Sovranità, nazione e socialismo, a cura di Giuseppe Germinario

Questo blog è nato con l’aspirazione di offrire uno spazio alle tesi legate al realismo politico, al conflitto politico tra centri decisionali come chiavi interpretative delle dinamiche geopolitiche e di politica interna alle formazioni sociali. Un terreno sul quale si è cimentato fruttuosamente specie negli ultimi decenni più la componente conservatrice del pensiero politico. Rimane da affrontare il nesso tra conflitto politico, dinamiche geopolitiche ed aspirazioni di cambiamento delle formazioni sociali. Tornano sul campo termini come eguaglianza, diritti sociali, gerarchie sociali, cittadinanza e relativi diritti proposti nelle varie accezioni. Qualcosa di nuovo inizia ad emergere in un altro versante politico. Per ora sono percorsi paralleli; occorre porre le premesse per un confronto su alcuni punti in comune. Giuseppe Germinario
Tesi sull’Italia e il socialismo per il XXI secolo

Andrea Zhok·Giovedì 6 febbraio 2020·Tempo di lettura: 27 minuti

[Documento finale approvato dall’Assemblea Nazionale di Nuova Direzione]
1. Contro la mondializzazione
L’esposizione senza protezioni all’uso capitalistico della rivoluzione tecnologica e alla globalizzazione finanziaria sono fondamentali fattori distruttivi nel mondo contemporaneo. L’interconnessione non è un valore in sé. In assenza della capacità di mutuo riconoscimento delle identità storiche e degli ordinamenti istituzionali differenti ciò che resta è semplicemente competizione rivolta ad instaurare rapporti di dominazione. La modernità capitalistica, dissolvendo sistematicamente tutte le barriere, non produce autodeterminazione né emancipazione, ma dipendenza e servitù (talvolta coattiva, talaltra servitù ‘volontaria’, come nel caso italiano). Capitalismo è l’asservimento di ogni funzione sociale e antropologica al fine della riproduzione e accrescimento del capitale, mercificando ogni relazione, quali che siano le conseguenze.
La cosiddetta ‘finanziarizzazione dell’economia’ rende esplicito questo aspetto, in quanto indebolisce le componenti fisse, territoriali, della produzione, rendendo più facili gli spostamenti di capitale e con ciò il potere di ricatto dello stesso. I mercati finanziari (azionario, obbligazionario e monetario) appaiono come il motore centrale dell’accumulazione, indebolendo il potere contrattuale del lavoro, che viene marginalizzato. Fusioni, acquisizioni, outsourcing, riacquisti azionari, precarizzazioni, cartolarizzazioni, piramidi di controllo, elusione fiscale, sono fenomeni connessi che abbiamo sotto gli occhi costantemente. Il gigantismo dell’apparato finanziario, lungi dall’aiutare l’economia reale, sottrae risorse attraverso interessi e provvigioni, aumenta la concorrenza internazionale e alimenta la mobilità del capitale industriale. Molti piccoli risparmiatori vengono inoltre forzati ad entrare nei giochi del capitale (con pensioni private, assicurazioni, e riserve di valore per affrontare la crescente insicurezza). Essi sono perciò indotti ad allearsi al medesimo sistema che li sfrutta, prendendosi a cuore le sorte della rendita, cui partecipano in maniera marginale, ma per loro importante.
Come già altre volte nella storia, il capitalismo finanziario, con il suo potere di destabilizzazione nazionale, lungi dall’alimentare una ‘pacifica interconnessione’, accentua i tratti di ostilità internazionale, promuovendo reazioni protezionistiche e competizione, incluso il rafforzamento militare.
Se questa è la modernità, il socialismo deve percorrere vie differenti. Superare la modernità capitalistica non significa riesumare modi di vita e produzione passati, ma consentire a diverse società e culture di scoprire il proprio modo di vivere e produrre. Bisogna difendere la libertà di vivere in una dimensione che non insegua forzosamente il mito del ‘progresso’ lineare, mutuato dalla tecnoscienza, ma sia capace di coltivare le proprie capacità, sviluppare i propri talenti, portare a compimento la propria natura e far maturare le proprie migliori tradizioni. Un progresso autentico non può essere mera crescita di potenza, esercitata indiscriminatamente sull’uomo e la natura. Progresso, per noi, non è l’indefinito incremento del Pil, o delle esportazioni, o del potere della propria moneta, e neppure il mero incremento di libertà individuali. Progresso è crescita democratica, capacità storica di trovarne una sintesi tra partecipazione ed emancipazione, diritto all’autodeterminazione individuale e collettiva. Riacquisire sovranità democratica significa ribadire la capacità della politica di governare l’economia, e della cittadinanza di governare la politica; e significa farlo per sfuggire alle spinte alla massima valorizzazione del capitale e alla dipendenza dal mercato mondiale.
2) Contro il progetto imperiale europeo
Il processo di unificazione europea sancito dal trattato di Maastricht rappresenta il tentativo del grande capitale europeo, e dei suoi ceti di riferimento, di costruire un nuovo centro imperiale per partecipare al dominio del mondo. Questo progetto assegna ruoli primari e ruoli subalterni, arruolando forzatamente i paesi europei in una lotta contro altri centri imperiali (Usa, Cina, Russia). In questo contesto l’Italia è terreno di scontro tra il recente progetto imperiale franco-tedesco e il consolidato progetto imperiale statunitense. Gli effetti collaterali di questo scontro si ripercuotono sul paese in termini di perdurante stagnazione e recessione. Si tratta di una lotta che coinvolge, sia pure in forma subalterna, parte delle élite e dei capitali nazionali, in particolare al nord. Per competere in questa corsa al dominio del mondo (che non potrà non avere una dimensione militare), viene costantemente ripetuto che i lavoratori devono sacrificarsi, lo stato deve dimagrire, che le protezioni vanno tolte per esporre i lavoratori alla “durezza del vivere”. Chi deve farsi carico di questa “durezza” sono infatti sempre i lavoratori, mai il capitale. Le conseguenze sono una struttura economica indebolita, un apparato pubblico sottodimensionato, una crescita di fratture sociali e territoriali, una politica estera inesistente.
È quindi necessario revocare il processo di unificazione europeo nato a Maastricht, rompere la camicia di forza dell’Euro e restituire la sovranità monetaria ad una Banca Centrale Italiana che risponda al potere politico. Bisogna transitare verso un’economia mondiale equilibrata e rispettosa delle individualità nazionali che prediligano la domanda interna, invece che dissanguarsi in una lotta per l’espansione delle esportazioni e la relativa accumulazione finanziaria. Prediligere la domanda interna significa ritornare all’obiettivo prioritario della piena occupazione, subordinando il fine della stabilità monetaria che interessa principalmente i ceti possidenti; significa rafforzare il lavoro, sostenere i salari, spingere direttamente e indirettamente il capitale ad innovare, impedendogli di conseguire i profitti attesi con la semplice estensione dello sfruttamento.
3) Contro la guerra tra poveri
Il paese può tornare ad essere uno, a garantire il riconoscimento sociale a ciascuno, valorizzando i propri talenti, contrastando la disgregazione e l’attuale disperato ripiegamento narcisistico. Oggi, in tutte le aree decentrate o periferiche, e nei paesi semi-centrali come l’Italia, i soggetti marginali o precarizzati percepiscono l’immigrazione come causa di un’ulteriore competizione per le abitazioni, il welfare, il salario. Si tratta di una visione corretta, ma parziale. È necessario ribadire come all’origine di questa pressione sulle proprie condizioni di vita non stiano primariamente altri sfruttati di varia provenienza, ma le modalità di produzione della ricchezza. Questo passo è necessario per disinnescare la ricerca di capri espiatori in forma di xenofobia; tuttavia va parimenti respinto il principio dell’accoglienza illimitata. Gli ingressi nel paese vanno calibrati in rapporto all’effettiva e realistica capacità di accoglimento e integrazione. Sono processi che non possono essere lasciati al “mercato”, alla “libera ricerca di opportunità” della forza-lavoro internazionale. L’obiettivo dev’essere la coesione sociale e la creazione di una società “decente”, non il potenziamento di un esercito di riserva che ricatti i lavoratori.
Il capitalismo è in primo luogo allargamento dello sfruttamento abbattendo tutte le barriere al movimento di capitali e forza-lavoro. Come socialisti siamo perciò per un severo controllo dei flussi, per il rispetto della legalità, e per la piena integrazione, economica, sociale e culturale, di chi resta con noi, senza esclusioni né discriminazioni di alcun genere. Rigettiamo l’idea di società nazionali come zone di passaggio alla ricerca di sostentamento provvisorio. Non abbiamo nulla da guadagnare dal conflitto tra poveri (che è da sempre il gioco della retorica di destra). Ciò che va difeso, ovunque, è il diritto a non emigrare, a non esservi costretti da ricatti economici, costrizioni materiali o morali; ciò che va difeso, ovunque, è il diritto a vivere e lavorare in condizioni degne nel proprio paese, in primo luogo per i nostri cittadini nel nostro paese. L’autentica solidarietà internazionalista fra le classi popolari implica il diritto all’unità e allo sviluppo integrale di ogni nazione.
4) Contro le sinistre liberali
La mutazione delle sinistre in difensori dell’ineluttabilità del capitalismo e della sua mondializzazione si è vestita di modernismo e progressismo, tipiche bandiere della sinistra liberale. I propri referenti non sono più perciò i ceti popolari, ma frazioni di classe della media borghesia, connesse con il modo di produzione della “accumulazione flessibile”. Anche le sinistre radicali, figlie dell’onda lunga del ’68, si sono rifugiate nelle loro piccole ecclesie e in movimenti (settori dell’ecologismo, del femminismo, Lgbt, animalisti, pacifisti, ecc.) che rimuovono accuratamente il problema dei rapporti di potere economico, annegandolo in rivendicazioni settoriali e identitarie che preservano il sistema. Non è un caso che la cultura di queste sinistre veda come principale nemico lo Stato e assuma come obiettivo centrale la lotta alle gerarchie e all’autoritarismo (spesso etichettato come “patriarcato”). Queste rivendicazioni sono occasioni per aumentare la segmentazione sociale, e sono peraltro agevolmente integrabili nell’attuale modo di produzione, come estetica, marketing, ecc. Concentrarsi su diritti soggettivi e identità esclusive finisce per atomizzare la società, dissimulando il problema dei rapporti di forza economici.
5) Per la democrazia reale
La sfida principale del nostro tempo è quella alla democrazia reale, che non è minacciata dai movimenti populisti, ma dalla reazione ad essi da parte delle élite in tutto il mondo occidentale. Per fronteggiare questa reazione occorre una nuova classe dirigente, con una base autenticamente popolare, che non sia l’ennesima variante minore dell’ordine liberale. L’energia sociale per uscire dall’attuale impasse si può trovare solo nei ceti in maggiore sofferenza. Quelli a proprio agio, o troppo interni al modo di produzione per distaccarsene, possono solo seguire. Si pone perciò il problema dell’unificazione non solo delle classi subalterne, ma di tutto l’ampio fronte che può muoversi in direzione antiliberista e antieuropeista.
Questa forza terza, indisponibile al vecchio bipolarismo, deve porre la questione dei rapporti sociali, della subordinazione del mercato alla democrazia, chiarendo quali gruppi, ceti e posizioni, incarnano l’interesse generale dell’Italia. Essa deve inoltre porre la questione degli strumenti della democrazia, come quelli forniti dalla nuova interconnessione virtuale, estesa a tutti i cittadini, con la possibilità di avviare discussioni molecolari in ogni momento e su ogni tema. Si deve porre anche il problema del crollo delle strutture di autorità e reputazionali tradizionali, e delle sue conseguenze sulla logica della delega. Bisogna confrontarsi con la manipolazione dei dati, l’appropriazione delle informazioni nelle piattaforme proprietarie, e gli enormi rischi che ciò comporta.
6) Per una nuova coalizione sociale
Serve per questo una larga coalizione sociale, che attraversi il paese da Nord a Sud, rispondendo alle diverse esigenze delle sue aree culturali ed economiche, spesso radicate in storie secolari. Bisogna saper parlare con i neo-proletari della new economy, i professionisti in via di “uberizzazione”, i lavoratori autonomi sfruttati e marginali, i pensionati a basso reddito e negletti, la parte ancora reattiva del sottoproletariato urbano. Per fare ciò bisogna superare i modelli utili ma insufficienti dei meet-up, o delle effimere mobilitazioni social, attraendo a sé i segmenti di piccola borghesia operanti sul mercato interno, il ceto impiegatizio pubblico, e parte dei ceti medi riflessivi, staccandoli dall’egemonia esercitata dalla borghesia cosmopolita e dal settore dedito alle esportazioni.
Oggi nessun soggetto privilegiato della storia può guidare in esclusiva una transizione al socialismo. E lo stesso socialismo deve essere declinato in modo da consentire una pluralità di vie, integrate nelle comunità territoriali, con le loro tradizioni storiche e le matrici costituzionali. Il socialismo sarà inclusivo, democratico, storicamente e territorialmente radicato, o non sarà.
Il ‘soggetto’ di questa trasformazione non può più essere unilateralmente una frazione qualificata della società. Non può esserlo la vecchia classe operaia ormai frammentata e dispersa; né possono esserlo le “classi riflessive” della nuova economia della conoscenza, spesso in prima fila per la conservazione dei loro declinanti, piccoli, privilegi; né non meglio precisate “moltitudini”, con il loro rifiuto di porre la questione del potere; né le “donne”, quasi fossero una classe a sé stante. Il blocco sociale capace di riaprire il futuro può solo essere una rete contingente di soggetti sociali, sensibili alle diseguaglianze orizzontali e verticali, tra periferie e centri. Quest’aggregazione contingente deve prendere le mosse dai danni creati dallo sviluppo unilaterale della valorizzazione capitalistica, dai luoghi dove le condizioni di lavoro o di vita risultano insopportabili per chi non gode di posizioni privilegiate. È qui che nasce la resistenza da cui partire.
Il punto diventa quindi costruire linee oppositive al capitalismo che passino innanzitutto per i differenziali di reddito, di mobilità, di luogo. È la divaricazione tra i ‘vincenti’ – che riescono a fare il proprio prezzo e si muovono nei centri geografici funzionali al sistema – e i ‘perdenti’, che il prezzo lo subiscono e stazionano in area periferica – a definire il campo della lotta di classe per un socialismo del XXI secolo. Solo focalizzando su tale frattura si può reggere lo scontro con l’Unione Europea e con quella parte del paese che dell’UE si serve per affermare i propri interessi, spacciandoli per necessità o interesse collettivo.
7) Per un’economia umana
La piena occupazione garantita dev’essere un obiettivo guida, per rovesciare i rapporti di potere contrattuale. Che siano i datori di lavoro privati a dover competere per acquisire i migliori lavoratori, e non questi ultimi a doversi svendere, in una competizione al ribasso fratricida. Bisogna imporre un ‘pavimento’ al mercato del lavoro che non possa venire compresso e salga progressivamente. Tale “pavimento” non può essere il risultato della semplice fissazione legale di un salario minimo, ma è l’effetto di un mutamento dei rapporti di forza nel mercato del lavoro ottenuto grazie ad un forte intervento pubblico di rilancio dell’occupazione attraverso piani di lavoro di ultima o di prima istanza.
Con salari e diritti crescenti il capitale, pubblico e privato, sarà costretto a investire in tecnologia, innovazione e qualità. In quest’ottica la Pubblica Amministrazione deve essere messa nelle condizioni di funzionare adeguatamente, svolgendo il ruolo di occupatore di Prima Istanza, con assunzioni massicce e quanto mai necessarie, oltre a quello di riserva di buona occupazione transitoria, come parametro per l’intero mercato del lavoro.
Un robusto pool di imprese di stato, nei settori strategici e a vocazione monopolistica, dovrà rianimare il modello di economia mista che ha fatto la fortuna del nostro paese, e che si sta affermando imperiosamente nelle economie in crescita egemonica nel mondo (Cina in primis). Il rafforzamento della domanda aggregata interna potrà riattivare lo spirito dei lavoratori italiani, rianimando le periferie depresse, e spegnendo le lotte tra ultimi e penultimi. Il ripristino del controllo sui movimenti di capitale con la sua subordinazione alla funzione sociale, la demercificazione del lavoro e della natura, la cura, il sostegno e la protezione ai piani di vita di ciascuno, la capacità costituente esercitata dal basso e dalle periferie sono i capisaldi del socialismo che cerchiamo.
Questo modello va a fornire un incremento di domanda anche al commercio mondiale, che in questo modo troverebbe nuove risorse e fattori di crescita sufficienti per essere basato su rapporti equilibrati fra aree e paesi. Sarebbe superato il tentativo odierno di operare un abbattimento tecnocratico, e ad ogni costo, di ogni frontiera per trovare i mercati e la domanda di beni che nel frattempo si è perduta abbattendo il salario, a partire da quello europeo. Anche e soprattutto per questa via passa il riequilibrio fra apertura democraticamente vagliata dei mercati e sovranità democratico-costituzionale. Solo per questa via è proponibile qualunque idea reale e non mistificata di internazionalismo.
In questo quadro un rilievo particolare dovrà essere dato alla “questione ambientale”, che lungi dall’essere una moda passeggera, rappresenta un orizzonte decisivo per le sorti dell’umanità futura. La pulsione alla competizione anarchica, sotto regime capitalistico, rende inevitabile una costante devastazione degli equilibri ecologici e organici. Emergerà perciò con sempre più chiarezza la necessità di superare questo modello di sviluppo autodistruttivo. Il socialismo, come subordinazione del mercato a politiche democratiche e finalità umane, è la forma dell’unica soluzione possibile. L’antico slogan “socialismo o barbarie” dovrebbe oggi essere declinato in “socialismo o collasso ecologico del pianeta”.
8) Per il perseguimento dell’interesse nazionale in un’ottica multipolare
Puntare su di uno sviluppo del mercato interno mostra il sovrapporsi di interesse nazionale e interesse di classe. Aumentare le opportunità dei lavoratori e delle imprese italiane, e ridurre la dipendenza dalle esportazioni, rappresentano insieme una conquista di indipendenza geopolitica e di benessere sociale. Oggi più che mai c’è la necessità di un forte settore pubblico dell’economia, capace di riequilibrare i rapporti di forza tra lavoro e capitale, e di rilanciare il ruolo dell’Italia in una direzione geopolitica multipolare. Senza coltivare avventure imperiali o neocoloniali, ma anche senza diventare una zattera alla deriva nel mediterraneo.
Nonostante in Occidente tutti facciano finta di non accorgersene, il bipolarismo della Guerra Fredda è finito da trent’anni. È ora di aggiornare le nostre priorità e smettere di reiterare le costanti storiche della nostra politica estera: l’irrilevanza nel dibattito interno e l’affidamento esclusivo all’alleato forte. Due caratteristiche che entrambe mal si coniugano con la promozione dell’interesse nazionale in un multipolarismo come quello attuale. Mai come oggi gli obiettivi geostrategici dell’Italia differiscono tanto da quelli americani quanto da quelli dei competitors europei.
Se recuperassimo tutti gli strumenti – politici ed economici – che si confanno a uno Stato sovrano, potremmo rilanciare il nostro ruolo di media potenza, con un ritrovato attivismo che – lungi dal ripercorrere tristi esperienze coloniali passate – riesca a valorizzare al meglio la nostra collocazione geografica.
L’Italia ha interesse al sorgere di un mondo multipolare con un nuovo equilibrio internazionale. La subalternità ad un occidente che non riesce a liberarsi del fallimentare modello neoliberale può essere superata solo se si istituiscono relazioni eque con il mondo emergente, e se si valorizza la nostra collocazione nel mediterraneo. Senza rigettare le tradizionali relazioni con il centro europeo e con gli Stati Uniti, solo un multilateralismo che giochi su più tavoli – Africa, Russia, Cina, India, America Latina – può consentire di ridurre la nostra subalternità. Costruire un socialismo per il XXI secolo implica perciò anche difendere il proprio apparato pubblico e le proprie aziende strategiche, incluse quelle militari ed energetiche, dalle altrui mire di dominio.
9) Per un socialismo plurale nel XXI secolo
I socialismi del XXI secolo non dovrebbero essere progressisti più di quanto non siano conservatori. Essi non dovrebbero cioè predicare la convergenza di tutta l’umanità in una forma di sviluppo culturale predefinita. Gran parte dei fallimenti e delle sconfitte del socialismo storico è dipesa da questa ambizione, non troppo dissimile dalle pulsioni uniformanti ed astratte del capitalismo. Bisogna andare oltre i modelli di socialismo storici (previo loro approfondito studio, che rimane cruciale) prestando attenzione alle forme innovative che si sono sviluppate in Cina e nei paesi “bolivariani”. I socialismi per il XXI secolo devono fare buon uso dei mercati, ma impedendo che si saldino in un unico illimitato ‘sistema di mercato’. I mercati sono esistiti ben prima del capitalismo ed esisteranno dopo di esso, né devono per forza avere carattere capitalista. L’istituzione dei mercati può far leva su forme di organizzazione sociale decentrata che si può fondare sullo scambio di surplus tra pari, senza che siano indefinitamente e automaticamente traducibili in un unico metro di valore; va rigettato il modello esemplificato dai mercati finanziari, dove tutto è ininterrottamente mobile, mercificato e liquido in vista di un margine quale che sia di profitto. Rilanciare la tradizione socialista, questa volta ancorandola a forme di vita plurali e rispettose dei propri percorsi, significa liberarsi da un modello che riduca gli scambi sociali alla pratica della domanda ed offerta. Percorsi socialisti plurali, possono consentire l’esistenza di mercati contenuti da una sfera sociale più ampia, rigettando invece la risoluzione del ‘sociale’ nel mercato. L’orizzonte di un socialismo del XXI secolo è dunque quello di comunità in cui l’economia non è sovraordinata alla società ma sottomessa a un controllo pubblico, trasparente, plurale e democratico, comunità capaci di fondarsi sulla creatività, sulla capacità socializzante dell’umano e sulla logica del dono. Essere anticapitalisti significa riconoscere che “il vero è nell’intero” e che l’economico è solo una delle dimensioni della vita, né autosufficiente né auto-consistente.
10) Che fare?
Come diffondere oggi in Italia un autentico progetto socialista? Si tratta di un’impresa difficile perché radicale. Ed è radicale perché non vuole semplicemente riproporre l’intervento statale del passato, ma inaugurare una nuova azione pubblica, evitandone le forme monopolizzate dall’interesse privato dei partiti e dei manager di stato. Che fare, dunque, concretamente? È necessario prima di tutto uno sforzo per acclimatare il progetto socialista in un paese che, pur avendone disperato bisogno, lo teme, essendosi abituato negli anni a pensare in maniera antisocialista. L’Italia ne ha bisogno perché oggi solo l’intervento statale e la proprietà pubblica possono guidare una ripresa. Le sconsiderate privatizzazioni dei decenni scorsi rendono necessaria una radicale inversione di rotta verso la ricostruzione di uno stato capace di direzione politico-amministrativa, e democraticamente controllato. Ma gli italiani oggi temono questo indirizzo, sia per l’aspettativa (mediaticamente coltivata) del malfunzionamento di tutto ciò che è pubblico, sia soprattutto perché la struttura sociale italiana è stata consapevolmente costruita (dalla DC, dal craxismo, dalla “modernizzazione” neoliberista) in modo da ostacolare le concentrazioni operaie e favorire l’impresa individuale o familiare. Da ciò emerge la propensione a vedere nello Stato un protettore occasionale, che però non deve pretendere tasse o dirigere l’economia. Il problema, acuito dal fatto che spesso nella stessa famiglia si intrecciano redditi da lavoro dipendente e redditi d’impresa, non può essere affrontato con leggerezza, perché la microimpresa, con i suoi vizi e le sue virtù, è in ogni caso, e soprattutto in periodo di crisi, fonte di sopravvivenza per numerosissime famiglie.
Questa tensione tra Stato e privato, inevitabile nelle attuali condizioni, dev’essere dislocata verso il sistema del credito (banche, ma specificamente la BCE). La via maestra per la ripresa e per una possibile redistribuzione passa infatti per la monetizzazione del deficit dello Stato, non il rigore fiscale. Il problema dell’infedeltà fiscale deve ovviamente essere affrontato, ma con provvedimenti rivolti ai vertici della piramide sociale, e potrà essere pienamente risolto solo nella scia di una ripresa del paese, distinguendo tra evasione di sopravvivenza ed evasione opportunista. La prospettiva dovrà essere quella di una regolarizzazione progressiva e non traumatica delle microimprese, basata sullo scambio tra lealtà fiscale e normativa dal lato privato, e servizi efficienti dal lato pubblico.
In questa prospettiva, fondamentale giacché riguarda una cultura diffusa nel paese, è necessario costruire una strategia politica che non si limiti a declamare le buone ragioni del socialismo, dell’intervento pubblico, dell’euroscetticismo, ma individui i modi concreti per dar loro corso. L’obiettivo fondamentale non è affatto “l’unità della sinistra” contro la “destra fascista”. La destra attuale non è fascista, anche se ha pericolosi tratti autoritari. E d’altra parte la sinistra non è affatto democratica (anche se molti suoi elettori e militanti lo sono): non lo è perché il suo globalismo sconsiderato ha sottomesso il paese alla dittatura dello spread, perché (come la destra) ha sfasciato la Costituzione del ’48, perché (come la destra) mostra costantemente impulsi censori rispetto all’espressione del dissenso. In queste condizioni, è assai difficile dire se un futuro governo autoritario sia oggi più favorito da istanze di destra o di sinistra.
L’obiettivo fondamentale dev’essere quindi la lotta contro ogni riproposizione del bipolarismo, e dunque anche contro il maggioritario che lo accompagna. Il bipolarismo serve infatti a consolidare la subordinazione del paese attraverso uno scontro fittizio fra due poli, divisi su questioni secondarie, ma uniti dalla fedeltà atlantica ed europea. Ciò vale con tutta evidenza per il polo di sinistra, anche se il M5S dovesse stabilmente parteciparvi. Ma vale anche per il polo di destra, perché ha già dimostrato di alimentare un euroscetticismo di facciata, sostenendo l’irreversibilità dell’euro, e di essere avverso ad ogni rafforzamento dell’impresa pubblica e ad ipotesi di nazionalizzazione. Per rompere il bipolarismo è necessario ricostruire un terzo polo, dialogando con la parte critica dell’elettorato e della militanza M5S, raccogliendo tutte le forze che sono sovraniste in quanto socialiste, ma soprattutto dando espressione a chi da decenni non ha rappresentanza politica: la vasta e frammentata classe dei lavoratori subordinati, dei precari, dei disoccupati.
Un tale terzo polo non può nascere attorno alla mera parola d’ordine negativa dell’Italexit. L’evidente balbettio dei sedicenti sovranisti gialloverdi di fronte all’Ue, le convulsioni della Brexit, la presa nell’opinione pubblica del ricatto dello spread, rendono difficile – salvo brusche accelerazioni della crisi europea – aggregare consensi decisivi, solo ponendo al centro la prospettiva dell’uscita dall’UE. Tenendo ferme le ragioni per un’uscita dai trattati, bisogna innanzitutto accumulare le forze su espliciti contenuti positivi (più stato, piena occupazione, mercato interno, Sud…). Per farlo lanciare un programma che indichi l’uscita come condizione della propria piena realizzazione, ma che sia articolato in obiettivi intermedi parzialmente perseguibili anche in ambito UE.
• In questa prospettiva Nuova Direzione deve impegnarsi a:
I. Ribadire una dura critica all’Unione europea, sviluppando su ciò attività di formazione e controinformazione, anche in connessione con altri soggetti.
II. Costruire progressivamente un programma socialista per il paese, articolato in obiettivi di fase concretamente perseguibili. Qui l’elaborazione concettuale deve accompagnarsi alla costruzione di alleanze politiche con soggetti collocati criticamente nei diversi partiti, nell’apparato dello stato, nel mondo delle imprese e del sindacato, nei luoghi di maggiore conflitto sociale.
III. Inserirsi in tutte le esperienze di conflitto che esprimano un netto dissenso verso la situazione generale del paese e verso le politiche di indebolimento delle condizioni dei lavoratori: crisi industriali, regolarizzazione dei precari, contrasti tra banche e debitori, e così via.
IV. Promuovere, o comunque intercettare, quei conflitti con radicamento territoriale in cui si presenti una lotta fra centro e periferia, Hinterland contro città, Sud contro Nord e così via. Il fine non è disgregare, ma riaggregare su nuove basi ciò che si sta irrevocabilmente frammentando. Il fine è presentarsi come movimento per l’unità d’Italia: unità fra i suoi diversi lavoratori, fra questi e le piccole e medie imprese, fra tutti i territori che il neoliberismo italiano, rappresentato dalla sinistra come dalla destra, mette in infinita competizione a solo vantaggio del capitalismo e dell’Unione Europea.
* * *
* * *
TESI AGGIUNTIVA
I nodi storici d’Italia: classi, Stato, sovranità
Nei momenti di crisi e difficoltà emergono le caratteristiche di fondo di un paese. La storia non dimentica, i nodi vengono al pettine. Quello che siamo ora è scritto nel percorso. Per questo, al fine di prescrivere una terapia, sono necessarie un’anamnesi e una diagnosi.
Il parto della nazione italiana è stato complicato. Fra le opzioni che si sono confrontate nell’intento di unificare l’Italia, alla fine ha vinto quella sabauda, anche grazie alla tattica cavourriana che si muoveva fra le potenze del tempo sfruttandone i conflitti. La vittoria dell’opzione monarchica ha comportato l’imposizione dello Statuto Albertino e del modello statale piemontese, senza alcun passaggio costituente, e ciò anche a causa della debolezza politico-programmatica delle correnti democratiche e dello stesso garibaldinismo. Sono state unificate in modo repentino realtà sociali, modelli istituzionali e monete diverse. Così l’Italia è nata da subito affetta da condizioni di squilibrio. L’unificazione, costruita con una mobilitazione contraddittoria delle masse, allora in gran parte contadine, e delle varie borghesie, ha prodotto il rifiuto del nuovo Stato in varie parti del paese, rifiuto sollecitato dalla reazione borbonica, dal clero e, all’inizio, anche dai più coerenti fra i repubblicani e garibaldini. La Chiesa, allora unica “forza nazionale”, dopo l’occupazione dei territori pontifici e la presa di Porta Pia, è stata all’opposizione del nuovo Stato, fino ai Patti Lateranensi.
Da questa modalità di unificazione nasce la questione meridionale. La questione agraria, in particolare, non è mai stata un punto centrale nel processo di unificazione per le forze repubblicane egemonizzate da ceti intellettuali borghesi e piccolo borghesi. Il fascismo utilizzò le masse contadine in maniera del tutto subalterna e reazionaria. Da queste modalità di unificazione nasce anche il sentire lo Stato come esterno, quando non avverso. Priva dell’ancoraggio di un’appartenenza forte, di istituzioni solide, e di una vera classe dirigente nazionale, l’Italia ha manifestato tratti di incertezza fin dalle origini.
La partecipazione delle masse cominciò a mutare le cose con il nascere del movimento socialista. Un primo risultato politico di questo mutamento sarà il suffragio universale maschile nel 1912.
L’entrata guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale evidenziò la gracilità del nuovo Stato dal punto di vista militare e di coesione sociale. La larga insoddisfazione popolare seguita alla guerra e i conflitti che ne derivarono comportarono una dura reazione delle classi agrarie e industriali e della monarchia, nell’assenza di politiche adeguate da parte delle opposizioni. La nazionalizzazione delle masse da parte del fascismo e il sovrapporsi dello Stato fascista a quello monarchico furono solo in grado di sopire gran parte dei problemi o di celarli fino a che la guerra non portò il paese allo sgretolamento.
L’8 settembre segnò così la fine ingloriosa di un altrettanto inglorioso periodo, assestando un colpo mortale al sentimento nazionale. L’indebolirsi dell’idea di nazione ha intaccato tanto l’idea dell’autonomia che il valore attribuito all’interesse generale. Esito della sconfitta furono anche la perdita di rango nel consesso internazionale (un rango che era peraltro soprattutto una finzione) e la subalternità, che dura tutt’oggi, agli USA.
La Resistenza rappresentò tuttavia un correttivo a questa condizione. La presenza di forze antifasciste che si erano formate nell’esilio e nella clandestinità consentì di portare il paese alla transizione verso la Repubblica e all’elaborazione della Costituzione, e di non farlo divenire un protettorato anglo-francese. La Resistenza, unico riscatto del popolo italiano, prima ancora che tradita fu troppo breve e troppo circoscritta territorialmente per incidere in maniera duratura sul profilo della Repubblica. E già durante i lavori della Costituente si inaugurava la subordinazione della politica italiana agli Usa. La Costituzione, del resto, fu un obiettivo quanto mai alto se si constata quanto marginalmente era prevalsa nel referendum la scelta della Repubblica, a testimonianza di come fosse ancora forte la resistenza conservatrice delle classi borghesi, della Chiesa e anche di parti consistenti delle classi popolari, contadine in particolare.
Così lo spirito e la lettera della Costituzione (la centralità del lavoro, il ruolo dello Stato finalizzato a rimuovere e a promuovere diritti ed uguaglianza, l’economia mista, la finalizzazione dell’impresa privata all’interesse generale), vennero contraddetti dal ruolo centrale assunto dagli esponenti liberisti (in primo luogo Einaudi) e dal permanere di personale fascista nei ranghi dello Stato, mentre ne venivano espulsi molti membri di origine antifascista. Ciò garantì, almeno inizialmente, una significativa continuità sia con il regime monarco-fascista che con precedente Stato liberale.
La Costituzione del ’48 non ebbe dunque modo, per ragioni interne ed internazionali, di attuarsi completamente. Ma, anche grazie alla sua promulgazione, le forze sociali e le tendenze culturali di cui essa era espressione non potevano più essere escluse dall’agone politico: ed è per questo che essa costituì lo scudo del pur relativo avanzamento dei ceti popolari degli anni ’60 e ’70, e, in quanto tale, fu sottoposta ai più duri attacchi. Se il primo periodo del centro sinistra sembrò iniziare ad attuare alcuni dei dettami della Carta, negli stessi anni e in seguito si poté assistere a una serie di assalti, politici, militari, istituzionali alla logica costituzionale.
Quegli assalti, che andavano dai minacciati golpe allo stragismo, dall’uccisione di Moro alle trasformazioni derivanti dall’ingresso del paese nell’Ue, culminarono nella Seconda Repubblica, inaugurata dall’ambigua stagione di “Mani Pulite”. E non è un caso se chi lasciò che Moro fosse ucciso, dimostrando quanto limitata fosse la nostra sovranità, fu anche artefice di una sottomissione della costituzione ai dettami di Maastricht.
Ciononostante, la presenza egemone nella Resistenza di forze politiche non-liberali se non addirittura anti-liberali permise che la sopravvivenza post-bellica – aspramente combattuta dalle forze liberali -­ dell’IRI, creata dal regime fascista per affrontare le conseguenze della Grande Depressione del ’29, diventasse il perno del decollo italiano (il cosiddetto ‘miracolo’, che avvenne con tassi di crescita ‘cinesi’) che cambiò drasticamente, si può dire per la prima volta nella storia italiana, le condizioni di vita materiali di ampie masse di popolazione.
Il mondo liberale che aveva mal sopportato la permanenza dell’IRI, nonché il predominio dei partiti di massa, aspetti che aveva continuamente combattuto nel dopoguerra, iniziò già dagli anni ’70 una violenta controffensiva. Approfittando della crisi politica di fine ’70, riuscì a imporre un passaggio del paese sotto il ‘vincolo esterno’ europeo con l’ingresso nello SME che, ulteriormente rafforzato dal divorzio Bankitalia-Tesoro, preluse allo smantellamento dell’IRI e quindi alla demolizione delle condizioni politiche della crescita economica del paese, riportando la gestione economica complessiva nelle mani di quelle forze liberali che se ne erano sentite limitate dalla Resistenza, dalla Costituzione e dai partiti di massa.
Infatti, la seconda repubblica è stata, in realtà, una sorta di golpe continuato contro la Costituzione, e il popolo italiano, consentito dai Presidenti della Repubblica, dalla Corte Costituzionale, dai partiti “contro-riformati”. È stata la repubblica “della società civile” e non più delle classi, del “cittadino-consumatore” e non più del lavoratore. La repubblica senza ideologie, tranne il liberismo. La seconda repubblica ha vissuto, e così è tutt’ora, in un’orgia di leggi elettorali rapidamente cambiate per favorire questo o quello, di liberalizzazioni e privatizzazioni, di riduzione dei diritti del lavoro, blocco dei salari, disoccupazione a due cifre, povertà, diseguaglianze, assorbimento subalterno dei sindacati, modifiche al titolo V che frantumano il paese e preludono a richieste di disunioni ulteriori (come l’autonomia differenziata). Ha partecipato a guerre destabilizzanti condotte per “esportare la democrazia”, ossia a guerre di occupazione per l’egemonia mondiale dell’occidente e del suo paese guida, gli Usa. Fino ad arrivare al masochismo di una guerra alla Libia voluta da nazioni concorrenti quali Francia ed Inghilterra, dopo che solo qualche tempo prima si era siglato un accordo storico con la Libia stessa. La partecipazione a questa guerra è stato un tradimento, oltre che della Carta, anche dell’interesse nazionale.
L’adesione all’Unione europea ha aggravato la subordinazione del paese. Oltre agli Usa ora ci si è subordinati alla finanza, ai mercati, ai paesi europei più forti politicamente o economicamente. La classe dirigente italiana ha pensato di poter così governare con il vincolo esterno le recalcitranti classi popolari italiane. La garrota dell’Unione e dell’euro comportano un declino continuo sul piano sociale, economico, culturale, democratico.
Stando così le cose, non stupisce che il paese dia sempre maggiori segni di scollamento. Tutto sembra crollare ma nessuno appare responsabile di alcunché. Il paese sta perdendo il senso di appartenenza ad una storia. Siamo fra le nazioni con il maggior grado di diseguaglianza, la giustizia è sempre più lenta, e meno cieca di quanto dovrebbe, la corruzione dilaga. Si sente la mancanza di uno Stato che, in realtà, in Italia non è mai “stato”. C’è una crisi conclamata delle élite.
Tutto ciò crea insicurezza, rancore, rabbia che però restano a livello individuale. La rabbia non prende la strada del conflitto, della lotta. Un tempo ci si rivolgeva alla sinistra per risolvere i problemi: ora non più. La cosiddetta sinistra è parimenti colpevole dello stato di cose presente. Ai cittadini non sembra rimanere altro che la protesta elettorale. E questo accade proprio quando la democrazia (e con essa le elezioni) è sempre più una finzione, in quanto le decisioni vengono prese altrove: da Bruxelles o dai “mercati”. Milioni di cittadini ad ogni votazione vagano da partito a partito alla confusa ricerca di protezione, ordine, cambiamento. Non è dunque un caso che il paese rimanga inquieto, conflittuale. I lavoratori e le masse non sono assopiti, anche se non sanno bene cosa fare: viviamo una continua transizione verso il nulla. L’Italia si presenta come una pentola in continua ebollizione che sembra non scoppiare mai.
Questo stato di cose impone di andare alla radice dei problemi: è tempo ormai di riconquistare la sovranità nella politica interna ed estera, conformemente ai principi costituzionali e all’interesse nazionale. La seconda guerra mondiale è finita da settant’anni, e l’abbiamo ormai pagata abbastanza! Del resto, l’Alleanza atlantica, già discutibile negli intenti originari, alimenta oggi conflitti e aggressioni su vasta scala, divenendo così seriamente controproducente per gli interessi nazionali e popolari. Lo stesso discorso vale per l’Unione Europea, dove gli interessi internazionali di Francia e Germania non sono affatto coincidenti con quelli dell’Italia.
L’interesse nazionale del popolo italiano richiede una neutralità attiva e funzionale alla pace, in particolare nel Mediterraneo. La globalizzazione e il liberismo, la competizione di tutti contro tutti, hanno fallito: serve più Stato, lo Stato della Costituzione. forte contro i forti. Servono programmazione, controllo dei capitali, delle merci e delle persone per una buona e piena occupazione, affinché i lavoratori non siano merce ed il lavoro non sia tortura ed usura. Serve una nuova idea di società e una nuova idea di economia e di rapporto con l’ambiente. Un’economia per la società e non una società per l’economia.
La risposta a tutto ciò può ancora essere trovata nella Costituzione del 1948. La Costituzione non è dietro di noi. Essa è un obiettivo che ci sta davanti, per cui è necessario costruire un popolo e uno Stato. A tal fine serve una memoria storica che ci ricordi le lotte che, dalla Resistenza agli anni ’70 e oltre, hanno tentato di costituire pienamente la nazione, le reazioni antipopolari e antinazionali delle classi dominanti, le circostanze che fanno sì che oggi l’interesse nazionale, l’interesse ad avere una nazione sovrana e capace di crescere nella pace, coincida ormai con quello delle classi subalterne. A tal fine servono nuove culture politiche, nuovi partiti capaci di riprendere il cammino e ricucire i fili che la regressione degli ultimi decenni sembra aver reciso.
alcuni commenti
Roberto Buffagni Andrea Zhok Senz’altro. A me non dà fastidio Marx, che è un pensatore di prim’ordine. La zavorra viene dopo, con il marxismo e con la sua decadenza, sia teorica sia politico-effettuale. Poi naturalmente ciascuno ha il suo bagaglio. La strada è lunga, i rifornimenti scarsi, il clima inospitale, e quindi vedrai che tanta parte del bagaglio che ciascuno si porta nello zaino andrà scaricato a lato strada 🙂
  • Andrea Zhok Roberto Buffagni Anch’io credo che in un senso antropologico primario il confronto sia tra individualismo liberale e comunitarismo. Tuttavia il comunitarismo non può sopravvivere senza una cornice statale compensativa delle dinamiche pervasive del mercato, e solo nella tradizione marxiana ci sono gli strumenti per operare quella compensazione. (Se il comunitarismo si riduce a chiacchiera, come invocazione alla ‘comunità’ e alla ‘famiglia’ senza far seguire nessuna politica strutturale che arresti i processi di disgregazione liberal-capitalistici, allora è solo fuffa: persino Blair e Reagan sono stati detti ‘comunitari’ in questo senso esteriore.)
  • Roberto Buffagni Andrea Zhok Il socialismo non implica l’adesione al marxismo né alla vicenda storica della II Internazionale, su questo non ci piove. La contrapposizione teorica basilare è fra individualismo liberale e comunitarismo (varie forme e declinazioni possibili di – ). Farlo capire a molti se non tutti non è facilissimo però.
  • Andrea Zhok Roberto Buffagni Beh, direi che nel mondo prossimo venturo ci sarà la scelta tra essere prosciugati da potenze maggiori o giocare le proprie carte con i relativi rischi. Non vedo altre opzioni.

    Quanto al tema del ‘socialismo’, l’adozione del termine è stato oggetto di discussione, proprio per la consapevolezza dei problemi connotativi del termine. Oggettivamente e concettualmente è il termine più difendibile, proprio per la sua storia plurale (il socialismo è alla base di Gramsci come di Sombart, per intenderci). Nel tempo vedremo come sviluppare l’uso del termine o se trovare altri riferimenti espressivi meno problematici.

  • Roberto Buffagni Andrea Zhok Sì, certo, il multilateralismo è una grandissima occasione per una media potenza come l’Italia. Bisogna essere molto bravi però, c’è anche da farsi tanto male.
  • Andrea Zhok Roberto Buffagni La risposta è il multilateralismo. Anche se la Cina non è l’URSS, un gioco di sponda con la Cina (e magari anche la Russia) potrebbero consentire margini di manovra non troppo dissimili da quelli del secondo dopoguerra.
    Roberto Buffagni Molte buone cose. Obiezioni a prima vista: 1) se nel blocco sociale antiUE non ci stanno anche i capitalisti “nazionali”, cioè quelli che hanno bisogno di un aumento della domanda interna e di una politica di investimenti pubblici, si va poco lontano. Se il problema politico da risolvere è l’indipendenza d’Italia (e lo è) il blocco sociale che lo persegue deve essere interclassista. Individuare come nemico principale “il capitalismo” è esatto sul piano teorico, sbagliato sul piano politico perché nessuno può proporsi politicamente, cioè in termini di obiettivo strategico effettualmente perseguibile e raggiungibile, una vera e propria uscita dal sistema capitalistico, cioè a dire una rivoluzione dell’ordine di grandezza della russa 1917 2) capisco che non ci siano altre parole a disposizione per quel che volete intendere, ma parlare di “socialismo” quando nessuno sa di preciso che cosa sia è un suicidio comunicativo. Segnalo che per una larga parte della popolazione la parola “socialismo”, che viene intesa come un eufemismo per “comunismo” a meno che non sia identificata con l’esperienza craxiana, si associa a a) esperimento storico totalitario e fallito b) miseria, prepotenza burocratica, niente che funzione c) egalitarismo demenziale, sindacalismo oppressivo, tasse insopportabili d) per concludere, la reazione emotiva alla parola “socialismo” è uguale e contraria alla reazione emotiva alla parola “fascismo”. in entrambi i casi il rapporto tra reazione emotiva e realtà effettuale è tenue, perché offuscato e distorto da settanta anni di uso strumentale dell’antifascismo & dell’anticomunismo, ma in politica le reazioni emotive contano eccome 3) la Costituzione del 1948 ha molti pregi, ma non è replicabile a piacere la situazione geopolitica che la consentì. Il lavorismo e il keynesismo della Costituzione prevedono l’esistenza in vita dell’URSS, in ragione della quale il sistema capitalistico e le potenze a guida USA furono costrette a cercare vaste alleanze, a impedire che los pueblos d’Europa diventassero comunisti, e in generale a presentarsi come alternativa più efficace e umana al sistema comunista. Sintesi: il comunismo fu un’idea radicalmente sbagliata, ma l’esistenza dell’URSS fu un’ottima cosa per l’effetto di bilanciamento e limitazione che conseguì. 4) Non è esatto parlare di “neutralità in vista della pace”, perché è sempre “in vista della pace” che si fanno le guerre (bisogna solo vedere che pace). La neutralità è un obiettivo strategico che personalmente condivido, ma al sostantivo “neutralità” va aggiunto l’aggettivo “vigile”, in soldoni: bisogna armarsi di più, non di meno, perché si vis pacem (la TUA pace) para bellum. Non commento la sintesi storica perché non voglio eccedere in lunghezza. Troppo difficile trovare una sintesi accettabile in poche righe.
    Andrea Galasso Roberto Buffagni, sì, ma quello che dico è: cosa ci farebbero gli USA concretamente se provassimo a rilanciare le summenzionate politiche di welfare? In che modo si attiverebbero per impedirlo? E perché?
    Siamo sicuri, peraltro, che sia stata proprio l’esistenza dell’URSS che impediva il neoliberalismo, e magari non altre cause strutturali afferenti alla dialettica interna del capitalismo?
  • Roberto Buffagni Andrea Galasso Perchè l’URSS non è crollata in seguito alla ricezione di una raccomandata a.r., mittente “Eredi di Keynes”, che annunciavano la scomparsa del caro estinto. E’ crollata per tante ragioni , in buona parte endogene. Premessa la mia pittoresca ignoranza in materia economica: volevo soltanto rilevare un fatto storico, questo: che il welfare state del secondo dopoguerra, e l’illuminata politica non solo economica statunitense (v. rifiuto del piano Morgenthau e varo del piano Marshall) è motivata anch’essa da molte cose (tra le quali anche il dibattito accademico in materia economica) ma senz’altro da una Cosa grossa come una casa, cioè il bisogno degli USA di cercare vaste alleanze e consensi in Europa e nel mondo; alleanze e consensi che dipendevano, in larga misura, dalla possibilità di garantire sicurezza e buon tenore di vita alle popolazioni sconfitte d’Europa. Gli americani hanno condonato pressoché in blocco il debito tedesco post IIGM, e grazie a questo condono la Germania non solo ha decollato economicamente, ma si è schierata compatta (nella sua porzione occidentale) a favore degli USA e del capitalismo liberale, e contro il comunismo e l’URSS. Ora, l’URSS e il comunismo non ci sono più, è crollato il celebre Muro di Berlino, e gli USA sono stati travolti da una ventata di hybris con pochi precedenti nella storia, che gli ha fatto pensare di poter essere non l’egemone mondiale, ma il vettore di una riconfigurazione del mondo totale nella quale ci fosse posto solo per il proprio modello di vita. Che fosse una cazzata si poteva capire anche subito, ma ci hanno provato lo stesso. Il risultato è l’oggi di cui parliamo.

Roberto Buffagni

Noterella militare. Il problema strategico è molto semplice: conformare lo schieramento cioè il sistema di alleanze + la struttura di comando e controllo al conflitto principale, che NON è destra/sinistra, e neanche capitalismo/proletariato, ma mondialismo/nazionalismo + individualismo /comunitarismo. Sul piano operativo (=soggettività politica) la traduzione del problema strategico è: alleanza Stato-Lavoro, dove “Lavoro” comprende anche un settore, il più possibile ampio, delle imprese (in particolare quelle che si basano sul mercato interno e hanno bisogno di rilancio della domanda interna + pianificazione economica statale) , e “Stato” indica anzitutto le prerogative “régaliennes” dello Stato, quelle che hanno la forza sufficiente a bilanciare e contrastare le pretese di direzione politica che si arroga il settore economico (“Ministeri della forza”). L’avversario principale è PIU’ avanti nell’opera di riconversione e adeguamento al conflitto principale dello schieramento (esemplare l’esperimento Macron), noi siamo più indietro. Se non si risolve il problema strategico dello schieramento e del sistema di alleanze si perde, se si risolve si vince. Il conflitto interno al campo antimondialista che si avvita intorno ai temi destra/sinistra, fascismo/antifascismo, comunismo/anticomunismo, incapacita la formazione dello schieramento strategicamente corretto. Se si sbaglia la strategia, nessun successo tattico avvicina alla vittoria, salvo errori strategici decisivi dell’avversario, sui quali è meglio non contare perché esso è più forte e coeso. Raccomandabile essere pronti a fornire risposte adeguate e progettazione credibile per il momento in cui verranno al pettine gli errori strategici compiuti dalle forze politiche (provenienti sia da destra sia da sinistra) che sinora hanno interpretato (male) il “sovranismo”, cioè il coacervo delle opposizioni, variamente motivate e consapevoli, al mondialismo. Le suddette forze hanno sbagliato e continuano a sbagliare, tutte, le scelte strategiche fondamentali, e dunque nel giro di due.- tre anni cominceranno a perdere in modo vistoso (“perdere” può essere declinato come vera e propria sconfitta elettorale oppure come “vittoria con le idee degli altri”, ossia adeguamento di fatto alla linea dell’avversario). Finché l’errore strategico e la conseguente sconfitta non sarà chiara a molti se non tutti, non ci saranno spazi di azione politica efficace (=capacità di accedere al governo+sapere che farne). Quando l’errore strategico sarà manifesto, ci sarà spazio di azione e direzione politica. Imprevedibile, ora, con quale strumento la “azione e direzione politica” potrà esercitarsi.

DELLA FUNZIONE INTELLETTUALE IN SOCIETA’, di Pierluigi Fagan

DELLA FUNZIONE INTELLETTUALE IN SOCIETA’. I rapporti tra immagini di mondo individuali e quella collettiva sono complessi. Chi ha quasi coincidenza, naturale o indotta, tra le due, avrà successo sociale assicurato. Chi no, dipende da come gestirà la relazione. Un individuo a tendenze intellettuali in una popolazione seminomade-militare, ad esempio, potrà soffrire di disadattamento finendo con l’esser un cattivo soldato sebbene sia un ottimo pensatore. Ma c’è anche la possibilità di scavarsi una nicchia adattiva, ad esempio diventare un cantore delle gesta dell’orda (fornirle la funzione di memoria), uno storico, il redattore dei discorsi pubblici dei capi, colui che aiuta a spiegare al “popolo” perché si fa così ed è giusto si faccia così e non in altro modo.

Può anche diventare un sacerdote, molte volte gli individui a tendenze intellettuali, nella storia, hanno avuto sfogo solo nell’appartenenza al clero. Così era nell’Antico Egitto ed in Mesopotamia, nei mille anni del medioevo europeo è stato così, lo studioso confuciano nella longeva Cina imperiale anche, (sebbene il confucianesimo non sia propriamente una religione per il significato che diamo in Occidente del termine), il monaco buddista pure, i filosofi arabi in effetti aristotelico-neoplatonici erano necessariamente, prima, islamici. Poi qualcuno ha capito il trucco ed ha detto “se siete islamici siete già dotati di un filosofia, quindi il resto fa solo confusione” e da allora l’islam non ammette più il pensiero filosofico (circa 1200 d.C.). Spesso, sono proprio gli intellettuali se in forma civile o i chierici in forma religiosa a “costruire” l’immagine di mondo. Non che se la inventino, usano certo pezzi esistenti, svolgono però la funzione di cucitori di pezzi dandone coerenza estesa, ci mettono le cause, abbinano i valori e conseguenti giudizi, danno coerenza ed offrono compiuta forma narrativa.

Poiché l’idm collettiva non ha un Io penso, per giungere sul piano sociale alla complessità funzionale che hanno le idm individuali, qualcuno dotato di Io penso deve confezionarle e revisionarle di continuo in nome e per conto del gruppo sociale o come più spesso avviene, delle proprie élite di potere. Gramsci aveva capito il problema e la sua definizione di “intellettuale organico” era appunto la presa di coscienza e di responsabilità dell’intellettuale che invece di operare al servizio del potere, si mette a servizio dei suoi simili. La cosa poi non è così semplice perché se i contro-poteri o poteri alternativi, non hanno parte anche minoritaria del potere sociale (come accadde in Italia con l’egemonia del PCI anni ’50-’60-’70), non potranno mantenere i propri intellettuali che comunque sono individui necessitati come chiunque altro. Se quindi un potere domina tutte le fonti di reddito per intellettuali, coloro che sfidano quel potere non avranno gli “Io penso” che costruiscono, coordinandole, le immagini di mondo organiche ed estese e quindi non avendo una facoltà pensante condivisa, la loro azione politica sarà depotenziata ed inefficace.

Alcune forme di potere nelle varie comunità occidentali, si sono talmente evolute, da prevedere a loro beneficio, anche la coltivazione del pensiero dissenziente. Naturalmente sarà un pensiero dissenziente inefficace, cioè che non produce teorie viabili per un altro modo di stare al mondo. In Occidente, ciò ha preso la forma tipica del “pensiero critico”, una voluminosa tradizione di chirurghi della contraddizione e giudici morali che sanzionano lo status quo, i quali producono solo “coscienza infelice”. Hanno qualche cattedra, pubblicano qualche volume, vengono interrogati pubblicamente quando la società ha bisogno di far della falsa contrizione e pentimento, ma tanto si sa che tutto questo non sposta l’ordine sociale di un millimetro. Purtroppo, le vicende del pensiero occidentale, ad un certo punto hanno portato questa convinzione che la funzione critica o negativa, sia parte dello sviluppo adattivo di una immagine di mondo. In parte è così, ma in parte no, perché la forma complessiva di una immagine di mondo non cambia perché cambiano o si aggiustano alcune sue parti minori. Su quelle maggiori o strutturali, i poteri dominanti accettano l’alternativo volo pindarico solo se è di tipo ideale, cioè ineffettivo sul piano pratico.

Così, gli ultimi centosettanta anni di invocazione dell’uscita dal capitalismo che è come invocare di uscire dalla polmonite per uno che vive nudo al polo nord.

tratto da facebook

Wellingtoniana e… Salviniana, di Piero Visani

Wellingtoniana e… Salviniana

       Dal momento che mi pare di capire – da certi comportamenti – che non solo si intende insistere in strategie comunicative totalmente errate, ma si vuole pure accentuarle, ricorrerò all’aneddotica, soluzione immaginifica adatta a penetrare (forse…) nelle menti più semplici e meno provvedute…
       Notte fra sabato 17 e domenica 18 giugno 1815. Piana di Waterloo. La giornata è stata afosa e il calare delle tenebre non ha portato refrigerio. Qualche tuono annuncia che presto potrebbe scoppiare un temporale anche di forte intensità, ma per il momento ancora si fa attendere.
       Nel quartier generale britannico, nei pressi di Mont Saint-Jean, gli aiutanti di campo (molti dei quali giovani e giovanissimi rampolli della nobiltà inglese) e gli ufficiali subalterni si affollano intorno al loro comandante, il duca di Wellington, certamente per trarre conforto e sicurezza dalla sua calma glaciale. Per alcuni, che per ragioni anagrafiche non avevano potuto prendere parte alla Guerra Peninsulare in Spagna e Portogallo (1808-1814) contro i francesi, quella che si annunciava per l’indomani era la prima grande battaglia della loro vita (e per non pochi di essi sarebbe stata anche l’ultima…)
       Il desiderio di avere indicazioni su cosa sarebbe potuto accadere il giorno dopo era troppo forte, per cui i più audaci azzardarono a chiederlo al loro comandante: “Vostra Grazia, che cosa accadrà domani?”.
       Con il suo consueto, nobiliare distacco, il “Duca di ferro” [così era soprannominato] li guardò con l’aria serena di un comandante che di battaglie ne aveva vinte molte, contro i francesi, e rispose: “Verranno su alla solita vecchia maniera [si riferiva al fatto che i francesi erano soliti attaccare in colonne di battaglione, invece che in linea] e noi li batteremo alla solita vecchia maniera” [vale a dire con i reparti schierati in linea, che potevano sviluppare un volume di fuoco nettamente superiore a quello dei francesi, come era accaduto a partire dalla battaglia di Maida, in Calabria, nel 1806, ed era continuato per tutta la Guerra Peninsulare, senza che i comandanti francesi – salvo pochissime eccezioni – si accorgessero della natura del problema].
       Questo accadde puntualmente anche il giorno dopo, a Waterloo.
       L’aneddoto serve solo a ricordare che l’iterazione di tattiche e strategie già dimostratesi perdenti in varie occasioni, specie quanto si va all’attacco di gente molto abile nella difesa, serve solo a perdere una volta di più e forse sarebbe meglio cambiarle. Forse…

Oltre la destra e la sinistra: la necessità di una nuova direzione, di Andrea Zhok

Oltre la destra e la sinistra: la necessità di una nuova direzione
tratto da facebook

1) Lo scenario contemporaneo
Due grandi tendenze caratterizzano la politica dell’ultimo quarto di secolo nel mondo occidentale. La prima, e più importante, è rappresentata dal trionfo del modello liberale con i connessi processi di globalizzazione; e in maniera concomitante, dalla crescita di reazioni di rigetto di tali processi (dai ‘no-global’ degli anni ’90, al ‘populismo’ e ‘sovranismo’ odierni).
La seconda tendenza, derivativa, è una crisi profonda delle categorie politiche di ‘destra’ e ‘sinistra’; tale crisi si è manifestata sia come ‘crisi d’identità’ che in cortocircuiti e ribaltamenti concettuali, dove posizioni tradizionalmente ascrivibili alla ‘sinistra’ sono state assimilate dalla ‘destra’ e viceversa.
Questi due processi vanno intesi insieme e sono parte di una medesima configurazione. La prima tendenza è quella strutturalmente portante e definisce il carattere della nostra epoca, come epoca del trionfo della ‘ragione liberale’ (e della sconfitta del suo principale competitore storico, dopo la caduta del muro di Berlino). In mancanza di avversari la ragione liberale ha accelerato le tendenze di sviluppo interne, e segnatamente i processi di movimentazione globale di merci, forza-lavoro e capitale. Quest’accelerazione ha riportato alla luce i limiti del progetto politico liberale e capitalistico, che dopo la crisi finanziaria del 2008 appaiono manifesti a chiunque non sia ideologicamente accecato.
Il rimescolamento odierno delle categorie di ‘destra’ e ‘sinistra’ è un effetto diretto dell’apogeo, e della concomitante crisi, della ragione liberale. Una chiara manifestazione ne è stato lo scivolamento negli anni ’80 e ‘90 della ‘sinistra’ occidentale (comunisti e socialisti) su posizioni liberali, facendo proprie le istanze di ciò che fino a poc’anzi era il ‘nemico’. Ciò è avvenuto facendosi carico dell’intero blocco ideologico liberale, dalla tradizione dei diritti umani, al libertarismo individualista, dalla contestazione dello Stato, alla venerazione delle libertà di mercato. Solo alcune minoranze della ‘sinistra’ tradizionale hanno continuato, con non pochi imbarazzi e ambiguità teoriche, a tener fermi alcuni punti di contestazione al blocco liberal-capitalistico. Simultaneamente, il vuoto nella rappresentanza di istanze anticapitalistiche e antiliberali prodotto dalla defezione della ‘sinistra’ ha fatto spazio ad una sua parziale appropriazione da parte della ‘destra’.
Questo duplice processo di riposizionamento sta trasformando il paesaggio politico tradizionale, ma il tutto si sta svolgendo in una cornice di opacità e scarsa consapevolezza, che nasconde il carattere strutturalmente obsoleto delle categorie di ‘destra’ e ‘sinistra’. Finora chi ha osato denunciare tale obsolescenza è stato tacciato di ‘qualunquismo’ o di ‘tradimento’, in un pervicace rifiuto di riconoscere uno stravolgimento già avvenuto. In molti rimangono abbarbicati a simulacri delle vecchie categorie, oramai scarnificate o ‘geneticamente modificate’, senza voler riconoscere che la realtà si è lasciata alle spalle quelle forme, come un serpente la sua pelle. A sinistra, dove l’esplicitazione dell’apparato teorico è stata storicamente più definita, l’irrigidimento delle posizioni appare particolarmente persistente, con l’aggrapparsi ansioso ad una coperta di Linus fatta di parole d’ordine e riflessi condizionati. La minore elaborazione teorica della destra si è rivelata, in questa fase, un paradossale vantaggio, consentendo aggiustamenti di tiro più pragmatici (o semplicemente più opportunisti).
Il processo cui stiamo assistendo è dotato di una logica storica ferrea, che però deve trovare riconoscimento teorico, e rappresentanza politica, per superare l’attuale situazione di incertezza e paralisi. Ciò cui assistiamo oggi è la faticosa ricomposizione di quel mondo umano che il modello liberal-capitalistico ha progressivamente marginalizzato. Tale ricomposizione deve avvenire recuperando in un’immagine unitaria le contestazioni della ragione liberale presenti tanto nella tradizione ‘di destra’ che in quella ‘di sinistra’.
2) Le radici storiche
Il modello liberal-capitalistico ha poco più di due secoli nell’Europa continentale e solo qualche decennio di più in Inghilterra, dove mosse i primi passi. In Europa il suo imporsi passò attraverso lo spartiacque, determinante quanto ambiguo, della Rivoluzione francese, che fu anche il contesto in cui vennero alla luce le categorie di ‘destra’ e ‘sinistra’.
Come noto, questa distinzione nacque nell’Assemblea Nazionale Costituente del 1789, a partire dalla posizione fisica dei gruppi rispetto al presidente: alla sua destra stavano monarchici, conservatori e tradizionalisti, mentre filorivoluzionari e illuministi stavano alla sinistra. Successivamente, nell’Assemblea Legislativa del 1791, la destra venne assegnata ai fautori della monarchia costituzionale – che accettavano l’abolizione del feudalesimo –, e la sinistra ai repubblicani seguaci delle idee dell’Illuminismo (Giacobini, Cordiglieri, Girondini, ecc.).
L’evoluzione interna del processo rivoluzionario portò alla luce ben presto una discrasia interna alla parte vincente, cioè alla ‘sinistra’. Schematicamente, l’opposizione alle gerarchie di sangue dell’Ancien Régime iniziò a mostrare una divaricazione tra chi intendeva sostituirle con una gerarchia di censo e chi intendeva sostituirle con una società egalitaria. Le istanze egalitarie, che persero terreno dopo il 1794, riemersero in varie forme di neogiacobinismo dopo la Restaurazione, ricevendo una nuova investitura con l’opera di Karl Marx, in cui l’egalitarismo usciva dall’astrattezza giacobina e prendeva la veste chiarificatrice di una richiesta di giustizia sociale, nella cornice di una critica ai meccanismi di produzione e riproduzione del capitale.
Il modello liberal-capitalistico si impose in Europa, nella scia della Rivoluzione francese, come presa del potere da parte della borghesia (che rappresentava allora una minoranza della popolazione, inferiore al 10%). Ad essa nel corso dell’800 si opposero dunque un fronte conservatore e tradizionalista (destra), e un fronte egalitario (frazione dell’originaria ‘sinistra’). La loro diversa genesi tenne l’antiliberalismo della destra e quello della sinistra (socialista e comunista) a distanza nel corso dell’intero XIX secolo e per parte del XX. Per tutta la prima metà del XIX secolo – la ragione liberale ebbe motivazioni storiche potenti per imporsi, presentandosi come una necessità storica dotata di un carattere ‘progressivo’ che né l’egalitarismo di ‘sinistra’, né il tradizionalismo di ‘destra’ potevano vantare.
Nella seconda metà del XIX secolo l’elaborazione marxiana fornì alla ‘sinistra’ antiliberale un potente strumento di analisi che, identificando il ruolo fondamentale del capitale, consentiva di approntare politiche popolari strutturate. È su questa base che il movimento socialista poté espandere la sua base di consenso nel corso dell’800, fino a divenire una concreta minaccia per il modello liberal-capitalistico.
Diversa fu la storia dell’antiliberalismo di destra, nel cui ambito non vi fu una figura di impatto comparabile a quello di Marx, e la cui impronta ab origine antirivoluzionaria (e antipopolare) lo relegò a lungo in una posizione di opposizione tendenzialmente aristocratica ed elitista. La mancanza di una teorizzazione dominante lasciò tuttavia spazio ad una varietà di posizioni, che oscillavano dal tradizionalismo, al conservatorismo religioso, al nazionalismo, al populismo, al darwinismo sociale spenceriano, all’individualismo nietzscheano. Questa minore definitezza teorica ha spesso consentito alla destra di adattarsi alle circostanze in maniera pragmatica (od opportunistica), come visibile nella parabola fascista, dove tutte le istanze citate, per quanto in contraddizione tra loro, riuscirono a trovare spazio.
D’altro canto, tanto nella tradizione di destra che in quella di sinistra hanno trovato posto forme di assimilazione del paradigma liberal-capitalistico.
A destra ciò è avvenuto precocemente, rigiocando la concezione gerarchica della società, originariamente di matrice aristocratica, in chiave di gerarchizzazione economica: il darwinismo spenceriano e versioni divulgative del superomismo nietzscheano hanno fornito spesso il pretesto per assimilare istanze capitalistiche. Un’ampia parte della tradizione di destra, a partire da fine ‘800 ha rivestito il capitalista vittorioso (‘padroni del vapore’ o ‘maghi della finanza’ che fossero) dei panni dell’eroe guerriero: Shylock che recita Sigfrido.
A sinistra l’assimilazione di istanze liberali avvenne più tardi, una volta venuta meno la fiducia nella lezione marxiana, ma a quel punto essa avvenne con grande radicalità, rendendo nell’ultima parte del XX secolo pressoché indistinguibili posizioni liberali e posizioni ‘di sinistra’.
Ma tanto nell’ambito della destra quanto in quello della sinistra ha continuato a sussistere una dimensione, minoritaria ma viva, di consapevole contestazione del modello liberal-capitalistico.
3) Parzialità strutturali e il dovere di superarle
Tanto la tradizione antiliberale di destra, che quella di sinistra sono naufragate più volte contro limiti e parzialità delle rispettive letture della realtà. Ma percepire dei limiti non è di per sé ancora sufficiente a definire un orizzonte di superamento.
D’altro canto chi aderisce al modello liberal-capitalistico non vede alcuna necessità di ‘superare destra e sinistra’, perché ne considera le versioni antiliberali meri tratti folcloristici finiti nella “pattumiera della storia”, e ne contempla come concrete solo le varianti liberali, che sono espressioni essenzialmente intercambiabili del modello dominante (il ‘bipolarismo’ politico degli ultimi decenni ne è chiara testimonianza).
La percezione, spesso acuta, della necessità di superare le parzialità della ‘destra’ e della ‘sinistra’ tradizionali non è di per sé sufficiente a produrre una sintesi feconda. Confuse evocazioni di ‘incontri a metà strada’, e formule ad effetto tipo “valori di destra, idee di sinistra” lasciano il tempo che trovano, finché non se ne determinano gli specifici punti ciechi.
Alla tradizione della destra antiliberale è mancata l’analisi marxiana e post-marxiana. Essa ha perciò sofferto di tre fondamentali tendenze: 1) a sottovalutare la capacità delle condizioni economiche di determinare i rapporti di potere, interni ed esterni; 2) a sottostimare l’impatto dell’educazione e della cultura sulle disposizioni umane; 3) a misconoscere la diversificazione degli interessi di classe e la loro essenziale divergenza in una cornice capitalistica. Nonostante alcuni autori di matrice marxista, come Gramsci, siano stati in parte recepiti da minoranze della riflessione di destra (es.: Alain De Benoist), questa dimensione analitica resta subottimale nella ‘destra sociale’, e ciò ne limita la capacità di avere una visione pienamente realistica della società e di incidere sui processi capitalistici.
Alla tradizione di sinistra, sulla scorta del suo originario innesto nell’universalismo illuminista, è mancata un’adeguata comprensione del significato antropologico di tre fattori: 1) il radicamento territoriale; 2) l’appartenenza alla natio (famiglia, comunità, stato-nazione); e 3) l’adesione ad un éthos (costumi, tradizioni, cultura materiale). Nonostante in Marx, sulla scorta di Hegel, ci sia un apparato teorico capace di fare spazio a questi fattori, tale dimensione è rimasta ambigua nelle pagine marxiane, e successivamente verrà marginalizzata con l’assimilazione del socialismo scientifico in chiave positivistica. Tanto il socialismo nel XIX secolo, che il comunismo nella prima parte del XX secolo, manterranno comunque aperta la porta a questa dimensione etica di radicamento e appartenenza, che fa capolino in intellettuali come Gramsci e Pasolini. Tuttavia dopo il ’68 la componente libertaria e individualistica avrà la meglio, espellendo l’idea stessa di ‘comunità’, così cruciale alla tradizione ideale del ‘comunismo’ – che precede di molto Marx – dal novero delle idee ‘di sinistra’.
Lo scarso credito che oggi caratterizza l’antiliberalismo di ‘sinistra’ e quello di ‘destra’, separatamente presi, è dovuto alle loro strutturali parzialità, emblematicamente rappresentate dall’insuccesso dei comunismi e dei fascismi storici. Sul piano simbolico (sospendendo il piano della realtà storica, molto più articolato e complesso) i comunismi-socialismi realizzati sono percepiti come appiattimento individuale e ateismo di stato, mentre i fascismi come prevaricazione violenta, irrazionalismo e intolleranza. In entrambi i casi questa approssimazione simbolica segnala un fondo reale.
L’ispirazione comunista-socialista ha sofferto di un fondamentale punto cieco, nell’assumere una visione astratta dell’umano, di matrice illuminista. In questa visione il razionalismo si tradusse frequentemente in riduzionismo scientifico e laicismo forzoso, dove l’uomo sottratto alla dimensione storico-tradizionale e a quella spirituale veniva uniformato e semplificato. Ciò prese la forma a fine ‘800 di una ‘naturalizzazione’ dell’uomo secondo un modello positivista e riduzionista, modello profondamente inadeguato a fornire una spinta motivazionale e un’adesione affettiva duratura alle aggregazioni sociali. Tale astrattezza si palesa già nella difficoltà teorica per le riflessioni marxiane di attribuire contenuti positivi al comunismo a venire: la definizione del comunismo come “movimento reale che abbatte lo stato di cose presenti” ne rivela in trasparenza il carattere essenzialmente negativo. Questa labilità della matrice socialista/comunista nell’istituire un’adesione partecipativa profonda può essere scorta in filigrana – al netto di un’ovvia semplificazione storica – in molti momenti decisivi della sua storia. L’impotenza dei partiti socialisti di opporsi all’empito nazionalista che fece da volano alla Prima Guerra Mondiale ne mostrò drammaticamente un aspetto. La scarsa ‘fidelizzazione’ delle popolazioni sotto il ‘socialismo reale’, una volta venute meno le esigenze di guerra, ne fu un’altra espressione. L’involuzione delle ‘sinistre’, fino all’odierno ‘sconfittismo’, una volta venuta meno la fiducia nel modello critico marxista, dopo il ’68, ne è una terza espressione. Finché c’è un nemico, la componente critico-negativa dell’apparato socialista-comunista può rappresentare da sola un collante sufficiente, ma in mancanza di questo ruolo oppositivo l’adesione promossa da un paradigma positivista e riduzionista risulta fragile. Per quanto questo problema non sia strettamente imputabile alla concettualizzazione marxiana, che rimane nell’essenza umanista e storicista, esso è stato spesso caratterizzante degli sviluppi storici socialisti/comunisti.
L’ispirazione di destra ha invece sofferto di un differente punto cieco, anch’esso discendente dalla mossa originante che la mise al mondo: l’originaria ostilità al razionalismo illuminista si sviluppò spesso in generico irrazionalismo e anti-intellettualismo. Quest’aspetto ha preservato la destra dal riduzionismo e dall’astrattezza positivista, ma l’ha spesso consegnata al mero pregiudizio. Questa permeabilità al pregiudizio, al convincimento prerazionale e prescientifico, è alla radice dei suoi due principali difetti storici. Da un lato, l’aspettativa che le diversità di fondo, i contrasti, siano razionalmente inestricabili ha promosso una propensione alla ‘sbrigatività semplificatoria’ che non di rado è sfociata in violenza o prevaricazione, vissute come necessità di tagliare nodi gordiani razionalmente indissolubili. Dall’altro lato, lo spazio lasciato al giudizio pre-analitico, al pre-giudizio, ha aperto le porte a scivolamenti nella xenofobia e nel razzismo. Per quanto il rigetto da destra delle astrazioni illuministe e dello scientismo sia perfettamente compatibile con un’idea forte di razionalità (ad esempio quella hegeliana), questa tendenza irrazionalistica ha spesso preso il sopravvento nelle prospettive di destra.
Queste due parzialità spiegano anche i modi specifici in cui la teoria liberale ha potuto assimilare di volta in volta talune istanze sia di destra che di sinistra. La ragione liberale è infatti caratterizzata dalla giustapposizione di due errori complementari. Da un lato promuove una visione dell’umano ridotto ad un’individualità impermeabile e irriducibile, sottratta a valutazioni razionali, una scatola nera come agglomerato di desiderata insindacabili, di pulsioni che si esprimono in meri atti di preferenza. Dall’altro lato essa promuove una visione della natura (mondo) come luogo governato da leggi rigorose e inviolabili (fisiche o economiche), leggi che pongono la natura come mero materiale a disposizione, anonimo strumento dominabile attraverso cause e computazioni. La prima posizione, che possiamo chiamare di “individualismo a-razionale”, ha dato ospitalità ad alcune istanze di destra, mentre la seconda, che possiamo chiamare di “naturalismo riduzionistico e costruttivista”, è risultata compatibile con alcune istanze di sinistra.
È importante sottolineare come l’antiliberalismo ‘di destra’ e quello ‘di sinistra’ siano accomunati proprio nell’opposizione a questi due pilastri della concettualità liberale. Entrambi infatti assumono una base ‘umanistica’, per cui esiste una ‘essenza dell’umano’, irriducibile all’individuale, che consente di definire ciò che è giusto o ingiusto, ciò che è di valore o disvalore. Ed entrambi assumono l’idea di una natura dotata di valore e sviluppo (una storia), e che non è semplicemente ‘a disposizione’ come strumento per finalità arbitrarie.
4) Necessità e difficoltà di una nuova direzione
Il tacito presupposto di tutto quanto precede è l’identificazione del ‘nemico’ in questa fase storica. Per chi scrive (per ragioni che troveranno esplicitazione in un lavoro di prossima uscita), il problema strutturale dell’epoca che abbiamo la ventura di vivere è rappresentato dalla necessità inderogabile di superare il modello liberal-capitalistico, modello che ha esaurito la sua spinta storica propulsiva e che ora comincia a divorare sé stesso, avvelenando simultaneamente tutto ciò che lo circonda, uomini e natura, valore e senso, storie e speranze.
Il modello di società liberal-capitalistico, pur presentando linee di rottura molteplici, possiede, come tutti i sistemi storici consolidati, grande inerzia e resilienza. Non basta segnalarne i gravi problemi per decretarne il superamento, ma è necessario disporre di un’offerta politica con un’alternativa che permetta di percepire per contrasto l’intollerabilità del sistema vigente.
Ciò significa che vanno riconosciuti i modi fondamentali dell’influsso dell’economia sulla società (alienazione, sfruttamento), che vanno denunciati i meccanismi di ricatto economico su individui e gruppi, che va compreso come la mercificazione operi in profondità nel disgregare soggetti e forme di vita. Al tempo stesso bisogna comprendere come ciascun soggetto sia pienamente ciò che è in quanto nato e cresciuto in uno specifico contesto: famigliare, territoriale, linguistico, culturale, materiale; e che tale appartenenza ne definisce in parte significativa l’orizzonte valoriale e il senso. Bisogna comprendere che tanto l’identità individuale quanto l’identità collettiva rappresentano fattori determinanti nella definizione di ciò che di volta in volta è ‘di valore’, e che perciò svuotare tali identità nel nome di un’umanità astratta composta di individui idiosincratici e, di principio, mutuamente estranei è non solo un errore teorico, ma una fondamentale minaccia al senso che gli uomini conferiscono alle proprie esistenze.
Questo significa che una politica che voglia rappresentare un’alternativa al modello dominante deve far posto a idee e valori che si sono trovate storicamente su versanti differenti: giustizia sociale, solidarietà, redistribuzione, comunità, appartenenza, identità, lealtà, onorabilità, riconoscimento, senso dello Stato e amore per la propria terra. Si tratta di una costellazione di nozioni non soltanto internamente compatibili, ma fondamentalmente coessenziali, e strutturalmente alternative a tutte le tendenze di fondo del modello liberal-capitalistico.
Molti problemi contingenti si oppongono a questa esigenza, pure inderogabile. Ne voglio menzionare qui solo uno, apparentemente minore, e tuttavia insidioso, che probabilmente continuerà ad ostacolare a lungo la creazione di una sintesi capace di superare le parzialità storiche di ‘destra’ e ‘sinistra’. Non si tratta di una difficoltà teorica, ma squisitamente psicologica. Ciascuna tradizione ha avuto, ed ha, le sue letture preferenziali della storia, in cui ha collocato sia i propri ‘eroi indiscussi’ che le sue ‘figure controverse, ma difendibili’. La ricostruzione storica in forme convenienti, proiettandovi le proprie ragioni e i torti altrui, è sempre stata una forma influente per creare un senso di gruppo e una sfera di mutuo riconoscimento. Due secoli di evoluzione politica su binari paralleli ha creato dei ‘pantheon’, negativi e positivi, costruiti per essere mutuamente incompatibili.
Ora, fino a quando le prospettive antiliberali di destra e di sinistra si incontrano sul terreno dell’analisi del presente e sulla progettazione di prospettive future, non vi sono ragioni sostanziali perché esse non possano conciliarsi, creando anzi una sintesi assai più potente delle sue parti. Ma nel momento in cui esse confrontano le proprie narrazioni storiche e i relativi ‘pantheon’, lo scontro è sempre latente. (Questa insidia è peraltro ben presente anche all’interno della stessa storia della ‘sinistra’, dove il ‘pantheon’ socialista e quello comunista sono ben lontani dal coincidere.) Ci sono figure e personaggi storici costruiti in modo da suscitare la semplice immediata repulsione in un gruppo mentre magari sono stimati, o almeno giustificati, nell’altro. Ci sono letture degli eventi articolate e consolidate che confliggono senza scampo. Per quanto la freddezza dell’analisi storica possa in linea di principio restituire ragioni e torti, riconfigurare luci ed ombre di qualunque figura del passato, è dubbio che tale differenza di retroterra possa essere liquidata con facilità. La nascita di una prospettiva politica che superi destra e sinistra in una chiave critica del modello liberale è una necessità storica, ma l’esatta forma in cui ciò potrà avere luogo appare ancora piena di incognite.

Antonino Galloni L’altra moneta Womanesimo e Natura, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Antonino Galloni L’altra moneta Womanesimo e Natura (dall’avere all’essere), Ed. Arianna 2019, pp. 159 € 15,00

È inconsueto leggere nel “proemio” del libro che “Al liceo e all’Università mi hanno insegnato che la guerra è la continuazione della politica, con altri mezzi; adesso insegno che l’economia può essere la continuazione della guerra, con vari mezzi”. Il che significa: a) che la politica – e il politico – è determinante; b) che l’economia riproduce – e spesso serve – le stesse distinzioni e finalità del politico. Cioè crea (e supporta) inimicizia ed amicizia, situazioni di comando ed obbedienza. Cosa ovviamente nota al pensiero moderno da Marx a Weber, Schmitt o Wittvogel, ma dimenticata da quello contemporaneo per cui l’economia (lo sviluppo economico) dovrebbe avere come effetto di eliminare il dominio, pacificare, e così subordinare il politico.

L’esprit de commerce limita l’esprit de comquete: che la considerazione di Constant non fosse una regolarità, ma solo una possibilità, più probabile dopo la rivoluzione francese che qualche secolo prima, lo provano, dopo la morte del pensatore di Losanna, le guerre imperialistiche che hanno connotato – in parte – il XIX e XX secolo. Nello stesso periodo, il raggruppamento amico/nemico è stato, almeno fino al collasso del comunismo, determinato (per lo più) da una scriminante economica: la proprietà o meno dei mezzi di produzione.

In tale prospettiva è chiaro che servirsi sempre di moneta a debito – com’è quella che l’istituto d’emissione presta allo Stato – può non essere opportuno, specie in situazioni di crisi. Ricorda Galloni “durante la Prima Guerra Mondiale il Ministro del Tesoro del Regno Unito, trovandosi in difficoltà, scelse di emettere sterline non a debito (non fornite dalla Banca d’Inghilterra), così risolvendo un enorme problema per il suo Paese (e non si può negare che ciò abbia contribuito alla conclusione positiva delle belligeranze per il suo Paese … eppure funzionò” e potrebbe ancora funzionare.

Onde l’economista propone di emettere moneta a sola circolazione nazionale, non convertibile, come mezzo per uscire dalla crisi. Mesi fa, polemizzando con Draghi il quale aveva sostenuto – mal applicando l’albero di Porfirio (la c.d. “divisione esauriente”) e riferendosi ai mini-Bot proposti dalla Lega che questi o sono illegali o generano ulteriore debito – che non era vero né l’uno né l’altro. Infatti perché fossero illegali occorrerebbe che fossero vietati da una legge o un Trattato: ma il Trattato di Lisbona non li vieta. Che aumentino lo stock di debito non è neanche vero, nella proposta leghista, perché da un lato sono liberamente accettati dal creditore, il quale lo fa perché opta di essere pagato subito con quelli e non anni dopo con l’euro. D’altra parte se il creditore li gira in pagamento a qualche (proprio) creditore, anche in tal caso il terzo può liberamente accettarli o meno. Il tutto fu (ampiamente) sperimentato in Germania negli anni ’30 con un mezzo simile: le cambiali MEFO (garantite dallo Stato). Scriveva Schacht, il quale tale sistema aveva ideato e realizzato, che data la garanzia del Reich e il buon saggio d’interesse, gran parte delle cambiali finirono per essere girate a terzi o detenute in attesa della scadenza, piuttosto che presentate per lo sconto alla Reichsbank.

L’effetto (anche) delle cambiali Mefo fu di finanziare gli enormi investimenti pubblici del Terzo Reich (compreso il riarmo). Anche in tal caso “funzionò”. Ma contro tali strumenti alternativi si ricorre ad ogni genere di esorcismo anche a quello della logica.

Dimenticando quello che l’Europa (tanto amata) ci ricorda sempre, da ultimo con la sentenza della Corte UE del 28 gennaio: che i debiti vanno pagati. e alla scadenza. L’inverso di quanto praticato dalla finanza (piddina soprattutto) della seconda repubblica.

Peraltro nascondendo che di tali – o simili – mezzi alternativi d’estinzione delle obbligazioni si era fatto uso con risultati positivi. Dato però che l’assetto di potere economico oggi prevalente è diverso, occorre non intaccarlo. E con buona pace dell’ “ottimo” economico, torniamo così al rapporto di dominio.

Teodoro Klitsche de la Grange

diritto internazionale e geopolitica, con il professor Augusto Sinagra

La fase di incipiente multipolarismo sta evidenziando sempre più la precarietà e la volatilità del sistema di relazioni internazionali. L’evidente squilibrio di forze esistente ancora tra i vari poli evidenzia ancora una volta come non esista in realtà un diritto internazionale così come lo si intende all’interno della area di giurisdizione degli stati; gli ultimi avvenimenti in Medio Oriente, legati all’uccisione del generale Soleimani, evidenziano come gli atti politici spesso e volentieri non si premurano nemmeno di assumere una copertura giuridica e di legittimità_Buon ascolto_Giuseppe Germinario

storia e ricordi, di Gianfranco la Grassa

UN PO’ DI STORIA RECENTE PER GLI IGNARI

 

  1. Da qualche punto debbo cominciare questa mia breve (e fin troppo succinta) memoria della storia che abbiamo attraversato da molti decenni a questa parte. Intanto partirò da una premessa di tipo personale. Ho aderito al comunismo nel 1953. Mi trovai subito immerso nei dubbi e perplessità, direi perfino in opposizione, quando uscì l’articolo di Togliatti su “Nuovi Argomenti” nel 1956 con la “trovata” della “via italiana al socialismo”. In quell’anno fui contrario al XX Congresso del PCUS (tenutosi a febbraio) e poi ammirai l’intervento di Concetto Marchesi all’VIII Congresso del Pci (verso la fine del ‘56), in cui svillaneggiò Krusciov, il meschino ricostruttore delle vicende dello stalinismo in chiave puramente personalistica e come si trattasse del frutto di una psiche “disturbata” e tendenzialmente criminale; con metodo insomma del tutto simile a quello, criticato dai comunisti (almeno da quelli che conoscevano un po’ il marxismo), quando si parla di Hitler folle e “mostro”, ricostruendo la storia in base a simili fatue categorie interpretative. Ricordo che Togliatti andò a stringere la mano a Marchesi dopo l’intervento e ciò rinsaldò il mio atteggiamento critico di fronte a quello che ho sempre considerato l’opportunismo dell’allora segretario piciista. Nell’ottobre del ’56 fui senza esitazioni per l’intervento in Ungheria, non approvando però l’atteggiamento incerto dei sovietici (una prima mossa aggressiva frettolosa e poco giustificata, poi l’arresto dell’operazione, infine la repressione troppo brutale).

Accettai inoltre quel fatto per ragioni che oggi si direbbero “geopolitiche”. Ritenevo un disastro che si sbriciolasse il campo avverso a quello atlantico (guidato e comandato dagli Usa). Cominciai tuttavia a chiedermi quale “coincidenza” ci fosse tra il “socialismo” imparato sui testi marxisti e quello in atto. Si ammette sempre una discrepanza tra teoria e realizzazioni pratiche, tuttavia mi sembrava che fosse venuta in evidenza una distanza “leggermente” eccessiva. Fui poi disturbato dal comportamento dei vertici del PCI (della “via italiana al socialismo”) nei confronti di chi traballò e fu preso da naturali dubbi, come ad es. Di Vittorio, di cui si dice che fu perquisito a casa e intimidito da parte di una sorta di “polizia interna” (che a mio avviso era giusto esistesse, ma non per agire con somma rozzezza e brutalità) mossa da quello che si riteneva allora una specie di “ministro dell’interno” del partito (lo stesso che nel 1978, in costanza di rapimento Moro, fece il viaggio, detto ridicolmente “culturale”, negli USA). E’, però, soltanto un “si dice”, mi raccomando, non prendetelo per sicuramente vero.

L’anno successivo (’57), fui comunque sostanzialmente dalla parte del “gruppo antipartito” nel PCUS (Malenkov-Molotov-Scepilov-Kaganovič), perché Krusciov mi appariva un opportunista rozzo e furbastro. I quattro furono espulsi dal partito, dopo alterne vicende: iniziale maggioranza nella Direzione del partito e poi in minoranza nel successivo Comitato Centrale, convocato d’urgenza dal segretario e che, come sempre accade quando si passa ad un numero piuttosto consistente di “esseri umani”, era zeppo di tirapiedi silenziosi e conformisti. Ciò mi allontanò ancor di più dalle posizioni del PCI, sempre allineato con Mosca e dunque ormai con la mediocrità del krusciovismo.

Da allora accentuai la mia critica al partito in quanto “revisionista” (pensavo ad una riedizione, “riveduta e s-corretta”, del kautskismo) e mi avvicinai sempre più ai comunisti cinesi (allora non ancora divisi in “linea nera” di Liu-sciao-chi e “rossa” di Mao, divisione che avvenne nel ’66 con la “rivoluzione culturale”; è ovvio che le definizioni di “nera” e “rossa” erano di marca maoista). Quando nel ’60 si svolse a Mosca il Congresso degli 81 partiti comunisti (di tutto il mondo), si precisò la lontananza fra cinesi e russi e mi sentii viepiù consenziente con i primi. Infine vi fu la “crisi di Cuba” (ottobre 1962), su cui occorre un racconto a parte, data la somma di bugie raccontate. Nel 1963, si precisò con nettezza il dissidio ormai inconciliabile tra PCUS e PCC (in cui era ancora in auge Liu-sciao-chi) con il violento scambio di accuse contenute nelle lettere che si scambiarono i comitati centrali dei due partiti. Alle critiche al PCUS, i cinesi aggiunsero due importanti interventi (in specie il secondo) contro Togliatti e il PCI. Da allora ruppi in modo definitivo con il partito; per un bel po’ di tempo mi aggirai nella gruppistica (quella di tendenza m-l), da cui però mi allontanai nel corso degli anni ’70 (in specie dopo la morte di Mao nel settembre 1976).

Poiché ero però allievo del maggiore economista di tale partito (fra l’altro, l’unico citato assieme a Togliatti nel secondo degli interventi cinesi contro i comunisti italiani), in definitiva mantenni aperti i canali con esso e quindi ebbi modo di sapere molte “cosette”. In fondo ho avuto contatti amichevoli con membri dei vertici del PCI (sorprenderebbe sapere qualche “grosso” nome, che non posso fare), senza mai chiedere alcun favore ma solo notizie (assai interessanti e sovente non di dominio pubblico). Frequentai anche molto “Critica marxista”, fui pubblicato dagli Editori Riuniti, ecc. ecc. Tuttavia, ero nel contempo impegnato in tutto quell’ambaradan che fu detto “extraparlamentare”; vedevo come fumo negli occhi, perché ne rilevavo le ascendenze fondamentalmente anticomuniste (non solo antipiciiste), le correnti poi dette “operaiste” (e più tardi dell’“autonomia”) e fui più vicino ai cosiddetti emme-elle, ma certo con tanto sconcerto per la sclerosi e dogmatismo delle loro posizioni, salvo rarissimi casi.

  1. Passarono gli anni, morì nel giugno ‘63 il “Papa buono” (il primo della “S.S. Trinità” costituita da Giovanni XXIII, Kennedy e Krusciov), a novembre fu assassinato il presidente americano, nell’agosto ’64 morì Togliatti e in ottobre fu rimosso il leader sovietico. Si arrivò al fatidico ’68 (preceduto in Italia da un ’67 già turbolento) e anni successivi che, come ben si sa, furono definiti “anni di piombo” (quelli ’70 soprattutto) o del “terrorismo rosso”, mentre invece sono stati anni in cui quest’ultimo (indubbiamente messosi in moto dissennatamente) fu ampiamente infiltrato e sfruttato (insieme a quello, “secondario”, detto nero) per una serie di “giochi delittuosi” posti invece in atto dai vari Servizi dei paesi dei “due campi”. Venni a conoscenza abbastanza presto di quanto fosse falso il “racconto” che si stava facendo (e che continua ancor oggi!) di quel “terrorismo”. Ricordo intanto l’importante evento della repressione sovietica in Cecoslovacchia nel 1968, che questa volta condannai, ma più che altro per critica al cosiddetto “socialimperialismo” Urss e senza aderire minimamente alle idee, anzi aborrite, di Dubcek e soci; idee invece condivise da assai deboli “antirevisionisti”, in particolare dai “manifestaioli” in Italia che mostrarono fin da allora di non essere migliori dei piciisti. Alla fine degli anni ’60 iniziarono “discreti” contatti tra PCI e “ambienti statunitensi”; prese insomma avvio il lento e molto coperto trasferimento del PCI verso “ovest”. In un certo senso, se si vuol fissare una data, si deve indicare il 1969; detto “per inciso”, in quell’anno Berlinguer divenne vicesegretario.

Sembravano allora maggioritari nel partito gli “amendoliani” (il cui n. 2 era Napolitano), corrente (pur se non riconosciuta formalmente in nome dell’unità del partito, che si pretendeva ancora leninista) cui apparteneva anche il mio Maestro, corrente cui si deve l’espulsione di quelli de “Il Manifesto”. Il gruppo amendoliano era considerato appunto l’avversario principale (quello più “revisionista”) nell’ambito del piciismo. In effetti, detto gruppo era sostanzialmente socialdemocratico, critico del socialismo di tipo sovietico; peraltro con critiche non del tutto errate a quello che era un semplice statalismo esasperato, ormai incapace di promuovere un vero sviluppo. Vi era in esso una propensione ormai piuttosto evidente verso il capitalismo; solo moderata da più che fumosi e mai seriamente attuati propositi di sedicenti “riforme di struttura” e di “programmazione democratica” al posto della pianificazione statalista, con idee poco chiare circa la pretesa superiorità delle imprese “pubbliche” rispetto alle “private”. Insomma, fu evidente la debolezza teorica (del “marxismo all’italiana”) e anche l’ambiguità della loro linea politica. Gli “amendoliani” (almeno nella maggior parte) erano comunque contrari all’atlantismo (Usa) e quindi considerati tutto sommato filosovietici nell’ambito del PCI; furono dunque i più radicali avversari dei gruppuscoli extraparlamentari, che oscillavano tra il filo-maoismo (e la rivoluzione culturale) e il dubcekismo opportunista e filo-occidentale (soprattutto apprezzato da quelli del “Manifesto”).

Nel 1972 venne eletto segretario Berlinguer con l’appoggio di un composito assembramento di cui fece parte l’ormai “fu” (almeno per me) amendoliano Napolitano e la sedicente sinistra ingraiana, che aveva fili di collegamento con la gruppistica tramite i “manifestaioli”. Da allora, il cambio di casacca piciista procedette con più sicurezza e, nel contempo, prudenza; venne via via in evidenza l’“eurocomunismo”, l’ideologia che mascherava tale processo e cercava di dare dignità allo spostamento di campo nello schieramento internazionale.

  1. Nel 1967 vi fu il colpo di Stato dei colonnelli in Grecia (e venne ucciso in Bolivia il Che Guevara, altro argomento su cui occorrerebbe un discorso a parte). Tale colpo di mano militare fu chiaramente appoggiato dagli USA (nella sua politica “ufficiale”), mentre vide ovviamente contrario lo schieramento sovietico e l’insieme dei partiti comunisti occidentali. Quel regime non fu mai ben saldo, pur se si parlò di contatti con ambienti “destri” in Italia e qualcuno ebbe paura di eventi simili pure da noi (il cui unico risultato in definitiva fu il gustoso film di Monicelli “Vogliamo i colonnelli”). Nel 1973 il regime militare greco entrò in piena crisi e l’anno successivo ebbe termine; con l’instaurazione, però, di una “democrazia” apertamente filo-occidentale, di fatto filo-atlantica e pro-Usa, quindi avversaria del campo detto socialista. E questo era comunque il reale scopo perseguito dagli Usa con il colpo di Stato.

Le posizioni tra il 1967 e il ’74 nel nostro campo capitalistico sembravano molto chiare e nette: gli Usa per i colonnelli, l’Europa tiepida, in certi casi perfino antipatizzante ma senza troppo irritare il perno del campo stesso; i comunisti, orientati “ad est”, decisamente avversari dei militari. La politica è però sempre assai meno limpida delle sue apparenze e delle declamazioni “in pubblico”. Dati “ambienti statunitensi” (diciamo così, la qual cosa è in fondo sufficientemente corretta) si rendevano conto della debolezza del regime greco e quindi tramavano sotto traccia pure con l’opposizione “democratica” greca per preparare l’eventuale cambio di regime come poi avvenne. In queste trattative entrava pure una parte dei comunisti greci, la minoranza, mentre la maggioranza restava ostile e vicina all’Urss. La parte minoritaria costituì il “partito comunista dell’interno”, che si collegò con il nascente “eurocomunismo”, il cui centro direttivo si trovava nella parte ormai maggioritaria del PCI. Fu durante quel periodo che si accentuarono (almeno così si può arguire) i contatti tra i suddetti “ambienti statunitensi” e date correnti del PCI e, tramite queste, con il partito comunista greco dell’interno; colloqui non irrilevanti per quanto avvenne poi in Grecia nel 1974: caduta del regime, vittoria elettorale di “Nuova Democrazia”, partito appena fondato da Konstantinos Karamanlis, governo “democratico” (conservatore) che iniziò il suo iter filo-Nato.

In quegli anni, fra l’altro, ebbi modo di venire coinvolto di striscio nella vicenda. Nel 1971 avrei dovuto andare proprio in quel paese e incontrare qualcuno che apparteneva ai “comunisti dell’interno” (i futuri “eurocomunisti” con il PCI). Purtroppo, ho come soli testimoni le mie orecchie e la mia vista; non posso provare per conto di chi ci dovevo andare e chi dovevo incontrare. Da questa vicenda trassi però in seguito idee piuttosto precise su ciò che stava accadendo con i cambiamenti di campo in atto. Alla fine rifiutai di recarmi in Grecia perché mi sembrava troppo pericoloso, ma tutto sommato – come appunto capii meglio un po’ dopo – sarei stato protetto abbastanza (e proprio da certi “ambienti” USA) anche se certamente i colonnelli avrebbero masticato amaro e potevano quindi farmi qualche scherzo tipo “incidente” o qualcosa del genere.

In ogni caso, per quanto all’inizio assai sorpreso della proposta fattami di andare “laggiù” (io ero ben conosciuto come comunista e quindi certo non favorevole a quel regime), pian piano afferrai poi cosa stava avvenendo in certi ambienti dell’“opposizione” in Italia. Di più non posso chiarire, ma ebbi prove discrete di quanto sto raccontando circa gli spostamenti di “campo” in quel periodo. Non compresi comunque subito che aveva preso avvio, tra fine anni ’60 e inizio ’70, lo spostamento di almeno alcune frange della “destra” (amendoliana), che permisero l’ascesa a posizioni di comando nel PCI di coloro che furono fondamentali per il suo lento orientarsi verso l’atlantismo, sempre però assai ambiguo almeno fino all’accettazione della Nato, anche questa iniziata fin dal 1972, ma molto ambigua e “mascherata” per alcuni anni.

General Augusto Pinochet (L) poses with Chilean president Salvador Allende, 23 August 1973 in Santiago.
ANSA

  1. Ancora più rilevanti per comprendere dati fatti riguardanti il “comunismo” italiano (ma anche più in generale) – accaduti in quegli anni, che sono pure fondamentali per meglio valutare il nostro presente, a partire dal periodo susseguente al crollo dell’Urss, alla truffaldina operazione “mani pulite”, ecc. ecc. – furono gli eventi svoltisi nello stesso periodo in Cile. Cerchiamo di essere ordinati, cosa non tanto facile data la somma di eventi, tra cui si deve trascegliere tacendone una buona parte. Se non vado errato – ma certamente ricerche storiche finalmente oneste sarebbero necessarie – nella seconda metà degli anni ’60 vi fu notevole corresponsione di interessi tra settori Dc (con Moro in testa) e il presidente democristiano cileno Eduardo Frei. Gli accordi portarono fra l’altro alla nascita di un’agenzia stampa (con sede a Roma), che si espanse a tutto il Sud America, poi ai tre continenti del Terzo Mondo ed infine su scala globale, autonomizzandosi rispetto all’originario contesto (oggi non esiste più già da tempo). Ciò introdusse anche correnti imprenditoriali italiane in Cile e altri paesi sudamericani, ma non penso proprio che questo abbia infastidito più che tanto gli USA.

Nel 1970, Allende vince le presidenziali in Cile. Frei, da allora, si sposta nettamente verso gli Stati Uniti e certamente non si oppose (penso proprio il contrario) alla preparazione del colpo di Stato di Pinochet dell’11 settembre 1973. Credo non debba esservi nemmeno dubbio che la scelta di Frei abbia determinato frizioni con settori non irrilevanti della Dc italiana e con Moro in particolare. Nello stesso tempo, come già era avvenuto in Grecia, vi furono sicuramente “ambienti statunitensi” che non parteciparono alla preparazione del colpo di Stato, sempre per il principio che è sempre necessario esistano soluzioni di ricambio per l’eventualità della non riuscita di determinati progetti più “radicali”. Indubbiamente, la storia successiva dimostrò che il colpo di Stato di Pinochet fu più solido di quelli dei colonnelli greci, durò sedici e non sette anni. Tuttavia, non credo proprio che abbiano mai cessato di sussistere i suddetti ambigui ambienti negli USA; sempre pronti all’eventuale sostituzione di determinati progetti con altri di tipo detto (ridicolmente) “democratico”.

Il PCI – o meglio certi settori dello stesso, ormai a noi ben noti, già in azione con i comunisti greci (dell’interno) durante il regime dei colonnelli – si mosse in questa situazione che ancora una volta si presentò chiara nella sua “ufficialità”: condanna del colpo di stato da parte del partito italiano (assieme a tutti gli altri partiti comunisti), contrarietà anche di altre forze politiche nostrane (ed europee, contrarietà molto ben contenuta), appoggio smaccato a Pinochet da parte degli Stati Uniti, apparentemente in tutti i loro ambienti poiché è ovvio che le “forze di riserva” si tengano sempre ben coperte e tramino in gran segreto per l’eventualità di diverse soluzioni future. Subito dopo il colpo di Stato, esce in tre puntate (su “Rinascita”) un lungo articolo di Berlinguer (ricordo: segretario dal 1972 per la convergenza dei settori ex amendoliani, di cui già detto, e anche della sedicente corrente di sinistra, ecc. sul suo nome), in cui si condanna ufficialmente il colpo di Stato, si accusano dello stesso gli USA; però…..

Il però era un’apparentemente togliattiana valutazione intrisa di “realpolitik”, che taluni vollero assimilare alla scelta di Palmiro nella famosa “svolta di Salerno” del 1944, necessitata dai patti di Yalta e dal voler evitare la stessa sorte che toccò ai comunisti greci; sorte, lo si scorda sempre, che si compì per essi nel 1949 dopo aver avuto perfino il sopravvento in dati periodi, almeno fino al 1947. Anno in cui si ebbe la rottura tra Jugoslavia e URSS e l’uscita della prima dal Cominform; evento da cui conseguì l’impossibilità di adeguati aiuti (soprattutto dell’URSS) ai compagni greci poiché gli jugoslavi (geograficamente vicini a quel paese) li impedirono. Ci fu poi la sostituzione di Markos (notevole capo militare) con il molle Zachariadis al comando delle truppe comuniste greche con risultati complessivamente catastrofici: annientamento di vasti settori di queste ultime e uccisione di decine di migliaia di militanti.

Berlinguer, con “buon senso” (appunto tra virgolette), ricordò che comunque l’Italia era parte del campo capitalistico (l’“occidente”) strutturato attorno ad un’alleanza militare, la Nato, controllata dagli Stati Uniti. Per evitare che anche l’Italia corresse pericoli di tipo cileno, bisognava secondo il suo parere almeno in parte “abbozzare” e accettare realisticamente la nostra posizione atlantica. In un certo senso, si può dire che da qui parte, o almeno si rinforza, l’idea del cosiddetto “eurocomunismo”, da ritenersi in qualche modo il successore, riveduto e (s)corretto, dell’invenzione togliattiana denominata “via italiana al socialismo”. Qui si pensa meno in termini italiani, nazionali, e invece più europei. Sembrò un allargamento di visione prospettica; in realtà, significò che il Pci, sfruttando la sua posizione di maggiore partito comunista d’occidente (e il più “radicato tra le masse popolari” del proprio paese, chiara impostazione ideologica del problema), si candidò a far da organo di collegamento e traino di tutte le frazioni interne ai partiti comunisti occidentali – primi fra tutti quelli francese e spagnolo, ma con ramificazioni minori pure verso i partiti comunisti orientali (dunque pure in Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, paesi “socialisti” in genere) – frazioni ormai preoccupate dell’evidente (salvo che per alcuni “frastornati”) indebolimento dell’Unione Sovietica (soprattutto dovuto alla struttura sociale interna, non tanto quale potenza militare) e che dunque si prepararono cautamente al cambio di campo.

S’intensificarono, tramite alcuni “ambasciatori”, i rapporti tra Pci e i suddetti ambienti statunitensi (quelli delle “soluzioni alternative”), che culmineranno nel 1978, chiudendo solo la prima fase, con il viaggio dell’alto esponente del Pci negli Usa; un viaggio ridicolmente e inutilmente presentato (salvo forse che per la “base”, costituita dai soliti credenti) come culturale, mentre si ebbero molti riservati incontri ben più significativi e coinvolgenti. Riparleremo più avanti di questo viaggio, avvenuto in fortuita coincidenza con il rapimento Moro; fortuita in quanto coincidenza temporale, non ne sono invece sicuro quale rapporto causa/effetto. Le mene “atlantiche” del Pci non avrebbero avuto senso senza l’avvio di quello che fu il “compromesso storico” con la Dc, un compromesso tutt’altro che scevro di antagonismo e di insinuante tentativo piciista di arrivare un giorno a sostituirla come bastione di un regime solidamente pro-occidentale (cioè pro-Usa), nella sostanza meno ambiguo di Dc e Psi verso l’est europeo, gli arabi, ecc. (pur se, ufficialmente, il Pci restò a lungo vicino a personaggi come Arafat, ecc.). Comunque, è tutto da ricostruire storicamente, non come fatto da storici “di sinistra” cui deve andare tutto il nostro disprezzo.

In ogni caso, non mi sembra che la Dc sia rimasta complessivamente tranquilla. Credo che i settori più favorevoli all’avvicinamento del PCI agli statunitensi (e dunque al “compromesso storico”) fossero in sostanza guidati da Cossiga (comunque questi ne fu un esponente assai importante). Costui, dopo “mani pulite”, sembrò prendere negli anni ‘90 posizioni di contrasto con gli USA. Lui stesso rivelò che, quando nella stampa americana s’iniziò a fare troppo spesso il suo nome in merito a quell’operazione giudiziaria, ottenne infine il silenzio minacciando di fare cenno ai contatti tra Stati Uniti e mafia siciliana per favorire la costruzione della base a Comiso con una “opportuna” azione tesa a mitigare la contrarietà dei partiti del cosiddetto arco costituzionale. Non credo siano serviti tanto questi ricatti quanto i rapporti con “amici” statunitensi che zittirono quelli che lo importunavano. Non a caso, ben dopo “mani pulite”, nel ’99, Cossiga (per sua stessa ammissione) fu al centro delle operazioni trasformistiche che portarono al governo D’Alema, giudicato il migliore per un “corretto” comportamento italiano di appoggio incondizionato all’aggressione clintoniana alla Jugoslavia.

  1. Tornando indietro agli anni ‘70, credo che Moro avesse una buona conoscenza dei fatti e fosse molto sospettoso e prudente nei confronti dell’avvicinamento (conflittuale, e non lo si prenda per bisticcio di parole) tra PCI e certi ambienti democristiani, pure loro pronti a notevoli mutamenti di prospettiva su pressione di certi “ambienti” statunitensi. Per quanto posso capire, il dirigente diccì – poi rapito e ucciso; e la si smetta di dire dalle BR – fosse in ciò seguito da Fanfani, mentre Andreotti come al solito si “destreggiò”; pagò più tardi, ma anche da “mani pulite” in poi sopportò in silenzio e con pazienza che passasse la buriana, garantendo una segretezza (di quanto avvenuto negli anni ’70) che infine lo premiò, cosa non accaduta ad altri (ad es. a Craxi, che era stato a suo tempo favorevole a contatti tali da almeno cercare di salvare Moro). All’inizio degli anni ’70, il PSI faceva già da lungo tempo parte del cosiddetto centro-sinistra al governo, ma fu solo dopo il ’76 (ascesa di Craxi, ecc.) che si mise in più accesa competizione con il PCI; e anche la direzione del partito socialista prese atto, secondo la mia opinione, delle pericolose manovre del “nuovo” PCI di avvicinamento agli USA.

Nel ’76 vi fu però (sempre fortuita coincidenza?) la vittoria decisiva dell’“antifascismo del tradimento”, che falsa tutto il significato della Resistenza, divenuta “lotta di liberazione” in pieno appoggio agli “Alleati”, i nostri “liberatori”. Balle mostruose, se si pensa che, come ammise Cossiga (anche se poi ritrattò e negò), l’80% di quell’evento storico – limitato di fatto, nella sua vera rilevanza, al nord Italia (o poco più) quale autentica lotta partigiana e non chiacchiere dei savoiardi e badogliani, poi di fatto avallate almeno parzialmente dall’eccessiva “prudenza” togliattiana – fu guidato dai comunisti. Naturalmente, ci sono molti misteri da spiegare, a partire dalla frettolosa fucilazione di Mussolini con sparizione, almeno così si continua a dire, di importanti carteggi. La scusa fu che, altrimenti, gli Alleati lo avrebbero salvato. Proprio così? Soprattutto gli inglesi e Churchill lo volevano salvo? Non è che certi “comunisti”, magari, eseguendo gli ordini del comando del CLN (con aperta tendenza al compromesso togliattiano dei dirigenti comunisti in quel comando) fecero un favore agli “Alleati”, ma soprattutto agli inglesi, consegnando carteggi tra Mussolini e il premier inglese? Mah!

Resta il fatto che né Moro né Craxi si opposero (c’è da dire: “et pour cause”?) al totale travisamento della Resistenza; non lo potevano, d’altronde, giacché ridimensionava il ruolo dei comunisti, fatto che pensavano ad essi favorevole (sbagliando di grosso!). Furono fin troppo morbidi anche quando ci si prodigò nel dileggio del “fanfascismo”, nelle vignette di Craxi in camicia nera e orbace, ecc. E si trattava di un chiaro sintomo di come il nuovo (falso) antifascismo volesse sfruttare i meriti passati, approfittando di un ceto intellettuale infame che obnubilò ogni effettiva memoria storica, per accusare di fascismo chiunque intralciasse il “compromesso storico”, cioè la “riabilitazione atlantica” del PCI. L’“antifascismo del tradimento” – lanciato fra l’altro con “Repubblica”, giornale non a caso uscito proprio nel 1976 – fece dimenticare l’infamia di badogliani e savoiardi, fu patrocinato anzi da ambienti repubblicani, dichiaratisi semmai eredi di “Giustizia e Libertà” (che ebbe uomini insigni, sia chiaro, non i miserabili allignanti in quel giornalaccio), ben foraggiati dai “cotonieri” italiani, in particolare dalla Fiat e dagli eredi degli ambienti industriali italiani fascistoni fino al 25 luglio ’43 – effettiva caduta del “fascismo” al “Gran Consiglio” diretto da Achille Grandi con arresto di Mussolini e sua “custodia” al Gran Sasso, da cui fu liberato dai tedeschi scesi in Italia dopo il voltafaccia settembrino del Re e di Badoglio – per poi voltare rapidamente gabbana e innamorarsi dei “liberatori” (si dice che alcuni ambienti “industriali” abbiano iniziato segrete trattative con i già chiari vincitori della guerra già a fine ’42).

Quell’“antifascismo del tradimento” attaccò appunto i settori che più sospettavano e temevano il “compromesso storico”, ma che commisero l’errore di non prenderlo di petto con molta energia, cosa che alla fine li perdette. E li attaccò esattamente come fa oggi; chiunque si oppone alle sue losche trame, all’asservimento totale del paese agli Usa, è immediatamente tacciato di fascismo. Va dichiarato senza mezzi termini che questo “antifascismo” è da quarant’anni il veleno responsabile dello sbriciolamento politico, sociale e culturale d’Italia. Ha apportato danni, putrefazione, viltà estrema, servilismo. E’ veramente il più grande pericolo degenerativo che sta correndo il nostro paese dall’Unità ad oggi. O lo si ferma o si è perduti per molti e molti anni. Non lo si ferma, però, con l’altrettanto meschino e antistorico anticomunismo dell’attuale “destra”, né con il liberismo d’accatto; non ci siamo proprio. Occorre ben altra forza politica, che ancora non appare minimamente in formazione; soprattutto perché tre quarti di secolo di “democrazia” (del tutto falsa e imbelle) hanno istupidito anche gran parte della popolazione, perfino le masse più popolari.

 

  1. Dobbiamo fermarci un momento a pensare e analizzare, sempre via ipotesi, quanto stava avvenendo nel campo “socialista” centrato sull’Urss. Devo tralasciare tutta la questione del decisivo dissidio sovietico-cinese in cui s’inserì, nei primi anni ’70, l’azione Kissinger-Nixon, non raggiungendo grandi successi per gli ostacoli frapposti a quello che, io penso, verrà infine rivalutato come un non banale presidente americano, fatto fuori dall’FBI con il “Watergate” (su indicazione di ben precisi centri statunitensi portatori di altra strategia). Qui mi limito a considerare brevemente le difficoltà interne dell’Urss, che non potevano non riverberarsi sui paesi dell’area ad essa sottomessa.

Con la liquidazione di Krusciov (1964) si mise termine ad una serie di operazioni sconnesse e contraddittorie, che rappresentavano un grosso pericolo per la seconda superpotenza mondiale; sia per quanto concerne la coesione all’interno sia per il possibile sgretolamento della sua sfera d’influenza esterna. Tuttavia, si congelò la situazione sociale e politica, si dichiarò una soltanto formale e decrepita ortodossia ideologica, ormai priva di presa. Si cercò di tenere saldo un blocco sociale (ed è già tanto forse definirlo così) formato dai vertici del partito – con gli alti dirigenti dei grandi “Kombinat”, nominati da detti vertici politici per meriti di fedeltà, non certo per capacità direttive manageriali – e dagli strati inferiori, esecutivi, dei lavoratori salariati trattati ancora, del tutto stancamente, da Classe Operaia, il presunto soggetto operativo nella “costruzione” del socialismo (primo stadio) e poi comunismo. Il famoso principio marxista del socialismo, “a ciascuno secondo il suo lavoro”, venne interpretato in senso meramente quantitativo, in quanto durata e pesantezza del lavoro; non per la qualità, così come intendeva Marx che – oltre al fatto di pensare tale classe formata, insieme, “dal primo dirigente all’ultimo giornaliero” – aveva fatto distinzione tra lavoro “semplice” e “complesso”, un’ora del quale valeva quale multiplo dell’ora del primo. Vi erano operai delle mansioni inferiori che prendevano un salario (pur sempre basso) non inferiore a quello di molti quadri intermedi (o anche medio-alti, salvo i “boss” legati al partito) e perfino a quello di ricercatori in importanti centri di elaborazione scientifica e tecnica.

In un sistema industriale in crescita, è ormai dimostrato che gli operai, se si considerano tali solo quelli svolgenti mansioni prevalentemente esecutive o addirittura manuali (non l’“associazione dei produttori” di cui parlava Marx), diminuiscono di peso perfino numericamente, per non parlare del loro contributo ad una industrializzazione sempre più sofisticata. Crescono invece rapidamente gli strati intermedi (i “ceti medi”), e non soltanto in ambito strettamente produttivo. Ed infine, dato l’evidente fallimento totale di una cogente pianificazione – dall’alto e dall’esterno delle diverse unità produttive, che non vengono affatto a formare un tutto unico, compatto, omogeneo – diventa fondamentale lo strato manageriale: e non semplicemente tecnico, bensì specificamente dotato in senso “strategico”. L’Urss, durante il ventennio brezneviano, cristallizzò la pratica legata alla vecchia ideologia “rivoluzionaria” e andò incontro a “rendimenti decrescenti” con accelerazione esponenziale, mascherata solo dalla forza (in specie militare) raggiunta in passato e da una solo apparente unità del PCUS.

Fu infine l’insieme, sempre più ampio e massiccio pur se frastagliato, degli strati sociali intermedi – ignorati per sclerosi ideologica e politica, pure responsabile del forte indebolimento economico e dunque di una effettiva stagnazione, ecc. – a scardinare l’ordinamento sovietico e a creare nel contempo lo sfacelo sociale che distrusse l’Urss. Basta con la favola del “grande” presidente Reagan (attore scadente pur se interprete in film niente male, in specie western), che avrebbe stroncato il bastione del “socialismo” (chiamato, dagli ignoranti di tutti gli schieramenti, comunismo), obbligandolo ad un surplus di spese militari. Il crollo, una vera e propria implosione, fu dovuto invece al collasso del sistema complessivo, con una direzione politica legata a impostazioni superate e incapace di comprendere i processi di trasformazione di quella “formazione sociale”, definita del tutto impropriamente socialista. Alla morte di Breznev (1982), vi fu già un primo sussulto pre-distruttivo con l’elezione a segretario del partito di Jurij Andropov, che però morì nel 1984. Il pendolo tornò a segnare l’ora di uno stretto collaboratore di Breznev, Černenko, che si spense dopo sei mesi di segretariato (marzo 1985). Venne in auge allora Gorbaciov che restò fino alla dissoluzione dell’Urss (1991), liquidò l’intero campo “socialista” euro-orientale, organizzando fra l’altro il colpo di Stato (passato per rivolta popolare) di Iliescu in Romania. Questo più che mediocre personaggio, assurto indegnamente alla direzione dell’URSS, cercò perfino di creare zizzania in Cina, dove le sue mene (con alcuni ambienti interni al PCC e al segretario del partito, subito destituito) furono assai velocemente stroncate. Dopo, la situazione precipitò in URSS con Eltsin che dissolse l’Unione sovietica alla fine del 1991. Formatasi la Russia, assai più debole e con la perdita di alcune “Repubbliche”, le sorti cominciarono a risalire molto lentamente con Primakov, ma ormai da posizioni compromesse. Infine, la ripresa di quel paese si rinsaldò con Putin. Questa è già storia dei nostri giorni e dunque tornerò adesso indietro.

  1. Dopo la cacciata di Krusciov nel 1964, l’Urss tornò solo apparentemente compatta e unitaria. In essa, per i motivi sociali sopra accennati, permanevano correnti sotterranee di opposizione, anche dentro lo stesso PCUS. Correnti che, in qualche modo, erano perfino in buon rapporto con l’“eurocomunismo” o erano comunque interessate a compromessi con l’occidente, anche a “prezzi” molto bassi, talvolta di svendita. Esse furono a lungo strettamente controllate, ma la loro opera corrosiva cresceva lentamente ed in modo coperto e cauto; soprattutto tenevano contatti con le corrispondenti frazioni dei partiti comunisti euro-orientali, infarcite dei soliti opportunisti che annusavano i mutamenti di atmosfera (pur tenuti molto segreti) e si preparavano ad ogni evenienza. Le frazioni maggioritarie – e solo apparentemente padrone assolute dei partiti: dal PCUS a quelli dei “satelliti” – non avevano capacità manovriere di grande rilievo per le carenze politico-ideologiche già accennate; esse usavano la forza e conducevano – tramite la parte più fedele dei Servizi e di altri apparati addetti ad operazioni varie anche all’estero – manovre segrete e deformate in guisa da non farne afferrare con facilità gli scopi realmente perseguiti.

Dette manovre miravano certamente a colpire e mettere in difficoltà le trame degli interessati a cedimenti compromissori più o meno gravi con l’occidente capitalistico. Lo facevano, tuttavia, in modo assai contorto, giungendo perfino a promuovere esse stesse pericolosi compromessi con gli USA e i paesi del campo capitalistico mediante mosse morbide e prudenti, alternate a scelte improntate ad estrema durezza (anche militare). Inoltre, cercavano prioritariamente di scompaginare le correnti compromissorie interne all’Urss e al “suo campo”, ma si rivolgevano pure all’esterno di quest’ultimo, imbastendo più o meno cauti e coperti rapporti con frazioni interne di alcuni partiti comunisti euro-occidentali ormai schierati in senso “atlantico”; frazioni rimaste fedeli al presunto socialismo e quindi nettamente contrarie all’eurocomunismo, ma soprattutto a chi aveva preso il sopravvento nel Pci, il principale di questi partiti, conducendolo a sempre più invischianti (e conosciuti dai Servizi dell’est) rapporti con gli USA e trasformandolo perciò nei fatti in una vera centrale di cospirazione antisovietica. In tale opera da voltagabbana, le frazioni ormai nettamente maggioritarie nel PCI sfruttarono pure il dissidio russo-cinese e, solo parzialmente, la fronda “gruppuscolare” fintasi quasi maoista; ad es. quella del “Manifesto”, che salvo lodevoli ma rare eccezioni, era la più “corrotta” fra coloro che si richiamavano, impudicamente e senza arrossire, al comunismo. Da qui gli eventi italiani degli anni ’70, degli anni detti “di piombo”.

 

  1. Nel ’68, il gruppo – composto in prevalenza, se ricordo bene, da cattolici divenuti comunisti (ma pure da comunisti “laici”), comunque tutti “ragazzi” in gamba – facente capo ad una rivista di orientamento marxista-leninista, “Lavoro politico” (una delle pubblicazioni apprezzabili di quell’area), entrò nel Pcd’I (m-l), quello che pubblicava “Nuova Unità” e che di fatto era in stretto collegamento con le “Edizioni Oriente”, nate a Milano nel ’63 con il principale compito, almeno per quanto io abbia potuto constatare, di diffondere le pubblicazioni della “Guozi Shudian”, casa editrice cinese in lingue estere, dalla quale provenivano le più importanti pubblicazioni dei comunisti di quel paese, appunto tradotte in italiano. Tralascio i rapporti da me intrattenuti con quest’area, conclusisi con una discussione (pubblica), polemica, tenutasi a Padova alla fine del maggio ’68 (proprio il 31), subito dopo la quale (ma non a causa della quale, sia chiaro) me ne andai a passare piacevolmente circa quattro mesi a Londra.

Quando tornai in autunno, trovai il Pcd’I (m-l) in scissione, con formazione della cosiddetta “linea rossa”, l’imbarazzante (perché un po’ ridicola) nascita di una “Nuova nuova Unità”, di “Nuove Edizioni Oriente”, e via dicendo. Il gruppo di “Lavoro politico” fu attivo nella scissione e nella nascita di questa “linea rossa”; va però affermato con la massima nettezza che tale gruppo si attenne, nel suo complesso, alla più assoluta legalità senza sfizi di lotte d’altro genere. E’ però vero che una parte minoritaria d’esso (con nomi poi divenuti noti) uscì sia dalla rivista sia soprattutto dal Pcd’I (anzi dai due Pcd’I ormai); e, per quanto ne so, andò a Milano dove nel ’69 fondò, immagino assieme ad altri, il “Collettivo politico metropolitano”, che gettò fuori un opuscolo programmatico non irrilevante. Da tale organismo, mi sembra proprio chiaro, nacquero le future BR. Mi dispiace di non trovare più quell’opuscolo (qualcuno certamente lo avrà) e la risposta che ne diedi, certo a circolazione assai più ridotta e totalmente ignorata, che purtroppo non trovo più. Tuttavia, la mia risposta conteneva una serie di obiezioni a quel “programma”, che a me sembra si siano rivelate con il tempo sensate.

Ricordo bene, ricordo male? Quel che ricordo di quello scritto da me criticato è la formulazione di due previsioni fondamentali, entrambe errate e foriere di sviluppi molto negativi. Innanzitutto, quella di un non troppo lontano scoppio della guerra tra “imperialismo” (USA) e “socialimperialismo” (URSS); per cui bisognava, “leninisticamente”, giocare sulle contraddizioni tra i due nemici, confidando nella tenuta della Cina maoista, di cui per la verità nessuno (per quanto ne so) immaginava la brusca svolta subito dopo la morte del “grande timoniere”. Ovviamente, mi sembra chiaro, l’idea centrale era un recondito riferimento alla “Rivoluzione d’ottobre”, avvenuta appunto verso la fine della prima guerra mondiale e nel da Lenin definito “anello debole della catena imperialistica”, in cui crollò il regime zarista; l’Italia sarebbe stata il nuovo “anello debole” in questa prevista terza guerra mondiale. La seconda previsione, su cui però ho ricordi più imprecisi, è quella di un probabile o almeno possibile colpo di Stato in Italia; il che, credo, scontasse l’impressione ricevuta da quello verificatosi nel 1967 in Grecia. Devo dire che, ancora nei primi anni ’70, in molti “giocavamo” un po’ troppo con questo timore.

In ogni caso, fui subito comunque molto contrario e critico dell’idea di entrare in clandestinità prima ancora che l’evento si producesse. Ricordo bene che ero addirittura stupefatto di simili intenzioni. Si poteva capire l’attuazione di preparativi per l’eventualità, preparativi di vario tipo e soprattutto organizzativi; e, se volete, anche in riferimento alla creazione di alcuni “depositi d’armi”. Tuttavia, che si proponesse l’entrata in clandestinità anticipando le mosse “dell’avversario” mi sembrava una trovata balzana, per non dire di più. Dove la mia contrarietà si espresse ancora più netta e senza esitazioni fu sulla previsione di una guerra tra le due superpotenze (con i loro alleati/subordinati al seguito) con il ripetersi di un quadro simile a quello che permise l’“ottobre bolscevico”.

Non ero ancora stato a Parigi da Bettelheim (lo feci nel 1970-71). Tuttavia, ero già ben convinto dell’ingrippamento dell’Unione Sovietica, messo in luce a partire dal XX Congresso (1956) e aggravatosi negli anni successivi. Ricordo vivaci polemiche con coloro che insistevano addirittura sulla superiorità del “socialimperialismo” in quanto “capitalismo di Stato”, pensato quale gradino superiore (e ultimo o supremo) della società capitalistica, con riferimento un po’ scolastico ad una vecchia impostazione del marxismo “d’antan”. Ho succintamente accennato sopra ai motivi dell’indebolimento dell’Urss (per non parlare dei paesi “socialisti” euro-orientali, in netta difficoltà); li avrei approfonditi ben di più a Parigi, con anche una qualche informazione sulla solo apparente coesione di quei paesi, percorsi dalle correnti che condussero al crollo dell’89 (“campo socialista” europeo) e del ’91 con dissoluzione dell’URSS dopo qualche anno di “agonia” gorbacioviana, scambiata (non da me!) per ripresa del “socialismo”. Nel ’69-’70 non avevo quelle informazioni né avevo approfondito con Bettelheim la corrosa struttura sociale sovietica. Tuttavia ero già convinto della stasi di quel paese e dunque dell’improbabilità, per me pressoché assoluta, di uno scontro mondiale tra le due superpotenze; in realtà, ne esisteva ormai una sola di effettiva, gli USA.

  1. Arriviamo quindi al punto cruciale per quanto concerne la storia italiana di quell’epoca infelice e con il quale interromperò, almeno per adesso, questo racconto. Le direzioni dei partiti comunisti dei paesi euro-orientali avevano la sensazione di pericolo per opposizioni interne, ma soprattutto perché consapevoli di un’Unione Sovietica meno forte di quanto sembrava a prima vista. La rottura con la Cina – in continuo aggravamento, che non terminò nemmeno con la svolta post-maoista del 1976, subito dopo la morte di Mao con arresto della cosiddetta “banda dei quattro (fra cui la moglie di Mao) – rendeva i pericoli ancora maggiori. E bisogna ben dire che la politica Kissinger-Nixon di “apertura” ai cinesi e a una possibile pace in Vietnam – politica non certo fiorita all’improvviso nel 1972 con il viaggio nixoniano a Pechino, poiché occorreva prepararla, senza pubblicità, prima che apparisse alla luce del giorno – rendeva il pericolo ancora più grave. Diciamo pure che gli ostacoli frapposti dall’interno al presidente statunitense, e poi la sua eliminazione tramite il “Watergate”, diedero al “campo socialista” un periodo di respiro, consentendo fra l’altro all’Urss una stretta alleanza con il Vietnam, dove esisteva una minoritaria, ma forte, corrente filo-cinese nel partito comunista, sconfitta appunto dopo gli approcci tra Cina e Usa, che diedero un loro contributo a possibili sbocchi della guerra in Vietnam con gli accordi di pace di Parigi (gennaio 1973), finiti però male anche (e direi soprattutto) a causa delle difficoltà di Nixon. Quegli accordi condussero comunque al ritiro di buona parte delle truppe statunitensi dal Vietnam del sud; il che alla fine favorì la vittoria dei nordvietnamiti e la loro conquista di Saigon nell’aprile 1975. Il Vietnam riunito si schierò infine apertamente con l’Urss ed entrò in conflitto (perfino una breve guerra di un mese nel 1979) con i cinesi.

Ripeto che tali avvenimenti diedero solo una boccata d’ossigeno al “campo socialista” europeo centrato sull’Urss; e proprio grazie alla miopia di quegli ambienti statunitensi che misero in moto la manovra contro Nixon (con l’azione del Fbi, ecc.). In ogni caso, non si può pensare che i partiti comunisti euro-orientali non avvertissero che cosa stava avvenendo. Immagino che anche importanti settori del partito comunista sovietico (anzi maggioritari nel periodo brezneviano) stessero in allerta ben conoscendo l’azione corrosiva di quelle correnti più tardi (1985) responsabili della nomina di Gorbaciov a segretario del partito. E’ ovvio che la storia avrebbe avuto ben altro andamento se in Urss si fosse compresa la necessità di smantellare quella struttura politica che cristallizzava una situazione non più confacente alla “composizione sociale” ormai in formazione nel paese.

Fra l’altro, si sarebbero dovuti regolare, in qualche modo, i conti con la Jugoslavia (avamposto più importante di quanto non si creda, anche durante la direzione titoista, di varie manovre di “infiltrazione” nel blocco sovietico provenienti da “occidente”), accomodare i rapporti pure con la Romania (costretta a rapporti amichevoli con la Cina proprio dall’atteggiamento ostile dell’Urss, sfociato poi apertamente nell’aiuto fornito al colpo di Stato di Iliescu contro Ceausescu durante la “gestione” gorbacioviana). Meno importante l’attrito con l’Albania, comunque anch’essa schierata con la Cina, pur essendo invece critica nei confronti del maoismo; e ne fanno prova gli aiuti dati da Enver Hoxha alle frazioni di cosiddetta “linea nera” nei vari, pur irrilevanti, gruppuscoli m-l, soprattutto nei paesi euro-occidentali, Italia compresa.

La posizione di debolezza dell’Urss, accompagnata dalla presenza di correnti filo-occidentali nei paesi europei “socialisti”, rendeva in ogni caso più fastidiosa la presenza nei paesi europei della NATO di partiti comunisti (rilevanti comunque solo in Francia e ancor più in Italia) con tendenza a “sbandare” (ma così nettamente soltanto nel nostro paese) in senso dichiarato riformista, in realtà di sostanziale accettazione della formazione sociale esistente in occidente, quella che veniva ritenuta “il capitalismo” in aperto antagonismo con “il socialismo”; non mi soffermo sulla questione di detta schematica contrapposizione, a tutt’oggi non risolta da politici (e storici) incompetenti e faziosi.

Una Unione Sovietica forte – con il suo “campo” (sfera d’influenza) ben controllato, con un migliore sistema di alleanze (o di non inimicizia) con Cina, Jugoslavia, ecc. – avrebbe determinato un diverso andamento degli eventi storici; per quanto ci riguarda, sarebbero stati meno forti, e immagino meno determinanti, quegli influssi che invece si produssero negli anni ’70, i cosiddetti “anni di piombo”, in cui si è posto in forte risalto il dichiarato “terrorismo rosso” (e anche nero in certi casi) per coprire le mene internazionali condotte in varia guisa in quegli anni.

La situazione era invece quella appena delineata: l’Urss apparentemente molto forte, ma in posizione di sostanziale stallo rispetto agli anni della grande ascesa (soprattutto gli anni ’30), della vittoria nella seconda guerra mondiale, dell’allargamento del “campo socialista”, ecc. Nei paesi euro-orientali, i partiti comunisti (i loro vertici ovviamente) erano consapevoli delle difficoltà esistenti soprattutto al loro interno, ma comunque aggravate da quanto avveniva, sia pure in modo poco appariscente, nel paese centrale del sistema. Vi fu la succitata boccata d’ossigeno quando si pose in mora la politica nixoniana verso la Cina (e anche il Vietnam), si verificò la creduta grande vittoria dei nordvietnamiti contro il gigante statunitense e l’altrettanto sopravvalutata crisi interna statunitense a causa di quella guerra, ecc.

Un conto sono i “movimenti” che si credono sulla cresta dell’onda e blaterano di vittorie sull’imperialismo, in via di presunto indebolimento. Un altro sono i vertici politici delle varie organizzazioni che conoscono la POLITICA (le strategie del conflitto), sanno come questa deve essere condotta, sono ben informati circa le mosse segrete di cui quella vera si sostanzia; e di cui, invece, i poveri “giovinotti” di detti “movimenti” nemmeno avevano il più blando sentore. O forse sarebbe meglio dire che alcuni ne avevano un qualche sentore, ma secondo quanto avevano deciso di far sapere (e far credere) loro i vari “Servizi”, che sono una delle nervature cruciali di detta POLITICA, quella seria e non fatta di dissennate valutazioni degli effettivi rapporti di forza esistenti.

In nessun momento degli anni ’70, i partiti comunisti, sia all’est che all’ovest, crederono a ciò che magari sostenevano ufficialmente. All’est è probabile che si comprendessero le proprie debolezze e i pericoli che si correvano. E all’ovest forse pure. L’eurocomunismo, cioè in definitiva il suo nucleo centrale, il PCI (con i vertici in mano alla nuova maggioranza), non defletté certamente mai dal suo cauto, coperto, spostamento verso l’atlantismo. Tuttavia, credo che sia rimasta molto in ombra – per il solito motivo che la storia la raccontano i vincitori – l’esistenza, soprattutto proprio in Italia, di frazioni del tutto minoritarie, ma non proprio inconsistenti, in opposizione (anche all’interno di quel partito) a simili approcci verso gli Usa e l’occidente in genere. Non credo però ci fosse una effettiva consapevolezza delle manovre “eurocomuniste”. Purtroppo, la visione ideologica del tempo faceva credere che la lotta nell’ambito del movimento comunista fosse una sorta di ripresa dello scontro tra “neokautskismo” (neorevisionismo) e neoleninismo (in buona parte identificato con il maoismo); un errore non decisivo ma comunque rilevante per far prevalere gli ambienti più opportunisti e miserabili del PCI e dei partiti consimili in altri paesi europei.

Fu in ogni caso del tutto impossibile formare un fronte in qualche misura comune – al di là delle divergenze, non solo ideologiche ma pure politiche – tra tutti quelli che si opponevano ai piciisti degli anni ’70 e seguenti: chi perché appunto neoleninista, chi invece sostanzialmente socialdemocratico (ad es. gli “amendoliani”) ma comunque relativamente favorevole ad una “ostpolitik” e chi, come fu un po’ più tardi Craxi, semplicemente antagonista della supremazia del PCI sulla “sinistra” e sospettoso del “compromesso storico”, una buona leva per l’avanzata di tale partito, ormai degenerato, lungo la via di una politica filo-occidentale con tutto ciò che comportò più tardi. Tale divisione fra gli oppositori a quel PCI favorì, infatti, quel che accadde in seguito con il viaggio “culturale” di Napolitano negli USA nel 1978; e soprattutto dopo la fine del “socialismo reale” e dell’Urss. Quanto appena ricordato può forse in parte spiegare anche l’azione di certi Servizi orientali (io penso soprattutto a quelli della  DDR e della Cecoslovacchia) per mettere comunque delle “zeppe” tra i piedi del PCI nel suo spostamento a ovest. E tra queste, almeno a mio avviso, ci fu anche un almeno iniziale appoggio alla poco assennata “lotta clandestina” (non solo delle BR), poi ampiamente sfruttata, come già detto, nell’ambito di una conflittualità tra est e ovest, ecc. ecc.

  1. Mi fermerei per il momento a questo punto per non allungare eccessivamente il mio “racconto”. Tuttavia sia chiaro che bisognerà riflettere a lungo su quanto è poi accaduto dopo la “caduta del muro” e la dissoluzione dell’URSS. In particolare in Italia, dove si è verificato un vero rovesciamento dei precedenti assetti politici tramite quella viscida manovra giudiziaria (“mani pulite”), che si prolunga ancor oggi in una continua invasione della politica da parte della sedicente “giustizia” e della “Legge”. Di questo abbiamo parlato comunque più volte nei nostri interventi; così come stiamo seguendo i netti mutamenti della politica internazionale, in cui cresce il “multipolarismo” e si accentua un dissidio politico all’interno degli USA forse più acuto che in passato e che mi sembra delineare un certo declino di quel paese, pur ancora il più potente economicamente, militarmente e anche in termini di avanzamento tecnologico.

Siamo tuttavia a mio avviso in un’epoca di “transizione” ad altra, cui dovremo faticosamente riadattarci abbandonando vecchie convinzioni senza lasciarci trasportare in visioni avveniristiche, che nemmeno la fantascienza ha avuto il coraggio di predire con tanta improntitudine e “falsa coscienza”. Lancio un ultimo avvertimento: la storia di tutto il ‘900 è stata gravemente falsificata e distorta da politicanti e storici attivi soprattutto negli ultimi decenni e che si qualificano come “sinistra”. Le nostre popolazioni non sanno un bel nulla di ciò che è stato il nostro passato. Per “risaperlo” e valutarlo adeguatamente dobbiamo rovesciare il predominio di questi falsificatori, che stanno provocando una vera crisi di cultura, di tradizioni di cui non dobbiamo per nulla vergognarci; insomma ci stanno conducendo ad una crisi della nostra civiltà. Reagiamo.

tratto da facebook

 

 

 

 

Analogie tra crisi politica e crisi della Chiesa, di Cesare Baronio

Pubblichiamo l’interessante articolo di “Cesare Baronio”, pseudonimo di un Autore cattolico tradizionalista,  probabilmente un prelato, che da qualche anno cura il blog https://opportuneimportune.blogspot.com/. Il Cesare Baronio[1] a cui rinvia lo pseudonimo fu uno storico italiano, membro dell’ordine degli Oratoriani, poi nominato cardinale di S. Romana Chiesa, morto nel 1607 a 68 anni.

Come è noto ai nostri lettori, Italiaeilmondo.com non si occupa specificamente di teologia o delle vicende della Chiesa, né sono cattolici la maggior parte dei suoi collaboratori. L’articolo di Baronio riveste però un notevole interesse per chiunque sia consapevole della profonda crisi, ancor prima culturale che politica, in cui versano l’Italia, l’Europa e in genere le nazioni che si richiamano alla civiltà europea.

L’immagine scelta da Baronio per illustrare il suo articolo raffigura “La predicazione dell’Anticristo” di Luca Signorelli, parte del ciclo a tema apocalittico affrescato nella cappella di S. Brizio del duomo di Orvieto (1499-1504). Colpisce subito lo sguardo la figura dell’Anticristo, che è un sosia del Cristo a cui Satana suggerisce che cosa predicare, sussurrandogli all’orecchio. Questa interpretazione teologica della figura dell’Anticristo come falso Cristo sviluppa la definizione patristica di Satana come simia Dei, “scimmia di Dio”; e nel recente passato ha ispirato il Racconto dell’Anticristo contenuto nei Tre dialoghi e racconto dell’Anticristo del grande pensatore religioso russo ortodosso Vladimir Solov’ev[2].

L’analogia proposta da Baronio tra crisi religiosa della Chiesa e crisi politica che attraversa la civiltà europea si fonda proprio sull’idea che in entrambi i casi, si tratti di crisi dissolutiva proveniente dall’interno, e non di crisi conseguente a conflitto con un nemico esterno; e che questa crisi si manifesti come dilagare dell’ impostura. Un’impostura sistematica che ha origine ai livelli più elevati della civiltà, là dove le massime Autorità spirituali e temporali elaborano le norme culturali, etiche e politiche fondamentali, in ordine alle quali si definisce il perimetro dei valori condivisi, e si stabiliscono i fini a cui vogliono e devono tendere sia la civiltà nel suo insieme, sia le persone che concretamente la costituiscono. Fondamenti normativi, valori e fini che gli impostori autorevoli sovvertono dall’interno, gradualmente, senza mai apertamente proclamarli decaduti o errati, senza mai proporre esplicitamente norme, valori e fini ad essi contrapposti; ma distorcendone progressivamente il senso e l’effetto, trasmutandoli nel contrario di se stessi con un’operazione alchemica dissolutiva (“l’opera al nero”) che in linguaggio contemporaneo si chiama “operazione di influenza”, una modalità della guerra psicologica.

Chi segua anche distrattamente il modus operandi della Unione Europea, ad esempio, non può fare a meno di notare che il processo di dissoluzione delle sovranità statuali degli Stati più deboli da parte degli Stati più forti, grazie all’intermediario-impostore della UE, la quale di per sé non ha personalità statuale o legittimità propria, segue proprio questa procedura clandestina; che parole come “riforma” o “democrazia” hanno gradualmente assunto, in questo contesto di impostura e dissoluzione, un significato persino opposto a quello registrato nei dizionari; e ovviamente, che le forze di sinistra sono i principali rappresentanti culturali e politici delle forme più predatorie di capitalismo.

L’analogia illustrata nell’articolo di “Cesare Baronio”, dunque, ci pare interessante e fruttuosa. Buona lettura._Roberto Buffagni

 

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Cesare_Baronio

[2] https://www.vitaepensiero.it/scheda-libro/vladimir-solovev/i-tre-dialoghi-e-il-racconto-dellanticristo-9788834339220-140729.html

Analogie tra crisi politica e crisi della Chiesa

Conosco persone di diversa estrazione sociale e differente cultura; diverse per età e censo; diverse per nazionalità e razza. Molti laici, parecchi ecclesiastici. Alcuni conoscenti non sono praticanti, altri frequentano assiduamente la vita della parrocchia. Ebbene, tra costoro credo che nessuno possa dirsi soddisfatto della vita che conduce, né fiducioso nel futuro che gli si prospetta dinanzi. La crisi pare esser diventata compagna di vita su tutti i fronti, dalla difficoltà di arrivare a fine mese con la pensione o lo stipendio, alla percezione di un imbarbarimento del vivere civile; dalle minacce concrete alla sicurezza a causa della criminalità sempre più diffusa, alla sfiducia generalizzata in chi, costituito in autorità, pare usare del proprio potere non per il bonum commune ma per interessi di parte, quasi dovesse rispondere ad altri, e non a Colui dal quale la sue autorità deriva e a coloro nei cui confronti essa è esercitata.
L’impressione è che questa sorta di abuso non si limiti al solo vivere civile, ma che si estenda anche all’ambito ecclesiastico, sicché politici, governanti e Pastori paiono accomunati da uno scollamento – per così dire – con i cittadini e i fedeli. Anzi, per esser più espliciti, si direbbe che il potere, a prescindere dalla fonte alla quale attinge la propria autorità, sia ormai nemico di quanti che pure afferma di voler tutelare e difendere. A ben vedere, ognuno di noi si rende conto che i mali denunciati non corrispondono minimamente a quelli che viceversa affliggono il popolo: si grida al razzismo, al fascismo, all’intolleranza, al fanatismo, all’integralismo quando è evidente che questi pericoli non corrispondono minimamente alla realtà.
Questa geremiade, amplificata dal mainstream, nasconde qualcosa che inizia ad esser sentito anche dalla gente comune, e cioè che i fenomeni cui assistiamo sono il risultato voluto e deliberato di un progetto volto a demolire l’intera società nella sua fede, nella sua civiltà, nella sua cultura, nelle sue tradizioni, nella sua educazione, nelle sue abitudini più apparentemente insignificanti.
Molti non comprendono bene il problema nella sua complessità, ma percepiscono l’estraneità e la pericolosità degli esperimenti in vitro proposti come ineluttabili ed imprescindibili per poter far parte del consesso civile. E percepiscono parimenti che le condanne inappellabili lanciate contro chi si oppone a questa sistematica demolizione sono solo pretestuose, perché mirano a deviare l’attenzione dalla sostanza, dalle vere cause della crisi presente.
Significativamente, la sensazione di avere contro i propri governanti coinvolge anche la Gerarchia cattolica, che soprattutto sotto il Pontificato di Bergoglio si è schierata pubblicamente a favore del mondo nemico di Dio. Quello che solo pochi denunciavano all’epoca del Vaticano II oggi è ammesso da molti laici e Prelati, alcuni dei quali iniziano a capire quel che era contenuto in nuce nei fumosi documenti del Concilio, nella rivoluzione dottrinale, morale e liturgica che esso ha determinato in seno alla Chiesa oggi trova coerente realizzazione nelle più funeste innovazioni cui assistiamo. E si comprende che il rapporto gerarchico tra Chiesa e Stato, demolito dalla Massoneria in nome di una pretesa laicità, si ripropone oggi a parti invertite, con uno Stato che si vuole superiore alla Chiesa, e una Chiesa che si è resa sua schiava; una Chiesa che rinnega se stessa e il suo divino mandato per farsi serva del mondialismo, del pacifismo, dell’ecumenismo, del pauperismo e di tutti i più detestabili ismi coniati dai suoi nemici storici, ora osannati come alleati nel perseguimento della fratellanza universale. Una fratellanza in cui Dio non è presente, se non come denominazione generica di un vago spiritualismo senza dogmi, senza morale, senza culto.
Assistiamo alla dissoluzione di tutto, attoniti e scandalizzati, quasi increduli nel dover ammettere il turpe amplesso tra la Città di Dio e la città del diavolo, tra Chiesa e anti-chiesa. Anzi, assistiamo all’eclissamento della Chiesa proprio nelle più alte sfere, dove chi dovrebbe pascere il gregge del Signore ha come unico scopo quello di disperderlo, esattamente come chi dovrebbe governare i cittadini garantendo loro pace, giustizia, salute e prosperità favorisce i dissidi, promuove l’ingiustizia, diffonde la malattia e causa deliberatamente la povertà. Su entrambi i fronti – quello religioso e quello civile – siamo testimoni di un ribaltamento, di una letterale sovversione delle finalità loro proprie, senza che paia possibile arrestare la corsa verso l’abisso.
La famiglia è distrutta, la figura paterna è cancellata, il ruolo del maschio è stravolto, la femminilità svilita, l’infanzia corrotta, l’adolescenza pervertita, la vecchiaia e la malattia eliminate per legge, l’istruzione imbarbarita, la legge infranta, l’autorità scardinata, la moralità condannata, la civiltà derisa, l’onestà punita, la bellezza sfregiata, la religione proscritta, la fede calpestata. Come contraltare ci viene proposta la celebrazione della sodomia, dell’incesto, della pedofilia, dell’omicidio, dell’aborto, della poligamia, dell’illegalità, della violenza, della criminalità, della menzogna, della sopraffazione, della barbarie, dell’orrido.
In questo sconvolgimento globale la Gerarchia non solo tace, ma se ne fa complice attiva e zelantissima, giungendo a tacere su quei principii che fino a vent’anni fa sembravano ancora irrinunciabili quali il diritto alla vita dal concepimento alla morte, la tutela della famiglia naturale, la condanna della sodomia. E come non bastasse, questa setta infeudata in Roma aggiunge all’insofferente silenzio su questi temi la legittimazione del divorzio, l’attacco al Celibato ecclesiastico, l’ammissione delle donne agli Ordini Sacri, la negazione della missione salvifica della Chiesa, l’indifferentismo religioso, l’ecologismo malthusiano e, da ultimo, anche l’idolatria pubblicamente praticata coram Pontifice durante l’ultimo, scandaloso Sinodo per l’Amazzonia.
Questa non è la Chiesa di Cristo, così come non merita d’esser considerato Stato quell’accolita di cortigiani che ci governa. Entrambi infatti, secondo la dottrina cattolica, traggono la propria autorità da Dio, che è Signore delle cose spirituali e temporali, e che entrambe regge nella Sua Provvidenza tramite l’autorità vicaria dei Sacri Pastori nelle cose spirituali e dei Governanti in quelle temporali. Scopo dell’autorità dei Sacri Pastori è di condurre le anime alla beatitudine eterna; scopo dei Governanti è di reggere i governati nelle cose materiali, affinché abbiano quel benessere sociale che possa loro permettere di compiere il loro dovere spirituale, che è di adorare, glorificare e servire Dio, per così meritare il premio eterno.
Ora, se lo Stato viene meno alle finalità che gli sono proprie, il fedele può sempre ricorrere alla Chiesa, che ha il potere di scioglierlo dall’obbligo di obbedienza ad un’autorità che si è resa illegittima, qualora sia in pericolo la sua salvezza. Ma se è la Chiesa –  o meglio, la Gerarchia della Chiesa, in un determinato momento storico – che viene meno al suo dovere, a chi mai si potrà rivolgere il Cattolico cui è imposta obbedienza all’errore e all’apostasia? Ed è forse ipotizzabile che il Signore possa pretendere da noi obbedienza ad una Gerarchia che persegue per sua stessa ammissione le stesse perverse finalità dei nemici di Dio? Ovviamente no, poiché l’autorità di Dio viene prima di quella degli uomini, e ad essa devono sottomettersi anche coloro che Egli ha designato come nostri superiori.
Vi furono epoche in cui la defezione di alcuni Prelati – talvolta anche la maggioranza – venne provvidenzialmente arginata dall’autorità civile, che difese i diritti di Dio e la Verità cattolica dinanzi ad un Clero pavido o deviato. Ci si potrà stupire nell’apprendere che ad esempio l’applicazione del Concilio di Trento nella Repubblica di Venezia venne imposta dal Doge, mentre il Clero della Serenissima avrebbe tranquillamente disatteso agli ordini della Sede Apostolica. Ma mai si ebbe il caso in cui l’autorità civile si sia dovuta scontrare con un Papa eretico, per difendere l’ortodossia. Né, in presenza di un’autorità civile ribelle, la Chiesa cedette sulle questioni di fede e di morale per assicurarsi l’appoggio del potere temporale. Eppure è quel che avviene ora, sotto i nostri occhi, mentre vediamo Bergoglio alle prese con la condanna della pena di morte fino a modificare il Catechismo, o con la legittimazione dell’adulterio, giungendo a dichiarare ufficialmente Amoris laetitia parte del Magistero ordinario. Duemila anni di eroica testimonianza della Chiesa, e cinquant’anni di silenzi complici, di compromessi, di adulazione, di ammiccamenti fino alla capitolazione e all’apostasia.
Quanti all’inizio della crisi potevano sostenere che i profeti di sventura avessero torto devono oggi riconoscere che le più fosche previsioni si sono, tutte, puntualmente avverate. E che esse sono cause dirette, logiche e necessarie delle premesse poste durante il Vaticano II. Chi non ammette questa correlazione strettissima compie lo stesso errore di chi, in ambito civile, deplora la pedofilia ma accetta l’omosessualità, perché incapace di rinnegare quei principi massonici e rivoluzionari che stanno alla base della cosiddetta democrazia moderna e della negazione della sovranità assoluta di Dio non solo sui singoli, ma anche sulle società. Quello che oggi è ammesso anche da politici “di destra”, come ad esempio le coppie omosessuali, ieri era denunciato come eccessivo dalla stessa sinistra; quando si introdusse il divorzio, lo si presentò come rimedio per casi estremi, al pari dell’eccezionalità del ricorso all’aborto quando venne approvata la Legge 194. Ma oggi il divorzio è prassi, e l’aborto è usato come alternativa alla contraccezione, e vissuto senza troppi traumi da una generazione di incoscienti per i quali la morte di un essere umano innocente è considerata un diritto e presentata come conquista sociale. Oggi suscita qualche perplessità la pedofilia, ma cosa impedirà tra un paio d’anni di legittimare il rapporto consensuale tra un minore ed un adulto, quando già oggi si insegna ai bambini la presunta normalità dei rapporti precoci e li si induce a credere che l’identità sessuale non sia dettata dalla natura, ma frutto di una scelta autonoma? Se il bambino ha diritto all’esercizio della propria sessualità al di fuori degli schemi imposti, non si dovrà far decadere anche il reato di pedofilia? E che dire dell’incesto, la cui condanna viene presentata come retaggio di un mondo bigotto e sessuofobo?
Comprendo che queste osservazioni possano apparire estreme, ma la velocità dei cambiamenti del costume sociale è tale, da permettere a chi sia oggi adulto di ricordarsi molto bene quale fosse la valutazione morale di certi atti anche solo negli anni Ottanta.
Analogo discorso può esser fatto per quanto avviene in seno alla Chiesa. Anche nell’imporre le riforme in ambito dottrinale o liturgico si è usato l’espediente del caso limite: l’istituzione dei diaconi permanenti per quei paesi in cui vi era carenza di sacerdoti era la premessa per la loro ordinazione, sempre con la stessa scusa. L’introduzione della lingua vernacolare per render meglio comprensibile la liturgia è servita come pretesto per inventare una nuova Messa, stravolgendola completamente e rendendola accettabile ai Protestanti non solo per le omissioni, ma anche per la facile equivocità interpretativa di quel che in essa rimaneva di cattolico. Il dialogo con i fratelli separati voluto dall’ecumenismo inaugurato dal Concilio era una scusa per giungere ad una confederazione delle religioni, mettendo sullo stesso piano non solo la Santa Chiesa con le sette scismatiche ed eretiche, ma addirittura con i pagani e gli idolatri. E le omissioni della dossologia trinitaria dal Veni Creator nei primi incontri ecumenici ha portato prima al pantheon di Assisi, ed oggi al culto pubblico della Pachamama, alla costruzione del tempio delle religioni abramitiche ad Abu Dabi, alla proposta del Papa all’ONU di istituire la giornata della fratellanza universale tra le religioni. Cose che nessuno dei Padri Conciliari – fatta eccezione per i congiurati del complotto, ovviamente – avrebbe mai non solo approvato, ma nemmeno potuto ipotizzare.
Così la finestra di Overton aperta con la povera fanciulla violata dal bruto per rendere accettabile l’infanticidio oggi ha condotto ad una vera e propria moda praticata dalle ragazzine di abortire per divertimento; e il compagno del malato terminale cui viene impedito l’estremo saluto sul letto di morte per rendere accettabile il matrimonio omosessuale oggi ha condotto all’adozione di bambini da parte di coppie gay, sottratti ai genitori naturali solo perché ritenuti omofobi dagli insindacabili assistenti sociali. Ed è sempre la finestra di Overton aperta da Bergoglio col suo “Chi sono io per giudicare” o ricevendo in udienza coppie di omosessuali che ha permesso in Austria la celebrazione di un matrimonio tra due lesbiche e che permette tuttora al gesuita James Martin di elogiare i gay, o che consente all’Arcivescovo di Vienna di profanare per due anni di seguito la Cattedrale con spettacoli GLBT. E sembra anzi che l’ostentata presenza di personaggi quali mons. Ricca e molti altri in Vaticano, promossi a posti di responsabilità dallo stesso Bergoglio, sia la più plateale sconfessione della condanna della Chiesa nei confronti della sodomia, assieme alla scandalosa gestione dei casi di molestie sessuali da parte non solo di sacerdoti, ma anche di Vescovi e Cardinali.
Nel mondo profano chi protesta è inizialmente deriso, poi screditato, denunciato ed emarginato dal consorzio civile. Sempre con la scusa di salvare vite deliberatamente esposte al traffico di negrieri ed ai rischi di naufragio pilotati dalle ONG – il famoso restiamo umani – non è ammesso nessun dissenso, quando si parla di accoglienza di orde di barbari violenti, criminali e incapaci di integrarsi. L’aumento dei casi di stupro e di feroce criminalità in tutti i Paesi coinvolti dall’invasione maomettana viene censurato dai media per ordine dell’autorità civile, che non vuol veder messa in discussione l’opera di distruzione di quel che resta della civiltà europea. L’imposizione dell’euro, col pretesto di un’unione solidale tra le Nazioni, ha massacrato le economie nazionali e rende gli Stati membri succubi di un’autorità tirannica dietro cui si celano élite finanziarie. Ma è vietato mettere in discussione la moneta unica, o il MES, il bail-in e tutti i mezzi dispiegati dagli oligarchi per schiavizzare interi popoli. E se chi protesta sul caso Bibbiano viene indagato; se chi in forza della legge respinge i clandestini alla frontiera è accusato di sequestro di persona o di violazione dei diritti umani; se chi lancia l’allarme sulla tossicità comprovata dei vaccini imposti per legge viene denunciato o radiato dall’ordine dei medici, non altrettanto avviene con chi viola deliberatamente la legge e compie reati nella più assoluta impunità: la Rakete può speronare una lancia della Guardia di Finanza e meritare una standing ovation al Parlamento Europeo, dopo aver querelato Salvini; il rapinatore extracomunitario che si ribella all’arresto e ferisce gravemente i Carabinieri è liberato dal magistrato; lo stupratore straniero viene assolto perché nel suo paese la violenza sessuale non sarebbe considerata un crimine; il mussulmano che sposa a forza una bambina non è perseguibile perché questa usanza fa parte della sua religione.
Similmente, anche nel mondo ecclesiastico la condanna dei buoni si accompagna scandalosamente alla tolleranza, anzi all’incoraggiamento dei malvagi. L’ordine religioso che vive la Regola francescana nella più assoluta povertà e celebra secondo il rito antico è commissariato; le monache claustrate che seguono le Costituzioni della Fondatrice sono messe per strada; il teologo che critica Amoris laetitia è cacciato dall’Università Pontificia, il giornalista cattolico che esprime perplessità sulla crisi della Chiesa è licenziato in tronco; il Nunzio Viganò, che denuncia gli scandali dei Prelati, deve vivere nascosto per paura di fare una brutta fine. Ma l’eretico più volte ammonito dal Sant’Uffizio viene creato Cardinale; il prete pervertito su cui gravano pesanti accuse di immoralità è consacrato Vescovo, e quando è denunciato si screditano le vittime e lo si chiama a Roma promuovendolo; l’ufficiale di Nunziatura che vive more uxorio con un laico è nominato Prelato dello IOR e dirige Casa Santa Marta; il Cardinale che truffa la moglie di un diplomatico e copre le molestie dell’amico Vescovo è tuttora membro del Consiglio dei Cardinali voluto da Bergoglio; il pretaccio che insulta Salvini con parole indecenti è amorevolmente visitato dall’Arcivescovo di Milano, già coinvolto nella copertura di un prete molestatore.
E se si vuole trovare un’ulteriore analogia tra la corruzione della sfera civile e quella della sfera ecclesiastica, si sappia che lo scandalo del MES, il cui contenuto è stato nascosto al Parlamento italiano, trova perfetta corrispondenza con l’occultamento dell’accordo tra la Santa Sede e il governo cinese, anche agli occhi del Cardinale Zen. Così, se un’autorità civile non eletta dal popolo impone l’accettazione di un trattato internazionale ai Parlamenti senza che questi possano conoscerne i termini (cosa inaudita), allo stesso modo un’autorità spirituale stipula un accordo diplomatico con uno Stato comunista ed anticattolico impedendone la divulgazione. In entrambi i casi, gli effetti sui cittadini e sui fedeli sono devastanti, ma questo non pare costituire un problema per chi, evidentemente, non si cura né dei cittadini né dei fedeli.
Si potrà obiettare che gli Stati derivano la propria autorità dal popolo, mentre la Chiesa non è una società democratica e l’autorità dei Sacri Pastori, ad iniziare da quella del Romano Pontefice, deriva da Dio. Ma la legittimazione popolare, dal basso, del potere civile è una costruzione recente, successiva alla Rivoluzione Francese: fino ad allora i Re ed i Governanti riconoscevano che la loro autorità proveniva dal Re dei Re, e a Lui piegavano il ginocchio. Questo sovvertimento radicale pare voler intaccare la stessa Chiesa, i cui gerarchi cercano di trasformarla da ormai cinquant’anni in una istituzione umana, in cui dovrebbero essere i fedeli, il popolo di Dio, ad eleggere e nominare i propri rappresentanti. Ma a ben vedere non è il popolo cristiano che chiede alla Gerarchia di democratizzarsi, bensì la Gerarchia stessa che, nei suoi esponenti più contaminati dallo spirito del mondo,  impone questa rivoluzione sin dal Vaticano II, che nella sfera ecclesiastica rappresenta ciò che per la sfera civile fu il 1789. Anche allora non fu il popolo a ghigliottinare i propri Sovrani, ma una minoranza di traditori al servizio della Massoneria e del cosiddetto libero pensiero. Da allora la peste ideologica ha talmente contagiato le menti da render quasi normale e scontato che la sovranità risieda nel popolo, usurpandola alla Signoria universale di Gesù Cristo: ils l’ont découronné. Ed è incredibile che la Chiesa segua, per mano dei suoi Pastori, lo stesso processo di ribellione al Re divino, scrollando da sé il giogo soave che il suo Fondatore ha voluto per lei. Anche in questo caso, non sono i fedeli a reclamare forme di rappresentatività di tipo democratico, ma la Gerarchia, il Papa. Se pensiamo al proliferare di commissioni, al moltiplicarsi di organi di impostazione parlamentarista come le Conferenze Episcopali e i Sinodi, ci rendiamo conto che la democratizzazione della Chiesa procede sulla falsariga di quanto è già avvenuto in ambito civile: con le stesse false premesse ideologiche, con gli stessi fallaci pretesti, con gli stessi esiti. Perché – come nel governo della cosa pubblica – anche in quello spirituale vi è un ordine, una gerarchia coessenziale all’istituzione, che non può esser soggetta a cambiamenti sostanziali senza violare l’intero ordine sociale voluto da Dio. E non basta affermare che si vuole coinvolgere nel governo della Chiesa la base, i laici, le donne affinché questo accada realmente: un’analisi degli eventi dimostra l’uso strumentale degli organi soi-disant democratici per il perseguimento di scopi tirannici, per l’imposizione della volontà del Principe ammantata di benigna condiscendenza verso le istanze della base che egli conculca. Non basta infine dichiarare di voler fare il bene del popolo perché le azioni compiute siano istantaneamente buone: i modi con cui le deviazioni dottrinali e morali di Amoris Laetitia sono state imposte al Clero e ai fedeli nonostante la contrarietà dell’Episcopato fanno crollare il ridicolo castello di carte della retorica bergogliana, facendo emergere maneggi indecorosi, abusi ratificati dall’alto, consultazioni falsate, risoluzioni disattese col solo scopo di eseguire gli ordini stabiliti sin dall’inizio. Ma non diversamente accadde al Concilio, per stessa ammissione dei congiurati che nelle commissioni di quell’infausta assise riuscivano a ribaltare il risultato delle votazioni con i metodi adottati in precedenza, e con successo, dagli allievi delle Frattocchie.
In questo grottesco paradosso, chi si ammanta di una legittimazione basata sul contratto sociale lo fa con autoritarismo e ricorrendo al proprio potere per imporre la sua visione rovesciata dell’autorità alla massa dei sudditi, siano essi cittadini o fedeli. E proprio in questo la sua autorità ne esce compromessa, perché ribelle all’unico detentore della sovranità, Dio, ed anche al preteso nuovo soggetto del potere, il popolo.
Si è costituita così una casta autoproclamata di gerarchi che non devono rispondere né a Dio né agli uomini, e che sono riusciti a crearsi un regno legibus solutus cui si deve obbedienza in forza di un colossale inganno che nessuno osa denunciare. Anche perché chi osasse ricordare che il potere dei governanti proviene da Dio sarebbe oggi considerato un fanatico; e chi reclamasse il rispetto di quella volontà popolare su cui si basa la democrazia non farebbe che ripetere un’ovvietà che sin dall’inizio è stata deliberatamente disattesa. Ma è pur vero che molti degli attuali oppositori si limitano a deprecare singoli eccessi, condividendo però le premesse che li cagionano.
In questi giorni un Governo non eletto dal popolo ha fatto in modo di impedire la discussione parlamentare della legge di bilancio, contro il dettato costituzionale, nel silenzio del Garante della Costituzione. Le Camere si troveranno a dover ratificare l’intera finanziaria senza potervi apporre alcuna modifica, e i partiti che compongono la maggioranza dovranno votare la legge per non far cadere il Governo, sotto la minaccia di ritorsioni economiche da parte dell’Unione Europea. I rappresentanti degli elettori sono stati spodestati e l’opposizione attuale – che in realtà rappresenta la maggioranza dei cittadini – protesta contro questo scandaloso abuso. Cosa c’è di democratico in questo, è sotto gli occhi di tutti. Ma lo stesso sistema è stato adottato ad esempio al Sinodo per l’Amazzonia, le cui consultazioni preparatorie sarebbero state condotte su migliaia di cattolici che avrebbero chiesto a gran voce l’abolizione del Celibato, l’Ordinazione delle donne, un rito liturgico più vicino alla spiritualità tribale dei popoli amazzonici. Salvo scoprire che questa operazione di presunta democrazia è stata pilotata dall’Episcopato tedesco, per aprire una breccia nella disciplina di tutta la Chiesa sfruttando norme particolari. Dietro tutto questo c’è sempre stato Bergoglio e il suo cerchio magico, che ha dimostrato non solo di voler metter mano ancora una volta alla dottrina immutabile ed alla veneranda Tradizione millenaria, ma anche di considerare i fedeli dell’Amazzonia come veri e propri selvaggi da usare come pretesto. Così abbiamo visto personaggi col viso dipinto e le piume in testa adorare l’idolo immondo della Madre Terra in Vaticano, nel deliquio estatico di frati e suore ribaldi, con massimo compiacimento delle Loro Eminenze e del Papa stesso; delle centinaia di migliaia di Cattolici che venerano la Madonna come Regina dell’Amazzonia e sono rimasti scandalizzati dalle profanazioni e dalle superstizioni volute dal Satrapo di Santa Marta non si è detto quasi nulla, se non per deplorarne il razzismo e il fanatismo. Era tutto già previsto, tutto deciso, tutto organizzato. Così la Gerarchia ha abusato della propria autorità per imporre un sovvertimento della fede immutabile, presentandolo come cosa voluta dal popolo amazzonico, cosa questa falsissima e pretestuosa. Disobbedienti a Dio, Capo della Chiesa, ed al popolo cristiano, nonostante i proclami di voler ascoltarne le istanze. Esattamente come avviene in ambito civile.
A questo punto è però necessario porsi una domanda. Anzi: la domanda. Qual è lo scopo perseguito da costoro, tanto nella sfera civile quanto in quella ecclesiastica?
La risposta si evince, senza ombra di dubbio, dalla perfetta coerenza dell’azione di entrambi. Basta analizzare criticamente gli eventi – al di là dei pretesti addotti – per coglierne la matrice luciferina. Li riconoscerete dai loro frutti. Chi oggi detiene l’autorità è emissario di Satana, prende ordini da un’élite di satanisti che a sua volta è al servizio del Principe di questo mondo. E in quest’opera infernale sono coinvolti non solo i governanti delle Nazioni ribelli, ma anche i membri della Gerarchia cattolica. Gli uni e gli altri sono uniti da un turpe vincolo di corruzione e vizio intellettuale e morale che, se solo fosse reso noto al mondo, provocherebbe una sollevazione popolare. E si comprende che il ricatto cui essi sottostanno riguarda tali aberrazioni da giustificare questo asservimento cieco alla volontà di Satana. Chi finora è stato scoperto o si è ribellato non ha avuto il tempo di esser processato, di raccontare i dettagli e di coinvolgere i capi della congiura: muoiono tutti, in fatali incidenti o suicidati. Ne ha parlato anche il Presidente Putin recentemente, affermando che l’opposizione feroce a Trump è causata dalla sua intenzione di far luce sul legame tra pedofilia e satanismo che coinvolge personaggi di spicco di mezzo mondo: politici, attori, esponenti dell’alta finanza, membri di case regnanti, Prelati.
Ma anche se di queste inconfessabili verità non si avesse contezza, sarebbe sufficiente osservare quel che accade nel mondo civilizzato, in particolare in Europa e in America, per rendersi conto che dietro tutto questo non può che esserci Satana, omicida sin dal principio, che reclama oggi sacrifici umani come ha sempre fatto nella Storia dell’umanità, che vuole la dannazione dell’uomo nella folle persuasione di poter diminuire il trionfo finale di Dio, dell’odiato Nazareno, della Donna che gli schiaccerà il capo. Chi se non Satana può ispirare i legislatori perché rendano legale l’assassinio di bambini fino ad un istante prima del parto? Chi se non Satana può volere la corruzione dei fanciulli con l’insegnamento delle peggiori perversioni nelle scuole e la diffusione della pornografia? Chi se non Satana può imporre il vizio come modello da rispettare, e la virtù come comportamento da sradicare? Chi se non Satana può abbattere la Croce di Cristo e pretendere che la Chiesa di Satana abbia piena libertà di culto, addirittura con propri cappellani nelle forze armate? Chi se non Satana può volere la distruzione di qualsiasi traccia del Cristianesimo, facendosi erigere statue nelle piazze e nei palazzi delle istituzioni pubbliche? Chi se non Satana può profanare le chiese con il culto degli idoli, ed allo stesso tempo cercare di cancellare il Sacerdozio cattolico e la Messa? Se questa fosse un’opera umana, non riuscirebbe ad essere così organizzata, così efficace e così sistematica.
La simia Dei sta replicando al contrario ciò che hanno fatto la Chiesa e la società cristiana: distruggere gli idoli, abbatterne i templi, predicare il Vangelo, battezzare le Nazioni, riformare i costumi, difendere la santità della vita umana, educare i fanciulli, dare saldi principi ai giovani, tutelare la famiglia, ispirare la giustizia civile, assistere i poveri, curare i malati, combattere gli invasori che minacciano la pace e la Religione. Ed erigere cattedrali in onore di Dio e dei Santi, costruire statue nelle piazze, alzare Croci sulle vette delle montagne, benedire i raccolti, le case, le officine per allontanarne l’influsso malefico del Nemico.
Si potrà obiettare che quelli che ho denunciato sono casi singoli, ma così non è. Forse questa obiezione avrebbe potuto  esser credibile a qualche sprovveduto venti o trent’anni fa; ma oggi la coerenza dell’azione del Maligno è talmente evidente, che negarlo sarebbe irresponsabile o in malafede.
Quello che però non viene detto è che, in questa colossale frode imposta dall’alto alle masse, la maggioranza subisce passivamente perché crede di essere minoranza, mentre è vero il contrario: i servi di Satana sono pochi e se riescono ad aver mano libera in quest’opera infernale, ciò avviene solo perché la maggioranza sopporta e non reagisce, spesso perché in essa è ancora vivo quel senso di obbedienza che la fa desistere dall’impugnare la spada contro il tiranno. Ma oggi non occorre nemmeno combattere: come chi ci governa lo fa per via finanziaria, così anche noi governati possiamo agire similmente, sottraendo loro quel denaro che alimenta il Moloch e senza il quale non possono avvalersi né di mercenari né di cortigiani. E possiamo farlo sia nei confronti del tiranno civile, sia col tiranno ecclesiastico, che usa l’Obolo di San Pietro per finanziare la campagna elettorale di Hillary Clinton o per sponsorizzare un film che celebra un sodomita notorio come Elton John.
Un altro modo per sottrarre potere a costoro è ignorarli, disobbedir loro in massa, continuando a comportarsi onestamente nell’obbedienza a Dio e alla Tradizione della Chiesa. Anche perché non potranno mai mettere in galera un’intera Nazione, e le scomuniche degli eretici valgono zero. Disobbedire per obbedire. E pregare perché questa guerra senza quartiere tra Dio e Satana giunga presto al termine, ripristinando l’ordine che il Nemico e i suoi satelliti hanno sovvertito. Pregare e agire. Fare penitenza, farla fare ai piccoli, ai malati, ai moribondi. E ricorrere all’Immacolata, terribile come un esercito schierato in ordine di battaglia.

PRÌNCIPI E PRINCÌPI, di Pierluigi Fagan

PRÌNCIPI E PRINCÌPI. Le società economiche hanno sede legale lì dove pagano le tasse, questo è il princìpio della loro soggettività giuridica. Così il prìncipe, in senso machiavelliano il “sovrano”, è colui che si fa pagare le tasse, cosa che assieme al monopolio di fatto e di diritto della forza (interna ed esterna), costituisce la base storica delle entità statali. Lo Stato in senso moderno, fu una invenzione progressiva che si affermò per prima in Francia, nel ‘500.

Così i francesi che sulla questione hanno le idee -in teoria- chiare, di recente, prima hanno cominciato a rivendicare il proprio diritto fiscale nei confronti delle compagnie americane del Mondo 2.0 (la dig-info sfera), poi a rumoreggiare intorno a fini e ragioni della NATO.

Così Trump, poco prima dell’inizio del vertice NATO a Londra, ha fatto sapere ai francesi ed a chiunque altro europeo volesse seguirli su queste idee balzane, che i princìpi sono prerogative dei prìncipi ovvero dei sovrani ed in mancanza di forza reale per competere sul punto, il sovrano dell’Occidente sono gli Stati Uniti d’America, quindi lui. “ Se voi suonerete le vostre trombe” dice Trump “noi suoneremo le nostre campane”. Lo scontro del 1494 era appunto su una questione di sovranità su pezzi d’Italia pretesa dal francese ed osteggiata dalla ritornata repubblica fiorentina. Le campane di Trump sono i dazi, fino al 100% di dazi ovvero l’estromissione dal più ricco mercato di acquirenti del mondo. Poi non sono solo i dazi però, come ben si sa ma si fa finta di non ricordare pensando che il sovrano lontano (USA) è meno incombente del sovrano vicino (UE).

Stante la presenza di fondo del problema dell’alleanza militare, il caso d’attualità è sulla “web tax” che i francesi vorrebbero elevare ai big five -Facebook, Amazon, Google, Apple, Netflix- i quali notoriamente non pagano le tasse nei paesi in cui pur operano. Non solo drenano ricchezza aspirando voracemente e riportando il bottino in USA, non solo la loro presenza commerciale monopolista (un solo venditore) e monopsonista (un solo acquirente) distrugge il mercato locale facendo chiudere imprese concorrenti -concorrenti nel Mondo 2.0 dig-info invero poche ma nel Mondo 1.0 del materiale (giornali, librerie, negozi vari, cinema, elettronica e molto altro) sempre di più- ma, seguendo a fondo il princìpio si potrebbe venir a creare la conseguenza che anche la responsabilità legale di queste imprese, verrà rivendicata di territorialità americana. Princìpio forse oggi di apparente non grave peso, ma che invece sempre più l’avrà all’espandersi egemonico del Mondo 2.0. Bioetica ad esempio?

A noi può sembrare che il Mondo 2.0 in cui si svolge questa guerra della sovranità, la prima guerra che è quella fondamentale perché stabilisce della sovranità il princìpio, sia solo una appendice poco rilevante della consistenza generale di un Paese ma già oggi non è propriamente così, ma soprattutto lo sarà sempre meno. Il Mondo 2.0 ha in animo di sostituire una buona parte del Mondo 1.0.

Non abbiamo qui spazio per fare una pur veloce overview dell’economia digitale all’oggi, ma soprattutto nell’immediato domani. Se vi fidate, sappiate che il disegno è quello di portare una grande parte del Mondo come lo conosciamo, nel Mondo 2.0 creato a partire dagli anni ’60 dagli Stati Uniti d’America a partire dalle idee del loro think tank militare RAND Corporation e del braccio operativo della Defense Advanced Research Projects Agency- DARPA del Dipartimento alla Difesa di Washington e da loro dominato con giganti deregolamentati che sono ormai di dimensione e potenza inarrivabile per chiunque volesse sfidarli. Naturalmente tutta questa storia è stata impacchettata con carta sbrilluccicosa di soft power ovvero scienziati che volevano il bene del mondo, giovani scamiciati imprenditori geniali nati in un garage, geek un po’ autistici in missione per conto della Fratellanza Universale. Ma si sa, “dare un pacco” è l’arte di far sembrare fuori una cosa che dentro è poi diversa, vedi Treccani alla voce: cavallo di Troia. “Temo i Greci anche quando portano doni” ammoniva il virgiliano Laocoonte, ma i laocoonti alla fine non contano niente, i donatori di pacchi sanno di psicologia molto più di Freud.

Il Progetto Mondo 2.0 ha piani ambiziosi. Non si tratta solo di informazione e comunicazione che già di per sé sarebbe già una bella potenza (naturalmente invisibile per chi sta ancora alle ferriere, il proletariato, l’acciaio e l’altoforno), ma anche di sanità e biologia, finanza, valute, distribuzione commerciale al servizio privilegiato di produzioni di paesi amici, funzioni amministrative d’impresa, telecomunicazioni, piazze e mercati, standard giuridici del lavoro, redditi, sviluppo ricerca e tecnologia, trasporti e logistica, reti, cultura popolare e non, sistema educativo, fisco e molto altro. Infine il nuovo “oro del Klondike”, i dati su tutto di tutti. L’insieme secondo logica cibernetica ovvero scienza del controllo tramite comunicazione. Ciò che Platone chiamava “kybernetikès techne” ovvero arte del governo (Alcibiade I, Repubblica). Potere alla sua essenza.

Così, non mi rimane che ricordarvi il contestato ed antipatico solito ammonimento. I volenterosi che oggi si pongono giustamente il delicato e complicato problema della sovranità ai tempi del secondo millennio, dovrebbero considerare che il controllo (la sovrantà) è nullo senza la potenza. Vale per la Grande Sorella di Bruxelles e vale per il Grande Fratello di Washington che assieme a zio Xi e cugino Putin saranno l’Addams Family dei prossimi, complicati, decenni. Auguri a tutti noi!

[L’articolo di riferimento alla notizia dell’ammonimento di Trump: https://www.repubblica.it/…/dazi_trump_minaccia_italia_fr…/…

tratto da facebook

DALLA MANO ALLA MENTE INVISIBILE, di Pierluigi Fagan

DALLA MANO ALLA MENTE INVISIBILE. Negli anni ’60, al centro del sistema moderno o capitalistico occidentale e cioè negli Stati Uniti d’America, si mostra un preoccupante e poco noto effetto. La spinta alla crescita mostruosa oltre il 5% annuo per diversi anni di fila, che stava distinguendo la crescita post bellica un po’ in tutto il mondo e che in Europa meritò i concetti di Miracolo economico, Les Trente Glorieuses, Wirtschaftswunder, negli Stati Uniti cominciava a flettere pronunciatamente.

L’abitudine all’analisi qualitativa che produce narrazioni e contro-narrazioni, qualche volta si perde il quantitativo con risultato che, se da una parte si pensa si capire bene le cose, cioè la loro narrazione, dall’altra non si capisce mai perché certe cose avvengono ed in che misura. Quello che avveniva era che gli Stati Uniti, avendo per primi iniziato a crescere poderosamente negli anni ’50, stavano perdendo la spinta, non occasionalmente, strutturalmente. Spinta invece che continuava a sostenere il Resto del Mondo (Europa del’Ovest, dell’Est e dell’Asia, Giappone più di tutti, ma anche altrove). Il Nixon shock del 1971, per chi scrive, proviene da questo.

In quel decennio succedono molte cose interessanti. Sono gli anni in cui si sviluppa la tecnica produttivo-commerciale che poi si chiamerà marketing. Come molte cose del moderno, ahinoi, i primi passi della tecnica ragionata della manipolazione del mercato, sono fatti da un italiano che sviluppa i primi passi delle “ricerche di mercato”. P. Kotler conierà poi il termine e diventerà il fondatore e più illustre rappresentante teorico di questa tecnica. Sono gli anni del consumismo poi ragionati e raccontati criticamente da autori di cui spesso inconsapevolmente continuiamo a ripetere le intuizioni, tipo Adorno, Horkheimer, Marcuse, Fromm, ancora dopo cinquanta e passa anni.

Della tecnica fa parte la strategia “push and pull”. Se “push” è un insieme di tecniche per spingere i prodotti verso gli acquirenti ed intermediari, “pull” è l’insieme di tecniche utilizzate per attirarli. Tra queste tecniche c’è la conoscenza da parte delle aziende del proprio gruppo d’acquisto ideale detto target, termine mutuato come gran parte del vocabolario dei marketer, da quello militare (Marketing è guerra, Al Ries, JackTrout, testo anni ’80 McGraw-Hill). Se la mano invisibile mostrava pigrizia, c’era da dargli una mano visibile che spingesse concretamente, un aiutino insomma.

Negli anni ’60 in USA, si sviluppa una tecnica di analisi dei target che non è più quella tradizionale statistica su variabili socio-demografiche classiche (sesso, età, reddito), ma su variabili comportamentali. Si scopre cioè che i comportamenti d’acquisto originano dalla psiche che è certo correlata al sesso, età e reddito ma non così precisamente come si potrebbe pensare. Si scopre cioè che la “piramide dei bisogni” teorizzata negli anni ’50 dalla psicologo americano A. Maslow, ha sede e profonda origine in una psiche che ha proprie regole decorrelate in parte da quelle oggettive della condizione sociale. In accordo ai principi guida della psicologia americana a quel tempo dominante che è il behaviorismo (il comportamentismo), si decide di ignorare l’analisi del cosa succede davvero in quella psiche. Si sigilla il sistema e lo si definisce “scatola nera” ovvero sistema di causa che però non si analizza dentro, solo fuori. Se la psiche origina il comportamento, si osserverà direttamente il comportamento e per tentativi ed errori come negli esperimenti coi topi o cani del russo Pavlov, si cercherà di capire a quali imput corrispondono certi output (stimolo-risposta-rinforzo). Se si comprendono questi meccanismi si potrà condizionare il comportamento. Il corrispettivo nelle ricerche di mercato che anticipano ogni strategia di marketing, diventerà un nuovo tipo di analisi che si chiamerà “psicografica”. Siamo sempre negli anni’60.

Mentre i teorici dell’economia ovvero gli economisti ripetono il mantra dell’homo oeconomicus che è un calcolatore razionale delle sue utilità a presupposto della loro scolastica matematizzata, i pratici dell’economia cinquanta anni fa, si occupavano invece di psiche e comportamento reale. Il mondo dei bisogni su cui si basa mercato ed economia, per gran parte non è razionale. Un economista teorico si sveglierà cinquanta anni dopo e ci scriverà su un libro che gli varrà nel 2017 quel premio della Banca di Svezia che gli economisti chiamano Nobel (tale R.Thaler). Da quella svolta degli anni ’60, conseguirono marketing, pubblicità, società dei consumi, dei segni, innovazione, rivoluzioni economiche, tecnologie, neuromarketing e molto altro tra cui tutto il nostro Mondo 2.0 ovvero quello on line.

Come spesso racconto, io ho per venticinque anni fatto parte di quel mondo e non a livelli secondari. Quando ho cambiato vita e sono diventato uno studioso, balzellando tra meccanica quantistica e filosofia hardcore, quando ho cominciato a studiare i sacri testi degli economisti, per molti di loro sopratutto del Novecento (a parte Keynes) a lungo ho fatto fatica a capire di cosa stessero parlando per questo motivo. La rappresentazione del mercato come universo liscio con traiettorie perfettamente razionali che disegnano curve e linee geometriche posso dire sia una del tutto infondata astrazione non per piglio critico intellettuale, ma proprio perché so di certo che nulla ha a che fare con il fenomeno che si vorrebbe descrivere. Le narrazioni non corrispondono mai precisamente alle cose ma molte non hanno proprio nulla a che fare assolvono altri compiti.

La svolta psichica del capitalismo origina da più di cinquanta anni fa e le conseguenze giungono oggi a Cambridge Analytica, il totalitarismo dei Big Data, i Facebook-Amazon-Google-Apple-Netflix (FAGAN), la colonizzazione dell’immaginario, il “Capitalismo di sorveglianza” (Zuboff), “L’Internet ci rende stupidi” (N. Carr), la psicopolitica (P. Sloterdijk – Byung-chul Han), l’utilizzo di queste tecniche (nel frattempo, nel mondo della psicologia teorica americana il behaviorismo si è trasformato in un 2.0 detto “cognitivismo” ed è proceduto parallelo allo sviluppo delle scienze neuro-cognitive che oggi sfociano nel grande sviluppo dei programmi di ricerca detti A.I. Artificial Intelligence) non più o non solo per il dominio produttivo-commerciale ma ora anche direttamente sociale e politico.

Il discorso sarebbe lungo e complesso ma qui lo spazio c’impone la chiusura. Chiudiamo quindi osservando due cose:

1) La svolta psichica del capitalismo origina dal momento in cui l’economia americana non funzionava più in modo diciamo “naturale” o “semi-spontaneo”, occorreva collegare la stanca mano invisibile ad una vivace mente invisibile stimolata la quale sarebbero conseguiti comportamenti, prima economici, quindi sociali, infine politici. Da allora, è per lo più “economia del criceto”.

2) L’area critica del moderno e del capitalismo, origina da un pensatore di metà XIX secolo che ha detto molte cose giuste ed interessanti ma coloro che ancora usano quelle strumentazione analitica come integrale tendono a considerare le relazioni tra “struttura e sovrastruttura” in modo uni-diretto, del tutto simile al mainstream liberale che domina la disciplina economica (del resto sono in unità di tempo -metà XIX secolo- e luogo -Londra-) e che non ha alcuna attinenza con quello che è il nostro mondo moderno che intanto chiamiamo post-moderno già da diversi decenni. Ne consegue lo spiazzo di ogni teoria politica alternativa poiché i presupposti antropologico-sociali sono parziali se non infondati. Per costoro immagine di mondo, cultura, psiche e comportamento, valori, motivazione all’azione, sono conseguenze di presupposti ficcati da qualche parte in una scatola nera mossa solo dalla condizione sociale. Toccherebbe invece aprirla quella scatola e provare ad illuminarla se si vuole dare una bacchettata a chi ci sta da tempo mettendo le mani dentro. Oppure scriviamo l’ennesimo saggio corrucciato sul neoliberismo impazzito ed attrezziamoci per un lungo inverno di servitù volontaria.

1 64 65 66 67 68 83