WRESTLING, di Pierluigi Fagan

WRESTLING. “Forma di spettacolo nel quale si combina l’esibizione atletica, con quella teatrale, la cui origine risiede nelle esibizioni di compagnie itineranti in fiere di paese” così Wikipedia. Il wrestling venne creato in quanto cosa a sé da un americano dell’Iowa. Esso è quindi una forma tipicamente americana in cui convergono: 1) “spettacolo” che fa pubblico ed audience quindi occasione commerciale di profitto; 2) “violenza” quindi sfogo dell’istinto alla competizione; 3) “simulazione” quindi trasferimento della violenza ad un piano in cui la forma (violenta) si dissocia dalla sostanza (effetti del subire vera violenza); 4) “convenzione” in quanto i wrestler condividono una codice teatrale conosciuto solo a loro che li fa attori di una compagnia di giro che fa spettacolo rivolto al pubblico in cui si simula la violenza depurandola dagli effetti materiali, spettacolo che per loro significa lavoro, soldi, prestigio e fan.

L’americanizzazione della cultura occidentale ha ormai decenni di penetrazione e sebbene da alcuni criticata con le affilate armi dell’intelligenza vigile, viene il dubbio abbia colonizzato anche la stessa intelligenza vigile. Un po’ come in quei film dei morti viventi in cui il protagonista che è ancora vivo-naturale e col quale ci identifichiamo, scappa di qui e di lì finendo a volte in trappole di relazioni con personaggi che “sembrano vivi” ma poi si rivelano anche loro ormai passati dall’altra parte.

Il trasferimento della politica a wrestling è la cifra più pericolosa dell’americanizzazione culturale che subiamo da decenni. Nessuno ormai pensa alla politica avendo come obiettivo i componenti della polis (città-Stato) cioè i polites (cittadini), chi “fa” politica pensa di default a come diventare rappresentante dei cittadini. Tutto il discorso pubblico è orientato ai politici che critichiamo o appoggiamo, ai loro partiti, chi non trova soddisfazione nell’”offerta politica”, ne crea una nuova, cioè fonda un partito. Ognuno è posseduto dal richiamo del dover dare “voce al popolo”, il suo popolo, la sua porzione di popolo, la sua interpretazione personale della parte di un popolo, da cui fondare “partiti”, cioè istituzionalizzazione di forme particolari di rappresentanza. Il popolo è “dato”, un dato immodificabile, rimane solo da dargli “voce”. Ma il vero richiamo del wrestler politico è esser “eletto”, diventare un eletto, il partito è solo il mezzo.

E’ un po’ come nell’economia di mercato, si fa una indagine di mercato, si scopre che c’è un buco nella domanda ovvero gente che domanda confusamente cose del tipo “Ambrogio … avverto un certo languorino … la mia non è proprio fame, è più voglia di qualcosa … di buono” con misto di speranze contraddittorie tipo “goloso ma che non fa ingrassare”. Si fa allora un Rocher con carta stagnola luccicante che promette di tappare il buco. Per questa soluzione tappabuchi, in politica, non si chiedono soldi ma voti. I voti poi fanno eleggere il rappresentante del popolo che va a fare il wrestler in nome e per conto del suo pubblico-cliente.

La pubblicità dei Rocher politici spazia dalla promessa di più sicurezza, più lavoro, più ricchezza, più modernità, più sovranità, più libertà e molto altro, oppure la promessa di contro, contro il liberismo, contro l‘unione europea, contro i migranti, contro i pedofili, contro i populisti o altro. Si noti l’asimmetria logica: “più” nel positivo, “contro” nel negativo, non “meno” che non scalda gli animi, “contro!”. Se poi ‘oggetto dopo il contro è macroscopico come “il capitalismo” meglio ancora, in fondo mica si tratta di fare i conti con la realtà, è una sorta di sondaggio d’opinione quello che si fa alle elezioni.

I temi su cui si offrono i più o i contro , sono quelli del discorso pubblico, una agenda di solito istituita dal potere in atto, il quale decide e nomina non solo i “suoi” temi ma anche quelli avversari. Chi sceglie il fronte contro il potere prende il termine negativo imposto dal potere e lo rivernicia di positivo, fatica immane e qualche volta anche energia mal riposta poiché nominare è creare enti e se l’ente è creato in un certo modo lo spazio politico che tenta di ribaltarne il giudizio (da negativo a positivo) è pre-determinato proprio da coloro contro i quali si vorrebbe fare lotta politica. Grande parte di quei più o contro sono irrealistici, forme dicotomiche del pensiero semplificato che sussume cose complicate in un termine-concetto in cui le porzioni di popolo si identificano come le contrade fanno col loro totem odiando il totem avversario.

Si tifa il proprio wrestler che fa finta di prender a cazzotti il wrestler del proprio odiato vicino invece che prender direttamente a cazzotti il proprio vicino. L’importante è che i “cittadini” non facciano direttamente politica tra loro, facciano gli spettatori, senza spettatori paganti viene giù tutto. Vale per i giovani filosofi non meno che per gli imbroglioni seriali.

L’estrema ambiguità del tutto crea questo spettacolo che nulla a che fare con la politica, dove il mercato è fatto di “valori”, i totem sono tanto squillanti quanto irrealistici, i wrestler gareggiano urlando ma mai facendosi davvero male, sperando di finire in qualche assemblea pubblica in forma stabile che gli procurerà fama, successo, soldi e porzioni di potere. Quando poi falliranno, e falliscono tutti -sistematicamente poiché i presupposti tra promessa e realtà sono in genere infondati- avanti una nuova linea di aspiranti “diamo voce al popolo!”.

Il post non conclude, era solo per sfogare amarezza personale. Non ne posso più di veder fondare partiti oltretutto soprastanti un dibattito politico pubblico che sta raggiungendo vette di confusione, indeterminazione, falsa coscienza, irrealismo, presa per il culo sistematica, ormai su una tangente che punta all’infinto ed oltre. E non vale solo per i wrestler, vale anche per coloro che fanno da pubblico perché sono loro, siamo noi a tener in piedi lo spettacolo.

tratto da facebook

IL FUTILE PARAVENTO DELLA “PIATTAFORMA ROUSSEAU” OVVERO DELL’ETERNO RITORNO DELL’UGUALE, di Emilio Ricciardi

IL FUTILE PARAVENTO DELLA “PIATTAFORMA ROUSSEAU” OVVERO DELL’ETERNO RITORNO DELL’UGUALE.

A seguito del suo intervento del 6 settembre 2019 (d’ora innanzi “Intervento”) intitolato “Colpo di extrastato”, in cui Massimo Morigi attribuisce a questo sintagma dignità di categoria teorica atta a cogliere la presunta epocale novità rappresentata dal voto elettronico espresso mediante la Piattaforma Rousseau dagli iscritti (a ciò legittimati) del Movimento 5 Stelle in relazione alla recente formazione dell’attuale governo, lo stesso autore è tornato sulla questione una prima volta il 9 settembre 2019 per approntare una replica (d’ora in poi “Replica”) ad un mio commento (in appresso “Commento”) al suo Intervento e, ancora, il 14 settembre 2019, per operare ulteriori annotazioni, che tuttavia non aggiungono alcunché di sostanziale alla completa esposizione della propria tesi, difatti già compiuta nei suoi primi due testi.

Quindi, seppure non vada trascurato di soffermarsi sui passaggi pertinenti dell’ultimo dei tre testi citati, è prevalentemente sui primi due, ma con attenzione ancor maggiore sulla Replica (di cui ringrazio Morigi per il tempo e la cura ad essa dedicati), che conviene incentrare le presenti mie considerazioni. Anticipo comunque sin d’ora che la Replica (ed a maggior ragione anche l’ultimo scritto) non è stata in grado di convincermi sull’asserita utilità e consistenza concettuale della categoria di “colpo di extrastato”. E ciò per i seguenti motivi.

0. Occorre prendere le mosse dalla constatazione secondo cui Morigi finisce per darmi ragione quando nella Replica afferma che “Il vero punto è […] non tanto la più o meno esibita trasparenza dei partiti” giacché, aggiunge, “se i partiti fossero trasparenti svanirebbero come la neve al sole dalla notte al mattino”.

Difatti, il nucleo fondamentale della critica all’Intervento espressa nel mio Commento era così compendiato: “nell’economia del testo di Morigi, il riferimento alla scarsa trasparenza di procedura ed esito del sondaggio svolto sulla piattaforma telematica dei 5 stelle, appa[re] tutto sommato superfluo, come del resto in buona sostanza sottolineato dallo stesso suo autore. Anche perché, se si continua a rimarcare la scarsa trasparenza di questa operazione, dolendosene, si corre il rischio di accreditare implicitamente l’idea secondo cui finora i processi decisionali interni ai partiti politici (che, è bene ricordarlo, sono semplici associazioni private non riconosciute) si siano svolti all’insegna delle più luminose democrazia ed, appunto, trasparenza. Il che sarebbe, com’è ovvio, balla colossale oltreché offensiva dell’intelligenza quanto meno del lettore abituale di queste pagine”.

Sulla mancanza di “trasparenza” quale fattore ampiamente noto e preesistente nelle teoria e prassi politiche (italiane e straniere, passate ed attuali), dunque, nulla quaestio[1].

  1. La dimensione fortemente problematica della concezione di Morigi, piuttosto, comincia a far esplicitamente capolino nella Replica allorché in questa si soggiunge: “Il vero punto è, come rileva anche Ricciardi ma come stranamente Ricciardi sembra non attribuirmi una piena consapevolezza in merito, […] che questi partiti, un tempo tanto importanti e la cui esistenza veniva espressamente citata anche in Costituzione, oggi non sono più lo snodo principale del conflitto strategico che si svolge all’interno delle élite politiche nazionali impegnate nella lotta per la conquista del potere”.

Senonché, basta leggere il mio Commento per avvedersi che nemmeno mi pongo il quesito in merito alla piena consapevolezza o meno di Morigi circa la pretesa novità rappresentata dalla sopraggiunta perdita d’importanza dei partiti politici.

E non me lo pongo perché già Morigi nel suo Intervento aveva in buona sostanza negato che questa fosse una novità, sostenendo ciò che ha poi confermato nella Replica (come segnalato sopra al paragrafo 0), ossia che “il punto importante per dare corpo alla categoria ‘colpo di extrastato’ non è tanto il fatto che la piattaforma Rousseau è tutto tranne che trasparente (in passato la <democrazia> dei partiti era nascostamente pesantemente guidata, quando questa etero direzione non era addirittura teorizzata, vedi centralismo democratico del vecchio PCI; e le lobby che da sempre manovrano le decisioni dei parlamenti delle moderne democrazie sono forse il fenomeno più studiato dall’attuale scienza politica, fino ad arrivare alla <postdemocrazia> teorizzata da Colin Crouch)”.

È indubbio, difatti, che sostenere che “in passato la <democrazia> dei partiti era nascostamente pesantemente guidata” e dunque assoggettata ad una “etero direzione”, equivalga a sostenere che i partiti non sono mai stati, non solo oggi ma anche in passato, “lo snodo principale del conflitto strategico”.

Di conseguenza, perché nel mio Commento avrei dovuto anche solo evocare o lambire la questione del se Morigi fosse pienamente consapevole o meno della sopraggiunta perdita d’importanza dei partiti, quando egli stesso nel suo Intervento ha mostrato di ritenere che pure nel passato i partiti erano etero diretti e che, quindi, nulla, sul punto, è davvero sopraggiunto?[2]

  1. Semmai, rilevo in Morigi una contraddizione (non la prima, per vero, e comunque generatrice di un’impasse che egli ha tentato di eludere in un modo che esaminerò nel successivo intero paragrafo 4) tra, da un lato, il riconoscimento della etero direzione e nulla trasparenza caratterizzanti da sempre i partiti politici e, dall’altro lato, l’asserzione circa la novità costituita dalla totale intrinseca mancanza di trasparenza nel Movimento 5 Stelle.

Peraltro, mentre tale asserzione è contenuta, per lo meno esplicitamente (spiegherò i motivi di questa puntualizzazione nel successivo sottoparagrafo 3.1.), nella sola Replica, quel riconoscimento è stato operato sin da subito nell’Intervento (e di poi ribadito nella Replica).

Il fulcro dell’Intervento, in effetti, voleva essere esplicitamente altro rispetto all’opinione inerente la mancanza di trasparenza della piattaforma Rousseau: “il punto fondamentale è un altro, ed è cioè che tutti, dalla pubblica opinione, alle massime cariche istituzionali, per dare vita ad un governo hanno aspettato senza fiatare una esplicita e chiara decisione di un corpo, ma un corpo che non è previsto né in Costituzione né in alcuna prassi politica sviluppatasi sotto il mantello costituzionale”.

Quest’ultima proposizione è poi ripresa, onde ribadirne la correttezza, nel testo del 14 settembre 2019, laddove si ripete essere la Piattaforma Rousseau un corpo politico-decisionale del tutto estraneo e prevalente al testo e alla prassi costituzionali”.

Senonché, una volta riconosciute, come si è visto aver fatto Morigi, la mancanza di trasparenza ed anzi la totale etero direzione caratterizzanti l’azione (anche) dei vecchi partiti politici, deriva necessariamente che anche tale azione si ponga contro ed al di fuori della Costituzione, atteso che l’art. 49 di questa esige il “metodo democratico” di essa azione (laddove mancanza di trasparenza ed etero direzione risultano invece evidentemente incompatibili con detto metodo).

E deriva altresì’ necessariamente che è contraddittorio affermare che un’azione politica di tal fatta si sia sviluppata “sotto il mantello costituzionale”, perché una prassi politica priva di trasparenza ed etero diretta e quindi lesiva del “metodo democratico” dettato dalla Costituzione non può, per definizione, trovare legittimazione (ossia “copertura”, quale ”mantello giuridico”) in questa stessa Costituzione.

Pertanto, se si sostiene che la Piattaforma Rousseau (recte: l’insieme degli iscritti al Movimento 5 Stelle legittimati al voto elettronico mediante utilizzo di questo dispositivo telematico) è “corpo che non è previsto né in Costituzione né in alcuna prassi politica sviluppatasi sotto il mantello costituzionale”, ed insomma “del tutto estraneo e prevalente al testo e alla prassi costituzionali”, allora si deve pure logicamente concludere che anche i vecchi partiti politici partecipano delle medesime caratteristiche che dunque non potrebbero non definirsi eversive.

Ciononostante, in costanza dell’esistenza dei vecchi partiti sia la “pubblica opinione, [sia] le massime cariche istituzionali, per dare vita ad un governo” aspettavano normalmente “senza fiatare una esplicita e chiara decisione” di organi decisionali di partiti che pure, per quanto rilevato, agivano in sostanziale spregio di quel “metodo democratico” prescritto dall’art. 49 della Costituzione.

Di conseguenza, la disamina svolta sino a questo punto delle considerazioni di Morigi sembra consentire di affermare che con la Piattaforma Rousseau non si è attuato alcun “colpo di extrastato”, in quanto asserita nuova forma della prassi politica rispetto a quella invalsa nella precedente fase storica.

Occorre ora, giunti a questo tratto del discorso che si sta conducendo, soffermarsi sull’ultimo argomento addotto da Morigi a favore della propria tesi.

  1. Prima devo tuttavia rendere una spiegazione, che mi consente anche di affrontare alcune affermazioni svolte da Morigi nel già menzionato suo testo del 14 settembre 2019.

In particolare, più sopra ho accennato alla circostanza per cui soltanto nella Replica viene sottolineata e stigmatizzata espressamente la mancanza di trasparenza del processo decisionale elettronico del Movimento 5 Stelle. Mi riferisco, precisamente, al seguente passaggio: “è la prima volta che si riconosce […] come fondamentale e fondante per la decisione politica […] una sorta di accrocchio tecnologico informatico dove la <trasparenza> non è che venga conculcata come nei vecchi partiti classici (ma ricordiamoci l’adagio <l’ipocrisia è il tributo che il vizio paga alla virtù>) ma è un concetto totalmente alieno proprio per il processo tecnologico e verificabile solo da esperti informatici nell’emissione dei suoi responsi”.

Ebbene, a parte il fatto che, sul piano degli effetti, sfugge la reale e sostanziale differenza tra conculcamento della trasparenza nei vecchi partiti politici ed eliminazione di essa già sul piano concettuale a causa dell’applicazione delle tecnologie informatiche al procedimento elettorale interno al partito de quo.

Ma soprattutto, ciò che preme rimarcare è che anche il procedimento elettorale incentrato sulla segretezza del voto cartolare risulta intrinsecamente privo di trasparenza, se per questa si intenda, come devesi e pur semplificando, l’insieme degli accorgimenti che garantiscono la certezza, per i votanti, dell’autenticità del voto espresso e del suo conteggio fino alla pubblicazione dei risultati. Difatti, è difficile negare che, se è vero che l’elettore che esprime un voto segreto conosce il dato (il suo voto) che così è immesso nel meccanismo ed il dato (aggregato) che ne è emesso, ossia il risultato elettorale, non ha invece modo di verificare l’iter che ha compiuto quel dato dal momento della sua immissione fino alla sua confluenza nel dato complessivo, o quantomeno non può avere la certezza di quale sia stato tale iter. Proprio perché nessuno potrà mai dargli la garanzia assoluta, nemmeno assistendo allo scrutinio, che nella fase di quest’ultimo il documento su cui ha apposto il suo voto sia davvero oggetto di conteggio, e di un conteggio corretto.

A ciò si aggiunga la difficile se non impossibile verificabilità della correttezza delle operazioni di conteggio del voto cartolare, e ciò a causa dell’effetto combinato dell’elevato numero di votanti (come sovente accade nelle elezioni politiche nazionali della stragrande maggioranza dei paesi a democrazia rappresentativa) e dell’esistenza di particolari regole costituzionali che devolvono la giurisdizione esclusiva inerente la contestazioni elettorali ai medesimi organi elettivi, con la conseguente assai ridotta capacità operativa di procedere ad un controllo di decine di milioni di schede elettorali in tempi fisiologici e ragionevoli, ossia tali da scongiurare un’eccessivamente prolungata incertezza riguardo la reale legittimazione popolare degli eletti[3].

Insomma, se trasparenza non c’è nel voto elettronico, con la connessa difficoltosa verificabilità della genuinità della relativa procedura, lo stesso deve dirsi per il voto cartaceo.

3.1.   Quest’ultima sottolineatura ben introduce la disamina della seguente affermazione contenuta nel testo di Morigi del 14 settembre 2019, in quanto anch’essa incentrata, come mostrerò più oltre, e sebbene Morigi non lo dichiari in modo esplicito, sul concetto di trasparenza (e con ciò giustifico l’individuazione, dianzi operata, di un legame fra essa affermazione e la critica, già analizzata, alla mancanza di trasparenza della Piattaforma Rousseau svolta nella Replica): una “procedura di voto elettronica, corretta o truffaldina che sia, designa chiaramente una costituzione materiale dello Stato che non ha assolutamente nulla a che fare con la precedente dove la scelta e selezione dei decisori alfa-strategici da parte dei decisori omega-strategici avveniva  – almeno a livello politico –  attraverso una procedura non elettronica ma semplicemente cartacea (con tutti i brogli che questa comportava, ma almeno per quanto riguarda il punto 2 questo è un elemento del tutto secondario)”.

Qui Morigi non motiva espressamente l’implicito favore che sembra accordare al voto cartaceo rispetto a quello elettronico. Ed insomma non si perita di precisare in che modo e perché la procedura elettorale elettronica determinerebbe addirittura uno stravolgimento radicale della costituzione materiale dello Stato rispetto a quella vigente in costanza dell’omologa cartacea. Nondimeno, sembra di poter capire che, secondo Morigi, la presenza di schede elettorali cartacee, pur non eliminando il rischio di brogli elettorali, consentirebbe comunque di verificarne la perpetrazione, ciò che, invece, il voto elettronico non permetterebbe di fare. In altri e più concisi termini: per Morigi sarebbe la trasparenza, sub specie verificabilità di eventuali brogli elettorali, il tratto che differenzia il voto cartaceo da quello elettronico (dunque non trasparente, come quello della Piattaforma Rousseau, secondo quanto asserito, esplicitamente, nella Replica).

Tuttavia, così in thesi argomentando, Morigi trascura che, come illustrato più sopra, anche la procedura elettorale cartacea con voto segreto, soprattutto nella fase dello scrutinio (ma anche in quella della trasmissione centralizzata) dei voti, e quando si attua in paesi con decine di milioni di votanti, non può mai né garantire al votante certezza circa la correttezza delle operazioni né rendere possibile un controllo completo dell’intera procedura medesima, tanto meno in tempi tali da essere compatibili con l’esigenza dell’opinione pubblica di avere risposte celeri in merito all’esistenza o meno di una legittimazione democratica degli eletti.

Certo, nel voto elettronico la verificabilità dei brogli è più difficoltosa di quanto lo sia con il voto cartaceo, ma si tratta di una differenza di ordine quantitativo, ossia attinente al maggior rischio di brogli (perché minore è la possibilità di verificarli) che il primo esibisce, non già di una differenza di ordine qualitativo, idonea cioè, come invece sostiene Morigi, ad incidere addirittura, sfigurandola irreversibilmente, sulla “costituzione materiale dello Stato”.

3.2.   Eppure anche in altro passaggio del suo testo del 14 settembre 2019, Morigi esprime il convincimento che “è del tutto assurdo dire che una costituzione materiale e una forma di Stato che ha avuto la sua nascita in una  passata epoca tecnologica è la stessa costituzione materiale e forma di Stato dei tempi di Internet”, e lo fa in base all’assunto, introdotto immediatamente prima, “che nelle vicende sociali e politiche i cambiamenti ed i mutamenti non appartenenti stricto sensu all’ambito politico e sociale agiscono su quest’ambito non solo additivamente ma anche qualitativamente”.

Senonché, il nesso causale che con tale assunto viene delineato su un piano generale risulta da una petizione di principio, enunciato e non dimostrato, ed allo stesso modo anche il nesso causale specifico, quello in virtù del quale la scoperta ed uso di internet non può non avere determinato un cambiamento della “costituzione materiale e forma di Stato”, risulta meccanico e proclamato in modo apodittico. Al punto da giungersi financo ad una concezione feticistica dell’innovazione tecnologica, quale potenza che plasma e trasforma la struttura e l’essenza dei rapporti poltico e sociali, a loro volta puri elementi passivi, inerti e direi neutri, che subiscono l’azione demonica ed incandescente della prima.

Per contro, non è affatto scontato che un elemento nuovo, nato in un ambito diverso dalle dimensioni politica e sociale in senso stretto, una volta trasmigrato in quest’ultime in virtù dell’uso che di esso elemento è fatto, debba divenire il fattore che trasforma la conformazione essenziale delle predette dimensioni qual era stata sino a quel momento. Insomma, può ammettersi perfettamente l’ipotesi che l’elemento sia immesso nel sistema esterno (a quello della sua genesi) e da esso assorbito senza subire, il sistema recettore, alcuna trasformazione o comunque modificazione rilevante.

  1. Terminata così la digressione resasi però necessaria per discutere le due soprariferite affermazioni contenute nel testo di Morigi del 14 settembre 2019. è possibile finalmente affrontare, come già avevo anticipato, l’ultimo argomento, stavolta svolto nella Replica del 9 settembre 2019.

In particolare, in quest’ultima viene introdotto ex novo un tema che non era stato oggetto del benché minimo accenno, nemmeno implicito, nell’Intervento: l’importanza dell’illusione.

Così al riguardo si afferma: “Ma il vero snodo, lo ripeto, della categoria di <colpo di extrastato>, non è tanto la trasparenza o l’opacità dei processi decisionali è che nella pubblica opinione, nella pubblicistica politica per finire con la scienza politica la caduta da parte di tutti dell’illusione della trasparenza nei processi decisionali non viene segnalata”.

Ebbene, qui si ha l’impressione che Morigi sia stato costretto a ricorrere all’ulteriore argomento basato sull’assunto circa la passata esistenza dell’illusione della trasparenza dell’azione dei partiti politici, al fine di aggirare la difficoltà logica di continuare a sostenere il carattere di novità epocale della Piattaforma Rousseau in quanto enigmatica ed impersonale entità telematica non controllabile se non “da esperti informatici[4], ed allo stesso tempo nondimeno riconoscere che anche nei vecchi partiti politici la trasparenza era completamente assente.

Nella Replica si sostiene, difatti, che non già la mancanza di trasparenza dei e nei partiti politici segna la novità della presente epoca del presunto “colpo di extrastato” rispetto all’epoca precedente, bensì la caduta dell’illusione della trasparenza, in passato invece esistente.

È necessario, quindi, indagare motivi e legittimità dell’asserzione che attribuisce decisiva rilevanza a questa illusione.

4.1.   Al riguardo, nella Replica si indicano due esempi per tentare di dimostrare l’importanza delle illusioni nutrite circa l’esistenza della trasparenza dei processi decisionali dei partiti politici.

Il primo esempio attinge al rapporto tra la Chiesa cattolica e la Democrazia Cristiana, affermandosi che “la Chiesa esplicitamente non ha mai fatto trapelare una esplicita e pubblica decisione a favore di questo o quel governo ma si limitava, in ottemperanza del suo alto magistero religioso e morale, a vietare ai cattolici, pena l’inferno, di votare per quei partiti che erano a suo giudizio l’espressione politica del cancro dell’ateismo e dell’irreligiosità”.

Vero; ma in questo caso non vedo dove e come avrebbe agito l’illusione sull’esistenza della trasparenza nelle decisioni della Democrazia Cristiana, atteso che all’epoca per qualsiasi osservatore ed elettore minimamente attrezzati era chiaro e palese il penetrante condizionamento vero e reale esercitato costantemente dalla Chiesa cattolica sulla prima.

Il secondo esempio riguarda più nello specifico la trasparenza dei partiti ed anche su questo punto il ragionamento fa leva sull’importanza delle false rappresentazioni, o meglio la concreta modalità di come queste possono essere rappresentate. Nei vecchi partiti per arrivare ad un decisione e/o prevalere nello scontro politico venivano messe in atto le più ignobili manovre ma se queste manovre non avevano in concreto nulla di democratico e trasparente avevano un grande pregio. Queste manovre erano condotte da uomini in carne ed ossa e chi avesse voluto vedere un po’ più a fondo avendone la formazione e l’intelligenza riusciva a mettere a fuoco, molto chiaramente e con tanto di nomi e cognomi, i volti di questi manovratori”.

Ma è proprio il contenuto del testé riportato secondo esempio a dirci in maniera inequivocabile come anche in questo caso non siano all’opera “false rappresentazioni” in ordine alla trasparenza. Difatti, posto che era nelle manovre oscure interne ai partiti che si sostanziava la mancanza di democrazia e trasparenza; e posto che, nonostante il carattere nascosto e letteralmente osceno di tali manovre, si “riusciva a mettere a fuoco, molto chiaramente e con tanto di nomi e cognomi, i volti di questi manovratori”; allora ne consegue che era possibile vedere chiaramente la vera realtà delle lotta politica interna ai partiti, senza farsi irretire, appunto, da alcuna illusione.

Peraltro, l’affermazione secondo cui sarebbero state sufficienti volontà e capacità intellettuali per lacerare il velo dell’apparenza ed identificare addirittura gli oscuri “manovratori” delle decisioni dei partiti politici, mi pare pecchi di ottimismo se non di una sorta di onnipotenza del pensiero. Si considerino, difatti, a confutazione e comunque forte ridimensionamento della portata della soprarichiamata affermazione, tutti quegl’importanti e gravi accadimenti della nostra vita politica nazionale i quali, seppure ascritti (in tutto o in parte) alle decisioni manifeste dei partiti politici, non è stato possibile ricondurre ai responsabili ultimi “con tanto di nomi e cognomi”. Laddove, in quei pochi casi in cui ciò si è verificato, lo è stato comunque a distanza di decenni, ed il più delle volte a seguito dell’emersione di circostanze e documenti, avvenuta di rado casualmente, più spesso deliberatamente, in vista del perseguimento, in quest’ultima evenienza, di scopi ulteriori poiché funzionali a nuove strategie, naturalmente ignote alla generalità della popolazione nel momento del loro dipanarsi in atto.

In definitiva, i due esempi riportati nella Replica non mi paiono così calzanti e persuasivi.

4.2.   Però nel contesto dell’esposizione del primo esempio è operato un fugace accenno al ruolo delle illusioni in generale, il quale sembra poter fornire qualche indizio utile per capire la funzione che gioca questo elemento nell’impianto argomentativo di Morigi.

Precisamente, si afferma che “in politica, come nel resto di tutte le altre faccende della vita, le illusioni contano e quando queste cadono non si può far finta di nulla pensando che siccome si trattava di illusioni la loro scomparsa conta meno di nulla e non vale nemmeno la pena di segnalarle e di cercare di elaborare un pensiero non banale a proposito”.

Ora, affermare che “le illusioni contano”, in questo contesto discorsivo, sembra voler significare che le illusioni non sono nulla, e che producono effetti reali. Se questa mia interpretazione è corretta, allora deve dirsi che tali effetti saranno pure reali, ma i pensieri e le azioni inclusi nella cerchia di tali effetti saranno irrimediabilmente inficiati dall’esser derivati da una percezione errata (qual è appunto l’illusione) della realtà vera, e dunque, in definitiva, da erroneità e falsità.

Se poi si traslano queste considerazioni generali nell’ambito del discorso che si stava conducendo, ne viene che l’asserito diffuso convincimento, presente nella precedente epoca storico-politica, circa la trasparenza delle decisioni dei partiti politici era un’illusione e, in quanto tale, un falso convincimento.

Libero, quindi, Morigi, naturalmente, di elaborare “un pensiero non banale” sulla suddetta illusione (e sulla sua presunta caduta). Ma mi permetto di osservare che se il pensiero vuole conoscere la realtà e le determinazioni vere di una presunta nuova era politica e le sue differenze rispetto alla precedente (e non v’è dubbio che Morigi voglia applicarsi alla produzione di un pensiero di tal fatta), non può accontentarsi fermandosi alla considerazione delle false rappresentazioni che sulle corrispondenti epoche storiche si sono formate, assumendole quali dati di realtà di ultima istanza. E non può perché in questo modo non sarebbe in grado di nemmeno tentare di conseguire quello scopo prefissosi (ossia l’acquisizione della conoscenza delle vere determinazioni di una nuova epoca politica).

Di conseguenza, e per tornare specificamente al discorso centrale di questo scritto, può affermarsi ciò: posto che la totale mancanza di trasparenza dei processi decisionali dei partiti politici e dunque la loro etero direzione sono dati caratterizzanti sia la precedente sia l’attuale fase storica, ne discende che l’utilizzo della piattaforma Rousseau non integra alcuna novità inerente i predetti processi, con il corollario per cui il ricorso alla nozione di “colpo di extrastato”, per qualificare tale utilizzo ed evidenziare così tale presunta novità, non pare rivestire utilità teorica. Anzi, ribadisco che, a mio avviso, il convogliamento delle energie intellettuali individuali e collettive nell’elaborazione di tale nozione può essere financo dannoso poiché rischia di distogliere l’attenzione dal tentativo di cogliere le vere configurazioni dei processi politici reali.

  1. Vergo, infine, due ordine di notazioni inerenti il seguente, in parte già riportato, passaggio: “nella pubblica opinione, nella pubblicistica politica per finire con la scienza politica la caduta da parte di tutti dell’illusione della trasparenza nei processi decisionali non viene segnalata e non segnalando la caduta di quest’illusione non si riesce a vedere un fatto di primaria importanza: e cioè che si riconosce piena titolarità politica e decisionale a corpi del tutto inediti ed extracostituzionali”.

Il primo ordine di notazioni si risolve in un unico rilievo di natura logica. In particolare, se si assume essere intervenuta “la caduta da parte di tutti dell’illusione della trasparenza nei processi decisionali”, vuol dire che questi “tutti”, ossia i soggetti portatori di tale illusione, sono consapevoli della caduta di questa, del suo venir meno. Difatti, una volta svanita una determinata illusione, i soggetti di essa si avvedono di ciò che era stata, proprio perché, essa svanendo, non ne sono più irretiti e la possono riconoscere in quanto tale. Di conseguenza, non può porsi un problema di mancata evidenziazione da parte delle “pubblica opinione”, “pubblicistica politica” e “scienza politica” della caduta, del dileguarsi di questa illusione, proprio perché il suo svanire ha segnalato ciò che essa stessa era ai soggetti che ne risultavano avvolti.

Il secondo ordine di notazioni è di natura fattuale. Contrariamente a quanto si sostiene nella Replica, esponenti di quelle istanze e discipline dianzi menzionate, ossia la pubblica opinione nonché la pubblicistica e la scienza politiche, hanno, in occasione della nota recente consultazione telematica, levato dolenti e pensosi ammonimenti di fronte al presunto nuovo ed esiziale pericolo generato dall’asserita inaudita anomalia extracostituzionale della piattaforma Rousseau[5].

D’altronde, questi ammaestramenti vanno ad alimentare una serqua di allarmi rivolti ormai da tempo sullo stesso tema da molte voci della stampa[6]. Cosicché la Piattaforma Rousseau finisce per essere ormai largamente additata, segnalata e riconosciuta all’opinione pubblica come la scatola nera che inghiotte le velleità di democrazia diretta sbandierate dai suoi fautori. È dunque la mancanza di trasparenza che si rivela in modo trasparente. O, riprendendo il titolo di questo scritto, l’innocuo paravento che tenta senza esito di mascherare l’ampiamente consolidata realtà di forze che agiscono dietro le formazioni politiche operanti sulla scena.

Peraltro, gli argomenti adoperati dai menzionati critici della recente votazione elettronica in questione esibiscono tutti quale sfondo comune la salda fede nella democrazia rappresentativa, architrave della legalità costituzionale ed anzi eterna garanzia di trasparenza messa a repentaglio da quell’inedita procedura decisionale telematica.

Ecco, il tenore di tali argomenti, ma anche la biografia pubblica dei personaggi che se ne sono resi fautori, mi pare comprovino ampiamente la fondatezza di quanto da me paventato nel Commento riguardo al rischio (che investe anzitutto il piano culturale e della consapevolezza) generato dalla concentrazione dell’analisi politica sulla ritenuta novità rappresentata dal carattere malefico ed oscuramente extracostituzionale della piattaforma Rousseau: si finisce per accreditare l’idea che questo dispositivo abbia infranto il preesistente paradiso terrestre della trasparente democrazia rappresentativa incentrata armonicamente sui partiti politici in quanto operanti con “metodo democratico”.

Idea falsa e risibile, naturalmente[7].

Ma su ciò Morigi suppongo convenga senza riserve.

 

 

[1]   Semmai sollevo un rilievo, anche se non essenziale e quindi da collocarsi non nel testo ma appunto in questa nota, il quale mira ad evidenziare una perplessità riguardo il “consiglio” di Morigi di non “avventurarsi a cuor leggero in merito alla natura più o meno privata dei partiti, i quali nella nostra Costituzione vengono citati anche se poi riguardo al loro <dover essere> ci si limita ad una vacua retorica democratica che dice tutto e il contrario di tutto”. Difatti, quale che possa essere stato lo spirito con cui nel Commento mi sono accostato (non già avventurato) a siffatto tema, e dunque se con colpevole spensieratezza (come pare ritenere Morigi) oppure con animo gravido di timore e tremore, il dato certo ed incontestabile è che la natura giuridica dei partiti politici nell’ordinamento italiano è, come segnalavo, quella di “semplici associazioni private non riconosciute”. Ed è dato la cui solidità non viene scalfita di un ette dall’accenno ai partiti che opera la Costituzione, rientrando, tale accenno, nel novero delle tanto belle quanto vacue dichiarazioni di principio o programmatiche di cui è infarcita la Carta, secondo quanto, del resto, riconosce lo stesso Morigi. Ma allora poco si comprende la congruenza di uno schema argomentativo che contempla, in un primo momento, a ritenuto sostegno della propria tesi, il richiamo alla rilevanza di un elemento che io avrei omesso di considerare (e cioè il riferimento costituzionale ai partiti politici) e, subito dopo, la radicale squalificazione dell’elemento medesimo. Non è la prima volta, peraltro, che Morigi indulge ad una simile modalità argomentativa di stampo palinodico.

[2]   Tant’è che di questo, del fatto cioè che nell’Intervento la c.d. assenza di trasparenza nei partiti non è presentata in realtà come una novità e quindi non fa problema, ho dato puntualmente atto nel mio Commento: “nell’economia del testo di Morigi, il riferimento alla scarsa trasparenza di procedura ed esito del sondaggio svolto sulla piattaforma telematica dei 5 stelle, appa[re] tutto sommato superfluo, come del resto in buona sostanza sottolineato dallo stesso suo autore.

[3]   A questo proposito, la vicenda delle elezioni politiche nazionali italiane del 2006 è paradigmatica. Esse videro la vittoria della coalizione di centrosinistra, ma con un esiguo scarto di voti alla Camera dei Deputati. La coalizione avversaria chiese allora inizialmente di procedere al riconteggio di tutte le schede elettorali, per poi accettare, a seguito di un accordo politico, di contare solo le schede del 10% dei seggi (https://www.repubblica.it/2006/12/sezioni/politica/polemica-schede/riconteggio-totale/riconteggio-totale.html). La Giunta per le elezioni, tuttavia  unico organo munito di giurisdizione al riguardo ai sensi dell’art. 66 della Costituzione, riuscì a ricontare soltanto le schede relative a 180 seggi, di contro ai programmati 6000 seggi, ossia l’equivalente del suddetto 10%, e calcolò che per ricontare il totale ci sarebbero voluti due mandati addizionali di 5 anni (traggo questi dati da http://paduaresearch.cab.unipd.it/6293/1/carlotto_paolo_tesi.pdf).

[4]   D’altronde, va pure di molto stemperata l’enfasi sulla presunta natura “malefica” di questa “sorta di accrocchio tecnologico informatico” dispensatore di “responsi” ordalici. Difatti, in base allo statuto del Movimento 5 Stelle, la devoluzione alla “consultazione in Rete degli iscritti” dell’assunzione della generalità delle decisioni politiche del Movimento stesso, tra cui è rientrata infatti anche quella riguardante la costituzione del nuovo attuale governo, non è affatto obbligatoria, ma è rimessa alla scelta totalmente discrezionale del suo “Capo Politico ovvero, in sua assenza od inerzia, d[e]l Garante” [v. art. 4, lettere a), comma 2°, ultimo alinea e b), comma 1°, dello Statuto, visionabile qui: https://s3-eu-west-1.amazonaws.com/associazionerousseau/documenti/statuto_MoVimento_2017.pdf]. Pertanto, se pure si volesse dare rilevanza all’apparenza (o illusione) della trasparenza, e dunque in definitiva sapere – per riprendere le parole usate nella Replica – “con chi dobbiamo prendercela”, la responsabilità della decisione di costituire il nuovo governo, ove per responsabilità si intende la causa prima che ha consentito agli iscritti di esprimersi, sarebbe ascrivibile formalmente e sostanzialmente a Luigi Di Maio quale “Capo Politico” ed a Giuseppe Piero Grillo quale Garante del Movimento 5 Stelle (come del resto rilevato dalla stampa: https://www.ilpost.it/2019/09/03/piattaforma-rousseau-voto-oggi).

[5]   Di seguito, riporto una breve silloge di alcune delle opinioni espresse al riguardo, tutte da me tratte dall’articolo https://www.ilfoglio.it/politica/2019/09/09/news/la-soffitta-dei-simboli-inutili-272931/. Ferruccio de Bortoli: “<#Rousseau, uno dei giorni più bui della nostra democrazia rappresentativa>”; Francesco Storace: “<La democrazia italiana nelle mani della piattaforma #Rousseau. Decide #Casaleggio senza alcuna trasparenza se il governo deve partire o no. Ora #Mattarella potrà nominare i ministri>”; Mara Carfagna:<Ah, quindi il Conte-bis non sarà legittimato dalle Camere, ma dalla piattaforma #Rousseau? Eppure non mi pare che i Padri Costituenti, nella loro saggezza e nel ruolo di rappresentanti del popolo italiano, avessero previsto di inserire la Casaleggio Associati in Costituzione>”; il presidente emerito della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick: “<non è incostituzionale in sé, ma mi sembra contro lo spirito della Carta far diventare la piattaforma Rousseau, o un’altra simile, uno strumento per l’esercizio della sovranità>”, Cesare Mirabelli: “<Il presidente incaricato, sulla base del voto di un numero ristretto di persone, sia pure iscritte al partito M5s, si ritira e restituisce il mandato nelle mani del presidente della Repubblica? Non è quanto stabilisce la Costituzione>”.

[6]   Tra gli innumerevoli interventi giornalistici, cfr. https://www.ilsole24ore.com/art/il-lato-oscuro-rousseau-hacker-bilanci-e-votazioni-non-certificate-ACDjgeg.

[7]   È significativo, al riguardo, che già nel 1966 un intellettuale come Lelio Basso, convinto assertore dell’imprescindibile funzione storica dei partiti e certamente distante da un estremismo antiparlamentare, dopo aver negato “che il parlamento sia veramente o possa essere la sede effettiva del potere e che tutti i problemi possano risolversi con la semplice azione parlamentare”, evidenziava il compimento di un “processo di progressivo svuotamento di un’autonoma funzione del parlamento a beneficio dell’esecutivo e dei partiti”, che riconosceva contestualmente essersi “rivelati strumenti politici più adeguati, anche se largamente insufficienti, alla democrazia di massa”, avendo cura però di soggiungere immediatamente che i reali beneficiari di tale processo di progressivo svuotamento erano “dietro di essi [ossia “dell’esecutivo e dei partiti”], [la] burocrazia, [i] gruppi di pressione e [le] forze economico-sociali” (http://leliobasso.it/documento.aspx?id=5b7a6827d18ca804ef8249e24302aaed).

COLPO DI EXSTRASTATO III, Di Massimo Morigi

COLPO DI EXSTRASTATO III (CON FRANCHISE DI ISAAC ASIMOV PIÙ UN RITORNO AL PASSATO CON UN RITORNO AL FUTURO DALL’ITALIA E IL MONDO)

Di Massimo Morigi

 

«The door opened, snapping him to open-eyed attention. For a moment, his stomach constricted. Not more questions! But Paulson was smiling. “That will be all, Mr. Muller.” “No more questions, sir?” “None needed. Everything was quite clearcut. You will be escorted back to your home and then you will be a private citizen once more. Or as much so as the public will allow.” “Thank you. Thank you.” Norman flushed and said, “I wonder  – Who was elected?” Paulson shook his head. “That will have to wait for the official announcement. The rules are quite strict. We can’t even tell you. You understand.”  “Of course. Yes.” Norman felt embarrassed. “Secret Service will have the necessary papers for you to sign.”  “Yes.” Suddenly, Norman Muller felt proud. It was on him now in full strength. He was proud. In this imperfect world, the sovereign citizens of the first and greatest Electronic Democracy had, through Norman Muller (through him!) exercised once again its free, untrammeled franchise.»: Isaac Asimov, “Francise”,  in “if. Worlds of Science Fiction”, agosto 1955, p. 15 (consultabile su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/1955-08_IFhttps://ia801300.us.archive.org/25/items/1955-08_IF/1955-08_IF.pdf ed anche all’URL http://www.astro.sunysb.edu/fwalter/HON301/franchise.pdf; congelamento URL e documento  presso WayBack Machine: https://web.archive.org/web/20190911153029/http://www.astro.sunysb.edu/fwalter/HON301/franchise.pdf). Il testo appena citato è la chiusa del racconto breve di Isaac Asimov “Francise”, pubblicato in Italia col titolo Diritto di voto, che io ebbi modo di leggere in una lontana estate di metà anni Settanta in una raccolta di racconti, La terra è abbastanza grande, dedicata  al più grande maestro mai esistito della fantascienza (Isaac Asimov, “Diritto di voto”, in  “La terra è abbastanza grande”, Milano, Editrice Nord, 1975, pp. 91-112). Ma non è per indugiare con la memoria alle mie estive letture giovanili che nel presente finale di estate ho tirato in ballo il “Diritto di voto” di Asimov, ma, come forse qualcuno avrà già intuito,  è  per tornare sulla questione del voto elettronico sulla piattaforma Rousseau associando alla critica su questo racconto del più grande maestro della fantascienza le osservazioni che sono state mosse riguardo a “Colpo di extrastato” e a “Colpo di extrastato II”. La fantascienza, quando è fantascienza di qualità, si dice. e io condivido in pieno questa opinione, riesce a fornirci spunti letterari, filosofici  e politici che vanno ben al di là della banale descrizione di un meraviglioso (o pauroso) mondo tecnologico (o, nel peggiore dei casi, della rappresentazione delle terribili e truculente invasioni aliene). A questo punto chi abbia avuto la pazienza di seguirmi si aspetterà che io affermi: «Ecco, gente di poca fede quello che io sostengo nei due colpi extrastato era già stato intravvisto dal maestro della fantascienza in “Diritto di voto” e per arrivare a questa elementare verità sarebbe bastato annoiarsi come lo scrivente in lunghe letture estive.» (Magari con  “Azzurro” di sottofondo alla lettura, cantato da una volta tanto sublime Celentano  e musica scritta dal sempre ineffabile Paolo Conte: ogni allusione all’attuale primo inquilino di Palazzo Chigi è veramente puramente casuale.). Invece, quello che io sostengo è esattamente il contrario ed è cioè che quello che  la chiusa di  “Diritto di voto” ci restituisce non è una premonizione sulla nostra società attuale ma, in un certo senso, un suo profondo fraintendimento. Certo Norman Muller, l’antiroe del racconto scelto da un’ imperscrutabile tecnocrazia perché le sue pulsioni e manchevolezze di mediocre uomo della strada possano essere vagliate da un formidabile calcolatore elettronico per designare, attraverso l’ analisi di queste caratteristiche rappresentative di tutta la popolazione, il vincitore alla corsa alla presidenza degli Stati uniti, passa da un comprensibile stato di depressione per la responsabilità che la sua debole persona e personalità rappresenti mediamente quella di tutta la popolazione degli Stati uniti (e possa quindi, attraverso il processo algoritmico del calcolatore, essere la sola in grado di partorire una così grande scelta) ad una sorta di euforia : «”Yes.” Suddenly, Norman Muller felt proud. It was on him now in full strength. He was proud. In this imperfect world, the sovereign citizens of the first and greatest Electronic Democracy had, through Norman Muller (through him!) exercised once again its free, untrammeled franchise.»,  e questo a significare un profondo pessimismo verso un uomo-massa dominato dalle macchine e dai loro sacerdoti tecnocrati ma quello che la chiusa del racconto non ci dice è 1) la possibilità che tutta la faccenda della scelta mediata attraverso il calcolatore Multivac (e riguardo a questo punto,  poco importa se questo calcolatore emetta il vaticinio processando un solo soggetto passivo o una più vasta comunità composta da simili uomini-massa) sia una truffa e 2)   – e ancor più importante – non accenna minimente al fatto che questa veramente singolare procedura di voto elettronica, corretta o truffaldina che sia, designa chiaramente una costituzione materiale dello Stato che non ha assolutamente nulla a che fare con la precedente dove la scelta e selezione dei decisori alfa-strategici da parte dei decisori omega-strategici avveniva  – almeno a livello politico –  attraverso una procedura non elettronica ma semplicemente cartacea (con tutti i brogli che questa comportava, ma almeno per quanto riguarda il punto 2 questo è un elemento del tutto secondario). Ma non è stato per ridimensionare  la capacità della buona fantascienza di offrirci euristicamente interessanti e premonitori scenari politici e filosofici utili anche per le nostre attuali condizioni né tantomeno per indicare che in questo caso il buon Asimov dormicchiava che ho deciso di segnalare queste intime debolezze del racconto “Diritto di voto” in relazione alla votazione sulla piattaforma Rousseau. Al contrario, lo scopo è stato quello di segnalare che nelle vicende sociali e politiche (come anche in quelle che continuiamo  a definire fisiche e/o biologiche, così distinguendole da quelle storico-culturali e per la cancellazione di queste ridicole suddivisioni si rinvia, per brevità senza bibliografia, a tutto quanto in questi anni è stato scritto in merito al modello dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico) i cambiamenti ed i mutamenti non appartenenti stricto sensu all’ambito politico e sociale agiscono su quest’ambito non solo additivamente ma anche qualitativamente, talché è del tutto assurdo dire che una costituzione materiale e una forma di Stato che ha avuto la sua nascita in una  passata epoca tecnologica è la stessa costituzione materiale e forma di Stato dei tempi di Internet. E purtroppo (cioè in senso profondamente negativo) questo vale a maggior ragione per la presente situazione italiana, dove accanto ad una costituzione materiale sempre più palcoscenico di una politica privata ormai di qualsiasi valenza di scontro strategico (Parlamento e partiti animati dai lugubri fantocci burkiani le cui interióra non sono altro che segatura e stracci e le cui gesta, quando non sprofondano nella più abissale assurdità, ci richiamano ad un surreale spettacolo di burattini con tanto di pupari dietro le quinte) ed uno Stato in cui le sue varie articolazioni sono sempre più in preda ad una sindrome di disturbo dissociativo dell’identità (in quale altro modo inquadrare la persistente ignoranza da parte di questi corpi che il loro telos  primario dovrebbe essere il mantenimento dello Stato stesso e della popolazione che ne costituisce le fondamenta materiale e spirituale e non la tutela di ipostatici diritti universali?), anche il paperinesco voto sulla piattaforma Rousseau costituisce una novità (negativa) di grandissima portata. Concludo, come da titolo, con un recente ritorno al passato dall’ “Italia e il mondo” che prefigurava un ritorno al futuro che penso abbia mantenuto ancora oggi un qualche valore. Si tratta del “Per un recupero delle prerogative dello stato nazionale italiano, per la salvaguardia della integrità del Paese, verso una posizione di neutralità vigile” di Giuseppe Germinario (pubblicato sull’ “Italia e il mondo” il 2 febbraio 2018 ma il documento è di quattro anni più vecchio) e della mia risposta allo stesso. Vista l’importanza del testo di Germinario (col quale lo scrivente concordava allora pienamente, come concorda, se possibile, ancor più pienamente oggi, tempi  di apoptopici rousseauiani colpi di extrastato) e, modestamente, della mia risposta sempre sul blog allo stesso, ho pensato di congelare questi due testi in un’unica pagina copiaincollata caricata su Internet Archive agli URL https://archive.org/details/perunrecuperodelleprerogative.dellostatonazionaleitalianoarticologerminariorispostamorigipdf e https://ia601501.us.archive.org/10/items/perunrecuperodelleprerogative.dellostatonazionaleitalianoarticologerminariorispostamorigipdf/PER%20UN%20RECUPERO%20DELLE%20PREROGATIVE.%20%20DELLO%20STATO%20NAZIONALE%20ITALIANO%20ARTICOLO%20GERMINARIO%20RISPOSTA%20MORIGIpdf.pdf (ovviamente, è anche possibile avere diretta visione di questi testi attraverso l’URL originario del blog http://italiaeilmondo.com/2018/02/02/per-un-recupero-delle-prerogative-dello-stato-nazionale-italiano-per-la-salvaguardia-della-integrita-del-paese-verso-una-posizione-di-neutralita-vigile/#disqus_thread ma chi ha avuto modo di seguirmi in questo blog non ha difficoltà a comprendere le ragioni di questa procedura archivistica dei tempi di Internet). Nella mia concorde replica all’intervento di Germinario, che prendendo le mosse da uno schema schmittiano («Allora sotto questo punto di vista deve costituire un fondamentale contributo il ragionamento sviluppato da Carl Schmitt nelle “Categorie del politico” e ripreso nell’incipit di questo commento: vale a dire che la forza politica che vorrà farsi carico del programma di Germinario dovrà, prima di tutto, prendere una decisa e cristallina posizione contro la retoriche democraticistiche, dei diritti umani e di una politica internazionale “pro umanità” lungo la direttiva espressa da Schmitt nelle “Categorie del politico”», lo sviluppava, però, lungo una prospettiva non classicamente “realpoliticistica” ma “culturalistica” (sotto qualche aspetto simile al costruttivismo wendtiano ma di ben altra consapevolezza e profondità storico-filosofica), che è l’apporto dialettico e del tutto innovativo che il Repubblicanesimo Geopolitico dà alla tradizione del realismo politico moderno, riallacciandosi in questo modo in via diretta all’antica tradizione umanistica della filosofia dell’azione e/o della prassi (che si dipana lungo un filo rosso che lega Aristotele, Machiavelli, Hegel, Marx per finire col più grande esponente novecentesco della filosofia della prassi, cioè Antonio Gramsci): «Ma non ci si dovrà fermare a questa “pars destruens”. La “pars construens” cui questa formazione politica dovrà ispirare la sua parte propositiva, dovrà porre sul piedistallo degli idoli infranti democraticistici e dirittoumanistici (che da sempre sono la principale arma di dominio agli agenti alfa-strategici) il concetto di Kultur, il che significa che il primo (se non l’unico) obiettivo di una nuova consapevole politica per la rinascita dell’Italia è l’ adamantina consapevolezza che l’Italia ha una cultura (intendendo per cultura quell’inestricabile intreccio dialettico fra cultura, arte, storia, economia, religione) che va ben oltre gli ultimi disgraziati settant’anni della sua storia “democratica”. In altre parole, questa forza politica deve essere consapevole che questa Kultur deve ritrovare un suo rinnovato Lebensraum che gli dia spazio e che la faccia rinascere.». Il più fatale errore che si può compiere ragionando (ed anche agendo) di e nella politica è pensare che cultura e politica siano due cose distinte mentre come ci insegna (anche se rozzamente) Marx ed in maniera invece impareggiabile Antonio Gramsci (e, immodestamente in una definitiva sistemazione dialettico-espressivo-strategica il Repubblicanesimo Geopolitico) non si tratta altro che di due facce della stessa medaglia. Il concetto di colpo di extrastato, pur con tutte le criticità segnalate dai gentili lettori dell’ “Italia e il mondo” ha a mio giudizio un innegabile pregio, e cioè che unisce in un solida sintesi dialettica la critica alla profondissima crisi istituzionale e politica italiana che in questa fase riesce a produrre anche un corpo politico-decisionale del tutto estraneo e prevalente al testo e alla prassi costituzionali (la piattaforma Rousseau) alla critica ad un’altrettanto degradante crisi culturale: cosa c’è di più idiota nel ritenere che una consultazione perché mediata da un apparato tecnologico-informatico sia migliore e più democratica di una tenuta attraverso un tradizionale sistema cartaceo? (questa credenza ha davvero  molte cupe analogie  con la pratica – diciamolo chiaramente: disperata e disperante – degli amoreggiamenti virtuali e davanti ad una Webcam: e, almeno da questo punto di vista, il racconto asimoviano con la sua realistica descrizione del timido e recalcitrante uomo-massa Norman Muller ci fornisce assai interessanti spunti). Concludevo il mio intervento in appoggio all’articolo di Germinario: «Quello che, tuttavia, dovremmo essere ben fermi nei nostri propositi, deve essere la consapevolezza (e quindi la decisione) che è giunto il momento di porre pubblicamente a chi dovrebbe esserne interessato questa problematica teorica. Dalle risposte (e anche dalla nostra decisione nel porre le domande), potrebbe nascere evoluzioni molto interessanti (molto interessanti perché rivoluzionarie) del ad oggi “stagnante” e maleodorante “caso italiano”». Ecco, allora come oggi, si è invocato «sia a livello di prassi che di teoria politica [di] un colpo altrettanto extra» ( chiusa di  “Colpo di extrastato”). E questo con buona pace delle vestali della retorica democraticistica diritto-universalistica, degli amoreggiatori politico-virtuali della piattaforma Rousseau ed anche di tutti i più o meno padani Tecoppa che non hanno capito che per rovesciare  il quadro dei rapporti di forza geopolitici sviluppatisi in seguito alla sconfitta nel secondo conflitto mondiale non basta proprio fare accordi con la misera controfigura di Segretario politico del partito triste ed indegno erede del grande (e a suo modo tragico) partito del gigante realista politico Palmiro Togliatti né essere politico più navigato – ci vuole ben poco! – del vispo ma politicamente stracciato scugnizzo capopentastellato. Ci vuole, appunto, un colpo “estra” (magari sapendo anche far tesoro e sviluppandole insieme dialetticamente la pur timida, anche se interessantissima, distopia asimoviana di “Francise” e gli ammaestramenti di Giuseppe Maranini, per i quali un buon punto di partenza può anche essere costituito dalla voce ‘Colpo di Stato’ da lui scritta per l’Enciclopedia Italiana e da noi citata all’inizio di questo trittico sul ‘Colpo di extrastato’…)…

 

Massimo Morigi – 14 settembre 2019

 

 

 

REALISMO POLITICO E POPULISMO, di Teodoro Klitsche de la Grange

REALISMO POLITICO E POPULISMO

Se c’è una corrente di pensiero che pare rinvigorita dal crescente successo populista è quella del realismo politico. A iniziare dall’affermazione programmatica di Trump America first per arrivare a quella di Salvini prima gli italiani, per continuare col fatto che i populisti parlano così con riguardo agli interessi della comunità, mentre le èlite globaliste prestano ossequio ai valori dell’umanità, in primo luogo i diritti umani; i primi prendono in esame individualità, fatti, misure concreti, possibili ed esistenti; i secondi guardano a valori,  identità astratte e, al limite, costruzioni utopiche. Nel vero senso della parola “utopia” perché né alcuno ha mai visto come possa funzionare un potere politico (?) globale, cioè esercitato sull’umanità, né che forma possa assumere (federazione? impero? democrazia? tecnocrazia?).

Nel pensiero politico, in particolare quello moderno da Machiavelli in poi, il realismo ha contrapposto alle “immaginazioni” la realtà dell’analisi dei fatti valutati in base agli interessi e soprattutto ad una antropologia negativa,  consistente nel non considerare gli uomini come buoni e razionali (né disposti a diventarlo), ma inclini spesso al male e alla irrazionalità.

Se per un non-realista il problema principale è di come costruire uno Stato conforme a certi valori e idee, per un realista è quello di farlo di guisa che possa esistere e durare a lungo, vincendo le avversità della fortuna. È la capacità di conseguire tale risultato il criterio per giudicare se lo Stato è “ben costituito”. Di converso anche se si fonda sui valori più condivisi, ma non riesce a sopravvivere, tenuto conto che altri governi di altri popoli pensano e cercano il potere e non la bontà delle istituzioni, tanto buonismo non sarà servito a nulla, perché non tradotto (né traducibile) in sintesi politiche durature.

Il che non significa che uno Stato debba (e possa) essere privo di valori (ogni comunità politica ha un proprio ethos), ma solo che prima di quelli viene la necessità dell’esistenza collettiva. L’unità politica è un essere prima che un dover essere e come tutto ciò che esiste possiede intrinsecamente il conatus di Spinoza: «in suo esse perseverari». In questo senso è condivisibile la concezione di Meinecke che Kratos e Ethos sono compresenti nello Stato: «Kratos ed Ethos costruiscono insieme lo Stato e fanno la Storia”. Solo che nella concreta azione politica alcune forze vogliono che il primo prevalga sul secondo; altre il contrario.

Questa polarità contrapposta (e compresente) ha portato con se delle conseguenti antitesi: ragione di Stato/precetto morale; realtà/esigenza etica; interesse della comunità/norma universale; potenza/agire etico (tra le altre).

È da notare come vicine alla prima polarità sono per lo più le concezioni dei partiti sovran-popul-identitari; alla seconda quelle dei globalisti.

E questo malgrado circa trent’anni fa, con il collasso del comunismo sembrava prevalere la seconda. Con la vittoria delle democrazie liberali per implosione dell’avversario sistema del “socialismo reale”, pareva a giudizio – per primo – di Fukuyama che la storia fosse finita. E che di conseguenza il faro conduttore della nuova era che si apriva sarebbe stata una sintesi tra morale ed economia: tra diritti umani e mercato globale, con correlativo deperire della politica. Quanto questa previsione fosse errata lo provano gli eventi successivi.

Al venir meno nella vecchia opposizione borghesia/proletariato ossia liberalismo democratico/socialismo reale ne è subentrata una nuova. Quel che più interessa è che, essendo una delle polarità caratterizzata dalla sintesi tra morale ed economia, l’opposizione lo è dalla rimonta del politico e di quanto allo stesso pertiene. E così del realismo, per cui la dimensione politica è un’essenza dell’uomo ed è irriducibile a morale, diritto, economia (ed altro).

Ad ascoltare i discorsi dei leaders populisti così come a leggere i documenti, compresi quelli (pochi per ora) costituzionali, il prevalere dell’ “armamentario” realista è evidente. Se si inizia dalle scelte, queste sono dichiaratamente orientate all’interesse della comunità, contrapposto a quello “globale”. E non è solo propaganda. Friederich List quasi sue secoli orsono distingueva la “propria” economia da quella di Adam Smith, perché la prima era politica (cioè nazionale) mentre quella dello scozzese cosmopolitica. Boris Jhonson esprime la suità inglese, col suo specifico carattere insulare/marittimo, contrapposto a quello terrestre/continentale. Trump prende misure protezioniste non perché convinto autarchico, ma perché l’assetto opposto è contrario agli interessi nazionali.

D’altra parte è tipico del realismo attribuire di gran lunga più importanza ai risultati che alle intenzioni dell’azione politica. A seguire la logica di Weber (delle “due” etiche) ciò porta ad una maggiore responsabilità del governante (verso i governati). Quando Salvini sostiene che, con la “linea dura” nei confronti delle migrazioni, naufragi e decessi in mare si sono drasticamente ridotti (e i dati non risultano contestati) ricorda dappresso l’elogio di Machiavelli al Valentino, che, per quanto “tenuto crudele” aveva pacificato la Romagna onde il Duca era stato “molto più pietoso che il popolo fiorentino il quale, per fuggire il nome di crudele, lasciò distruggere Pistoia”. La zelante e caritatevole accoglienza del centrosinistra non solo andava (e va) contro la volontà della maggioranza degli italiani, ma incentivava le partenze e quindi i naufragi, realizzando così il contrario delle buone intenzioni esternate dai propugnatori.

I quali hanno l’abitudine – correlata – di paragonare non i fatti con i fatti ma le intenzioni e le realizzazioni (cattive o meno buone) degli altri con le proprie immaginazioni. Modo di argomentare frutto di (mediocre) retorica: dato che alla fantasia (et similia) non vi sono limiti, ma alla realtà si, è scontato che a comparare questa ai prodotti di quella, la seconda ne abbia a perdere.

Contrariamente a quello che sosteneva Machiavelli per cui la scelta politica è data tra alternative reali e concrete, ed è da scegliere non il meglio assoluto ma “il men tristo per buono”; e soprattutto, rifuggire dalle “immaginazioni”.

E si potrebbe continuare a lungo, il rapporto tra forza e diritto, obbligazione politica e convenzioni internazionali e così via, ma i limiti redazionali di questo intervento, per ora, non me lo consentono.

Teodoro Klitsche de la Grange

Biagio De Giovanni, Libertà e vitalità_Una recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Biagio De Giovanni, Libertà e vitalità. Benedetto Croce e la crisi della coscienza europea, Il Mulino, Bologna 2018, € 14,00, pp. 140.

Il perché di questo saggio è esposto dall’autore nelle prime pagine “La ragione è sotto i nostri occhi, il nostro è un tempo scisso, diviso, incerto, carico di alternative e di nuove inquietudini, di conflitti…Hegel, che, più di tutti, ha rappresentato l’immagine della coscienza europea moderna….aveva argomentato, nei suoi primi scritti, l’idea che i tempi di scissione richiamano la necessità della filosofia, che scissione immanente nella realtà e filosofia sono l’una la controfaccia dell’altra, che dunque la filosofia ritrova le sue ragioni più profonde non in tempo di conciliazione e di bonaccia, ma di crisi e di conflitto…Croce, da questo punto di vista, non la pensa diversamente”.

Per Croce, interpretato prevalentemente come pensatore “irenico e erasmiano”, da questo punto di vista “la filosofia è il momento della malattia”, necessario “quando il mondo si è stancato di camminare nella continuità, e dal suo fondo emerge il negativo, la realtà scissa. Ed emerge anche la necessità di trovare il punto dell’unione in cui gli opposti plachino la loro conflittualità che, non pensata, appare senza fondo e senza risposta all’interno di una traccia che il nichilismo ha posto al centro della crisi moderna. La potenza del negativo impedisce ogni irenismo”.

Quando emerge non si tratta di trovare la conciliazione definitiva “il che in Croce non è affatto possibile che avvenga”. Infatti sarebbe “la fine della storia”; ed “il filosofo napoletano essendo meno sistematico e ‘teutonico’ di quel sommo filosofo della storia che fu Hegel, e assai aspro critico di quella dimensione epifanica che lui giudicava invadente e addirittura anacronistica nel filosofo di Stoccarda”.

Così negli anni tempestosi della prima metà del secolo passato “Croce rivela il punto cruciale: la necessità di una teoria ‘speculativa’ della libertà, ossia del ritorno della filosofia”. Sul finire degli anni ’30 “Croce parla di “vitale o utile” quasi a voler affermare, del vitale, il carattere categoriale, ma la parola sfugge da ogni parte, si colloca tra abisso della libertà costituente e soglia indistinta tra vita e storia…La vitalità, lo dicevo, è frangiata nei suoi confini, si sporge oltre, sformata; in embrione è l’irrompere disordinato della libertà che deve prender forma, mentre l’utile è da sempre già ‘formato’, già chiuso nella sua logica”. Così l’autore ritiene che la concezione crociana della vitalità non è altro che il costituirsi della libertà “se la vitalità è tutta interna alla dialettica della libertà, come non vedere che dentro di essa c’è il soffio dell’eterno?”.

Conclude l’autore che oggi il dibattito su Croce si svolge “alla luce di una ripresa viva dei problemi che egli pose alla coscienza del mondo”.

In particolare occorre sottolineare “che la produttività filosofica dell’Europa finiva con l’esaltarsi nella crisi, … La crisi faceva parte della produttività geofilosofica dell’Europa”. Nella crisi odierna sarebbe necessario un’analoga purezza di pensiero “nei tempi della nuova scissione che il mondo attraversa e che l’Europa vive sulla pelle del proprio progetto di unificazione” e dare risposte  agli impellenti interrogativi “quale è, e sarà, la fisionomia del rapporto Europa-mondo dopo la fine dei centri del mondo e soprattutto dell’Europa centro del mondo?.. quale ruolo si può riservare a un pensiero che ha avuto nell’universalismo il suo tratto dominante?”,

Alle risposte la filosofia può contribuire “con l’urgenza che indicano i tempi di una ‘malattia’, la quale sembra chiedere lo sforzo della speculazione, anzi dello ‘speculativo’”.

Teodoro Klitsche de la Grange

Ritorno al futuro – 2 – Formenti, l’Italia e l’Europa: alcune perplessità di Elio Paoloni

 

Ritorno al futuro – 2 – Formenti, l’Italia e l’Europa: alcune perplessità

di Elio Paoloni

 

La lettura del prezioso Il socialismo è morto, viva il socialismo di Carlo Formenti mi aveva spinto a porgli alcune domande, (link a Ritorno al futuro 1). Per brevità non avevo inserito alcuni dubbi che sorgono non solo dalla lettura del testo citato ma da molte sue dichiarazioni. Le riporto come riflessioni.

 

Siamo tutti fermamente convinti, come l’autore, che la UE sia “un mostruoso esperimento istituzionale che tenta di mettere in pratica l’utopia del fondatore del liberismo moderno, von Hayek” e di certo non aderiamo all’utopia di farne un unico Stato. Ma per conservare il pieno rispetto dell’autodeterminazione degli Stati nazione è necessario negare radicalmente ogni forma di sentire europeo, l’idea stessa di Europa? Definendo veritiero il celebre detto che definisce l’Europa come una mera espressione geografica, Formenti sembra dimenticare che la frase originaria riguardava l’Italia, ora ritenuta unanimemente qualcosa di più di una mappa su Google.

 

L’autore ricorda anche che gli stati-continente non si inventano e che quelli esistenti hanno una lunga storia (rammentando giustamente che non si capisce il PCC senza Confucio). E’ curioso; così, all’impronta, pare che una storia più lunga di quella dello stato-continente Europa non esista: se si mettono insieme impero romano, sacro romano impero, impero napoleonico (per quanto effimero) e impero austroungarico riscontriamo la persistenza di un’idea, anzi di una fattuale unità. I tentativi di costruzione di un unico stato europeo risultano numerosi e reiterati, anche se, alla lunga, fallimentari. E sono falliti proprio perché il tratto caratteristico della civiltà europea, è lo Stato-nazione; l’Europa vera – infatti – non potrà che essere una comunità di nazioni, poiché abbiamo lingue, tradizioni e confini propri. Eppure, man mano che gli Stati-nazione dell’Europa sono venuti radicandosi e precisandosi, si è ulteriormente rafforzata l’idea di una identità europea comune. Ricche e possenti sono le tradizioni che la individuano, in particolare le due radici fondamentali, quella greco-romana e quella ebraico-cristiana; e le divisioni sanguinose che hanno scosso il continente non hanno mai potuto cancellare l’affinità dei popoli, l’unità del pensiero. E’ verissimo che fumosi richiami all’unità europea sono utilizzati per puntellare l’attuale disastrosa Unione, ma ritengo che si possa avversare la UE anche – o addirittura meglio – appellandosi a un sano spirito europeo come fanno i firmatari della Dichiarazione di Parigi (1), o come faceva Mario Tronti, che ne Il popolo perduto, citando “un bellissimo testo di Romano Guardini, Europa, realtà e compito”  ricordava che sarebbe stato opportuno riconoscere come il sentire comune del cristianesimo fosse un legame spirituale che univa tutti gli europei.

 

Altre perplessità nascono sul tentativo di distinguere due idee di nazione: Formenti separa quella naturalistica – diciamo, grossolanamente, di destra – “che presume la nazione esistente ben prima della nascita degli stati moderni e delle rivoluzioni borghesi, perché affonda le radici in fattori fisici, climatici, di sangue e suolo ecc.” da quella “di sinistra”, consapevole che la nazione è un prodotto storico della vita politica.

Inizierei dalla presunzione di esistenza in vita: non si darebbe nazione prima della nascita degli stati moderni, delle rivoluzioni borghesi. Dante quindi non avrebbe potuto neppure concepirne l’idea. Ma Antonio Borgese ebbe a scrivere “L’Italia non fu fatta da re o capitani; essa fu la creatura di un poeta: Dante. Non è un’esagerazione dire che egli fu per il popolo italiano quello che Mosè fu per Israele”.

 

Secondo Formenti – fin troppo preoccupato, evidentemente, di smarcarsi nettamente da idee di nazione che potrebbero essere considerate “di destra” – i fattori fisici, climatici, di suolo non sarebbero significativi, nell’identificare una nazione. Certo, tutto è prodotto storico, chi ne può dubitare? Infatti la storia è fatta, anche, di “Generale Inverno”, di elefanti che attraversano catene montuose, di proconsoli che attraversano fiumi, di comunità racchiuse dai monti che elaborano norme singolari. Il popolo non preesiste alla nazione, sostiene lo studioso. Ma non sono proprio le caratteristiche di un popolo a determinare la nazione che si costruisce? Le stesse forme religiose sono influenzate dal carattere di un popolo. E, a tal proposito, è pensabile che una cultura, un comune sentire, possano prescindere del tutto dalla religione? Non è con la secolarizzazione che si dà spirito a un’azione – diceva Tronti nell’intervista citata.

 

Insomma, dato per scontato che non sono i caratteri razziali (di certo difficilmente identificabili in Italia, specie nel meridione, dove sarebbe divertente osservare gli specialisti del DNA che si affannano a individuare i geni giusti) a fare un popolo, in tutti gli altri campi non è facile individuare una netta contrapposizione tra due opposte idee di nazione. Quando Formenti sostiene che il patriottismo giusto è quello la cui parola d’ordine non è prima l’Italia ma prima il popolo e la Costituzione italiani, sembra di trovarsi di fronte a un debole giochino di sostituzione semantica.

 

Nazione sarebbe, leggo, “il territorio su cui lavorano, vivono e lottano tutti i soggetti che lo abitano e si riconoscono nell’ordinamento politico che lo controlla e lo governa”. Basta leggere Leopardi, Manzoni, De Roberto, Malaparte, Flaiano, per sincerarsi che il popolo italiano era lo stesso sotto i viceré, sotto i Savoia, sotto il Duce e sotto la Repubblica, prima, seconda e terza. Di certo Formenti vuole intendere che non siamo ancora un popolo proprio perché non ci sentiamo – forse non ci siamo mai, o quasi mai, sentiti davvero – rappresentati da chi governa. Saremo un popolo vero quando ci sentiremo rappresentati dalle nostre istituzioni. Ma prima di giungere a costruirle, queste istituzioni, occorrerà riconoscersi in qualcos’altro, qualcosa che già esiste.

Dobbiamo accingerci a costruire questo popolo “che è tale perché condivide un insieme di diritti e doveri”. Sacrosanto. Come è sacrosanto che non si dia trasformazione radicale della società senza mettere in atto un processo costituente; poiché le costituzioni sono la quint’essenza della sovranità popolare. Ma si può costruire un popolo con un corso intensivo di Educazione Civica? Perché è questa la soluzione che viene in mente se presentiamo la faccenda in questi termini.

 

Per disegnare un grande progetto politico nazionale, una unione tra interessi diversi, non è sufficiente incrociare quattro rivendicazioni sindacali. Non ci sarà nessun popolo, senza un simbolo forte, condiviso, radicato, qualcosa che affondi le radici nella sua storia, che sia, anzi, tutta la sua storia, che lo individui, che lo innervi fortemente. Che lo innervi già, intendo. Certo, ci si può coalizzare riconoscendoci nei fini, in quelle forme di governo, in quelle istituzioni che dovrebbero caratterizzarci in futuro. Ma le alchimie costituzionali – o il semplice richiamo alla piena attuazione della Costituzione esistente (che suonerebbe tristemente simile alle ipocrite esortazioni dei nostri ultimi Presidenti) – non hanno mai eccitato gli animi. Possono davvero farci avvertire la compattezza – e l’orgoglio – di un’appartenenza di patria?

Del resto anche Formenti ha affermato, concordando con Tronti, che le radici della rivoluzione stanno nel passato, più che nell’esaltazione del futuro.

 

Formenti sostiene che Mélenchon può impunemente sventolare il tricolore perché la Francia ha una lunga storia politica nazionale. Ma proprio per questo, proprio perché da noi non ce ne è stata abbastanza – di storia nazionale – ritengo che dovremmo sventolare ancor più in alto il nostro tricolore (con la sua inevitabile dose di enfasi, di demagogia, di equivoci) invece di tenerlo a mezz’asta per timore dell’accusa di fascismo, anzi, di populismo di destra.

 

 

 

la costruzione storica del sovranismo, a cura di Luigi Longo

IL SOVRANISMO NON E’ UN DATO STORICO MA E’ UNA COSTRUZIONE STORICA

a cura di Luigi Longo

 

Propongo la lettura dello scritto di Marco Della Luna apparso sul sito www.marcodellaluna.info del 22 /8/2019 con il titolo Il sovranismo della serva Italia. Non lo condivido in toto ma lo ritengo utile per una eventuale discussione critica.

Mi preme evidenziare le seguenti tre questioni:

La prima di breve periodo. Il governo giallo-verde non è mai stato antisistemico, piuttosto è da destrutturare il suo essere sistemico. Per favore lasciamo perdere le categorie populiste, sovraniste finalizzate a creare confusione e a velare la realtà: si parla di etica quando è stata svuotata di senso, si critica la UE quando si rispettano i suoi dettami, si difende la Costituzione quando è stata distrutta e non tutela nessuna autonomia nazionale, ci si affida al Presidente della Repubblica per gli equilibri dei giochi di potere quando egli è il garante, in ultima istanza, della servitù volontaria verso la Nato-Usa, si discute di infrastrutture per lo sviluppo quando esse servono per la crescita subordinata alle strategie della Nato, si costruisce il Fondo Monetario Europeo senza denunciare il tentativo di controllo da parte di Francia e Germania sulle economie di tutta l’area europea…

Basta andare un po’ oltre la superfice della crisi aperta dalla Lega per capire che la vera ragione della crisi è la costruzione della Macroregione Alpina che sembra destinata a diventare realtà (nel 2016 il Parlamento europeo ha dato il via libera alla costituzione della macroregione). “La Macroregione Alpina, che coinvolge 48 Regioni (tra cui Veneto, Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Trentino Alto Adige, Piemonte, Liguria, Valle d’Aosta) di 7 Paesi (Italia, Austria, Francia, Germania, Slovenia, Svizzera e Liechtenstein) che sono il cuore pulsante dell’economia europea, è un progetto davvero importante e lungimirante sul quale noi della Lega Nord siamo stati tra i primi a credere […] Il riconoscimento ufficiale della Macroregione Alpina, che coinvolge un territorio che conta circa 80 milioni di cittadini, consentirà alle nostre Regioni di interfacciarsi direttamente con le Istituzioni Europee e di gestire, in modo autonomo e coordinato, i numerosi finanziamenti UE per progetti comuni relativi all’Ambiente, al Turismo, ai Trasporti, all’Energia. Insomma, un’occasione straordinaria per il Veneto e per tutte le Regioni coinvolte che diventano le vere e principali protagoniste della realizzazione di misure politiche e amministrative comuni in un territorio sovranazionale che rappresenta il motore economico dell’Europa […]. Un progetto, quello della strategia macroregionale EUSALP (EU Strategy for the Alpine Region), che saprà essere un nuovo straordinario strumento di sviluppo economico e di governance per i nostri territori”(https://www.leganord.org/notizie/le-news/15552-macroregione-alpina-via-libera-ufficiale-dal-parlamento-europeo).

Il concretizzarsi della Macroregione Alpina fa esplodere le enormi contraddizioni della Lega che da una parte si dice sovranista e anti Unione Europea e dall’altra parte mette in atto l’Europa delle regioni a regia dei sub-dominanti della UE (Comidad, La Bavarian connection spiega il tradimento di Salvini e L’incubo di un fondo monetario europeo in www.comidad.org, rispettivamente del 15/8/2019 e 22/8/2019).

L’autonomia differenziata? E’ solo un cavallo di Troia!

La seconda di medio periodo. La necessità di una forza politica non ribellistica e impotente ma razionale e sistemica in grado di difendere gli interessi nazionali a partire dalla eliminazione reale della servitù volontaria( sia verso i sub-dominanti europei sia verso i pre-dominanti statunitensi) che significa renderla coerente con la Costituzione (cioè coincidenza tra forma e realtà), essendo la Costituzione il luogo istituzionale garante, tramite il Presidente della Repubblica, sia della sudditanza alla UE che è un progetto Usa terminato, utile nella fase monocentrica (si vedano le revisioni della Costituzione che hanno profondamente mutato titolarità e forme di esercizio della sovranità), sia della sudditanza alla Nato (ovverosia gli Stati Uniti) con il progetto delle macroregioni europee (rimando ai miei scritti pubblicati su questo blog: Il Progetto dell’Unione Europea è finito, la Nato è lo strumento degli Usa nel conflitto strategico della fase multicentrica e Contro l’Europa delle regioni per l’Europa federata delle nazioni sovrane protagonista nella fase multicentrica).

Intendo una forza politica (la cui articolazione è tutta da costruire) nazionale ed europea, pensata a partire dai singoli Paesi. Sarà poi nel fare teorico e pratico, in maniera innervata, che si costruiranno saperi e prassi politica condivisi a diverse scale territoriali, tenendo presente che << Quando si “salta di scala” (come amano dire i geografi), cambia drasticamente la natura del problema […] e cambiano le prospettive di trovare una soluzione. Quello che appare un buon metodo per risolvere problemi a una scala non vale per un’altra. Cosa anche peggiore, soluzioni dimostratesi assolutamente valide a una determinata scala (diciamo quella “locale”) non necessariamente si sommano ascendendo (o a cascata discendendo) traducendosi in buone soluzioni per una scala diversa (ad esempio, quella globale) >> (David Harvey, Città ribelli, il Saggiatore, Milano, 2013, pag.92).

Sarebbe auspicabile per cominciare creare una rete coordinata dei vari blog critici sparsi nello spazio virtuale, a mò di laboratorio pensante (che oggi non esiste… perchè?)

 

La terza di lungo periodo. La possibilità di una forza politica capace di pensare una strategia in grado di de-americanizzare sia l’Italia sia l’Europa e contemporaneamente costruire un’altra Europa autonoma (libertà di vivere con le proprie leggi, a prescindere da chi fa le leggi e articola il proprio dominio attraverso il gioco della separazione dei poteri che non esiste) e riorganizzata in diverse macro aree secondo le peculiarità storiche dei Paesi.

Una Europa così pensata deve guardare a Oriente perché le Potenze lì delineatesi sono per una egemonia mondiale multicentrica; al contrario degli Usa, che sono una potenza mondiale egemone in irreversibile declino, che ha una concezione di dominio monocentrica, foriera di guerra.

Qui intendo una forza politica che rivoluzioni i rapporti sociali storicamente dati al di là delle aperture di finestre storiche conseguenza del conflitto tra agenti strategici dominanti delle Potenze per la egemonia mondiale. Solo in questa direzione si può immaginare che il popolo (con i suoi agenti strategici della rivoluzione) diventi un soggetto di cambiamento.

 

IL SOVRANISMO DELLA SERVA ITALIA

di Marco della Luna

 

Nell’800 l’Italia unitaria è nata serva al servizio di potenze dominanti, per loro volere e intervento. Con le guerre coloniali e con l’inopportuna partecipazione alla I GM ha cercato invano di affrancarsi e di parificarsi a Francia, Germania, Regno Unito. Poi ci ha provato Mussolini. Poi, nel secondo dopoguerra, in diversi modi, grandi personaggi hanno tentato di difendere gli interessi nazionali dal predominio e dall’ingerenza degli interessi stranieri: Mattei, Moro, Craxi, Berlusconi; i primi due stati neutralizzati da criminali, il terzo dalla giustizia, il quarto di nuovo dalla giustizia in collaborazione con lo spread (Draghi-Merkel). Gli spavaldi economisti che prospetta(va)no una facile e vantaggiosa uscita dell’Italia dall’Euro per sottrarsi al rigorismo recessivo, forse non tenevano presente la realtà storica.

E’ stato provato che l’Italia è inserita, da poteri tecno-finanziari esterni ad essa e contrari ai suoi interessi, in un certo programma europeo o atlantico, che comprende il suo spolpamento e la cessione dei suoi assets a controllo straniero. L’euro e le sue regole sono uno strumento essenziale a questo fine (vedi i miei Euroschiavi, Tecnoschiavi, Cimiteuro, Traditori al Governo, Oligarchia per popoli superflui). L’Italia neanche se unita e neanche se guidata da autentici statisti -quali oggi non esistono né in Italia né altrove in Occidente- potrebbe battere il liberal-capitalismo finanziario imperante, e affrancarsi da tale programma: gli strumenti finanziari, monetari, mediatici e giudiziari in mano agli interessi dominanti sono troppo forti; prima bisognerebbe che il loro apparato di potenza fosse abbattuto da un rivolgimento perlomeno continentale. Soprattutto sotto leaders modesti come Salvini, Di Maio, Renzi, con certezza non si raggiunge la libertà. I tentativi di affrancamento, come quello, vago e timido, del governo gialloverde, non possono che fallire e ricadere in danno agli italiani.

Dai tempi dell’occupazione longobarda, e poi franca, normanna, francese, spagnola, austriaca, la gran parte dei politici italiani aspira a collaborare coi padroni stranieri aiutandoli a sfruttare l’Italia, perché aiutandoli si eleva verso di essi e sopra i comuni italiani. E’ un tratto culturale storicamente consolidato. In Italia, fare il Quisling non è un titolo di demerito, ma all’opposto di nobiltà; questo va ricordato a coloro che hanno dato del Quisling al Quirinale: non è un vilipendio, è un encomio.

Da tutto quanto sopra consegue che agli italiani conviene un governo non ribelle agli interessi stranieri, specificamente franco-tedeschi, piuttosto che uno ribellista ma impotente, che attira ritorsioni su di loro. Un governo sottomesso ma dialogante, che attenui la violenza del processo di spolpamento, espropriazione ed invasione afroislamica, e lo diluisca nel tempo, dando modo alla popolazione generale di vivere decentemente qualche anno in più, e alla parte più valida di essa di emigrare e trasferire aziende e patrimonio all’estero.

Agli intellettuali antisistema non conviene farsi partito politico, sia perché non vi è spazio per l’azione politica, sia perché verrebbero attaccatati dai magistrati politici e dall’apparato mediatico.

L’azione antisistema, di critica e controproposta al regime tecnofinanziario, sebbene impossibile sul piano governativo, potrebbe invece parallelamente continuare sul piano culturale e informativo: la critica intelligente e competente potrebbe costituire un’associazione internazionale di ricerca scientifica socio-economica, geostrategica e storica, meglio se con sede all’estero (fuori della portata della giustizia nostrana), indipendente da ogni ente pubblico e dal capitale privato, avente lo scopo di mettere in luce la verità, gli inganni e i meccanismi monetari-finanziari che essi nascondono.

 

  • §§§§

 

Ora qualche nota sulla crisi di governo in atto.

Salvini l’ha aperta in un momento scelto razionalmente, forse non il migliore, ma verosimilmente l’ultimo possibile (non voglio pensare l’abbia aperta confidando nelle assicurazioni di Zingaretti, che non si sarebbe alleato coi grillini ma avrebbe spinto per le elezioni: se Salvini si fosse fidato di tali dichiarazioni, ignorerebbe l’abc della politica, ossia che menzogna e dissimulazione sono parte essenziale del metodo politico). Poi l’ha gestita male, con tentennamenti, incertezze, contraddizioni, e scarse analisi economico-giuridiche. Al Senato non si è difeso efficacemente dalle stroncature di Conte: ha replicato usando argomenti deboli mentre ne aveva a disposizione di ben più forti; non ha ribattuto sul piano giuridico-costituzionale; è apparso in pallone, impacciato, patetico nei suoi appelli alla Madonna e nel suo offrirsi come bersaglio. La sua difesa è stata fatta molto meglio dalla sen. Bernini di Forza Italia, che ha smascherato l’ipocrisia e le contraddizioni di Conte. Salvini è un buon comunicatore, ha un buon fiuto, non è stupido, è ben sopra la media dei politici nostrani, ma adesso tutti hanno potuto vedere che non ha la saldezza né la preparazione culturale dello statista. E’ o è stato un leader carismatico, e i leaders carismatici perdono il carisma allorché appaiono perdenti. Però Salvini può ancora rinquartarsi e recuperare, specialmente se la Lega va all’opposizione e fa opposizione dura e aggressiva nelle piazze, o anche se ricuce con il partito della Casaleggio & Associati, perlomeno al fine di proteggersi dagli attacchi giudiziari stando al governo. Però in ogni caso dovrebbe colmare le sue lacune in diritto costituzionale ed economia internazionale.

Ad ogni modo, la carica sovranista e antisistema dei capi grillini e leghisti era da tempo andata scemando e riducendosi a poche banalità pressoché inoffensive e a denunce sterili.

Ben diversamente, Grillo era partito, prima che fosse fondato il M5S, da una vera critica antisistema, che metteva in luce il fattore centrale del potere e dell’iniquità, che spoglia della loro sovranità i popoli: la privatizzazione della sovranità monetaria, il monopolio privato della produzione e allocazione della moneta e del credito. Poi, divenendo capo di una formazione partitica assieme alla Casaleggio e Associati, aveva smesso di parlare di queste cose, troppo autenticamente disturbanti per il sistema, e ciò era giustificato, ad usum imbecillium, asserendo che si tratterebbe di cose che la gente non capisce. Era passato alla dottrina del vaffa, più alla portata della classe cui si rivolgeva, e ben tollerabile per il sistema.

Tuttavia, ancora nei due anni precedenti le elezioni politiche del 2018, alcuni esponenti grillini, segnatamente Villarosa (attuale sottosegretario alle finanze), Pesco e Sibilia, si erano interessati e avevano approfondito con impegno la materia monetaria e bancaria, richiedendo e ricevendo la collaborazione mia e di altri studiosi di questo campo, organizzando eventi pubblici e promettendo iniziative concrete una volta al governo. Ma, al contrario, una volta accomodatisi sulle poltrone governative, i predetti non solo non hanno preso alcuna concreta e visibile iniziativa, ma hanno addirittura rifiutato ulteriori contatti con noi. Evidentemente avevano ricevuto ordini di scuderia e calcolato la loro convenienza. Si sono allineati al sistema, con tutto il Movimento, il quale si è rivelato e confermato uno strumento per raccogliere il dissenso antisistema e poi neutralizzarlo, anzi portarlo al sistema convertendolo in consenso ad esso, a braccetto col partito dei finanzieri detto PD, e con la risibile mascheratura di contentini demagogici, rumorosi e dannosi come il c.d. reddito di cittadinanza, il salario minimo, una riforma giacobina e incompetente del processo penale. E dopo hanno votato Ursula von der Leyen, falco finanziario germano-rigorista, gettando completamente la maschera: servono interessi opposti a quelli dichiarati. Ancor prima, Movimento e Lega erano entrambi passati da posizioni critiche verso l’Euro, spavaldamente contemplanti la possibilità di uscirne senza danno (Borghi, Bagnai) in caso di rifiuto di opportune e strutturali riforme dell’apparato europeo, a posizioni di definitiva accettazione dell’Euro e di arrendevolezza a Bruxelles. Ma ciò non è bastato ad evitare l’isolamento e la marginalizzazione dell’Italia in sede europea, né a ottenere più margini di spesa pubblica.

Insomma, come governo antisistema il governo gialloverde era fallito prima di cadere, o più precisamente prima di nascere. Non abbiamo perso molto. Anzi, abbiamo guadagnato in chiarezza.

 

 

 

 

 

 

sinistra e impunità, di Paolo di Remigio e Fausto Di Biase

Per una storia filosofica dell’impunità

 

Prima ancora che entrasse in vigore la Costituzione nel 1948, l’indipendenza della Repubblica italiana era stata compromessa dal traumatico trattato di pace dell’anno precedente, con il quale le potenze occidentali vincitrici avevano stabilito un protettorato sull’Italia impedendovi l’avvicendamento dei partiti di sinistra al governo, controllandone gli apparati di sicurezza interni, la politica estera e la politica economica[1]. La politica italiana del dopoguerra è così determinata dall’intersecarsi di due scissioni: quella visibile tra destra e sinistra carica di contenuto classista, quella invisibile tra chi ha accettato la riduzione a provincia dell’Italia e chi non vi si è rassegnato.

 

Benché distinte, le due scissioni si sono rafforzate a vicenda. Che la NATO non sia stata sciolta dopo la fine dell’Unione Sovietica, ma abbia anzi esteso il suo campo di intervento, dimostra che la guerra fredda tra USA e URSS è nata dall’aspirazione geopolitica statunitense a rimuovere l’ostacolo dell’URSS e a stabilire un impero mondiale, e ha assunto l’aspetto della lotta di classe tra borghesia e proletariato per il solo fatto che l’URSS affermava di seguire un modello economico socialista. Per questo motivo l’anticomunismo non è stato soltanto una scelta di classe, è stato anche un atto di subalternità all’impero statunitense; viceversa, il comunismo è stato non solo una difesa degli interessi dei lavoratori, ma anche un’alleanza con l’Unione Sovietica. Quanto più esasperati i sentimenti della lotta di classe, tanto più condannati a essere semplici coperture del conflitto geopolitico e dunque della dipendenza dello Stato dall’uno o dall’altro impero. Viceversa, il settore del mondo politico italiano meno sensibile all’isteria anticomunista o alle velleità insurrezionali è stato il più leale alla Costituzione democratica e ha tentato sin da principio il recupero di spazi di indipendenza nazionale.

Se gli estremisti dell’uno e dell’altro campo hanno solitamente tacciato i moderati di debolezza o di connivenza con il nemico, oggi il moderatismo interclassista appare non solo la scelta più nobile in quanto era la sola via per emancipare lo Stato italiano dalla condizione di paese sconfitto, ma anche la scelta più eroica, l’unica che sia stata pagata con l’assassinio politico. In questo senso vanno lette la capacità di De Gasperi e di Togliatti di evitare la guerra civile in Italia e l’impresa di Mattei di garantire con un’audace politica energetica le basi dello sviluppo industriale e l’attenuazione del conflitto di classe; anche il tentativo di costruire l’alleanza con i socialisti prima e con i comunisti poi, di cui Moro, Nenni e Berlinguer sono stati protagonisti, ha un significato che sfugge a chi legga la storia del dopoguerra secondo la sola dimensione della lotta di classe e trascuri il compito di pagare il debito storico che la guerra fascista aveva caricato sugli italiani. Che lo sviluppo industriale sia stato caotico, che il centro-sinistra sia stato deludente sotto il profilo delle riforme sociali ed economiche e si sia risolto in un logoramento dei partiti di sinistra, nulla toglie al loro significato più profondo: De Gasperi, Togliatti, Mattei, Nenni, Berlinguer, Moro hanno cercato la pacificazione dell’Italia così da attenuarne la scissione di classe e da riguadagnarle spazi di sovranità nazionale.

Dalla metà degli anni Sessanta la reazione delle potenze occidentali all’emancipazione dell’Italia si è servita però non solo dei conflitti di classe, ma anche di quelli generazionali. Se il Sessantotto fosse stato un semplice conflitto generazionale quale si verifica dalla notte dei tempi, la maschera classista e il velleitarismo politico sarebbero caduti subito ed esso si sarebbe ridotto a una fiammata come il maggio francese. Non è stato così perché la sua spontaneità è stata soltanto un’apparenza, perché è stato uno strumento dello scontro profondo tra Europa e Stati Uniti, e in particolare tra Italia e paesi europei, per mutare le posizioni di forza che tenevano quella assoggettata alla potenza imperiale, questa assoggettata a tutti. Così il movimento studentesco e la nascita del partito armato hanno reso superflua la cosiddetta violenza neofascista per realizzare la strategia della tensione e riportare l’Italia al 1947: subito infiltrato, in seguito protetto e aiutato dai servizi occidentali e dalle loro propaggini italiane, fu il partito armato con l’ampio sostegno del movimento studentesco lo stupido carnefice che alimentò per conto dell’impero la tensione sociale ed eliminò Moro e il suo progetto. La mancata coscienza della natura dello scontro tra estremismo e moderatismo ha effetti ancora devastanti in Italia: gli eredi dell’estremismo non hanno ancora capito la funzione storica dell’estremismo né quale progetto sia stato interrotto con l’uccisione di Aldo Moro; perciò il rifiuto della colpa si accompagna a una pratica di irresponsabile sacrificio degli interessi nazionali e a un’ideologia universalistica di inaudita ipocrisia.

 

Ha notato Giorgio Bocca: “L’aspetto più misterioso delle vicende dei circoli giovanili che daranno vita a Prima Linea è la loro lunga impunità o comunque la tolleranza che li circonda. A Torino già nel ’75 la polizia conosce benissimo chi sono i giovani che frequentano il Centro Lafargue in via della Consolata dove c’è la redazione di Senza Tregua. Sa che una delle più assidue frequentatrici ha partecipato ad un assalto al Centro Studi Donati perché ci ha trovato un suo paio di guanti, sa che circa ottanta giovani frequentatori del circolo provengono dai servizi d’ordine di Lotta Continua e di Potere Operaio, eppure non fa arresti anche se gli attentati proseguono. Ma anche quando la polizia e i carabinieri li colgono in flagrante e devono ammanettarli, si trova sempre il modo di scarcerarli nel giro di pochi mesi… Baglioni… arrestato nel ’77 perché sorpreso mentre si esercita con le armi sulle Prealpi lombarde, rientra in fabbrica portato in trionfo. Marco Donat Cattin continua indisturbato a fare il bibliotecario all’Istituto Galileo Ferraris, chiedendo ed ottenendo regolari permessi per partecipare alle azioni armate. Roberto Sandalo, notissimo alla polizia, può frequentare la scuola allievi ufficiali alpini, diventare ufficiale e come tale impadronirsi di armi e trasportarle per l’organizzazione clandestina. Rosso e Libardi, due altri esponenti, saranno liberati addirittura durante il sequestro Moro. Perché…?”[2]

Alla domanda di Bocca si risponde non solo osservando che le file dei contestatori e dei rivoluzionari erano frequentate dai figli degli ottimati; c’è anche una ragione più sgradevole, evidente nelle parole di Giannettini al convegno dell’Istituto Alberto Pollio di una decina d’anni prima: “E… se gli anticomunisti avessero maggiore sensibilità politica, approfitterebbero della situazione per sfruttare in senso anticomunista la naturale tendenza alla ribellione delle nuove generazioni culturali contro il conformismo delle dottrine ufficiali.”[3] La contestazione giovanile e gli anni di piombo sono stati prima provocati e poi tollerati dai poteri contro cui lottavano; per tutti gli anni ’70 al movimento studentesco è stato consentito fare cortei, scontrarsi con la polizia, assaltare i supermercati, spadroneggiare nelle scuole e nelle università, darsi alla tossicodipendenza, assumere come valore la negazione dei valori, perché l’esasperazione della tensione sociale favoriva il consolidamento del regime utile alle potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale.

Infine sulle responsabilità nella strategia della tensione, su quelle del movimento studentesco come su tutte le altre, è passato il silenzio che ha coperto l’impunità e agli alimentatori delle velleità rivoluzionarie, come premio per avere svolto un lavoro utile contro il loro popolo, sono state consentite brillanti carriere nel mondo della cultura e nell’amministrazione pubblica. È così entrato in crisi lo stesso senso di giustizia: il disprezzo della legge positiva e l’esaltazione del perdono sono diventati a tal punto costume delle élite, che mentre si ingigantiscono i reati di opinione per limitare la libertà di espressione, mentre diventa imputabile non tanto l’atto quanto l’inconscio, nelle scuole si concepisce la valutazione negativa come un abuso dei docenti e l’atto di indisciplina del discente come sempre tollerabile; l’umanitarismo dei giornali sorvola sul contesto illegale del fenomeno dell’immigrazione; la stessa repressione del crimine appare così illegittima che i rappresentanti del popolo si precipitano a visitare in carcere i rei confessi. Ma l’effetto più ampio della crisi del senso di giustizia è stato la nascita di un intero movimento politico che si esaurisce nell’invocare la punizione dei corrotti e resta senza fiato davanti al compito di emarginare il ceto dirigente che lavora per gli interessi stranieri.

v

 

Il castigo appare ormai come un prodotto dell’odio, come una seconda violenza della società contro quelli che la prima violenza della sua ingiustizia ha costretto a sbagliare. Viceversa, il perdono da sentimento privato diventa un termine giuridico, addirittura politico. Con la vittoria del sentimentalismo del perdono si perde la capacità di pensare la realtà sociale secondo il concetto di giustizia per diluire ogni cosa nell’atmosfera commossa dell’amore. C’è però differenza tra amore, che è il legame positivo verso qualunque essere, perfino inanimato, e giustizia, che è il legame positivo tra liberi. Il sentimentalismo fa della libertà un caso particolare dei legami positivi; ma la libertà è il concetto supremo; la sua particolarizzazione è anche la sua fine. Di qui la necessità di studiare il concetto di pena nella sua peculiare relazione al concetto della libertà, quale lo fissano i ‘Lineamenti di filosofia del diritto’ di Hegel[4].

La libertà non è soltanto l’astrazione del potersi distaccare da ogni esistente, è anche capacità di collocarsi nell’esistenza, innanzitutto nel corpo vivente (il mio corpo), poi nelle cose; questo collocarsi nell’esistente è la proprietà. È nota l’avversione che da Rousseau in poi la proprietà provoca, ma è altrettanto nota la deriva totalitaria del suo rifiuto; questa si genera perché il rifiuto della libertà esistente comporta la regressione alla libertà astratta, che sente sé stessa soltanto nella distruzione dell’esistente. In ogni caso, quanto più si colloca nell’esistente, nella proprietà, tanto più la libertà può essere violata. Essendo l’espressione di una volontà che annulla l’espressione di una volontà, la violenza è però il proprio distruggersi; la sua intima nullità si manifesta nel fatto che la violenza è annullata dalla violenza, che la violenza prima è violata da una violenza seconda.

Dal punto di vista sentimentale alla colpa si lega il rimorso, il bisogno di dolore, perché solo il dolore sofferto può cancellare il dolore inflitto e consentire il perdono. Il perdono non può dunque essere affatto inteso come un atto gratuito di amore verso chi ha violato la persona o la sua proprietà; esso è piuttosto l’attesa di serenità perché il dolore dell’offensore ha cancellato il dolore dell’offeso. Viceversa, il perdono a chi non prova rimorso è indifferenza alla giustizia analoga all’indifferenza alla giustizia del criminale.

Che provi o meno rimorso, chi viola la libertà esistente 1. ha negato il diritto universale, quindi anche il proprio diritto; 2. essendo inoltre un essere razionale, con la sua violazione egli ha affermato per sé stesso il suo diritto, alternativo al diritto universale. La violazione della sua violazione, cioè il castigo, avendo come doppia negazione un risultato positivo, da un lato ristabilisce il diritto universale, diritto che è proprio anche di chi lo ha violato; dall’altro, come violenza seconda, applica al delinquente il diritto che lui stesso ha stabilito con la sua violenza. – Chi, per esempio, ruba, rende valida la legge che la proprietà privata non è un diritto, una legge alternativa alla legge universale: la proprietà privata è un diritto. Rubare è però rendere mia proprietà una cosa che è proprietà di un altro. Conformemente alla natura contraddittoria del crimine, la legge affermata (la proprietà privata non è un diritto) è anche negata (non è vero che la proprietà privata non sia un diritto): vale per tutti eccetto che per il ladro. Ma una legge che a parità di condizioni è valida per tutti eccetto che per chi la pone è una legge nulla. La nullità di questa legge consiste nel suo rovesciamento, cioè che essa vale per nessuno eccetto che per lui (tutti hanno diritto alla proprietà eccetto il ladro, che quindi non solo restituisce ciò che ha preso, ma perde ciò che ha), e che valga soltanto per il criminale è appunto il castigo. La violazione della violazione, cioè il castigo contro il delitto, la giustizia come contrappasso, non solo ristabilisce il diritto di tutti, ma onora il criminale come liberamente agente secondo una legge, non lo squalifica come irresponsabile.

 

La forma elementare del contrappasso è la vendetta. Che la vendetta non sia sentita come male è testimoniato dalla letteratura universale che l’ha tra i suoi temi principali. Essendo però l’atto con cui è l’offeso stesso a ristabilire la sua libertà più che la libertà in generale, essa contiene a sua volta l’offesa; l’unità di annullamento della violazione e violazione, questa combinazione di violenza prima e violenza seconda in un unico atto, scatena l’infinità della faida. A differenza della vendetta, finalizzata a ripristinare soltanto l’infinità dell’offeso, la pena ripristina il valore del diritto, dunque la libertà e la dignità di tutti; il giudice, terzo tra offensore e offeso, essendo dalla parte della giustizia, è dalla parte non solo dell’offeso a cui dà la riparazione, ma anche dell’offensore, a cui dà l’espiazione. A dispetto della letteratura anarchica, punire il delitto è dunque in sé giusto: possono esserci pene sbagliate, ripugnanti, abnormi; questi difetti appartengono però alla realizzazione del concetto e non compromettono il concetto stesso. In altri termini, in un mondo più giusto del nostro ci sarebbero giudici e pene, perché anche ogni mondo è composto di individui che devono fronteggiare il loro lato naturale, la cui volontà può dunque diventare schiava del desiderio, violare l’esistenza della libertà altrui e infrangere la giustizia. Viceversa, un mondo senza pene non sarebbe affatto un mondo giusto, perché sarebbe un mondo in cui gli uomini sarebbero irresponsabili dei loro atti, non sarebbero più liberi.

Che la responsabilità delle proprie azioni sia per l’individuo identica alla sua libertà, che non vi si possa rinunciare senza perdere tutto, è già stato un tema della tragedia greca. L’eroe tragico ha voluto qualcosa senza avere previsto le conseguenze di ciò che ha voluto, dunque senza averle volute; di fronte alla realtà delle conseguenze non volute, egli è nel dilemma se disconoscerle affermando la propria irresponsabilità, cioè il proprio abbandono al destino, o se rivendicare la propria responsabilità, quindi la propria libertà, accettando il contrappasso anche di ciò che non ha voluto. Il suo eroismo è, come notò Hegel, il rivendicare ogni responsabilità, di ciò che ha voluto come di ciò che ne è seguito, preferendo la rovina al dominio del destino; accettandola muto, non recriminando contro le conseguenze non volute delle sue scelte, la sua libertà si estende sulla regione che prima ignorava; così il destino è svuotato e solo allora le Erinni possono trasformarsi in Eumenidi.

Lo sforzo di dimenticare e l’impunità comprata con il silenzio hanno ucciso il senso della giustizia e della libertà degli italiani, ne hanno paralizzato per molto tempo ogni reazione a una servitù sempre più soffocante. Dal delitto Moro in poi il loro ceto dirigente è infatti diventato preda della colpa inespiata: è cessata ogni apparenza di dignità del partito armato che non ha voluto accorgersi di essere stato il sicario dell’impero; è cessata anche la dignità della Democrazia Cristiana che ha prestato il definitivo atto di omaggio alle potenze vincitrici; ed è cessata infine la dignità del Partito Comunista che dal vecchio padrone è passato a ‘padron miglior’[5]. A Moro prigioniero non sfuggì il significato politico della fermezza nei confronti del suo caso; egli scrisse nel memoriale che per il PCI “il rigore, il rifiuto della flessibilità ed umanità è un certificato di ineccepibile condotta”; se “si guardano le cose che stanno accadendo e la durezza senza compromessi (come per scansare il sospetto) della posizione di Berlinguer (oltre che di altri) sull’odierna vicenda delle Brigate rosse, è difficile scacciare il sospetto che tanto rigore serva al nuovo inquilino della sede del potere in Italia per dire che esso ha tutte le carte in regola, che non c’è da temere defezioni, che la linea sarà inflessibile e che l’Italia e i paesi europei nel loro complesso hanno più da guadagnare che da perdere da una presenza comunista al potere.”[6] Infine l’orgia del servilismo, che la prima repubblica dissimulava e che solo l’occhio acuto di Moro poteva scorgere anche dove sembrava assente, è diventata manifesta come seconda repubblica.

Fausto Di Biase

Paolo Di Remigio

 

[1] Cfr. Giovanni Fasanella, Il puzzle Moro, Chiarelettere, Milano 2018, cfr. il capitolo La frontiera e la sconfitta, soprattutto la parte intitolata L’umiliazione dell’Italia.

[2] G. Bocca, Gli anni del terrorismo, Curdo, Milano, 1988-1989, pp. 174-175.

[3] G. Giannettini, La varietà delle tecniche nella condotta della guerra rivoluzionaria, disponibile al seguente indirizzo: http://www.misteriditalia.it/strategiatensione/nascita/interventi/14.pdf.

[4] Nei §§ 90-103. Cfr. anche i §§ 499-500 dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche.

[5] Don Giovanni, Atto II, Scena ultima.

[6] Citato in A. C. Moro, Storia di un delitto annunciato, Editori Riuniti, Roma 1998, pp. 257-258.

Multipolarismo in pericolo, di Guillaume Berlat

L’articolo tradotto qui in basso è importante per la rappresentazione della condizione penosa e tragicomica dell’attuale modalità di conduzione delle relazioni diplomatiche e di organismi sovranazionali come la UE. Rivela però la grande difficoltà con la quale anche gli analisti più critici cercano di introdurre chiavi di interpretazioni più adeguate a comprendere le dinamiche. Lo stesso Berlat, criticando giustamente il termina “multipolarismo” non riesce in realtà a ridefinirlo e rischia di ricadere a sua volta involontariamente in una operazione “nostalgia” paralizzante. Il multilateralismo in realtà, a dispetto del significato letterale e superficiale che si tende ad attribuire ad esso, è il termine che definisce un particolare sistema di relazioni e di regolazione dei rapporti geopolitici che presuppone e fonda la propria esistenza e legittimità su organismi sovranazionali a guida ed egemonia di una unica superpotenza. Nella recente contingenza storica, il ruolo di pivot e fulcro sono (stati) gli USA. L’unilateralismo, di fatto, è il riconoscimento di una realtà multipolare e della necessità di mantenimento di sfere di influenza contrapposte. In questa chiave vanno visti i conflitti trasversali che stanno attraversando le classi dirigenti a partire dallo scontro di insolita virulenza in corso negli Stati Uniti. L’inganno delle parole appunto._Giuseppe Germinario

“Dare un nome sbagliato alle cose è aggiungere guai ai guai del mondo” giustamente ci ricorda il premio Nobel per la letteratura, Albert Camus. Per più di mezzo secolo, le cose si sono evolute ma nella direzione sbagliata. Al momento della confusione dei generi e delle parole, è di moda usare con sazietà alcune parole contenitrici (chi vuole tutto e non dire nulla allo stesso tempo) per evitare di affrontare frontalmente i veri dibattiti che condizionano pace e guerra nel 21 ° secolo. Tra questi ultimi, due ritornano alla maniera pavloviana nelle conversazioni di autoproclamati esperti, “ tuttologi ” e tra i commensali in città: “ comunità internazionale ” e, soprattutto, “ multilateralismo“. Dopo aver posto il problema della confusione dei termini, prenderemo due esempi tratti da una realtà recente: il G20 di Osaka e l’ultimo Consiglio europeo di Bruxelles.

CONFUSIONE DEI TERMINI

Il minimo che possiamo dire è che più pericoloso è il mondo 1 , più viviamo nella confusione di termini che coprono il campo delle relazioni internazionali. Fermiamoci a due esempi, quelli di comunità internazionale e di multilateralismo!

La comunità internazionale troppo famosa

Il primo termine si riferisce a tutti coloro che condividono il tuo punto di vista. Tradizionalmente, gli occidentali si sono assimilati alla ” comunità internazionale ” di fronte all’opposizione (sotto forma di diritti di veto di cinesi e russi nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, per esempio). Il termine non ha una definizione legale concordata, rientrando esso nella moralità a geometria variabile. Il suo uso è molto conveniente per screditare l’avversario quando si è alla fine di argomentazioni razionali. Quando i nostri membri follicolari del clero dei media, una volta per tutte, smetteranno di usare il termine senza alcun contenuto nient’altro che mediatico?

Il non meno famoso multilateralismo

Il secondo termine può essere definito come l’atteggiamento politico che favorisce la risoluzione multilaterale dei problemi mondiali. È tradizionalmente contrario all’unilateralismo associato alla pratica americana. In un atteggiamento imperiale, Washington si considera al di sopra della legge, essendo il rappresentante del popolo dal destino manifesto. Al contrario, gli americani ritengono che la loro legge si applichi al di fuori dei propri confini. Come esempi recenti, gli Stati Uniti si sono ritirati dall’accordo iraniano sul nucleare, le forze nucleari intermedie (INF) e molti altri, ma anche da organizzazioni internazionali che rappresentano il diavolo e si oppongono agli interessi ben compresi dello zio Sam, come l’UNESCO. Mentre il multilateralismo sta attraversando una crisi senza precedenti, alcuni ingenui europei lodano costantemente i suoi incommensurabili meriti. Il presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, eccelle in questo esercizio di diplomazia declamatoria e inefficace. Tutti i pretesti sono buoni da usare a parole mentre li esentano nella pratica. In un contesto di paralisi delle Nazioni Unite, i leader chiave sono costretti a evidenziare le virtù del dialogo e della cooperazione nei club o nelle organizzazioni regionali. Facciamo due esempi recenti.

L’OSAKA G20 (28-29 GIUGNO 2019): LIMITARE IL DANNO

L’Osaka G20, nonostante le splendide foto patinate, rimarrà nella storia come un incontro surrealista ma anche inutile come strumento informale per regolare le relazioni internazionali.

Un vertice surrealista

La formula migliore che abbiamo trovato per caratterizzare questo inutile vertice del G20 a Osaka è: un G20 di ” luoghi comuni ” anziché ” valori comuni “. Un G20 caratterizzato da un’esacerbazione delle tensioni commerciali e climatiche, sebbene gli americani stiano spingendo le loro sanzioni contro Pechino 3 . Donald Trump annuncia che vuole stringere la mano a Kim Jong-un al confine tra le due Corea, ecco cosa fa il giorno dopo. 19 dei 20 membri confermano il loro impegno per una ” piena attuazione ” dell’accordo sul clima di Parigi del 2015. Donald Trump elogia il Principe MBS dell’Arabia Saudita. Emmanuel Macron dichiara di non essere ” freddo” con Donald Trump, visiterà la Cina a novembre e incontrerà presto Vladimir Putin. Ancora una volta, tiene conferenze su Vladimir Putin sulla questione dei valori. È chiaro che nessuno crede in questo formato, questo granaio G20.

Un vertice inutile

Pertanto, ci si chiede quale sia l’interesse di un G20 che riunisce grandi potenze una contro l’altra come lo sono gli Stati Uniti da un lato, la Russia e la Cina dall’altro, con la Francia che cerca di svolgere un ruolo moderatore ma senza alcuna seria possibilità di essere ascoltato visti i mezzi limitati a sua disposizione? 4 Qual è l’interesse di una struttura multilaterale il cui unico scopo è consentire riunioni bilaterali 5 e limitare il danno provocato da Donald Trump? 6 Immagine divertente di un multilateralismo efficace! 7

In queste condizioni, è comprensibile che il multilateralismo dei club sia a mal partito. Senza una cura da cavallo, è probabile che il progetto del G20 rischia di morire di bellissima morte. È vero che l’Unione europea non è al suo meglio in questo contesto postelettorale al Parlamento europeo. L’ultimo Consiglio europeo allargato fornisce un esempio illuminante.

IL CONSIGLIO EUROPEO STRAORDINARIO (30 GIUGNO-2 LUGLIO 2019): NIENTE VERRÀ PIÙ O QUASI

Abbiamo appena assistito a uno spettacolo di gran usignolo, degno del suo peso in oro con Pinocchio nel ruolo del giovane che ha dovuto affrontare i tremori di suor Angela. L’ubriacone del Granducato ha sferrato un colpo antidemocratico con il suo dono avvelenato che si chiama UE-Mercosur. Tutto ciò dà un’immagine pietosa dell’Unione europea nel resto del pianeta. Prima di allora, Emmanuel Macron aveva sofferto di un disturbo in questa buona città di Marsiglia, nonostante il decoro delle circostanze.

Un ennesimo psicodramma che non risolve nulla

Mentre l’Unione europea evolve con crisi sempre più gravi, la macchina viene paralizzata in modo duraturo. Si occupa solo di problemi di cottura procedurali e interni. Gli unici a interessare gli stati e la burocrazia onnipotente. Per più di due mesi, l’unica questione importante che mobilita la sua energia è quella della nomina di alti funzionari della struttura 8 . Né più né meno. Negoziazione che prende la forma di una comune battaglia di cassettieri a causa della politica della mosca della barca di Giove 9 . Soprattutto i criteri che disciplinano le denominazioni sono surreali (equilibrio geografico, equilibrio politico e la parità 10). Che dire del criterio di competenza? Come credere in un’Europa dell’astuzia in un momento in cui le sfide che si trovano ad affrontare richiederebbero di essere esaltate? Come credere in un’Europa democratica nel rispetto della decisione sovrana dei popoli? 11Un accordo si trova finalmente il 2 luglio 2019 attorno a quattro nomi (Ursula von der Leyen 12 che proviene da lontano 13 , Christine Lagarde la cui competenza è già in discussione 14 e che appare molto chiaramente come una donna sotto giuramento 15 , Charles Michel 16 e Josep Borrell 17). Vedremo in futuro se questo cambia il funzionamento dell’Unione o se tutto cambia in modo che nulla cambi. Checché ne dicano i nostri pseudo-esperti, la coppia franco-tedesca ne esce particolarmente fragilizzata da questa insolita giostra nsolita e senza complimenti 18 . Quel che è certo è che alla fine è Berlino a vincere la partita 19 .

La farsa dell’accordo UE-Mercosur

Surrealista, questa è la parola giusta per come il presidente uscente della Commissione, l’ubriacone lussemburghese Jean-Claude Juncker, accoglie con favore l’accordo di libero scambio tra l’Unione europea e il Mercosur, presentato dai suoi negoziatori come ” storici” 20 e difesi dal Segretario di Stato agli affari esteri 21 ; dai detrattori come pericoloso 22 . Accordo del quale pochi conoscono il contenuto! 23Non sarebbe stato opportuno che la questione fosse deferita al nuovo team e non rilevata dall’ex team, il cui ruolo dovrebbe essere limitato all’ordinaria amministrazione di attività quotidiane durante questo periodo di transizione? E saremo stupiti dalla sfiducia dei cittadini verso una struttura apolide che fa ciò che vuole nel suo cantuccio. Il mandato, che gli è stato affidato dai governi, non gli conferisce tutti i diritti soprattutto quando gli esperti dubitano dei suoi contenuti 24 . I cittadini sono trattati come un valore trascurabile.

Un’immagine pietosa dell’Unione Europea

In queste circostanze, è comprensibile che il multilateralismo regionale sia in cattive condizioni. Senza una cura da cavallo, è probabile che il progetto europeo muoia di una sua bellissima morte. Emmanuel Macron ha impiegato due anni per scoprire che ” stiamo dando un quadro dell’Europa poco serio ” e che l’organizzazione è stata vittima dell’egoismo nazionale a causa del fallimento dei negoziati sull’assegnazione di posizioni chiave. Che dire dei deputati del Partito Brexit Nigel Farage che hanno voltato le spalle il 2 luglio 2019, mentre l’inno europeo ha suonato nell’emiciclo del Parlamento europeo a Strasburgo, durante la sua sessione inaugurale!

Un nuovo affronto per Giove-Pinocchio

Per la cronaca, Emmanuel Macron è l’unico capo di Stato a partecipare al ” Summit delle due banche ” a Marsiglia (24-25 giugno 2019) 25 . Un altro buon esempio di multilateralismo che non funziona! Ma, per fortuna, pena l’intelligenza umana, l’intelligenza artificiale (AI) troverà la giusta soluzione a tutte queste sfide di governance internazionale se davvero ha contenuto reale 26 .

“La diplomazia è difficile da esistere laddove l’equilibrio di potere è troppo sbilanciato, o al contrario quando un equilibrio eccessivo garantisce il mantenimento dello status quo. Si può sostenere che si manifesta realmente solo nei periodi di equilibrio intermedio, imperfetto o addirittura di squilibri di equilibrio ” 27 . E, dopo la parola ” diplomazia “, potremmo aggiungere quella di ” multilaterale ” per caratterizzare questo momento di oscillazione del mondo 28 .

È ovvio che stiamo affrontando una grave crisi del multilateralismo 29 . Questo collasso del multilateralismo deve essere compreso nel contesto di un ritorno di potere e forza. Questo collasso del multilateralismo deve essere compreso in un contesto di ritorno delle nazioni.

Questo collasso del multilateralismo deve essere compreso nel contesto di una relazione malsana tra potere e verità. ” Vieni qui, brava gente! Le uniche notizie false che sono tollerate sono quelle approvate dal potere. Contro gli altri, faremo una legge ” 30 . Smettiamo di pagare per parole sul multilateralismo, come fanno gli esperti francesi 31 o anglosassoni 32 , come se volessero scongiurare il destino! Per rimandare troppo la scadenza della somministrazione di un rimedio pesante, il paziente ” multilateralismo” rischio di passare dalla vita alla morte. Queste sono alcune delle considerazioni che possono essere fatte sull’inefficiente multilateralismo per affrontare le sfide del ventunesimo secolo!

Guillaume Berlat 
8 luglio 2019 

1 Maurin Picard, François Delattre: ” In questo mondo pericoloso, la Francia parla a tutti “, Le Figaro, 27 giugno 2019, p. 16. 
2 Jacques-Hubert Rodier / Nicolas Rauline, Nucleare: Washington e Mosca si stanno avvicinando a una nuova guerra fredda , Les Echos, 4 febbraio 2019, pag. 6. 
3 Anne Cheyvialle / Fabrice Node-Langlois, Il duello tra Trump e Xi oscura l’incontro del G20 , Le Figaro economy, 27 giugno 2019, pagg. 18-19. 
4 Jean-Paul Baquiast, G20 Meeting a Osaka il 28 e 29 giugno 2019 , Blog: for a Power Europe, www.mediapart.fr , 30 giugno 2019. 
5 Brice Pedroletti / Arnaud Leparmentier, Trump in una posizione forte contro Xi al G20 , Le Monde, 28 giugno 2019, p. 2. 
6 Philippe Mesmer / Brice Pedroletti, G20 limita i danni affrontato Donald Trump , Le Monde, 30 giugno al 1 ° luglio 2019, pp. 2-3. 
7 Martine Arancione, il G20, il volto una smorfia del mondo , www.mediapart.fr , 1 ° luglio 2019. 
8 Anne Rovan, UE: le posizioni chiave nel cuore del nuovo vertice , Le Figaro, 29-30 giugno 2019, pag. 7. 
9 Cécile Ducourtieux / Cédric Piétralunga / Jean-Pierre Stroobants, a Bruxelles, forcipe appuntamenti, Le Monde, 2 luglio 2019, pag. 2. 
10 Cécile Ducourtieux / Jean-Pierre Stroobants, Due donne di potere alla testa dell’Europa , Le Monde, 4 luglio 2019, pag. 2. 
11 Ludovic Lamant / Amélie Poinssot, il Parlamento europeo, ogni gruppo ha il suo incongruenze , www.mediapart.fr , 1 ° luglio 2019. 
12 Thomas Wieder, Ursula von der Leyen, i fedeli di Angela Merkel , il Mondo, 4 Luglio 2019, p. 2. 
13 Thomas Schnee, Commissione europea: von der Leyen, il candidato che si pensava fosse morto , www.mediapart.fr , 3 luglio 2019. 
14 Eric Albert,Christine Lagarde, una scelta controversa per la Banca centrale europea , Le Monde, 4 luglio 2019, pag. 5. 
15 Martine Orange, Christine Lagarde presso la BCE: una donna fedele , www.mediapart.fr , 3 luglio 2019. 
16 Charles Michel , Profil, Le Monde, 4 luglio 2019, p. 4. 
17 Sandrine Morel, la socialista spagnola Borell a capo della diplomazia , Le Monde, 4 luglio 2019, pag. 4. 
18 Jean-Pierre Stroobants / Cédric Pietralunga / Thomas Wieder, Il duo Parigi-Berlino alla manovra nonostante tutto, Le Monde, 4 luglio 2019, p. 3. 
19 Ludovic Lamant,Mercato dei leader dell’UE: alla fine, è la Germania a vincere , www.mediapat.fr , 3 luglio 2019. 
20 Cécile Ducourtieux, Commercio: uno storico accordo Mercosur-UE , Le Monde, Économie & Entreprise , 30 giugno al 1 ° luglio 2019, pag. 16. 
21 Rémi Barroux / Olivier Faye (commenti raccolti da), Jean-Baptiste Lemoyne: ” Gli accordi devono promuovere il libero scambio “, Le Monde, 3 luglio 2019, pag. 7. 
22 Leonor Hubaut L’accordo UE-Mercosur suscita già polemiche , economia Le Figaro, 1 °luglio 2019, pag. 25. 
23 J.-LP, EU-Mercosur: pollame ahi ahi,The Duck Chained, 3 luglio 2019, pag. 8. 
24 Nicolas Hulot, ” Ci sono testi che non possiamo più firmare “, Le Monde, 2 luglio 2019, pag. 8. 
25 Arthur Berdah, Mediterraneo: Macron da solo in cima , Le Figaro, 25 giugno 2019, pag. 8. 
26 Luc Julia, L’intelligenza artificiale non esiste , Prime edizioni, 2019. 
27 Michel Duclos, The Long Syrian Night , edizioni dell’Osservatorio, p. 192. 
28 Laure Mandeville, In un mondo che oscilla, pensa al grande ritorno delle nazioni , Le Figaro, 28 giugno 2019, p. 14. 
29 Guy Rider (direttore generale dell’OIL), “Ci sono minacce al multilateralismo “, Le Monde, Économie & Entreprise, 4 luglio 2019, pag. 14. 
30 Pierre Sassier, The Unhealthy Report of Power to the Truth , Blog di Pierre Sassier, www.mediapart.fr , 30 giugno 2019. 
31 Franck Petiteville, Multilateralism Will Survive Trump , Le Monde, 27 giugno 2019, p. 21. 
32 Gayle Smith, “Preservare il multilateralismo è diventata una sfida “, Le Monde, 30 giugno al 1 ° luglio 2019, pag. 23.

Per aiutare il sito del Medio Oriente è qui

Fonte: Vicino e Medio Oriente, Guillaume Berlat , 08-07-2019

https://www.les-crises.fr/multilateralisme-en-danger-par-guillaume-berlat/

PUO’ ESISTERE OGGI UNA SINISTRA SOVRANISTA?, di Giuseppe Angiuli

PUO’ ESISTERE OGGI UNA SINISTRA SOVRANISTA?

 

 

L’attuale fase che stiamo vivendo è contrassegnata da una crisi generale e irreversibile del processo di globalizzazione neo-liberista e da uno scontro frontale in atto fra un capitalismo produttivo e manifatturiero, desideroso di affermare la sua centralità e che in ambito politico trova espressione nel campo cosiddetto “populista” ed un capitalismo finanziario e speculativo, di carattere trans-nazionale, che trova sponda politica nei vertici della U.E. e nelle forze della “sinistra” globalista ed arcobalenata, in tutte le sue forme.

A partire dall’avvento di Mr. Trump alla Casa Bianca, abbiamo avuto davanti ai nostri occhi la materializzazione evidente di una previsione che in tanti avevano formulato già da diverso tempo su come le forze del campo cosiddetto “populista” siano le uniche oggigiorno a volere realmente candidarsi alla guida del processo di fuoriuscita dell’occidente dalla globalizzazione; d’altro canto, ci sembra di potere legittimamente rilevare che tutto ciò che oggi da “sinistra” mostra di contrapporsi con virulenza al cosiddetto “populismo” altro non è che un’espressione più o meno diretta – e più o meno velata – degli interessi del capitalismo finanziario speculativo e globalista.

Sul teatro dello scontro politico qui in occidente, le forze sovraniste e anti-globaliste sono riuscite in misura sempre più crescente ad occupare la scena e l’immaginario dei popoli europei facendosi alfiere del recupero di concetti come la nazione, la patria, la difesa dei confini, la famiglia naturale, il protezionismo in economia, la difesa dei valori della tradizione, ecc.: non può sottacersi che ad imprimere tali concetti sull’agenda politica dei sovranisti abbia assunto un ruolo oltremodo decisivo la figura di Steve Bannon, leader carismatico del movimento mondiale Alt Right (ossia Alternative Right, “destra alternativa”), una locuzione in cui l’alternatività è da intendersi affermata in contrapposizione alle correnti Neocons che per almeno un quindicennio avevano dominato il campo conservatore-repubblicano negli Stati Uniti.

In tale contesto generale, la messa in crisi dello schema della globalizzazione avrebbe potuto teoricamente fornire l’occasione anche alle malconce soggettività della “sinistra” post-marxista novecentesca di provare a riconquistare un po’ di spazio politico caratterizzando la propria azione attorno ad un rilancio dei bisogni delle classi popolari lavoratrici, che in questi ultimi decenni contraddistinti dal dominio assoluto dell’ideologia neo-liberista e dall’avvento delle istituzioni anti-democratiche della U.E. hanno assistito inermi ad una umiliante e sistematica opera di smantellamento delle principali conquiste sociali storiche del movimento operaio.

Si sarebbe infatti potuto legittimamente prevedere che le classi subalterne – unitamente ai partiti di “sinistra” ed ai sindacati che di tali classi sociali da sempre si dicono espressione – potessero cogliere finalmente l’occasione storica di ritornare protagoniste della scena politica, approfittando degli effetti di rottura sistemica indotti dall’ondata “populista”, interpretando in tale contesto un proprio ruolo originale e attivo e magari differenziandosi in qualche modo dai tratti politico-culturali ritenuti meno accettabili del sovranismo di marca “populista”.

Sfortunatamente, l’osservazione della realtà di questi ultimi tempi ci dice che nulla di tutto ciò è avvenuto: anzi, al contrario, tutte le soggettività storicamente appartenenti al campo della “sinistra” stanno mostrando paradossalmente proprio in questa decisiva congiuntura storica la loro natura di strumento posto a difesa del vecchio ordine globalista in fase di decomposizione per via dell’azione dei “populisti”.

In altre parole, come affermavo in un mio intervento di circa un anno fa, tutte le odierne forze sedicenti progressiste o di “sinistra” ossia tutte quelle forze organizzate che nell’attuale quadro politico italiano si collocano in uno spazio che va dal Partito Democratico post-renziano fino alla galassia antagonista dei centri sociali, costituiscono la componente “sinistrata” della globalizzazione neo-liberista[1].

E come affermavo sempre nel citato intervento, l’ideologia della odierna “sinistra” arcobalenata è un impasto demenziale di liberismo economico, europeismo acritico, omosessualismo corporativo, femminismo isterico, immigrazionismo fanatico e, dulcis in fundo, di antifascismo ossessivo-paranoico in assenza di fascismo.

La prova della strutturale inettitudine dell’odierna “sinistra” a sapere leggere correttamente l’attuale fase di messa in crisi della globalizzazione neo-liberista possiamo ricavarla dall’osservazione per cui tutte le residue ed attuali forze sedicenti progressiste – per l’appunto, dal P.D. fino all’ultimo dei centri sociali – sembrano oggigiorno mosse da un unico obiettivo tattico o di breve periodo che è quello di contrapporsi strenuamente – e spesso con toni virulenti – al “populismo” in ascesa e, in particolare in Italia, facendo della demonizzazione di Matteo Salvini (un po’ come nei decenni scorsi avveniva per Silvio Berlusconi) il proprio unico motivo di esistere.

Di forze politiche dichiaratamente filo-globaliste o e sfacciatamente eterodirette dalla tecnocrazia U.E. come il Partito Democratico o la + Europa di Emma Bonino non mette conto finanche parlarne, giacchè tutti possono dare per scontata la loro strutturale funzionalità al capitale finanziario speculativo ed alla fazione americana lib-dem impersonata da Mr. Obama, Hillary Clinton e dal grande speculatore-finanziatore “filantropo” George Soros.

Quanto agli epigoni post-dalemiani raccolti attorno a figure scialbe e prive di carisma quali Nicola Fratoianni o Stefano Fassina, essi si apprestano quasi certamente, il primo nel breve periodo il secondo forse nel medio periodo, a fare rientro alla chetichella nella casa-madre P.D., così palesando la natura chiaramente strumentale (molto probabilmente ispirata fin dall’inizio da un’intuizione del sempiterno “baffino” malefico) della loro manovra di differenziarsi in questi anni dallo stesso P.D. fingendo di fargli la guerra ma in realtà coprendolo a “sinistra”[2].

Quanto alle sparute forze della “sinistra” ultra-radicale, una mesta menzione la meritano i fautori del cartello elettorale Potere al Popolo, presto sostanzialmente dissoltosi dopo il pessimo risultato riportato alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 e i cui padri fondatori vanno identificati nella rete dei centri sociali dell’area antagonista, nel piccolo ma ben determinato gruppo di ideologi marxisti-leninisti riuniti nella Rete dei Comunisti e in quei settori del sindacalismo radicale espressi dall’U.S.B. e dalla figura un tempo carismatica ed oggi alquanto patetico-eversiva di Giorgio Cremaschi.

Con il lancio dell’operazione Potere al Popolo, alcune menti raffinatissime hanno provato – apparentemente fallendo nell’impresa – a livellare ideologicamente e poi ad assorbire in un unico contenitore di marca radical-globalista la maggior parte delle sigle e siglette di quel poco che rimane nel panorama della disastrata area marxista-leninista post-novecentesca.

Col pretesto di indicare a propri modelli sociali di riferimento le esperienze storiche del mutualismo tardo-ottocentesco e brandendo il seducente slogan del controllo popolare “dal basso”, gli ideologi di Potere al Popolo hanno in realtà provato a forgiare un nuovo soggetto politico che, incline ad una nozione “liquida” di popolo tanto cara a Toni Negri, riuscisse a rendere la “sinistra” radicale italiana del tutto compatibile con i principali desiderata della finanza globale e del cosmopolitismo contemporaneo, sterilizzando su binari morti di velleitarismo parolaio il malessere popolare verso le politiche di austerità U.E. ed irridendo in modo blasfemo al concetto di sovranità nazionale, non a caso definito dalla portavoce Viola Carofalo “un feticcio”[3].

Un discorso a parte lo meritano altri gruppuscoli politicamente più lucidi ma inesorabilmente auto-referenziali della stessa area radicale, animati da intellettuali che almeno apparentemente ci tengono a presentarsi come distinti e contrapposti a tutte le principali formazioni dell’odierna “sinistra” filo-globalista ed arcobalenata ma il cui operato lascia tuttavia molto perplessi non già per la loro copiosa produzione teorica – che è assolutamente apprezzabile e degna di nota – bensì per le modalità alquanto ambigue e contraddittorie del loro consueto modo di agire.

Da diversi anni a questa parte, attorno al gruppo dei due fini politologi Moreno Pasquinelli e Leonardo Mazzei ha preso vita un’agguerrita micro-area di sedicente sinistra no euro al cui interno si è sviluppato un fecondo dibattito teorico di altissimo spessore, senza dubbio quello qualitativamente più elevato in tutto ciò che è stato dato vedersi in quest’ultimo decennio a “sinistra”.

Ai numerosi convegni di Chianciano Terme susseguitisi sempre per iniziativa del duo Pasquinelli-Mazzei e dei loro sparuti seguaci riuniti attorno al noto blog politico dal nome Sollevazione[4], in questi ultimi anni si sono affacciate le più brillanti intelligenze del mondo sovranista italiano, dall’attuale Presidente della Commissione Finanze al Senato Alberto Bagnai (il quale proprio in quei convegni ha iniziato ad avere un po’ di visibilità come uomo pubblico impegnato sui temi della critica alla moneta unica) all’attuale sottosegretario agli Affari Europei Luciano Barra Caracciolo, dal prof. Antonio Maria Rinaldi (oggi eletto deputato europeo con la Lega) all’economista keynesiano Nino Galloni.

Moreno Pasquinelli

Riflessioni di altissimo livello hanno accompagnato per anni gli appuntamenti convegnistici del gruppo di Sollevazione, nel corso dei quali non è mancato di assistere alla più severa e rigorosa critica verso la grave collusione ideologica dell’odierna “sinistra trans-genica” (una sagace definizione dello stesso Pasquinelli) con i poteri oligarchici dell’attuale Europa a trazione franco-tedesca: fatto sta che, a fronte di un livello analitico indubbiamente elevato espresso da questa piccola ma agguerrita area e nonostante il costante coinvolgimento nelle sue iniziative di alcuni fra i migliori cervelli della cultura sovranista del nostro Paese, alle innumerevoli kermesse di Pasquinelli e Mazzei ha sempre fatto seguito un sistematico e tragicomico fallimento politico-organizzativo di qualsiasi annunciato tentativo volto a trasformare tale collage di idee euroscettiche ed anti-liberiste in una vera e propria forza politica organizzata ed attiva nella società.

L’ultimo e il più clamoroso di questi fallimenti si è consumato alla vigilia delle elezioni politiche del marzo 2018, per via del capotico tentativo dello stesso Pasquinelli e del suo sodale Mazzei di coinvolgere a tutti i costi nell’erigendo cartello elettorale della neonata Confederazione per la Liberazione Nazionale[5] un coacervo di gruppi e gruppuscoli – dal Movimento Roosevelt diretto dal massone progressista Gioele Magaldi ai Forconi Siciliani di Mariano Ferro, dal Fronte Sovranista Italiano del prof. Stefano D’Andrea ai post-brigatisti dei CARC, senza disdegnare un collegamento a distanza perfino con la galassia della Fratellanza Musulmana protagonista delle note Primavere Islamiste nei primi anni di questo decennio – dal carattere talmente variopinto ed eterogeneo da non potere (ovviamente) mantenersi in piedi per più di una settimana.

Pertanto, per diretta responsabilità di Pasquinelli, per via della sua clamorosa inettitudine a sapere scegliere con cura i soggetti da mettere assieme al fine di assemblare un cartello politico-elettorale della “sinistra” patriottica, alle elezioni del 4 marzo dello scorso anno tutti gli elettori con una formazione “di sinistra” e sensibili alle tematiche della sovranità nazionale, non trovando sulle schede elettorali alcuna offerta politica credibile, hanno finito per convogliare inevitabilmente i loro voti nella Lega salviniana o nel Movimento 5 Stelle.

Uno degli innumerevoli convegni della “sinistra no euro” organizzati da Pasquinelli

da cui non è mai emersa alcuna seria iniziativa politica a carattere aggregativo.

 

A tale risultato ha contribuito altresì il catastrofico fallimento politico-organizzativo della microscopica Lista del Popolo per la Costituzione guidata in modo più che dilettantesco dalle due figure ormai consumate di Giulietto Chiesa e Antonio Ingroia (un’esperienza politico-elettorale dagli esiti davvero tragicomici alla quale anche il sottoscritto, suo malgrado, ha avuto la sventura di partecipare, sia pure per un brevissimo periodo).

Ma per tornare a Pasquinelli e Mazzei, non può sottacersi che questa loro metodologia politico-organizzativa clamorosamente bizzarra e caotica – che in qualche occasione non aveva mancato di fare infuriare il suscettibile prof. Bagnai – costantemente diretta ad assemblare micro-forze così ideologicamente eterogenee e così palesemente incompatibili fra loro al punto da non potere (ovviamente) dare vita ad alcun gruppo dirigente coeso e credibile, è stata da essi messa in atto talmente tante volte nel recente passato al punto da lasciarci sospettare a giusta ragione che i due politologi di formazione trozkista, la cui intelligenza sopraffina non può certo essere messa in dubbio da chicchessia, in questi anni possano avere agito scientemente con una finalità maliziosa e perversa in quanto rivolta deliberatamente ad impedire in ogni modo – anzichè a favorire – la costruzione e la discesa nell’agone elettorale di un’autentica “sinistra” patriottica o sovranista, di cui in realtà il nostro Paese avrebbe un grande bisogno.

La conferenza stampa di presentazione del Manifesto per la Sovranità Costituzionale

 

Da ultimo, fra tutte le micro-iniziative di questi ultimi tempi sorte nell’area della sedicente “sinistra” euro-scettica, merita di essere menzionata quella che ha visto in Stefano Fassina, nell’ex deputato bolognese di Rifondazione Comunista, Ugo Boghetta e nello scrittore Thomas Fazi i suoi più significativi fautori.

A tale iniziativa aggregativa, che ha preso vita in questi ultimi mesi con la pubblicazione del Manifesto per la Sovranità Costituzionale e che più di recente, dopo la rottura registratasi fra Fassina e il duo Fazi-Boghetta, annuncia di sfociare nel lancio di un soggetto politico denominato Nuova Direzione, hanno aderito diversi fini intellettuali come gli accademici Carlo Formenti, Alessandro Visalli e Andrea Zhok.

Spiace molto dovere rilevare che questa nuova area che si auto-definisce socialista e patriottica, a dispetto delle aspettative suscitate in alcuni attivisti speranzosi e in buona fede, sta mostrando fin dai suoi primi passi di risentire di un eccessivo pregiudizio ideologico verso l’azione del Governo giallo-verde e, ciò che è ancor più discutibile, sembra volere caratterizzarsi per una tattica politica tutta basata sulla contrapposizione frontale non già al PD ed ai poteri eurocratici (come ci si attenderebbe in questa particolare congiuntura) bensì alla Lega di Salvini con il non celato auspicio di favorire una quanto più rapida disarticolazione/decomposizione dell’attuale quadro politico “populista” ed una contestuale caduta in disgrazia dell’attuale maggioranza di Governo.

In buona sostanza, anche questa neo-componente di sedicente “sinistra” social-patriottica, da quel che sembra guidata da Fazi e Boghetta, nei fatti sta dimostrando di volere agire secondo il più classico schema cripto-globalista: di fatti, essa non nasconde di lavorare nel breve periodo per far sì che il Movimento 5 Stelle – ossia quello stesso soggetto che di recente a Strasburgo ha generosamente messo a disposizione i voti dei suoi parlamentari per garantire l’elezione della “kapò” tedesca Von der Leyen alla Presidenza della Commissione Europea – rompa il prima possibile il suo patto di Governo con la Lega di Salvini e dia vita ad una nuova alleanza politica e parlamentare col PD post-renziano, con la benedizione dall’alto di Papa Bergoglio e del figlio di don Bernardo Mattarella.

Al fine di manipolare i loro ingenui attivisti sinistrati colti ed euroscettici (siamo certi che Gianfranco la Grassa in questo caso preferirebbe l’aggettivo semicolti), attratti dalla lettura del Manifesto per la Sovranità Costituzionale, Thomas Fazi e Ugo Boghetta, in un primo momento agendo d’intesa con Stefano Fassina, fin dall’atto dell’insediamento del Governo Conte sono ricorsi ad una tecnica solo apparentemente fine e sofisticata di camuffamento e velamento della realtà.

Ossia, non potendo plaudere alle iniziative governative messe in campo (d’intesa con Trump) per liberare il nostro Paese dalla gabbia dell’austerità – perché ove lo avessero fatto, ciò li avrebbe costretti a considerare le forze di Governo come dei loro legittimi interlocutori politici – essi hanno preferito negare la realtà oggettiva dei fatti e dunque hanno provato a sostenere il presunto carattere fittizio e asseritamente teatrale dello scontro andato in scena in questo ultimo anno fra Palazzo Chigi e la Commissione Europea, della serie: Salvini, Borghi, Bagnai e Savona fingono soltanto di fare i sovranisti ma i veri sovranisti siamo noi!

E’ bene precisare che da certi ambienti politico-culturali dichiaratamente keynesiani ed anti-liberisti, come quelli facenti capo a Boghetta, Fazi e a Fassina, ci si potrebbe legittimamente attendere che essi sostengano l’attuale processo politico di liberazione del Paese dal giogo dell’austerità U.E. e che, al contempo, magari si differenzino dal Governo giallo-verde prendendo le distanze da certi suoi aspetti più discutibili, come il regionalismo differenziato o la privatizzazione dell’acqua pubblica; in alternativa, ci si potrebbe attendere che essi, pur sostenendo l’esecutivo nella sua battaglia campale contro Bruxelles, Berlino e Francoforte, colgano occasione per rimarcare i bisogni più essenziali delle classi popolari, magari reclamando una maggiore attenzione dell’esecutivo verso un piano di investimenti pubblici ovvero verso l’adozione di politiche di spesa sociale ovvero ancora l’integrale abolizione della legge Fornero o del JOB’S ACT.

Questo ci si attenderebbe dall’azione politica di gente come Boghetta, Fazi e Fassina e, se così fosse, saremmo ben lieti di aprire con loro un serio dibattito costruttivo sui limiti dell’azione del Governo giallo-verde.

E invece no, colpo di scena!

Fin da quando si è insediato il Governo Conte, soprattutto Fassina e Fazi, spesso accompagnandosi in convegni pubblici con economisti di chiara scuola bocconiana e in qualche caso con la partecipazione di ex consiglieri economici dei Governi Renzi e Gentiloni[6], in tutti questi mesi non hanno perso tempo per bersagliare quasi ogni giorno l’esecutivo giallo-verde proprio sul terreno decisivo dello scontro in atto con la Commissione Europea e con la BCE, artificiosamente negando l’effettiva esistenza di tale scontro.

Agendo in tal modo, sia Fassina che Fazi, in questa loro azione demolitrice accompagnati dalla complicità passiva del forse inconsapevole Boghetta, hanno palesato la loro implicita funzionalità ai piani strategici dei poteri globalisti, desiderosi di accantonare il prima possibile l’attuale stagione del “populismo” in salsa italiana e smaniosi di aprire la strada ad un nuovo governo tecnico a guida Mattarella-Draghi-Cottarelli ovvero, come sta emergendo più di recente, ad un Governo Conte bis che possa godere del sostegno di un’inedita alleanza fra il PD e un Movimento 5 Stelle ormai del tutto normalizzato attorno al sacro rispetto dei vincoli europei.

Se sul pedigree politico di Stefano Fassina – e sulle ragioni per le quali noialtri non abbiamo mai creduto alla sua sincera intenzione di operare politicamente per contrastare il mostro tecnocratico dei tempi odierni, chiamato U.E. – ci siamo già espressi in un già citato articolo alla cui lettura vi rimandiamo[7], forse qualche parola merita di essere espressa per inquadrare il personaggio emergente Thomas Fazi, attese anche le sue recenti comparsate televisive (specie su La7) che testimoniano come molto probabilmente alcuni ambienti abbiano deciso di puntare sulla sua figura per favorirne la repentina ascesa a ruoli visibili di leader mediatico o comunque di soggetto influencer di una certa area politica di sedicente “sinistra” sovranista.

Tipica aria da esponente navigato della “sinistra” romana radical chic, Thomas Fazi è il rampollo del noto editore Elido Fazi ed entrambi – padre e figlio – non possono certo nascondere una qualche contiguità rispetto all’area politica che fa capo alle fondazioni del magnate George Soros, prova ne è che molti interventi del più piccolo dei Fazi hanno spesso trovato spazio sul sito del noto network globalista/dirittumanista Open Democracy[8], un organismo alla cui creazione non ha concorso il solo Soros ma anche altri ben noti soggetti finanziatori come la Fondazione Ford ed il fondo Rockfeller, come apprendiamo da una semplice lettura di Wikipedia[9].

Negli anni 2013 e 2014, allorquando i temi dell’uscita dall’eurozona stavano faticosamente iniziando ad acquisire notorietà ed i movimenti sovranisti iniziavano a creare una prima significativa massa critica di seguaci, Fazi padre e figlio avviavano una campagna virulenta di attacco politico alla figura di Alberto Bagnai, ad esempio denigrandolo, con i toni sprezzanti tipici di un certo ambiente accademico-salottiero, per il fatto che il professore-divulgatore dei temi no euro insegnasse in un modesto ateneo di provincia quale quello di Pescara anzichè a Oxford o a Cambridge.

Nell’apice della polemica con l’attuale Presidente della Commissione Finanze al Senato, Thomas Fazi in una circostanza arrivava perfino a dichiarare dal suo profilo twitter che Bagnai lo avrebbe “minacciato di morte“.

In quegli stessi anni, proprio mentre prendeva sistematicamente di mira l’attività divulgativa del prof. Bagnai, lo stesso Thomas Fazi investiva il suo impegno di attivista nell’organizzazione di tavole rotonde sul tema del salvataggio dell’eurozona, con la partecipazione di esponenti di spicco della “sinistra” finanziaria come Varoufakis, dell’allora vice-Governatore della BCE, di economisti del FMI e, almeno in un caso, con la chiusura dei lavori affidata all’allora Ministro per le Riforme Costituzionali, la belloccia Maria Elena Boschi (all’epoca, come tutti ricorderanno, molto vicina a Renzi)[10].

Particolare molto importante, è significativo che detti convegni organizzati da Fazi in alcuni casi avvenissero col contributo economico della Commissione Europea, come apprendiamo da una dettagliata ricostruzione a suo tempo offertaci dallo stesso Alberto Bagnai sul suo noto blog Goofynomics, allorquando quest’ultimo cercava di difendersi con le unghie dagli attacchi pubblici ricevuti dallo stesso Fazi[11].

Thomas Fazi

 

E’ forse ancora più significativo ricordare che nell’autunno 2015, a margine della conclusione della tragica estate greca, quello stesso Thomas Fazi che oggi dagli studi di La7 si propone quale rappresentante della sedicente “sinistra” euroscettica, ebbe a pubblicare un pamphlet a quattro mani con l’eurodeputato piddino Gianni Pittella, il quale – lo ricordiamo ai più smemorati – nel 2014 era stato fra i principali sponsors del golpe nazi-atlantista di Piazza Majdan, allorquando non aveva avuto remore nel recarsi a Kiev ad aizzare la folla che in quel momento stava assediando il Parlamento costringendo alla fuga il legittimo Presidente ucraino Viktor Janukovyč.

E dunque, nell’autunno del 2015, quando la Grecia di Tsipras era stata da poco umiliata dalla Troika, mentre per le strade di Atene si cominciavano a vedere le prime mense pubbliche allestite per sfamare i poveri disoccupati e i senzatetto, Thomas Fazi e Gianni Pittella trovavano le energie per dare alle stampe il libro La notte dell’Europa. Perche’ la Grecia deve restare nell’euro (sic)[12].

La grande contiguità del piddino Pittella alla famiglia Fazi è di vecchia data ed è dimostrata anche dal fatto di avere egli scritto nel 2013, a quattro mani col padre-editore di Thomas, il libro Breve storia del futuro degli Stati Uniti d’Europa[13].

 

Poi arrivarono la BREXIT e l’avvento di Trump alla Casa Bianca e dunque è probabile che certi ambienti del mondo salottiero globalista abbiano nel frattempo mutato linea strategica ed oggi dunque abbiano interesse ad accreditarsi in Italia insinuandosi nelle odiate fila nemiche, dando vita a raggruppamenti che assumano le sembianze esterne di una “sinistra sovranista” ma che di fatto, nei momenti cruciali della lotta politica – come quello che sta vivendo l’Italia in questa politicamente calda estate 2019 – risultino funzionali ai disegni tattico-strategici dei poteri globalisti.

 

Concludendo quest’analisi dura e cruda sul mondo della “sinistra” contemporanea e sul mesto ruolo che essa sta recitando nell’attuale fase storica contraddistinta dall’ascesa del “populismo”, vi invitiamo a guardare sempre con attenzione e cautela alla reale natura della merce che siete interessati ad acquistare, specie nel settore cosiddetto di “sinistra”: spesso le apparenze ingannano e, perfino quel nuovo prodotto appena presentato sui banchi del supermercato della politica col fine di intercettare un certo pubblico di consumatori con idee sovraniste, magari munito di un marchio seducente ed inneggiante al patriottismo, sotto la confezione esterna tricolore, gratta gratta, nasconde quasi sempre surrettiziamente i colori della bandiera arcobaleno.

 

 

Giuseppe Angiuli

 

[1] Cfr. G. Angiuli, Il patriottismo costituzionale: per la costruzione di un’area politica di ispirazione popolare, socialista e patriottica, pubbl. in https://patriottismocostituzionale.blog/2018/07/01/il-patriottismo-costituzionale-per-la-costruzione-di-unarea-politica-di-ispirazione-popolare-socialista-e-patriottica/?fbclid=IwAR1vFwHmQqxjOWPGiI7qicCtloqc9ot-l5Jy5de21NDKW8MJOa5E9okoqAw.

 

[2] Sulla figura e sul ruolo politico assai ambigui di Stefano Fassina, mi permetto di rimandare ad un mio scritto del gennaio 2019, Stefano Fassina, il furbo incantatore della sinistra (quasi) euroscettica, pubbl. in https://italiaeilmondo.com/2018/12/30/3201/.

[3] http://temi.repubblica.it/micromega-online/carofalo-potere-al-popolo-noi-sinistra-dal-basso-vogliamo-ridare-speranza-ai-delusi-dalla-politica/.

[4] https://sollevazione.blogspot.com/.

[5] http://confederazioneperlaliberazionenazionale.it/.

[6] http://www.economiaumanista.it/2019/01/il-riscatto-dello-stato-presentazione-del-libro-sovranita-o-barbarie-di-thomas-fazi/.

[7] Stefano Fassina, il furbo incantatore della sinistra (quasi) euroscettica, cit.

[8] https://www.opendemocracy.net/en/author/thomas-fazi/.

[9] https://it.wikipedia.org/wiki/OpenDemocracy.

[10] http://www.eunews.it/how-can-we-govern-europe.

[11] http://goofynomics.blogspot.com/2014/12/una-pacata-risposta.html.

[12] https://www.ibs.it/notte-dell-europa-perche-grecia-libro-gianni-pittella-thomas-fazi/e/9788897931621.

[13]https://www.amazon.it/Breve-storia-futuro-degli-dEuropa/dp/8864118829/ref=tmm_pap_title_0?ie=UTF8&qid=1390920712&sr=8-4.

1 61 62 63 64 65 77