LA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA COME SOGGETTO POLITICO. PRIMA PARTE. a cura di Luigi Longo

 LA CRIMINALITÀ ORGANIZZATA COME SOGGETTO POLITICO. PRIMA PARTE.

a cura di Luigi Longo

 

Connie, per tutta la vita ho cercato di

                                               elevarmi socialmente, perché credevo

                                               che in alto tutto fosse legale e corretto.

                                               Ma più in alto salgo, e più il fetore aumenta.

Michael Corleone*

Propongo la lettura di alcuni stralci tratti dalle opere di: Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’Economia politica, Einaudi Torino, 1975, libro primo; Umberto Santino, La mafia come soggetto politico, di Girolamo editore, Trapani, 2013; Vincenzo Ruggiero, Perché i potenti delinquono, Feltrinelli, Milano, 2015; Etienne de La Boètie, Discorso sulla servitù volontaria, Piccola biblioteca della felicità, Milano, 2007.

Perché suggerisco la lettura di questi stralci?

Perché i citati scritti portano a riflettere su quattro questioni importanti: 1) la propaganda, l’ideologia, la mistificazione e l’inganno della cattura di Matteo Messina Denaro (latitante da 30 anni con coperture istituzionali a tutti i livelli che sono indicative delle relazioni tra la mafia e i decisori che utilizzano lo strumento stato per l’affermazione del proprio potere e dominio sociale) che segue la stessa scenografia di altre catture eccellenti da quella di Michele Greco a quella di Bernardo Provenzano; 2) l’ipotesi che la criminalità organizzata (mafia, n’drangheta, camorra, quarta mafia, eccetera) sia una questione che riguarda la struttura sociale della cosiddetta società capitalistica; cioè, la criminalità organizzata non è una patologia della società de le magnifiche sorti e progressive che va estirpata, ma è una configurazione sistemica della società dove il potere legale e il potere illegale si intrecciano, si innervano; 3) gli agenti strategici della criminalità organizzata fanno parte del blocco di potere e di dominio che decide le sorti del Paese; 4) la cattura di Matteo Messina Denaro chiude una fase della mafia non più sufficiente per le nuove trasformazioni (la stessa riflessione può valere anche per le altre organizzazioni criminali che si stanno ristrutturando e trasformando) che la vecchia società gravida di una società nuova impone e si apre a nuove configurazioni (nuove alleanze, nuove direttrici, nuove strategie) che tengono conto delle trasformazioni che la fase multicentrica impone e determina con i nuovi modelli sociali che avanzano nello scontro tra le potenze mondiali per l’egemonia (abbiamo visto come Matteo Messina Denaro, espressione di gruppo di potere, era ben introdotto nelle trasformazioni della cosiddetta transizione energetica così come lo sono le altre criminalità organizzate).

Preciso che i suddetti agenti strategici non vanno confusi con quelli che gestiscono ed eseguono le strategie; un esempio storico è la morte di Enrico Mattei, i cui mandanti sono da ricercare nei cotonieri lagrassiani per il loro progetto di sviluppo servile agli Stati Uniti, ma è opera degli esecutori che gestiscono ed eseguono gli ordini strategici. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino avevano intuito quale fosse la profondità del problema (questo era il terzo livello di cui parlava Giovanni Falcone, non altro) che necessitava di altri saperi e di altri soggetti in grado di capire, conoscere, interpretare e agire per contrastare un modello sociale egemone (gramscianamente inteso di consenso e di coercizione) basato sulla violenza del dialogo politico, dove la coercizione viene attuata anche con mezzi criminali e non con raffinati metodi democratici. Nella lotta alla criminalità organizzata non bastava l’aspetto giudiziario insufficiente e in via di costruzione, oltre ai limiti dati dalla farsa della divisione dei poteri che scambia gli equilibri egemonici degli agenti strategici dominanti con l’autonomia dei poteri.

A questo punto pongo tre domande: esiste una sorta di azione giuridica preventiva con cui ridurre il potere della criminalità organizzata considerato che tutte le Relazioni del Ministero dell’Interno al Parlamento sulla attività svolta e i risultati conseguiti dalla Direzione Investigativa Antimafia presentano mappature dei territori con la loro spartizione delle aree di controllo, di influenza e le relative relazioni internazionali (anche con supporto informatico contenente le proiezioni mafiose regionali-specificità provinciali) con tanto di riferimento dei decisori della sfera militare e della sfera economica (legale e illegale) della criminalità organizzata e relative relazioni internazionali? Quali sono le conseguenze politiche delle suddette relazioni ministeriali (qui la politica è intesa come prassi reale di cambiamento!)? L’azione giuridica esprime un libero rapporto o esprime un vincolo sistemico del rapporto di potere e di dominio?

La criminalità organizzata, declinata nelle varie realtà regionali (Sicilia-mafia; Calabria-n’drangheta; Campania-camorra; Puglia-quarta mafia; eccetera) con le relative articolazioni territoriali e ramificazioni nazionali e internazionali, è presente in tutte le sfere sociali tramite l’intreccio tra potere legale e potere illegale storicamente dato. Pertanto, non bisogna fermarsi all’aspetto giudiziario che riguarda solo la sfera militare e la sfera economica della criminalità organizzata (e poco sa delle altre sfere sociali: istituzionale, politica, territoriale, eccetera) ma occorre allargare lo sguardo all’insieme della società cosiddetta capitalistica. La peculiarità della criminalità organizzata è nello strumento violento del conflitto tra gli agenti strategici non nella finalità dell’accumulazione del denaro (inteso sia come rapporto sociale del capitale sia come investimento in sé) che rientra nelle relazioni sociali del funzionamento del sistema capitalistico basato sia sul potere che si viene a configurare nelle diverse sfere sociali sia sul dominio dell’intera società.

Chi deve allargare lo sguardo e farsi portatore di un nuovo modello sociale della maggioranza della popolazione? Chi deve dare nome al volgo disperso di manzoniana memoria? Occorre un nuovo soggetto storico di trasformazione che tenga conto della lezione della storia rivoluzionaria che, dispiace per Giambattista Vico, non va ridotta solo all’eterogenesi dei fini ma va letta soprattutto per la mancata costruzione di un soggetto sessuato come sintesi di differenze di intendere i rapporti sociali storicamente dati (oggi forse cominciano a esserci le condizioni per riflettere seriamente).

In questa cornice di ipotesi di ragionamento ho pensato al capolavoro di Karl Marx sulla violenza, sulla illegalità, sulla legge come strumento della criminalità nell’accumulazione originaria che ha preparato la strada al nuovo modello sociale basato sul modo di produzione capitalistico; così come ho pensato a Umberto Santino, fondatore e direttore del Centro siciliano di documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo (il primo centro studi sulla mafia e altre forme di criminalità organizzata sorto in Italia, 1977), che con i suoi lavori sulla mafia come soggetto politico può stimolare ricerche strutturali nelle altre regioni di consolidata e storica presenza della criminalità organizzata con le loro articolazioni territoriali, nazionali e internazionali. L’importanza delle radici, della storia, dell’ambiente, del costume, eccetera del territorio è fondamentale per gli agenti strategici criminali per costruire reti sociali e radicamento territoriale (inteso nell’accezione più ampia: città, campagna, ambiente, paesaggio): i teorici del superamento dello stato (quanta confusione tra stato e nazione e tra nazione e nazionalismi) devono andare a lezione da loro per capire il senso profondo di appartenenza ad una nazione come espressione storica e territoriale di un popolo; così come mi è sembrato utile il lavoro dello studioso Vincenzo Ruggiero, docente di Sociologia e direttore del Crime and Conflict Research Centre presso la Middlesex University di Londra, sull’intreccio tra potere legale e potere illegale che “convocando accanto alla criminologia e alla sociologia una vasta serie di altri saperi, dall’economia alla filosofia, […] illumina passo dopo passo la sottile ragnatela di strategie che consentono al potere di stare contemporaneamente dentro e fuori dalla legge, di piegare il discorso pubblico alle proprie necessità di giustificazione, di costruire contesti in cui i propri scopi possano assumere le sembianze degli scopi di tutti e di ciascuno”; infine ho pensato al concetto di servitù di Etienne de La Boètie, esperto ellenista e un conoscitore del pensiero e della saggezza antiche (1530-1563), come espressione di una ricerca della libertà come fondamento di un nuovo ordine sociale capace di valorizzare la individualità personale e sociale come espressione di un popolo che vive un determinato territorio (sul concetto di libertà si legga il Guglielmo Tell di Friedrich Schiller, Fratelli Fabbri Editori, Milano, 1968) chiamato nazione (possiamo chiamarlo paese per una nuova ri-elaborazione del concetto di nazione) in maniera autodeterminata in relazione ai diversi e peculiari territori mondiali.

 

 

 

* L’epigrafe è tratta dal film Il padrino, parte III, di Francis Ford Coppola, trilogia dei Corleone, 1990.

 

 

1.KARL MARX, IL CAPITALE. CRITICA DELL’ECONOMIA POLITICA, EINAUDI TORINO, 1975, LIBRO PRIMO, pp. 879-934.

 

Capitolo ventiquattresimo. La cosiddetta accumulazione originaria

 

L’arcano dell’accumulazione originaria

 

Abbiamo visto come il denaro viene trasformato in capitale, come col capitale si fa il plusvalore, e come dal plusvalore si trae più capitale. Ma l’accumulazione del capitale presuppone il plusvalore, e il plusvalore presuppone la produzione capitalistica, e questa presuppone a sua volta la presenza di massa di capitale e di forza lavoro di una considerevole entità in mano ai produttori di merci. Tutto questo movimento sembra dunque aggirarsi in un circolo vizioso dal quale riusciamo ad uscire soltanto supponendo un’accumulazione <<originaria>> […] precedente l’accumulazione capitalistica: una accumulazione che non è il risultato, ma il punto di partenza del modo di produzione capitalistico.

Nell’economia politica quest’accumulazione originaria fa all’incirca la stessa parte del peccato originale nella teologia: Adamo dette un morso alla mela e con ciò il peccato colpì il genere umano. Se ne spiega l’origine raccomandandola come aneddoto del passato. C’era una volta, in una età da lungo tempo trascorso, da una parte una élite diligente, intelligente e soprattutto risparmiatrice, e dall’altra c’erano degli sciagurati oziosi che sperperavano tutto il proprio e anche più. Però la leggenda del peccato originale teologico ci racconta come l’uomo sia stato condannato a mangiare il suo pane nel sudore della fronte; invece la storia del peccato originale economico ci rivela come mai vi sia della gente che non ha affatto bisogno di faticare. Fa lo stesso! Così è avvenuto che i primi hanno accumulato ricchezza e che gli altri non hanno avuto all’ultimo altro da vendere che la propria pelle. E da questo peccato originale data la povertà della gran massa che, ancor sempre, non ha altro da vendere fuorché se stessa, nonostante tutto il suo lavoro, e la ricchezza dei pochi che accresce continuamente, benché da gran tempo essi abbiano cessato di lavorare. […] Nella storia reale la parte importante è rappresentata, come è noto, dalla conquista, dal soggiogamento, dall’assassinio e dalla rapina, in breve dalla violenza. Nella mite economia politica ha regnato da sempre l’idillio. Diritto e <<lavoro>> sono stati da sempre gli unici mezzi d’arricchimento, facendosi eccezione, come è ovvio, volta per volta, per <<questo anno>>. Di fatto i metodi dell’accumulazione originaria sono tutto quel che si vuole fuorché idilliaci.

[…] Il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione fra lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro. Una volta autonoma, la produzione capitalistica non solo mantiene quella separazione, ma la riproduce su scala sempre crescente. Il processo che crea il rapporto capitalistico non può dunque essere null’altro che il processo di separazione del lavoratore della proprietà delle proprie condizioni di lavoro, processo che da una parte trasforma in capitale i mezzi sociali di sussistenza e di produzione, dall’altra trasforma i produttori diretti in operai salariati. Dunque la cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione. Esso appare <originario>> perché costituisce la preistoria del capitale e del modo di produzione capitalistico ad esso corrispondente.

[…] Così il movimento storico che trasforma i produttori in operai salariati si presenta, da un lato, come loro liberazione dalla servitù e dalla coercizione corporativa; e per i nostri storiografi borghesi esiste solo questo lato. Ma dall’altro lato questi neoaffrancati diventano venditori di se stessi soltanto dopo essere stati spogliati di tutti i loro mezzi di produzione e di tutte le garanzie per la loro esistenza offerte dalle antiche istituzioni feudali. E la storia di questa espropriazione degli operai scritta negli annali dell’umanità a tratti di sangue e di fuoco

[…] Il punto di partenza dello sviluppo che genera tanto l’operaio salariato quanto il capitalista, è stata la servitù del lavoratore. La sua continuazione è consistita in un cambiamento di forma di asservimento, nella trasformazione dello sfruttamento feudale in sfruttamento capitalistico.

[…] Nella storia dell’accumulazione originaria fanno epoca dal punto di vista storico tutti i rivolgimenti che servono di leva alla classe dei capitalisti in formazione; ma soprattutto i momenti nei quali grandi masse vengono staccate improvvisamente e con la forza dai loro mezzi di sussistenza e gettate sul mercato del lavoro come proletariato eslege. L’espropriazione dei produttori rurali, di contadini e la loro espulsione dalle terre costituisce il fondamento di tutto il processo. La sua storia ha sfumature diverse nei vari paesi e percorre fasi diverse in successioni diverse e in epoche storiche diverse. Solo nell’Inghilterra, che perciò prendiamo come esempio, essa possiede forma classica.

 

Espropriazione della popolazione rurale e sua espulsione dalle terre

 

Nuovo e terribile impulso ebbe il processo d’espropriazione forzosa della massa della popolazione nel secolo XVI, dalla Riforma e al seguito a questa, dal colossale furto dei beni ecclesiastici. Al momento della Riforma la Chiesa cattolica era proprietaria feudale d’una gran parte del suolo inglese. La soppressione dei conventi ecc. ne gettò gli abitanti nel proletariato. I beni ecclesiastici vennero donati in gran parte a rapaci favoriti regi o venduti a prezzi irrisori a fittavoli e cittadini speculatori, che scacciavano in massa gli antichi fittavoli ereditari dei conventi riunendo i loro poderi in grandi unità. La proprietà che la legge garantiva agli agricoltori impoveriti di una parte delle decime ecclesiastiche venne tacitamente confiscata.

[…] Sotto la restaurazione degli Stuart i proprietari fondiari riuscirono a imporre in forma legale una usurpazione che sul continente fu attuata dappertutto anche senza lungaggini giuridiche. Essi abolirono la costituzione feudale del suolo, cioè scaricarono sullo Stato gli obblighi di servizio che essa comportava, <<indennizzarono>> lo Stato per mezzo di tasse sui contadini  e sulla restante massa della popolazione, rivendicarono la proprietà privata moderna su quei fondi, sui quali possedevano soltanto titoli feudali, e si degnarono infine di concedere benignamente quelle leggi domicilio (laws of settlement) le quali, mutatis mutandis, ebbero sui coltivatori inglesi lo stesso effetto che l’editto del tartaro Boris Godunov ebbe sui contadini russi.

La <<glorious revolution>> (rivoluzione gloriosa) portò al potere, con Guglielmo III di Orange, i facitori di plusvalore, fondiari e capitalistici, che inaugurarono l’era nuova esercitando su scala colossale il furto ai danni dei beni demaniali che fino a quel momento era stato perpetrato solo su scala modesta. Le terre demaniali venivano regalate, vendute a prezzo irrisorio, oppure annesse a fondi privati per usurpazione diretta. Tutto ciò avveniva senza osservare minimamente l’etichetta legale. I beni statali così fraudolentemente appropriati costituiscono assieme al frutto del furto dei beni della chiesa, questo per la parte che non era andata perduta durante la rivoluzione repubblicana, la base degli odierni domini principeschi dell’oligarchia inglese. I capitalisti borghesi favorirono l’operazione, fra l’altro allo scopo di trasformare i beni fondiari in un puro e semplice articolo di commercio, di estendere il settore della grande impresa agricola, di aumentare il loro approvvigionamento di proletari eslege provenienti dalle campagne, ecc.

[…] La proprietà comune – completamente distinta dalla proprietà statale che abbiamo or ora considerato – era una antica istituzione germanica, sopravvissuta sotto l’egida del feudalesimo. Si è visto come l’usurpazione violenta della proprietà comune, per lo più accompagnata dalla trasformazione del terreno arabile in pascolo, cominci alla fine del secolo XV e continui nel secolo XVI. Ma allora il processo si attuò come azione violenta individuale, contro la quale la legislazione combatté, invano, per centocinquant’anni. Il progresso del secolo XVIII si manifesta nel fatto che ora la legge stessa diventa veicolo di rapina delle terre del popolo, benché i grandi fittavoli continuino ad applicare, per giunta, anche i loro piccoli metodi privati indipendenti.

La forma parlamentare del furto è quella dei Bills for Inclosures of Commons (leggi per la recinzione delle terre comuni), in altre parole, decreti per mezzo dei quali i signori dei fondi regalano a se stessi, come proprietà privata, terra del popolo; sono decreti di espropriazione del popolo.

[…] Il furto dei beni ecclesiastici, l’alienazione fraudolenta dei beni dello Stato, il furto della proprietà comune, la trasformazione usurpatoria, compiuta con un terrorismo senza scrupoli, della proprietà feudale e della proprietà del clan in proprietà privata moderna: ecco altrettanti metodi idillici dell’accumulazione originaria. Questi metodi conquistarono il campo dell’agricoltura capitalistica, incorporarono la terra al capitale e crearono all’industria delle città la necessaria fornitura di proletariato eslege.

 

Legislazione sanguinaria contro gli espropriati dalla fine del secolo XV in poi. Leggi per l’abbassamento dei salari.

 

Non era possibile che gli uomini scacciati dalla terra per lo scioglimento dei seguiti feudali e per l’espropriazione violenta e a scatti, divenuti eslege, fossero assorbiti dalla manifattura al suo nascere con la stessa rapidità con la quale quel proletariato veniva messo al mondo. D’altra parte, neppure quegli uomini lanciati all’improvviso fuori dall’orbita abituale della loro vita potevano adattarsi con altrettanta rapidità alla disciplina della nuova situazione. Si trasformarono così, in massa, in mendicanti, briganti, vagabondi, in parte per inclinazione, ma nella maggior parte dei casi sotto la pressione delle circostanze. Alla fine del secolo XV e durante tutto il secolo XVI si ha perciò in tutta l’Europa occidentale una legislazione sanguinaria contro il vagabondaggio. I padri dell’attuale classe operaia furono puniti, in un primo tempo, per la trasformazione in vagabondi e in miserabili che avevano subìto. La legislazione li trattò come delinquenti <<volontari>> e partì dal presupposto che dipendesse dalla loro buona volontà il continuare a lavorare o meno nelle antiche condizioni non più esistenti.

[…] Così la popolazione rurale espropria con la forza, cacciata dalla sua terra, e resa vagabonda, veniva spinta con leggi fra il grottesco e il terroristico a sottomettersi, a forza di frusta, di marchio a fuoco, di torture, a quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato.

Non basta che le condizioni di lavoro si presentino come capitale a un polo e che all’altro polo si presentino uomini che non hanno altro da vendere che la propria forza lavoro. E non basta neppure costringere questi uomini a vendersi volontariamente. Man mano che la produzione capitalistica procede, si sviluppa una classe operaia che per educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali ovvie le esigenze di quel modo di produzione. L’organizzazione del processo di produzione capitalistico sviluppato senza ogni resistenza; la costante produzione di sovrappopolazione relativa tiene la legge dell’offerta e della domanda di lavoro, e quindi il salario lavorativo, entro un binario che corrisponde ai bisogni di valorizzazione del capitale; la silenziosa coazione dei rapporti economici appone il suggello al dominio del capitalista sull’operaio. Si continua, è vero, sempre ad usare la forza extraeconomica, immediata, ma solo per eccezione. Per il corso ordinario delle cose l’operaio può rimanere affidato alle <<leggi naturali della produzione>>, cioè alla sua dipendenza dal capitale, che nasce dalle stesse condizioni della produzione, e che viene garantita e perpetuata da esse. Altrimenti vanno le cose durante la genesi storica della produzione capitalistica. La borghesia, al suo sorgere, ha bisogno del potere dello Stato, e ne fa uso, per <<regolare>> il salario, cioè per costringerlo entro i limiti convenienti a chi vuol fare del plusvalore, per prolungare la giornata lavorativa e per mantenere l’operaio stesso a un grado normale di dipendenza. E’ questo un momento essenziale della cosiddetta accumulazione originaria.

[…] La scoperta delle terre aurifere e argentifere in America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione aborigena, seppellita nelle miniere, l’incipiente conquista e il saccheggio delle Indie Orientali, la trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale delle pelli nere, sono i segni che contraddistinguono l’aurora dell’era della produzione capitalistica. Questi procedimenti idillici sono momenti fondamentali dell’accumulazione originaria. Alle loro calcagna viene la guerra commerciale delle nazioni europee, con l’orbe terracqueo come teatro. […] I vari momenti dell’accumulazione originaria si distribuiscono ora, più o meno in successione cronologia, specialmente fra Spagna, Portogallo, Olanda, Francia e Inghilterra. Alla fine del secolo XVII quei vai momenti vengono combinati sistematicamente in Inghilterra in sistema coloniale, sistema del debito pubblico, sistema tributario e protezionistico moderni. I metodi poggiano in parte sulla violenza più brutale, come per es. il sistema coloniale. Ma tutti si servono del potere dello Stato, violenza concentrata e organizzata dalla società, per fomentare artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi. La violenza è la levatrice di ogni vecchia società, gravida di una società nuova. E’ essa stessa una potenza economica.

[…] Il sistema del credito pubblico, cioè dei debiti dello Stato, le cui origini si possono scoprire fin dal Medioevo a Genova e a Venezia, s’impossessò di tutta l’Europa durante il periodo della manifattura, e il sistema coloniale col suo commercio marittimo e le sue guerre commerciali gli servì da serra. Così prese piede anzitutto in Olanda. Il debito pubblico, ossia l’alienazione dello Stato – dispotico, costituzionale o repubblicano che sia – imprime il suo marchio all’era capitalistica. L’unica parte della cosiddetta ricchezza nazionale che passi effettivamente in possesso collettivo dei popoli moderni è…il loro debito pubblico. Di qui, con piena coerenza, viene la dottrina moderna che il popolo diventa tanto ricco quanto più a fondo s’indebita. Il credito pubblico diventa il credo del capitale. E col sorgere dell’indebitamento dello Stato, al peccato contro lo spirito santo, che è quello che non trova perdono, subentra il mancar di fede al debito pubblico.

Il debito pubblico diventa una delle leve più energiche dell’accumulazione originaria: come con un colpo di bacchetta magica, esso conferisce al denaro, che è improduttivo, la facoltà di procreare, e così lo trasforma in capitale, senza che il denaro abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili dall’investimento industriale e anche da quello usuraio.

[…] Se il denaro, come dice l’Augier, << viene al mondo con una voglia di sangue in faccia>>, il capitale viene al mondo grondante sangue e sporcizia dalla testa ai piedi, da ogni poro.

 

 

  1. 2. UMBERTO SANTINO, LA MAFIA COME SOGGETTO POLITICO, DI GIROLAMO EDITORE, TRAPANI, 2013, pp. 14-47.

 

1.La mafia come soggetto politico. Vent’anni dopo

 

[…] La mafia, le mafie, hanno anch’esse la loro finanziarizzazione, rappresentata dall’incremento esponenziale dell’accumulazione illegale. Viviamo in una fase di transizione, di interregno, in cui la dimensione transnazionale convive con quella nazionale e la modella secondo le sue esigenze. Il potere ha pur sempre un ancoraggio territoriale, i maggiori centri finanziari e i loro guardiani, come le agenzie di rating (Standars & Poor’s, Moody’s, Fitch), sono negli Stati Uniti, che continuano ad esercitare un’egemonia, anche se sempre insidiata, nonostante siano il paese con maggior debito e con la bilancia dei pagamenti perennemente passiva. E i paradisi fiscali, che nella geografia del capitale finanziario hanno un ruolo fondamentale, non per caso si raggruppano nei pressi dell’Europa e degli Stati Uniti. I soggetti del potere finanziario, la Banca mondiale, il Fondo monetario, l’Organizzazione mondiale del commercio, dettano le politiche reali in nome del liberismo come “pensiero unico”. […] In questo contesto le mafie sono diventate attori globali, ma non hanno perso il radicamento nel territorio. Signoria territoriale e ruolo mondiale possono essere reciprocamente funzionali. Non c’è una Supermafia, ci sono le mafie nazionali, vecchie e nuove, e traffici transnazionali.

[…] il potere delle mafie è sempre più legato all’accumulazione, ma non può prescindere dai legami che si costruiscono all’interno del sistema relazionale, indispensabile per estendere e rafforzare l’attività delle organizzazioni criminali. Il rapporto con le istituzioni è stato e rimane irrinunciabile. E le istituzioni sono disseminate sul territorio.

 

  1. Introduzione

 

Un’ipotesi definitoria

 

La concezione di mafia che anima il lavoro mio e del Centro Impastato mira a un rovesciamento o a un’integrazione delle visioni correnti, partendo dalla considerazione che la mafia non è un fatto patologico che si sviluppa in un corpo sano ma è un insieme prodotto e riproduttore di un ecosistema sociale. Essa è un fenomeno polimorfico, risultante del convergere e intrecciarsi di vari aspetti: la violenza e l’illegalità, la sua finalizzazione all’accumulazione della ricchezza e all’acquisizione del potere, un codice culturale, un certo consenso sociale. Da un punto di vista strutturale si possono distinguere due ambiti: le organizzazioni criminali vere e proprie e un vasto e ramificato sistema di cointeressenze, complicità, contiguità, un blocco sociale di natura transclassista che va dagli strati più svantaggiati della popolazione, coinvolti nelle varie articolazioni delle attività lecite o illecite, agli strati più alti: politici e amministratori legati in un modo o nell’altro ai mafiosi, professionisti (avvocati, consulenti finanziari, tecnici etc.) che prestano la loro opera a servizio di mafiosi, imprenditori consoci o prestanomi etc. All’interno di tale blocco la funzione dominante è svolta dai soggetti legali-illegali più ricchi e potenti che abbiamo definito borghesia mafiosa.

[…] La nostra attenzione si è rivolta allo studio del sistema relazionale dei gruppi mafiosi, nelle sue molteplici articolazioni, che vanno dal piano economico a quello politico-istituzionale e includono una dimensione culturale che, coniugandosi con gli altri aspetti, genera e sedimenta consenso sociale. […] i gruppi mafiosi non sono né ghetti né isole, ma sono parte di un blocco sociale, la cui consistenza è difficilmente quantificabile, ma potrebbe coinvolgere in Sicilia, in modo diretto o indiretto, alcune centinaia di migliaia di persone.

 

Un’ipotesi di periodizzazione

 

[…] La mafia, come del resto tutti i fenomeni di durata, si sviluppa intrecciando continuità e trasformazione, tradizione e innovazione-modernizzazione, per cui aspetti vecchi, se non arcaici, convivono con i nuovi e, al di là di contraddizioni apparenti, possono essere reciprocamente funzionali.

E’ possibile individuare delle fasi, ma solo in quanto si può indicare un aspetto come prevalente rispetto ad altri e facendo riferimento ai mutamenti del contesto sociale, a cui la mafia si è sempre dimostrata, per la sua elasticità, capace di adeguarsi.

Un quadro dell’evoluzione storica della mafia può così delinearsi:

  • una lunga fase di incubazione, dal XVI secolo ai primi decenni del XIX secolo, in cui più che di mafia vera e propria può parlarsi di fenomeni premafiosi;
  • una fase agraria, che va dalla formazione dello Stato unitario agli anni ’50 del XX secolo;
  • una fase urbano-imprenditoriale, negli anni ’60;
  • una fase finanziaria, dagli anni ’70 ad oggi.

[…] Con la creazione dello Stato unitario si afferma un blocco dominante composto dai grandi industriali del Nord e dai proprietari terrieri meridionali. L’economia rimane prevalentemente agricola fino agli anni ’50 del XX secolo. La stratificazione sociale nella Sicilia occidentale vede al vertice i grandi agrari, al centro gli affittuari dei latifondi (gabelloti) e alla base i contadini, frammentati in piccoli proprietari, mezzadri, braccianti. La mafia agraria è formata dagli affittuari, che, pur avendo un ruolo parassitario tra proprietari e contadini, sono degli imprenditori in quanto agenti di una prassi combinatoria dei fattori produttivi possibile entro quell’assetto sociale, ma la presenza mafiosa è capillare e forte anche nei giardini di agrumi della Conca d’oro palermitana. Le funzioni della mafia agraria sono: accumulazione del capitale, controllo e repressione del movimento contadino, suo principale antagonista dai Fasci siciliani (1891-94) alle lotte per la riforma agraria degli anni ’40 e ’50, governo locale, mediazione tra comunità locale e istituzioni centrali, costituendo no dei pilastri del sistema clientelare attraverso cui avviene l’integrazione del Mezzogiorno nel contesto nazionale.

Dalla seconda metà degli anni ’50 comincia la trasformazione dell’economia italiana in industriale-terziaria e nel Mezzogiorno e in Sicilia la terziarizzazione è soprattutto parassitaria, con lo sviluppo dell’impiego pubblico e il ruolo sempre più rilevante che assume la spesa pubblica, dopo la creazione della Regione a statuto speciale (1946) e della Cassa per il Mezzogiorno (1950). In questa fase non c’è tanto un trasferimento dei gruppi mafiosi dalle campagne alle città, quanto un loro inserimento nella nuova realtà, con l’ingresso in attività imprenditoriali, legate soprattutto all’edilizia. […] un ruolo decisivo nella nascita del mafioso-imprenditore ha il denaro pubblico, sotto forma di appalti di opere pubbliche o di finanziamenti erogati da istituti di credito di diritto pubblico. Cioè la mafia urbano-imprenditoriale nasce come borghesia di Stato, intendendo per tali strati medio-alti che si formano e assumono un ruolo dominante per il loro collegamento con le fonti di denaro pubblico e con le istituzioni. La mafia ha il controllo del mercato edilizio, dei mercati alimentari, del credito, delle assunzioni negli enti locali e svolgendo tali funzioni diventa sempre di più borghesia egemone a livello locale, mantenendo e sviluppando le fonti di accumulazione illegale (estorsioni, contrabbando di sigarette, inserimento nel traffico internazionale di droga).

Il ruolo sempre maggiore nel traffico di droghe dagli anni ‘70 ad oggi caratterizza la mafia attuale come mafia finanziaria, cioè come una grande macchina di accumulazione di capitale illegale, con la conseguente lievitazione del ruolo dei gruppi mafiosi nel mercato e nella società. La richiesta di occasioni di riciclaggio e investimento del denaro sporco e di spazi di potere raggiunge livelli mai toccati in precedenza, per cui saltano le compatibilità, e in parallelo con lo svilupparsi di una sanguinosa concorrenza interna (che raggiunge il massimo di conflittualità nella guerra di mafia degli anni 1981-1983) si innesca una gara egemonica esterna che porta all’abbattimento degli ostacoli che si frappongono al processo di espansione.

 

La soggettività politica della mafia

 

[…] Si può parlare di soggettività politica della mafia in duplice senso:

  • in quanto associazione criminale la mafia è un gruppo politico, presentando tutte le caratteristiche individuate dalla sociologia classica per la definizione di tale tipo di gruppo;
  • essa concorre come gruppo criminale e con il blocco sociale di cui fa parte alla produzione della politica in senso complessivo, cioè determina, o contribuisce a determinare, le decisioni e le scelte riguardanti la gestione del potere e la distribuzione delle risorse.

 

La produzione mafiosa della politica

 

La mafia concorre alla produzione della politica in vari modi. Ne indichiamo alcuni, risultanti dal materiale studiato o di cui siamo a conoscenza:

  • uso politico della violenza. I delitti politico-mafiosi […] costituiscono un intervento sul quadro generale. Essi sono, o possono essere, il frutto di una convergenza di interessi e si può ipotizzare, anche se non sempre è dimostrabile in sede giudiziaria, la responsabilità di più soggetti (logge massoniche, gruppi terroristici, servizi segreti, etc.) nella loro ideazione ed esecuzione;
  • formazione delle rappresentanze nelle istituzioni, attraverso la selezione dei quadri, il finanziamento delle campagne elettorali, il controllo sul voto e altre forme di intervento o anche con la partecipazione diretta di membri di organizzazioni mafiose alle competizioni elettorali e alle assemblee elettive;
  • controllo sull’attività politico-amministrativa attraverso rapporti con gruppi politici e apparati burocratici, dagli enti locali alle istituzioni centrali. La tipologia di tali rapporti va dall’identificazione-comprenetazione, allo scambio permanente o limitato, all’affinità culturale o d’interessi;
  • c’è un altro complesso di fenomeni di cui occorre tenere conto, e cioè lo svilupparsi di forme di privatizzazione-clandestinizzazione-criminalizzazione dell’attività politico-amministrativa o attraverso collegamenti tra gruppi mafiosi e altri gruppi che mutuano metodi di tipo mafioso, o con la generalizzazione di pratiche che non implicano un ruolo diretto di soggetti mafiosi né il ricorso a forme dirette o indirette di violenza, ma si configurano come illegalità sistemica, permanente e diffusa (è questo il quadro che viene alla luce dalle inchieste sulle varie tangentopoli), costituendo il contesto più ospitale per l’eventuale insediamento di interessi mafiosi. Questi fenomeni attestano che si è metabolizzata una forma-mafia come modello di comportamento che va ben oltre i gruppi organizzati in associazioni di stampo mafioso.

 

Doppia mafia in doppio Stato: una duplice dualità

 

[…] In realtà l’esperienza storica italiana ci dice che il monopolio formale della forza da parte dello Stato non è mai venuto a cessare, ma che di fatto c’è stata, e continua ad esserci, una demonopolizzazione, per cui si può individuare una duplice dualità, riguardante la mafia e lo Stato.

A differenza dalla criminalità comune, la mafia non viola il diritto ma nega il diritto, cioè non riconosce il monopolio statale della violenza e quindi è fuori e contro lo Stato, considerando il ricorso all’omicidio come la sua forma di giustizia; ma per le sue attività legate al denaro pubblico e la sua partecipazione attiva alla vita pubblica essa è dentro e con lo Stato, per cui la definizione di “criminalità istituzionalizzata” coglie pienamente nel segno.

[…] Il doppio binario della violenza ha assolto la funzione del mantenimento del potere da parte delle classi dominanti, ogni volta che l’intervento diretto dello Stato o era impossibile, per la sua palese illegalità, o non avrebbe potuto avere la speditezza e la brutalità della violenza mafiosa. Non è una forzatura ideologica affermare che non c’è stato, in Italia, Stato senza mafia, come non c’è stata mafia senza Stato.

[…] la soggettività politica della mafia sarebbe completamente incomprensibile se considerata come una serie di fatti, gravi ma tutto sommato parziali ed episodici, e non come prodotto di un meccanismo complessivo costituito dal rapporto mafia-istituzioni nella sua concreta dinamica, che vede operanti soggetti formalmente contrapposti ma in realtà portatori di duplicità, per cui al posto del paradigma astratto alterità-contrapposizione agisce quello alterità-interazione.

[…] La mafia non si è formata e non si è sviluppata per e nel vuoto di mercato, ma dentro il mercato, così come si è realizzato storicamente e non come avrebbe dovuto essere o dovrebbe essere secondo i teoremi dell’” economia degli economisti”.

La dualità del fenomeno mafioso e dello Stato produce la particolare situazione in cui vengono a trovarsi magistrati e rappresentanti delle istituzioni impegnati nell’attività antimafia, ma ciò vale anche per altri terreni- dai servizi segreti al sistema della corruzione- coinvolti in prassi di “criminalità istituzionale”, considerabili cioè come gemmazione naturale, filiazione sistemica, e non devianze patologiche. La funzione giurisdizionale e repressiva si trova a vivere una condizione schizofrenica ed espone a gravissimi rischi gli operatori più conseguenti che debbono contrastare un nemico armato […] e alle spalle non hanno il sostegno e la copertura che si aspetterebbero, se non operasse il collegamento che il criminologo statunitense Sutherland definiva “fraternizzazione tra le forze contrapposte”, cioè tra criminali “dal colletto bianco” e Stato, mentre per gli altri soggetti criminali opera la stigmatizzazione.

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