potrebbe definire il “paradigma marxista” ha creato un “vuoto” culturale e politico che è ancora ben lungi dall’essere colmato, sempre che non si vogliano prendere in seria considerazione le assurde e puerili forme di complottismo di varia specie che si sono diffuse in questi ultimi decenni. Di fatto, tranne alcune pur rilevanti eccezioni, anche coloro che criticano duramente l’attuale società di mercato sembrano ancora essere “prigionieri” di schemi concettuali non solo obsoleti ma “incapacitanti”, ostinandosi a difendere quel che è già scomparso o che comunque è destinato a scomparire.
In definitiva, non si tratta di negare che la questione del lavoro e quindi dei diritti sociali ed economici sia una questione della massima importanza, ma di comprendere che la nostra società non la si può cambiare “partendo” dal lavoro (dalla fabbrica, ecc.), perché è solo combattendo sul “terreno” politico-culturale che è possibile cambiare pure le condizioni del lavoro. In altri termini è l’“ideologia della merce” (quindi della mercificazione della natura e delle stesse persone), della quale il politicamente corretto è l’espressione più coerente e “matura”, che si deve combattere se si vuole contrastare con successo la concezione secondo cui anche il lavoro sarebbe una merce.
Chiedersi come possa essere una società socialista o se si preferisce postcapitalistica (il termine conta relativamente poco) può essere utile per avere le idee più chiare, ma è evidente che è assai improbabile che nei prossimi decenni si possa realizzare qualcosa di simile. Quel che invece è possibile e necessario in questa fase storica (questo è il senso del mio post ‘Maschera e volto del politicamente corretto’) è contrastare l’ideologia della merce e questo dovrebbe essere il minimo comune denominatore in grado di unire diverse energie intellettuali e morali ancora presenti nella nostra società.
La struttura della stessa società postcapitalistica del resto non potrebbe che configurarsi in forme diverse, giacché sarebbe il frutto di questa battaglia che non può che essere diversa nei diversi Paesi in quanto non può non dipendere dalle condizioni storiche e culturali di ciascun Paese (che senso avrebbe altrimenti parlare di socialismo comunitario?).
Tuttavia, nella attuale fase storica del nostro Paese e in generale dell’Occidente sono ancora da creare le condizioni per combattere questa battaglia.
E’ quindi questo il problema che si dovrebbe cercare di risolvere e non è certo un problema facile da risolvere. In pratica siamo solo all’inizio di una fase storica che non concerne solo l’Occidente e che si configura come un periodo di transizione che non si sa quanto possa durare, benché tutto lasci pensare che sarà assai lungo e difficile, e il cui esito non è affatto scontato
Brevissima nota a proposito della frase di F.F. , di Roberto Buffagni
“coloro che, pur non ignorando le “dure repliche” della storia del Novecento, ritengono che l’unica società razionale possibile (certo non intendendo per razionale solo la mera razionalità strumentale) sia una società socialista.” R
ilevo che l’espressione “società socialista” va riempita di nuovo contenuto, e che questo contenuto non è già noto e autoevidente, proprio a causa delle “dure repliche della storia” e, aggiungo io, delle aporie teoretiche del marxismo.
Questo F.F. lo sa bene, e infatti tenta, nella sua ricerca, di riempire di nuovo contenuto la parola “socialismo”.
Non tutti lo sanno, né tutti conoscono la ricerca di F.F..

Lettera al Presidente, lettre à monsieur le Président_di e a cura di Giuseppe Germinario

Invito a leggere questa lettera-appello pubblicata in Francia il 22 aprile scorso. Segue qualche considerazione_Giuseppe Germinario

“Per un ritorno all’onore dei nostri governanti”: 20 generali chiedono a Macron di difendere il patriottismo

Su iniziativa di Jean-Pierre Fabre-Bernadac, ufficiale di carriera e direttore del sito di Place Armes , una ventina di generali, un centinaio di alti ufficiali e più di mille altri soldati hanno firmato un appello per un ritorno di onore e dovere all’interno della classe politica. Valeurs Actuelles diffondono, con la loro autorizzazione, la lettera intrisa di convinzione e impegno da parte di questi uomini legati al loro Paese.

Signor Presidente,
Signore e Signori del Governo,

Signore e Signori, Membri del Parlamento,

L’ora è seria, la Francia è in pericolo, diversi pericoli mortali la minacciano. Noi che, anche nella riserva, rimaniamo soldati di Francia, non possiamo, nelle attuali circostanze, restare indifferenti alle sorti del nostro bel Paese.

Le nostre bandiere tricolori non sono solo un pezzo di stoffa, simboleggiano la tradizione, attraverso i secoli, di coloro che, qualunque sia il loro colore della pelle o la loro fede, hanno servito la Francia e hanno dato la vita per essa. Su queste bandiere, troviamo in lettere d’oro le parole “Onore e Patria”. Tuttavia, il nostro onore oggi sta nella denuncia della disgregazione che colpisce la nostra patria.

– Disgregazione che, attraverso un certo antirazzismo, si manifesta con un unico scopo: creare sul nostro suolo un malessere, addirittura odio tra le comunità. Oggi alcuni parlano di razzismo, indigenismo e teorie decoloniali, ma attraverso questi termini è la guerra razziale quella che vogliono questi odiosi e fanatici partigiani. Disprezzano il nostro Paese, le sue tradizioni, la sua cultura, e vogliono vederlo dissolversi portandogli via il suo passato e la sua storia. Così attaccano, attraverso statue, antiche glorie militari e civili analizzando parole vecchie di secoli.

– Disgregazione che, con l’islamismo e le orde suburbane, porta al distacco di molteplici lembi della nazione per trasformarli in territori soggetti a dogmi contrari alla nostra costituzione. Tuttavia, ogni francese, qualunque sia il suo credo o il suo non credo, è ovunque a casa in Francia; non può e non deve esistere nessuna città, nessun distretto in cui non si applicano le leggi della Repubblica.

– Disgregazione, perché l’odio ha la precedenza sulla fraternità durante le manifestazioni in cui il potere usa la polizia come agenti ausiliari e capri espiatori di fronte ai francesi in gilet giallo che esprimono la loro disperazione. Questo mentre individui infiltrati e incappucciati saccheggiano aziende e minacciano le stesse forze di polizia. Tuttavia, questi ultimi applicano solo le direttive, a volte contraddittorie, fornite da voi, governanti.

I pericoli aumentano, la violenza aumenta di giorno in giorno. Chi avrebbe previsto dieci anni fa che un giorno un professore sarebbe stato decapitato al momento di uscire dal liceo? Tuttavia, noi, servitori della Nazione, che siamo sempre stati pronti a garantire con la vita il nostro impegno – come richiesto dal nostro stato militare, non possiamo essere di fronte a tali atti degli spettatori passivi.

Inoltre, coloro che guidano il nostro paese devono assolutamente trovare il coraggio necessario per sradicare questi pericoli. Per fare ciò, spesso è sufficiente applicare le leggi esistenti senza debolezze. Non dimenticare che, come noi, la grande maggioranza dei nostri concittadini non ne può più delle vostre colpevoli tergiversazioni.

Come ha detto il cardinale Mercier, primate del Belgio: “Quando la prudenza è ovunque, il coraggio non è da nessuna parte. ” Allora, signore e signori, basta rinvii, la situazione è seria, il lavoro è enorme; non perdete tempo e sappiate che siamo pronti a sostenere politiche che tengano conto della salvaguardia della nazione.

D’altra parte, se non si interviene, il lassismo continuerà a diffondersi inesorabilmente nella società, provocando alla fine un’esplosione e l’intervento dei nostri camerati in servizio in ​​una pericolosa missione di protezione dei nostri valori di civiltà e salvaguardia dei nostri connazionali sul territorio nazionale.

Come si vede, non è più tempo di procrastinare, altrimenti domani la guerra civile metterà fine a questo caos crescente e le morti, di cui voi sarete responsabili, si conteranno a migliaia.

I generali firmatari:

General de Corps d’Armée (ER) Christian PIQUEMAL (Legione straniera), General de Corps d’Armée (2S) Gilles BARRIE (Fanteria), Generale di divisione (2S) François GAUBERT ex governatore militare di Lille, Generale di divisione (2S ) Emmanuel de RICHOUFFTZ (fanteria), generale di divisione (2S) Michel JOSLIN DE NORAY (truppe di marina), generale di brigata (2S) André COUSTOU (fanteria), generale di brigata (2S) Philippe DESROUSSEAUX di MEDRANO (treno), aria Generale di brigata (2S) Antoine MARTINEZ (Air Force), Generale di brigata aerea (2S) Daniel GROSMAIRE (Air Force), Generale di brigata (2S) Robert JEANNEROD (Cavalleria), Brigata generale (2S) Pierre Dominique AIGUEPERSE (fanteria) generale Brigade (2S) Roland DUBOIS (Trasmissioni), gBrigadier General (2S) Dominique DELAWARDE (Fanteria), Brigadier General (2S) Jean Claude GROLIER (Artiglieria), Brigadier General (2S) Norbert de CACQUERAY (Directorate General of Armament), Brigadier General (2S) Roger PRIGENT (ALAT), Brigadier Generale (2S) Alfred LEBRETON (CAT), Medico generale (2S) Guy DURAND (Servizio sanitario dell’esercito), Contrammiraglio (2S) Gérard BALASTRE (Marina).

Il documento ha una rilevanza intrinseca sia per la qualità che per il numero dei firmatari, tutti militari di vario ordine e grado dell’armée, che per il tono sorprendentemente ultimativo impresso. Un accento che non lascia troppi spazi a vie di mezzo e tempi lunghi. Può essere l’indizio di qualcosa di grosso e di risolutivo in via di preparazione, come di una prosopopea senza esito fattivo, ma che porterà di sicuro discredito e dileggio ai promotori pur mossi dalle migliori intenzioni. Sicuramente è un grido di allarme. La situazione in Francia, pur comune a gran parte dei paesi occidentali, in realtà è particolarmente grave se addirittura un politico dall’approccio globalista e cosmopolitico del calibro del Presidente Macron, coltivato certosinamente in quegli ambienti, ha dovuto assumere occasionalmente e artatamente le vesti del sovranista; vesti che non sono con ogni evidenza le sue.
Assume un peso ancora più significativo e interessante sia per il merito esplicito e sottinteso che per il contesto che l’appello ha smosso ed entro il quale sta agendo.
  • nel merito ci rivela in primo luogo quello che sul nascere avevamo prontamente sottolineato a suo tempo in vari articoli del sito: il movimento di massa dei “Gilet Gialli” per le sue modalità operative e per la contestuale diffusione territoriale presupponeva l’esistenza di addentellati se non proprio di una direzione e indirizzo veri e propri di importanti centri decisionali e politici presenti nelle istituzioni francesi. La sorprendente denuncia, per altro più che fondata, nel documento dell’utilizzo violento, strumentale e decisamente sproporzionato di settori delle forze dell’ordine sono una sorta di certificazione di quanto sottolineato. Stigmatizza giustamente e apertamente la funzione politica dell’antirazzismo e delle rivendicazioni antidiscriminatorie prevalenti odierni, capovolgendoli paradossalmente in forme subdole di razzismo, di frammentazione e separatismo identitari tali da erodere irreversibilmente le fondamenta della coesione sociale e della nazione. L’islamismo radicale in realtà è forse la forma più scoperta e radicale di queste manifestazioni, ma ne esistono altre, concomitanti, molto più subdole, perché espressione diretta della cultura occidentale e sostenute da buona parte delle élites dominanti; anche questi, aspetti più volte evidenziati nei nostri articoli.
  • Riguardo al contesto e alle dinamiche innescate il documento ci dice analogamente molto di più del significato letterale delle parole ivi contenute. Si rivolge correttamente di fatto a tutte le forze politiche e a tutti i rappresentanti delle istituzioni. I promotori infatti hanno stigmatizzato gelidamente l’invito inopportuno e intempestivo di Marine Le Pen ad aderire al suo partito, il RN ex Front National. Una conferma dei rapporti deteriorati e di sorda diffidenza già emersi dopo pochi mesi dalle elezioni europee e a pochi mesi dal loro ingresso con la fuoriuscita di importanti esponenti di questa area dal partito della Le Pen, ma anche della funzione di eterna oppositrice di comodo di quest’ultima nel panorama politico transalpino. Si inserisce in una vasta campagna politica portata avanti da organi di informazione conservatori in Francia ben consolidati ed affermati, tra i vari questo https://www.valeursactuelles.com/clubvaleurs/politique/philippe-de-villiers-jappelle-a-linsurrection/ Segue numerose vicende significative tra le quali la clamorosa defenestrazione per via giudiziaria di Fillon, personaggio per altro inadeguato, dalla candidatura alle ultime presidenziali e le rumorose dimissioni del popolare Pierre de Villiers, fratello di Philippe, da comandante delle forze armate nel luglio del 2017 e del quale per altro brilla l’assenza tra i firmatari.

Il dibattito e gli schieramenti politici in Francia sono certamente meno delineati rispetto alla situazione offerta dagli Stati Uniti, certamente più nitidi e chiari rispetto alla frivolezza e alla irrilevanza dei temi affrontati in Italia. Si avvicina a quella americana nella frammentazione geografica e socioeconomica e nel livello politico di ostilità. Può aiutare a decifrare ciò che in realtà si muove meno consapevolmente e in drammatico ritardo anche nel nostro paese. Rivela le intenzioni politiche e le prospettive di autonomia presenti in maniera strutturata in una parte rilevante della sua classe dirigente, ma evanescenti nella nostra. Prospettive ed intenzioni da realizzare però con una qualche possibilità di successo solo a patto di dosare l’azione politica e gli obbiettivi alla reale condizione di forza del paese, ormai strettamente integrato politicamente e ormai militarmente nel campo occidentale piuttosto che essere guidata dalla illusione di grandeur di tempi ormai passati. E’ il discrimine che passa tra la eventuale ripetizione del tentativo gaullista degli anni ’60 e una sua disastrosa parodia. In Francia non mancano espressioni e autorevoli pubblicazioni dotate dell’adeguata consapevolezza della posta in palio. L’intervista a de Villiers, citata in precedenza, fa invece parte della categoria dei velleitari, forse non a caso così ampiamente promossa. Parla di insurrezione, un atto politico forte ed estremo, necessario in delimitati momenti, contingenze e ambiti di azione; in realtà pensa ad una battaglia culturale conducibile in altri ambiti che prescindono tra l’altro dalla detenzione effettiva di potere. Parla di un nemico politico, in realtà lo confonde e lo assimila ad una componente e/o un avversario, il capitalista, in particolare il rentier, in posizione dominante in ambito economico, largamente influente in ambito sociale, ma dal punto di vista politico e nelle sue varie frazioni solo parte di centri decisionali cooperanti e in conflitto tra di essi; una figura alla quale le forze politiche, anche le più “antagonistiche”, non sanno che offrire modalità diverse di regolazione piuttosto che la sua estinzione vista la inesistenza di alternative. Un limite di impostazione che accomuna paradossalmente le componenti radicali dei due versanti opposti e contrapposti. Da qui l’omologazione fuorviante ad un’unica tendenza del radicalismo islamico che, per quanto settario, ha una funzione aggregante e alternativa e del particolarismo identitario e nichilista, legato alla rivendicazione del desiderio personale come diritto e della diversità come convivenza giustapposta di gruppi separati. Il richiamo alla patria, alla nazione, alla identità nazionale rischia di ridursi ad una sterile declamazione. L’avversario politico diventa indefinito, come regolarmente accaduto con i movimenti mondialisti antiglobalisti e il più delle volte quello sbagliato o quello meno rivelante, portando il più delle volte inavvertitamente la serpe in casa. Così per de Villiers, non solo per lui, sul podio di nemico numero uno assurge l’economista Klaus Schwab, il gruppo di Davos, la cupola globalista senza avvedersi che tali gruppi certamente esistono, perpetrano propositi di cambiamento della natura umana e di controllo totalitario globale, ma solo se compatibili con le mire di controllo e di potere politico di centri decisionali, di unità statali tanto totalitari nelle intenzioni quanto costretti a prendere atto dell’esistenza di altri centri contrapposti e potenzialmente dalle mire similari. Le implicazioni di tale rappresentazione sono molteplici: si può cadere nella tentazione velleitaria di un pedissequo ritorno al passato tipico dei reazionari, nel rifiuto della tecnologia piuttosto che nella valutazione del suo utilizzo e dei principi che ne informano gli sviluppi, fermo restando che la conoscenza e l’ambizione di controllo dei processi naturali sono parte integrante dello sviluppo scientifico quali che siano i rapporti sociali e a prescindere da come questi rapporti vi entrino; si possono proporre “sante alleanze” (ad esempio tra tutti gli stati) contro una cosiddetta cupola che è in realtà parte integrante del sistema di potere di qualcuno di essi; non si riesce a percepire l’esistenza di varie “cupole” anche finanziarie al servizio di centri e stati “amici” o ritenuti tali o esenti per natura da certi esercizi di potere. La lettera, forse al di là della valutazione e delle stesse intenzioni dei firmatari, assume quindi una importanza politica enorme, specie in una Europa addomesticata ormai da oltre settanta anni. Vedremo verso quale versante penderà la propensione dei promotori; quel declivio ne determinerà la sorte. In Italia ci guardiamo bene dal raggiungere quel crinale che obbligherebbe senza scampo ad una scelta. Potrebbe essere ancora una volta la nostra salvezza da tragedie immani ma anche successi che invece la Francia ha conosciuto; sicuramente, nel migliore dei casi, si tratterebbe di una sopravvivenza di una classe dirigente, meno di un popolo, costantemente con il cappello in mano. Giuseppe Germinario

Il punto di svolta, di Carlo Lancellotti

Negli ultimi anni, numerosi libri si sono cimentati con la percezione che stiamo vivendo un periodo di declino sociale e culturale. Possiamo annoverare in questa categoria The Benedict Option di Rod Dreher , Why Liberalism Failed di Patrick Deneen e The Decadent Society di Ross Douthat . Una nuova aggiunta a questo genere, che tuttavia riguarda anche l ‘”ascesa” che ha preceduto il “declino” e le lezioni che possiamo trarne per andare avanti, è The Upswingdi Robert D. Putnam e Shaylyn Romney Garrett. In un impressionante tour de force della ricerca sociologica, gli autori analizzano una vasta gamma di dati statistici riguardanti quattro aree della vita americana tra il 1895 e il 2020 (economia, politica, società e cultura) e rilevano un modello “macro-storico” comune . In tutte e quattro le aree, durante la prima metà del periodo la società americana è passata da “I” (che è usato come abbreviazione per disuguaglianza economica, polarizzazione politica, isolamento sociale e individualismo culturale) a “Noi” (che significa un sistema, un grado significativo di cortesia politica, più solidarietà sociale e una cultura più comunitaria). Ma poi, intorno al 1960 “accadde qualcosa” e il pendolo iniziò a oscillare nella direzione opposta. Organizzando adeguatamente i dati,Putnam e Romney Garret sono in grado di tracciare un grafico generale (a forma di U capovolta) che riassume questa traiettoria “I-We-I”. La parte ascendente del grafico parte dall’età dell’oro, attraversa l’era progressista e il New Deal e culmina nel consenso culturale e politico degli anni ’50. Profondamente imperfetto, che rimpiazzava i neri americani e le donne, questo accordo era ancora uno di più ampia solidarietà sociale e minore disuguaglianza di quanto non fosse stato nell’Età dell’Oro. La tappa discendente comprende i turbolenti anni ’60 e ’70, la rivoluzione Reagan e gli ultimi decenni, portando all’attuale situazione di minore solidarietà e cortesia, e aumento dell’isolamento e della disuguaglianza superando l’era progressista e il New Deal culminata nel consenso culturale e politico degli anni ’50. 

Oltre ad essere un libro interessante a sé stante, The Upswing ha attirato la mia attenzione nella mia qualità di traduttore inglese delle opere del filosofo politico italiano Augusto Del Noce (1910–1989). Del Noce era un perspicace critico sociale e storico della cultura, il quale già negli anni Sessanta sosteneva che gli anni immediatamente prima e dopo il 1960 avevano segnato un grande cambiamento epocale, quello che Putnam e Romney Garret chiamano appropriatamente un “punto di svolta”. La prospettiva di Del Noce era strettamente filosofica e culturale, ma penso che integri l’analisi di The Upswing sotto due aspetti.

In primo luogo, Del Noce scrive da una prospettiva europea e guarda all’evoluzione della cultura occidentale nel suo insieme, mentre Putnam e Romney Garret si concentrano strettamente sugli Stati Uniti. Mentre questo è abbastanza giustificato per quanto riguarda l’economia e la politica, lo è meno quando dobbiamo cercare di comprendere la cultura e la società; molte delle trasformazioni culturali e sociali che descrivono (ad esempio, la rivoluzione sessuale, il consumismo, l’espansione di istruzione) si sono svolte quasi contemporaneamente in molti paesi diversi e probabilmente sono meglio comprese da un punto di vista più internazionale.

In secondo luogo Del Noce, come filosofo, può concentrarsi sulla logica interna della vita culturale e intellettuale in una misura che non è possibile in uno studio sociologico. Una delle scoperte più interessanti di Putnam e Romney Garret è che nel dopoguerra i cambiamenti economici e sociali sembrano essere leggermente ritardati rispetto ai cambiamenti culturali. La cultura è cambiata prima; seguirono cambiamenti economici e sociali più ampi. Come spiegano, questo non ci consente di concludere che le dinamiche culturali da sole abbiano guidato il “punto di svolta”, perché gli interessi materiali e politici hanno certamente esercitato anche la causalità in una complessa rete di circuiti di feedback. Tuttavia, le idee hanno sicuramente giocato un ruolo significativo. Putnam e Romney Garret illustrano questa interconnessione di causalità citando un passaggio sorprendente di Max Weber: “Non le idee, ma gli interessi materiali e ideali governano direttamente la condotta degli uomini. Eppure, molto spesso le “immagini del mondo” [ Weltanschauungen , visioni del mondo] che sono state create dalle “idee” hanno, come i commutatori, determinato i binari lungo i quali l’azione è stata spinta dalla dinamica di interesse “.

Weber qui fa la distinzione tra “idee” e “interessi ideali”. Ciò che intende è che gruppi di persone possono avere un interesse a preservare un insieme di idee, o promuoverne uno nuovo, tale da andare ben oltre il fatto che quelle idee siano o meno vere. Ad esempio, i sociologi accademici hanno interesse a preservare l’idea che la sociologia accademica è un campo coerente ma difficile da capire, degna di un’impresa di alto livello con una grande sicurezza del lavoro. Gli inserzionisti hanno un interesse ideale nel promuovere il concetto che le decisioni di acquisto possono essere modellate dalla pubblicità. Le attiviste femministe hanno un interesse ideale nel promuovere il concetto che il patriarcato è potente e sinistro e che le attiviste femministe hanno molto lavoro importante da fare. Coloro che vogliono fare molto sesso senza impegno hanno un interesse ideale nel promuovere il postulato che la monogamia e il matrimonio sono istituzioni oppressive e che, per estensione, agire sul desiderio sessuale è una sorta di sana espressione di sé. Sono idee come queste che vengono costruite in “visioni del mondo”. Ci si può trovare con una visione del mondo notevolmente coerente con il proprio interesse personale.

Gruppi di persone possono avere interesse a preservare una serie di idee, o promuoverne una nuova, che va ben oltre il fatto che quelle idee siano vere o meno…. Ci si può trovare con una visione del mondo notevolmente coerente con il proprio interesse personale.

Del Noce era uno specialista nello studio di tali “visioni del mondo” come si trovano nelle opere di filosofi, artisti e intellettuali, ma anche nei media e nella cultura popolare, e delle loro logiche interconnessioni e sviluppi. In particolare, era convinto che la storia del Novecento fosse in misura insolita “storia filosofica” per quanto influenzata da idee e ideologie ereditate dal secolo precedente. Quindi, penso che le sue intuizioni contribuiscano alla discussione sulla “cultura” nel capitolo 5 di The Upswing .

In termini molto generali, Del Noce ha osservato che la cultura occidentale della metà del secolo ha risposto alle tragedie dei decenni precedenti (due guerre mondiali, il totalitarismo sovietico e nazista, l’Olocausto, la bomba atomica) riscoprendo la mentalità dell’Illuminismo .Questa mentalità era emersa per la prima volta nel diciottesimo secolo, ma poi era stata contrastata e parzialmente neutralizzata dalla cosiddetta reazione romantica, che caratterizzò il diciannovesimo secolo e la prima parte del ventesimo. Mentre il romanticismo enfatizzava un senso di continuità storica, persino un amore per il passato, l’atteggiamento dell’Illuminismo fu segnato dalla decisione di rompere con il passato e “ricominciare da capo”. E infatti dopo il 1945 studiosi, giornalisti e artisti riscoprirono gradualmente l’Illuminismo “come disposizione a dichiarare una rottura con le strutture tradizionali e criticarle inesorabilmente da un punto di vista etico, politico e sociale”. Mentre ai tempi di Voltaire il passato era il “periodo oscuro” della superstizione religiosa, negli anni Cinquanta era “fascismo”.”Ma il” fascismo “immaginato dagli uomini e dalle donne degli anni ’50 era visto, per la maggior parte, non come un fenomeno politico contingente (e moderno!), ma come l’espressione della” vecchia Europa “; una cultura immaginata essere indelebilmente oscura come Voltaire aveva immaginato la Chiesa cattolica, segnata dal nazionalismo, dall’irrazionalismo, dal tribalismo, dal razzismo, dal sessismo e così via. La percezione era che il fascismo avesse segnato il fallimento della tradizione europea; in un certo senso ne fosse il suo vero volto. Ecco perché, secondo Del Noce, i pensatori e gli scrittori degli anni Cinquanta hanno riscoperto l’Illuminismo nella sua versione più antitradizionale, perché il loro recupero ha assunto un sapore decisamente anti-autoritario (“antifascista”). Questo antiautoritarismo si è espresso come un’enfasi sull’autonomia personale e l’indipendenza dalle restrizioni sociali e nel linguaggio dell ‘”autorealizzazione” che divenne onnipresente nella cultura popolare. Opporsi a ciò era per necessità, pensavano, essere a favore della vecchia Europa che, secondo loro, ci aveva regalato l’Olocausto.

La cultura occidentale della metà del secolo ha risposto alle tragedie dei decenni precedenti riscoprendo la mentalità dell’Illuminismo…. L’atteggiamento dell’Illuminismo è stato segnato dalla decisione di rompere con il passato e di “ricominciare da capo”.

Questa disposizione neo-illuminista si manifestava anche in una chiave diversa, in tensione con la prima: un impegno per il bene dell’autoespressione dell’individuo unico andava di pari passo con un’enfasi sui valori umani universali rispetto ai valori nazionali o locali. Questi valori, tuttavia, non erano particolarmente le verità etiche universali rivendicate, ad esempio, dal cristianesimo. Il principale tra i valori universali a cui guardava il bien-pensant degli anni ’50 era quello della razionalità scientifica, che presumibilmente fornisce l’unica via possibile per allontanarsi dagli orrori del passato e consente all’umanità di entrare nell’età adulta. Di conseguenza, un atteggiamento divenuto comune negli anni precedenti al 1960 era lo scientismo, con cui Del Noce non intende la scienza in sé, ma piuttosto la visione filosofica secondo cui la scienza è l’unica vera razionalità e l’unico sano principio organizzativo della società. La controparte politica dello scientismo è la tecnocrazia, l’idea che la società debba essere diretta da “esperti”: scienziati, tecnici, manager, uomini d’affari. Questa idea era stata notoriamente avanzata alla fine del “vecchio” Illuminismo dal conte di Saint-Simon e puntualmente riemerse negli anni ’50, l’era della “rivoluzione manageriale”. Non a caso, questa fu anche l’età d’oro delle scienze sociali – sociologia, antropologia, psicologia, sessuologia, pedagogia – che raggiunsero una grande importanza non solo nel mondo accademico ma anche nella politica pubblica e persino nella cultura popolare. Allo stesso tempo la filosofia perse gran parte del suo precedente prestigio culturale, poiché molti professionisti si allontanarono dai suoi tradizionali campi di indagine (metafisica, filosofia morale) a favore di campi che ne facevano una sorta di ancilla scientiae.(filosofia analitica, filosofia della scienza). La scienza naturale, dopotutto, era la vera fonte di conoscenza. Tutto il resto era speculazione.

Un impegno per il bene dell’autoespressione dell’individuo unico è andato di pari passo con un’enfasi sui valori umani universali rispetto ai valori nazionali o locali. Questi valori, tuttavia, non erano particolarmente le verità etiche universali rivendicate, ad esempio, dal cristianesimo.

Per alcune interessanti illustrazioni americane di ciò che descrive Del Noce, rimando il lettore ai capitoli 3 e 4 di The Twilight of the American Enlightenmentda George Marsden, l’illustre storico evangelico. Quello che Marsden chiama l’Illuminismo “americano” è in realtà il difficile “matrimonio” che aveva segnato così tanto della storia degli Stati Uniti: il matrimonio tra l’Illuminismo e il protestantesimo. Quindi l’affermazione di Del Noce deve essere adattata al contesto americano dicendo che mentre in Europa la mentalità dell’Illuminismo è stata riscoperta, negli Stati Uniti (dove era già forte) si sentiva abbastanza forte da allontanarsi dalla sua difficile alleanza con il cristianesimo protestante. Con questa qualifica, Marsden concorda con Del Noce sul punto essenziale: “A tutti questi livelli della vita americana tradizionale, dai più alti forum intellettuali alle colonne di consigli quotidiani più pratici, due di queste autorità sono state quasi universalmente celebrate: l’autorità del metodo scientifico e l’autorità dell’individuo autonomo “.

Secondo Del Noce, alla grande svolta culturale alla fine degli anni Cinquanta contribuì un’altra riscoperta: quella del marxismo. Nella cultura europea il marxismo era già tornato alla ribalta dopo la seconda guerra mondiale, diventando egemonico, ad esempio, tra gli intellettuali francesi e italiani. Negli Stati Uniti, ovviamente, durante la Guerra Fredda, la cultura dominante era decisamente anticomunista. Tuttavia, secondo Del Noce, le idee marxiste avevano una portata molto più ampia del comunismo come movimento politico. Se si riconosce come nucleo del marxismo l’affermazione della priorità causale dei fattori economici-materiali, la tendenza a “spiegare ciò che è superiore attraverso ciò che è inferiore” e la teoria della “falsa coscienza” (che sostiene che si appella all’etica universale e i valori religiosi sono generalmente travestimenti per interessi economici egoistici), allora bisogna ammettere che il marxismo ha avuto una grande influenza, ad esempio, sulle scienze sociali. Mentre gli intellettuali laici generalmente rifiutavano la filosofia della storia di Marx (l’aspettativa della rivoluzione, il ruolo messianico del proletariato e così via), molti di loro aderivano ampiamente agli aspetti scientisti e materialistici del marxismo. Presi isolatamente, questi tendono a persuadere gli aderenti ad adottare un “relativismo totale”; tutti i valori sono i riflessi di circostanze storiche materiali, di gruppo o di interesse personale; non hanno validità permanente. È in questo senso, scriveva Del Noce, che “la rinascita della mentalità illuminista e la riscoperta del marxismo si sono incontrate e si sono compenetrate”.

Mentre gli intellettuali laici generalmente rifiutavano la filosofia della storia di Marx, molti di loro aderivano ampiamente agli aspetti scientisti e materialistici del marxismo. Presi isolatamente, questi tendono a persuadere gli aderenti ad adottare un “relativismo totale”: tutti i valori sono il riflesso di circostanze storiche materiali, di gruppo o di interesse personale, e non hanno validità permanente.

Già nel 1963 Del Noce ha diagnosticato che questa confluenza di temi illuministici e idee marxiste caratterizzava una “nuova” cultura, che ha variamente descritto come la società “tecnologica” o “ricca”, o come “progressismo”. Ha anche predetto che quando questa mentalità è penetrata dalle élite intellettuali nella società più ampia (attraverso l ‘”industria della cultura”, i mass media, l’istruzione pubblica, ecc.), Avrebbe prodotto precisamente alcuni degli effetti descritti in The Upswing : crescente individualismo, frammentazione sociale , diminuzione della religiosità, crescente disuguaglianza economica. Ha basato la sua previsione sul fatto che la nuova cultura era radicalmente positivistica, e quindi destinata a “demitizzare” e infine a distruggere le narrazioni simboliche e religiose che legavano insieme la società.

Per spiegare meglio questo punto cruciale, lasciatemi fare riferimento al classico cliché “Dio, famiglia e paese”. Questo slogan è stato sfruttato da molti politici senza scrupoli e ridicolizzato da altrettanti intellettuali sofisticati, ma indica una verità importante. Le persone si sentono unite ad altre persone se condividono quella che Del Noce chiamava una “dimensione ideale” che inevitabilmente si riferisce a ciò che chiamava “l’invisibile” o “il sacro”. Per essere unite le persone devono riconoscersi a vicenda come partecipanti a esperienze e valori universali che trascendono l’utilità individuale immediata. La religione, la famiglia e la nazionalità sono tre di queste fonti fondamentali di “sacralità”. Ora, secondo Del Noce, la società benestante tende a “dissacrarli” e di conseguenza diventa lentamente una “non società” formata da individui “atomizzati”.

Per essere unite le persone devono riconoscersi a vicenda come partecipanti a esperienze e valori universali che trascendono l’utilità individuale immediata.

Per quanto riguarda “Dio”, Del Noce sostiene che il dopoguerra ha visto nascere una nuova forma di “irreligione” ben diversa dall’ateismo tradizionale. Piuttosto che negare direttamente l’esistenza di Dio, i pensatori neo-illuministi professavano una forma di agnosticismo scientistico. Questo pretendeva di essere religiosamente “neutro” ma in realtà minò la religione a un livello più profondo, negando il valore intellettuale e pratico delle questioni religiose . Da una prospettiva scientista “queste domande irrisolvibili sono anche quelle che non ci interessano; nel senso che non interessano coloro che vogliono agire nel mondo per migliorarlo in alcun senso. ” Le questioni religiose sono irrilevanti per la vita sociale, economica e culturale, tranne che come potenziale fonte di conflitto civile, che deve essere evitato accettando che “la politica democratica può essere solo una politica de-mitologizzata”. Questo atteggiamento relega la religiosità a una sfera strettamente privata e alla fine porta a una secolarizzazione radicale, “perché erode la dimensione religiosa fino a cancellare dalla coscienza ogni traccia della questione di Dio”.

Passando alla “famiglia”, Del Noce vede uno stretto legame tra scientismo e rivoluzione sessuale, il cui quadro concettuale è stato fornito dalla rinascita della sessuologia scientifica e della psicoanalisi negli anni ’50 e ’60. L’esperienza della sessualità in quasi tutte le culture è stata una via di trascendenza, così potente che deve essere ordinata con cura. Al contrario, la “scienza” non conosce la trascendenza. La sessualità scientifica e la psicoanalisi considerano la sessualità umana come un fenomeno puramente naturale, privo non solo di significato trascendente, ma anche di finalità intrinseche (ad esempio, la procreazione). Da una prospettiva scientista, gli impulsi sessuali sono semplicemente fenomeni naturali da studiare con metodi biologici o psicologici, ma non hanno uno scopo superiore e non hanno valore simbolico oggettivo (per non parlare di sacramentale). Di conseguenza, agli uomini e alle donne della società benestante viene insegnato a non trovare nel sesso nulla che punti al di là di loro stessi.

In questo senso, la filosofia della rivoluzione sessuale è “positivismo per le masse”. Ritiene che anche le relazioni umane più intime siano essenzialmente “prive di significato” tranne che per il significato “diamo loro”. Il sesso diventa una transazione romantica (nella migliore delle ipotesi) tra individui autonomi e fondamentalmente isolati, e il matrimonio diventa molto simile a quello che nel diciannovesimo secolo era chiamato “amore libero”, cioè una libera associazione che dura finché dura l ‘”amore”. e può essere sciolto quasi a piacimento. Chiaramente, questa concezione del matrimonio “centrata sulla coppia” implica una sorta di “de-sacralizzazione” dell’idea di “famiglia”.

Un tipo simile di desacralizzazione si applica all’idea di “nazione”. Ho già accennato al carattere universalista e cosmopolita della cultura neo-illuminista emersa all’epoca della “svolta”. Aggiungo che anche in questo caso Del Noce pensa che ci sia una necessità filosofica. Le nazioni erano tradizionalmente basate su identità religiose o culturali, articolate in storie di fondazione, in “miti” ed “eroi” nazionali, che incarnavano uno scopo collettivo. Nessuno di questi ha senso da una prospettiva scientista-positivistica. Una nazione è solo una forma di organizzazione politica ed economica, completamente sostituibile da forme più efficienti. L’amore per la patria è nel migliore dei casi una reliquia romantica, nel peggiore una forma di fanatismo e fonte di una passione pericolosa. Se qualcosa, un abitante della società benestante sentirà una maggiore fedeltà alla comunità globale di manager illuminati, tecnologi, filantropi e uomini d’affari che alla sua nazione d’origine.

 

Chiaramente, a lungo termine questo è destinato a creare una frattura politica (all’interno dei paesi sviluppati) tra l’élite tecnocratica (tipicamente concentrata attorno a poche grandi “città del mondo”) e coloro che condividono il vecchio senso di identità basato sulla nazione (tipicamente che vivono in aree periferiche). Questo è solo un aspetto di un fenomeno generale che Del Noce descrive come segue: nelle società prive di un terreno comune “ideale” (religioso, filosofico) “la separazione tra la classe dirigente e le masse diventa estrema perché i membri della prima sanno che ogni argomento in termini di valori è semplicemente l’ideologia come strumento di potere “. Tutto, per loro, è già smascherato, e quelli per i quali non è smascherato lo sono. . . beh, non sono illuminati.

In sintesi, Del Noce sosteneva che in una cultura radicalmente scientista-positivistica come quella che divenne dominante in Occidente intorno al 1960 tutte le forme di “appartenenza” si indeboliscono a causa della scarsità di un terreno comune ideale. Questa rozza sintesi, ovviamente, non rende giustizia alla sua analisi. Ad esempio, non posso discutere qui le sue opinioni sui critici interni della società benestante, in particolare i movimenti di protesta degli anni Sessanta e Settanta. Mi limiterò a menzionare che, a suo parere, quei movimenti (che in un certo senso possono essere visti come i paralleli della reazione romantica al primo Illuminismo) per lo più non sono riusciti ad affrontare i fondamenti filosofici della nuova società, e in realtà spesso hanno finito per giocare nella sua mani, criticando le istituzioni “tradizionali” che in realtà ostacolavano il processo “We-to-I” (la chiesa, la famiglia,educazione liberale, ecc.).

Ma basta con l’analisi del “declino”. Del Noce ha qualcosa da dirci sulla questione sollevata in The Upswing ? Cioè, cosa ci vorrà per superare un altro punto di svolta e iniziare a muovere il pendolo nella direzione opposta: tornare indietro verso la solidarietà?

In una cultura radicalmente scientista-positivistica tutte le forme di “appartenenza” si indeboliscono a causa della scarsità di un terreno comune ideale. Cosa servirà per superare un altro punto di svolta e iniziare a muovere il pendolo nella direzione opposta: tornare indietro verso la solidarietà?

Chiaramente, ritenendo che la cultura abbia giocato un ruolo di primo piano nella svolta, Del Noce era propenso a privilegiare una sorta di “revisione culturale” per invertire la tendenza. Ciò implica, tra le altre cose, che la politica può svolgere solo un ruolo di supporto, mentre l’istruzione deve essere al centro dell’attenzione. Non a caso, l’istruzione è uno dei campi che ha sofferto di più nella società ricca-tecnologica. Privata di narrazioni e ideali, l’educazione è stata impoverita dall’utilitarismo, che si manifesta come un’enfasi sulla tecnologia nelle scienze. La politicizzazione nelle discipline umanistiche sembra essere un tentativo di recuperare un qualche senso narrativo o ideale, ma a scapito di un dibattito umano e aperto, di una curiosità rigorosa e di una connessione con idee precedenti e forse più ricche di giustizia e natura umana. (O, ovviamente, può semplicemente accadere che, poiché le facoltà umanistiche perdono la convinzione che la bellezza artistica e la verità filosofica siano oggetti di studio e contemplazione intrinsecamente meritevoli, devono giustificare la loro esistenza affermando che i loro soggetti hanno rilevanza politica, e quindi pratica).

Innumerevoli tentativi di “aggiustare” l’istruzione primaria e secondaria come se fosse un problema “tecnico” sono falliti, perché non può esserci educazione senza un’immagine organica di ciò che significa essere umani, e la cultura secolare moderna non ne ha una, o il uno che ha è inadeguato al compito. Quindi, la vera domanda che dovremmo porci è: quali risorse culturali devono essere portate al sistema educativo, e alla cultura in generale, per rendere possibile una nuova ripresa?

Non può esserci educazione senza un’immagine organica di ciò che significa essere umani, e la moderna cultura secolare non ne ha una, o quella che ha è inadeguata al compito. Quindi, la vera domanda che dovremmo porci è: quali risorse culturali devono essere portate al sistema educativo, e alla cultura in generale, per rendere possibile una nuova ripresa?

Un approccio semplice è guardare alle idee che hanno guidato la svolta precedente (quella intorno al 1960) e metterle in discussione. Invece di vivere in una relazione perennemente antagonista con il nostro passato collettivo, dobbiamo fare pace con esso, il che richiede essere in grado sia di rifiutare i suoi errori che di valutare ciò che era prezioso. Invece di ribellarci ai vincoli della religione, della famiglia e del paese, dobbiamo riconoscere ciò che Simone Weil chiamava “il bisogno di radici”. Dobbiamo capire che i valori universali possono essere realizzati solo in forme locali e contingenti. Dobbiamo imparare ad accettare i limiti, e venire a patti con il fatto che gli esseri umani non possono avere un sano rapporto con il visibile (come direbbe Del Noce) senza fare i conti in qualche modo con l’invisibile . Quest’ultima osservazione ci porta al punto critico: una nuova ripresa sarà impossibile senza adeguate risorse religiose. La buona volontà, o politiche migliori, o strumenti tecnici più avanzati semplicemente non affronteranno gli aspetti culturali della crisi. Ma la vera religione non può essere fabbricata a volontà. È necessaria una conversione. Come dice Del Noce, serve un risveglio religioso, perché religione, patria e famiglia sono ideali supremi e non strumenti pratici. Ed è certamente un punto valido che la formula corruzione optimi pessima si applichi al deterioramento che colpisce questi ideali quando sono visti, almeno in primo luogo, come strumenti pragmatici del benessere sociale. Per essere socialmente utili devono essere pensati all’interno delle categorie del vero e del bene; il contrario è impossibile. Certamente, un tale risveglio non può essere un’opera meramente umana. Ma ciò nondimeno richiede, per realizzarsi, che i cuori degli uomini siano attenti.

Allora partecipiamo.

https://breakingground.us/the-turning-point/?fbclid=IwAR0SQgHq_QBW49ATQwS-A6lo3hkJ_JyYQecnD4E62sCZkIjsK5sG2CnQPjo

Covid 19, come prima più di prima_intervista al dottor Giuseppe Imbalzano

La crisi pandemica prosegue senza soluzione di continuità. La sequela di provvedimenti poco coerenti tra di loro, la logica raffazzonata che guida i comportamenti e informa le direttive, la sovrapposizione di funzioni rischiano di neutralizzare quel poco di iniziative più lucide intraprese dal nuovo governo. Il fattore tempo è cruciale per un paese in una condizione di emergenza dai tempi indefiniti. Un vero e proprio ossimoro che rischia di dilapidare le residue risorse e i residui fattori di coesione indispensabili a consentire una ripresa quantomeno accettabile. La crisi pandemica ha messo completamente e contemporaneamente a nudo le troppe debolezze di un paese ormai sempre più esposto passivamente alle intemperie politiche interne e geopolitiche. E’ qualcosa di più serio di un complotto e di un piano preordinato da soggetti ben individuati o quantomeno individuabili; è una situazione di stallo e di degrado opera di una classe dirigente decadente impegnata a perpetuarsi a scapito di gran parte del nostro paese. E’ in questo contesto e con questo presupposto che si inseriscono i complessi giochi e gli enormi interessi politici di destabilizzazione, periferizzazione, colonizzazione e di degrado socioeconomico._Buon ascolto, Giuseppe Germinario

Giuseppe Imbalzano, medico, specialista in Igiene e Medicina preventiva. Direttore sanitario di ASL lombarde per 17 anni (Ussl Melegnano, Asl Milano 2, Ao Legnano, Asl Lodi, Ao Lodi, Asl Bergamo, Asl Milano 1). Direttore scientifico progetti UE (Servizi al cliente, Informatizzazione della Medicina Generale). Si è occupato di organizzazione sanitaria, prevenzione, informatica medica, etica, edilizia, umanizzazione ospedaliera e psicanalisi.

https://rumble.com/vfqa4d-covid-19-come-prima-pi-di-prima-con-giuseppe-imbalzano.html

 

Multinazionali e politica_un seminario organizzato da Socint e Unical con Dario Fabbri e Mario Caligiuri

“Multinazionali e politica” è il titolo assegnato ad un seminario organizzato da Unical (Università della Calabria) e Socint (Società di intelligence) tenutosi lunedì 12 aprile. Il titolo richiama un tema ricorrente e ampiamente dibattuto negli ambienti accademici, tra gli analisti e negli ambienti politici, compresi quelli più radicali. Le chiavi di interpretazione delle dinamiche che intercorrono tra i due ambiti, offerte dai due relatori, in particolare da Dario Fabbri, sono molto meno scontate in particolare nel panorama politico italiano.

Dario Fabbri di fatto riconosce al Politico, nella accezione di ambito, una funzione prevalente la cui prerogativa è la pervasività nei vari ambiti delle attività umane, compresa quella economica, piuttosto che la sua delimitazione comprendente in pratica l’intero spazio pubblico alternativo a quello privato e nella vulgata rispetto alle imprese. Da qui la subordinazione dei soggetti economici e delle loro logiche, comprese quelle delle multinazionali, agli indirizzi e alle manifestazioni di potere politici dei quali gli apparati statali sono la più grande espressione. Non è il capitalismo, né sono i capitalisti a determinare in assoluto le scelte politiche. I loro soggetti fanno certamente parte a pieno titolo dei vari centri decisionali in cooperazione e conflitto tra di loro, capaci di innervare i gangli istituzionali pubblici e privati; ma ne sono solo una parte. Per agire in quanto capitalisti, però, necessitano di regole, norme, strumenti persuasivi e coercitivi dei quali altri sono titolari.

Sulla base di queste chiavi interpretative viene meno quella sovradeterminazione del capitalismo, tanto più dei singoli capitalisti, siano essi proprietari o manager, rispetto all’azione dei politici, specie di quelli detentori delle leve istituzionali. Laddove questa sovradeterminazione dovesse apparire si tratterebbe più che altro di un inganno e tuttalpiù della manifestazione di debolezza e dipendenza politica e geopolitica di determinate formazioni sociali rispetto alle altre. L’Unione Europea ne è l’esempio più manifesto.

Non si tratta di negare l’importanza cruciale dell’affermazione di questo rapporto sociale di produzione, come definito da Marx meglio di altri, quanto piuttosto di ricollocarlo rispetto all’essenza del politico. Il rapporto capitalistico costituisce una delle basi fondamentali sulle quali si conformano i ceti sociali e quindi le classi dirigenti e poi ancora i centri decisionali; contribuisce significativamente ad alimentarne la dinamicità e il ricambio. Tutte prerogative ampiamente riconosciute da tutti, nel bene e nel male e in grado di garantire ad esso un futuro ancora senza scadenze; riconosciute di fatto anche da coloro i quali continuano a definirsi “anticapitalisti” quando in realtà essi stessi, al pari degli avversari/nemici, propugnano di fatto la regolazione di quel modo di produzione senza per altro riuscire a ridefinire sino in fondo il legame culturale e soprattutto “sentimentale” con i propri padri, che si chiamino Marx, Lenin, Mao e così via. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

NB_ Non è stato possibile fornire una versione “You tube” della registrazione, probabilmente per la dimensione del file o per mia imperizia. La registrazione su “rumble” comprende sia l’intervento di Dario Fabbri di circa 80 minuti che il successivo di Mario Caligiuri. Per l’ascolto, premere sul link qui sotto

https://rumble.com/vfnm5n-multinazionali-e-politica-con-dario-fabbri-e-mario-caligiuri.html

In ricordo di Piero_La redazione

Un anno fa è morto Piero Visani. Tra le cose che amava, c’era la Scozia; i luoghi e i paesaggi, e l’allegra, ostinata lealtà combattiva degli scozzesi. Lo ricordiamo con l’Epitaffio per un amico del poeta scozzese per antonomasia, Robert Burns.

Epitaph On A Friend

An honest man here lies at rest,
The friend of man, the friend of truth,
The friend of age, the guide of youth;
Few hearts like his, with virtue warm’d,
Few heads with knowledge so inform’d;
If there’s another world, he lives in bliss;
If there is none, he made the best of this.

Robert Burns

http://italiaeilmondo.com/category/dossier/contributi-esterni/piero-visani/

Stati Uniti tra il dire e il fare_ ne parliamo con Gianfranco Campa

Non è una novità che tra le dichiarazioni elettorali, le intenzioni e i comportamenti politici reali non ci sia, per usare un eufemismo, esatta corrispondenza. Con l’amministrazione Biden l’incertezza e la contraddittorietà stanno assumendo una caratteristica più inquietante. Non è ormai solo mera tattica elettorale. Sempre meno uno scontro politico aspro ma aperto, caratteristico della presidenza Trump, sempre più un confronto sordo tra centri di potere poco coordinati e scarsamente concordi. Frutto di una situazione geopolitica complessa che vede la partecipazione di un numero sempre più folto di protagonisti e di uno squilibrio della formazione sociale statunitense difficilmente ricomponibile. Un disorientamento che rischierà di accentuare ulteriormente le tendenze centrifughe dal centro egemonico e la formazione di più poli geopolitici attrattivi in competizione sempre più evidente. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

https://rumble.com/vevxh3-stati-uniti-tra-il-dire-e-il-fare-ne-parliamo-con-gianfranco-campa.html

 

Draghi e ologrammi, di Giuseppe Germinario

Il 10 marzo scorso Mario Draghi ha compiuto il secondo atto significativo del suo ministero, seguito alla sostituzione del vertice della Protezione Civile e del Commissario all’Emergenza Sanitaria: il patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale, sottoscritto con i sindacati confederali “http://www.governo.it/sites/governo.it/files/PATTO_INNOVAZIONE_LAVORO_PUBBLICO_COESIONE_SOCIALE.pdf “.

Di fatto una discontinuità rispetto agli ultimi governi in materia di relazioni sindacali; apparentemente una riedizione di quella concertazione che ha conosciuto il proprio sussulto crepuscolare con il Governo Ciampi, a metà anni ‘90.

I motivi pesanti che hanno spinto e reso necessario questa inversione sono diversi:

  • l’iniziativa fa da necessario corollario al sostegno quasi ecumenico offerto dai partiti al Governo Draghi in un contesto di paralisi e di grande disgregazione e debolezza di questi ultimi. Se il Governo Ciampi si era assunto il compito di preparare l’investitura del PDS/DS, della sinistra in pratica, di un partito graziato da “tangentopoli”, l’unico sufficientemente strutturato, radicato ed autorevole, a direttore di orchestra delle future compagini governative, il Governo Draghi a sua volta dovrà creare le condizioni per una ricostruzione e riconfigurazione di quasi tutti i partiti, alcuni dei quali in fase di evidente disgregazione ed assecondare il riallineamento nello schieramento europeista di quelli riottosi. Non che la condizione dei sindacati confederali sia molto migliore, tanto più che la caratteristica di confederalità, di progettualità e costruzione politica unitaria delle associazioni quindi, si sta ormai affievolendo vistosamente nel corso degli anni; rimangono comunque la sola significativa forza intermedia in grado di assecondare in qualche maniera ordinata i pesanti processi di riorganizzazione in corso e che soprattutto si annunciano nel prossimo futuro

  • la gestione della crisi pandemica, tra i tanti aspetti anche oggettivi dai quali si potrà valutare, si sta rivelando un test attendibile della capacità di affabulazione e di manipolazione della classe dirigente dominante e della reattività e della lucidità di azione di centri alternativi ben lungi ancora da sedimentarsi, ammesso che esistano attualmente. L’enormità dei problemi da affrontare in un contesto drammatico di recessione e ridimensionamento delle basi sociali e produttive è probabilmente la molla principale che sta spingendo questo governo a riproporre un coinvolgimento più stretto delle parti sindacali. Sta accelerando inesorabilmente la dinamica di un gigantesco processo di riorganizzazione, legato alla digitalizzazione e alla ridefinizione delle catene e delle gerarchie di produzione, che riguarderà all’interno i processi produttivi e la qualità dell’organizzazione e delle gerarchie delle varie attività economiche, istituzionali e di comando. Sono la nervatura e la base le quali definiscono le stratificazioni sociali, la conformazione dei ceti e la formazione dei blocchi sociali di una particolare formazione. In Italia assumerà connotazioni ancora più radicali per le caratteristiche proprie della formazione sociale costituita da industria ed attività più polverizzate e mediamente più arretrate tecnologicamente ed organizzativamente e da una pletora di piccola borghesia legata a rendite ed attività interstiziali, ma fondamentale nel garantire la coesione sociale e la stabilità politica.

Mario Draghi è arrivato per gestire al meglio alcune di queste dinamiche senza mettere in discussione la collocazione geopolitica e senza compromettere la collocazione geoeconomica del paese in maniera talmente grave e distruttiva da rischiarne la dissoluzione.

L’accordo quadro affronta un aspetto particolare e fondamentale di questa riorganizzazione; quello del funzionamento e della operatività degli apparati amministrativi fondamentali per il governo di questa riorganizzazione in vista in particolare dell’arrivo dei fondi europei.

Una missione che rende alquanto improbabili le analogie di questo patto con quello sottoscritto a suo tempo con Ciampi: quello intendeva regolare le cadenze contrattuali e la componente salariale della contrattazione interconfederale e di categoria; questo propone uno scambio tra i rinnovi contrattuali, il riconoscimento di aumenti stipendiali contrattuali, al momento per il solo pubblico impiego, in cambio della disponibilità ad affrontare e cogestire i processi di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche. Quello era un accordo che riguardava tutte le categorie di dipendenti, questo riguarda il pubblico impiego allargato, anche se probabilmente, in caso di successo, fungerà da apripista per un sistema di relazioni paragonabile per le altre categorie, ma da gestire più in autonomia con le associazioni datoriali.

Le ambizioni dichiarate in questo accordo sono grandi.

Gli organi di stampa hanno sottolineato soprattutto nell’avvicendamento legato ai prepensionamenti, nella formazione continua, tra i più avveduti nella assunzione di personale e quadri tecnici gli aspetti salienti dell’accordo. I punti essenziali in realtà riguardano ben altro: la possibilità di creare collaborazioni, comitati ed agenzie a conduzione privatistica o mista che gestiscano gli aspetti cruciali dei progetti, che fungano da supporto e da modello da implementare nelle amministrazioni attualmente incapaci di progettare e gestire interventi rilevanti; il cambiamento dello stato giuridico del pubblico impiego e l’intercambiabilità dei quadri dirigenti con il settore privato; una verifica operazionale legata al rispetto della tempistica e al raggiungimento dei risultati piuttosto che al rispetto formale delle procedure. Orientamenti che prendono ad esempio i modelli operativi della burocrazia europea legata per lo più all’utilizzo dei fondi strutturali e in maniera più approssimativa quelli della amministrazione inglese e statunitense.

Non è la prima volta però che si sono manifestate queste ambizioni.

La legge quadro sul pubblico impiego del 1983 è stato sino ad ora il tentativo più organico di riorganizzazione del personale pubblico ad eccezione parziale delle carriere direttive. Quell’articolato non intendeva agire direttamente sulla organizzazione delle amministrazioni pubbliche e sulle fonti che ne determinavano le modalità di funzionamento; definiva la contrattualizzazione collettiva del rapporto di lavoro, i soggetti abilitati a trattare e i criteri di inquadramento professionale; l’obbiettivo era di liberare il rapporto di lavoro pubblico dal legame diretto e dal clientelismo dei politici e dai provvedimenti legislativi dedicati a gruppi specifici, di trasformare il rapporto di lavoro secondo criteri civilistici e attribuire al sindacato del pubblico impiego un ruolo autonomo piuttosto che di mera appendice dei voleri delle fazioni politiche. Obbiettivo raggiunto, ma solo in parte e con qualche implicazione negativa, piuttosto pesante. La principale, che il sindacato oltre ad aver acquisito una propria autonomia operativa e una ragione d’essere costitutiva ha accentuato la sua pervasività nei meccanismi decisionali e operativi sino ad entrare a pieno titolo nelle pratiche di selezione delle promozioni e di occupazione dei centri decisionali diventando di fatto, in particolare la CISL, anche un’associazione lobbistica imprescindibile per il funzionamento. Una prerogativa rimasta anche in quegli ambiti, come quello di Poste Italiane, trasformatisi in aziende a gestione privatistica con tutte le distorsioni e i soffocamenti che ne sono conseguiti.

Il patto proposto e sottoscritto da Draghi è qualcosa di più profondo e strutturale, di più complesso.

Non può prescindere assolutamente da questa realtà informale che sino ad ora è sempre riuscita a neutralizzare i propositi di ridefinizione delle gerarchie sul campo.

L’altra cartina di tornasole in grado di svelare la reale credibilità e positività di quanto sottoscritto è la riorganizzazione istituzionale che definisca chiaramente le gerarchie e le competenze dello Stato centrale e delle amministrazioni periferiche nonché due o tre modelli organizzativi, non di più, ai quali attenersi secondo la missione dei vari ambiti operativi, siano essi aziende di servizio o ordinamenti funzionali. È la via attraverso la quale lo Stato ed il Governo centrali possono assumere il pieno controllo interno della situazione e possono porsi come interlocutori autorevoli e meno permeabili all’esterno, soprattutto in sede di Unione Europea (UE). Una riforma, mancando la quale, rischia in partenza di annacquare le potenzialità del patto o di ricondurlo lungo le dinamiche di disarticolazione ulteriore del controllo centrale e di ulteriore connessione diretta con la burocrazia della UE

Questo non pare rientrare nel programma di governo per due motivi, uno di orientamento strategico, l’altro tattico.

Il primo è che il nostro, essendo paladino di questo europeismo, non ha nessuna intenzione di accettare il fatto che quello della UE è, pur con regole particolari, un campo di azione di stati nazionali sul quale vince chi riesce a preservare meglio le proprie prerogative piuttosto che uno spazio di liquefazione concordata della propria realtà istituzionale; il secondo è che porre sul piatto la questione metterebbe prematuramente in crisi la Lega, soprattutto la componente più convinta nel sostegno a Draghi, ma comunque l’unico partito al momento non in crisi convulsiva, sostenitore del governo almeno sino a quando non si risolverà, se si risolverà, in qualche maniera lo stato confusionale del PD.

Una riorganizzazione istituzionale potrà aver luogo, comunque non in maniera risolutiva, solo nel momento in cui la componente europeista tradizionale dovesse assumere il pieno controllo non solo dei centri decisionali ma anche dell’opinione pubblica.

C’è un altro fattore che impedisce di porre correttamente sia la questione istituzionale che l’impostazione e l’applicazione del Patto. L’atteggiamento gretto e settario della destra radicale che contrappone visceralmente gli interessi e la condizione privilegiata dei ceti “garantiti” a quelli più minacciati dalla crisi pandemica e socioeconomica. Una postura che le impedisce di cogliere la effettiva posta in palio e l’opportunità di entrare nel merito delle questioni. Una ottusità ricorrente che le ha impedito di cogliere gli spazi che le si erano aperti nel mondo del lavoro e negli stessi ambienti sindacali. Una miopia che ad esempio non ha colto, almeno non nella stessa entità, Donald Trump negli Stati Uniti.

Un complesso di fattori ed orientamenti che nell’ipotesi riduttiva di attuazione del Patto rischiano di annichilire le migliori intenzioni riformatrici e di ridurre quel documento ad un mero pretesto per giustificare gli aumenti contrattuali, in quella più estensiva porterà a rendere più efficienti le amministrazioni soprattutto per rendere più fluido e subordinato il rapporto con la burocrazia della UE. Mario Draghi sarà il pendolo che oscillerà tra questi due estremi; se non sarà calamitato su uno dei due versanti, potrà conseguire qualche successo nel breve termine, portare a termine quindi quanto meno il Recovery Plan e la campagna di vaccinazione, ma cadrà ancora una volta nella trappola delle ulteriori duplicazioni di apparati ed amministrazioni che renderanno ancora più inestricabile la matassa istituzionale. La speranza di un afflato nazionale che dia senso e sentimento alla riorganizzazione dipenderà purtroppo da un contesto internazionale che deciderà dei destini della UE e del ruolo egemonico, quantomeno delle sue modalità di esercizio, degli Stati Uniti in questa area, piuttosto che da un irrefrenabile impulso interno al paese; con tutti i costi e i condizionamenti che si dovranno pagare. La stessa unità di Italia del resto è scaturita da un contesto simile; stiamo proseguendo su quella falsariga, ma senza grandi diplomatici, senza politici accettabili e con impulsi sempre più flebili. Le stesse organizzazioni sindacali, uno dei “corpi intermedi” con i quali Draghi cerca di puntellare la propria collocazione, stanno rivelando una tale povertà culturale da rendere impossibile la creazione di un sostrato “propositivo” nei settori che ancora rappresentano. È sufficiente tenere conto della condizione inerme di fronte alle innumerevoli crisi aziendali aperte, della posizione piattamente acritica sulle dinamiche di fondo del Recovery Fund e sulla natura della UE, della incapacità di coniugare il conflitto sociale con una ipotesi di difesa dell’interesse nazionale per comprendere come il carattere interconfederale tenderà sempre più ad affievolirsi in una frammentazione di iniziative giustapposte. La carrellata recente di interviste è alquanto illuminante. L’unica predominante preoccupazione riguarda l’estensione e la regolazione degli ammortizzatori sociali. Per condurre dove, non si sa.

PS_non ho trattato gli argomenti dell’articolo nell’ottica delle relazioni transatlantiche e dell’egemonia USA almeno in Europa, semplicemente perché in Italia il problema non si pone in nessuna delle forze politiche significative

Stati Uniti, una transizione prematura_con Gianfranco Campa

Biden, appena insediato, ha già intrapreso la via del declino e dell’abbandono. Un itinerario probabilmente previsto dall’establishment che lo ha proposto e sostenuto con tutti i mezzi, leciti e opachi; previsto, ma non con l’accelerazione che sta prendendo. Man mano che si profila il cambio della guardia viene sempre più alla luce il vero detentore delle redini del Partito Democratico e il tramite dei centri di potere impegnati a gestire questa fase storica così critica per gli Stati Uniti, Barak Obama. Un vincitore sì, ma sulle ceneri di una battaglia politica rovinosa e delegittimante e con un avversario tutt’altro che debellato. La situazione ideale per iniziative e colpi di mano fuori controllo_Giuseppe Germinario

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