OLTRE IL GIARDINO, di Andrea Zhok

Siamo al nono mese di guerra in Ucraina. Al progressivo e sempre più evidente coinvolgimento degli Stati Uniti e al trascinamento dei paesi della Alleanza Atlantica in Europa, corrisponde un affievolimento dell’entusiasmo, che in Italia per la verità non ha raggiunto mai vette eccelse, nel sostegno al regime ucraino. Non è ancora una opposizione aperta, anche perché in Italia manca totalmente una leadership politica in grado di alimentarla, sostenerla e dirigerla con discernimento. Il senso di inquietudine e di malessere, però, è palpabile e crescente.
Sarà il rischio sempre più evidente di uno scontro militare aperto che vedrebbe per la terza volta l’Europa come il campo di battaglia di un confronto che vede questa volta, a differenza delle altre due, negli Stati Uniti, un paese separato da un oceano e nella Russia, un paese immerso in due continenti con un piede ben saldo nel 40% del territorio europeo; sarà per le drammatiche conseguenze delle sanzioni, nominalmente volte a punire la Russia, di fatto a stroncare l’Europa, in primis Germania, Francia e Italia. Persino il nostro ceto politico, così entusiasticamente ed acriticamente schierato nel sostenere l’avventurismo statunitense, comincia a intravedere l’arrivo di fosche nubi all’orizzonte e a percepire la difficoltà nel dover gestire una situazione potenzialmente esplosiva.
Flebili voci iniziano ad alzarsi per “fermare la guerra” e “raggiungere la pace”. Un coro al quale partecipano anche i partigiani più oltranzisti nel sostegno al regime ucraino, alimentando con questo la confusione e gli equivoci nei quali rischierà di affogare ogni iniziativa seria e realistica. Una situazione non nuova nel panorama politico italiano così magmatico e paludoso.
Su questo tocca dare ragione a Calenda e alla sua chiarezza inequivocabile di schieramento. Ci è toccato vedere addirittura il PD manifestare per la pace di fronte alla ambasciata russa, dimenticandosi degli altri attori geopolitici coinvolti a pieno titolo. L’unico segno di cautela, dubito di ritegno, la fine di ogni velleità di assunzione di un ruolo di mediatore, resa provocatoria dall’atteggiamento del Governo Draghi.
Ogni presa di posizione credibile ed ogni iniziativa realistica non può prescindere dalle risposte da dare a tutta una serie di interrogativi rimossi dai facitori di opinione pubblica e dai costruttori di consenso:
Come mai gli Stati Uniti non hanno sottoscritto gli accordi di Minsk?
Come mai gli Stati Uniti hanno pesantemente armato, organizzato ed integrato, nella fase di latenza degli accordi, l’esercito ucraino con caratteristiche sempre più offensive e si sono spinti sino a sottoscrivere con il regime ucraino, nell’ottobre 2021, un accordo di mutuo soccorso che prevedeva addirittura l’insediamento di un consolato in Crimea?
Con quali finalità gli Stati Uniti hanno finanziato ed insediato, con la partecipazione del Pentagono e dei Servizi, decine di laboratori bio-chimici a ridosso dei confini con la Russia?
Come mai Francia e Germania hanno dimenticato di esercitare il proprio ruolo di garanti, previsto dagli accordi di Minsk?
Quale il motivo della rimozione riguardo alla natura del regime ucraino, nato dal peccato originale di un colpo di stato nel 2014, mosso da una strage ad opera di provocatori ormai in gran parte noti a piazza Maidan, proseguita con altre stragi ed esecuzioni ad Odessa, Melitopol e in tutta l’area russofona e russofila del paese, andata avanti con la progressiva messa al bando di partiti dell’opposizione, siano essi russofili, neutralisti o solo critici del crescente interventismo del regime ucraino?
Quale il motivo del silenzio sulle aperte discriminazioni nei confronti della componente russa e russofona, pari a ben oltre il 40% della popolazione originaria dell’Ucraina al 2014, culminata col la legge di tutela delle sole minoranze prive di statualità o con statualità interne alla Unione Europea?
Perché il sistema mediatico e politico, nella quasi totalità, continua ad omettere la esistenza e la dimensione reale delle stragi di propri civili, perpetrate coscientemente dall’esercito ucraino a fronte della continua segnalazione di stragi da parte russa, per altro in gran parte smentite dalla documentazione disponibile?
Tutti interrogativi posti non solo in nome di una esigenza astratta di verità o nel caso peggiore da una inconscia e acritica partigianeria e tifoseria a favore di uno dei contendenti, quanto dalla risposta dalla quale dipende una corretta e realistica azione tesa ad una tregua e ad un accordo possibile tra le parti.
Una tregua e un accordo che dipendono sostanzialmente da una premessa e da quattro determinanti necessarie a definire l’ambiente ecologico del teatro ucraino.
La premessa è che nel diritto e nelle convenzioni internazionali viene riconosciuta la facoltà di intervento bellico preventivo in caso di minaccia diretta, così come argutamente stigmatizzato dal professor Sinagra. Una situazione che andrebbe quantomeno approfondita, ma che i politici e l’informazione occidentale si sono ben guardati dall’analizzare sul campo. A questa segue il fatto che il principio di integrità territoriale di uno stato è contemperato dal diritto di autodeterminazione dei popoli, meglio se regolato secondo dinamiche concordate e vigilate nella loro osservanza dagli organismi internazionali. Nel contesto post-sovietico vi è comunque una fase di transizione che dovrebbe essere regolata secondo accordi politici che considerino i contenziosi inevitabili e le implicazioni per le nuove minoranze venutesi a determinare. Quello della discriminazione delle minoranze russe nei paesi seceduti dalla Unione Sovietica, poi denominata CSI, in particolare. L’azione statunitense, della NATO e della Unione Europea ha alimentato queste contrapposizioni piuttosto che risolverle o contenerle in funzione delle sue politiche espansive e russofobiche.
Quanto alle determinanti da tenere conto quanto segue:
non si può prescindere dal carattere di guerra civile, col tempo sempre più virulento, assunto dal conflitto militare in Ucraina;
né si deve sottovalutare la capacità operativa e di supporto delle forze militari e del complesso militare-industriale russo; sopravvalutare, sino a ritenerlo illimitato, quelli degli Stati Uniti e dell’Alleanza Atlantica;
riuscire ad individuare i limiti e la soglia sulla quale è disposta a fermarsi la leadership statunitense. Limiti e soglia non predeterminati dalla amministrazione americana, ma dipendenti dall’andamento del feroce scontro politico in corso all’interno della stessa e tra questa e l’opposizione sempre più strutturata del movimento trumpiano;
dalla volontà di una qualche parte delle élites politiche europee di inserirsi in quello scontro per far uscire il continente o almeno parte di esso dalla morsa mortale e suicida in cui si è progressivamente cacciato in un contesto paradossale nel quale la Russia sembra subire i maggiori problemi nel proprio vicinato prossimo, ma, assieme a Cina e India, sembra acquisire crescenti consensi nel resto del mondo a discapito del mondo occidentale.
Tutti fattori che rendono improponibile un mero ritorno agli accordi di Minsk, ma la cui azione protratta nel tempo renderà sempre più costoso il prezzo da pagare in caso di cedimento e più rischiosa l’eventualità di un azzardo.
Una cornice realistica che potrebbe definire un “manifesto alla nazione”, una piattaforma in grado di fermare la corsa alla guerra e al disastro socioeconomico cui stiamo andando incontro e che superi le due tare che inibiscono lo sviluppo di un movimento politico maturo ed efficace: la partigianeria e la tifoseria che, ad armi impari, comunque pervade gli schieramenti in campo; il massimalismo di una opposizione strisciante ma irrilevante che, sull’onda di slogan facili quali l’uscita dalla NATO, senza comprendere le pesanti, probabilmente drammatiche, implicazioni nel tempo e nel merito che una tale decisione comporterebbe, è destinata a rinchiudersi nel ruolo di testimonianza, di contestazione di comodo o di azioni avventate; la strumentalizzazione a fini di gestione partitica interna di iniziative per altri versi significative.
La leadership turca, ungherese, probabilmente quella futura bulgara e moldava, il passato gaullista della Francia mostrano la possibilità di azione entro i comunque angusti spazi offerti dal sistema di Alleanza Atlantica: offrono spazi, per di più, anche a quei settori sempre più presenti, che pur intendendo rimanere fedeli all’alleanza, intendono garantire un ruolo più autonomo al proprio paese. E qualche pallidissima traccia di questo atteggiamento lo si può rilevare persino nei programmi elettorali di alcuni partiti, quali la Lega. Che poi nel tempo, questa sia una posizione realistica, sarà tutta da dimostrare.
L’importante è sapere che più va avanti il processo di integrazione della alleanza, più sarà difficile e doloroso districarsi dai suoi tentacoli; in tutti gli ambiti, non solo quello militare. Ne parleremo quando approfondiremo il contenuto del NSS, appena prodotto dalla amministrazione statunitense
Novanta minuti lunghi, ma ben spesi. Le due principali anime oltranziste che sorreggono la figura di un presidente traballante e vacuo, superata, almeno per ora, in qualche maniera e con parecchio affanno la sfida di Trump, per oltre un anno hanno trovato nel conflitto in Ucraina il punto di accordo sul quale procedere nel tentativo di eliminare uno dei fautori di un mondo multipolare e, particolare non secondario, avvolgere in catene sempre meno dorate gli alleati europei da spremere ormai senza tanti infingimenti. Stiamo conoscendo sempre più il lato oscuro del “american way of life” e l’aspetto costrittivo della gabbia atlantica. Al crescere della tensione in un conflitto da tempo coscientemente atteso e provocato, ne parliamo con cognizione di causa, si pone il problema di quale sia la soglia da non oltrepassare per evitare l’innesco di un conflitto aperto e totale dagli esiti disastrosi per tutti i contendenti. Su questo le due anime presenti nella amministrazione Biden hanno innescato uno scontro politico sempre più difficile da mimetizzare. Un conflitto all’interno del quale non esiste una accettazione e un riconoscimento a condurre il gioco alla componente al momento prevalente. Piuttosto, l’utilizzo delle leve disponibili di ogni fazione per forzare il corso degli eventi. Leve che, purtroppo, si estendono e ramificano, soprattutto in Europa, anche in gruppi e centri decisori esterni al paese. In primo luogo tra i comandi della NATO, nei centri più ottusamente nazionalisti dei paesi dell’Europa Orientale in maniera esplicita e in maniera più silente nei centri decisori, si fa per dire, dei paesi chiave, almeno una volta, della Unione Europea.
ancore parigine di democratici statunitensi
Una dinamica che finisce per ridurre, tranne rare eccezioni, i centri europei a veicolo e strumenti di provocazione e forzature delle provocazioni della componente più avventurista dell’amministrazione statunitense. I nomi, i portatori espliciti, di tale condotta li abbiamo conosciuti nel corso di questi anni. Altri emergeranno con l’intensificarsi della crisi e con la resa dei conti ad essa connessa. Sino a quando in Europa non si farà, almeno in qualche misura, pulizia negli apparati, non sarà possibile un mutamento di linea e l’assunzione di un ruolo quantomeno moderatore nella vicenda di casa nostra. Paradossalmente, proprio negli Stati Uniti si annunciano crescenti scricchiolii; da lì potrebbe pervenire finalmente un rivolgimento che investirà direttamente anche l’Europa, senza che le nostre classi dirigenti desiderino e abbiano le capacità di affrontarlo adeguatamente. Comunque si risolverà la crisi Ucraina, peggio nel caso di successo dell’amministrazione Biden, per l’Europa si annuncia un declivio sempre più ripido e caotico. Negli Stati Uniti, quantomeno, i termini del conflitto sono sempre più trasparenti e definiti. Mala tempora currunt. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
Ocasio Cortez
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Il 6 ottobre il Parlamento Europeo ha adottato una risoluzione sulla “Escalation della aggressione russa all’Ucraina” della quale si riporta il testo in calce.
Lascia allibiti per la forma e per il contenuto.
Di una protervia ed una sfrontatezza tipica delle mosche cocchiere; di una assise, parte di una istituzione ormai nella sua fase crepuscolare, comunque da sempre, ora più di prima, illuminata di luce riflessa.
Non ha valore risolutivo, vista la funzione poco più che decorativa di questa istituzione. A maggior ragione, però, i rappresentanti avrebbero potuto adottare maggiore accortezza nella forma e una postura più equilibrata nel merito.
Al contrario la solerzia più realista del re tipica di chi sa di non avere responsabilità dirette e di poter profluire buone intenzioni a buon mercato.
Nella forma il tono è di un bollettino di guerra propagandistico persino più rozzo e abborracciato dei comunicati e dei resoconti di regime ucraini.
Nel contenuto riporta in maniera stupidamente partigiana come atti di accusa verso la Russia le versioni offerte dai propagandisti ucraini con tutte le omissioni, i travisamenti e le contraffazioni alle quali ci hanno abituato nove mesi di propaganda bellica. Non un cenno ai documentati crimini dei quali amano bearsi pubblicamente gli stessi autori ucraini; nessuna considerazione del carattere civile di una guerra alimentata per anni dai disegni geopolitici anglosassoni e ai quali si prestano ottusamente in particolare le dirigenze dei paesi dell’Europa Orientale, almeno sino a quando si ritroveranno esse stesse vittime di questo gioco. Nessuna richiesta, conseguentemente, di accertamento imparziale dei fatti. Un déjà vu non per questo sufficiente ad essere esorcizzato. Nessuna minima riflessione sulle conseguenze in casa propria di una estensione draconiana di sanzioni e di una possibile, sempre più probabile, estensione del conflitto. Una pedissequa riproposizione, senza per altro averne potere e competenza, del continuo tentativo statunitense di imporre gli strumenti della propria giurisdizione nella regolazione delle relazioni tra paesi terzi. Una faciloneria ed una radicalità propria di figure che sembrano non rendersi conto delle implicazioni potenziali di tali suggerimenti, né del calderone sul quale sembrano serenamente adagiati e imbolsiti.
La risoluzione, per la sua unilateralità, rappresenta la rinuncia ad ogni ambizione di svolgere un qualsiasi ruolo autonomo; sarebbe troppo parlare di mediazione. È una delega in bianco alla attuale leadership statunitense e agli assatanati che siedono al governo in Ucraina. È l’evidenza di un ceto politico che ha ragione e possibilità di esistere solo all’ombra, sempre più ridotta, propria di un mezzogiorno di fuoco, americana. Con l’aggravante di rivelarsi dei “rappresentanti per caso” poco consapevoli di quello che stanno facendo e occupati per lo più nel loro sostanzioso “particulare”; uno strumento di una fazione ben precisa della leadership statunitense; una cordata, quest’ultima, che partendo dalla segreteria di stato arriva ai centri di comando della NATO.
Già visti all’opera ai danni della Presidenza Trump, ora vedono balenare come un incubo un suo possibile ritorno, ma ben più accorto e avveduto. La loro speranza è alzare sempre più il tiro, specie se a pagarne il prezzo principale saranno i propri più solerti alleati in terra europea.
È probabile che il Consiglio Europeo, reale sede decisionale del consesso europeo, sarà più cauto nella forma e nella sostanza della propria condotta. Il bersaglio però è lo stesso.
La stampa ci ha rappresentato a gran cassa nel tetto al prezzo del petrolio e del gas l’argomento focale dell’ultimo Consiglio Europeo.
Niente di più falso. La decisione cogente ha riguardato l’estensione delle sanzioni alla Russia e soprattutto a se stessi e la facoltà di agire arbitrariamente verso gli eventuali trasgressori.
Sempre più, quindi, parte in causa, ma con modalità e finalità decise da altri.
Dio ci scampi più che dai cattivi, dagli stolti. Sempre che qualche manina non sapesse già del precipitare della crisi di oggi ed avesse precorso i tempi.
Buona lettura.
Il Parlamento europeo,
– viste le sue precedenti risoluzioni sulla Russia e l’Ucraina, in particolare quelle del 16 dicembre 2021 sulla situazione al confine ucraino e nei territori dell’Ucraina occupati dalla Russia[1] e del 1º marzo 2022 sull’aggressione russa contro l’Ucraina[2],
– viste le dichiarazioni sull’Ucraina rilasciate dai leader del Parlamento europeo il 16 e il 24 febbraio 2022,
– vista la dichiarazione resa il 24 febbraio 2022 dall’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza a nome dell’UE sull’invasione dell’Ucraina da parte delle forze armate della Federazione russa,
– vista la dichiarazione resa il 24 febbraio 2022 dal Presidente del Consiglio europeo e dalla Presidente della Commissione sull’aggressione militare senza precedenti e non provocata della Russia contro l’Ucraina,
– vista la dichiarazione di Versailles dell’11 marzo 2022,
– viste le conclusioni del Consiglio europeo del 25 marzo 2022,
– vista la dichiarazione resa il 4 aprile 2022 dall’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza a nome dell’UE sulle atrocità russe commesse a Bucha e in altre città ucraine,
– viste le decisioni adottate dal Consiglio in merito alle sanzioni e alle misure restrittive nei confronti della Russia, che comprendono misure diplomatiche, misure restrittive individuali, quali il congelamento dei beni e le restrizioni di viaggio, restrizioni alle relazioni economiche con la Crimea, Sebastopoli e le zone non controllate dal governo di Donetsk e Luhansk, sanzioni economiche, restrizioni ai media e restrizioni alla cooperazione economica,
– visti i principi di Norimberga elaborati dalla Commissione di diritto internazionale delle Nazioni Unite, che determinano ciò che costituisce un crimine di guerra,
– visto lo Statuto di Roma della Corte penale internazionale (CPI),
– vista la Carta delle Nazioni Unite,
– visti le convenzioni di Ginevra e i relativi protocolli aggiuntivi,
– visti l’Atto finale di Helsinki e i successivi documenti,
– viste le risoluzioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite del 2 marzo 2022 sull’aggressione contro l’Ucraina e del 24 marzo 2022 sulle conseguenze umanitarie dell’aggressione contro l’Ucraina,
– vista la Convenzione delle Nazioni Unite per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio,
– vista la sentenza della Corte internazionale di giustizia delle Nazioni Unite del 16 marzo 2022,
– visti la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, il memorandum di Budapest sulle garanzie di sicurezza e il Documento di Vienna e i relativi protocolli aggiuntivi,
– visto l’articolo 132, paragrafi 2 e 4, del suo regolamento,
Una situazione di stallo apparente con l’esercito ucraino che riesce a rosicchiare parte dei territori perduti. L’iniziativa sul campo sembra essere passata in maniera più duratura al regime ucraino. Un paradosso a confronto della enorme perdita di materiale bellico e della sua capacità di produzione in loco e soprattutto della strage di uomini attinti da un serbatoio certamente limitato. Una diretta conseguenza invece del crescente coinvolgimento della NATO e degli Stati Uniti nel conflitto sino ad assumerne direttamente la gestione, la direzione e la supervisione sino a sopperire alle gravi carenze di militi con mercenari e militari stranieri appena dismessi. L’esercito russo sembra in posizione di attesa, pronto a conservare ed accumulare forze in vista di uno scontro ben più ampio e dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche per tutti i condendenti dichiarati o dietro le quinte. Deve risolvere in breve tempo problemi cruciali di assetti politici interni e di riorganizzazione dopo di che non sarà più facile per i contendenti occulti operare dietro le quinte e con la carne di cannone dei terzi ucraini e di chi vorrà aggiungersi ad essi. Il rifiuto di una trattativa seria e il sostegno ad un regime guerrafondaio all’esterno ed aguzzino e razzista, spietato al proprio interno, quale quello ucraino, stanno rendendo sempre più doloroso e costoso il necessario passo indietro. In gioco c’è la tenuta dell’attuale leadership statunitense all’interno e all’esterno degli Stati Uniti. Al momento e in apparenza la sua partita prosegue con il punto perso in Afghanistan e due punti guadagnati a Taiwan e in Europa. E’, però, un continuo azzardo al rialzo al quale basta perdere l’ultimo punto per compromettere l’intero gioco.
Intanto il conto più salato, in termini di sottomissione, passività e stupidità, a diverso titolo, lo stanno pagando gli europei. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
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IL TERZO
Julien Freund sosteneva che il conflitto è una relazione sociale bipolare, la quale comporta l’assenza (la dissoluzione, l’estraneità) del terzo dal rapporto. Utilizzando l’espressione del noto principio di logica, è caratterizzato dal terzo escluso.
Il terzo, scriveva il pensatore alsaziano riguardo alla polarità, la elimina in partenza, e poi la ritrova alla conclusione, senza contare che può infrangere la dualità conflittuale. Il terzo si manifesta così come la nozione correlativa, per contrasto, al conflitto.
Il terzo, scriveva Freund, aderendo alla tesi di Simmel, è di tre tipi. Il primo è il terzo imparziale, che non ha interessi nel conflitto, onde è il decisore/intermediario ideale per conciliare i contendenti a far cessare il conflitto. Deve avere autorità e in genere un certo potere per orientare la decisione delle parti in conflitto.
Il secondo tipo è “il terzo ladrone” (larron). Non è implicato nella guerra, ma ne trae benefici per se stesso. Tra i tanti sotto-tipi in cui può suddividersi tale tipo-genere, i più frequenti sono: poter perseguire il proprio tornaconto, contando sulla distrazione dei contendenti o, in altri casi, fare affari con i contendenti (o con uno di essi).
Il terzo tipo è quello del terzo che divide et impera. In questa sotto-classe il terzo non è né il decisore né il profittatore del conflitto: ne è talvolta colui che lo suscita, ma per lo più chi lo mantiene ed alimenta. Del quale tipo è ricolma la storia. Tanto per fare un esempio la politica di Richelieu nella guerra dei trent’anni, prima dell’intervento francese, in soccorso dei protestanti. O, per la politica interna, quella degli Asburgo verso i popoli nell’impero austro-ungherese.
Nella guerra russo-ucraina chi – e di che tipo – può essere il terzo? Il decisore, il profittatore, il suscitatore?
Quanto al profittatore, ce n’è tanti e, per lo più privati, che è superfluo parlarne.
Anche perché la posizione del terzo larron, è conseguenza – prevalentemente – di decisioni altrui e non proprie. Pertanto ha poche possibilità sia di suscitare che di far cessare la lotta.
Neppure si vede un terzo che abbia i connotati del primo tipo: non c’è nessuno che sommi in se neutralità (nel senso prima specificato), autorità e potere. Gli USA sono i protettori dell’Ucraina, come Richelieu lo era dei principi protestanti, e hanno ampiamente aiutato una delle parti e preso misure contro l’altra; l’U.E. non ha l’autorità, né il potere, e neppure è neutrale, anche se ha tutto l’interesse a far cessare il conflitto.
La Cina ha tenuto un comportamento relativamente equidistante tra i contendenti ed è sotto questo aspetto, idonea; ma è dubbio se abbia il potere e ancor più il tasso minimo di autorità presso i contendenti. Il Vaticano si è saggiamente mantenuto in equilibrio tra le parti; ma anche se – credo – ha una certa autorità, ha pochissimo – o nessun – potere. Intendendo qui come “potere” l’impiego di incentivi alla pace o disincentivi alla guerra.
Di converso appare più chiaramente percepibile la presenza di terzi “suscitatori”. Forniture di armi e sanzioni possono disincentivare l’aggressore, ma sicuramente prolungano la guerra e probabilmente la intensificano.
Sempre tornando a Richelieu, la guerra dei trent’anni ebbe tale durata proprio grazie al denaro che il cardinale dava in abbondanza alla parte più debole, ossia ai protestanti. Per farla cessare fu necessario, tuttavia, l’intervento militare della Francia, con relativo abbandono del ruolo di terzo.
Nel conflitto russo-ucraino i “terzi” abbondano, ma dei tipi “polemogeni”; mancano, allo stato, quelli del primo tipo.
A meno che uno dei belligeranti non si riconosca sconfitto o ambedue trovino un’intesa pacifica (ipotesi che appare ancor più difficile), la durata appare rimessa alla volontà delle stesse. E la durata anche.
Teodoro Klitsche de la Grange
“Dipendevamo dalla Russia, ma oggi stiamo tagliando questa dipendenza”, ha detto la scorsa settimana il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki durante l’inaugurazione di un nuovo canale verso il Mar Baltico. Il contributo del canale a questo obiettivo è dubbio, ma consentirà alle navi di raggiungere o partire dal porto polacco di Elblag senza dover attraversare le acque territoriali russe intorno a Kaliningrad. Più interessante è stata la successiva dichiarazione di Morawiecki: “Stiamo riducendo la nostra dipendenza sia dalla Russia che dalla Germania”. Questo accade solo poche settimane dopo che la Polonia ha chiesto alla Germania 1,3 trilioni di dollari di riparazioni della seconda guerra mondiale.
Le ragioni di Varsavia per prendere le distanze da Mosca – una potenza ostile con una comprovata storia di invasione dei suoi vicini – sono chiare, ma le offese di Berlino sono meno evidenti. La Germania è il paese più forte dell’Europa centrale, con una capacità latente di dominare la maggior parte del continente. La strategia delle potenze occidentali nei confronti della Germania dalla seconda guerra mondiale è stata quella di soffocarla con l’amicizia, integrando i suoi militari in un’alleanza dominata dagli Stati Uniti con i suoi vicini e, a cominciare dalla Comunità europea del carbone e dell’acciaio, dando alla sua economia le chiavi di un mercato di oltre 450 milioni di consumatori e delle risorse dei loro paesi. La docilità della Germania oggi di fronte all’attacco della Russia al cuscinetto NATO-russo mostra che la strategia occidentale ha avuto, semmai, troppo successo. Quando si tratta della minaccia immediata per la Polonia, Berlino è un amico di Varsavia. Allora perche, il capo del governo polacco strombazza piani criptici per ridurre i legami con la Germania? La risposta è politica interna e, in misura minore, europea.
La questione tedesca
Le radici dell’Unione Europea risiedono negli sforzi prevalentemente statunitensi per trovare un modo per liberare il potenziale economico tedesco calmando le ansie tedesche sul potenziale accerchiamento. Per ragioni che hanno a che fare con la geografia, il clima, la cultura, la storia e probabilmente innumerevoli fattori minori, i tedeschi sono esperti nella produzione di beni industriali complessi, molto più di quanto la popolazione tedesca potrebbe consumare. Ciò solleva due problemi: in primo luogo, le risorse necessarie per produrre tutti questi beni senza precedenti superano il pool di risorse proprie della Germania. L’economia tedesca deve prenderli da qualche altra parte, sia attraverso scambi economici e investimenti o conquiste. In secondo luogo, una popolazione di circa 80 milioni non potrebbe consumare tutti i veicoli, i macchinari, ecc. che l’industria tedesca può produrre. L’economia tedesca ha bisogno di un facile accesso ai consumatori stranieri – ancora una volta, attraverso accordi commerciali preferenziali o conquiste – per scaricare l’eccedenza. La strategia statunitense, che Washington ha portato avanti attraverso un’abile diplomazia, incentivi economici e garanzie di sicurezza nonostante la riluttanza di Francia e Gran Bretagna, ha risolto pacificamente entrambi i problemi tedeschi. Nasce il mercato comune europeo, incastonato in un quadro politico che deve crescere con l’integrazione economica.
L’unione risultante è ciò a cui la Polonia e altri satelliti e repubbliche sovietiche di recente indipendenza desideravano disperatamente unirsi quando l’Unione Sovietica iniziò a disintegrarsi. L’UE ha quasi garantito una crescita economica esplosiva e potrebbe aprire la porta all’adesione alla NATO, ovvero alla protezione militare americana. La Polonia ha presentato domanda di adesione all’UE nel 1994 e vi ha aderito nel 2004 insieme a nove dei suoi vicini. Come previsto, la NATO ha invitato Varsavia tra le sue fila nel 1997 e il matrimonio è stato suggellato meno di due anni dopo. L’economia polacca ha visto 28 anni di crescita economica, anche attraverso la recessione del 2008 e la successiva crisi dell’Europa, prima di ridursi brevemente nel 2020.
Ma mentre ciò accadeva, il mondo del dopo Guerra Fredda prendeva forma. Politicamente, economicamente e militarmente impareggiabili sulla scena mondiale, gli Stati Uniti si sono affrettati a capitalizzare il proprio vantaggio. Ha spinto per un mondo più globalizzato, con legami politici ed economici sempre più forti. Militarmente, ha allargato l’alleanza transatlantica e, dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre, ha intrapreso una sfortunata campagna per diffondere la democrazia con la forza nel mondo musulmano. Lo shock della Grande Recessione del 2008 ha gravemente ferito la coesione sociale, non solo negli Stati Uniti, e ha sollevato seri interrogativi sull’attrattiva e la fattibilità dell’ordine economico e della leadership guidati dagli Stati Uniti. Allo stesso tempo, le disastrose guerre americane in Iraq e Afghanistan ei suoi caotici interventi in Libia e altrove hanno minato il sostegno interno all’avventurismo militare. Entro il 2022, dopo circa tre decenni di preponderanza degli Stati Uniti, il mondo è pieno di crisi e la volontà degli americani di pagare il costo di essere i poliziotti del mondo è diminuita. (Quanto è una questione aperta. L’assistenza degli Stati Uniti all’Ucraina e le sanzioni alla Russia suggeriscono che è ancora più alta di quanto credessero alcuni osservatori.)
La questione della sovranità
Dove si inseriscono le relazioni polacco-tedesche in questa storia ben nota? Proprio come gli americani hanno avuto la loro fase di eccessiva esuberanza dopo la Guerra Fredda, così hanno fatto gli europei, compresi i polacchi e altri popoli di nuova indipendenza. L’allargamento dell’UE non è stata una vendita particolarmente difficile. Incorporare satelliti ex sovietici molto più poveri e stati vulnerabili sarebbe costoso, ma il potenziale guadagno era irresistibile. Gli investitori dell’Europa occidentale potrebbero accaparrarsi terreni, risorse e aziende a basso costo, ottenendo un profitto sano, mentre i lavoratori dell’Europa orientale potrebbero inondare l’UE con manodopera a basso costo. I burocrati di Bruxelles hanno riflettuto a lungo sul modo migliore per integrare politicamente gli ex stati comunisti. Non è bastato per far loro vedere l’integrazione europea nella stessa luce dei membri fondatori.
Dalle guerre mondiali, molti europei e la maggior parte dei tedeschi hanno imparato che il nazionalismo europeo deve essere contenuto in nome della pace. Durante la Guerra Fredda, i primi membri di quella che sarebbe diventata l’Unione Europea hanno praticato decenni di fiducia reciproca e di cooperazione per il reciproco vantaggio. Ma al di là della cortina di ferro, Mosca stava reprimendo il nazionalismo europeo a modo suo: usando una brutale repressione segreta e palese. Mentre gli europei occidentali discutevano di una più profonda integrazione politica, economica e monetaria alla fine degli anni ’80, la terribile situazione economica dei sovietici li privava della capacità di contenere il nazionalismo nell’Europa orientale. Nel 1990, il nazionalismo e la democrazia avevano vinto nell’Europa centrale e orientale.
Ma la democrazia da sola non basta. Mentre per decenni l’identità collettiva dell’Europa occidentale si era concentrata sul multilateralismo e sul compromesso, i suoi vicini liberati a est avevano imparato il valore della coesione, dell’orgoglio nazionale e della sovranità. Senza quelle cose, non avrebbero riacquistato la loro autonomia. Laddove un tedesco occidentale vedeva la perdita di una certa sovranità nazionale a favore di Bruxelles come il prezzo della prosperità e della pace – e quindi un netto positivo per la sovranità di Bonn in generale – un polacco era diffidente nei confronti di qualsiasi appello a condividere il potere decisionale.
Le identità nazionali si formano nel corso delle generazioni e cambiarle è difficile. L’attuale leadership polacca, il Law and Justice Party (PiS), è particolarmente impegnata nel nazionalismo polacco e nei valori conservatori. I suoi maggiori oppositori politici sono liberali e centristi filo-europei, più vicini alla politica prevalente nell’Europa occidentale, dove risiede il grosso del potere decisionale dell’UE. Attingendo alla loro memoria culturale e storica, i nazional-conservatori polacchi sono xenofobi, soprattutto islamofobi, e generalmente intolleranti alla diversità sociale. (L’esperienza dell’Europa occidentale, nonostante le sue imperfezioni, è semplicemente diversa.) L’ideologia prevalente in Polonia, pur riservando il suo più intenso disprezzo per il Cremlino, è molto diffidente nei confronti del relativo liberalismo sociale tedesco.
Ancora più importante, il PiS vuole apportare modifiche fondamentali al sistema giudiziario polacco, ma non è riuscito a convincere la maggior parte dell’UE che le sue intenzioni sono buone e le sue preoccupazioni legittime. Bruxelles e la maggior parte delle capitali dell’Europa occidentale sospettano che il PiS stia lavorando per indebolire o sradicare il liberalismo politico e sociale polacco, una sfida ai propri regimi ma anche all’UE, che si basa su idee liberali come il compromesso, la diversità, i diritti civili e lo stato di diritto .
La Germania è la roccia, la Russia è il posto difficile
Il principale campo di battaglia tra PiS e Bruxelles è l’inversione di alcune riforme giudiziarie polacche e la consegna di 35 miliardi di euro (34 miliardi di dollari) di denaro dell’UE per la ripresa economica della Polonia dal COVID-19. La Commissione europea ha fissato pietre miliari per l’inversione delle riforme giudiziarie del PiS che, secondo lei, Varsavia deve rispettare prima di trasferire i fondi. Ovviamente, il PiS vuole concedere il meno possibile, ma il rallentamento economico, l’aumento dei tassi di interesse e la guerra della porta accanto gli stanno facendo pressioni per ottenere presto i fondi. Inoltre, la Polonia dovrebbe tenere le elezioni parlamentari entro novembre 2023 e, se non riceverà l’assistenza prima di allora, il PiS scommetterà le sue fortune elettorali su una fine ordinata della guerra in Ucraina e una ripresa economica, idealmente dal estate.
L’assalto retorico del governo polacco alla Germania, quindi, fa parte della sua lotta per il potere con l’UE, così come una strategia di campagna di backup. La Germania è il membro più influente dell’Unione Europea, ma non può decidere da sola se la Polonia riceverà i suoi 35 miliardi di euro. Il primo ministro polacco lo sa. Ma Berlino è un popolare oggetto di antipatia per la base del suo partito, molto meglio che prendere di mira la stessa UE, che è immensamente popolare tra i polacchi. La retorica antitedesca segnala la determinazione del PiS pur lasciando spazio di manovra all’UE. E se l’UE chiama il bluff del PiS, come ultima risorsa potrebbe andare alle elezioni incolpando i tedeschi di aver permesso alla Russia di invadere l’Ucraina, non facendo abbastanza per fermare la guerra e negando l’assistenza finanziaria necessaria che appartiene di diritto ai polacchi.
Il funzionamento di questa strategia dipende dall’evoluzione della situazione economica in Polonia, nonché dalle tensioni politiche e sociali in Europa nel suo insieme. Al momento, non c’è motivo di aspettarsi una situazione economica drammaticamente migliorata nei prossimi mesi. E le istituzioni dell’UE, con il sostegno sufficiente degli Stati membri, non sembrano essere in uno stato d’animo compromettente. Gli Stati Uniti potrebbero tentare di intervenire, ma Washington di solito si tiene alla larga dalla politica interna dell’UE e l’amministrazione Biden probabilmente preferirebbe comunque un governo più liberale a Varsavia. Ancora più importante, gli Stati Uniti non vogliono rischiare di allargare le spaccature in Europa in un momento in cui i suoi giorni di significativo coinvolgimento nel Continente stanno finendo. Se gli Stati Uniti ridurranno i loro impegni transatlantici lasciando l’Europa intatta e in grado di difendersi,
È improbabile che la Polonia effettui un completo ridimensionamento delle sue riforme giudiziarie, ma Bruxelles ha la maggior parte della leva. È probabile un cessate il fuoco in cui l’UE ottiene la maggior parte di ciò che vuole e il PiS vive per combattere un altro giorno, dopo le elezioni del prossimo anno. Ancora più importante, è improbabile che anche una Polonia guidata dal PiS riduca effettivamente la sua dipendenza dalla Germania. Ciò equivarrebbe a ridurre i legami con la maggior parte dell’Europa, e con gli americani che hanno un piede fuori dalla porta dell’ovest della Polonia ei russi che bussano alla porta del suo est, questa non è un’opzione.
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Puntata particolarmente importante. I nemici dichiarati dalla attuale leadership statunitense sono la Russia nell’immediato, la Cina dal punto di vista strategico. L’obbiettivo di fondo è scompaginare la prima, trattare da posizione di forza con la seconda. Arrivare a regolare il contenzioso con la Cina, comporta riequilibrare preliminarmente la propria economia attualmente fondata sul debito e sul drenaggio di risorse dall’area del dollaro e su un processo di decentramento industriale che espone gli Stati Uniti alla fragilità di un circuito troppo vulnerabile. I paesi europei, in primo luogo la Germania, sono destinati ad essere la vittima sacrificale di questa dinamica a beneficio esclusivo del loro alleato egemone. Su questo il gruppo dirigente statunitense può far leva sugli utili idioti dei paesi scandinavi e dell’Europa Orientale, nella fattispecie i paesi baltici, la Polonia. Costoro, in nome di brame di rivalsa sopite da troppo tempo nei confronti di Russia e Germania, non esitano a legarsi mani e piedi con chi a tempo debito non esiterà a scaricarli. Un già visto nelle precedenti due guerre mondiali, ma di nessuna lezione per il presente. Gli Stati Uniti, intanto, riescono a lucrare a man bassa sul mercato energetico, grazie alle dinamiche politiche innescate; compresi gli atti di sabotaggio. L’ennesima conferma di come le fortune economiche dipendono soprattutto dalle scelte politiche, piuttosto che da dinamiche economiche intrinseche. Buon ascolto, Giuseppe Germinario
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