Ripensare la politica ripensando la guerra – 1, di Piero Visani

Ripensare la politica ripensando la guerra – 1

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       Mettendo ordine nel mio archivio, oggi mi è balzata davanti agli occhi questa comunicazione, da me redatta in occasione del “Convegno Internazionale sugli Studi Strategici” organizzato a Torino dal 9 al 12 dicembre 1982, al quale partecipai come membro del Centro Studi Manlio Brosio e assistente personale dell’ambasciatore Edgardo Sogno. Il testo di questa comunicazione avrebbe dovuto essere da me letto nel corso del convegno, ma incontrò qualche problema e… saltò. Certo, ero il più giovane e il meno titolato dei partecipanti al Convegno, e c’erano moltissimi partecipanti di assoluto rilievo internazionale, ma il sospetto di una piccola “censura” mi è sempre rimasto e, conoscendo i liberali, poi mi è aumentato…
       Lo riproduco qui in due parti, come omaggio postumo, principalmente a me stesso.
 
       Mai come oggi, il concetto di “guerra” è sottoposto a indagine e, nel contempo, a revisione, alla luce delle realtà emergenti nel contesto internazionale. Fioriscono i dibattiti, i convegni sull’argomento e, ancor più, sullo scottante problema dei rapporti tra guerra e politica. A questo proposito, chiave di volta del pensiero polemologico moderno è sempre stata l’ormai celeberrima proposizione clausewitziana: “la guerra non è dunque solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi” (1). Da ciò il conseguente accento posto sulla subordinazione della guerra nei confronti della politica.
       Tuttavia, in questo come in altri campi, occorre tenersi lontani dal rischio di un’impostazione eccessivamente meccanicistica, ciò che forse non sempre è stato fatto. In effetti, se così fosse stato, la subordinazione della guerra alla politica sarebbe stata sì riaffermata, ma si sarebbero valutati con ben maggiore attenzione gli elementi di conflittualità presenti all’interno del concetto di “politica”. Come ha scritto il professor Gianfranco Miglio, quello tra politica e conflittualità è un nesso inscindibile, dato che “dovunque esiste politica, esiste anche conflittualità” (2). Il merito di aver stabilito questo nesso deve essere indubbiamente attribuito al grande politologo tedesco Carl Schmitt, per il quale alla base del “politico” (un concetto assai più complesso e sfumato della semplice “politica”) stava una distinzione eminentemente conflittuale, quella tra amico e nemico. . “La guerra” – sono parole di Schmitt – “non è dunque scopo o meta o anche solo contenuto della politica, ma ne è il presupposto sempre presente come possibilità reale, che determina in modo particolare il pensiero e l’azione dell’uomo provocando così uno specifico comportamento politico” (3).
       A sua volta, Schmitt fece notare come, per Clausewitz, la guerra non fosse semplicemente uno dei molti strumenti della politica, “ma la ultima ratio del raggruppamento amico-nemico. La guerra ha una ‘grammatica’ sua propria (cioè un insieme esclusivo di leggi tecnico-militari) ma il suo ‘cervello’ continua ad essere la politica: essa cioè non è dotata di una ‘logica propria’” (4), la quale, al contrario, può essere desunta soltanto dai concetti di amico e nemico.
       Se Schmitt definì a livello teorico gli elementi di conflittualità presenti nel concetto di “politica”, Lenin li definì qualche tempo prima sul piano pratico, dando alla sua concezione di politica delle valenze di aggressività e ostilità tali da poter farla considerare quasi un’inversione della famosa formula clausewitziana, cioè come una continuazione della guerra con altri mezzi, condotta senza scrupolo alcuno contro un nemico con più identificato come relativo (com’era tipico dei conflitti interstatali), ma come assoluto. In realtà, più che di invertire la celebre formula clausewitziana, si trattava – per Lenin – di esprimere, “con altri mezzi”, l’originario rapporto amico-nemico, insistendo in maniera inusitata e senza precedenti sul carattere assoluto dell’ostilità e ribadendo, sia pure per vie diverse, il primato della politica.
       Quella fin qui delineata è la griglia interpretativa ideale per comprendere gli eventi degli ultimi due secoli e, in particolare, i due conflitti mondiali e la stessa “guerra rivoluzionaria” che si è affermata già in epoca atomica (5). Tuttavia – ci si è giustamente chiesti (6) – nell’era atomica è davvero ancora possibile una guerra e, dunque, una politica? In tale contesto, infatti, la guerra non può più valere come prosecuzione della politica con altri mezzi, ma come rottura irreversibile, come punto di non ritorno, oltre il quale i conflitti perdono ogni produttività politica, ogni capacità di rideterminare, in forme nuove, gli assetti politici esistenti. Malgrado la nascita di nuove forme di guerra accanto a quelle classiche (“guerra rivoluzionaria”, “guerra culturale”, etc.) e malgrado le prospettive aperte dalla fine del “Medioevo nucleare” e dall’avvento di ordigni atomici sempre più “puliti” e miniaturizzati, la minaccia atomica viene perciò a ribaltare i termini del tradizionale rapporto tra politica e guerra, inserendo fra essi una frattura che impedisce la reversibilità e la traducibilità dell’uno nell’altro: dopo la guerra nucleare, non ci sarà più posto alcuno per la politica.
       Questa tesi è stata di recente avanzata da studiosi di area prevalentemente marxista e li ha indotti, proprio per la sua tragica impraticabilità, a porsi il problema di iniziare un lavoro di aggiornamento e revisione sul piano delle categorie interpretative del rapporto tra politica e guerra. Nella fattispecie, costoro hanno acquisito la consapevolezza che esiste una stretta relazione tra un dato tipo di politica e un dato tipo di guerra, e si sono sforzati di stabilire se, e con quali mezzi, sia possibile produrre un reale cambiamento di forma nella struttura del sistema politico, senza innescare da un lato un conflitto condotto contro un nemico assoluto (qualcosa di simile a una “guerra civile”) e, dall’altro, senza cadere nella riduzione del conflitto stesso a gioco, la cui “logica ludica” (con l’accettazione del nemico come nemico relativo) comporta – a loro dire – l’eliminazione della base stessa del conflitto.
Costretti dall’evoluzione del loro pensiero a rifiutare l’identificazione – cara a Lenin – di un nemico assoluto e decisi, nel contempo, a non accettare quella – ritenuta priva di qualsiasi valore politico – di un nemico relativo, ecco questi studiosi ricorrere una volta di più a Schmitt e andare alla ricerca di un nemico reale, l’ostilità nei confronti del quale si ponga a cavallo tra quella prevista nei due casi in precedenza citati, assumendo un valore per così dire intermedio. Tra la falsa conflittualità di una politica condotta come “gioco”, dove tutti i partecipanti accettano le regole dello stesso e sono impossibili mutamenti sostanziali, ma solo simboliche alternanze  tra gruppi formalmente avversi ma in realtà omologhi e ben decisi a conservare al loro interno le chiavi del potere, senza lasciar entrare in campo nuovi “giocatori”, se non preventivamente disposti ad un’accettazione totale e incondizionata delle rules of play; e la conflittualità spinta all’estremo di una lotta politica in cui l’avversario sia individuato unicamente come nemico assoluto e sia dunque oggetto di un’ostilità altrettanto assoluta, con tutte le conseguenze del caso, esiste – a detta di questi studiosi – una fascia mediana in cui l’avversario non è né uno pseudo-avversario di comodo, da combattere per finta, né un “altro da sé”, incarnazione del Male assoluto, da annientare affinché il Bene trionfi, bensì un nemico reale, contro il quale è possibile combattere in forme accettabili al fine di determinare un effettivo cambiamento sul piano politico, senza eccessi estremistici né contrasti formali e fittizi.
E’ innegabile che ci troviamo di fronte a sviluppi teorici di notevole portata, in particolare per l’accento posto sulla natura eminentemente conflittuale della politica in termini estranei al pensiero marxista tradizionale. Dobbiamo allora chiederci in quale misura essi possano essere accettati e in quale misura, invece, respinti.

(Continua)

                             Piero Visani


Note


(1), Von Clausewitz, Carl, Della guerra, trad. it., Mondadori, Milano 1970, vol. I, p. 38.

(2) Miglio, Gianfranco, Guerra, pace, diritto, in AA.VV., Della guerra, Arsenale Cooperativa Editrice, Venezia 1982, p. 38.

(3) Schmitt, Carl, Le categorie del ‘politico’, trad. it., Il Mulino, Bologna 1972, p. 117.

(4) Ivi, p. 117, nota 24.

(5) Cfr. Schmitt, Carl, Teoria del partigiano, trad. it., Il Saggiatore, Milano 1981, pp. 71-73.

(6) Cfr. Curi, Umberto, Introduzione, in AA.VV., Della guerra, cit., p. 11.

Identitari e globalisti 2a parte, di Teodoro Klitsche de la Grange

In calce la seconda parte dell’intervento dell’autore al 30° congresso del PLI tenutosi a Roma nel maggio 2017. Offre sicuramente importanti spunti di riflessione sulle diverse chiavi di interpretazione che si stanno affermando rispetto all’agone politico dei due secoli passati. In rapida successione si pubblicherà il prosieguo_Germinario Giuseppe

qui la prima parte http://italiaeilmondo.com/2018/10/10/identitari-e-globalisti-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/

I liberali e la nuova scriminante.

A ogni contrapposizione politica epocale i liberali hanno trovato una collocazione e dato una risposta. Nell’epoca delle guerre di religione i proto-liberali, dai politiques francesi (come Jean Bodin) a filosofi come Spinoza e Locke hanno risposto con la tolleranza e la libertà religiosa. Alla scriminante borghesia/monarchie assolute con l’integrazione delle istanze della classe emergente nello Stato che da assoluto diventava costituzionale (e parlamentare) e infine democratico, a quella borghese/proletario con lo Stato sociale e il “compromesso fordista”.

In una situazione in cui partiti identitari già governano qualche paese europeo, e probabilmente a breve ne governeranno altri, e in altri comunque il consenso raccolto è vicino a metà del corpo elettorale, e talvolta lo supera, il “che fare?” dei liberali italiani consiste nel ruolo che possono svolgere in un sistema politico in cui i “populisti” sono o maggioranza o comunque provvisti di un consenso quasi maggioritario. Tale da dividere grosso modo a metà l’elettorato.

I liberali italiani hanno una caratteristica storica la quale li facilita nella ricollocazione nella realtà politica contemporanea: d’essere l’unica componente del liberalismo europeo ad aver realizzato – col compromesso con la monarchia sabauda – l’unità della nazione. Mentre gli altri euro- liberali hanno trasformato lo Stato nazionale, costruito dalle monarchie in secoli di centralizzazione e riduzione dei poteri feudali, realizzando lo “Stato rappresentativo”, in Italia Cavour e la Destra storica, fondavano l’unità nazionale nello Stato liberale.

Unità nazionale, libertà politica e sociale nascevano insieme: caso unico (per una forza liberale) nella storia dell’Europa moderna. Ne deriva che al liberalismo italiano è peculiare, più che ad altri,  la specificità nazionale e, a ben vedere, anche il connotato di liberalismo idealmente  robusto.

La storia del liberalismo italiano infatti lo mostra associato sempre (almeno finché è stato forza di governo) a decisioni forti e politicamente risolute: dalle guerre d’indipendenza alla guerra civile (il c.d. brigantaggio) al “canto del cigno” del primo conflitto mondiale, non c’è alcunché di “relativista”, di “pensiero debole”, di servilità  mascherata di buone intenzioni. Da un liberale del risorgimento (come a un mazziniano) certi discorsi attuali a favore della globalizzazione sarebbero stati rifiutati come irrealistiche utopie o furbi espedienti per negare l’indipendenza e la pari dignità di Stati (e popoli) sovrani. La sovranità e l’identità  nazionale   furono sempre difese e rivendicate, così come riconosciute – con pari dignità – quelle delle altre nazioni d’Europa.

Si parla di “sovranismo” e compete ai liberali di avere sempre rivendicato (e costruito) la sovranità nazionale. Un liberale particolarmente “robusto”,                        come Orlando, diceva nello splendido discorso contro la ratifica  del Trattato di Pace che “ sovrano è un superlativo; se se ne fa un comparativola difesa    lo si annulla”.

La sovranità è l’essenziale dell’indipendenza: limitarla è conditio sine qua non della dipendenza. Da altri Stati, corporations, sette, banche, che siano: se qualcuno è più sovrano degli altri (di guisa da imporre loro limiti), ciò significa solo che quello è sovrano e gli altri no. La sovranità è assimilabile all’uguaglianza, stravolta dai maiali nella Fattoria degli animali di Orwell.  Come una sovranità “limitata” e tra disuguali si riconcili non solo con la libertà, ma anche, come notava Croce, con la dignità dei popoli, è un enigma tuttora irrisolto.

Non si capisce pertanto lo “scandalo” che ne fanno taluni a sentirne parlare: lo scandalo sarebbe, al contrario, se la si agitasse per ottenere consensi, salvo tradirla nella pratica di governo. Un “nazionalismo” ipocrita e cerchiobottista, prodigo di parole e tirchio di fatti è l’evento da scongiurare: sarebbe l’ennesima doglia (senza parto) della decadenza della Repubblica nata dalla resistenza. Doglie tutte caratterizzate da un profluvio di “idee-forza” agitate con tonitruanti dichiarazioni a copertura di prassi opposte.

L’Europa come testa di turco e capro espiatorio.

A pagare pegno per la nuova discriminante (ed il sentimento politico che ne consegue) sono state le istituzioni europee e la stessa idea di Europa, indicate quali principali responsabili della crisi, e della insufficiente, e talvolta errata, gestione di questa.

Nella realtà, anche se non poche (ma neppure troppe) responsabilità sono da ascriversi all’Unione e ad alcune scelte infelici (specie recenti) della stessa, si deve rimarcare, da un lato che la crisi è stata generata dalla finanza “spericolata”, più che altro delle banche USA (ma gli Stati Uniti l’hanno gestita molto meglio dei paesi europei), dall’altro che una volta scelta la medicina rigorista, in Italia in particolare si è fatto un uso smodato del tipo di giustificazione, già praticata , d’addebitare all’Europa politiche, scelte e prassi di governo, fatte in Italia ma accollate all’Europa. La quale è così la “testa di turco” di una classe dirigente in decadenza, la quale come tutte quelle nella stessa fase del “ciclo”, non ha né la capacità di prendere decisioni congrue né il coraggio di assumerne la responsabilità.

Onde il “ce lo chiede l’Europa”, i “compiti a casa” sono – per lo più – false giustificazioni di élites inadeguate, che hanno per queste il pregio di deviare il malcontento su falsi bersagli. L’espediente, quanto mai pericoloso, ha l’effetto di delegittimare durevolmente le istituzioni europee onde acquisire qualche anno in più di potere. Analogamente a come il giustizialismo ha consunto, a lungo andare, l’immagine (e l’autorità) della giustizia italiana. L’Europa dianzi comoda testa di turco assume, nella fase successiva, il volto (e il ruolo) del capro espiatorio. Ma non merita tale trattamento e tale sorte: non solo l’Europa “storica” dei fondatori. Da De Gasperi a Spaack, da Martino a Monet, le pratiche integrative della comunità europea hanno contrassegnato i migliori anni del dopoguerra; le stesse istituzioni, oggi così criticate hanno portato un respiro liberale e modernizzatore nel panorama catto-comunista. Alla Corte EDU, peraltro organo del Consiglio d’Europa (e non dell’Unione Europea), dobbiamo tante decisioni in difesa dei cittadini dalle soperchierie e inefficienze dei poteri pubblici (nazionali in primis). Che si finisca per buttare via il bambino con l’acqua sporca, o peggio, col tenersi questa e scartare quello, sarebbe il combinato sinergico (tutt’altro che improbabile) di due demagogie opposte, ma convergenti nel risultato: quella delle élite “in lista di sbarco” e l’altra del “nuovo che avanza”.

Economia politica ed economia cosmopolitica.

L’altro bersaglio polemico (di parte) delle demagogie convergenti è il “liberismo sfrenato”, nonché le ombre di Reagan e della Thatcher che appaiono in continuazione ai piccoli Macbeth della contemporaneità italiana.

Anche qui occorre chiarire da una parte che  “l’autonomia del politico” fa si che non possa essere subordinato all’ “economia” (ma è mediabile) ; e che la necessità contingente richiede adattamenti rispetto a modelli ottimali in astratto, ma, spesso, errati in concreto. Occorre un certo pragmatismo in economia (come in politica).

Scriveva Friedrich List che Quesnay, il quale fece sorgere per primo l’idea della libertà universale del commercio, fu anche il primo ad allargare le ricerche su tutto il genere umano, senza però tener conto del concetto di nazione.

E List capiva assai bene come tra economia «cosmopolitica» e «politica» il fundamentum distinctionis è proprio l’insopprimibilità della politica come protezione dell’esistenza e conseguimento dell’interesse generale di una comunità. Se le idee di Adam Smith sono astrattamente fondate, sono (del tutto) applicabili solo in un contesto senza guerra e senza volontà di dominio, ossia in un mondo senza politica, in cui il ruolo del potere sia quello del “guardiano notturno”.

Differente però è la realtà e il ruolo della politica. Questa ha il compito di proteggere l’esistenza (particolare) di una comunità umana (tra tante) e di conseguire il bene comune della stessa.

Ed è perciò concettualmente e (spesso) oggettivamente contrapposta al principio cosmopolitico, perché il mondo politico è un pluriverso di soggetti in conflitto (reale o potenziale). List ricordava che Thomas Cooper «nega perfino l’esistenza della nazionalità. Egli chiama la nazione una cosa inesistente che esiste solo nelle teste degli uomini politici” affermazione che l’economista tedesco considera coerente «perché è chiaro che se si ammette l’esistenza della nazione, con la sua natura ed i suoi interessi, si presenta anche la necessità di modificare l’economia della società umana in relazione a questi interessi speciali».

Per beneficiare realmente di un sistema di libero scambio internazionale occorre che gli Stati abbiano un certo grado di omogeneità e di civiltà, di legislazione e di potenza. Tutte cose non raggiunte e che quindi rendono poco praticabile il modello. Così, a fare un esempio, la delocalizzazione degli apparati industriali da un lato è conseguenza del basso costo (diretto e indiretto) della manodopera nei paesi emergenti; dall’altro di politiche fiscali assai più appetibili praticate da quelli – tipica la flat-tax, diventata realtà in quasi tutti i paesi usciti dal “socialismo reale” – che in quella hanno trovato un ulteriore incentivo per attrarre capitali.

In concreto è la combinazione tra liberalismo internazionale e fiscalismo nazionale a ingigantire la delocalizzazione. Prendersela con il primo per far dimenticare il secondo è un espediente di mediocre propaganda, che sfrutta gli idola di un anti-capitalismo di retroguardia.

Piuttosto occorre una politica che, nell’ambito del possibile e rispettosa delle differenze,  riduca la disomogeneità. Trovarla non è un compito facile: ma non cercarla significa non aver capito il proprio tempo, la situazione concreta e il nemico (politico) principale. Senza che non è possibile individuare gli obiettivi.

Per un proto-liberale dell’epoca delle guerre di religione, il nemico era l’intollerante e l’obiettivo la tolleranza; così per un liberale dell’epoca rivoluzionaria il nemico (principale) era il potere monarchico e l’obiettivo lo Stato rappresentativo; oggi occorre individuare l’avversario da battere e l’obiettivo da conseguire.

In una conversazione ad un Convegno del 2014 di recente tradotta e pubblicata in italiano  Steve Bannon, Chief Political Strategist del Presidente Trump, ha indicato tre avversari principali per un “capitalista illuminato” (termine che nell’uso che ne fa, somiglia molto a un liberale realista): il primo è (una specie di) “capitalismo di Stato, il capitalismo che si vede in Cina e in Russia”, ossia quel tipo, residuo dell’egemonia catto-comunista, che ancora permea le istituzioni italiane; questo “è una forma brutale di capitalismo che si preoccupa solo di creare ricchezze e valore per una piccola minoranza. Un secondo tipo di capitalismo che mi sembra quasi altrettanto preoccupante è quello che io chiamo il capitalismo alla Ayn Rand, oppure la Scuola oggettivista del capitalismo libertario. Questa forma di capitalismo è molto differente da quello che io chiamo «capitalismo illuminato» dell’Occidente ebraico-cristiano. È un capitalismo che davvero cerca di trasformare le persone in merce”; infine “siamo anche nelle fasi iniziali di una guerra globale contro il fascismo islamico”.

Tutt’e tre gli avversari di Bannon lo sono anche di un liberale realista: il primo perché riduce la libertà economica e individuale, il secondo perché, in una declinazione estremista, restringe il diritto delle comunità ad un’esistenza autonoma; il terzo perché nega sia la libertà, sia la separazione tra potere temporale e spirituale.

Il “liberalismo sfrenato”, oggetto di tante recenti critiche, pecca per omissione, nel non considerare l’aspetto politico nazionale, ossia il compito dello Stato di proteggere la comunità, l’esistenza ed il benessere della stessa ma non è in diretto ed insopprimibile contrasto con visione ideale e prassi di governo liberale, mentre gli altri due lo sono; soprattutto se coerentemente e generalmente applicati.

Non è poi comprensibile in che modo un mondo senza frontiere possa raggiungere una situazione di ordine. In fondo, già all’epoca della guerra di religione la regola cuius regio ejus religio, cioè la divisione territoriale delle religioni “ufficiali”, diede una forma di ordine, di cui il principio di tolleranza fu la conquista successiva. Ma “globalizzare” significa negare confini e frontiere: in una situazione in cui le differenze contano più delle concordanze, negare o limitare radicalmente il diritto delle comunità a decidere del proprio modo d’esistenza politica, religiosa, economico-sociale significa non riduzione ma moltiplicazione dei conflitti; ossia un disordine globalizzato.

 

Identitari e globalisti_1a parte, di Teodoro Klitsche de la Grange

In calce la prima parte dell’intervento dell’autore al 30° congresso del PLI tenutosi a Roma nel maggio 2017. Offre sicuramente diversi spunti di riflessione sulle diverse chiavi di interpretazione che si stanno affermando rispetto all’agone politico dei due secoli passati. In rapida successione si pubblicherà il prosieguo_Germinario Giuseppe

Come tanti, ho la sensazione che questi anni saranno decisivi per il futuro dell’Italia e dell’Europa. L’ordine, interno ed internazionale, che durava dalla fine della seconda guerra mondiale, è già arrivato alla fine da quasi trent’anni, dal dissolvimento dell’URSS e dal collasso del comunismo. Quello che doveva sostituirlo, basato su un’unica superpotenza e che comunque appariva transitorio – data l’ascesa della Cina (e non solo) – sta cambiando. E soprattutto è in corso il rinnovamento delle classi dirigenti e dei sistemi politici, con la sostituzione di distinzioni/contrapposizioni fondate sull’asse destra/sinistra, o meglio borghesia/proletariato, un altro, che (pare) quello identità/globalizzazione.

Accanto a questo c’è la decadenza dell’Italia e dell’Europa, la quale rientra nella natura delle società ed istituzioni, come oltre duemila anni fa pensavano (tra gli altri) Platone e Polibio.

La decadenza italiana s’iscrive poi in modo inequivoco nello schema “ciclico” classico. Pur essendo venuto già da quasi trent’anni il presupposto del “vecchio ordine”, cioè quello bipolare di Yalta, è stato mantenuto pressoché inalterato il regime concreto che su quella situazione storica si fondava, con qualche aggiustamento, neppure sempre migliorativo.

Che l’Italia decada è incontrovertibile; in un periodo storico quando, abituati a ritenere decisiva l’economia, il dato che il P.N.L. sia cresciuto dal 1998 ad oggi dello 0,1%, somma di modeste crescite fino al 2008, divorate da una robusta decrescita fino ad un paio di anni fa e dallo stallo successivo, ne da una prova incontestabile.

Tuttavia il problema è politico, come politiche ne sono le conseguenze: di fronte ai modesti risultati delle élites dirigenti è arrivata la risposta dei governati: di cambiare politica, la quale ha preso la forma della “cacciata” della classe di governo. Il populismo non è altro che la manifestazione di questa reazione, tante volte vista nella storia. Partiamo quindi dalla politica.

La fine dell’opposizione destra/sinistra.

Molti ritengono che la dicotomia destra/sinistra (o meglio borghesia/proletariato) sia ancora un criterio intorno al quale si distribuiscono, si riconoscono, si confrontano i partiti e i sistemi politici (e più in generale i gruppi umani che combattono per il potere). Altri, per lo più minoritari, non lo pensano. Per quanto riguarda i “populisti” nella scriminante destra/sinistra non sono inquadrabili (o non lo sono – il che è lo stesso – in modo decisivo). Un interrogativo classico, che riguarda i grillini, è se questi sono di destra o di sinistra, data l’ambiguità su tanti temi del Movimento 5 Stelle. Nella realtà la forza crescente di questi – e degli altri “populisti” – è proprio di non essere riconducibili a tale contrapposizione. Avete mai sentito un grillino parlare di “classe operaia” o di “pericolo comunista”? A me non risulta. Così neppure da parte di altri “populisti” come i leghisti o “Fratelli d’Italia” (se non raramente in tono minore). E il favore  elettorale è dovuto, per lo più, a questo. Il perché può avere una spiegazione.

Ogni epoca della storia dell’Europa moderna ha visto organizzarsi le contrapposizioni politiche in base a una scriminante generale (e prevalente): nel XVI e XVII secolo era quella religiosa, in particolare tra cattolici e protestanti; all’epoca del tardo illuminismo fu sostituita da quella tra borghesia e monarchie assolute; successivamente, nel secolo breve, ma ancora prima, superata da quella tra borghesia e proletariato. Venuto meno la quale, se ne fa avanti una nuova. E quella vecchia subisce un processo d’indebolimento politico: non riesce a suscitare più né un consenso né un dissenso decisivo: viene progressivamente depotenziata e neutralizzata. E così l’ordine che ne conseguiva. Anche le contrapposizioni “minori” (nel senso di particolari e peculiari di zone e aree determinate) nel secolo breve e in particolare dopo la conclusione della seconda guerra mondiale riuscivano a suscitare stati d’intensa ostilità fino alla guerra all’interno sia dei “due” campi, sia tra “clienti” degli stessi, per lo più non indotte dalla discriminante amico/nemico principale.

Infatti vi sono state guerre nello stesso “campo” anche se “relativizzate”: Cina/Vietnam; Vietnam/Cambogia; Cina/Russia; (gli “incidenti” sull’Ussuri) per quello comunista; Gran Bretagna/Argentina (per le Falklands/Malvine) nonché l’occupazione turca di parte di Cipro con le forti tensioni tra Grecia e Turchia. Ma tutti conflitti d’intensità minore rispetto a quello prevalente.

Così è chiaro, risalendo di qualche secolo, che se Frundsberg riuscì nel 1527 a portare un esercito di  protestanti a saccheggiare Roma (“la prostituta di Babilonia”) il tutto non gli sarebbe riuscito né una ventina di anni prima né un secolo (abbondante) dopo: prima perché la scriminante religiosa tra cristiani non c’era, dopo perché era depotenziata.

Il declino dei vecchi partiti e l’ascesa di quelli nuovi oggigiorno trova la propria causa (e spiegazione) principale (ancorché non unica) nella sostituzione della vecchia scriminante politica da parte della nuova. D’altra parte la vecchia non ha senso (o ha poco senso): a comunismo crollato, combattersi in nome del capitale o del proletariato appare come la carica di don Chisciotte contro i mulini a vento. E le masse la osservano con l’incredula indifferenza di Sancho Panza, il quale percepiva che i nemici del suo capo non erano giganti, ossia nemici reali, ma solo mulini.

Di conseguenza non li considerano nemici né impedimento (principale) alle proprie condizioni di esistenza: la percezione del nemico è riservata ad altri, e si fonda su una scriminante diversa e nuova.

La nuova scriminante.

Non è facile operare la reductio ad unitatem dell’affollato insieme dei “populisti”, anche perché è diventato il sinonimo di oppositori alle élites governanti (come definizione in negativo, questa è insufficiente a individuare connotati di “contenuti” comuni). A poco serve insistere all’uopo su aspetti “tecnici” come il rapporto tra capo e seguito, le forme e i processi in cui si articola; o il linguaggio adoperato; neppure l’appello al popolo è un differenziale esauriente, perché il popolo, almeno per sedurlo, è invocato da tutti.

A cercare il senso e i poli della nuova discriminante, adattabile, pur tenendo conto delle differenze, ai movimenti “populisti” nella generalità (o quasi) questa è la polarità identità/globalizzazione.

Il populista “tipo” del XXI secolo si colloca nel primo dei due termini dialettici e  si oppone al secondo – ed al soggetto/i globalizzatore/i.

L’identità può essere declinata in vari modi e con vari accenti: l’importante è che il populista (ci crede e) vuole proteggerla.

Alle volte movimenti populisti mettono l’accento sul profilo economico: la difesa del lavoro nazionale dall’ “esercito di riserva” del capitalismo, ormai costituito quasi esclusivamente dai migranti. E del pari, quella delle industrie dalla finanza globale (e non) o dalla concorrenza extraeuropea. Difesa dell’occupazione e del sistema industriale che, a conferma del tramonto della vecchia scriminante, sono due facce della stessa medaglia, in cui gli interessi un tempo (visti come) confliggenti tendono a solidarizzare e non a contrapporsi.

In altri casi prevale l’aspetto culturale: la globalizzazione tende ad eliminare le differenze e così le culture: il villaggio globale fagocita quelli locali e le loro particolarità, consuetudini, istituti dalla cucina su su fino al rapporto tra i sessi, la famiglia, il matrimonio. Altri sulla  religione, spesso associata alla precedente.

Altri ancora, praticamente tutti, la declinano sotto il profilo politico-istituzionale: nel senso che a decidere sul mondo e le forme dell’esistenza politica, economica e sociale debbano essere i popoli – e non i “mercati” – o meglio i soggetti (poteri) globalizzatori.

Questa istanza, la più diffusa, comporta due conseguenze.

La prima di essere una rivendicazione nazionale, non nel senso che il nazionalismo ha assunto in Europa nel XX secolo (quello che va da Corridoni a Rosenberg, tra tanti), ma in quello che aveva per un uomo del XIX secolo, e in particolare per chi ha fatto il Risorgimento italiano.

In fondo una sintesi non esauriente ma efficace del nazionalismo d’antan la formulava Mazzini nel “Manifesto del comitato nazionale italiano” in cui si può leggere “Che nessun governo è legittimo se non in quanto rappresenta il pensiero nazionale del popolo alla cui vita collettiva presiede, ed è liberamente consentito da esso”. In effetti questa è l’essenza della libertà politica nel senso più antico, ossia come libertà di una collettività umana di decidere autonomamente l’ordinamento della propria esistenza politica, economica e sociale.

Da “America first” di Trump alle rivendicazioni del Front National a quelle di Orban (e si potrebbe continuare nell’elencazione) questo è il “volto nuovo” di un nazionalismo non aggressivo, ma difensivo. Scambiare la difesa con l’aggressione è un espediente di cattiva propaganda.

Tale revival nazionalista è in primo luogo spiegabile dalle differenze con l’ideologia cosmopolita, dei diritti dell’uomo e del pacibuonismo “a prescindere”, della tecnocrazia, e, da ultimo, della prevalenza del normativo sull’esistente e dal rifiuto di tutto questo, o quanto meno dalla di esso relativizzazione. Ovviamente il cosmopolitismo con la sua (auspicata e in parte realizzata) abolizione di tutte le frontiere (spaziali, e non solo), è esattamente l’opposto di quello che ha sostenuto il nazionalismo, da quando si è profilato quale dottrina.

Da tale opposizione è chiaro che il processo di globalizzazione, accelerato dopo il crollo del comunismo, ha provocato o comunque amplificato, per contrapposizione, la controspinta nazionalista, nel senso indicato. La nuova dialettica amico/nemico si propone quindi come negazione/opposizione tra chi vuole conservare la propria specificità (identità) e chi la vuole sopprimere, o quanto meno, relativizzare.

La seconda conseguenza è che, da un lato, si percepisce (di solito) i “populisti”, che sarebbe meglio denominare identitari, come una destra riemergente: ciò ha indubbiamente una parte di verità, nella misura in cui le rivendicazioni nazionali sono state fatte proprie, in Europa, soprattutto dalle destre. Per cui chi ancora è rimasto fermo alla vecchia contrapposizione, non si è del tutto sbagliato, ma interpreta la realtà secondo i vecchi schemi. Tuttavia non lo è – o lo è assai di meno – se si considera da un canto che si tratta di nazionalismo difensivo; dall’altro che, mentre per il vecchio nazionalismo il nemico da cui difendersi o da combattere era un altro Stato, cioè l’istituzione politica di una comunità “altra”, ora è un qualcosa di indefinito, per lo più di non statale: l’Impero di Negri, i “poteri forti” e così via. I quali hanno il connotato comune di non essere (per lo più) Stati, di professarsi (per lo più) non politici, di non essere democratici (tutti), di non conoscere né riconoscere frontiere (di ogni genere). E quindi per lo più di essere non uno Stato ma una lobby, una setta, una società segreta, un partito, un gruppo religioso e così via. Il che crea delle opportunità per il liberalismo nel XXI secolo.

IL PRINCIPIO DI AUTO-ORGANIZZAZIONE IN POLITICA, di Pierluigi Fagan

Nei sistemi complessi, sostanzialmente i sistemi dinamico-vitali che si trovano tra il caos aereo e la rigidità minerale, tra cielo e terra, vige una regola di auto-organizzazione, tendono cioè a trovare una qualche forma di ordine da soli. Nel trasferire questa conoscenza al mondo umano occorre in primis osservare lo scalino dell’analogia. Lo scalino dell’analogia è l’avvertimento -quasi mai osservato- del fatto che per trasferire schemi mentali desunti dal reale da un livello all’altro, occorre prima verificare l’omogeneità dei livelli che si comparano. Ad esempio, alcuni scienziati e molti lettori o studiosi della meccanica quantistica, tendono a proiettare gli schemi osservati al livello sub atomico sul livello sovra-atomico. Sebbene ci siano alcuni fisici che sostengono l’esistenza di comportamenti quantistici anche a livello molecolare, al momento è prudente considerare quello che vediamo e sappiamo della mq, confinato al suo livello. Così, il principio di auto-organizzazione dei sistemi complessi va valutato a seconda del tipo di sistema ovvero del tipo di varietà che lo compongono. Particelle sono una cosa, atomi e molecole un’altra, cellule un’altra ancora, individui come celenterati cose a sé, diverse dagli scimpanzé a loro volta parenti di rango inferiore (in termini di complessità) dell’umano. Politica attiene all’umano e quindi ci si domanda quale sia la possibile applicazione del principio di auto-organizzazione all’umano.
Il principio di auto-organizzazione si basa in genere sul fatto che le unità componenti il sistema hanno un range limitato di opzioni di relazione verso le altre. Poiché tutte fanno parte di un unico sistema a sua volta doppiamente condizionato dalla sua struttura e storia interna e dal dovere di trovare accordo con ciò che gli è intorno (ambiente o contesto), le opzioni, che sono limitate, vengono a loro volta chiuse dal comportamento sincronico delle singole parti, tutti si adattano tra loro nel tutto comune che è il sistema che si adatta al contesto. Una applicazione “stagionale” del principio di auto-organizzazione è lo stormo di uccelli. In pratica, ogni singolo uccello ha le semplici disposizioni di tenere la distanza “x” da quello a destra, da quello a sinistra e da quello davanti. Nel complesso, basta un piccolo scarto (il lucreziano “clinamen”) nel comportamento collettivo per riorganizzare l’intero comportamento del sistema, da cui gli affascinanti disegni ad onde degli stormi migratori.
Nel livello umano, c’è una applicazione del principio di auto-organizzazione ed è proprio l’ordinatore delle nostre forme di vita associata: il mercato. E’ la famosa mezza paginetta di poco meno di mille-e-cento della sua più famosa opera, in cui Adam Smith citava la “mano invisibile”, la “mano” come metafora di ciò che mette ordine, “invisibile” perché in effetti non c’è alcuna mano. Smith diceva che il fatto che noi sia abbia tutte le mattine la bottiglia di latte nel bar sotto casa e non si debba prendere il calesse per andare in campagna a mungere una mucca, derivava dalla semplice applicazione della singola disposizione individuale a cercare il profitto. L’allevatore allora munge per noi (e per sé) la mucca e vende il latte al distributore che lo vende al negoziante che lo vende a noi, l’effetto ordine è dato da segmenti di piccole transazioni di profitto mosse dall’interesse individuale, come negli uccelli dello stormo o le formiche eusociali, sebbene noi non si sia propriamente dei tordi o degli imenotteri, potenza dell’analogia.
La cosa venne espressa dal genio di Smith nel 1776 e tra l’altro è discusso se l’espressione “mano invisibile” sia sua (improbabile che un illuminista scozzese usasse questa metafora semi-deista che fa parte più della cultura inglese) poiché se ne potrebbe rinvenire traccia nell’opera molto influente di un certo Bernard de Mandeville che nel 1705 pubblicò una deliziosa favoletta dal titolo “La favola delle api” (analogia dell’imenottero) che tanti studiosi e critici del c.d. “capitalismo” farebbero bene a leggersi per capire meglio di cosa parlano. Tra XIX e XX secolo, la faccenda del mercato come sistema auto-organizzato ed auto-regolato affascinò anche R. Wathely e L. von Mises ed infine F. von Hayek (ma anche Walras, Pareto e molti altri) che vi centrò sopra praticamente l’intera sua opera di pensiero.
Ma il punto poco a fuoco della faccenda è che tutto ciò è pertinente se e soltanto se operiamo a monte una decisione che però rimane indiscussa spesso: se questo è il modo migliore (e pare lo sia) di far funzionare il mercato, chi-dove-come-quando-e-perché ha deciso che l’intera società umana debba ruotare intorno al mercato? Tale decisione venne presa nel mondo reale ma poi anche teorizzata nell’ambito di un altro segmento di pensiero che non è molto illuminato né nello studio politico, né in quello economico che nel frattempo di sono separati. Viene preso nell’ambito dell’utilitarismo inglese (Stuart Mill – Bentham – Sidgwick e -vari- seguenti), esso si potrebbe dire la colonna centrale della riflessione etica di origine inglese, quindi anglosassone: la ricerca della felicità per il maggior numero (più o meno). Stante che gli inglesi sono la genetica del sistema anglo-sassone e questo dell’Occidente (il concetto di “sistema occidentale” è molto tardo ed è di origine anglosassone), questo tipo di etica è diventato l’etica occidentale propriamente detta.
Torniamo allora al problema dei livelli. Se volessimo discutere questa decisione di gerarchia per la quale l’economico è l’ordine della società, economico a sua volta ordinato dal principio di auto-organizzazione detto “mano invisibile”, dovremmo proporre la sudditanza dell’ordine economico all’ordine politico e quindi tornare la nostra domanda iniziale: quale sarebbe l’applicazione del principio di auto-organizzazione al politico?
Qui incontriamo lo scalino dell’analogia. Gli esseri umani non sono né imenotteri, né uccelli, né lupi, né celenterati, e nemmeno atomi o particelle sub-atomiche. Una cosa distingue (o almeno dovrebbe) l’umano dagli ordini inferiori (ci si passi questa geometria piramidale verticale della complessità): l’intenzionalità auto-cosciente. Formiche ed uccelli non decidono il loro comportamento, lo hanno prescritto geneticamente, gli atomi si compongono seguendo la poco nota ma fondamentale “regola dell’ottetto” e la particelle seguono i dettami delle forze (tre-quattro) che agiscono al loro livello.
L’ordine auto-organizzato dei sistemi umani di vita associata (le nostre società) dovrebbe venire da un difficile forma di decisione partecipata delle sue singole componenti che al contempo agiscono in parte per interesse personale, in parte per interesse collettivo, sistemico. Questo presuppone tre cose: 1) l’ordine politico domina l’ordine economico; 2) l’ordine democratico ordina l’ordine politico; 3) le singole parti del sistema (gli individui) debbono avere una doppia visione sia dell’interesse personale, sia dell’interesse collettivo.
Il problema è che praticamente nessuno si preoccupa di coltivare presso gli individui la capacità di assumere conoscenza di cosa sia (non quale sia, quello lo decideranno i singoli individui) l’interesse collettivo. Molti pensano implicitamente esso debba “emergere” dall’incontro-scontro tra i vari interessi personali ma questa idea è viziata dalla falsa analogia. L’ordine del sistema dovrebbe esser pensato dai singoli individui né più (collettivismo), né meno (individualismo) di quello personale. Quindi continuiamo ad essere imenotteri sballottati dalla mano invisibile del formicaio chiamato “società ordinata dal mercato” che però passiamo la vita a criticare inutilmente sperando si dissolva da sé o grazie ad un classe di individui coscienti di esserlo o per catastrofe o per merito di qualche semi-dio illuminato che ci salvi dalla prigionia della nostra impotenza, recludendoci in un’altra.

meglio Callicle, di Teodoro Klitsche de la Grange

Seguendo le sollecitazioni di alcuni lettori si ripropone qui sotto un saggio di Teodoro Klitsche de La Grange già apparso sul sito ma con una veste grafica poco adatta alla lettura_ Giuseppe Germinario

MEGLIO CALLICLE

 C’è molto da meditare, ancora oggi, in  particolare  per chi si occupi  di  studi politici e giuridici, sull’alternativa, nel Gorgia, tra le contrapposte tesi di  Socrate  e Callicle. Com’è noto, Socrate – il quale inizia, sul punto, a discutere con Polo – sostiene che è moralmente preferibile subire un torto piuttosto di farlo. Callicle (e  Polo)  al contrario, ritengono che subirlo non sia degno di un uomo libero. A ben vedere le opposte soluzioni conseguono dai diversi presupposti (e contesti) da cui partono  i contraddittori, in certo modo confusi dall’abilità dialettica di Socrate. Infatti questi, procedendo da un’impostazione morale, considera l’azione in se, avulsa dalle conseguenze che dalla stessa possono derivare, e dal contesto in cui si producono gli  effetti. Trattandosi  però di violazioni anche di  nomoi il campo in cui va a incidere il giudizio etico di Socrate non è quello, individuale, della coscienza, ma l’assetto giuridico e politico della comunità. In sostanza traspone le norme etiche in un contesto ad esse non proprio. Callicle – che pure contrappone natura e legge, o meglio leggi di natura e leggi positive – si tiene fermo al campo politico (e giuridico). La sua tesi è che non “da vero uomo, ma da schiavo, è subire ingiustizie senza essere capaci di ricambiare, e meglio è morire che vivere se, maltrattati ed offesi, non si è capaci  di  aiutare se stessi e chi ci sta a cuore” (1). E ciò per legge di natura “la stessa natura chiaramente rileva esser giusto che il migliore prevalga sul peggiore, il più capace sul meno capace. Che davvero sia così, che tale sia il criterio del giusto, che il più forte comandi e prevalga sul più debole, ovunque la natura  lo mostra, tra  gli animali e tra  gli  uomini, nei complessi  cittadini e nelle famiglie” (2). Callicle cioè  si  attiene, nelle  sue argomentazioni, alla  “realtà effettuale”, al contrario di Socrate: le argomentazioni del primo derivano dalla descrizione e valutazione dei fatti (dall’essere); quelle del secondo sono prescrittive, partono dal dover essere. Peraltro Callicle, come notato (3), non trascura mai le “costanti” della politica: in particolare la relazione di comando e obbedienza, col corollario della classe politica, ovvero dei meno che governano sui più che sono governati. Socrate invece prescinde dal rapporto politico, al punto che gli esempi addotti a  conforto  delle  sue tesi sono tutti estranei  a questo. E Callicle lo nota, osservando “tu non hai in bocca che calzolai, cardatori, cuochi, medici; come se il nostro discorso avesse per argomento tale gente!” E chiarisce: “In primo luogo quando parlo dei più forti, non intendo calzolai o cuochi, ma quelle persone la cui intelligenza è volta agli affari dello Stato, che sanno come si debba amministrare la cosa pubblica, e che sono non intelligenti solamente, ma anche uomini di coraggio, capaci di portare a termine quello che pensano e che non indietreggiano nel loro compito per debolezza d’animo” (4). In definitiva (sintetizzando) per Callicle il  problema  va risolto tenendo conto dell’essenza del potere  (politico):  che non può  sopportare  ingiustizie (almeno non le può subire spesso), pena il  suo stesso venir meno come garante e  produttore dell’ordine. Invece Socrate conclude sostenendo  che compito  del politico  è di fare degli ottimi cittadini: cioè, sostanzialmente, di  occuparsi  del  loro  perfezionamento civico e morale (5). Per analizzare la posizione di Callicle, più interessante sul piano della “realtà effettuale” occorre non solo esaminarla nel contesto proprio, ma ponendosi in angoli visuali diversi: cioè a seconda che la massima si indirizzi ai governanti o ai governati, e se il campo ne sia, specificamente, la politica o il diritto. 2. Che la posizione di Socrate fosse, dì fatto, incongrua  a reggere e conservare la comunità e quella di Callicle sia stata – anche se  in parte – ritenuta valida a tale fine, risulta dalle riflessioni dell’etica cristiana. Secondo  la quale commettere torto è assai peggio che subirlo – anzi subirlo significa guadagnarsi un posto in Paradiso; tuttavia i teologi hanno temperato tale (nobile) posizione etica discriminando tra il dovere del cristiano (governato) e quello dell’uomo di governo cristiano. Lutero, in particolare, ha scritto pagine illuminanti, distinguendo tra la tutela del proprio interesse e di quello degli altri. Quand’è leso il proprio interesse  I  fedele  deve subire dei torti: per quello degli altri è. parimenti, dovere del cristiano non permettere che torti si commettano e, comunque, che questi debbano essere sanzionati. Scrive Lutero “Se tu non hai bisogno che il tuo nemico sia punito, il tuo vicino che è debole, ne ha necessità e devi venirgli in aiuto perché abbia  la pace e il suo nemico sia represso. E ciò non può verificarsi  se potere e autorità non sono onorati e rispettati.  Cristo  non  dice “Non  devi  servire l’autorità né essere sottomesso ma Non devi resistere al male” (6). Da cui consegue che “facendolo ti porrai interamente a disposizione di una funzione e di un’attività al servizio del prossimo, che non sono utili a te, né al tuo bene o al tuo  onore, ma  servono  solo  agli altri, e, espletandola non con l’idea di vendicarti o restituire male al male, ma per il bene del prossimo e per assicurare la difesa e la pace degli altri” (7) e prosegue “quando si tratta del prossimo e del di esso interesse, agisci secondo amore cristiano e non tollerare che gli sia fatta alcuna ingiustizia” (8). In particolare all’autorità  compete di  mantenere l’ordine  e il diritto, perché istituita da Dio in vista di tale fine. “Se il potere e la spada sono un servizio divino, come ho provato sopra, tutto ciò che è necessario al potere per impiegare la forza, dev’essere anch’esso un servizio divino. Occorre che ci sia qualcuno per catturare i delinquenti, accusarli, punirli e metterli a morte, e per proteggere, discolpare, difendere e salvare gli uomini virtuosi”(9). Poco dissimile è la concezione di Calvino. Questi ritiene i magistrati “vicari di Dio”, “servitori della giustizia”; rifiutando la posizione degli anabattisti, ritiene che il loro ruolo è necessario e niente affatto contrario alla vocazione del critiano ed alla religione cristiana. Riguardo alla pena di morte, scrive: “Il est vrai que la Loi de Dieu défend d’occire; au contraire aussi, afin que les homicides ne demeurent impunis, le souverain Législateur met le glaive en la main de ses ministres, pour en user contre les homicides. Certes, il n’appartient pas aux fidèles d’affliger ni faire nuisance; mais aussi ce n’est pas faire nuisance, ni affliger, que de venger par le commandement de Dieu les afflictions des bons” per cui “C’est pourquoi, si les princes et autres supérieurs connaisent qu’il n’y a rien de plus agréable à Dieu que leur obéissance, s’ils veulent plaire à Dieu en piété, justice et intégrité, qu’ils s’emploient à la correction et punition des pervers” (10). Ne consegue che la massima morale valida per il cristiano, di porgere l’altra guancia, non vale per il governante, anche cristiano, il quale operando per l’interesse dei governati non deve subire né, soprattutto, tollerare che i governati subiscano torti. Sosteneva Troeltsch che da tale concezione protestante deriva l’alto senso del dovere che ha ispirato la burocrazia professionale tedesca (11); è sicuro comunque che, determina anche sul piano etico una netta distinzione, secondo la funzione, nei doveri e nel comportamento del cristiano. A conclusioni non molto diverse si arriva leggendo i teologi della controriforma. Scriveva S. Roberto Bellarmino, polemizzando in particolare con gli anabattisti, che le leggi “non servirebbero a nulla, se non ci dovesse essere alcuna sentenza; ma come si è già provato, non si devono togliere le leggi: dunque nemmeno le sentenze” (12). Quindi esercitare la giustizia e rivolgersi al giudice  per la riparazione  del torto è lecito, anzi in  certi casi doveroso, perchè concorre a reprimere chi potrebbe commettere altre ingiustizie; e quanto all’autorità temporale, ed alla pena di morte è “compito  di un buon principe, al quale è affidata la protezione del bene comune, impedire  che le parti corrompano  il  tutto, per il quale esistono; di conseguenza se non può conservare integre tutte le parti, deve piuttosto recidere una parte che lasciar perire il bene comune; come i contadini recidono  i rami e i tralci che danneggiano la vite o l’albero, e il medico amputa le membra, che potrebbero corrompere il corpo” (13). Passando al diritto internazionale, ed alla  liceità  della  guerra  – nel caso di risposta alle offese – Francisco Suarez afferma ”  bellum defensivum non solum est licitum, sed interdum etiam praeceptum” e ciò per difendere l’esistenza e le ragioni della comunità; ma anche la stessa guerra offensiva può essere giusta e la ragione è” quia tale bellum saepe est reipublicae necessarium ad propulsandas iniurias et coercendos hostes, neque aliter possunt respublicae in pace conservari: Est ergo hoc iure naturae licitum, atque adeo etiam lege evangelica, quae in nulla re derogat iuri naturali, neque habet nova praecepta divina, praeterquam fidei et sacramentorum: Quod enim non vult haec mala, sed permittit, unde non prohibet quin iuste possint propulsari (14). Nel caso che il principe sia trascurato “in vindicanda et defendenda republica” allora può” tota respublica se vindicare, et privare ea auctoritate principem quia semper censetur apud se retinere eam potestatem, si princeps officio suo desit” (15) E tra le giuste ragioni di guerra di un principe cristiano, vi sono le riparazioni di un torto o la difesa degli innocenti (16). Pur sostenendo concezioni, su altre questioni, opposte, sul punto del dovere dell’autorità temporale di proteggere i sudditi, e sulla legittimità della relativa funzione, teologi cattolici e protestanti concordano, con poche sfumature di differenza. Come tutti condannano gli anabattisti, per il loro divieto al cristiano di assumere funzioni pubbliche. La distinzione quindi tra morale “pubblica” e “privata” (e relative “sfere”) è saldamente stabilita. Quel che è vietato al privato è concesso – anzi è dovere – dell’uomo pubblico. Ciò conferma il rapporto dell’etica cristiana con l’ordine: il bene morale è in riferimento all’ordine dell’esistenza e della vita, cui deve conformarsi il comportamento del credente. Ordine che non può sussistere (e durare) senza distinzioni di ruoli, di funzioni, e quindi di comportamenti: la distinzione tra chi comanda e chi obbedisce, tra funzione pubblica e attività privata, tra azioni vietate, premesse o comandate a seconda del ruolo sociale dell’autore, ed in funzione della conservazione della comunità, come essere ordinato. 3.0 Jhering, nel “Kampf um’s recht”, rivoluziona tale impostazione, rendendola più vicina, anche se in un ambito parzialmente diverso, a quella di Callicle. Cioè rende di nuovo universale – rivolto a tutti, governanti e governati – l’imperativo di non subire il torto, anzi ne fa il (principale) fatto fondante l’ordinamento comunitario. Il giurista tedesco prende le mosse dal concetto del Diritto che è un “concetto pratico, cioè dire, un concetto non puramente speculativo, ma tendente ad uno scopo. Se non che ogni concetto di tal natura è per propria essenza dualistico. Nel seno suo accoglie l’opposizione del fine e del mezzo. Parlare semplicemente del fine non basta: occorre indicare al tempo stesso anche il mezzo per giungere al fine” e continua “il mezzo, per vario e multiforme che possa essere all’apparenza, in sostanza riducesi sempre alla lotta contro l’ingiustizia. Il concetto del Diritto inchiude in sé le opposizioni della lotta e della pace: questa come termine finale; quella come mezzo del diritto. Le due cose sono date ugualmente nel concetto del Diritto e dallo stesso inseparabili” (17). Né si può opporre che la lotta, il conflitto sia proprio ciò che il diritto mira ad impedire perché “l’obiezione sarebbe giusta, ove si trattasse della lotta dell’iniquità contro il Diritto. Ma il fatto è che qui si tratta dell’opposto, della lotta del Diritto contro l’ingiustizia. Tolta simile lotta, tolta cioè la resistenza contro la violazione, il Diritto sarebbe ridotto ad una negazione intrinseca di sé. Sino a che il Diritto dev’esser considerato dal lato delle ingiuste aggressioni, che può subire – e ciò accadrà sino a che durerà il mondo

– il Diritto non può esimersi dal lottare. Per la qual cosa la lotta non è un che di straniero al

Diritto. Essa è invece intimamente legata con l’essenza sua: è, in una parola, un momento del suo concetto” (18). Da ciò, prosegue Jhering, deriva che l’essenza  del diritto è  attuazione pratica: “Una regola giuridica, che giammai non fu attuabile, ha perduto  la capacità di esserlo, non può pretendere a cotal nome. Essa è una molla inetta, che non collabora nel meccanismo del Diritto, e che può esser tolta  via, senza  che alcuna alterazione ne segua”. Questo principio s’applica  senza limitazione  di sorta a tutte le parti del Diritto. Ma mentre l’attuazione del  diritto pubblico  e penale  è “assicurata  perché imposta come dovere ai rappresentanti del potere politico; quella invece del diritto privato prende la forma di un diritto delle persone, vale a dire, abbandonato  completamente  alla loro propria iniziativa, alla spontanea attività loro. Nel primo caso l’attuazione del Diritto dipende da ciò, che le autorità e gli ufficiali dello Stato compiono il dover loro; nel secondo invece da ciò, che le persone private faccian valere il loro diritto” (19). Ma se queste non se ne curano, non lottano cioè per realizzare il loro diritto “la regola giuridica rimane allora impotente. Onde può dirsi: la realtà, la forza pratica delle massime del diritto privato apparisce e s’afferma, allorché i diritti concreti vengon fatti valere. E così, mentre questi ricevon da un lato la vita loro dalla legge, fanno d’altro lato la vita della legge. La relazione  del diritto obiettivo o astratto co’ diritti subbiettivi o concreti è pari alla circolazione  del sangue, che parte dal cuore, ma al cuore fa  ritorno” (20).  A chi sostiene  che, tutto sommato, a soffrire le conseguenze di un’azione nel tutelare il  proprio  diritto, è “l’investito del diritto”, Jhering controbatte che “Quando l’arbitrio e la licenza s’attestano temerarii ed audaci di levare il capo, è segno sicuro che quei che eran chiamati a difendere la legge hanno negletto il  dover  loro” (21). E nel diritto privato ciascuno  è, “in  obbligo  di difendere la legge; ciascuno, entro la sua propria sfera, n’è custode ed esecutore”; per cui

“Affermando il diritto suo, nella sfera ristretta, che questo occupa, egli nulladimeno afferma e mantiene il Diritto. Epperò l’interesse e le conseguenze della sua maniera di agire trascendono di molto la persona sua” (22). L’interesse generale, ricollegato al comportamento attivo, non è quello, puramente ideale, della maestà della legge; ma quello reale e pratico, “che lo stabile ordinamento della vita socievole sia assicurato e conservato saldo ed integro” (23). Quando il diritto diventa punto o poco applicato, per indifferenza o pigrizia “La responsabilità di simili condizioni non ricade sulla parte del popolo, che trasgredisce la legge; ma su quella, che non ha il coraggio di farla rimanere inviolata e rispettata. Non bisogna lamentarsi dell’ingiustizia, che tenta usurpare il posto del Diritto; ma bensì del Diritto, che se n’acqueta e contenta. E fra le due massime: non fare alcun torto, e: non soffrire alcun torto, se dovessi scegliere per dare a ciascuna il grado che le spetta secondo la sua importanza pratica, direi, che quella di non sopportare alcun torto è la prima; e l’altra di non farne, la seconda” (24). In ciò Croce ravvedeva non solo un’inoppugnabile ragione pratica, di conservazione dell’ordinata vita sociale, ma anche l’espressione di un “alto concetto” e di un “sentimento morale”. Quello cioè di difendere il proprio diritto anche con sacrificio degli interessi individuali (25). In realtà è chiaro che, come sostenuto da Jhering, una società non può reggersi se il diritto viene totalmente, o largamente disapplicato. Il diritto non è una collezione di “grida” di manzoniana memoria (o, diremmo oggi, di norme – manifesto) ma vive della sua applicazione, di cui è strumento essenziale, anche se non esclusivo, la volontà e la determinazione individuale. Ciò è connaturale all’approccio problematico ed alla cultura del giurista, dato che in alcuni ordinamenti è prescritta addirittura l’abrogazione per desuetudine. Ma anche laddove questa non è prevista, un diritto poco o punto applicato è un diritto inesistente, che ha smarrito la funzione essenziale di formalizzazione dell’ordine e garanzia del medesimo. Di fronte al quale, non può non concordarsi con il giudizio di Jhering. 4.0 Diversa – almeno in parte – appare la questione ad affrontarla sotto l’angolo visuale, che è propriamente quello di Callicle, cioè della politica. Qui il problema consiste nel vedere come l’alternativa si presenta in un campo di rapporti specificamente politici. In primo luogo cioè, come si configuri in un ambito in cui il potere è fattore essenziale, ed è assicurato dal rapporto tra comando e obbedienza; la cui funzione precipua non è tanto la tutela d’interessi individuali, ma dell’esistenza collettiva. Ne consegue che se la teoria di Jhering vale per un individuo, che opera per interessi personali e fa scelte le cui conseguenze ricadono in primo luogo su di se, e solo di riflesso su tutti; qui, di converso, abbiamo decisioni che coinvolgono, immediatamente e direttamente, gli interessi di tutti. Per cui, spesso, subire un torto, per odioso che sia è preferibile a lottare per il proprio diritto, perché il costo della scelta sarebbe insopportabile. Il che è particolarmente chiaro e manifesto nei rapporti internazionali, dove abbiamo visto interi stati cessare d’esistere senza combattere (come gli Stati baltici e la Cecoslovacchia nel 1939), perché la lotta si manifestava impari, anzi

disperata, e molto costosa, sul piano umano prima che economico. E’ possibile tacciare quei governanti d’ “immoralità” o meglio di codardia,  sotto  il  profilo  considerato?  O  non piuttosto, avendo quelli la responsabilità di milioni di uomini, hanno applicato la regola machiavellica, di trarre “miglior partito dal meno malo”, salvando la vita dei concittadini, al prezzo dell’esistenza collettiva? In altri termini ciò che (anche) rende peculiare il problema politico (rispetto alla realtà morale o “giuridica”) è che in politica l’etica è sempre, in misura prevalente, un’etica della responsabilità: bisogna considerare come ogni scelta ricada sugli interessi di milioni di persone. Il che non succede, come chiarito, negli altri casi. Fatta tale premessa, e ponendoci nella prospettiva del governante,  occorre  distinguere  tra  due ipotesi: subire un torto o farlo subire. E’ chiaro come, a tale proposito, occorre appena considerare che il torto sia sofferto sul piano personale. Questo sarebbe irrilevante; tuttavia trattandosi di persone pubbliche, fatti del genere provocano una diminuzione di autorità (di “credibilità” si potrebbe dire), con le conseguenze relative; pertanto da evitare, per quanto possibile. Quando però a subire un’ingiustizia è la comunità o l’istituzione o il gruppo “rappresentato” la regola d’azione non può che essere quella di Callicle; anche se occorre tener conto, come sopra scritto, delle conseguenze e del costo della reazione. Questo, in primo luogo, perchè primaria funzione del potere politico è proteggere  la comunità  e i membri di questa  da ogni offesa  esterna  ed interna. Se la comunità, nel suo insieme, subisce un’ingiustizia, è chiaro che ciò incrina l’efficacia della  protezione,  ovvero  la principale “obbligazione” dei governanti. Il  giudizio, tante volte ripetuto, che gli Stati stanno  tra loro in perenne stato di natura, implica anche questo: che, in linea di principio, non può subirsi il torto. Tant’è che il diritto internazionale conosce  l’istituto  della  rappresaglia,  la quale è, per l’appunto, una reazione (o rimedio) lecito per la riparazione  dell’illecito  patito. Ma, tornando a ragionare sul piano puramente politico, si arriva a conclusioni uguali. La funzione del potere è, infatti, attraverso il monopolio della violenza legittima (nello Stato moderno), di stabilire e garantire l’ordine. Come scriveva Hauriou “ogni potere che voglia durare è obbligato a creare un ordine delle cose e un diritto positivo” (26). La relazione tra questo, l’ordine e il diritto è quindi una costante necessaria dell’esistenza collettiva. Ma il potere può essere tale solo se, concretamente, comanda e viene obbedito. Il dualismo tra potere di fatto e di diritto, nelle situazioni storiche, è destinato a durare poco; perchè, in periodi più lunghi, o il potere di fatto diviene potere di diritto – alla fin fine, perchè obbedito o quello di diritto torna ad esserlo anche di fatto, per la stessa ragione. Ogni situazione di conflitto tra poteri in una comunità, si risolve in tal modo; e il criterio della prevalenza è dato dalla capacità di farsi obbedire, cioè di (creare e) garantire l’ordine. Ad affrontare poi la questione sotto il profilo se il potere politico possa tollerare di far subire ingiustizie ai membri della comunità, la conclusione è ancora più semplice. Questo perchè è quasi nullo il rischio che un torto subito da un privato possa trasformarsi in un casus belli che metta in gioco l’esistenza collettiva. In questi casi tutto si risolve all’interno dell’unità politica.

Orbene se fine del potere è la protezione (o la sicurezza) delle vite e dei beni dei singoli cittadini, è chiaro che far  subire  un torto è un grave, gravissimo “sviamento” da tale  funzione. E’ un “peccato” sotto il profilo dell’etica politica: e ciò non solo per i motivi esposti e sopra citati – da Lutero. Ma perchè, in un’epoca di secolarizzazione, in cui sono stati recisi i legami tra cielo e terra, la prima ragione di legittimazione del potere è la sua congruità alla funzione, come ci è capitato di sottolineare altrove. Cioè che riesca ad adempiere efficacemente i propri compiti. Ma allorquando non abbia successo nella sua primaria incombenza, non c’è alcuna ragione perchè possa pretendere Peraltro laddove, come nello Stato moderno, il potere pubblico ha ottenuto il “monopolio della violenza legittima”, si è anche caricato, più che in altre forme politiche, della responsabilità della protezione, proprio perchè la reazione al torto e/o la sua “esecuzione” non può più essere “amministrata” dal privato. Questo accadeva in altri ordinamenti, come l’antico diritto romano o l’Europa feudale, in cui alcune – diffuse – forme di autoamministrazione ed autoesecuzione della sanzione erano ammesse. Ma laddove queste siano state totalmente eliminate – anzi sanzionate penalmente – una repressione pigra, occasionale e svogliata è, nei fatti, un incentivo alla prepotenza ed ai soprusi: alle violazioni, cioè, di quel diritto di cui lo Stato si pretende sia arbitro. Una sorta d’ “intelligenza”, complicità o “solidarietà” con chi viola la legge e non con chi l’osserva. D’altra parte, è appena il caso di  ripetere – tanti  l’hanno già detto – che lo Stato moderno non ha il monopolio del diritto ovvero non è l’unica fonte di produzione normativa – atteso che questo  è,  in  buona  parte, prodotto  di altri enti od istituzioni sociali, non solo pubbliche – e in parte è generato, spontaneamente dai (costanti) comportamenti comunitari. Ciò di  cui lo Stato  ha il  monopolio  è dell’applicazione e soprattutto esecuzione del diritto (come compito primario all’interno della funzione di garanzia dell’ordine, anch’essa “monopolizzata”). Il cui aspetto principale è che non sia consentito far subire ingiustizie, anzi siano approntati tutti gli strumenti  perchè  chi le ha patite ottenga soddisfazione. C’è un’altra considerazione che rende all’ambito politico e giuridico la tesi di Callicle e del tutto incongrua quella di Socrate. Se è vero infatti che il sovrano dell’età moderna è “legibus solutus”, in quanto fonte della legge, la conseguenza  che ne discende è quella espressa nella massima  del diritto pubblico inglese “the king can do no wrong”: il re non può commettere torto, per definizione perchè è la sua volontà a determinare il giusto e l’ingiusto. Certo, si potrebbe rispondere, come uomo è soggetto alla legge morale; ma come gevernante (non come “cardatore, cuoco”, ecc.) è suo dovere non seguirla, come immediata conseguenza dell’autonomia della politica della morale. In sintesi non è obbligato ad osservare la legge positiva perchè ne è la fonte; non è tenuto a precetti morali, in particolare quando non tornino utili – e ancor più se sono dannosi – agli interessi dell’unità politica. Non è così per la massima di Callicle: subire e far subire un torto alla comunità (e alla persona pubblica del sovrano) è sempre un vulnus alla funzione di protezione e governo di questi. Al punto che Suarez nel passo sopra citato, legittima “tota respublica” a privare della sua autorità il principe “si princeps officio suo desit”.

L’affermazione del teologo gesuita è sorprendente – a non approfondirne il pensiero – tenuto conto che non ammette, se non in tal caso, un “diritto di rivoluzione” (o meglio, di “supplenza”) della comunità  verso il  sovrano legittimo.  Ciò che è interdetto in linea generale, viene permesso ai sudditi proprio nel caso eccezionale si debba evitare di subire – o riparare un illecito ai danni della comunità (27). D’altra parte anche se più “avanzata”, questa posizione ha molti punti di contatto con quella  di Hobbes, secondo il quale l’obbligo  di obbedienza cessa per i sudditi quando il sovrano non è più in grado di dare loro protezione:  in quanto “ogni cittadino ha la libertà  di proteggersi  da se, con i mezzi, che il suo criterio gli suggerirà” (28). Anche qui, con la dovuta differenza,  è la funzione del sovrano, ordinatrice e protettrice, e l’efficacia di questa a determinare la sorte del rapporto comando – obbedienza; come d’altra parte giudicava  anche Spinoza, nel cui pensiero il diritto naturale “è determinato dalla sola potenza di ciascuno” e “colui che detiene il pieno potere     si dice che ha il supremo diritto su tutti: diritto, che avrà soltanto finchè

conserverà questa potenza di fare quello che vuole “se perderà questo (il sommo potere N.d.R.) perderà anche il diritto illimitato d’imperio” (29). E’ il caso di ricordare che secondo Spinoza  era impossibile  commettere  torto, da  parte delle “supreme autorità  alle quali tutto è lecito di diritto” (30). Anche nel Trattato Politico  ritiene “non si può in alcun modo dire che  lo Stato sia soggetto alle leggi o che possa delinquere. Infatti le regole e i  motivi di soggezione e di ossequio, che lo Stato deve a propria garanzia conservare, non sono del diritto civile, ma del diritto  naturale”(31). E, concludendo  questa  breve casistica,  e ritornando alla questione tra Socrate e Callicle, se dovessimo chiederci se sia peggior governante chi commette ingiustizia o chi la fa subire, la risposta è che, tra le due poco attraenti alternative, è sicuramente preferibile avere  un  governante  che  commetta ingiustizie piuttosto di uno che le faccia subire. E ciò non solo per l’ovvia considerazione che mentre il primo “pecca” una volta il secondo lo fa almeno due: perchè consentire che si subisca un torto significa commettere un (altro) torto. Con  la conseguenza  che  in  questi casi il cittadino si trova come il povero Pinocchio il quale, oltre a subire il furto dal Gatto e dalla  Volpe, passò pure la notte in guardina  per ordine del giudice, cui si era rivolto per avere giustizia. E neppure per il motivo, di etica della politica o, più in generale dell’etica dell’uomo pubblico, che così si contravviene alla propria funzione specifica, quella che legittima l’esercizio di posizioni di potere. Ma  soprattutto  perchè,  seguendo  un ragionamento di Hobbes, è assai peggio dover subire torti dai tanti governati che dai pochi che governano.  Non solo per la quantità:  ma perchè la prima alternativa, nel caso estremo, si trasforma nello stato di natura, cioè in una situazione da guerra civile. Cioè proprio quello che il potere politico ha, come scopo, di evitare. 5.0 Avevamo iniziato col chiederci quale fosse la soluzione migliore tra quelle sostenute da Socrate e Callicle – per un’etica del comportamento pubblico. La conclusione è, ovviamente, che è preferibile quella del sofista. Una società in cui la reazione all’illecito non è sanzionata e praticata, tende a confondere diritto e torto, permesso e vietato, e, più sfumatamente, comando e obbedienza, pubblico e privato: cioè una società in cui i termini  di riferimento  diventano  indifferenti  e intercambiabili, dove l’astuzia  e la prepotenza, trovando  pochi o punti ostacoli, hanno il destro per spadroneggiare. Se questo è chiaro per il diritto, non lo è da meno per gli aspetti più specificatamente politici, che, come Callicle notava, la tesi di Socrate trascura (e confonde). Come sopra  scritto, dove il  comando non si esercita, per ignavia  dei governanti o dei governati, alla lunga non c’è ragione di obbedire. Ma del pari viene confusa la distinzione tra  pubblico e privato, anch’essa  ritenuta da Freund uno dei presupposti essenziali del politico. Si può tralasciare o perdonare  la lesione dei propri interessi  privati, ma non quando vengono in gioco le condizioni di esistenza della comunità. in questo senso l’obiezione di Callicle a  Socrate,  di aver confuso pubblico  e privato, gli statisti  con i cardatori, è magistrale. A un tempo, con ciò il sofista  individuava  la regola  di comportamento dell’uomo  pubblico, non nell’interesse dello stesso, ma in quello della società. E’ sostanzialmente tributaria dell’etica della responsabilità; e, in particolare per il governante, non è detto che sia più facile da percorrere; anzi, in genere, è di gran lunga  la più aspra  e difficile. A governare  facendo discorsi edificanti, lottizzando  cariche e prebende e non disturbando (o solleticando)  tutti “i poteri forti”, sono  capaci  se non tutti, molti. In fondo non si chiede a costoro altro che le doti di don Abbondio, tra le quali, come  riconosciuto dallo stesso, non c’era il coraggio. L’esercizio della funzione pubblica, anche a livelli non “apicali” esige invece doti di coraggio e spesso di abnegazione non indifferenti, nonché la capacità di assumersi responsabilità e rischi. Se la politica non fosse – com’è – comando e obbedienza;  se non fosse, secondo un noto detto di Napoleone, il  destino; se non ponesse in gioco l’ordinata esistenza collettiva e individuale probabilmente tali caratteristiche avrebbero un’importanza marginale.  Se, per esempio, fosse un’arte per elevare moralmente i cittadini, le doti ricordate non avrebbero senso, o ne avrebbero molto poco. Più che assumersi rischi, una tale concezione richiede di far buone prediche. Invece  ciò che fa l’uomo pubblico è il coraggio  prima  che l’intelligenza o la dirittura  morale. O meglio queste, senza il primo, servono poco. Se infatti il potere politico ha una funzione ordinatrice, e cioè finalizzata alla creazione e al mantenimento dell’ordine, comandare e sanzionare son essenziali: non foss’altro perchè, come scrivevano, tra i tanti, Machiavelli e Lutero, i cittadini virtuosi devono essere difesi dai molti che virtuosi non sono. In questo contesto appaiono del tutto impropri  i continui  richiami moralistici, che vengono fatti oggi, in Italia, da politici e funzionari. Che chi ha il potere e il dovere d’intervenire, riesca  per lo più soltanto a fare delle prediche, appare immorale sotto il profilo dell’etica della politica, oltrechè contrario alla funzione dello Stato moderno. Meglio opererebbe ad attivarsi per incrementare la percentuale, per esempio,  del “prodotto  finito” dell’azienda-giustizia penale, e cioè l’esecuzione della pena, che, oggi in Italia, si realizza invece solo in un caso su (oltre) duecento denuncie presentate. Per cui lo Stato diventa così non un’organizzazione per la protezione dei diritti, ma per far subire le violazioni di questi.

Anche perchè chi, in presenza di situazioni di fatto così disastrate si mostra animato da buone intenzioni, e magari lo è, spesso è personalmente onesto, cioè non commette ingiustizie “in proprio”. Ma è del tutto inidoneo alla funzione rivestita, e, il più delle volte un atteggiamento del genere è la maschera nobile di concreti timori, pavidità, incapacità.

Quello che Jhering chiamava la “politica della vigliaccheria”. Per cui sotto le nobili parole di Socrate si nascondono, quasi sempre, le paure di don Abbondio. Teodoro Klitsche de la Grange NOTE 1) GORGIA 483 a-b, trad it. Bari 1997, p. 89;  2) GORGIA  483 d, op cit., p, 91; E qualcosa di non dissimile scrive Tucidide nel noto episodio dell’ambasciata ateniese al popolo di Melo, tutto improntato ad uno stretto realismo politico, per cui gli ambasciatori d’Atene ritengono “le nostre opinioni sugli Dei, la nostra sicura scienza degli uomini ci insegnano che da sempre, per invincibile impulso naturale, ove essi, uomini o Dei, sono più forti, dominano. Non siamo noi ad aver stabilito questa legge, non siamo noi che questa legge imposta abbiamo applicata per primi”. (La guerra del Peloponneso, lib. V, cap. 105): individuando così una delle “regolarità” della politica. 3) J. FREUND, L’essence du politique, Paris, 1965 p. 146 ss; 4) GORGIA 491 d, op. cit., p. 109; 5) GORGIA, 515 a.-c., op. cit. p.167; 6) LUTERO, “Sull’autorita Temporale”, Oevreus, tome I V0 , p. 23; 7) Op. cit. p. 23 8) Op. cit. p. 24 9) Op. cit. p. 29; 10) Calvino, L’institution chrétienne, liv IV, cap. XX, in particolare p. 459, Editios K2rigma U.S.A. 1978; 11) T. E. Troeltsch, Il protestatismo nella formazione del mondo moderno, rist., Firenze 1974, p. 57. Come noto, uno dei punti da superare, per amettere la liceità della guerra  e della  repressione  dei delitti, erano i noti passi del Vangelo, predicanti l’amore universale. Il Cardinale Bellarmino li interpreta distinguendo tra  “pubblico” e “privato”: “Infine vengono  citate quelle parole.  S. Matt., c. 5: Se ti percuote sulla guancia destra, porgigli anche la sinistra… ; amate i  vostri nemici, fate del bene a chi vi  odia, e quelle, in  S. Matteo al c. 26              Si osservi che queste stesse prove furono portate una volta contro i cristiani da Giuliano l’apostata, come ci viene riferito da S. Gregorio Nazianzeno. Quanto alla loro confutazione, diciamo in primo luogo che tutte queste cose sia comandi, sia consigli, vengono dati ad uomini privati: infatti il Signore o l’apostolo s. Paolo non comanda al giudice di non dare a colui che commise un’ingiustizia a danno di terzi, la giusta punizione, bensì comanda a ciascuno di sopportare di buon animo le offese ricevute; la guerra non è una vendetta  privata, bensì fa parte della pubblica giustizia; e come l’amore verso i propri nemici, al  quale  siamo tutti tenuti, non ritiene il giudice o il carnefice dell’adempimento delle proprie funzioni, così non trattiene i soldati e i generali  dall’adempimento delle loro. Inoltre diciamo  che anche per i  privati stessi, questi non sono sempre comandi, ma ora sono comandi ed ora consigli. Son sempre comandi quanto alla disposizione dell’animo, così che si sia pronti a porgere l’altra guancia e a dare anche il mantello a colui che ci portò via la tunica, piuttosto che offendere Dio; ma agire poi così di fatto, è comando nel caso che l’onore di Dio lo richieda necessariamente, altrimenti è soltanto consiglio; anzi alcune volte non è neanche questo, come quando porgendo l’altra guancia non ne viene utilità, se non che l’altro torni a  peccare” (S.  Roberto  Bellarmino “Scritti politici, Torino 1950, p.255). 12) S. Roberto Bellarmino in Scritti politici, Torino 1950

  1. 248; 13) Op. cit. p. 250. D’altra parte com’è noto nella Confessione Augustana è detto: “Per ciò che riguarda la vita civile (le Chiese riformate) insegnano che le istituzioni civili legittime sono buone opere di Dio e che ai cristiani è lecito ricoprire cariche pubbliche, esercitare la funzione di giudice, pronunziare le sentenze in base alle leggi imperiali e alle altre norme vigenti, stabilire le pene in conformità alle leggi, far guerra per giusti motivi, militare negli eserciti, stipulare contratti secondo le leggi, avere delle proprietà, prestare giuramento su richiesta dei magistrati, ammogliarsi o prendere marito. Condannano gli Anabattisti che vietano questi doveri civili ai cristiani” (La Confessione Augustana del 1530, Torino 1980, p. 127). 14) SUAREZ De charitate, disp. 13: De Bello. In “Ausgewalthe texte zun volkerrecht”, Tubigen 1965, p. 122 15) Op. cit., p. 126; 16) Op. cit., p. 158; 17) Op. cit., trad. it., Bari 1935, p. 11 18) Op. cit. p. 12; 19) Op. cit., p. 67; 20) Op. cit., p. 67; 21) Op. cit., p. 68; 22) Op. cit., p. 69; 23) Op. cit., p. 69; 24) Op. cit., p. 71; 25) “Avvertenza” (prefazione) al “Kampf um’s recht”, trad. it. cit., 26) Prècis de droit constitutionel, Paris 1929, p. 16. 27) Un’altra eccezione invero Suarez ammette per il tiranno laddove sostiene che “bellum reipublicae contra principem (l’usurpatore n.d.a.), etiamsi sit aggressivum non est intrinsece malum”; devono però ricorrere le condizioni “justi belli”. In particolare deve distinguersi se il tiranno è tale” quoad dominium et potestatem” ovvero “quoad regimen”, per cui diverse sono le ipotesi in cui la apparente “seditio” può essere invece “bellum justum” (v. Suarez op. cit. p. 202). Nel pensiero di Suarez, plasmato da concetti e argomenti giuridici, in definitiva il criterio ultimo di discrimine tra lecito e illecito è quello della legittima difesa “omnibus competit jus defensionis”. D’altra parte, anche nella trattazione dello jus belli e del diritto naturale, la differenza evidente tra i teologi della controriforma e i filosofi del diritto naturale successivi è che per i primi lo jus belli è strettamente collegato e funzionalizzato al ripristino del diritto leso: evidente nella guerra difensiva, la riparazione del torto (e con ciò il ripristino dell’ordine) serve a giustificare i casi di guerra aggressiva. Sul punto vedi anche Francisco de Vitoria (Relectio de indis, trad. it., Bari 1996, pp. 84, 111, 112), che collega in particolare il “bellum justum” alla “justa causa” o allo “justum titulum”. Juan de Mariana, la cui posizione è particolare, perché, com’è noto, giustifica il tirannicidio (in ciò più deciso del confratello Suarez), considera questa extrema ratio giustificata (nel caso di tirannide “quoad regimen”) dal fatto che il tiranno “arrivi al punto di mandare in rovina lo stato, di impadronirsi con la forza delle proprietà pubbliche e private, di disprezzare le pubbliche leggi e le credenze religiose, mostrando apertamente di riporre tutta la sua prodezza nella superbia, nell’audacia, nell’empietà verso il cielo”. Con questo anche l’uccisione del principe ingiusto è vista come mezzo per il ripristino della giustizia e del diritto (v. Juan de Mariana De Rege ed regis institutione, trad. it., Napoli 1996, p. 52). E la guerra (giusta), anche civile, è così un mezzo del diritto e della giustizia e un “succedaneo” del giudice, del “terzo decisore”. Mentre per i secondi la possibilità di guerra, senza particolari giustificazioni, è conseguenza diretta dello “stato di natura” e del diritto naturale, applicato agli Stati, che tra di loro, sono “in stato di natura”. 28) v. Th. Hobbes, Leviathan, trad. it., Bari 1974, p. 298. 29) v. Trattato Teologico . politico, p. 382 – 383, Torino 1980. 30) T.T.P., cit. p. 385. 31) Op. cit. Torino 1958 p. 206.

la sovranità non è sostituzione di servitù, a cura di Luigi Longo

LA SOVRANITA’ NON E’ SOSTITUZIONE DI SERVITU’

a cura di Luigi Longo

 

 

Suggerisco, ad integrazione dell’interessante scritto di Pino Germinario su Sovranità, sovranismo e sovranismi http://italiaeilmondo.com/2018/09/23/sovranita-sovranismo-e-sovranismi-di-giuseppe-germinario/ apparso su questo blog in data 23 settembre 2018, la lettura dell’articolo di Manlio Dinucci su La strategia di demonizzazione della Russia pubblicato sul sito www.voltairenet.org il 25 settembre 2018.

Qui mi interessa evidenziare che il concetto di sovranità, di autonomia, di autodeterminazione, insomma la libertà di scegliere un modello sociale espressione della storia di un determinato popolo, per l’Italia sta nel proporre un progetto di sviluppo capace di fare uscire il Paese dalla servitù volontaria verso gli Stati Uniti che è la potenza mondiale in relativo declino che, incapace di rilanciare una nuova idea di sviluppo e di società egemonica a livello mondiale, si affida alla violenza con la forza delle armi, alla egemonia coercitiva nelle istituzioni internazionali e soprattutto al comando della NATO (uno strumento fondamentale del conflitto strategico).

Il problema, quindi, per l’Italia non è quello di sostituire la servitù politica (ad Obama) alla servitù (a Trump) più funzionale alle nuove contraddittorie (per il conflitto violento tra gli agenti strategici incapaci di una nuova sintesi nazionale sintomo ulteriore di declino) strategie dei predominanti statunitensi, quanto piuttosto quello di avere un ruolo autonomo per aiutare, in questa fase storica, l’avanzamento del multicentrismo e di allearsi con quelle potenze mondiali (per ora Russia e Cina) che mettono in discussione il dominio unipolare USA.

Una piccola digressione: il garante della servitù volontaria italiana è la Presidenza della repubblica italiana. Per dirla con Marco Della Luna, << […] La funzione reale del presidente, nell’ordinamento costituzionale e internazionale reale – ripeto: reale –, è quella di assicurare alle potenze dominanti sull’Italia, paese sconfitto e sottomesso, l’obbedienza del governo e delle istituzioni elettive. Affinché possa svolgere cotale ruolo, il presidente, nella struttura costituzionale, è posto al riparo della realtà e delle responsabilità politiche, analogamente a come, nelle monarchie, il re è protetto da esse, perché egli è la fonte ultima di legittimazione del potere costituito e degli interessi che esso serve. Solo che nelle vere monarchie il re era protetto nell’interesse del suo paese, mentre nel protettorato Italia il presidente è protetto nell’interesse del sovrano straniero […] >> (Il sovrano e il presidente in www.marcodellaluna.info, 13/5/2018).

E’ evidente che l’Italia, una nazione in crisi profonda a cui hanno tolto anche i settori economici del cosiddetto made in Italy (per non parlare delle industrie strategiche), deve eliminare la sua servitù volontaria verso gli Stati Uniti (occorrono ben altri decisori) costruendo alleanze con altre nazioni che mettano in discussione questa Europa espressione dell’egemonia statunitense e guardino ad Oriente per agevolare lo sviluppo della fase multicentrica, scongiurando la fase policentrica che avrebbe come esito inevitabile la guerra (forse l’ultima).

Occorrono un’Italia e un’Europa libere da servitù volontarie statunitensi (chiudendo le basi militari USA e USA-NATO ponendo all’ordine del giorno l’uscita dalla NATO) e un’Europa ri-costruita come soggetto politico (una federazione – o altra forma – espressione di nazioni autonome) per svolgere un ruolo di confronto e di scambio, rispettosi e democratici, tra Occidente e Oriente.

Per fare questo manca un Principe che si aggiri come uno spettro per l’Europa a turbare i sonni di questi sub-dominanti europei e predominanti statunitensi reazionari, manca lo spettro del cambiamento e della sovranità dei popoli.

LA STRATEGIA DI DEMONIZZAZIONE DELLA RUSSIA

di Manlio Dinucci

 

 

Il contratto di governo, stipulato lo scorso maggio dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega, ribadisce che l’Italia considera gli Stati uniti suo «alleato privilegiato». Legame rafforzato dal premier Conte che, nell’incontro col presidente Trump in luglio, ha stabilito con gli Usa «una cooperazione strategica, quasi un gemellaggio, in virtù del quale l’Italia diventa interlocutore privilegiato degli Stati uniti per le principali sfide da affrontare». Allo stesso tempo però il nuovo governo si è impegnato nel contratto a «una apertura alla Russia, da percepirsi non come una minaccia ma quale partner economico» e addirittura quale «potenziale partner per la Nato».

È come conciliare il diavolo con l’acqua santa. Viene infatti ignorata, sia dal governo che dall’opposizione, la strategia Usa di demonizzazione della Russia, mirante a creare l’immagine del minaccioso nemico contro cui dobbiamo prepararci a combattere. Tale strategia è stata esposta, in una audizione al Senato, da Wess Mitchell, vice-segretario del Dipartimento di stato per gli Affari europei e eurasiatici: «Per fronteggiare la minaccia proveniente dalla Russia, la diplomazia Usa deve essere sostenuta da una potenza militare che non sia seconda a nessuna e pienamente integrata con i nostri alleati e tutti i nostri strumenti di potenza» [1].

Accrescendo il bilancio militare, gli Stati uniti hanno cominciato a «ricapitalizzare l’arsenale nucleare», comprese le nuove bombe nucleari B61-12 che dal 2020 verranno schierate contro la Russia in Italia e altri paesi europei. Gli Stati uniti – specifica il vice-segretario – hanno speso dal 2015 11 miliardi di dollari (che saliranno a oltre 16 nel 2019) per la «Iniziativa di deterrenza europea», ossia per potenziare la loro presenza militare in Europa contro la Russia. All’interno della Nato, sono riusciti a far aumentare di oltre 40 miliardi di dollari la spesa militare degli alleati europei e a stabilire due nuovi comandi, di cui quello per l’Atlantico contro «la minaccia dei sottomarini russi» situato negli Usa.

In Europa, gli Stati uniti sostengono in particolare «gli Stati sulla linea del fronte», come la Polonia e i paesi baltici, e hanno tolto le restrizioni per fornire armi a Georgia e Ucraina (ossia agli Stati che, con l’aggressione all’Ossezia del Sud e il putsch di Piazza Maidan, hanno innescato la escalation Usa/Nato contro la Russia). L’esponente del Dipartimento di stato accusa la Russia non solo di aggressione militare, ma di attuare negli Stati uniti e negli Stati europei «campagne psicologiche di massa contro la popolazione per destabilizzare la società e il governo». Per condurre tali operazioni, che rientrano nel «continuo sforzo del sistema putiniano per il dominio internazionale», il Cremlino usa «l’armamentario di politiche sovversive impiegato in passato dai Bolscevichi e dallo Stato sovietico, aggiornato all’era digitale».

Wess Mitchell accusa la Russia di ciò in cui gli Usa sono maestri: hanno 17 agenzie federali di spionaggio e sovversione, tra cui quella del Dipartimento di stato. Lo stesso che ha appena creato una nuova figura: «il Consigliere senior per le attività maligne della Russia», incaricato di sviluppare strategie inter-regionali.

Su tale base, tutte le 49 missioni diplomatiche Usa in Europa e Eurasia devono mettere in atto, nei rispettivi paesi, specifici piani d’azione contro l’influenza russa. Non sappiamo qual è il piano d’azione dell’ambasciata Usa in Italia. Lo saprà però, quale «interlocutore privilegiato degli Stati uniti», il premier Conte. Lo comunichi al parlamento e al paese, prima che le «attività maligne» della Russia destabilizzino l’Italia.

 

 

sulla rappresentanza politica, di Teodoro Klitsche de la Grange

SULLA RAPPRESENTANZA POLITICA

 

  1. – Sul tema della rappresentanza politica occorre fare una precisazione preliminare: che di un termine o di un oggetto, com’è noto, possono aversi diverse definizioni e concetti, a seconda dell’angolazione da cui lo si studia. Così, per un giurista l’espressione de qua avrà un certo significato, per un politologo sarà diverso, per un filosofo o un sociologo un altro ancora. Tutti magari veri o validi e correttamente ricostruiti, ma, ovviamente, nell’ambito dei rispettivi “campi” scientifici.

L’essenziale è, trattando di tale argomento, da una parte non far confusioni, pretendendo di paragonare il concetto giuridico con quello sociologico e disputare sulla validità dell’uno o dell’altro; operazione impossibile, dato che la disomogeneità dei campi e criteri d’indagine la rende simile al tentativo di sottrarre triangoli a quadrati. Dall’altra a non perder del tutto i contatti, anche al fine di chiarire il concetto giuridico di rappresentanza, con i contributi che possono derivare da altre scienze umane.

Tale premessa si rende necessaria perché la rappresentanza è uno dei temi che più si prestano a confondere il diritto con la politica, la sociologia o la filosofia, ed addirittura con modi di intendere usuali ed atecnici. Per fare un esempio, il nesso spesso ripetuto, e che tratteremo in seguito, tra rappresentanza e scelta elettiva si spiega solo con l’adagiarsi su un modo corrente di intendere la prima, mutuato da assemblee sindacali e da congressi di partito.

  1. – Fatte queste brevi precisazioni, occorre ricercare il concetto di rappresentanza politica prima di tutto escludendo ciò che non è, o che è meramente accidentale rispetto ad esso.

In primo luogo che la rappresentanza sia un rapporto tra più soggetti, rappresentanti e rappresentati, concretamente identificabili come soggetti di diritto, titolari di obblighi e rapporti reciproci. Basta guardare la costituzione vigente, come quasi tutte le carte costituzionali, per rendersi conto che non è così. L’art. 67 recita testualmente: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. Quindi, se può immaginarsi un rapporto, questo e’ tra un soggetto concreto (il parlamentare) e un’entità ideale (la Nazione), ma certo non è per nulla simile al rapporto giuridico “di rappresentanza” nel senso correntemente inteso.

In secondo luogo, che il rappresentante rappresenti chi l’ha eletto, scelto, delegato. La prevalente dottrina ha coerentemente negato ciò, non solo perché è del pari contraddetto dall’art. 67 della Costituzione, come da analoghe norme in ordinamenti similari, ma anche perché spesso chi elegge, sceglie o delega è esso stesso un corpo rappresentativo di un quid cui il rappresentante deve dare capacità d’azione. Così il corpo elettorale è in sé già rappresentativo, come notato dalla dottrina francese da quasi un secolo, del “popolo” e della “Nazione” e pertanto non coincide con questi, non foss’altro perché non ne fanno parte i minori e certe, sia pur limitate, categorie di cittadini.

Del pari, non c’è alcun nesso sostanziale tra rappresentanza e procedimento elettorale, né nel senso che tutti i rappresentanti sono elettivi, né nell’altro, e reciproco, che tutti gli eletti sono rappresentanti.

Quanto al primo occorre riprendere in mano la prima costituzione moderna europea, cioè quella francese del 1791, per leggervi (titolo III, art. 2 secondo comma) che “La constitution francaise est représentative: les représentants sont le corps législatif et le roi”: e il re non era sicuramente scelto per elezione. Formulazione mantenuta in gran parte dalle costituzioni monarchiche dell’800, ivi comprese alcune di quelle italiane pre-unitarie (v. per esempio artt. 2-3 Cost. Regno di Napoli del 1815; artt. 1 e 50 Cost. Regno delle Due Sicilie del 1848), anche se talvolta i termini rappresentanza, rappresentativa e rappresentante erano riferiti genericamente alla costituzione come forma di governo e specificatamente ai soli parlamentari (o ai deputati delle camere elettive). Perciò Santi Romano riteneva che “l’elezione è un mezzo, sia pure il più idoneo, ma non l’unico possibile per attuare la rappresentanza politica, della quale, comunque, non esaurisce e rivela la natura intrinseca.” Ancor più semplice è mostrare che eleggere un organo non implica che questo rappresenti alcunchè: gli esempi, nel diritto pubblico italiano e non, sono tanti e così noti che è inutile ricordarli. Più precisamente, e restringendo il discorso agli organi costituzionali, il fatto che i componenti di quelli rappresentativi sono scelti per elezione ed abbiano il mandato temporaneo è una conseguenza dell’idea di democrazia e non di quella di rappresentanza.

Inoltre, è da valutare se la rappresentanza implichi sempre responsabilità verso qualche soggetto, in particolare, nel caso di rappresentanza elettorale, verso gli elettori o il “rappresentato”.

Anche qui la risposta è tendenzialmente negativa: lo è del tutto, almeno in termini giuridici, se si ritiene – correttamente – che il rappresentato sia un’entità ideale come la Nazione e come il Popolo, e lo è in larga misura se si pensa che siano gli elettori, o meglio il corpo elettorale. Infatti, il rappresentante non è giuridicamente responsabile verso il corpo elettorale, almeno secondo il corrente concetto di responsabilità, lo è invece politicamente.

Con ciò, però, la responsabilità, che si vorrebbe connotato della rappresentanza politica, si rivela comunque assai ridotta. Come si vedrà in prosieguo, la responsabilità politica del rappresentante, lungi dal caratterizzarlo in quanto tale, è essa stessa conseguenza della natura e dei caratteri dell’istituto. Il rappresentante, in altri termini, non è tale perché è responsabile, ma è tale perché, a differenza di altri soggetti di funzioni pubbliche, è quasi totalmente irresponsabile. Tra i due concetti, nella disciplina degli istituti rappresentativi, c’è più opposizione che correlazione.

  1. – Occorre ora connotare positivamente il concetto di rappresentanza. Ma una comprensione di questa non può prescindere dall’analisi della funzione e dalla valutazione di una teoria più volte ripetuta, identificante la funzione delle istituzioni rappresentative nell’essere lo specchio, la “carta geografica” della società come diceva Mirabeau, di guisa da dar voce ai contrastanti interessi ed opinioni.

Orbene, è chiaro che una simile tesi può essere corroborata solo se l’organo rappresentativo è collegiale, abbastanza ampio ed elettivo: caratteristiche che non sempre ha. Di conseguenza, per gli stessi motivi sopra cennati, questa teoria non spiega e non comprende tutti i casi di rappresentanza politica: identifica, cioè, un aspetto accidentale, e tutto sommato subordinato (anche se importante), della composizione ed organizzazione delle istituzioni rappresentative, ma non ne individua i caratteri e la funzione essenziale.

Funzione essenziale che va individuata nel dare capacità di azione politica e quindi di esistenza ad una comunità organizzata.

Potrebbe sembrare strano a chi pensa che rappresentare consista nel dare “una voce”, nel far “partecipare”, ma è proprio questo che può ricavarsi dalla teoria politica e costituzionale positiva del XVII secolo in poi. Un breve esame storico mi permetterà di argomentare tale tesi, d’altra parte già esplicitata da altri.

Infatti Hobbes, nel noto passo del Leviathan (cap. XVI), intuisce tale funzione della rappresentanza giudicando che “una moltitudine di uomini diventa una persona, quando è rappresentata da un uomo o una persona” e nel capitolo successivo chiarisce il concetto: dopo aver descritto gli inconvenienti dello “stato di natura” scrive “il solo modo per stabilire un potere comune, che sia atto a difendere gli uomini dalle invasioni degli stranieri e dalle offese scambievoli… è di conferire tutto il proprio potere ad un uomo o a un’assemblea di uomini, che possa ridurre tutti i loro voleri con la pluralità dei voti, ad un volere solo: che è quanto a dire a deputare un uomo od un’assemblea di uomini a rappresentare le loro persone, ed a riconoscersi… autore di qualunque cosa colui, che così lo rappresenti, possa fare o cagionare…”. In altri termini Hobbes identifica la funzione caratteristica della rappresentanza, nel dare volontà unitaria ad una società umana e con ciò l’unità necessaria ad un’esistenza sicura ed ordinata (cioè, nella visione di Hobbes, è un principio di forma costituzionale).

Passando a Montesquieu, si può leggere che “il grande vantaggio dei rappresentanti, è che sono capaci di discutere gli affari. Il popolo non vi è adatto: e ciò è forse uno dei grandi inconvenienti della democrazia”. E Montesquieu insiste sul fatto che un governo rappresentativo è necessario sia per l’incapacità del popolo di gestire la cosa pubblica, mentre d’altra parte è, ovviamente, vitale che siano prese le decisioni: e non vi è altro sistema per decidere che con rappresentanti.

Arrivando a quella grande fucina del diritto pubblico moderno che è l’opera dei costituenti francesi della fine del ‘700, troviamo Sieyès che fonda la necessità della rappresentanza in gran parte adducendo gli stessi motivi di Montesquieu e, in altra, come effetto della divisione del lavoro. Ma, soprattutto, nell’affermare la sovranità nazionale, l’art. 2 primo comma del titolo III della Costituzione del 1791 afferma “La Nation, de qui seule émanent tous les pouvoirs, ne peut les exercer que par délegation”.

Con ciò la ragione della rappresentanza aveva, in un certo senso, un’espressione costituzionale. Ma del pari, dall’assemblea costituente erano fissati altri caratteri essenziali del rappresentante: l’indipendenza dagli elettori, con il rifiuto dell’imperatività del mandato; la rappresentanza della nazione e non di singole parti o frazioni, anche se organizzate; infine la distinzione tra rappresentante (politico s’intende) ed altri esercenti pubbliche funzioni. In particolare il rifiuto del mandato imperativo e l’affermazione di una rappresentanza “generale” implica una conseguenza di notevole importanza per confutare la tesi della rappresentanza, anche se elettiva, come “specchio” o “carta geografica” della società civile.

Una rappresentanza “frazionistica” comporterebbe la logica conseguenza di istituti simili a quelli medievali e cetuali, col vincolo del mandato e la consapevolezza d’esser delegato di parte: la conformazione di quella moderna invece col vietare l’imperatività del mandato, ed affermare, nel singolo parlamentare, la rappresentanza del tutto, esclude proprio perciò quella della parte. Detto in altre parole, e precisamente con quelle di Santi Romano, le istituzioni rappresentative sono istituzioni necessarie, perché il “popolo, quando non si ha un governo democratico diretto, non ha la possibilità giuridica di curare e tutelare i suoi interessi se non per mezzo di rappresentanti e, di solito, scegliendo esso stesso questi ultimi”.

Che poi vi sia una rispondenza tra corpo elettorale ed eletti, del tipo di quella criticata, è un sovrappiù; ed è errato credere che la rappresentanza politica, così come voluta dai costituenti delle prime costituzioni democratico-liberali, volesse dire dar voce ai contrasti d’opinioni e d’interessi. Tutt’altro: basta leggere il discorso di Sieyés all’Assemblea costituente contro il mandato imperativo del settembre 1789, o il decimo saggio del “Federalista”, per rendersi conto che il frazionamento pluralistico di una rappresentanza elettiva era ciò che questi più temevano; ed il senso di quel “rappresentare la Nazione” (o il popolo) e di agire senza dipendenze è in gran parte rivolto contro gli esiti paralizzanti di un eccessivo frazionamento dell’istituzione, o delle istituzioni, rappresentative.

  1. – Ma detto ciò, e chiarito che funzione della rappresentanza è dar capacità d’azione ad una collettività che “come tale non può agire”, occorre ora vedere cosa sia rappresentato dal rappresentante.

A noi sembra di poterlo riassumere in tre proposizioni: a) che      rappresenti un’entità ideale; b) come unità; c) e come totalità.

Un’entità ideale. – Ho appena ricordato che quasi tutte le costituzioni borghesi postulano che ad esser rappresentata sia la Nazione o il Popolo. Ed è chiaro che né l’una né l’altro sono soggetti concretamente esistenti. Concretamente esistente è una moltitudine di uomini. L’entità “popolo” o quella “nazione” sono pertanto astrazioni ideali, comunque non paragonabili, per intendersi, al Sig. Rossi che nomina procuratore il rag. Bianchi per acquistare una appartamento.

Certo popolo e nazione esprimono particolari legami, anche non politici, esistenti tra uomini, che valgono a costituirli in comunità; ma questo, ovviamente non basta a personificarle.

Del pari, anche là dove – come nelle costituzioni dei paesi del socialismo reale – si parlava di “rappresentanza” del “popolo lavoratore”, o dei “lavoratori”, bisogna dire che anche qui si trattava di entità ideali, che hanno bisogno di essere impersonate per avere una concreta esistenza e capacità d’azione.

Come unita’. – In effetti, il rappresentato è sempre concepito come uno (il popolo, la nazione, i lavoratori, la classe lavoratrice), ma non è solo questo tratto a costituire l’unità del rappresentato, nel (o nei) rappresentante. Anche le istituzioni rappresentative sono produttrici di unità, o per meglio dire, sono esse stesse l’unità. L’intuizione di Hobbes sopra ricordata, che il rappresentante fa di una moltitudine un’unità, è tuttora valida ad individuare uno dei caratteri, forse anzi il principale, sia strutturale che funzionale, della rappresentanza. Senza una struttura rappresentativa una collettività non può agire come unità, ma è solo disordinata espressione di volizioni individuali. D’altra parte ove il rappresentante non sia un solo uomo, ma un collegio, è costituito di guisa da raggiungere l’unità attraverso regole di decisione. Ed è indubbio che un Parlamento, anche quelli meno capaci a decidere perché frazionati e poco omogenei, raggiunge una decisione unitaria (e perciò esprime l’unità) con una facilità enormemente superiore ad un’assemblea di diecine di milioni di persone (del tutto impossibile) o di un referendum (lungo e macchinoso).

E come totalità. – Nella rappresentanza c’è anche il carattere (qualcuno direbbe la pretesa) di rappresentare la totalità implicita nell’entità ideale rappresentata, e spesso statuita esplicitamente nelle carte costituzionali. E’ chiaro comunque come una rappresentanza che non fosse quella della totalità, sarebbe contraddittoria alla propria funzione, di dar capacità d’azione ed esistenza ad una collettività, unitariamente concepita. Il che non significa che non possono coesistere due o più istituzioni rappresentative; esclude soltanto che ciascuna di esse, quando “politica”, rappresenti una parte e non il tutto.

Ciò stante occorre tirare le conseguenze di quanto detto.

In primo luogo appare superata la vexata questio se quella politica sia rappresentanza d’”interessi” o di “volontà”. Di volontà non può essere perché solo una (o più) persone sono capaci di aver una volontà. Se ad esser rappresentato è qualcosa di ideale, è escluso che possa esservi una rappresentanza di volontà come insegnava, anche per altre ragioni, Santi Romano. Non resta, a seguir questa classificazione, che ritenerla rappresentanza d’interessi. Ma con due precisazioni.

Da una parte il carattere pregnante e più rilevante della rappresentanza politica non può trovarsi in tale dicotomia e nella conseguente sussunzione.

In secondo luogo che come rappresentante d’interessi, deve intendersi quel che intendeva il Romano, e cioè la rappresentanza degli interessi nazionali o generali e, non, per intendersi, quelli della corporazione X o dell’associazione Y.

Secondariamente, appare opportuno trattare brevemente della distinzione tra rappresentanza politica (del “Popolo” o della “Nazione”) e quelle istituzioni rappresentative di realtà locali (Regioni, Provincie, Comuni) i cui componenti sono eletti su liste solitamente partitiche, a seguito di campagne elettorali fortemente caratterizzate in senso politico. Non manca chi fa di ogni erba un fascio, riconoscendo carattere di rappresentanza politica agli uni e agli altri.

In effetti tale impostazione non può essere condivisa: sopra accennavamo che la costituzione francese del’91 disponeva (cap. IV, sezione II, art. 2) che “Les administrateurs n’ont aucun caractére de répresentation”. C’era nei costituenti la piena consapevolezza e la volontà di negare ogni carattere rappresentativo (politico) agli agents incaricati delle funzioni amministrative: ciò era fatto prevalentemente risalire al carattere d’indipendenza che hanno i rappresentanti politici e che manca ad amministratori, giudici e funzionari.

Anche nella costituzione italiana vigente il carattere di rappresentanza politica è riconosciuto ai parlamentari (art.67) e al presidente della Repubblica (art.87). Tuttavia, è scritto che il Presidente della Giunta regionale “rappresenta la regione” (art.121), mentre nulla è detto sul carattere di rappresentanza, e tanto meno politica, di altri organi. Ciò non toglie che la rappresentanza, come istituto giuridico derivato dall’analogo privatistico, sia largamente impiegata nelle leggi ordinarie per designare alcune funzioni o i titolari di tali organi.

Ma è certo che non trattasi di rappresentanza politica: il perché è stato tanto spesso ripetuto e con argomentazioni svariate, che appare inutile ricordarlo. Proviamo comunque ad aggiungerne una.

Nella rappresentanza comunemente intesa si esprime una particolare relazione del rappresentante con una persona o un’istituzione, una posizione dello stesso nei confronti del rappresentato o dei terzi.

Così, che il Presidente della Giunta regionale rappresenti la Regione, che il Sindaco rappresenti il Comune in giudizio, è cosa analoga al Presidente della FIAT che rappresenta la società verso i terzi. Invece nella rappresentanza politica l’altro termine del rapporto non è un’istituzione, ma, come cennato, un’entità ideale. Si noti la differenza tra quel “rappresenta la Regione” e la rappresentanza del capo dello Stato e del Parlamento di cui la Costituzione non dice che rappresentano lo Stato ma “l’unità nazionale” e la “Nazione”: non un Ente è rappresentato, ma un quid che di per sé è considerato precedente e superiore a qualsiasi forma, giuridica o politica che sia. Tutto si può dir di concetti come “Nazione” ed “unità nazionale” tranne che si tratti di Enti, di persone fisiche o giuridiche.

E ciò è conseguente al carattere della rappresentanza politica e ne costituisce il connotato pregnante: infatti appartiene a quella categoria di concetti del diritto pubblico in cui il giuridico si salda con qualcosa che giuridico non è, e perciò rimane sempre al di là del diritto.

Sovranità, potere costituente e “diritto” di resistenza sono tra questi. La cosa più interessante è che questi sono, in un certo senso, i punti d’Archimede dell’organizzazione costituzionale, laddove la dimensione esistenziale della politica si congiunge col diritto. Pensare di poterli formalizzare con termini, concetti e relazioni esclusivamente giuridiche, vale a precludersene una comprensione esauriente ed i significati, anche giuridici, più interessanti.

In altri termini la rappresentanza è politica, proprio perché il rappresentato ha un carattere esclusivamente e genuinamente politico, ovvero perché il rappresentato non è per nulla (o è solo in parte) giuridificabile. In effetti, seguendo Carl Schmitt, si può dire con formula generale che il rappresentante rappresenti l’unità politica.

In ciò, nel dar forma ad un’entità informale, ideale e pre-giuridica, è la sua caratteristica peculiare, che lo differenzia dagli altri tipi di rappresentanti, sia di diritto pubblico che privato.

  1. – Dal rappresentare l’unità politica derivano ben precise conseguenze, che è appena il caso di ricordare. Il rappresentante politico è indipendente ed ha la garanzia di questa indipendenza: non ha (quasi) responsabilità giuridica; è sottratto, almeno relativamente, alla giurisdizione ordinaria, e, in alcuni casi, soggetto alla “giustizia politica”.
  2. – Concludendo questo breve excursus su un tema che avrebbe bisogno di trattazione ben più approfondita, devo trarne conseguenze in ordine all’incidenza che le sopra esposte considerazioni possono avere sull’attualità costituzionale.

Quando si propongono riforme volte al fine di facilitare il raggiungimento di maggioranze parlamentari attraverso una riduzione od un accorpamento dei gruppi ( o dei partiti) si sente subito parlare d’attentato al principio rappresentativo; e la “rappresentanza” viene contrapposta al governo secondo un uso risalente al XIX secolo, il cui senso, peraltro, è stato in larga parte smarrito. Le cose non stanno così: un’impostazione del genere identifica nel Parlamento l’unica possibile espressione del principio rappresentativo; e l’essenza di quest’ultimo, come cennato, nella riproduzione “in scala” della società civile.

Si dimenticano così i connotati essenziali della rappresentanza, opposti a questi, ripetuti in tante costituzioni e riconosciuti da tanti giuristi: basti ricordare con le parole di Romagnosi che “il potere governativo in qualunque stato civile, fu è e sarà sempre, rappresentativo” e che, come sopra spesso ripetuto, funzione principale della rappresentanza è dare capacità di agire alla comunità, e non voce ai contrasti sociali.

Le conclusioni che possono trarsi sono opposte a quelle tratte da altri. In primo luogo non è contrapponibile rappresentanza e governo; e tantomeno può identificarsi la prima con il Parlamento.

Rappresentante dell’unità politica può essere anche un organo monocratico, come il Capo dello Stato o un organo collegiale ristretto, come il Governo. Se una rappresentanza parlamentare non è in grado di agire politicamente, di garantire l’unità attraverso congrue decisioni, è buona regola che la rappresentanza dell’unità e della totalità sia assunta da un altro organo costituzionale, in concorrenza con il Parlamento o in esclusiva.

In secondo luogo se al Parlamento vuol conservarsi la funzione rappresentativa occorre che le regole per la formazione ed il funzionamento di questo siano tali da assicurarne la capacità di decidere. E’ certo che, con un Parlamento frammentato in gruppi o gruppetti, largamente condizionato  dagli interessi organizzati, tormentato dai tattici del voto segreto, la decisione politica è merce rara. Con un Parlamento del genere non si ha il “massimo di rappresentanza, ma il minimo di governo”.

 

TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE

 

 

 

sovranità, sovranismo e sovranismi, di Giuseppe Germinario

L’esito clamoroso delle elezioni politiche dello scorso marzo e l’avvento repentino ed inatteso del Governo Conte hanno contribuito a rinnovare il vocabolario politico ormai stantìo come lo erano del resto i portatori  della cultura politica corrispondente ad esso. Uno dei termini assurti ad improvvisa notorietà è “sovranismo”. Un termine che in Italia ha fatto capolino da meno di un decennio, ma che in paesi come gli Stati Uniti e la Francia è utilizzato senza scandalo da lungo tempo.

Ad ascoltare le vecchie trombe, sempre onnipresenti sui giornali e nei rotocalchi, nelle rubriche e nei servizi di cosiddetta informazione televisiva non ostante il netto ridimensionamento e la sonora sconfitta, si tratterebbe di un mero insulto associabile tranquillamente a quelli da sempre in auge di fascismo, di nazionalismo, di populismo e via dicendo. Un repertorio ultradecennale di etichette ormai ritrito e dal significato sempre più vacuo riproposto da personaggi sempre meno credibili; una rimozione di concetti che impedisce ogni parvenza di confronto.

Non c’è da attendersi, per altro, da una vecchia classe dirigente decadente e smarrita, addomesticata da decenni a delegare a terzi le scelte fondamentali, ormai nessuno sforzo di comprensione della nuova fase di competizione e conflitto nell’agone internazionale.

Eppure la radice e l’etimologia e il significato del termine originario, sovranità, dovrebbe indurre a maggior curiosità e rispetto proprio perché sottende uno dei principi fondanti dell’impegno politico; di qualsiasi impegno politico di qualsivoglia orientamento.

LA SOVRANITA’

Il concetto di sovranità sottende senz’altro la decisione sulla base di propri orientamenti generali, senza la quale ogni attività politica sarebbe priva di senso; sottende quindi un discrimine. La decisione, a sua volta, per avere senso deve quantomeno cercare di essere messa all’opera e in qualche maniera essere riconosciuta anche dagli oppositori, se presenti in maniera significativa. La normazione e l’istituzionalizzazione forniscono le modalità e i luoghi operativi del complesso delle decisioni e diventano quindi l’oggetto, i regolatori e i condizionatori del conflitto politico tra centri tra loro cooperanti e/o conflittuali, almeno sino a quando quelle modalità sono accettate dalla comunità in maniera prevalente. Il presupposto basico di questa abilità operativa è la disponibilità di forza e la capacità di potenza. Lo stato nazionale è la forma istituzionale che a partire dall’età moderna regola e conduce in maniera sempre più diffusa e pervasiva le dinamiche politiche all’interno e tra le varie formazioni sociali nel mondo nei vari ambiti dell’attività umana.

IL SOVRANISMO

Il termine sovranismo viene coniato e utilizzato, più nella polemica politica che, purtroppo, nel confronto teorico, per affermare la necessità di salvaguardare e potenziare appunto le prerogative dello stato.

Rispetto, però, a chi e cosa?

Pare poco contestabile che esso assuma la maggiore nitidezza e potenza di significato nel confronto e nella contrapposizione con il processo di globalizzazione. Una dinamica quest’ultima di uniformizzazione e di progressivo abbattimento di frontiere per certuni innescata e gestita da un ristretto cartello di potentati organizzato in gruppi elitari (Bilderberg, ect) ed espressione diretta dell’alta finanza. In esso lo Stato viene visto come mero strumento a condizione che sia ridotto di dimensione e svuotato di funzioni oppure come una entità destinata a liquefarsi a vantaggio di organismi sovranazionali sempre più determinanti sotto il ferreo controllo del cartello. Per altri il processo di globalizzazione viene visto come un processo naturale che porterebbe alla costruzione di un governo unico mondiale, fondato per lo più su principi morali minimi e sul diritto universale. In esso gli attuali stati verrebbero a fondersi in unità continentali e quindi a sciogliersi o subordinarsi sotto una unica entità. La conduzione delle società al di là di quei principi minimi comuni sarebbe affidata a comunità particolari autogovernate o attraverso una regolazione spontanea tra individui.

È un successo e nitore di significato poggiati su basi fragili e su una rappresentazione inadeguata delle dinamiche politiche. Il nemico è tanto rappresentato nitidamente quanto inafferrabile e sfuggente all’atto pratico.

La finanza è nient’affatto un cartello unico, tantomeno la detentrice del potere assoluto mondiale e il burattinaio delle infinite trame nello scacchiere geopolitico; nemmeno l’artefice unico delle disuguaglianze tra un pugno di satrapi ed una massa di diseredati così come rappresentate con pressapochismo preoccupante.

Naufragata miseramente l’illusione della contrapposizione tra masse peripatetiche all’inseguimento dei notabili riuniti periodicamente nelle località più amene e il POTENTATO le cui prerogative sono realizzate soprattutto attraverso gli organismi sovranazionali (FMI, BM, WTO, ect), rimarrebbe quindi la contrapposizione tra gli stati e il cartello suddetto. Da qui la rivendicazione delle prerogative sovrane dello Stato ai danni di questo e degli organismi sovranazionali usurpatori.

I LIMITI POLITICI DI CERTO SOVRANISMO

Una chiave di lettura che induce a indirizzi e obbiettivi politici sterili se non controproducenti

I potenti della finanza, in realtà, non costituiscono un cartello compatto, tantomeno sono i decisori ultimi dei destini del mondo. Sono parte integrante dei vari centri strategici decisionali in cooperazione e conflitto tra loro i quali devono disporre e far parte in via prioritaria delle leve istituzionali, quindi degli apparati statali, per il perseguimento delle loro strategie in conflitto. Non si tratta di un uso meramente strumentale. Sono centri che hanno bisogno di leve e di radicamento, quindi di istituzioni, di un territorio dei quali fanno parte; sono espressione e guida di una comunità e di una formazione sociale originaria. In questa dinamica i decisori della finanza sono quindi condizionabili al pari di altri.

Quella rappresentazione infatti induce ad una contrapposizione sterile e meramente declamatoria nei riguardi di figure praticamente inafferrabili.

La contrapposizione Stati/cartello della finanza spinge alla proposta e creazione di un cartello degli stati, pressoché tutti indistintamente sminuiti e svuotati dall’avversario ed interessati, in alcuni casi con il necessario ricambio di classe dirigente, quindi alla Santa Alleanza. Nell’attuale e futuro contesto geopolitico verrebbero a formarsi alleanze politiche paradossali ed improbabili del tutto irrealistiche, le quali riproporrebbero sotto mentite spoglie il consueto conflitto tra centri decisionali e tra stati nazionali, con le loro gerarchie, le loro subordinazioni e i loro dualismi.

Agli organismi sovranazionali si tende ad attribuire una potestà propria che non hanno oppure possiedono di riflesso per conto di questi centri e degli stati nazionali dominanti. Sono il frutto di trattati e il luogo entro i quali e attraverso i quali si esercita l’egemonia e nei momenti transitori la rivalità dei centri e degli stati dominanti. La loro giurisdizione, nei pochi casi di affermazione, non è equiparabile a quella esercitata dagli stati nazionali al proprio interno ed è nel migliore dei casi di tipo riflesso; devono appoggiarsi, quindi, alla forza degli stati. Quelli che sono dei semplici strumenti e servitori assumono, secondo la chiave offerta dal dualismo sovranismo/globalismo, il ruolo di attori dominanti con tutte le incongruenze del caso. In alcuni casi tendono a conquistarsi alcuni margini di autonomia operativa come succede ad esempio in alcune fasi alla Commissione Europea. Tali margini sono però il frutto della prevalenza dello spirito comunitaristico che tende ad attribuire pari peso a tutti i numerosi paesi della Unione Europea, un filo conduttore tipico, ad esempio, della diplomazia comunitaria italiana notoriamente pesantemente subordinata ad indirizzi esterni; soprattutto, tali margini sono possibili grazie alla subordinazione diretta, in una fase di frammentazione politica, e non mediata al deus ex machina dell’Unione Europea, gli Stati Uniti.

Il dualismo sucitato nasconde inoltre un altro grande dilemma irrisovibile secondo lo schema proposto.

Il dualismo sovranismo/cartello finanziario vorrebbe rappresentare efficacemente una dinamica universale alla quale vengono sussunti i vari eventi politici. Il duro confronto con la realtà geopolitica spinge però a ridurre surrettiziamente il dominio del cartello in realtà al solo mondo occidentale. Diventa difficile, allora, spiegare e collocare correttamente il ruolo degli agenti finanziari operanti nei paesi emergenti e rivali del polo statunitense ancora prevalente. Un dominio universale diventerebbe, quindi, relativo e soprattutto localizzato. Gli avversari di questo presunto dominio tendono ad assumere l’aura dei paladini dell’emancipazione e dei fautori di un nuovo ordine sociale più giusto ed egualitario perché capaci di riaffermare “la priorità del politico sull’economico” e di regolare meglio il potere degli agenti finanziari. Si tende quindi a nascondere il fatto che anche gli avversari del polo occidentale, per altro tutto da ricostruire, sono altrettanti agenti di influenza tesi a creare proprie aree geopolitiche di controllo e di dominio di dimensione regionale o globale a seconda delle capacità delle rispettive classi dirigenti. Fautori di nuove formazioni sociali dove comunque si esercita il dominio di élites e centri decisionali con le proprie gerarchie di comando, i propri conflitti, le proprie modalità di sopraffazione e di costruzione delle gerarchie sociali, pur rappresentando alternative positive rispetto ad una prospettiva di dominio unipolare, vengono esibiti come paladini di un modello e di un riscatto sociale a dir poco mitizzato.

In realtà quella rappresentazione attribuisce all’economico, addirittura ad un particolare aspetto di esso, la finanza, una funzione malposta e sopravvalutata. Non è l’economico che predomina; prevale in alcuni contesti e in alcune fasi l’esercizio delle strategie politiche nell’economico rispetto agli altri ambiti. Strategie che hanno comunque bisogno del supporto della forza e normativo proprio degli Stati. Prevale in particolare nei momenti di predominio unipolare quando l’uso della forza e dell’influenza politica diretta può essere più discreto e velato. Assume una appariscenza abbagliante per il carattere ancora particolarmente sofisticato del sistema di dominio ed influenza dell’area occidentale rispetto a quello dei poli emergenti alternativi e sempre più contrapposti, siano essi regionali che globali. L’apparenza del dominio della finanza, così come la rappresentazione liberista dei legami economici, del tutto misitficante rispetto alla realtà delle barriere e dei vincoli che la stessa potenza prevalente, analogamente ai competitori tende a frapporre, tende a nascondere l’ambizione di dominio unipolare di una potenza, dei suoi centri decisionali dominanti, del suo Stato rispetto ai concorrenti. La stessa finanza, i suoi agenti, sono compartecipi di queste dinamiche ed oltre ad assumere la veste scontata di predatori sono i coartefici di un traghettamento di risorse economiche teso a garantire la coesione minima delle formazioni sociali e le risorse che consentano l’esercizio e la realizzazione delle strategie politiche.

I SOVRANISMI

La dura realtà delle dinamiche geopolitiche e delle trasformazioni sociali sempre più convulse sta facendo scivolare di fatto la rappresentazione sempre più inadeguata del dualismo sovranismo(Stato)/cartello della finanza verso un confronto tra “sovranismi”. Tra centri decisionali i quali, attraverso l’affermazione delle prerogative dello Stato, riescono a prevalere e predominare ed altri che tendono prevalentemente a subire da alcuni e influenzare in maniera subordinata altri di rango inferiore. In questo contesto il termine “sovranismo” è destinato ad affermarsi, ma a sfumare di significato e valenza simbolica, giacché tende a rappresentare sia gli aspetti di emancipazione che quelli di predominio dell’esercizio delle prerogative statuali. In ogni caso l’azione politica e la strategia politica, nei suoi vari ambiti di azione, è destinata a riprendersi il suo ruolo nel dibattito teorico e nella rappresentazione degli eventi. Con essa tornerà ad assumere una più corretta collocazione il ruolo della forza, della potenza, dell’egemonia e più prosaicamente il ruolo e la funzione dello Stato e delle sue istituzioni sia nel sistema di relazioni internazionali, sia nelle dinamiche interne proprie di funzionamento attraverso il confronto tra centri decisionali, sia nella funzione di plasmare le formazioni sociali.

Alcuni studiosi più avveduti hanno stigmatizzano l’uso del termine da parte di forze politiche approssimative le quali ipotizzano la necessità di un’azione solitaria, solipsistica, atomistica degli stati nazionali, in particolare dell’Italia, nel contesto geopolitico. Una condizione irrealistica anche rispetto a quelle di alleanze instabili e mutevoli tipiche di paesi in grado di esercitare una significativa sovranità e propria di fasi politiche di transizione. Non si tratta solo di primitivismo; spesso si tratta di una particolare forma di sovranismo che tende ad attribuire ancora una volta alle relazioni economiche la prevalenza se non l’esclusività. Una posizione, ad esempio, espressa sino a poco tempo fa da un personaggio politico lucido come Claudio Borghi nella Lega. Una espressione tipica, ad esempio, di ceti imprenditoriali medi e piccoli i quali vedono in uno stato nazionale del tutto sganciato da alleanze e vincoli la possibilità di costruire relazioni economiche ed affari con qualsivoglia soggetto. Ancora una volta un modo di riproporre l’irrealistica superiorità e l’universalismo mitizzato dell’economico rispetto alla limitatezza dell’azione politica. Certamente la dura realtà sta costringendo Borghi a modificare nei fatti tali convinzioni. La mancata razionalizzazione di tali cambiamenti può però spingere a situazioni nefaste ed imprevedibili, almeno rispetto alle intenzioni dell’attuale nuova classe dirigente in via di formazione.

IL FUTURO DEL SOVRANISMO

Tutto ciò sembra spingere i più accorti ad accantonare il termine, piuttosto che salvaguardarlo e potenziarlo di significato rispetto a queste rappresentazioni riduttive. Una rinuncia che somiglia ad un rinvio e ad una resa in una fase di battaglia politica aperta da risolvere sul campo del confronto teorico e dell’analisi politica. Così come appare pericoloso il tentativo di attribuire un attributo, sia esso popolare, costituzionale o altro, al termine sovranità in modo tale da contrapporre in termini antagonistici, nel classico schema destra-sinistra, i vari sovranismi, patriottismi e nazionalismi che dir si voglia in una fase in cui gli antagonisti da sconfiggere sarebbero altri. Una tentazione ricorrente che sente il bisogno di associare il termine sovranità ad entità astratte o reali, come quella di popolo, le quali non esercitano per costituzione o fattualmente il loro potere decisionale se non attraverso l’influenza e la azione di élites e centri decisionali. Un discorso che meriterebbe e meriterà attente considerazioni a parte.

Sono limiti ed incomprensioni che non riguardano fortunatamente solo questo campo politico.

LE FAGLIE

George Soros, presentato come l’essenza del protagonismo e l’onnipotenza del predominio globalista, lo ha implicitamente disvelato nella insolita sequela di interventi ed interviste di questo, in particolare nel suo intervento, ben coadiuvato dai suoi adepti e serventi ossequiosi, al festival dell’economia di Trento.

Ha semplicitamente incluso in un “annus horribilis”, giustificato da imprecisati errori la sequela di sconfitte politiche iniziate con l’elezione di Trump e proseguite con l’affermazione di Orban in Ungheria, Kurtz in Austria, la triade Conte-Salvini-Di Maio in Italia e la mancata elezione di procuratori legali di fiducia (avete letto bene) negli Stati Uniti; ha risolto il dilemma politico, confortato dalla sola elezione di Macron in Francia, rivelatasi progressivamente effimera, suggerendo semplicemente pragmatismo.

Soros, non ostante la vulgata, non è il deus ex machina della globalizzazione. È una pedina importante ed influente di un centro strategico e finanziario colossale, i Rotschild, a loro volta parti di centri decisionali ben più importanti e dal raggio di azione ben più ampio dell’ambito finanziario.

Dispongono di un armamentario ideologico, di apparati e di forza ancora impressionanti, superiori ma non più esclusivi; non dispongono di una strategia vincente e soprattutto ancora in grado di prendere atto della incipiente formazione di nuovi poli di potenza autonomi.

Un logoramento evidente, reso con ogni evidenza trasparente negli Stati Uniti, laddove nuove élites stanno riuscendo a cristallizzare in centri di potere e negli apparati le loro azioni politiche e le loro strategie sia pure al prezzo di pesanti compromessi. Meno determinante in Europa laddove la loro crisi si manifesta in una condizione di stasi nei paesi egemoni (Francia e Germania) e nella prevalenza di forze “sovraniste” in Europa Orientale imbrigliate dalla russofobia e suscettibili quindi di prestarsi a nuove e più stringenti subordinazioni di stampo atlantista. Nel mezzo la situazione italiana ormai oscillante verso questa seconda opzione.

Come chiarito da Piero Visani nella recente intervista su questo blog, si tratta di una di quelle rare faglie che periodicamente si aprono nel contesto geopolitico e nella coesione delle formazioni sociali le quali, però, non durano indefinitamente. Il miracolo raro nelle contingenze politiche deve essere la concomitanza tra contingenza politica favorevole e la formazione di un ceto politico adeguato a coglierla. I tempi di formazione dell’una il più delle volte non coincidono con quelli dell’altra.

Esiste una prima traccia della formazione di due internazionali. Quella globalista, consolidata e strutturata, forte della sapienza maturata negli ultimi quaranta anni, prosegue pervicacemente anche se annaspa nella visione generale. Quella cosiddetta “sovranista”, rappresentata dall’avvento in Europa di Bannon, un personaggio politico come minimo ormai ai margini della battaglia politica negli USA, portatore della ipotesi sovranista criticata da questo articolo. Potrebbe essere, purtroppo, il prodromo di una deriva di questi movimenti ancora nascenti. Il fatto che le redini siano in mano a due esponenti politici militanti americani dovrebbe indurre a qualche cautela maggiore nelle scelte. Altra cosa è il dibattito politico e teorico sul quale gli studiosi e strateghi americani sono più avanti di parecchie spanne. Su questo il confronto dovrebbe essere molto più serrato.

 

Crisi della sinistra. Botta e risposta tra T. K. de la Grange e Carlo Gambescia

Qui sotto un interessante e puntuale confronto tra due rappresentanti eminenti del pensiero liberale italiano sulla crisi della sinistra. Il segno di come l’affermazione progressiva delle categorie del realismo politico stia divaricando sempre più le posizioni all’interno delle grandi correnti del pensiero politico affermatesi nei due secoli precedenti aprendo finalmente, anche in Italia nuove strade e nuove e più adeguate chiavi di interpretazione del contesto politico. Buona lettura, Giuseppe Germinario

qui il link originario https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/

La crisi della sinistra

Botta e risposta tra Teodoro Klitsche de la Grange e Carlo Gambescia

Caro Carlo,

a distanza di cinque mesi dal 4 marzo e di parecchi anni dal momento in cui si capiva che il vento della storia stava cambiando, la sinistra non si è ancora rassegnata al deperire della dicotomia destra/sinistra, o meglio, borghese/proletario, come scriminante (prevalente) dell’amico/nemico.

A fronte di qualcuno che avverte la necessità di un “populismo di sinistra” (alla Laclau?), il che significa aver maturato la convinzione che il “vecchio” armamentario è ormai obsoleto, ve ne sono altri, più incardinati nell’establishment, i quali ritengono: a) che quella distinzione non sia obsoleta; b) che potrà riemergere; c) che il di essa deperimento di questa sia il frutto della (più abile) propaganda populista; d) e comunque è radicata e pertanto non tarderà a manifestarsi di nuovo.

Il tutto spesso confondendo tra distinzione del secolo breve (borghese/proletario) con altre scriminanti (e lotte) di classe. Se nel “Manifesto” del partito comunista Marx ed Engels sostengono che “La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue tuttavia perché ha semplificato i contrasti fra le classi. La società intera si va sempre più scindendo in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente opposte l’una all’altra: borghesia e proletariato” è pur vero che scrivono anche che “La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotta di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta”; ossia identificano come costante la lotta di classe, in particolare tra oppressori ed oppressi, ma come variabile il discrimine tra i gruppi sociali contrapposti. Il problema che si pone, cui occorre dar risposta non è se esiste o meno il conflitto, e neanche se esista  o meno tra “oppressi e oppressori” – domande la cui risposta è “scontata” – ma se sopravviva quella tra borghesi e proletari e, ancor più se abbia ancora il carattere di scriminante politica prevalente, o piuttosto non sia ormai neutralizzata e depoliticizzata come, in altri periodi storici, quella tra cattolici e protestanti, rivoluzionari (borghesi) e reazionari dell’ancien régime, e così via.

È un tratto comune a tali ragionamenti della sinistra in affanno di essere iniziati da due-tre anni (o poco più), cioè da quando il doppio colpo dell’elezione di Trump e della Brexit dimostrava che la “ribellione della masse” alle politiche delle élite era così intensa da prevalere prima nel “centro” dell’impero, e in due Stati particolarmente importanti.

Qualche giorno fa ha suscitato un certo dibattito l’affermazione dell’on. Franceschini secondo il quale al PD occorre impedire che si consolidi il “blocco sociale” corrispondente alla maggioranza populista di governo (dividere e quindi ridurre i nemici è la migliore tattica per conseguire la vittoria, come già espresso dal detto romano divide et impera). Resta da vedere se una simile tattica sia ancora tempestiva e credibile essendosi già costituito il “blocco sociale” populista sul rifiuto delle terapie, sostenute (più) energicamente dal PD nell’ultimo ventennio, di aumento delle imposte e riduzione delle prestazioni sociali (mentre il “contratto di governo” prevede diminuzione di quelle e aumento di queste).

Più ancora la separazione delle élite (PD e non solo) dalle masse (il nuovo “blocco sociale”) era stata prevista già da decenni da commentatori e intellettuali marginalizzati dall’establishment, non solo italiano. E non era, di converso, affatto capita dalla cultura “ufficiale”.

All’uopo, caro Carlo,  credo sia  interessante rileggere – tra i non tanti – un libro pubblicato nel 1997 da un piccolo e coraggioso editore, deceduto da oltre quindici anni, Antonio Pellicani, “Destra/Sinistra” che raccoglie le opinioni al riguardo di pensatori italiani e non, i quali declinavano in vario modo il deperimento della distinzione destra/sinistra e il progressivo distacco dalla classe dirigente dei governati (in particolare gli elettori dei partiti di sinistra).

Il volume, proprio perché collettaneo, dimostra come, oltre vent’anni orsono, la distinzione suddetta fosse in via di neutralizzazione e come tale considerata sempre meno sentita ed utilizzabile. Tutti gli autori del libro erano marginali rispetto al “pensiero ufficiale” italiano, e neppure granché amati all’estero; tuttavia, a leggerlo ora, si può, in larga misura, constatare che le valutazioni lì fatte mostrano una preveggenza di larga parte di quanto sarebbe successo, in Italia e all’estero, nei successivi vent’anni.

In particolare l’attenzione dei suddetti autori si era soffermata sui seguenti punti:

1) il progressivo distacco tra classi dirigenti e popolo, peraltro analizzato sotto diversi profili (politico, di costumi, di convinzioni, di modi di vita, di redditi).

2) In conseguenza la scarsa considerazione dei governanti verso i governati, sulla scorta del noto lavoro di Cristopher  Lasch “La ribellione delle élite”.

3) E sempre di conseguenza la mera e calante rappresentatività del popolo da parte delle élite, per cui partiti asseritamente o storicamente “aperti” ad istanze dei meno abbienti (come quelli progressisti), perdevano consensi malgrado che, in taluni casi, le condizioni dei loro (ex) elettori fossero peggiorate.

4) La difesa delle “particolarità” nazionali rispetto alla globalizzazione.

5) La perdita di senso della distinzione destra/sinistra o meglio Borghese/proletario

Di tutte, questa era la previsione più facile:  una volta imploso il comunismo e L’Unione Sovietica, la “ guerra fredda” era cessata per…K.O. tecnico. È vano cercare contributi altrettanto  preveggenti  nei politici e intellettuali della sinistra (o del centro sinistra) italiano. Per vent’anni la loro liturgia ha oscillato tra anatemi all’arcinemico Berlusconi ( che poi tanto nemico, oggettivamente, non è mai stato ma, piuttosto un concorrente al potere) paragonato a Hitler a Videla, e Te deum alla Costituzione più bella del mondo, che, nel frattempo era spesso disapplicata allegramente – e da coloro che salmodiano.

Di analisi come quelle testè ricordate, e che tenessero conto delle novità in arrivo, non risultano; se non, e alla  lontana, l’Impero  di Negri – Hardt (peraltro anch’essi pensatori non proprio ortodossi).

A questo punto occorre prendere atto della scarsa chiaroveggenza di un certo settore delle classi dirigenti, in particolare di quelli che avevano più spazio nella cultura – e nell’industria culturale – di regime. Spazio completamente negato agli altri. Ancora qualche mese fa, uno degli autori di quel libro – e di tanti altri sul tema – Alain de  Benoist, è stato attaccato – e con esso la Fondazione Feltrinelli – con un appello di insegnanti di università, perché non fosse invitato a parlare a un Convegno della Fondazione, in quanto ideologicamente di destra. Ma dato che De Benoist da trent’anni va ripetendo proprio quelle tesi che successivamente sono state confermate dai fatti,, sarebbe il caso, per i suoi contestatori, che lo andassero ad ascoltare, dato che i suoi libri non hanno probabilmente mai letto, e sicuramente non hanno capito.

Discriminare ideologicamente, quando le analisi eretiche, confortate dai fatti, provano il contrario, è solo imitare donna Prassede che, come scrive  Manzoni, aveva poche idee ma a quelle era – come agli amici – incrollabilmente affezionata.

E più ancora, che se politici ed intellos  non hanno previsto nulla di quello che stava accadendo – non fosse altro che per attutire la loro caduta prevedibile e da altri prevista – le spiegazioni possibili sono soltanto due, non antitetiche ma concorrenti. La prima che la loro “cassetta degli attrezzi”, cioè, in massima parte, il marxismo e un certo illuminismo in parte distorto, in altre depotenziato, non è il migliore paio d’occhiali per leggere la realtà e la storia. L’altra, che quella cassetta non la maneggino bene. Ovvero che i risultati negativi non sono dovuti allo strumento ma all’operatore. Il che conforta la necessità di cambiare la classe dirigente italiana – o almeno gran parte di essa.

Perché, caro Carlo,  al contrario del criterio selettivo di Deng-Tsiao-Ping che l’importante non è il colore del gatto, ma che acchiappi i topi, in Italia da tanti decenni si applica il contrario: di scegliere il gatto in base al colore, invece che alla capacità di cacciare i topi.

E i risultati, purtroppo per la nazione, si vedono.

Un caro saluto,

Teodoro Klitsche de la Grange

***

 Caro Teodoro,

lungi da me l’idea di voler difendere la sinistra, ma questa tua idea che la dicotomia destra-sinistra rinvii alla dicotomia borghesi-proletari e che di conseguenza, venuta meno questa sia venuta meno quella, scusami, non sta in piedi.

Eppure tu sei, come me  buon lettore,  di Pareto.  Potranno mai cadere i due principali residui   psico-sociologici  da lui individuati? L’istinto delle combinazioni  e la persistenza degli aggregati?  Il primo rimanda alla psicologia e pratica  progressiste, il secondo a quelle conservatrici.  E Pareto, fornisce esempi storici di un destra-sinistra, che va al di là delle etichette, ma che  esiste, anzi pre-esiste, in  natura sociale e politica,   risalendo fino agli antichi romani.  Altro che Marx e  Schmitt…  Certo, le loro analisi sono  interessanti, ci mancherebbe altro.  Ma, ecco il punto,  limitate al mondo moderno e comunque ripiegate su una visione della realtà sociale panpolitica (Schmitt) e paneconomica (Marx): da un lato le depoliticizzazioni (Schmitt), dall’altro il conflitto tra borghesi e proletari (Marx).  Non scorgono altro. Semplificando,  Pareto parla a tutti.   Schmitt e Marx al proprio pubblico.

Inoltre,  le idee dell’inutilità della sinistra e della destra  e  del  cosiddetto conflitto élite  vs popolo, non è che risalgano al convegno di Perugia,  che anch’io ricordo bene (con l’editore, Antonio Pellicani, bella e dotta persona)… Ma, per dirla con Pareto, rimandano  a una  derivazione,  o razionalizzazione ex post,  inventata e usata  dalle destre reazionarie, bonapartiste, fasciste e populiste per andare contro la legittimazione  liberale della democrazia rappresentativa post-1789.
Ovviamente, come aveva giustamente visto Ortega,  siamo davanti a una  derivazione, di volta in volta, sadicamente rimescolata come un  mazzo di vecchie carte, con le grandi questioni sollevate  dalla società di massa, ma sempre nei  termini di pesanti offensive  contro le  élite liberali. A prescindere.
Ciò spiega, perché  il  populismo, continuazione del fascismo con altri mezzi (per ora), insista sulla fine delle dicotomia destra-sinistra e, quando si dice il caso, sul superamento del Parlamento.

Non capisco, come un liberale del tuo valore,   rilanci, contro la   sinistra,  le stesse  critiche dei populisti e ancora prima dei fascisti. In Italia, il Centrosinistra (senza trattino…),  sta  pagando  il   prezzo per  aver governato  sette anni, portando fuori il paese dalla crisi: i dati economici, fino a giugno, sono a lì a confermarlo.  Opera non indolore, ma necessaria. E dunque meritoria. Facendo per giunta fronte, non sempre linearmente (lo ammetto), contro il populismo.   A differenza, caro Teodoro,  di quella  plutocrazia demagogica, per dirla sempre con Pareto,  che invece nel Primo Dopoguerra, pur di restare al comando, si alleò con Mussolini. Va detto che anche allora molti liberali non capirono la gravità del momento. E il prezzo da pagare  fu molto salato.

Pertanto,  se ora,  c’è una critica da fare alla  sinistra è proprio quella di strizzare l’occhio ai populisti. Scelta  che implica, l’accettazione della  tesi reazionaria, anche a sinistra,  del  superamento della dicotomia destra-sinistra. Certo,  non nego che il PD –  o una parte del PD –   sostenga di voler aprire un dialogo con le forze di sinistra  interne a Cinque Stelle, puntando su una specie di populismo al quadrato, appena temperato da un  antifascismo di maniera contro Salvini, l’altro azionista di maggioranza.

In realtà, facendo  così, la sinistra spiana la strada al populismo (come se già non bastasse il notevole lavorio della destra post-berlusconiana, perfino liberale…). Non  la si apre di certo  a una sinistra riformista, democratica, rispettosa delle istituzioni rappresentative,  dell’economia di mercato  e, cosa più importante dell’esistenza stessa del principio  di  alternanza (che secondo Sartori, e non solo, definisce la democrazia dei moderni).   Si spiana la strada invece  a quello che tu, incautamente, chiami “nuovo armamentario”,  che invece, come insegna Pareto, nuovo non è.  E poi,  perché gli italiani dovrebbero preferire la copia all’originale?   Questo –  scusami –  dovevi scrivere nel tuo articolo.

Quanto al colore del gatto, caro Teodoro, non tutti i gatti sono uguali. Mussolini era un gattone, nero, che  dopo aver cacciato i topolini rossi, se la prese con quelli bianchi, rosa, gialli,  e via discorrendo. Il colore conta,  eccome.

Ricambio il caro saluto.

Carlo Gambescia

La replica di Teodoro Klitsche de la Grange  e la  controreplica di Carlo Gambescia

Che c’entrano Marx, Schmitt e Pareto  con la crisi della sinistra? 

Caro Carlo, la tua stimolante e dotta risposta al mio articolo, da te titolato “La crisi della sinistra” mi dà il diritto “forense” alla replica (*)
Tu inizi col criticare “questa tua idea che la dicotomia destra-sinistra rinvii alla dicotomia borghesi-proletari e che di conseguenza, venuta meno questa sia venuta meno quella, scusami, non sta in piedi” e continui poi col contrapporre la tesi di Pareto (sui residui) per cui “Potranno mai cadere i due principali residui   psico-sociologici da lui individuati? L’istinto delle combinazioni e la persistenza degli aggregati?  Il primo rimanda alla psicologia e pratica progressiste, il secondo a quelle conservatrici” mentre le analisi di Marx e Schmitt sarebbero “limitate al mondo moderno e comunque ripiegate su una visione della realtà sociale panpolitica (Schmitt) e paneconomica (Marx): da un lato le depoliticizzazioni (Schmitt), dall’altro il conflitto tra borghesi e proletari (Marx).  Non scorgono altro. Semplificando, Pareto parla a tutti.   Schmitt e Marx al proprio pubblico”.

Ma non è così: le analisi di Marx e Schmitt hanno carattere universale (o almeno pretendono di averlo). La lotta di classe è secondo Marx, una costante storica; l’amico-nemico di Schmitt una regolarità (Miglio) e presupposto (Freund) del politico, come tu ben sai.

Quello che fa la differenza tra le varie opposizioni è il contenuto della distinzione: per quella borghese/proletario è la proprietà dei mezzi di produzione, mentre per le altre ricordate nel Manifesto del partito comunista la scriminante è la libertà personale (liberi e schiavi), l’appartenenza gentilizia (patrizi e plebei), il ruolo politico (baroni e servi della gleba) e così via. Ancor più vario il contenuto della distinzione schmittiana che, non essendo economicista, è aperta ad ogni dicotomia (a fondamento religioso, economico, sociale) che sia in grado di contrapporre i gruppi sociali secondo il “criterio del politico”. Per cui proprio non le vedo le tesi di Schmitt e Marx limitate alla storia europea moderna. Quanto alla distinzione destra/sinistra, notoriamente risalente alla divisione tra partiti nel Parlamento francese all’epoca della restaurazione, tra liberali e ultras – conservatori, mi pare:

  1. a) che sia generica al punto di equivocare sul dato fondamentale: quel’è il fondamentum distinctionis della contrapposizione? Per i liberali e gli ultras era il potere del Parlamento o del Re; per i borghesi e i proletari la proprietà dei mezzi di produzione.
  2. b) Riportarla ai residui paretiani da te citati, è anch’esso generico e facilmente contestabile. Oggi appartiene alla “persistenza degli aggregati” sia considerare decisiva per la distinzione suddetta la proprietà dei mezzi di produzione (lascito del “secolo breve”), sia il querulo richiamo allo Stato sociale e ancor più l’implementazione di questo con una fiscalità rapace e la compressione di prestazioni e garanzie giuridiche, ampiamente praticate nella “seconda repubblica”, sia i peana alla “Costituzione più bella del mondo” che tale non era, ma, ancor più, è stata ampiamente disapplicata (in peggio) – dalla “seconda repubblica”, ancor più che dalla prima.

Peraltro, in politica si giudica in base ai risultati più che all’intenzione. E tutti i dati – da ultimo quelli pubblicati sul numero dell’ “Espresso” ora in edicola, mostrano che la “seconda repubblica” ha avuto i peggiori risultati economici tra tutti i paesi dell’UE, che il rapporto debito pubblico/PIL è aumentato negli ultimi dieci anni, e così via. Pensare che di fronte a un tale sfascio non vi sia una incapacità di comprensione (e una responsabilità) della sinistra, magna pars del potere e del governo, è un giudizio troppo benevolo.

In realtà, ma occorrerebbe molto spazio per argomentare è che, gli ultimi decenni al criterio borghese proletario se ne sia sostituito un altro. Proprio come è sotteso al successo populista. Prenderne atto, e agire di conseguenza, è urgente. Pretendere di valutare la nuova situazione con lo sviluppo concreto e lo strumentario concettuale del secolo breve, come fa l’establishment della sinistra di regime, è imitare donna Prassede, come ho scritto. O, più paretianamente, si può considerare un caso-limite di persistenza degli aggregati.

Con la concreta stima ed amicizia.

Teodoro Klitsche de la Grange

***

Grazie Teodoro della gentile e,  come tuo stile, forbita replica.   

Vengo subito al punto, anzi ai punti.

Marx, Schmitt, Pareto (P.S. Su Freund, da te introdotto, va fatto un discorso a parte e in altra sede).  È vero che il conflitto di classe e il conflitto  amico-nemico sono considerati, rispettivamente da Marx e Schmitt, regolarità e costanti, ma d’altra parte   Marx e  Schmitt,  non le  riconducono  al concetto sociologico, realmente universale,  di conflitto, che, come vedremo non sta in piedi da solo. Mi spiego.  Marx  universalizza  la sottospecie (sociologicamente parlando)  lotta  di  classe.  Schmitt, addirittura, parla, in chiave quasi metafisica,  del conflitto amico-nemico, come di un criterio assoluto di distinzione,  alla stregua del bello, del buono, eccetera, eccetera.  Ciò significa, che di conseguenza, Marx e Schmitt, sminuiscono  il concetto sociologico  di cooperazione, che è un’altra regolarità e costante che  affianca quella di conflitto.  Per Schmitt e Marx  la cooperazione è un sottoprodotto del conflitto, non è data come esistente in sé. In realtà,  ecco la lezione di Pareto fin dai Sistemi Socialisti, la dicotomia principale  non è fra le classi e  tra l’  amico e il  nemico, ma tra conflitto e cooperazione.  Non per nulla nel Trattato (ma non solo), Pareto  sottolinea la perenne ricerca,  volontaria e involontaria da parte degli uomini,  di  un punto di  equilibrio storico tra  i due fattori della cooperazione e del conflitto.  Insomma, in Pareto, conflitto e cooperazione sussistono alla pari, pur in un quadro storico e sociale, dunque reale, di non sempre facile ricomposizione. In questo senso, rispetto alle sociologie parziali di Schmitt e Marx, Pareto parla  al mondo.  Inoltre,  l’età antica, per la maggioranza degli  storici  non ha conosciuto la lotta di classe nel senso marxiano. Quanto a Schmitt, i suoi “processi di neutralizzazione” rinviano, a grandi linee,  al mondo post-vestfaliano. Di ben altro respiro,  come tu ben sai,  risulta essere l’approccio storico e sociologico di Pareto (direttore, rispettatissimo, tra l’altro, delle celebre Biblioteca di Storia Economica della Società Editrice Libraria).  Pareto,  insisto, che  proprio per questo continua a a parlare  al mondo e  non ai soli  devoti della lotta di classe e del conflitto per il conflitto. In questa chiave, come per la filosofia di Nietzsche, la sociologia di Pareto è per tutti e per nessuno. Insomma, per chi voglia porsi in ascolto…

Quanto ai contenuti, di cui tu dibatti,  ritengo ben più profondi quelli individuati da Pareto nella sua classificazione dei residui e delle derivazioni. Vi si parla di  forme di mentalità e modelli di razionalizzazione, semplificando, di destra e sinistra,  che assumono valore trans-storico, cioè che ritroviamo in tutte le epoche.  Pareto ci spiega, e con una forza argomentativa inaudita, che la persistenza degli aggregati ( alla base del pensiero e del comportamento di tipo conservatore) e l’ istinto delle combinazioni ( alla base del pensiero progressista) praticamente, sono eterni, se preferisci, ripeto,  trans-storici. Ne consegue, che  destra e sinistra vivono e lottano tuttora insieme a noi.  Altro  che le sociologie parziali di    Schmitt e   Marx, i parlamenti  della Restaurazione, i rapporti di proprietà, eccetera, eccetera.  Sul piano sociologico, per usare un termine dell’amico Fabio Brotto, siamo davanti, caro Teodoro,  a una distinzione ontologica, non in senso metafisico, mi permetto di specificare,  ma sociologico.

I   numeri riportati  dall’ “Espresso” –  che nemesi  per un collaboratore e lettore del  “Borghese”  come tu sei… –   sulle  performance non entusiasmanti della Seconda Repubblica sono la classica scoperta dell’acqua calda.  In una situazione di semi-guerra civile (belusconiani vs antiberlusconiani ) e di crisi economica mondiale (nell’ultima parte, dal 2008),  in realtà,  ci siamo abbastanza difesi,  in particolare grazie ai governi di centrosinistra, soprattutto negli ultimi due anni (2016-2017). In argomento,  ti rinvio all’ottimo articolo  dell’economista Marco Fortis, corredato di cifre e grafici, apparso sul “Foglio” venerdì 31 agosto (**) .

Ciò  che invece dovrebbe preoccuparti, caro Teodoro, non è la sinistra,  che pure ha i suoi problemi, che però consistono, non nel rifiuto del populismo, ma nel rischio di una sua accettazione, elevata al quadrato:  una specie terzomondismo pauperista con sessant’anni di ritardo.  Dicevo, ciò che invece dovrebbe preoccuparti   sono le future performance della “Terza Repubblica” pentaleghista (per semplificare).   Parlo di  un pittoresco, ma pericoloso,  governo di asini ed energumeni, chiaramente orientato a destra,   su posizioni (per ora) di fascismo perseguito con altri mezzi: quelli del populismo. Un governo  pieno zeppo, direi saturo,  di persistenza degli aggregati, a cominciare dal  nazionalismo e dal  protezionismo economico.

Governo, che tu, liberale a tutto tondo, quindi “naturalmente” nemico del populismo,   continui invece sui Social,  se non a difendere, a giustificare,  puntando su una euristica debitrice di categorie cognitive populiste all’insegna del transeunte.  Altro che la trans-storicità della sociologia paretiana.

Con  pari  stima  e  grande amicizia.

Carlo Gambescia

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