La Dottrina Monroe del 1823 e le sue prime conseguenze sulla politica globale: La trasformazione degli Stati Uniti in un impero globale, di Vladislav B. Sotirovic

La Dottrina Monroe del 1823 e le sue prime conseguenze sulla politica globale: La trasformazione degli Stati Uniti in un impero globale

La Dottrina (1823)

La dottrina fu presentata dal 5° presidente degli Stati Uniti James Monroe (1817-1825) nel 1823 come avvertimento ufficiale alle potenze europee (occidentali) che qualsiasi politica europea di espansionismo imperialistico sul territorio delle Americhe (settentrionali, centrali e meridionali o anglo-francofone e latine, cioè spagnole e portoghesi) sarebbe stata presa in considerazione da Washington come una minaccia agli interessi nazionali degli Stati Uniti. Di fatto, la dottrina proclamava le Americhe come affare esclusivo degli Stati Uniti, senza alcun coinvolgimento e/o interruzione da parte del mondo esterno. In altre parole, James Monroe proclamò il diritto esclusivo degli Stati Uniti di trattare (sfruttare) le Americhe (compreso il Canada) dal punto di vista economico, finanziario e geopolitico. La dottrina fu poi estesa con conseguenze pratiche sia dal 26° Presidente degli Stati Uniti Theodore Roosevelt (1901-1909) sia dal 28° Presidente degli Stati Uniti Thomas Woodrow Wilson (1913-1921), che la usarono per giustificare formalmente le politiche imperialistiche americane in diversi Paesi dell’America Latina, dal Messico alla Colombia.

James Monroe (1758-1831) è stato uno statista democratico repubblicano e presidente degli Stati Uniti. È ricordato per due motivi: 1) Nel 1803, essendo ministro in Francia sotto il presidente americano Jefferson, negoziò e infine ratificò il cosiddetto “Acquisto della Louisiana”, con il quale un vasto territorio formalmente di proprietà della Francia (napoleonica) fu venduto agli Stati Uniti (poiché Napoleone aveva bisogno di ulteriori fonti finanziarie per le sue guerre in Europa); 2) Tuttavia, James Monroe è ricordato soprattutto come l’ideatore della Dottrina Monroe che, di fatto, disegnò la politica imperialistica degli Stati Uniti in futuro.

Che cos’è la Dottrina Monroe? È la dichiarazione formale (diplomatica) di politica estera degli Stati Uniti che metteva in guardia le potenze europee (occidentali) (di fatto, Regno Unito, Spagna, Portogallo e Francia) da un’ulteriore colonizzazione delle Americhe (il Nuovo Mondo) e dall’intervento nei governi dell’emisfero americano. Come contropartita, la dottrina escludeva qualsiasi intenzione di Washington di prendere parte agli affari politici europei (che tuttavia rimase valida fino all’aprile 1917, quando gli Stati Uniti parteciparono direttamente alla Prima Guerra Mondiale sul suolo europeo, seguita dall’intervento militare americano in Russia durante la Guerra Civile Russa del 1917-1921).

Lo sfondo della dottrina, enunciata dal presidente James Monroe nel suo discorso annuale al Congresso degli Stati Uniti nel 1823, era, a prima vista, la minaccia politica di un intervento militare da parte della Santa Alleanza post-napoleonica per ripristinare le colonie spagnole in America Latina che avevano già dichiarato la loro indipendenza da Madrid. Tuttavia, divenne presto chiaro che la politica imperialistica degli Stati Uniti doveva riempire il vuoto in America Latina dopo il ritiro del potere e dell’amministrazione spagnola.

La Dottrina Monroe fu applicata di volta in volta dalla politica estera statunitense nelle Americhe. Tuttavia, dopo lo sviluppo degli interessi territoriali in America centrale e nei Caraibi, divenne un principio della politica estera statunitense. Nella prima parte del XX secolo, la dottrina si è sviluppata in una politica in cui Washington considerava gli Stati Uniti responsabili della sicurezza delle Americhe – un ombrello della colonizzazione geopolitica statunitense delle Americhe, soprattutto durante la Guerra Fredda. Di conseguenza, tale politica complicò costantemente le relazioni degli Stati Uniti con i Paesi dell’America Latina e solo le dittature locali sponsorizzate da Washington potevano controllare i sentimenti antiamericani della popolazione.

I politologi ritengono che, in realtà, fu proprio per l’equilibrio che Londra influenzò Washington a emanare la Dottrina Monroe, annunciata dal presidente James Monroe al Congresso il 2 dicembre 1823. Dobbiamo ricordare che la dottrina originariamente stabiliva che gli Stati dell’Europa (occidentale) non potevano ricolonizzare le Americhe o interferire negli affari degli Stati già indipendenti del Nord e del Sud America. Al momento, tale atteggiamento rifletteva la preoccupazione degli Stati Uniti e del Regno Unito per le interferenze dell’Europa occidentale nell’emisfero occidentale, in particolare per qualsiasi tentativo della Spagna di riprendere il controllo sugli ex possedimenti coloniali in America Latina. Tuttavia, lo slogan centrale della Dottrina Monroe – “L’America agli americani” – negli anni successivi ispirò fondamentalmente l’imperialismo coloniale statunitense e dal 1867 e soprattutto dal 1898 si trasformò nella politica “Le Americhe agli Stati Uniti”.

Il presidente Monroe promulgò la sua dottrina perché vedeva un’opportunità per il ruolo geopolitico speciale di Washington nelle Americhe dall’Alaska alla Patagonia. Tuttavia, all’epoca della dichiarazione, non era immaginabile sconfiggere le influenze coloniali spagnole e francesi nelle Americhe senza la Royal Navy britannica. In realtà, l’obiettivo del Regno Unito non era quello di assistere gli Stati Uniti, ma di battere la Francia, un Paese che all’epoca dominava la Spagna. Pertanto, il ministro degli Esteri britannico George Canning (1770-1827), in realtà, incoraggiò la politica di Washington come un buon modo per ridurre la potenza coloniale spagnola (in realtà, francese). Di lì a poco, l’amministrazione statunitense emanò la Dottrina Monroe, formalmente per impedire qualsiasi ulteriore sforzo da parte della Spagna (e della Francia) di riconquistare i possedimenti perduti nel Nuovo Mondo (le Americhe). Tuttavia, in pratica, secondo la dottrina, tutti gli Stati europei sono stati obbligati a rispettare l’emisfero occidentale come sfera esclusiva di influenza geopolitica, finanziaria ed economica degli Stati Uniti.

Le prime conseguenze (1897-1916)

La disputa del 1897-1903 sul confine dell’Alaska con il vicino Canada (Dominion dal 1867) fu la prima applicazione diretta della Dottrina Monroe sulla politica estera degli Stati Uniti con, di fatto, l’intenzione geopolitica finale di incorporare il Canada negli USA. In altre parole, la corsa ai giacimenti d’oro del Klondike nel 1897 (terra tra Alaska e Canada) portò la disputa vicino alla guerra tra i due Stati. Il Canada temeva di perdere i territori del nord-ovest. Tuttavia, un tribunale di orientamento politico istituito per risolvere il problema, con il voto decisivo del giudice del Regno Unito, si limitò a favorire nel 1903 la linea di confine tra Canada e Stati Uniti proposta da Washington.

L’intervento militare statunitense nell’insurrezione di Cuba del 1898 provocò direttamente la guerra con la Spagna. Poiché la guerra ebbe un grande successo per Washington, gli Stati Uniti ottennero un protettorato su Cuba nel 1903. Tuttavia, le continue rivolte locali contro il dominio statunitense portarono a diversi interventi militari americani sull’isola dal 1906 al 1922. Tuttavia, interventi militari statunitensi simili si verificarono due volte nella caraibica Repubblica Dominicana, nel 1905 e nel 1916-1924, seguiti da Haiti (1915-1934) e dal Nicaragua (1909-1933). La fase successiva della politica coloniale imperialista degli Stati Uniti in America Latina, secondo la Dottrina Monroe, fu nel 1917, quando sotto la pressione militare di Washington la Danimarca fu costretta a vendere formalmente le Isole Vergini agli Stati Uniti. politica aggressiva degli Stati Uniti nei confronti del Messico portò nel frattempo a due interventi militari americani abortiti nel 1914 (invasione di Tampico e Veracruz) e nel 1916 (invasione del Rio Grande nelle province messicane di Chihuahua, Coahuila e Nuevo León).

Probabilmente, il principale successo geopolitico ed economico degli Stati Uniti in America Latina in seguito alla Dottrina Monroe fu quello di ottenere il controllo e la protezione (di fatto, lo sfruttamento) della zona del Canale di Panama. In base al trattato con Panama (un ex territorio della Colombia sottratto agli Stati Uniti) del 1903, gli Stati Uniti affittano la zona del Canale di Panama in perpetuo. Allo stesso tempo, però, secondo il trattato, Washington doveva possedere la zona come “se fosse sovrana”. Di fatto, un linguaggio diplomatico così contraddittorio causò discussioni irrisolvibili da entrambe le parti. Si tenga presente che la zona del Canale di Panama è larga 10 miglia ed è divisa dal Canale che, contrariamente al Canale di Suez, è dotato di chiuse.

Woodrow Wilson e la Dottrina Monroe

Il 28° Presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson (1913-1921) proclamò al Senato degli Stati Uniti nel gennaio 1917 che i principi e le politiche degli Stati Uniti dovevano essere accettati dal resto del mondo in quanto erano quelli di tutta l’umanità. Più precisamente, egli sostenne che tutte le nazioni del mondo avrebbero dovuto “adottare di comune accordo la dottrina del presidente Monroe come dottrina del mondo”, continuando a sostenere che “nessuna nazione dovrebbe cercare di estendere la propria politica su qualsiasi altra nazione o popolo”. Un risultato della proclamazione della Dottrina Monroe del 1923 come dottrina di tutte le nazioni, dovrebbe essere “che ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di determinare la propria politica, il proprio modo di sviluppo, senza ostacoli, senza minacce, senza paura, il piccolo insieme al grande e potente”. Si trattava, in effetti, di un’espressione formale di universalizzazione delle relazioni internazionali fondata sulla dottrina del presidente Monroe (che in origine riguardava solo le Americhe, ma che ora veniva applicata a tutto il mondo).

Tuttavia, nella pratica, prevalse una prospettiva diversa dell’attuazione della Dottrina Monroe da parte di Washington (e di altri), poiché anche all’interno dell’emisfero occidentale l’impatto della Dottrina Monroe fu tutt’altro che benevolo. La dottrina, purtroppo, anche durante la presidenza di W. Wilson non servì a garantire che a tutte le nazioni sarebbe stato permesso di determinare il proprio destino “senza ostacoli, senza minacce e senza paura” ma, di fatto, come meccanismo per mettere ordine nelle relazioni tra gli Stati più forti e quelli più deboli, sia nella politica regionale che in quella globale, secondo i termini imposti dai più forti.

In realtà, a partire dalla presidenza di W. Wilson, la Dottrina Monroe del 1823 si era evoluta in una logica di intervento militare e di espansione del potere statunitense (hard e soft). W. Wilson, nel 1915, era desideroso di veder prevalere la democrazia nei Caraibi, ma allo stesso tempo non era disposto a tollerare nulla che potesse far pensare al radicalismo o all’instabilità e, pertanto, inviò truppe militari statunitensi ad Haiti. L’anno successivo (1916), solo alcune settimane prima del discorso di W. Wilson del gennaio 1917, le truppe americane occuparono la Repubblica Dominicana. Tuttavia, la permanenza degli Stati Uniti in ogni caso si rivelò prolungata, e in nessuno dei Paesi occupati dalle truppe americane la democrazia fiorì come risultato.

Woodrow Wilson era molto fiducioso che lui e la sua amministrazione avessero il diritto di fare un destino della Rivoluzione messicana ed era allo stesso tempo desideroso di insegnare agli altri a “eleggere uomini buoni”. Di conseguenza, la sua amministrazione interferì costantemente negli affari interni messicani e organizzò persino spedizioni militari in Messico per due volte: nel 1914 e nel 1916. Tuttavia, il tentativo di W. Wilson di rendere la rivoluzione più democratica fu abortito ed egli, in sostanza, riuscì solo ad avvelenare le relazioni con il vicino Messico per un periodo più lungo. Tuttavia, secondo W. Wilson, tutte queste azioni militari statunitensi avevano le migliori intenzioni e furono condotte seguendo la Dottrina Monroe del 1823.

Le ultime parole

In conclusione, il fondamento ideologico dell’imperialismo coloniale americano nelle Americhe dalla fine del XIX secolo era la Dottrina Monroe del 1823, che implicava l’intenzione di trattare le Americhe (in particolare l’America Latina) come esclusiva sfera di influenza geopolitica, economica e finanziaria degli Stati Uniti.

Molti sostenitori ufficiali di un “mondo aperto” o “mondo senza frontiere” (di fatto, i globalisti) sono in sostanza sostenitori della dottrina di M. Monroe e dei principi di W. Wilson di un mondo libero per implementare i principi e le politiche statunitensi su una scena globale. Essi, come lo stesso W. Wilson, rifiutano rigorosamente l’idea che altri possano interpretare la politica estera americana come imperialistica. Il punto culminante della questione è che sostengono che gli Stati Uniti meritano di essere al di sopra di tutte le altre grandi potenze (in realtà, superpotenza o addirittura iperpotenza) al fine di impiegare i loro valori nel resto del mondo, anche utilizzando un potere (morbido o duro) per agire a favore del beneficio globale. Essi propagandano che l’apertura è la causa della democrazia, dello sviluppo economico, della tutela dei diritti umani e della pace. Tuttavia, in molti casi, questa apertura è solo un quadro formale per l’influenza cruciale americana nel mondo, che è stata gradualmente implementata dopo la presentazione ufficiale della Dottrina Monroe nel 1823.

Dr. Vladislav B. Sotirovic
Ex professore universitario
Ricercatore presso il Centro di Studi Geostrategici
Belgrado, Serbia
www.geostrategy.rs
sotirovic1967@gmail.com © Vladislav B. Sotirovic 2024

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La “deoccidentalizzazione” al centro delle relazioni internazionali contemporanee

La “deoccidentalizzazione” al centro delle relazioni internazionali contemporanee

In un mondo in fase di ristrutturazione geopolitica, l’Occidente ha perso il suo posto come asse centrale delle relazioni internazionali. Tra l’ascesa dei BRICS+ e l’attuale frammentazione dell’economia mondiale, quale configurazione dell’ordine internazionale sembra prendere forma?

Il termine “de-occidentalizzazione” compare sempre più spesso nei dibattiti sulle relazioni internazionali. Il concetto descrive alcuni cambiamenti nel sistema internazionale che si sono verificati a partire dai primi anni 2000, in particolare l’aumento del potere economico e la relativa ma crescente autonomia geopolitica dei Paesi precedentemente dominati dalle potenze occidentali. Il concetto è in realtà polisemico e deve essere chiarito e collocato nel suo contesto storico e politico.

Un processo politico a lungo termine

La rivoluzione sovietica del 1917 può essere vista come la prima manifestazione della de-occidentalizzazione, in quanto dimostra la scelta di rompere con il modo di produzione capitalista e la sua espansione imperialista guidata dalle potenze occidentali. Ciò si riflette nella creazione dell’Internazionale Comunista nel marzo 1919 e nell’impegno costante – almeno fino al passaggio al “socialismo in un solo Paese” imposto da Stalin nel 1925 – a sostenere i popoli delle colonie nelle loro lotte emancipatorie, culminato nell’organizzazione del Congresso dei Popoli d’Oriente a Baku nel 1920.

Tuttavia, fu solo dopo la Seconda guerra mondiale che il processo di decolonizzazione prese davvero piede e iniziò un nuovo periodo di de-occidentalizzazione. In questo contesto, nell’aprile del 1955 si tenne la Conferenza di Bandoeng, che riunì ventinove Paesi asiatici, mediorientali e africani che rappresentavano più della metà dell’umanità ma meno del 10% della sua ricchezza. Tra i partecipanti vi erano Gamal Abdel Nasser per l’Egitto, Jawaharlal Nehru per l’India, Zhou Enlai per la Repubblica Popolare Cinese e Soekarno per l’Indonesia, paese ospitante della conferenza. I Paesi asiatici erano i più numerosi, perché era nel loro continente che il movimento di decolonizzazione era più potente all’indomani del 1945. La conferenza di Bandoeng rappresentò l’emergere del “Terzo Mondo”.- termine coniato dal demografo francese Alfred Sauvy nel 1952 – sulla scena internazionale e il tentativo delle borghesie nazionali dei Paesi interessati di costringere le potenze dominanti ad abbandonare il sistema coloniale e a riconoscere la loro ascesa al potere nel quadro di Stati indipendenti in grado di affermarsi politicamente, in particolare nell’ambito dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. A metà degli anni Cinquanta, le potenze imperialiste cercavano soluzioni che non mettessero in discussione l’intero ordine imposto alla fine della Seconda guerra mondiale nelle conferenze organizzate tra i Paesi vincitori, e quindi erano favorevoli a forme di compromesso con i popoli che cercavano di emanciparsi. Questo potente processo di decolonizzazione modificò in modo permanente la mappa geopolitica del mondo, che all’epoca era ancora fondamentalmente strutturata dal confronto bipolare tra Stati Uniti e Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS). Per tutta la durata della Guerra Fredda, le potenze imperialiste e l’Unione Sovietica si sono combattute per procura in molti Paesi del Sud, ma ognuna di esse ha fatto in modo che nessuno di loro potesse turbare strutturalmente l’ordine stabilito a Yalta e Potsdam dai vincitori della Seconda Guerra Mondiale.

L’affermazione degli Stati del Sud

A sua volta, la fine del duopolio USA-URSS, con la caduta del Muro di Berlino e l’implosione dell’URSS, ha rimescolato le carte in tavola. Il momento dell’iperpotenza americana, per usare il termine coniato da Hubert Védrine, è stato di breve durata, circa dieci anni in tutto, e ha portato a una nuova sequenza più favorevole ai Paesi del Sud.

Dall’inizio degli anni 2000 si sono verificati diversi fenomeni: il relativo declino dell’egemonia e del potere degli Stati Uniti nel mondo, sullo sfondo dell’impantanamento della prima potenza mondiale in Medio Oriente e in Afghanistan; la concomitante ascesa di potere della Cina e dell’Asia, verso cui si sta progressivamente spostando il baricentro geopolitico ed economico del mondo; la progressiva affermazione dei Paesi del Sud del mondo, nell’ambito della nuova fase di globalizzazione economica e finanziaria che si è verificata tra il 1990 e il 2010 (che ha interessato in particolare i Paesi produttori ed esportatori di risorse naturali e materie prime), sono tra le principali caratteristiche di questo periodo delle relazioni internazionali.

In questo contesto, tra il 2000 e il 2015 si è verificata una prima fase di diversificazione delle alleanze geopolitiche, in particolare tra i Paesi del Sud e intorno all’ascesa della Cina, di cui la creazione dei BRIC (Brasile, Russia, India, Cina, a cui nel 2010 si è aggiunto il Sudafrica per diventare BRICS) nel 2009 è il simbolo più evidente. Con la crisi finanziaria internazionale del 2007-2008, iniziata negli Stati Uniti, la “globalizzazione” è già entrata in una nuova fase, quella della sua crisi sistemica. Gli anni 2010 hanno visto una cattiva performance dell’economia internazionale, una riduzione sostenuta del commercio mondiale, un aumento esponenziale del debito pubblico e delle famiglie e un incremento delle disuguaglianze sociali e di tutte le forme di insicurezza su scala planetaria. Questa crisi globale è stata rafforzata dalla pandemia di Covid-19 e dalle sue molteplici conseguenze sanitarie, economiche, sociali e politiche, in un mondo in cui già prima del 24 febbraio 2022 (inizio dell’aggressione russa in Ucraina), più di un miliardo di persone viveva in zone di confronto militare, conflitto e guerra localizzata.

Tuttavia, la guerra in Ucraina è effettivamente una nuova tappa nella configurazione di un mondo ormai apolare, cioè, contrariamente a quanto una certa vulgata vorrebbe farci credere, senza un centro di potere esclusivo, ma anche senza l’esistenza di poli regionali realmente costituiti – una multipolarità – che si spartiscano il potere e da cui si tessano i nuovi equilibri globali. In questo mondo apolare, diverse potenze regionali o internazionali (Stati Uniti, Cina, India, Russia, Brasile, Turchia, Arabia Saudita, Iran, Paesi europei, ecc.) si confrontano o cooperano – le due cose non sono in contraddizione – a seconda delle questioni in gioco, e cercano di riunire o costruire intorno a loro partner, coalizioni e alleanze che possono essere temporanee o più durature. L’attuale corso delle relazioni internazionali amplifica tutte le tendenze in atto e ne fa nascere di nuove. Conferma l’esistenza di un sistema internazionale in crisi, in cui le relazioni tra gli Stati sono transazionali e si organizzano in modo sempre più fluttuante in funzione dei loro interessi immediati e dell’affermazione della loro sovranità, per lo più senza alcuna affinità o logica ideologica preventiva e sovradeterminante. Queste dinamiche si stanno svolgendo senza che nessuna potenza, a Nord o a Sud, possa realmente sfidare il sistema economico dominante. Si tratta piuttosto di lottare per mantenere o conquistare posizioni all’interno del sistema e del sistema politico e istituzionale internazionale. Ecco perché il termine “de-occidentalizzazione” è utile per descrivere questi nuovi rapporti di forza e il riassetto della gerarchia globale degli Stati e delle loro alleanze che è in corso. Ma questo concetto non ci dice nulla sulla natura dei progetti promossi dagli attori, né in che misura questi progetti, anche se guidati da Paesi del Sud, rappresentino una rottura con la logica del capitalismo globalizzato. In questo contesto, il nuovo corso delle relazioni internazionali sta aprendo una nuova sequenza di rivalità di potere esacerbate e l’ascesa di tentazioni imperiali locali e regionali, che a loro volta incoraggiano il rafforzamento di vecchie – e il dispiegamento di nuove – partnership di sicurezza e militari, nel contesto di un potenziale confronto tra Stati Uniti e Cina. Questi sviluppi incoraggiano anche la rimilitarizzazione del mondo, mentre nuovi tipi di minaccia si aggiungono a quelli già presenti, con gli effetti del cambiamento climatico in particolare che si fanno sentire in tutto il mondo.

Ucraina e Gaza rivelano nuovi equilibri di potere

È in questo quadro generale che il conflitto ucraino e poi la guerra a Gaza fanno luce sulla nuova lettura delle relazioni internazionali. È sorprendente osservare che le sanzioni contro la Russia imposte dalle potenze occidentali sono scarsamente applicate dai Paesi del Sud. Non è meno decisivo sottolineare l’empatia dimostrata dai Paesi del Sud verso la causa palestinese, che vedono come simbolo dell’autodeterminazione dei popoli di fronte al dominio coloniale, ma anche, in questo contesto, dell’indignazione selettiva e dei doppi standard praticati dalle potenze occidentali. Queste osservazioni confermano le forme di relazione che oggi tendono a strutturare il campo delle relazioni internazionali. D’ora in poi, i valori che le potenze occidentali continuano più o meno confusamente a considerare universali – la democrazia liberale, il ” principio dello Stato di diritto “, i diritti umani, la libertà individuale, l’iniziativa privata e l’economia di mercato – non sono più in grado di imporsi né militarmente né in termini di interessi propri.I Paesi occidentali sono stati i primi, dalla fine della Guerra Fredda (Afghanistan, Iraq, Libia, Sudan, ecc.), a usarli impropriamente per i propri fini, a calpestarli o a cercare di imporli con la forza delle armi.). Si tratta di un fenomeno importante.

Al di là della loro diversità e della diversità dei loro interessi, le potenze del Sud si stanno affermando sulla scena mondiale e stanno scuotendo i vecchi equilibri. I già citati BRICS, ora noti come BRICS + dal momento che il gennaio 2024 si sono allargati agli Emirati Arabi Uniti (EAU), all’Arabia Saudita, alla Repubblica Islamica dell’Iran, all’Egitto e all’Etiopia, sono un fattore chiave nell’equilibrio di potere internazionale. Entro il 2022, essi rappresenteranno il 46% della popolazione mondiale, mentre i Paesi del G7 ne rappresenteranno meno del 10%. In termini economici, rappresenteranno il 35,6% del PIL mondiale calcolato a parità di potere d’acquisto nel 2022 (poco più del 30% per il G7) e rispettivamente il 37,6% e il 28,2% nel 2027. I BRICS+ rappresentano anche il 54% della produzione mondiale di petrolio. Si tratta quindi di un processo essenziale che sta trasformando il volto del mondo.

Assistiamo alla messa in discussione della gerarchia di un ordine internazionale ancora dominato dalle potenze occidentali e al crescente rifiuto da parte di molti Stati del Sud di allinearsi sistematicamente agli interessi e alle posizioni di queste ultime in molti ambiti (economia, commercio, negoziati multilaterali, crisi geopolitiche). In alcuni Paesi stanno emergendo nuovi approcci alla politica estera e alle alleanze geopolitiche, come il concetto di “multiallineamento” in India o, per i Paesi dell’America Latina, la nozione di “non allineamento attivo”. Possiamo anche notare che gli Stati che sfidano l’egemonia occidentale, come l’Arabia Saudita, il Brasile e la Turchia, si stanno affermando sulla scena internazionale. Tutti questi sviluppi globali dovrebbero incoraggiare i leader dell’Unione Europea a ripensare le proprie relazioni con il resto del mondo – gli Stati Uniti e i Paesi del Sud – e a ridefinire i propri interessi, in un mondo in cui la sua influenza geopolitica sembra diminuire a ogni nuova crisi dell’ordine internazionale.

Le guerre in Ucraina e a Gaza confermano quindi l’esistenza di un processo in corso noto come “de-occidentalizzazione” del mondo – in altre parole, la graduale erosione dei valori, del potere e dell’influenza proclamati dei Paesi occidentali.

Il ricorso del Sudafrica alla Corte internazionale di giustizia contro lo Stato di Israele, accusato di “atti di genocidio contro il popolo palestinese a Gaza”, per chiedere misure cautelari, è un’illustrazione di questo punto di svolta nel mondo e del desiderio degli Stati del Sud di avere un’influenza sugli sviluppi internazionali. Tuttavia, l’espressione “Sud globale” non ci sembra appropriata, date le numerose rivalità e controversie tra questi Stati. All’interno dei BRICS+, ad esempio, India e Cina o Iran, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti non hanno né gli stessi programmi né gli stessi obiettivi. Inoltre, questo concetto può essere utilizzato per sostenere interpretazioni ideologiche contraddittorie. Per alcuni, si riferisce a un gruppo di Paesi non allineati o contrari alla dominazione occidentale, le cui azioni, con la loro sola esistenza, avrebbero un impatto positivo sul cambiamento globale. Per altri, segnala la minaccia rappresentata dall’emergere di una coalizione di risentimento dominata dalla Cina – e, in misura minore, dalla Russia – contro queste potenze occidentali. Ecco perché la sua rilevanza deve essere messa in prospettiva. Infatti, con i suoi contorni approssimativi, la nozione di “Sud globale” oscura la complessità e la natura trasversale delle relazioni contraddittorie e ambivalenti tra Paesi del Nord e del Sud. Tende a ridurre il campo delle relazioni internazionali a una demarcazione Nord/Sud che non regge all’analisi della volatilità della situazione internazionale e della fluttuazione/diluizione di blocchi e/o alleanze stabili.

In un simile contesto, nulla sarebbe più pericoloso che cedere alle sirene del “campismo”. Questo termine ha una storia e si riferisce al periodo della Guerra Fredda. In origine si riferiva a coloro che, soprattutto tra le forze legate ai partiti comunisti dell’epoca, si allineavano con l’URSS quando quest’ultima sosteneva di sostenere le lotte antimperialiste nell’ambito della sua rivalità con gli Stati Uniti. Oggi, significa allinearsi con questo o quel Paese con il pretesto che è soggetto a pressioni – sanzioni, embarghi, leggi extraterritoriali – da parte dell’imperialismo statunitense. Come spiega giustamente Gilbert Achcar, si è passati da una logica di “il nemico del mio amico (l’URSS) è mio nemico” a una di “il nemico del mio nemico (gli Stati Uniti) è mio amico”. Questo non è certo un modo soddisfacente di affrontare le complessità di un mondo apolare. La controparte di questa posizione è il campismo inverso dettato dalle potenze occidentali. L’idea è quella di stabilire una percezione secondo la quale il futuro del mondo si giocherebbe in una lotta tra “democrazie” e “autocrazie”, l’asse strutturante delle relazioni internazionali tradotto in un confronto tra Paesi “liberali” e “illiberali”. Questa scorciatoia ideologica ci impone di scegliere da che parte stare secondo una griglia di lettura semplicistica, moraleggiante, strumentalizzata e artificiosa, che non sembra affatto efficace.

A titolo di conclusione temporanea

Come tutti i processi, quello della de-occidentalizzazione del mondo è un concetto dialettico con una prospettiva a lungo termine. Per i suoi sostenitori, ci invita ad aggiornare e rivisitare i contorni del rapporto tra ” Occidente e resto “. Per questo è più che mai necessario riflettere e discutere su questo concetto e sulle realtà che copre, per coglierne i punti di appoggio, ma anche le contraddizioni e i limiti. Così facendo, potremo comprendere meglio come si stanno evolvendo le relazioni e gli equilibri di potere tra i Paesi occidentali e quelli del Sud in un mondo in cui, se da un lato questi ultimi sono impegnati in una lotta senza precedenti per l’influenza, dall’altro nessuno di loro sembra proporre alternative all’attuale ordine internazionale in crisi e al suo modo di produzione economica dominante.

Il mondo moderno è noioso, di AURELIEN

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Il 21 luglio 1969, verso l’alba , andai finalmente a letto. Dovevo alzarmi qualche ora dopo per andare a scuola, ma era la fine del trimestre, gli esami erano finiti e c’era poco da fare se non oziare. Ricordo di essermi appisolato su una sedia a sdraio guardando una partita di cricket tra il personale e gli alunni. Ma nessuno parlava di cricket. C’era un solo argomento di conversazione: sei rimasto sveglio per vedere Armstrong uscire dal modulo lunare? La maggior parte di noi lo aveva fatto.

Per molti versi questo non è sorprendente. Se eravate nati nei dieci anni successivi alla guerra, e soprattutto se eravate maschi, facevate parte della Space Generation. La promessa di viaggi nello spazio era parte della conversazione quotidiana e un tema ricorrente nei media da sempre. E nello spazio succedeva qualcosa di eccitante più o meno ogni anno: gli sbarchi dell’Apollo, lungi dall’essere una sorpresa, sembravano solo il logico passo successivo. (In retrospettiva, però, è forse più giusto descriverli come la fine dell’era spaziale, anche se non per le ragioni piuttosto facili per cui spesso vengono espressi giudizi di questo tipo).

Tuttavia, la data chiave nella storia dell’esplorazione spaziale non è stata probabilmente quel giorno del luglio 1969, bensì il 12 aprile 1961, quando Yuri Gagarin divenne “il primo uomo nello spazio”: il primo fragile essere umano a essere inviato al di fuori dell’atmosfera protettiva della Terra – in un ambiente di cui, rispetto a oggi, non si sapeva quasi nulla – e per di più a essere riportato indietro sano e salvo. Ricordo ancora molto chiaramente mia madre che portava il giornale del mattino e lo metteva sul tavolo della colazione davanti al figlio maggiore appassionato di spazio. A quel punto il mondo cambiò: anche in un sudicio sobborgo londinese, le cose sembravano più luminose.

Perché scrivo ora di questi ricordi? Se seguite con attenzione i notiziari, avrete notato che negli ultimi dieci giorni circa i cinesi hanno inviato una navicella senza equipaggio, la Chang’e 6, per raccogliere alcune rocce sul lato più lontano della Luna e riportarle sulla Terra, e che finalmente, dopo molti ritardi, gli Stati Uniti sono riusciti di nuovo a lanciare una coppia di astronauti nello spazio e a consegnarli alla Stazione Spaziale Internazionale, con solo piccoli problemi tecnici lungo il percorso. Rispetto al 1969, quando la BBC non trasmise nient’altro per ben dodici ore, la copertura di questi due eventi recenti è stata sommersa dal mare di banalità e di schiuma che oggi costituisce in gran parte i media online. I commentatori hanno parlato della minaccia tecnologica cinese all’Occidente e hanno scherzato sul fatto che una navicella spaziale prodotta dalla Boeing è arrivata senza che uno sportello si staccasse. Nessuno ha dedicato molto tempo a parlare dei risultati tecnici o umani raggiunti.

Perché questa differenza? Sarebbe facile dire che i voli spaziali sono diventati una routine, ma non è del tutto vero: il programma Shuttle, ad esempio, è stato interrotto nel 2011, dopo aver effettuato solo 4-5 voli all’anno per trent’anni. È vero che l’esplorazione spaziale si è spenta decenni fa, ma l’entusiasmo e l’interesse del pubblico non si sono mai basati su questioni ristrette di competizione politica. No, la vera storia è più interessante ed è a sua volta parte di una narrazione più ampia e a lungo termine che coinvolge anche altri argomenti. Ma tutti questi argomenti hanno due componenti in comune: l’avventura e la sfida tecnica, nessuna delle quali è più presente.

Rimaniamo però per un momento sui viaggi spaziali. La caratteristica principale di queste prime missioni è che erano follemente pericolose. Gagarin fu lanciato in cima a un razzo che aveva subito diversi guasti durante i test, con una tecnologia non sperimentata per tenerlo in vita. Nessuno sapeva quale sarebbe stata la reazione del corpo umano a un’accelerazione massiccia o a un’assenza di peso prolungata. Diverse cose andarono storte durante la missione e, alla fine, Gagarin dovette lanciarsi con il paracadute dalla capsula e atterrare senza aiuto, perché i retrorazzi montati sulla capsula erano così poco potenti che l’impatto con il suolo sarebbe stato più forte di quanto un essere umano potesse sopravvivere. In realtà, non ne producono più di simili. E se la tecnologia e la conoscenza dello spazio esterno progredirono rapidamente, i viaggi nello spazio erano ancora incredibilmente pericolosi, come ci ha ricordato l’Apollo XIII.

Credo quindi che sia utile collocare l’era spaziale, in cui sono cresciuto, nel contesto più ampio del mondo del dopoguerra e del tipo di conquiste che ne facevano parte. Dopo tutto, l’era spaziale in sé è stata breve: è durata probabilmente solo dal lancio dello Sputnik 1 nel 1957 alla fine del programma Apollo nel 1972. È durata più a lungo nella narrativa e nella cultura popolare, come discuteremo più avanti, ma anche in questo caso direi che c’è una differenza fondamentale tra ciò che è stato scritto e prodotto prima dell’Apollo e ciò che è venuto dopo.

Cos’altro succedeva all’epoca? L’elenco è lungo. Il primo computer programmabile apparve nel 1945 e un decennio dopo i computer mainframe si diffusero. Il primo volo per infrangere la barriera del suono, compiuto da Chuck Yeager, risale al 1947. La prima scalata dell’Everest da parte di Hilary e Tensing risale al 1953, nello stesso anno in cui Watson e Crick scoprirono il DNA. Il primo vaccino contro la poliomielite fu autorizzato nel 1955. La prima centrale nucleare commerciale al mondo, in Gran Bretagna, entra in funzione nel 1956. Il primo servizio di linea di jet attraverso l’Atlantico, effettuato dal Comet di progettazione britannica, risale al 1958, lo stesso anno del primo transito sottomarino del Polo Nord. Nel 1962, il satellite Telstar trasmette i primi programmi televisivi via satellite. La prima persona a navigare intorno al mondo in solitaria, Francis Chichester, lo fece nel 1966.

Inoltre, il mondo si stava aprendo agli occidentali come mai prima. Come si diceva all’epoca, si sapeva meno del mondo marino a dieci braccia di profondità che del lato più lontano della Luna. La situazione cambiò radicalmente negli anni Cinquanta, con i film e poi le trasmissioni televisive di subacquei pionieri come Hans Haas e Jacques Cousteau. Nel frattempo, David Attenborough scomparve nelle giungle del Borneo e altrove con una squadra di telecamere, realizzando la pluripremiata serie televisivaZoo Quest dal 1954 al 1963.

In tutto questo, c’era un’atmosfera di avventura, eccitazione e talvolta di pericolo. Anche gli scienziati erano figure individuali e nominate, che lavoravano in piccoli laboratori e facevano scoperte grazie alla genialità intellettuale e al duro lavoro, piuttosto che perché avevano alle spalle le risorse dei governi o delle case farmaceutiche. Ma questo non significa che l’epoca venerasse la scienza in sé o che pensasse che il trionfo della tecnologia fosse inevitabile. Ciò che colpisce, piuttosto, è quanto primitiva, rischiosa e incerta fosse la maggior parte della tecnologia, e quanto si affidasse all’ingegno e al coraggio dell’uomo prima di funzionare davvero, ammesso che funzionasse. Come ci ricorda utilmenteil filmato dell’Apollo XIII , la tecnologia di allora era straordinariamente primitiva: in realtà si trattava solo di uno sviluppo della tecnologia degli anni della guerra, l’equivalente della traversata atlantica di Alcock e Brown in un bombardiere riconvertito nel 1919. Ma anche questa era migliore della tecnologia usata da Gagarin, che era relativamente primitiva quanto quella usata da Blériot per attraversare la Manica nel 1909.

E non era nemmeno chiaro se sarebbe stato sicuro o consigliabile per gli esseri umani andare nello spazio: cosa avrebbero potuto trovare lì? Una serie di serie televisive in bianco e nero della BBC, ormai dimenticate, dei primi anni Sessanta, come A for Andromeda (1961), scritta dall’astronomo Fred Hoyle, e The Big Pull (1962), che utilizzavano entrambe la nuova tecnologia dei radiotelescopi con un effetto agghiacciante, suggerivano che lassù potevano esserci cose che non ci piacevano.

In quegli anni, quindi, si celebrava il coraggio, l’intraprendenza e l’ingegno dell’uomo di fronte al pericolo e all’ignoto. L’osservazione del Presidente Kennedy sul fare le cose perché erano difficili si è rivelata avere ogni sorta di risonanza inaspettata e contrasta dolorosamente con la politica di oggi, dove l’idea è quella di annunciare solo le cose che si sa di poter fare e che preferibilmente si sono già fatte. Naturalmente c’è un problema strutturale con la scoperta e l’invenzione: una volta che è stata fatta per la prima volta, la gente perde interesse. Chi, dopo tutto, ricorda il nome della seconda persona che ha raggiunto la vetta dell’Everest? In un certo senso, quindi, quello che sto descrivendo è inevitabile e rappresenta la fine, dopo forse cinquecento anni, della nostra civiltà che fa cose insolite, difficili ed eroiche. Ma perché questo dovrebbe valere anche per la cultura di oggi che, in questo come in tante altre cose, si limita a sminuire il passato per ottenere vantaggi economici?

Se c’è un’opera di cultura popolare che rappresenta la fine dell’era spaziale seria, questa è probabilmente Guerre stellari, che allo stesso tempo saccheggia la cultura popolare di diverse civiltà alla ricerca di pepite e cliché che incastra con scarso riguardo per la coerenza del carattere della narrazione, e contemporaneamente adotta un atteggiamento postmodernista di distanza e superiorità nei confronti del suo materiale. È tutto un grande scherzo concettuale: non un film sull’eroismo, ma un film sui film sull’eroismo, a loro volta realizzati in tempi in cui l’eroismo era una cosa reale. Guerre stellari è ovviamente un’allegoria del Vietnam a parti invertite, ma soprattutto è il prototipo del film post-Età dello Spazio, che non si preoccupa più di tentare la verosimiglianza, perché gli eventi che descrive – civiltà galattiche e così via – non accadranno mai. Perché preoccuparsi di creare una storia convincente e una trama e dei personaggi coerenti per una fantasia per bambini e per adulti?

La disillusione nei confronti dei viaggi spaziali con equipaggio è stata rapida e totale. Tutto si è rivelato molto più difficile, complesso e costoso di quanto ci si aspettasse. Beh, dico “chiunque”, ma gli ingegneri e gli scienziati, i medici e i matematici che lavoravano al volo spaziale con equipaggio non avevano bisogno di essere convinti: lo sapevano già. Erano gli opinionisti dei media, il tipo di persone che ora credono che l'”intelligenza artificiale” salverà il mondo, proprio come un tempo credevano che il cibo geneticamente modificato e una dozzina di altre cose lo avrebbero fatto. Ora c’erano, ovviamente, opzioni reali per andare più lontano nello spazio. Prima ancora che Gagarin volasse, c’era il folle Progetto Orione, che avrebbe inviato astronavi alimentate da esplosioni nucleari intorno al sistema solare. E anche mentre si girava Guerre stellari, la venerabile Società Interplanetaria Britannica stava conducendo il suo Progetto Dedalo, che dimostrava, in modo abbastanza convincente, che un viaggio interstellare limitato era effettivamente fattibile con la tecnologia dell’epoca. Ma ovviamente tali viaggi sarebbero stati inimmaginabilmente costosi e complessi da pianificare e condurre, e non facciamo più questo genere di cose. Anzi, non facciamo più molto di niente. La concezione barocca ed estremamente complessa del Progetto Artemis, progettato per riportare gli astronauti statunitensi sulla Luna nel 2026, è tale perché i razzi oggi disponibili sono meno potenti del Saturn V usato dall’Apollo, e quindi richiedono una sosta di rifornimento nello spazio, e utilizzano tecnologie che in alcuni casi non sono ancora state sviluppate.

E naturalmente non ci occupiamo di eroi al giorno d’oggi. Non solo tutte le cose eroiche sono state fatte, ma l’eroismo stesso è stato decostruito come nient’altro che mascolinità tossica, a quanto pare, e gli storici hanno lavorato in modo cupo e metodico attraverso i presunti eventi eroici e impegnativi della storia moderna, riducendoli tutti a competizione economica o a persone con difetti caratteriali. Le biografie di questi tempi sono incentrate sulle vittime, non sugli eroi, e i biografi sono impegnati a decostruire criticamente le vite di coloro che un tempo ritenevamo eroi e l’idea stessa di eroismo. (Tra l’altro, quasi tutti gli scritti sui conflitti oggi si concentrano su vittime vere o presunte). Questo non significa che il bisogno di eroi in cui identificarsi sia scomparso, ma piuttosto che è stato sublimato nella fantasia eroica e nei videogiochi che, per il momento, non sono dominati dalle vittime.

Neanche noi viviamo le avventure e il rischio è qualcosa che va evitato o gestito, non abbracciato. Chiediamo che noi, e soprattutto i nostri figli, siano protetti non solo dal rischio, ma anche da qualsiasi sensazione di essere in qualche modo insicuri. Eppure gli esseri umani desiderano il rischio e un certo grado di rischio lieve, o almeno di disagio, fa parte del rituale della crescita fin dalle prime civiltà. Al giorno d’oggi, però, è stato sublimato nelle nostre scelte di consumo: Sono sempre sorpreso dal numero di negozi che vendono abbigliamento e attrezzature “outdoor”, “avventura” e “alpinismo”, e dal numero di persone che vedo per strada vestite come per andare in spedizione, ma che in realtà stanno solo andando al supermercato. (Una storia vera: molti anni fa ero su un aereo diretto ad Arusha, in Tanzania, e molti dei passeggeri erano turisti tedeschi. Senza eccezioni, erano vestiti in completo kit tropicale, pantaloncini, calze lunghe, scarponi da montagna, cappelli. Se fossero stati ammessi i coltelli, li avrebbero portati con sé. Sembravano un po’ sorpresi di sbarcare in un aeroporto convenzionale e non nel mezzo della savana africana). E non parliamo poi delle Toyota scure che si vedono a volte, con i conducenti che fantasticano di essere portati in giro per Baghdad o Sana’a con una scorta armata.

Come ho detto, è facile enfatizzare troppo la misura in cui a quei tempi ci veniva promesso un futuro tecnologico paradisiaco. Le auto volanti, le vacanze sulla Luna e così via comparivano nella cultura popolare, ma si trattava di pubblicità per aziende che cercavano di fare soldi, di blaterare ignorantemente da parte del tipo di giornalista che oggi blatera ignorantemente di IA che salverà il mondo, oppure di amplificazioni da parte di scienziati e ingegneri un po’ slegati dalla realtà. Gran parte di ciò che ricordo è stato presentato con cautela come “possibile un giorno” piuttosto che come “in procinto di arrivare mercoledì prossimo”.

Ma c’erano anche ragioni abbastanza logiche per supporre che la tecnologia avrebbe continuato a semplificare la vita delle persone, come stava facendo da decenni. E non stiamo parlando di vacanze sulla Luna, ma della vita quotidiana. La vita delle famiglie comuni è stata trasformata da invenzioni semplici come la lavatrice e il frigorifero, che hanno liberato soprattutto le madri da molte fatiche. I primi telefoni hanno semplificato enormemente la vita. La radio e poi la televisione misero la gente comune in contatto con una realtà mai immaginata prima. La metropolitana mi ha permesso da bambino di raggiungere il centro di Londra in mezz’ora (allora i bambini potevano fare queste cose). Sembrava che ci fossero tutte le ragioni per supporre che esempi semplici e pragmatici di uso intelligente della tecnologia avrebbero continuato a migliorare la vita della gente comune.

Non è successo, ovviamente. Non sto parlando di lamentele del tipo “dov’è la mia auto volante?”. Promesse del genere sono sempre state alimentate da appassionati marginali. La lamentela di base è che la tecnologia, lungi dal facilitare la vita ordinaria, l’ha resa più difficile. Per vivere è necessario avere un computer a casa e, sempre più spesso, uno smartphone con sé. E mentre i telefoni venivano forniti gratuitamente e la tecnologia cambiava solo lentamente, e persino il prototipo di computer internet francese Minitel veniva regalato negli anni ’80, la tecnologia moderna è costosa, sfruttata e deve essere aggiornata continuamente. Non è più possibile entrare nella banca locale e parlare con qualcuno. È frequente parlare con persone del servizio pubblico che spiegano di non potervi aiutare perché il sistema non lo consente. Per parcheggiare un’auto ora è necessario scaricare un’applicazione, creare un account e versare denaro, il che è molto divertente se in quel momento piove. Ma soprattutto, invece di usare la tecnologia per aiutare i propri clienti, le aziende private l’hanno usata per sostituire gli esseri umani, scaricando gran parte dello sforzo sul cliente, il tutto per aumentare i profitti. Credo che se cinquant’anni fa avessero detto alle persone che l’uso diffuso della tecnologia avrebbe reso la loro vita più difficile, frustrante e costosa, avrebbero riso increduli.

Non si tratta quindi solo, o addirittura principalmente, di auto volanti: si tratta dei cambiamenti politici che si sono verificati più o meno dalla fine del programma Apollo, trasformando la tecnologia da bene pubblico a scopo di profitto privato. Non doveva essere così, e se guardiamo in giro per il mondo, possiamo vedere esempi di Stati in cui la tecnologia è ancora in qualche misura considerata uno strumento e non un padrone: nella costruzione di ferrovie ad alta velocità, di edifici e città ecocompatibili, nell’uso della tecnologia e di Internet per semplificare la vita quotidiana, e in molte altre cose. Ma in Occidente non lo facciamo più…

Non c’è dubbio che, nonostante le enormi sfide tecniche e finanziarie, i governi occidentali avrebbero potuto fare di più per far progredire l’esplorazione spaziale se avessero davvero voluto, invece di consegnare i soldi alle banche perché ci giocassero alla roulette, per poi mandarli in rovina quando sono finiti sul lastrico a causa della loro stessa stupidità. Invece, è apparso subito chiaro che lo sviluppo tecnologico, l’avventura e la scoperta erano stati cancellati, a favore della cannibalizzazione di ciò che era già stato fatto e dello sviluppo di nuove tecnologie di sfruttamento. Ciò ha prodotto un effetto quasi immediato nella cultura popolare, in quanto la tecnologia ha iniziato a essere ribattezzata come qualcosa di sinistro e spaventoso, più orientato alla repressione che alla liberazione. Già nel film del 1979 La sindrome della Cina, la tecnologia nelle mani del settore privato cominciò a perdere il suo splendore. Nelle opere Cyberpunk di autori come William Gibson, in particolare il suo primo romanzo Neuromante (1984), vediamo una versione pienamente elaborata della distopia tecnologica del futuro prossimo, con la tecnologia usata solo per scopi repressivi e di guadagno: più o meno come nel classico film di Ridley Scott del 1982 ,Blade Runner. Da allora, questa è l’atmosfera dominante nella cultura popolare adulta. (Escludo implicitamente i film diStar Wars, Star Trek e i film di supereroi da questo giudizio. Sono per bambini).

I viaggi spaziali, come ho detto, sono sempre stati soprattutto un simbolo di avventura e di ingegno, piuttosto che un insieme di tecnologie intelligenti, e l’abbandono di programmi spaziali seri è stato a sua volta un simbolo dell’allontanamento dall’avventura e dall’ingegno verso il tipo di mondo parassitario e sfruttatore e le relative tecnologie che abbiamo oggi. I critici dell’epoca dissero che “avremmo dovuto risolvere i nostri problemi sulla Terra prima di andare tra le stelle”, il che era falso, perché in realtà non c’era alcuna prospettiva di risolvere quei problemi. Ma non credo che nessuno abbia mai osato dire “smettiamo di guardare le stelle, ma non preoccupiamoci nemmeno dei problemi del mondo. Diamo tutti i soldi ai ricchi”.

La mia generazione è stata affascinata dai viaggi nello spazio non tanto per motivi tecnologici, poiché gran parte della tecnologia era semplicemente al di là della nostra comprensione, quanto per le possibilità narrative, mitiche e persino filosofiche aperte dal futuro del nostro pianeta o dal contatto con altri. È questo, a mio avviso, che la cultura popolare ha in gran parte perso. Non seguo la nuova fantascienza con l’assiduità di un tempo e quindi i lettori più giovani potrebbero pensare che io sia ingiusto nei confronti di alcuni dei loro autori preferiti. In tal caso, ditelo nei commenti: è sempre bello scoprire nuovi autori. Ma il luogo comune secondo cui la fantascienza produce un “senso di meraviglia”, che esisteva ancora ai tempi dell’Apollo, oggi è sostanzialmente scomparso: al suo posto c’è forse un senso di terrore.

La cultura popolare, anche solo cinquant’anni fa, non aveva difficoltà a immaginare futuri sostanzialmente diversi dal nostro e a giocare in modo interessante con le conseguenze. Per esempio, il film di Alexander Korda Cose che verranno (1936) era forse l’epitome del futuro come parabola, un dramma didattico sull’ascesa di uno Stato mondiale tecnologico. Questi autori non avevano difficoltà a immaginare un mondo migliore del nostro, non perché vedessero la tecnologia come una forza inarrestabile per il bene (Wells, dopo tutto, scrisse di bombe atomiche e guerre distruttive), ma perché credevano nella possibilità che gli esseri umani potessero effettivamente costruire un mondo migliore se si fossero impegnati. Non avevano necessariamente torto: per chi leggeva il romanzo di Morris nel 1890, il mondo del 1969, con i suoi servizi igienici, i suoi vaccini, i suoi bagni interni, la sua istruzione e la sua assistenza sanitaria gratuite, sarebbe sembrato una vera e propria utopia.

Questo non è il modo dominante di scrivere sul futuro oggi, dove non solo è difficile immaginare un futuro migliore, ma è difficile persino immaginarne uno diverso. La maggior parte dei romanzi e dei film di fantascienza assecondano i gusti del momento e descrivono mondi che sono molto vicini al nostro, anche se sono nozionalmente nel futuro. O sono, in linea di massima, una leggera estensione delle società occidentali moderne e progressiste, o sono distopie che presentano tutto ciò che tali società temono. Parte dell’attrattiva della fantascienza del passato, tuttavia, consisteva nel fatto che era disposta a considerare almeno la possibilità di società molto diverse dalla nostra, anche se spesso basate su un’estrapolazione delle tendenze esistenti. A volte questo avveniva a scopo satirico, come nei romanzi di Frederick Pohl e CM Kornbluth, altre volte più seriamente, come quando Robert Heinlein si è chiesto come sarebbe stata e come avrebbe funzionato una società futura basata, come l’antica Atene, sulla cittadinanza in cambio del servizio militare. Oggi sarebbe insolito trovare qualcosa di altrettanto avventuroso.

In effetti, l’avventurosità delle idee nella fantascienza classica era spesso un punto di forza rispetto alla caratterizzazione dei personaggi: non è insolito per una forma d’arte che è essa stessa una sorta di mitologia. Così, le prime riviste di SF scelsero deliberatamente titoli come Astounding e Thrilling Wonder Stories per sottolineare la loro differenza dalla narrativa comune. Probabilmente non è una coincidenza che il boom della SF sia iniziato proprio quando l’Africa, di cui fino agli anni Ottanta del XIX secolo si sapeva ben poco in Occidente, cominciava a perdere il suo tradizionale status di luogo di meravigliose avventure immaginarie.

Non sorprende che alcuni scrittori di talento abbiano usato gli orpelli della fantascienza solo come cornice per storie che coinvolgono il simbolismo e la filosofia. La “scienza” in Un viaggio ad Arturodi David Lindsay non è altro che un espediente superficiale della trama, e il sistema solare della Trilogia cosmicadi CS Lewis( ) deve molto di più alla cosmologiamedievale che alle scoperte moderne, anche se, a onor del vero, tenta di mostrare gli effetti della bassa gravità su Marte, per esempio. In ogni caso, la “scienza” è secondaria rispetto alla storia mitologica straordinariamente avventurosa e fantasiosa, che non ci aspetteremmo di vedere oggi.

Ma entrambi i libri dimostrano la virtù fondamentale della fantascienza come genere: a differenza del fantasy, può presentarci mondi plausibili molto diversi dal nostro e farci riflettere sulle conseguenze politiche, morali e persino spirituali. Né Lindsay né Lewis erano scienziati, ma James Blish (1921-75) sì. Come scrittore, Blish non poteva che essere avventuroso: le sue storie “Okie” su intere città che vagano per la Galassia, fortemente influenzate dalle teorie di Oswald Spengler, si concludono con la creazione di un nuovo universo. Aveva un forte interesse per la metafisica e la religione, e il suo capolavoro, Un caso di coscienza (1959), riguarda un prete gesuita, membro di una spedizione scientifica su un pianeta che sembra essere un’utopia, ma i cui abitanti apparentemente non hanno religione. (A sua volta, il libro faceva parte di una trilogia libera , After Such Knowledge, che, ispirandosi alla citazione di TS Eliot, si chiedeva se la ricerca della conoscenza fine a se stessa non potesse portare al disastro. (Gli altri due libri erano Doctor Mirabilis, sulla vita di Ruggero Bacone, e un romanzo in due parti su un moderno demonologo e la conoscenza proibita. Niente di più ambizioso).

Il che ci porta, attraverso una serie di altri interessanti racconti e romanzi per i quali non c’è spazio in questa sede, alla figura di Philip K Dick (1928-82), che ha usato gli oggetti convenzionali della fantascienza pulp (navi spaziali, pistole a raggi) per occuparsi per decenni di questioni epistemologiche e ontologiche, prima di dedicarsi, nei suoi ultimi anni, alla scrittura di romanzi intrisi di teologia gnostica . Il suo romanzo più noto, se non il più tipico, L’uomo nell’alto castello (1962) prende il tropo convenzionale di una vittoria dell’Asse nella Seconda Guerra Mondiale, ma poi immagina, con dettagli allucinanti, una California dominata dai giapponesi, dove l’I Ching è consultato da tutti, e diventa, in effetti, un personaggio del romanzo stesso, se non la sua spiegazione.

La misura in cui la fine del programma Apollo e la conseguente fine dell’era spaziale abbiano contribuito a prosciugare l’ispirazione e il senso dell’avventura nella cultura occidentale in generale è qualcosa di difficile da dimostrare empiricamente, poiché implica giudizi di valore, ma a me sembra che sia in linea di massima così. È stata la fine dell’ultima frontiera e ha coinciso, e forse ha contribuito a produrre, il trionfo dell’approccio alla cultura orientato verso l’interno, postmoderno e decostruzionista, in cui l’arte era sempre più “sull’arte”, o “interrogava” l’arte, o qualsiasi altro dei fastidiosi cliché che ancora oggi, a distanza di cinquant’anni, compaiono nelle note di programma, come se ci fosse qualcosa di nuovo e audace in essi. Certo, nella narrativa tradizionale (Pynchon, Wallace, Calvino, Nabokov, Eco) e nel cinema (Tarantino, Christopher Nolan, persino i Monty Python e Woody Allen) ci sono eccellenti praticanti del genere come soggetto a sé stante, ma troppo spesso si tratta solo di una scusa per riscaldare per l’ennesima volta vecchi stereotipi, perché nessuno è in grado di proporre qualcosa di nuovo.

Abbiamo perso anche un’altra componente. C’è sempre stato un tipo di fantascienza (“hard” è la terminologia abituale) che si basa su leggi fisiche note e su una tecnologia realistica. Al suo meglio, questo tipo di opere ha una sorta di atmosfera classicista: una grande quantità di ingegno nel poco spazio di manovra disponibile. (Rispetto a serie come Star Trek dove, secondo chi ci ha lavorato, ogni volta che un buco nella trama richiedeva una nuova tecnologia, questa veniva semplicemente scritta nella sceneggiatura) .Mission of Gravity (1954) di Hal Clement è un esempio classico: la storia riguarda l’esplorazione di un pianeta in cui la gravità varia enormemente tra l’equatore e i poli, e le sfide che la spedizione deve risolvere. Non si tratta di una storia d’avventura in quanto tale, e ancor meno di una storia metafisica, ma di una sobria presentazione di professionisti esperti che usano la loro formazione e il loro ingegno per superare problemi pericolosi: un’altra forma culturale che oggi è in gran parte scomparsa, ma che era comune nei romanzi mainstream di autori come Neville Shute e Nigel Balchin, per esempio. Questa era la modalità dominante anche nella hard SF, spesso scritta da scienziati e ingegneri in un’epoca in cui queste professioni erano apprezzate più di quanto non lo siano oggi. Earthlight (1955) di Arthur C Clarke non è solo una presentazione realistica delle tensioni politiche tra una Terra futura e le sue colonie planetarie, ma contiene anche una descrizione rigorosamente scientifica (e molto vivida) di una battaglia spaziale, senza un cannone laser in vista. Ma naturalmente Clarke, che aveva già scritto il trascendente Childhood’s End (1953), ha poi co-scritto 2001 con Stanley Kubrick. Sembra che ci sia qualcosa nella fantascienza che desidera parlare di idee veramente grandi, in un modo che la narrativa tradizionale ha smesso di fare decenni fa.

Ma come può la cultura popolare affrontare una situazione in cui non ci sarà più alcuna esplorazione dello spazio profondo e in cui ci siamo rivoltati contro noi stessi e gli uni contro gli altri, invece di essere interessati alle avventure e agli eroi? Concludo citando tre scrittori con approcci diversi (voi potreste averne altri). Uno è Iain M. Banks(1954-2013), che ha effettivamente barato rendendo i suoi protagonisti umanoidi, ma non provenienti dalla Terra e quindi non soggetti alle stesse limitazioni culturali (sic). I suoi protagonisti – e questo è significativo, non sono veri e propri eroi – provengono da una Cultura post-scarsità (sic) in cui le Intelligenze Artificiali prendono la maggior parte delle decisioni e le risorse per i viaggi interstellari sono liberamente disponibili. Ma nonostante i migliori sforzi di Banks, come ho suggerito altrove, la Cultura appare come un luogo piuttosto noioso, un po’ come un parco giochi sicuro per i bambini, e i suoi cittadini devono uscire per trovare l’avventura e persino il senso della loro vita. (In sostanza, i libri della Cultura, per quanto divertenti da leggere e per quanto mi piacciano, sono versioni aggiornate delle storie d’avventura per bambini di CS Lewis, o anche di Enid Blyton).

Nel frattempo, Neal Asher (1961-), fornitore di un’esuberante space opera da crash-bang-wallop, ha scelto di ambientare le sue storie senza fiato in un universo anch’esso gestito da IA, e quindi privo di irritanti considerazioni sulla scarsità e sul conflitto. Anche in questo caso, si ha l’impressione che la vita sulla Terra debba essere piuttosto noiosa, ma fortunatamente ci sono alcune specie xenocide a disposizione per ravvivare un po’ le cose. Infine, Alastair Reynolds (1966-) si è specializzato in storie limitate ai principi fisici conosciuti, compresi i motori più lenti della luce, con trame complesse e spesso incentrate sui personaggi, che mostrano, ancora una volta, persone intraprendenti che incontrano e nella maggior parte dei casi superano pericoli e sfide.

Nessuno degli ultimi tre autori citati può essere definito “nuovo”: tutti hanno iniziato a pubblicare più di trent’anni fa, e tutti conoscono (conoscevano nel caso di Banks) e rispettano le convenzioni del passato. Le loro storie coinvolgono eroi, avventure e idee davvero grandi, oltre a problemi risolti con intelligenza e spesso con coraggio. (Sto cercando di pensare a qualche romanziere moderno mainstream degli ultimi anni di cui si possa dire altrettanto).

Ha importanza? Non siamo forse in una fase dell’evoluzione sociale in cui ci siamo lasciati alle spalle eroi, avventure e grandi idee? Forse, ma il problema è che il mondo stesso ha qualcosa da dire. Rispetto ai confortevoli anni Cinquanta e ai primi anni Sessanta, quando sono stati scritti la maggior parte dei libri discussi sopra, il mondo di oggi è pieno di pericoli senza precedenti: ambientali, sanitari, politici, economici e militari. Ma come società, siamo diventati chiusi e autofagici: l’attività principale durante la crisi di Covid è stata quella di trovare altri da incolpare. Non siamo più interessati alle grandi domande, se non attraverso best-seller transitori, abbiamo decostruito l’eroismo e cerchiamo solo il facsimile antisettico dell’avventura. Non apprezziamo più la conoscenza e la competenza, ma solo l’astuzia. La fine dell’era spaziale, nella cultura come nella realtà, ha segnato l’inizio di questo ripiegamento su se stessi. Se avessimo usato quell’energia così liberata per risolvere i problemi di questo mondo, sarebbe uno scambio ragionevole, ma in pratica abbiamo solo peggiorato i problemi e ora dobbiamo affrontarli, senza essere culturalmente attrezzati per farlo. Per quanto si possa giudicare dalle librerie, i nostri unici eroi oggi sono gli uomini d’affari e i banchieri, dato che tutti gli altri candidati sono stati decostruiti fino alla morte. Non credo che ci salveranno. “Peccato per la nazione che acclama il prepotente come eroe”, lamentava Kahil Gibran. Non riesco nemmeno a immaginare cosa avrebbe pensato dei miliardari come eroi.

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DEMOCRAZIA E CONSENSO, Teodoro Klitsche de la Grange

DEMOCRAZIA E CONSENSO

Lo scioglimento delle camere da parte di Macron ha suscitato in Italia reazioni difformi, accomunate da un misto di machiavellismo da bar ad un legalitarismo da parrocchia (non è obbligato….) e quindi non “si capisce perché l’ha fatto”.

La realtà è che Macron non ha della democrazia la concezione astratta e strumentale condivisa dalla sinistra italiana, ma soprattutto dal PD. Secondo la quale democratico è chi condivide una certa declinazione dell’idea tra le diverse possibili; ma soprattutto che, anche se il popolo ne condivide una diversa è dovere di chi governa infischiarsene della volontà popolare e seguire quell’ “idea”, respinta dalla maggioranza.

Non è così, grazie al cielo, in Francia (e, probabilmente nella maggior parte d’Europa): lì vale la regola che, anche se il popolo sbaglia, è obbligatorio osservarne direttive (e decisioni). Il governo democratico è, anzitutto un dominio della pubblica opinione “government by public opinion”. Come scriveva Schmitt, l’opinione pubblica è la forma moderna dell’acclamazione. Anche se non si lascia racchiudere (del tutto) in procedure formalizzate, al di là dello stesso contenuto legale delle decisioni (l’elezione dei rappresentanti al Parlamento europeo), questa devono orientare comportamenti e azione di governo.

Come scriveva Schmitt “I metodi legali possono scegliere solo un momento unico. In ogni caso, fa parte dell’essenza di una vera democrazia il fatto che il valore sintomatico delle elezioni e delle votazioni popolari venga legalmente rispettato” (il corsivo è mio). In questo contesto “Lo scioglimento, come già illustrato, deve essere considerato come una normale istituzione di questo sistema. Se esso deve avere un senso per il diritto costituzionale, deve valere proprio nel caso in cui la maggioranza parlamentare ha dato al governo un voto di fiducia. Il rapporto diretto con il popolo può essere allora ricercato contro la votazione di sfiducia della maggioranza parlamentare ed il popolo decide come terzo in più alto grado il conflitto sorto fra il governo e la rappresentanza popolare” (il corsivo è mio). Onde “Qui il potere di scioglimento è un mezzo necessario e normale di equilibrio e di appello democratico del popolo… si basi sulla chiara contrapposizione di due diverse opinioni ed il popolo approvi mediante una nuova elezione o il punto di vista del Reichstag o quello del governo del Reich e in questo modo decida il conflitto”. Per cui la ragione è chiara e conferma il principio di legittimità democratica: il popolo decide sul conflitto generato da una riduzione verticale del consenso del governo, in elezioni non-parlamentari (in quelle parlamentari il problema non si porrebbe).

Questa sensibilità verso l’orientamento dell’opinione pubblica, in particolare se confortato da dati reali non è solo di Macron. Anche un eroe nazionale come De Gaulle quando la sua proposta di riforma regionale fu sconfitta dal referendum, si ritirò a vita privata. Né ovviamente questa osservanza è solo francese.

Cosa sarebbe invece successo nella Repubblica italiana, in un caso del genere?

Sarebbe partita una colossale campagna di costruzione di un’opinione pubblica artificiale. Migliaia di talk show, milioni di likes, centinaia di intellettuali da industria culturale, concerti, feste di paese, marce e cortei a gogò. Comici a far lezione di diritto costituzionale (volontariamente); insegnanti di diritto costituzionale a fare (involontariamente) i comici. Tutti a osannare che la democrazia (di marca PD) è la migliore delle possibili, anzi è l’unica possibile; che chi sostiene il contrario è un nemico del popolo e soprattutto che, se il popolo si sbaglia è dovere degli illuminati rieducarlo. Per cui è dovere degli illuminati correggere la volontà popolare: un tempo con i gulag, oggi con metodi meno drastici.

In fondo a tale concezione c’è comunque il potenziale conflitto tra i diversi modi con cui si declina il ruolo del governo democratico: della nota triade per cui questo è il governo dal popolo, del popolo e per il popolo, le prime due espressioni vengono omesse ed offuscate, la terza ingigantita (a beneficio delle élite). Che poi i risultati di tanto zelo siano modesti o addirittura dannosi non vale a scalfire la fede nell’immaginazione di un mondo migliore, più buono, più giusto e anche più pulito.

Resta da vedere quanto possa essere forte (in senso politico) un governo che abbia un consenso modesto, e certificato come tale dall’esito delle elezioni. Credere che le classi politiche degli Stati esteri prendano sul serio un governo  carente di consenso è pensare di vivere nel paese dei balocchi: è chiaro che cercheranno di sfruttarne la debolezza a proprio beneficio, concedendo a quello il meno possibile per tenerlo in  vita quale interlocutore (per loro) ideale.

Perciò è meglio un Macron come in altri tempo, per la Francia fu Coty, che favorì la sostituzione di governi lontani dalla volontà popolare con uno che di quello era la compiuta espressione.

Iniziando un nuovo ciclo della politica e delle istituzioni francesi.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Il futuro del continente in gioco nelle elezioni europee, di Gladden Pappin

Il futuro del continente in gioco nelle elezioni europee

Le priorità dell’America First sono meglio servite da un rilancio della forza europea.

 

Europa è malata. Stremata da una guerra nel vicinato che non vede soluzione, affamata di una leadership disposta ad affrontare le sue sfide principali, l’Europa sta rapidamente diventando il “malato dell’Occidente”. Ma con le elezioni del Parlamento europeo che si svolgeranno da giovedì a domenica, gli elettori dei ventisette Stati membri dell’UE hanno la possibilità di essere l’atto iniziale nello sviluppo di un’Europa più forte che, a sua volta, sarebbe un partner migliore per l’America.

Negli ultimi anni, il consenso “atlantista” a lungo regnante, basato sull’allineamento degli interessi tra Stati Uniti ed Europa, ha assunto forme sempre più insostenibili. Spinta dalla militanza d’oltreoceano, l’Europa ha seguito un percorso bellico completamente dipendente dal sostegno militare americano, ma dagli esiti sempre più precari e incerti. Una politica di sanzioni è stata attuata con scarso riconoscimento dei suoi effetti sui cittadini comuni e i processi politici europei mostrano scarsa propensione al dibattito pubblico su questioni strategiche.

Un programma “America First” non deve necessariamente essere in contrasto con un’Europa più sovrana e autosufficiente. Anzi, possono essere complementari. Ma come arrivarci dipende dagli sviluppi europei nei prossimi mesi e da quelli americani in seguito. A che punto è la situazione?

Gli europei comuni si rendono conto che c’è qualcosa di profondamente sbagliato. Secondo l’ultimo sondaggio di Semafor, gli elettori di Francia e Germania hanno iniziato a dubitare dell’impegno degli Stati Uniti per la sicurezza europea. Tuttavia, questo sentimento non è bellicoso. Contrariamente ai politici europei mainstream, i cittadini dell’Europa occidentale sono favorevoli a una soluzione negoziata in Ucraina, ritengono che l’Europa debba essere maggiormente responsabile della propria difesa e sono favorevoli a un rapporto più equilibrato con gli Stati Uniti. Allo stesso modo, il 69% dei cittadini europei si oppone all’invio di truppe in Ucraina.

Questi punti di vista ordinari, tuttavia, non si riflettono a livello di politica europea. Invece, sempre più spesso, la malattia dell’Europa comincia ad assomigliare a una febbre. Lungi dall’indurre a riconsiderare la guerra, lo stato di stallo del conflitto ucraino ha solo spinto i leader europei a raddoppiare il loro impegno militare. La scorsa settimana, il presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato che l’Ucraina potrà utilizzare alcuni missili francesi per colpire obiettivi all’interno della Russia. Il segretario generale della NATO ha portato l’organizzazione vicino a superare le proprie linee rosse contro il coinvolgimento diretto nel conflitto.

La politica in Europa è ancora nazionale, ma le istituzioni di Bruxelles godono di un potere enorme. Questa disgiunzione ha causato una paralisi nella definizione del ruolo internazionale dell’Europa. Il “voto locale, con conseguenze internazionali non gestite” si è rivelato un evidente fallimento. Mentre le élite europee desiderano un “momento hamiltoniano” che possa trasformare l’Europa in un’entità politica unificata, in pratica intendono preferire le istituzioni europee isolate dall’insoddisfazione popolare.

Che cosa ha significato negli ultimi anni? Il coinvolgimento nel conflitto ucraino è stato adottato come un momento decisivo della politica europea, ma con un contributo minimo o nullo da parte dei cittadini europei. L’agenda verde favorita dalle élite di centro-sinistra è stata promossa dalla Commissione europea, di fatto l’organo di governo dell’Europa. Sono state avviate indagini sullo “Stato di diritto” contro l’Ungheria e, in passato, contro il governo conservatore polacco, rafforzando la politicizzazione delle istituzioni europee. La più recente svolta sovranista in Europa – il ritorno del primo ministro slovacco Robert Fico – ha provocato il più grave attentato politico europeo a memoria d’uomo. La conseguenza di tutte queste tendenze è stata un continente sull’orlo del declino economico, con istituzioni politicizzate e in calo di credibilità, un modello sociale distrutto dalla migrazione illegale incontrollata e un modello politico di grande fragilità.

L’Europa non ha molto tempo per iniziare a risolvere questo problema – e non può farlo da sola. Dopo aver subito le conseguenze di una politica migratoria disastrosa e aver subito il peso di una politica di sanzioni energetiche fallimentare, le riserve dell’Europa si stanno esaurendo. Manca anche il contesto istituzionale per risolvere questi problemi. A differenza della maggior parte dei parlamenti, il Parlamento europeo (PE) non propone nuove leggi, ma, nella struttura bizantina dell’UE, vota sulle politiche proposte dalla Commissione europea e dal Consiglio. Poiché l’appartenenza della Commissione è votata dal Parlamento europeo, i suoi effetti sulla definizione delle politiche europee sono indiretti ma reali.

Sotto la guida di Ursula von der Leyen, la Commissione ha rispecchiato un’agenda “centrista” nello stesso modo in cui il “centro” americano ha riflesso, nel tempo, un’agenda sempre più radicale. Come è giusto che sia, la Commissione von der Leyen è stata anche una fedele riproduttrice dell’agenda liberal-atlantista dello Stato profondo americano.

In questo caso, la possibilità di cambiamento si basa sull’inclinazione a destra del Parlamento europeo e sulla speranza che i partiti di destra possano unirsi e dare forma a una Commissione più conservatrice e reattiva. Al momento, il Parlamento europeo è dominato da un’alleanza tra i gruppi di centro-destra del PPE e di centro-sinistra S&D. Nelle ultime elezioni del 2019, tenutesi sulla scia della Brexit e della crisi migratoria, i partiti sovranisti sono cresciuti di forza. Ma la Commissione von der Leyen è stata infine eletta con un’alleanza “centrista” di centro-destra e centro-sinistra.

I sondaggi attuali indicano che l’esito probabile delle elezioni è un’inclinazione a destra. Ricucire i partiti e i gruppi partitici europei corrispondenti è un’altra questione: oltre al PPE, i gruppi partitici europei di destra, i Conservatori e Riformisti Europei (ECR) e Identità e Democrazia (ID), sono dominati rispettivamente da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni e dal Rassemblement National (RN) di Marine Le Pen. L’ID ha recentemente espulso dalle sue fila il partito tedesco AfD; anche in questo caso, le esigenze di politica interna potrebbero ostacolare le alleanze tra i partiti di destra. In Ungheria, il partito Fidesz di Viktor Orbán non è legato ad alcun raggruppamento di partiti e ha espresso l’intenzione di aderire all’ECR. Ma solo i risultati delle elezioni mostreranno quali combinazioni sono possibili.

Gli scettici americani sul coinvolgimento nel conflitto ucraino hanno talvolta gettato asperità sulla destra europea (in particolare sull’italiana Meloni) per non essere stata più coraggiosa nel sostenere una risoluzione rapida e pacifica del conflitto. Ma fino a quando l’Europa dipenderà fortemente dal sostegno esterno, sarà velleitario aspettarsi che la maggior parte dei politici europei si discosti dal consenso transatlantico. Una vera trasformazione della politica europea verso la ricerca di una soluzione pacifica richiede un cambio di leadership e lo sviluppo di una più forte capacità di difesa nazionale.

A prescindere da ciò che accadrà nelle elezioni, la capacità europea di perseguire i propri obiettivi di politica estera richiederà un delicato equilibrio da parte di qualsiasi corrispondente risorgenza conservatrice negli Stati Uniti. Il triste dato di fatto è che il dibattito europeo sul suo ruolo internazionale si è ridotto a uno stato molto degradato, con poche discussioni su questioni strategiche di guerra e di pace. In altre parole, l’Europa ha svuotato le proprie casse per sostenere lo sforzo militare dell’Ucraina senza alcun piano per la conclusione del conflitto. Quando i politici europei parlano come se avessero il vento in poppa, lo fanno sulla base del percepito sostegno americano e non sulla base della forza geopolitica dell’Europa.

Lo stato di necessità della difesa europea e i limiti della proiezione militare globale americana hanno spinto molti esponenti della destra americana a insistere su un ruolo maggiore dell’Europa nella propria autodifesa. Tuttavia, se un’amministrazione Trump dovesse perseguire questo approccio, dovrà favorire le condizioni necessarie affinché i leader politici europei identifichino gli interessi strategici europei e sviluppino modi per calcolare la natura della propria sicurezza e difesa. Non basterà semplicemente dire che l’Europa dovrebbe occuparsi della propria difesa. I conservatori americani dovranno aiutare direttamente le forze sovraniste europee a ripensare le priorità strategiche dell’Europa.

La natura sempre più militante del consenso transatlantico ha tuttavia ostacolato lo sviluppo di questa mentalità strategica in Europa. Attualmente, i politici europei perseguono volentieri il disaccoppiamento dai mercati energetici russi o cinesi se l’imperativo viene da Washington che lo richiede in nome della sicurezza occidentale.

In altre parole, le aspettative “realiste” americane non si realizzeranno per l’Europa se non si darà all’Europa la possibilità di definire i propri interessi e di avere le condizioni economiche e politiche necessarie per realizzarli.

Molti scettici americani dell’intervento si sono preoccupati del fatto che gli spostamenti a destra non abbiano portato a una riconsiderazione della guerra. Ma è difficile per un’Europa economicamente indebolita, militarmente sottosviluppata e socialmente lacerata sviluppare il quadro di una solida autodifesa. La guerra è costata finora all’Europa circa 100 miliardi di euro (gli Stati Uniti hanno contribuito con una cifra analoga), oltre a un costo di opportunità incalcolabile, dato che i prezzi dell’energia sono aumentati e gli affari e il commercio si sono esauriti.

Con Trump pronto a superare la candidatura di Biden alla Casa Bianca, il posto dell’Europa nell’alleanza occidentale sarà presto al centro della scena. Se Trump andrà al potere, il ruolo dell’America in Europa potrà essere gestito solo con la forte presenza di forze sovraniste in Europa.

L’agenda America First potrà affermarsi negli Stati Uniti solo se i patrioti europei avranno la possibilità di sostituire l’unipartito europeo con forze sovraniste intenzionate a definire e realizzare un percorso che abbia senso per l’Europa. Tale percorso sarebbe costruito su nazioni forti, un’economia interconnessa, un processo decisionale strategico e un nesso culturale ripristinato.

Nei prossimi giorni scopriremo quali sono le forze politiche che l’Europa ha a disposizione in questa lotta fondamentale.

Ripensamenti ai poli_ Con Max Bonelli, Ivan Santacroce, Alfio Krancic

Negli anni ’70 tra gli ambienti classicamente istituzionali, con la parziale eccezione del Partito Socialista, imperava nelle bocche e nella penna degli esponenti politici l’epiteto della “convergenza tra gli opposti estremismi”. Un vero e proprio anatema che intendeva esorcizzare ed accomunare due aree politiche in realtà ferocemente distinte e contrapposte in nome della difesa della democrazia nei proclami, degli assetti sostanziali di potere e delle alleanze internazionali nella sostanza. Un esorcismo che tendeva da una parte a disconoscere il ruolo politico di quelle due aree politiche, salvo contrattarne la partecipazione discreta, ma occasionale nelle varie contingenze, necessaria alla gestione delle costanti fibrillazioni interne agli schieramenti dominanti; dall’altra ad accomunare, quindi a screditare ed additare al pubblico ludibrio, le componenti più mature di ciascuno di quei due poli alle frange più distruttive e nichiliste del terrorismo, puntando il dito senza appello sulle pur esistenti zone d’ombra di contiguità, con il solo scopo di disconoscere le basi sociali e culturali di quei fenomeni e di quegli avvenimenti. Fatto ancora più rilevante, ad accomunare le componenti disposte ad assecondare le mire egemoniche degli stati egemoni all’epoca con quelle attente rispettivamente all’indipendenza nazionale e all’emancipazione sociale. Ci ha pensato il tempo ad evidenziare, comunque, i limiti e i paradossi di quelle realtà. Da circa dieci anni stiamo assistendo ad una riproposizione di questo esorcismo sotto l’egida della condanna del cosiddetto “sovranismo” e il ripudio delle formazioni politiche “rosso-brune”. I paladini sono, di fatto, gli epigoni di buona parte dello schieramento politico di quei tempi, ma con una adesione ancora più piatta e univoca all’atlantismo. Gli argomenti attuali, in realtà, a sostegno delle pratiche esorcistiche, sono molto più fragili. Il termine “sovranismo”, letteralmente non fa che riproporre l’importanza delle prerogative dello stato nelle dinamiche geopolitiche e nella gestione interna delle formazioni sociali. Un termine in realtà troppo generico per definire un programma politico unificante, ma il cui utilizzo come anatema rivela inconsapevolmente la postura dimessa e servile degli alfieri di tale narrazione. Nella realtà politica odierna emerge, però, una novità. Il tema dell’interesse nazionale, della sua definizione, della collocazione internazionale in una fase di incipiente multipolarismo sta portando effettivamente ad un avvio di dibattito comune tra aree un tempo acerrime avversarie ed incomunicabili. La contingenza delle elezioni politiche da adito al sospetto di operazioni affrettate ed opportunistiche che più volte hanno già portato ad esiti nefasti. Un tema appunto prettamente politico per il cui svolgimento e conseguimento gli stessi operatori economici, tra essi i tanto celebrati operatori della finanza, assumono un ruolo in primo luogo politico in condominio, piuttosto che in posizione di predominio, con gli altri attori. Qualche traccia di una sedimentazione più seria del dibattito politico-culturale si comincia a notare, anche se dannatamente in ritardo rispetto all’incalzare degli eventi. Determinata più che da dinamiche interne, dalla crescente uniformità politica, culturale e dalla conseguente sterilità e strumentalità degli argomenti della compagine degli esorcisti Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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IL RISVEGLIO DELL’ASIA E LA COSTRUZIONE DEL POLO ASIATICO, di Luigi Longo

 

IL RISVEGLIO DELL’ASIA E LA COSTRUZIONE DEL POLO ASIATICO

di Luigi Longo

 

 

L’attualità di Vladimir I. Lenin

 

A cento anni dalla morte di V.I. Lenin si può sostenere che l’attualità del suo pensiero e della sua azione sono ancora forieri di insegnamento per ripensare il passato, leggere il presente e orientarsi nel futuro.

Le questioni che sono ancora di grande attualità, a mio modo di vedere, possono essere così sintetizzate: 1) l’esempio storico del processo rivoluzionario (cambiare si può!) (1), 2) l’organizzazione delle masse popolari (la forma dell’organizzazione come condizione essenziale), 3) “la […] ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche” (il conflitto egemonico tra le potenze mondiali) (2), 4) il ruolo dell’Asia nella storia mondiale (la costruzione del polo asiatico).

Tratterò qui gli ultimi due punti partendo da alcune riflessioni tratte da due articoli di V.I. Lenin pubblicati sulla Pravda. Il primo è Il risveglio dell’Asia pubblicato il 7 maggio 1913 (dopo la rivoluzione democratica borghese del 1905); il secondo Meglio meno, ma meglio pubblicato il 4 marzo 1923 (dopo la rivoluzione proletaria del 1917) (3).

Riporto uno stralcio dall’articolo Il risveglio dell’Asia:<< E’ forse trascorso molto tempo da quando la Cina veniva considerata il modello dei paesi di completo e secolare ristagno? Ora in Cina ferve la vita politica, un movimento sociale e uno slancio democratico si manifestano vigorosamente. Dopo il movimento russo del 1905, la rivoluzione democratica si è estesa a tutta l’Asia: la Turchia, la Persia, la Cina. Cresce il fermento nell’India inglese. […] Il capitalismo mondiale e il movimento russo del 1905 hanno definitivamente risvegliato l’Asia. Centinaia di milioni di uomini, umiliati, abbruttiti da una stagnazione medievale, si sono destati a nuova vita e alla lotta per i diritti elementari dell’uomo, per la democrazia. […] Il risveglio dell’Asia e l’inizio della lotta del proletariato d’avanguardia d’Europa per il potere segnano l’aprirsi di un nuovo capitolo della storia mondiale agli albori del XX secolo >> (4).

Riprendo uno stralcio dall’articolo Meglio meno, ma meglio: << […] Le potenze capitaliste dell’Europa Occidentale […] hanno fatto tutto il possibile per respingerci indietro, per utilizzare gli elementi di guerra civile in Russia al fine di rovinare il più possibile il nostro paese. […] Ma vi è anche lo svantaggio che gli imperialisti sono riusciti a scindere tutto il mondo in due campi, e che inoltre questa scissione si complica per il fatto che la Germania, paese capitalistico effettivamente sviluppato e colto, incontra estreme difficoltà per rimettersi in piedi. Tutte le potenze capitaliste del cosiddetto Occidente la beccano e non la permettono di rialzarsi. […] Possiamo noi sperare che gli antagonismi e i conflitti interni fra i floridi Stati imperialisti dell’Occidente e i floridi Stati imperialisti dell’Oriente ci diano un periodo di tregua per la seconda volta come ce l’hanno dato la prima volta, allorché la campagna della controrivoluzione dell’Europa Occidentale, volta ad appoggiare la controrivoluzione russa, fallì a causa delle contraddizioni esistenti nel campo dei controrivoluzionari dell’Occidente e dell’Oriente, nel campo degli sfruttatori orientali e degli sfruttatori occidentali, nel campo del Giappone e dell’America? […] L’esito della lotta dipende, in ultima analisi, dal fatto che la Russia, l’India, la Cina, ecc., costituiscono l’enorme maggioranza della popolazione. Ed è appunto questa maggioranza che negli ultimi anni, con una rapidità mai vista, è entrata in lotta per la propria liberazione, sicché in questo senso non può sorgere ombra di dubbio sul risultato finale della lotta mondiale. In questo senso la vittoria definitiva del socialismo è senza dubbio pienamente assicurata. […] Affinché ci sia possibile resistere sino al prossimo conflitto armato tra l’Occidente controrivoluzionario imperialista e l’Oriente rivoluzionario e nazionalista, tra gli Stati più civili del mondo e gli Stati arretrati come quelli dell’Oriente, che peraltro costituiscono la maggioranza, è necessario che questa maggioranza faccia in tempo a diventare civile >> (5).

Noto che ci sono diverse analogie, di cui accennerò dopo, tenendo presente l’analisi sia dello storicamente dato sia del tutto torna ma in maniera diversa, riguardanti l’attuale fase storica mondiale caratterizzata dal conflitto tra la potenza egemone, ma in chiaro declino (USA) e le potenze consolidate (Cina e Russia) e in ascesa (India) che mettono in discussione il monocentrismo statunitense e propongono un multicentrismo dove le diverse potenze mondiali, con le loro alleanze e le loro aree di influenza (polo occidentale a coordinamento USA) e polo asiatico allargato (polo orientale con diversi centri di coordinamento, per ora Cina e Russia), trovano un equilibrio dinamico basato sul confronto, sul rispetto reciproco e sull’autodeterminazione dei popoli. La fase multicentrica è quella che evita la fase policentrica, cioè, la fase della guerra come resa dei conti per l’egemonia mondiale. E’ chiaro che sarà una guerra diversa dalla precedente e che potrebbe essere l’ultima del genere umano per il pericoloso livello tecnologico raggiunto con il nucleare e con le nuove tecnologie (vedi, per esempio, l’Intelligenza Artificiale, IA) sempre più piegate non al benessere della maggioranza delle popolazioni ma al mantenimento delle relazioni di potere e di dominio dei dominanti. Pertanto si pone la domanda: quale è il senso della produzione della scienza e della tecnologia? Per esempio << Se l’accelerazione del tempo umano, nel tentativo di imitare la velocità delle macchine, non rappresenta la migliore soluzione ed è, anzi, controindicata, che fare per non mutarci in appendici stupide di macchine intelligenti? I vantaggi nel trasferire il logos umano alle macchine sono però sempre più evidenti e tangibili. Basti pensare al caso, fra tanti, dei comandi di ordine linguistico per stampanti 3D (algoritmi, sequenze di comandi logici, che possono arrivare a milioni, scritti in linguaggi artificiali: l’analogo dei “pensieri ciechi”, leibnizianamente privi di coscienza), capaci di produrre direttamente l’oggetto fisico, una statua o una casa, senza altre mediazioni, abolendo così virtualmente sia la separazione tra lavoro mentale e manuale, sia quella tra arti liberali e arti meccaniche.>> oppure << Quando avremo vasta disponibilità di “schiavi” robotici e di congegni intelligenti e servizievoli, come si configureranno gli eventuali rapporti di dominio e di sudditanza tra uomini e apparati tecnici? Diventeremo davvero più ottusi a causa dell’abitudine ad appoggiarci a concetti preconfezionati, facilmente e gratuitamente accessibili in rete, grazie ad algoritmi incomprensibili ai più e spesso segreti?>> ancora << Negli esperimenti di simbiosi in corso tra uomo e macchine fornite di IA si avverte un duplice rischio: da un lato, che il logos umano – inteso sia come ragione, sia come linguaggio – venga sminuito dal prevalere del logos artificiale, rappresentato da algoritmi in grado di surrogarlo nell’esecuzione di molti lavori e prestazioni; dall’altro, che anche la volontà umana possa impoverirsi ed essere aggirata, una volta trasferita  in macchine capaci di prendere decisioni autonome e istantanee (sebbene prestabilite dagli umani), come già accade nell’automobile senza pilota e, in misura più preoccupante, nei sistemi missilistici d’arma, nei droni killer o negli algoritmi ultraveloci dei mercati finanziari>> (6).

Dicevo delle analogie presenti in questa fase multicentrica. La prima è quella con la lunga crisi del 1873-1895 che potremmo definire una fase multicentrica dove si incomincia a intravedere sia il declino della potenza dominante inglese sia l’ascesa della potenza USA la cui affermazione, come coordinatrice egemonica a livello mondiale (7), ha comportato due guerre mondiali (una lunga fase policentrica) e una “guerra fredda” durata quarantasei anni (1945, accordi di Yalta e 1991, implosione dell’URSS): << Venerdì 6 aprile 1917 gli Stati Uniti d’America, per bocca del loro presidente Woodrow Wilson, dichiarano guerra alla Germania (non ancora, però, agli alleati della Germania). Con l’ingresso nel conflitto degli Stati Uniti d’America, quindicesimo paese belligerante, si determina una cesura storica: anche se sul momento nessuno se ne rende conto, l’Europa comincia allora a ricorrere alla forza degli Stati Uniti d’America per risolvere i suoi conflitti. Il Novecento sarà il secolo dell’ascesa continua e inarrestabile della forza americana nel mondo, e questa ascesa inizia simbolicamente il 6 aprile 1917 >> (8).

La seconda è il risveglio dell’Asia (9): il ruolo della Cina e della Russia nell’aprire la strada per la messa in discussione del dominio statunitense con la costruzione del polo asiatico allargato che costituisce l’enorme maggioranza della popolazione. Prima di parlare del costruendo polo asiatico allargato attraverso un mio scritto leggermente modificato, voglio avanzare la seguente specificazione che riguarda il ruolo aggressivo e pericoloso degli Stati Uniti d’America che non accettano la condivisione del dominio mondiale con altre potenze, rimanendo, così facendo, nella fase multicentrica (così come è già accaduto nella storia mondiale) e, quindi, non avanzando verso la fase policentrica evitando, così, il tutto torna ma in maniera diversa, cioè la guerra tra potenze come resa dei conti per il dominio mondiale.

Gli USA hanno come elemento costitutivo quello di essere una nazione potenza indispensabile al mondo (10) per portare con la forza militare (11) il loro ordine e il loro modello di produzione e riproduzione complessivo della vita (valori, costumi, legame sociale, eccetera) senza considerare le diversità storiche, culturali, territoriali e i diversi modelli di organizzazione sociale delle altre nazioni. Quindi il problema non è solo quello che Pepe Escobar, rispondendo alla domanda “Pur di non perdere, gli USA cosa sono e saranno disposti a fare?”, afferma che: << E’ esattamente questo il nostro grande dilemma, è il dilemma di tutto il pianeta. Perchè abbiamo un attore razionale che è l’attore russo, come lo sono gli attori cinesi, come lo sono gli attori iraniani e – dall’altra parte – abbiamo psicopatici, lunatici, irrazionali di tutti i generi, in tutte queste organizzazioni del sistema di Washington, della Virginia, il complesso industriale militare, l’Accademia, i think tank … la loro è una visione completamente unilaterale, incapace di ammettere errori tattici e strategici enormi che hanno commesso fin dall’inizio del millennio. È questo il problema, adesso sono dei leoni che sono circondati e quindi sono molto più pericolosi. Questo è il vero nostro problema, quello della maggioranza globale, perchè questi leoni possono scatenarsi da un momento all’altro, sono una fazione irrazionale che non ha un calcolo politico, strategico, diplomatico, soprattutto la gente dentro l’amministrazione Biden che ha ancora 6 mesi di potere davanti a sé >> (12), ma il problema è, a mio avviso, nella natura stessa degli Stati Uniti d’America che così Alain Badiou sintetizza con efficacia:<< La potenza imperiale americana nella rappresentazione formale che fa di se stessa, ha la guerra come forma privilegiata, se non addirittura unica, di attestazione della sua esistenza.>> (13). Le continue azioni guerrafondaie statunitensi (tramite NATO e Unione Europea) in Europa Orientale, nel Medio Oriente, in Africa, in Asia, nell’America Latina lo stanno a dimostrare (14). Per queste ragioni gli Stati Uniti d’America sono una potenza pericolosa che va fermata e portata alla ragione di un multicentrismo di dialogo tra territori e mondi differenti, superando le difficoltà del dialogo tra l’Occidente e l’Oriente così ben racchiuse da Franco Cardini:<< E’ la dimensione del ponte tra Europa e Asia, la dimensione propriamente eurasiatica, a sfuggirci; è quell’Oriente “blocco territoriale” proposto dal Behemonth schmittiano contro l’Occidente inteso come Leviathan occidentale padrone di un sistema di acque e di terre, di oceani e di continenti, che si ha difficoltà a prendere in considerazione in quanto entrerebbe in conflitto con la più facile, diffusa, comoda, affermata visione di un Occidente “civile” contro un Oriente “barbaro”, di un Occidente “libero” contro un Oriente “tirannico”, di un Occidente “razionale” contro un Oriente “folle”, di un Occidente “pacifico” contro un Oriente “aggressore” (15).

 

La costruzione del polo asiatico*

 

Ritengo interessante la pubblicazione del documento** della Russia “Il concetto di politica estera della Federazione russa” perché indica la strada e gli strumenti (da intravedere nella logica del documento e da leggere con l’altusseriana lettura sintomale) (16) per la costruzione del polo asiatico allargato imperniato, per ora, su due grossi centri di grande valenza nella storia mondiale come la Russia e la Cina. La Russia ha decisamente cambiato le relazioni con l’Occidente non fidandosi più degli Stati Uniti né tantomeno della vassalla Europa dopo la continua aggressione statunitense (via Nato-Europa-Ucraina), il sabotaggio del Nord Stream 1 e 2, le sanzioni europee, il furto delle riserve auree russe depositate nelle banche europee, la trappola dei protocolli di Minsk, eccetera. Ha riallacciato, con strategie tendenti alla cooperazione e al coordinamento che la fase multicentrica impone, la relazione con l’Oriente (soprattutto con la Cina, affermata potenza con una crescita straordinaria negli ultimi trenta anni e con l’India potenza in ascesa), con i Paesi dell’Africa, dell’Asia, dell’America latina, del Medio Oriente e del mondo islamico. Inoltre, la Russia è la coprotagonista, insieme alla Cina, nella creazione degli strumenti per raggiungere l’obiettivo del costituendo polo asiatico allargato: l’associazione interstatale dei BRICS, l’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), la Comunità degli Stati Indipendenti (CSI), l’Unione Economica Eurasiatica (UEE), l’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (CSTO), la RIC (Russia, India, Cina) e di altre associazioni interstatali e organizzazioni internazionali.

Sono pressoché certo che tra dieci anni nel mondo, così affermava nel 2018 il politologo russo Sergej Karaganov, ci saranno due centri economico-geopolitici: la Grande America e la Grande Eurasia. Negli ultimi anni, abbiamo assistito all’emergere di un centro geo economico in Eurasia, sullo sfondo della nuova guerra fredda. Un centro che si sta strutturando attorno a Russia e Cina e che non va visto come una semplice alleanza difensiva, ma piuttosto come un nuovo polo di sviluppo che vuole e può diventare un’alternativa al centro euro atlantico. Per la Russia è inevitabile ritagliarsi il proprio spazio nella grande Eurasia. Al cui centro, certamente, ci sarà la Cina (17). Pepe Escobar, riportando una sintesi dell’intervista a Sergey Glazyev (ministro incaricato per l’Integrazione e la Macroeconomia dell’Unione Economica dell’Eurasia nonché noto politico ed economista russo), così scrive << In sostanza, secondo Glazyev, la Russia, pesantemente sanzionata, non assumerà un ruolo di leadership nella creazione di un nuovo sistema finanziario globale. Questo ruolo potrebbe spettare all’iniziativa di sicurezza globale della Cina. La divisione in due blocchi sembra inevitabile: la zona dollarizzata – con l’eurozona incorporata – in contrasto con la maggioranza del Sud globale che utilizzerà un nuovo sistema finanziario e una nuova valuta commerciale per gli scambi internazionali. A livello interno, le singole nazioni continueranno a fare affari nelle loro valute nazionali. >> (18).

Pier Giorgio Ardeni e Francesco Sylos Labini sostengono che << È vero che la guerra in Ucraina ha evidenziato una “rottura” tra l’Occidente e il resto del mondo che va ben oltre il piano strategico-militare, creando una frattura vieppiù apparente anche sul piano economico. L’Africa, l’Asia e anche l’America Latina hanno rapporti economici sempre più stretti con Cina e India ma anche con la Russia. La leadership dei Pca (Paesi capitalisti avanzati, mia precisazione) è ancora assicurata ma potrebbe essere in un futuro non troppo lontano messa in discussione >> (19).

Il documento della Federazione russa è chiaro nel delineare il percorso della costruzione del polo asiatico allargato e nello stesso tempo mantenere aperto il confronto con l’Occidente (al contrario del rapporto “Nato 2030.Uniti per una nuova era” degli Usa-Nato aggressivo, arrogante e di chiusura verso l’Oriente) per un mondo multicentrico in equilibrio dinamico a patto che a) gli Stati Uniti saranno pronti ad abbandonare la loro politica di dominio del potere e a rivedere la loro linea anti-russa a favore di un’interazione con la Russia sulla base dei principi di uguaglianza sovrana, di mutuo beneficio e di rispetto degli interessi reciproci; b) ci sia la consapevolezza da parte degli Stati europei che non esiste alternativa alla coesistenza pacifica e alla cooperazione paritaria reciprocamente vantaggiosa con la Russia, l’aumento del livello di indipendenza della loro politica estera e la transizione verso una politica di buon vicinato con la Federazione Russa avranno un effetto positivo sulla sicurezza e sul benessere della regione europea e aiuteranno gli Stati europei a prendere il loro giusto posto nel Grande Partenariato Eurasiatico e in un mondo multipolare.

Per quanto riguarda gli Stati Uniti è difficile che rinuncino al dominio mondiale assoluto ammantato di democrazia, diritti e menzogne varie considerata la loro storia che dal 4 luglio 1776 (anno della dichiarazione di indipendenza) sono stati in pace solo 18 anni su 246 anni nei quali si sono gradualmente evoluti. Da una neo-nazione in lotta per l’indipendenza dalla Gran Bretagna (1775–1783), passando attraverso la monumentale Guerra civile americana (1861–1865) fino a trasformarsi, dopo aver collaborato al trionfo durante la Seconda Guerra Mondiale (1941-1945), nella più grande potenza rimasta al mondo dalla fine del XX secolo ad oggi anche se, per nostra fortuna, in chiaro declino relativo (20). Per questo, per dirla con lo storico Daniele Ganser, gli Usa e la Nato sono un pericolo per la pace del mondo. Essi hanno ignorato molte volte il divieto dell’uso della forza stabilito dalle Nazioni Unite. Negli ultimi settant’anni sono stati in massima parte i paesi della Nato, la maggiore alleanza militare del mondo, guidata dagli Stati Uniti, ad avviare guerre illegali, riuscendo però sempre a farla franca. (21).

Per quanto concerne l’Europa (ricordo sempre che non è un soggetto politico) è impensabile, in questa fase, che possa avere una politica autonoma se prima non si libererà dalla servitù volontaria statunitense che l’ha portata ad un livello di stupidità (nell’accezione dello storico Carlo Maria Cipolla) impensabile come quella di applicare le sanzioni inefficaci alla Russia contro i suoi stessi interessi economici, politici, sociali e territoriali, per tacere sulla occupazione militare dei suoi territori (22).

Al termine di questa riflessione voglio sottolineare la questione della regione artica (trattata nel paragrafo V Binari regionali della politica estera della Federazione Russa del documento e sarà oggetto di attenzione e di approfondimenti successivi) che riguarda la rotta artica, sempre più libera dai ghiacci, che aprirà una nuova e più breve via di comunicazione tra l’Estremo Oriente e l’Europa (23). Questo passaggio marittimo a Nord-Est, sviluppato dalla Russia, è destinato a rivoluzionare le relazioni mondiali che libererà la Cina dalle strettoie militari e logistiche statunitensi dell’Oceano Pacifico (i vari Stretti: Luzon, Mindoro, eccetera) oltre a gestire con flessibilità le strozzature presenti nell’Oceano Indiano e nel Mediterraneo (il canale di Suez). Una rotta che sposta gli equilibri geoeconomici ma, soprattutto, quelli geopolitici tra le potenze a favore della Russia e della Cina mettendo seriamente in discussione le strategie militari e territoriali degli Usa sia nel Pacifico sia nell’Atlantico. Sarà uno scenario mondiale molto delicato e pericoloso (più di quello della guerra in Ucraina) e potrebbe significare il passaggio dalla fase multicentrica a quella policentrica, cioè la terza guerra mondiale.

Fonte: Karin Kneissl, 2023. Il Passaggio a Nord-Est aggira le rotte marittime globali degli ultimi due secoli.

 

Fonte: Limes, 2018

 

* Lo scritto è stato pubblicato su: www.italiaeilmondo.com., 11/4/2023.

 

**La traduzione del documento è a cura della redazione così come le parti evidenziate in grassetto e in corsivo.

 

 

NOTE

 

  1. […] dalla rivoluzione del 1848, più che da quella del 1789, fino al crollo dell’Unione Sovietica nel 1991, abbiamo assistito al tentativo di realizzare il progetto, nobilmente grandioso nelle intenzioni e, per molti aspetti, tragico nei risultati: quello di estendere l’emancipazione degli schiavi, compresi quelli “salariati”, alla liberazione di tutti gli “umiliati e offesi” e, perfino, dell’intera “futura umanità”. Gli “uomini nuovi” che sarebbero scaturiti dalla realizzazione di questo ideale avrebbero dovuto essere “non più servi, non più padroni”, pronti all’ascolto non solo della voce tonante della ragione […] ma anche di quella più delicata del cuore, che sprona a “raccogliere le lacrime dei vinti e sofferenti” […] in Remo Bodei, Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, intelligenza artificiale, il Mulino, Bologna, 2019, pag. 19.
  2. I. Lenin, L’imperialismo, Editori Riuniti, Roma, 1974, pag.128; si legga anche Gyorgy Lukacs, Lenin. Teoria e prassi nella personalità di un rivoluzionario, Einaudi, Torino, 1970, pp.47-72; sulla attualità dei cinque principali punti avanzati da V.I. Lenin nel definire l’imperialismo si rimanda a Gianfranco La Grassa, L’imperialismo. Teoria ed epoca di crisi, Editrice CRT, Pistoia, 2003, pp. 26-34.
  3. Gli articoli di V.I. Lenin, Il risveglio dell’Asia e Meglio meno, ma meglio sono apparsi sulla Pravda e sono stati raccolti rispettivamente in V.I. Lenin, Opere complete, volume 19, Editori Riuniti, Roma, 1967, pp. 68-69 e in V.I. Lenin, Opere complete, volume 33, Editori Riuniti, Roma, 1967, pp. 445-459. I citati due articoli sono stati pubblicati nel libro curato da Enzo Santarelli, Il risveglio dell’Asia, Editori Riuniti, Roma, 1970. Gli stralci dei suddetti articoli fanno riferimento a quelli presenti nel libro di Enzo Santarelli.
  4. I. Lenin, Il risveglio dell’Asia in Enzo Santarelli, a cura di, op. cit., pp.73-74.
  5. I. Lenin, Meglio meno, ma meglio in Enzo Santarelli, a cura di, op.cit., pp.175-178.
  6. Remo Bodei, Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, Intelligenza Artificiale, il Mulino, Bologna, 2019, pp.22-23.
  7. Sulle transizioni egemoniche delle potenze mondiali si rimanda ai lavori di Giovanni Arrighi, Gianfranco La Grassa, Costanzo Preve e David Harvey.
  8. Massimo Bontempelli, Il respiro del Novecento. Percorso di storia del XX secolo, Volume I (1914-1945), Editrice CRT, Pistoia, 2002, pag.56.
  9. Si veda l’intervento di Luciano Canfora al convegno organizzato dalla Fondazione Lelio e Lisli Basso su “Lenin, a cento anni dalla morte” pubblicato su ilcomunista23.blogspot.com, del 9/4/2024; Domenico Moro, A cento anni dalla morte, perchè Lenin è ancora attuale, www.comedonchisciotte.org, 12/5/2024; Salvatore A. Bravo, L’inquietudine di Lenin. L’attualità del suo pensiero a cento anni dalla sua morte, www.sinistrainrete.info, 19/4/2024.
  10. […] In base alla dottrina della Grande Area (che fu elaborata durante la seconda guerra mondiale e comprendeva l’emisfero occidentale, l’Estremo Oriente e l’ex impero britannico con le sue risorse energetiche mediorientali) l’intervento militare è legittimato ad libitum. Lo mise in chiaro anche l’amministrazione Clinton, la quale proclamò che gli Stati Uniti avevano il diritto di usare la forza militare per assicurare “l’accesso illimitato ai mercati, alle forniture energetiche e alle risorse strategiche”, e che avrebbero dispiegato “in posizioni avanzate” corposi contingenti militari in Europa e in Asia “al fine di plasmare l’opinione popolare a nostro favore” e “dare corpo agli eventi che servono al nostro sostentamento e alla nostra sicurezza” in Noam Chomsky, Chi sono i padroni del mondo, Ponte alle Grazie, Milano, 2016, pp.59-60.
  11. Piero Bevilacqua, Gli USA e il “metodo Giacarta”: il massacro delle popolazioni come politica estera, sinistrainrete.info ,28/4/2024.
  12. Jacopo Brogi, Alessandro Fanetti e Konrad Nobile, a cura di, con la collaborazione di Fabio Bonciani, intervista a Pepe Escobar su Raisi aveva costruito un esercito fortissimo, gli americani non se lo aspettavano, comedonchisciotte.org , 22/5/2024.
  13. La citazione di Alain Badiou è tratta da Alain de Benoist, L’impero del “bene”. Riflessioni sull’America d’oggi, Edizioni Settimo Sigillo, Roma, 2004, pag. 107.
  14. Manlio Dinucci, Il tramonto rosso sangue dell’Occidente, voltairenet.org, 19/5/2024; Pepe Escobar, Russia e Cina ne hanno abbastanza, www.comedonchisciotte.org , 26/5/2024; Mike Whitney, Attacco ucraino a un elemento chiave della difesa nucleare russa, www.sinistrainrete.info 31/5/2024; Pepe Escobar, L’Occidente è deciso a trascinare la Russia in uno scontro aperto, www.comedonchisciotte.org, 31/5/2024.
  15. Franco Cardini, Introduzione in Guy Mettan, Mille anni di diffidenza, Sandro Teti Editore, Roma, 2016, pag.17; per il Behemonth schmittiano si rimanda a Carl Schmitt, Terra e mare, Adelphi Edizioni, Milano, 2002; si legga anche Salvo Ardizzone, Medio Oriente: geopolitica di un conflitto, www.ariannaeditrice.it, 14/5/2024.
  16. Maria Turchetto, Leggere non è semplice, aperure-rivista.it, 1999.
  17. Orietta Moscatelli, a cura di, Occidente addio. La Russia ha scelto Pechino, conversazione con Sergej Karaganov, in Limes11/2018, pag. 277.
  18. Pepe Escobar, Sergey Glazyev: “la strada verso il multipolarismo finanziario sarà lunga e irta di ostacoli”, comedonchisciotte.com, del 15/3/2023. Per un approfondimento su questi temi si rimanda a Pepe Escobar, Lo zar russo della geoeconomia Sergey Glazyev introduce il nuovo sistema finanziario globale, www.comedonchisciotte.com, del 22/4/2022 e a Sergev Glazvev, L’ultima guerra mondiale, Knizhny Mir, Mosca, 2016, (traduzione russo-inglese).
  19. Pier Giorgio Ardeni-Francesco Sylos Labini, Mondo senza pace la responsabilità delle grandi potenze e la necessita di un nuovo equilibrio-economico, left.it, 30/3/2023, pp.7-9.
  20. Redazione, La storia militare degli Stati Uniti sembra un gioco ma non lo è, infodata.ilsole24ore.com, 20/2/2020; Giovanni Viansino, Impero romano, impero americano. Ideologie e prassi, Edizioni Punto Rosso, Milano, 2005.
  21. Daniele Ganser, Le guerre illegali della Nato, Fazi editore, Roma, 2022, pp. 22-23.
  22. Sulla robustezza dell’economia russa e sul PIL come indicatore insufficiente per misurare la forza di un Paese con grandi risorse di materie prime come la Russia si rimanda a Pier Giorgio Ardeni e Francesco Sylos Labini, Mondo senza pace, op.cit.
  23. Karin Kneissl, La Russia e la rotta artica: le frontiere commerciali si spostano sempre più ad Est, comedonchisciotte.org, 16/1/2023.

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Riequilibrio, di SIMPLICIUS

Riequilibrio

“Oltre la finzione della realtà, c’è la realtà della finzione”. – Slavoj Zizek

Una mano nascosta ci muove da oltre il velo dell’invisibile. Attraverso il purdah metafisico che isola la nostra realtà dal substrato sottostante, siamo governati dalle sue leggi segrete. Gli antichi hanno colto la più fondamentale di queste come la media aurea, o qualche sua variante; il custode di pesi e contrappesi, la corda tesa di una tensione armonica che funge da autoregolamentazione dell’ordine. Quando questo equilibrio viene alterato o distrutto, le cose vanno in tilt.

Riflettere: Nella vita, i momenti di massima bellezza si trovano spesso all’incrocio di polarità opposte o di tensioni contrastanti. Questi sono gli zenit metafisici dell’esperienza, dove la natura raggiunge le sue vette crescenti; istanze di perfezione tragicamente fugaci e per questo ancora più rare e belle.

Prendiamo il cibo: alcuni dei migliori chef del mondo insistono sul fatto che le prelibatezze più pregiate sono in equilibrio sul fragile filo del deterioramento e della decomposizione, come ad esempio i formaggi ben stagionati. Un attimo in più lo fa marcire, un attimo in meno e diventa imperfettamente incompiuto.

Allo stesso modo, l’apoteosi magica dell’estate nell’emisfero settentrionale vive per poco tempo, poiché la marea del Solstizio ha già iniziato a portare indietro l’orologio. I giorni ora si accorciano, lasciando sulla loro scia la breve scintilla di una promessa, un momento di perfetta unità di tutte le forze della natura che si scontrano in direzioni opposte, sovrapponendosi brevemente: effimero, e per questo ancora più prezioso.

Anche la vita sembra maturare nel punto in cui l’età e la giovinezza si scontrano, lasciando l’espressione più pura del godimento come una precarietà transitoria, da afferrare a fatica prima di essere spazzata via. Si entra nel vivo, si impara a conoscere la propria identità, i propri gusti e le proprie preferenze, i propri bisogni e le proprie necessità, si batte e si cristallizza la propria sicurezza e la propria personalità, proprio nel momento in cui gli anni iniziano a superarci, e la giovinezza, per la quale questi consolidamenti del carattere sarebbero stati la più pronta scintilla di gioia espressiva, è ora a lungo nell’ombra, derubata per sempre della sua vivacità.

La natura è ferocemente protettiva nei confronti dei suoi tesori più rari, nella cui penombra abitiamo per sempre.

È con questo spirito che custodiamo tutti i doni effimeri della vita. Le fessure tra il tempo e l’attualità, create – come se fossero state progettate – per farci apprezzare ciò che era stato ottenuto e poi perso. L’abisso tra il “era” e il “avrebbe dovuto essere”. Sbocciare e cogliere l’apice del potenziale, come un insetto che gesta per anni per esplodere tumultuosamente in forma per un breve periodo, per poi morire altrettanto rapidamente.

In ogni angolo troviamo riflessi di queste verità: tensioni naturali in competizione che tengono in piedi l’impalcatura. Queste dualità sono sempre più sotto attacco da parte dell’élite manageriale, degli armeggiatori sociali e dei farisei culturali che cercano di tagliare i legami che ci uniscono al palladio del nostro passato spirituale, di ridefinire i nostri miti e le nostre tradizioni e di cancellare i progetti immemorabili che hanno guidato i nostri istinti fin dalla notte dei tempi.

Più si va avanti, più ci si rende conto di quanto siano stati realmente contrari alla natura molti dei movimenti e dei concetti generati dall’Illuminismo; il culto del progresso della modernità ne è un esempio lampante. Di recente ho richiamato l’attenzione sullo spoglio di Alastair Crooke di un paio di pensatori centrali legati al movimento e alle sue propaggini. Egli affronta abilmente l’idea che gran parte dell’ideologia di Rousseau sia in realtà una foglia di fico per la de-civilizzazione dilagante:

Il rapporto familiare si trasmuta così sottilmente in un rapporto politico; la molecola della famiglia viene spezzata negli atomi dei suoi individui. Con questi atomi oggi ulteriormente preparati per liberarsi del loro genere biologico, della loro identità culturale e della loro etnia, essi vengono riuniti di nuovo nell’unica unità dello Stato.

Questo è l’inganno che si nasconde nel linguaggio del liberalismo classico sulla libertà e l’individualismo – la “libertà” viene comunque salutata come il principale contributo della Rivoluzione francese alla civiltà occidentale.

Eppure, perversamente, dietro il linguaggio della libertà si nascondeva la de-civilizzazione.

L’eredità ideologica della Rivoluzione francese, tuttavia, fu una radicale de-civilizzazione. L’antico senso di permanenza, di appartenenza a un luogo nello spazio e nel tempo, è stato cancellato per lasciare il posto al suo esatto contrario: la transitorietà, la temporaneità e l’effimero.

Il link è a un altro brillante pezzo di Substack, scritto dall’importante professore e sociologo Frank Furedi, che si concentra su questo ben più pernicioso degli impulsi telici nascosti nel tessuto dei grandi gesti liberatori e degli appelli umanistici dell’Illuminismo:

Radici e ali con Frank Furedi
Il problema non è la sveglia, ma il sintomo di qualcosa di molto peggiore
Non so se avete mai sentito parlare del termine “decivilizzazione”. L’Oxford English Dictionary definisce la decivilizzazione come “Il processo o la condizione di perdita della civiltà”. La prima citazione dell’OED di questo termine si riferisce a un articolo di The North American Review del novembre 1878. Da allora il termine è stato usato raramente. Perché? Perché per molti …
Per saperne di più

Scrive:

Kenneth Clark, nel suo affascinante Civilisation (1969), ha associato la civiltà a “un senso di permanenza”.

Aggiungeva che “unuomo civile, o almeno così mi sembra, deve sentire di appartenere a qualche parte nello spazio e nel tempo; deve guardare consapevolmente avanti e indietro“. Come ho notato in diverse occasioni in Roots & Wings, la cultura occidentale ha adottato una visione profondamente presentista e non guarda né avanti né indietro. Il senso di permanenza ha lasciato il posto al suo esatto contrario: la transitorietà, la temporaneità e l’effimero.

Nel suo saggio, Furedi arriva a qualcosa di criticamente importante: l’uomo senza un senso di permanenza perde ogni stabilità, la sua valenza per il mondo :

Nel corso della storia dell’umanità, il senso di permanenza è stato il presupposto per consentire alle persone di sognare la possibilità di creare qualcosa di duraturo e costruito per il futuro. Sulla base di un passato condiviso, le società possedevano una forma di coscienza che incoraggiava il tentativo di costruire un ponte temporale tra il presente e il futuro.

Senza un senso di permanenza c’è poco incentivo a stabilirsi, a sviluppare società agricole o a costruire templi e città. Il prerequisito per lo sviluppo e la riproduzione di un senso di permanenza è la coltivazione di un legame organico tra presente e passato. Questo risultato di civiltà è essenziale per dare un senso all’esistenza umana e per sviluppare identità sociali e individuali stabili. Al contrario, la decivilizzazione fiorisce nei momenti storici in cui le comunità faticano a dare un senso alla propria esistenza.

È l’ablazione totale dell’uomo, la cancellazione dell’istinto radicato, della tradizione e del mythos culturale. Uso spesso la parola “radici”, che credo serva come simbolo adatto per la “permanenza” e che può essere abbastanza scambiata.

Ciò che Furedi descrive sopra può essere riformulato come segue: se vi imbatteste in un terreno argilloso molto umido e sprofondante, ci costruireste sopra le fondamenta della vostra casa? Certo che no; sapreste che la casa non durerà, non c’è alcuna prospettiva futura che rimanga salda e in piedi per la prossima generazione dei vostri figli; non è sicura, non è permanente.

La stessa logica si applica alle categorie più astratte e metafisiche della permanenza. Se sapete che lo spazio in cui vi siete stabiliti culturalmente non ha un futuro che possa sostenere la crescita della vostra prossima generazione nel modo in cui si suppone che la vera cultura debba fare, ad esempio infondendo loro una conoscenza generazionale che arricchisca il loro percorso di vita, approfondendo la loro comprensione, alleviando i loro travagli e i loro momenti di sofferenza, ecc.

Furedi produce molti interventi ricchi di significato, colpendo qui il culto del progresso, così spesso oggetto del mio biasimo, che egli attribuisce a un feticcio:

La diminuzione del senso di permanenza è stata inversamente proporzionale all’ascesa della coscienza del cambiamento. Oggi sembra spesso che se qualcosa è permanente è la permanenza del cambiamento. La percezione che la cultura sia discontinua influenza il comportamento della vita pubblica. Questa percezione è sostenuta dalla trasformazione dell’idea di cambiamento incessante in un vero e proprio feticcio. Per oltre un secolo, generazione dopo generazione, è stato detto e creduto che la loro era fosse unica, caratterizzata da un rapido cambiamento senza precedenti. La percezione del rapido cambiamento va di pari passo con la tendenza a dichiarare superate e obsolete le conquiste culturali precedenti.

In un altro articolo, intitolato La civiltà occidentale sarà conquistata dall’interno, Furedi fa notare un’importante scoperta dei suoi studi: che la principale differenza tra la civiltà occidentale e quella degli altri è la sua unica separazione tra Chiesa e Stato :

Il mio interesse per il disarmo morale dell’Occidente mi ha inevitabilmente portato a esplorare il significato della civiltà che ne è alla base. Attraverso i miei studi mi è apparso subito evidente che la civiltà occidentale è diversa dalle altre sotto molti aspetti, ma probabilmente la sua caratteristica più importante e unica è la sua tradizione secolare di separazione tra la sfera religiosa e quella secolare. A sua volta, la separazione di queste due sfere distinte e la sua codificazione hanno creato il presupposto per la successiva e graduale diminuzione del potere della religione.

Lo storico francese Fernand Braudel “ha sostenuto che ‘fin dallo sviluppo del pensiero greco’ la ‘tendenza della civiltà occidentale è stata verso il razionalismo e quindi lontano dalla vita religiosa’” e che “nella storia del mondo al di fuori dell’Occidente non si trova un allontanamento così marcato dalla religione”.

Quasi tutte le civiltà sono pervase o sommerse dalla religione, dal soprannaturale e dalla magia: ne sono sempre state impregnate e ne traggono i motivi più potenti della loro psicologia particolare”.

Egli sottolinea inoltre come l’Islam e l’India siano esempi di civiltà che continuano ad attingere alle “risorse morali” che la loro religione mette a disposizione, mentre è solo l’Occidente ad aver abbracciato totalmente lo scientismo e il razionalismo dell’Illuminismo sopra ogni altra cosa.

Ciò che è realmente accaduto è che l’uomo occidentale ha semplicemente trasmutato la ricerca dell’ineffabile nella religione nel regno dell’empirico e del razionale; in breve: la “scienza” di tutti i tipi è diventata la nuova religione e il dogma secolare ha sostituito la ricerca spirituale interiore.

Ma ci torneremo tra poco.

A proposito del feticcio del cambiamento, che si affianca all’ossessione “cultuale” per il “progresso” insensato, abbiamo un altro incisivo articolo di Substack che, per caso, ha coinciso con i miei pensieri di questa settimana. L’ultimo articolo di Mary Harrington, The Reactionary Feminist, mette a fuoco molti di questi punti da una prospettiva unicamente femminista regredita:

Femminista reazionaria
La fine di un progresso senza fine?
L’argomento che è diventato Feminism Against Progress (Femminismo contro il progresso) è nato come un’esplorazione delle tensioni tra l’ambientalismo e il femminismo liberale. Per fare solo un esempio: A partire dagli anni Sessanta le donne chiedevano agli uomini di occuparsi maggiormente dei bambini, ma io…
Per saperne di più

In questo caso, l’autrice sottolinea il punto precedente: il Progresso è solo un surrogato, un pastiche del filone teologico. Ma, al di là di questa osservazione di routine, l’autrice fa un collegamento affascinante e inedito: il culto del progresso non è semplicemente la continuazione del filone teologico, ma, nello specifico, di quelloescatologico :

In effetti, il fatto che il “progresso” possa essere valutato solo dall’occhio onniveggente di un essere divino ci dà un indizio: il “progresso” è una continuazione della teologia con altri mezzi. In particolare, la struttura del “progresso” è una versione dell’escatologia cristiana.

Non si tratta affatto di un’osservazione originale. Christopher Lasch ha descritto il “progresso” come “una versione secolarizzata della credenza cristiana nella Provvidenza”. È tipicamente cristiano vedere la storia in termini lineari, come se iniziasse con la creazione e assumesse la forma di una lotta morale ascendente che si conclude con una grande rivelazione e la fine di ogni peccato e sofferenza.

È una conclusione che lascia senza fiato perché ha molto senso, per una volta, equiparare logicamente il fanatismo assoluto dei più ferventi devoti del culto del progresso: attraverso il transfert psicologico hanno proiettato il paradigma colpa-peccato-salvezza, inconsciamente radicato nell’Occidente, sulla tabella di marcia scientifica per la redenzione utopica della società. È il transumanesimo tecnocratico come rivelazione e salvezza in uno: il Rapimento cibernetico.

E questa è una storia religiosa che fa di tutto per nascondere il vero contenuto della sua teologia, che è lastessa mentalità tecnologica . Cioè, non un insieme di strumenti, ma una relazione con il mondo che ci circonda. L’articolazione più chiara che ho trovato di questo concetto proviene da Martin Heidegger, in La questione della tecnologiaHeidegger caratterizza l’essenza della tecnologia come una mentalità, che chiama Gestell, solitamente tradotto come “incorniciatura”. In questa mentalità le creature, gli ecosistemi, le risorse naturali e persino le persone ci appaiono non nel loro pieno essere, ma solo per come possono essere strumentalizzate per favorire il nostro progetto di padronanza e perfezione.

La fede nel “Progresso” richiede che assumiamo questa mentalità enframing come disposizione di base nei confronti della realtà. Come possiamo perfezionare questa vita se non padroneggiandola e reingegnerizzandola? Il progresso, quindi, è fondamentalmente un progetto tecnologico e contemporaneamente morale. Si tratta, infatti, di una visione del mondo profondamente religiosa, che finge solo di essere neutrale, scientifica e utilitaristica.

Ma è qui che si ricollega alla premessa operativa delle leggi naturali. L’ultima osservazione chiave di Harrington è fatta attraverso la lente femminista della maternità.

L’autrice premette di essere stata una convinta femminista classica, aderendo a tutti gli ideali emancipatori del post-strutturalismo: la necessità di liberare le donne dai ruoli sessuali normativi e dalle costrizioni di genere, nonché l’idea, dovuta a Rousseau, che siamo tutti esseri naturalmente separati e indipendenti – senza alcun senso di appartenenza reciproca innata – prima di “aderire” a un contratto sociale.

Ma poi si è scontrata con un muro: la realtà schiacciante delle leggi della natura l’ha colta di sorpresa, spazzando via le infinite astrazioni circolari del moderno “progresso” socio-scientifico:

Queste convinzioni si sono arenate, per me, sull’esperienza di avere un figlio.

Sono arrivata alla maternità tardi, a 38 anni. L’ho trovata difficile, ma anche trasformativa. Mi sonosentita rifatta nell’esperienza di relazione con mio figlio e attraverso la vita familiare, ma soprattutto in modi che mi sembravano radicalmente in contrasto con l’ideologia del progresso.

Ho scoperto che quando si ama un bambino dipendente in modo così viscerale da morire per lui, la “libertà” in questo senso sottile non significa nulla. Nel frattempo, il fatto di essere quasi morta di parto mi ha guarito da ogni residua convinzione che il sesso possa essere socialmente costruito. Ma come neo-mamma e femminista, ho faticato a capire quanto la maternità sia marginale per il femminismo moderno. Non riuscivo a collegare la comprensione rousseauiana della personalità liberale con la mia esperienza incarnata di non appartenenza a me stessa. Nella misura in cui il mio bambino aveva bisogno di me, non ero più libera – ma, come si è scoperto, non mi dispiaceva!

Sta usando la maternità per analogizzare una connettività molto più ampia, o risonanzaumana , comedice più avanti. Lo stesso altruismo che descrive può essere applicato ai partner, alle persone amate, persino alla società nel suo complesso: è l’idea di comunità, comunanza, unicità: tutte cose eliminate dall’individuazione del liberalismo.

Poi riunisce il tutto nel punto chiave e culminante:

Essere moderni, tecnologici, progressisti, significa vedere il mondo in termini di come può essere utilizzato permigliorarlo e realizzare il paradiso in terraChe si tratti di minerali, animali, piante o altre persone, lamodernità mi invita a vedere le persone in termini di ciò che posso ottenere da loro. Ma la maternità è l’opposto di questo! Non mi occupo di mia figlia perché ho in mente un obiettivo utilitaristico, ma perché ci apparteniamo l’un l’altro – e questo rende la cura di lei una necessità anche per la mia esistenza.

Ma questo significa che anche la mentalità necessaria per crescere un bambino è in tensione con il mondo moderno. Essere madre di un bambino significa incontrare un essere assolutamente dipendente dove si trova e cercare di intuire, soddisfare e dare forma ai suoi bisogni (questo è ciò che si intende per “sintonia” negli studi sull’attaccamento). (Il filosofo Hartmut Rosa definirebbe questa forma di relazione come “risonanza”: un incontro con l’altro in cui entrambi siamo mossi dall’esperienza dell’essere dell’altro.

Ma questo significa che la maternità è in profonda tensione con la mentalità caratteristica della modernità, così come Rosa la delinea: un desiderio di controllare ogni aspetto dell’esistenza, e trattare la vita come “punti di aggressione” che devono essere affrontati: lavori da fare, problemi da risolvere, situazioni da controllare. Possiamo più o meno ricondurre tutto questo alla mentalità della Gestell descritta da Heidegger.

Questo è il sovvertimento del trucco dello scientismo della modernità e la sua usurpazione della metanarrativa spirituale che ha guidato il nostro passaggio per millenni. È ciò che ha fatto nascere il materialismo dialettico scientifico di Marx, il freddo rigore del mckinseyianesimo e tutte le altre malattie moderne responsabili della riduzione della condizione umana a un calcolo, privilegiando il “progresso scientifico” nella forma di un “progresso” perpetuo rispetto a quello dello sviluppo spirituale.

Harrington spiega come gli impulsi biologici fondamentali dell’uomo siano in contrasto con i regimi psicologici imposti che siamo costretti ad adottare per “prosperare” in un ambiente moderno, privo di spirito e antiumanistico, volto a trasformarci tutti in obbedienti narcisisticamente “liberati”:

La mia teoria (non molto scientifica) sullo stato sognante e non mondano della coscienza delle neomamme, a volte definito con accondiscendenza “cervello del bambino”, è che sia un effetto del mondo poco ospitale che abbiamo creato per la risonanza. Come madre, sentite il bisogno viscerale di entrare in risonanza con il vostro bambino; ma farlo, oggi, significa percorrere una distanza mentale incalcolabile dalla coscienza necessaria per funzionare efficacemente nella modernità, allo spazio mentale in cui dovete trovarvi per sintonizzarvi con il vostro bambino e quindi essere in grado di intuire i suoi bisogni.

All’inizio è difficile da comprendere, perché la narrazione progressista adotta – o meglio ,si appropria e coopta – laposizione secondo cui il movimento si occupa di connettere la società attraverso la “risonanza”; dopo tutto, è il “progressismo” che nobilmente difende l’equità e solleva gli emarginati, proteggendoli dall'”odio” e dal “bigottismo”. Sulla carta, sembra che il movimento abbracci il tipo di interdipendenza che Harrington cita come così in disaccordo con la modernità. Ma scavando più a fondo, si scopre subito che la prassi effettiva su cui si fa affidamento per promuovere queste iniziative apparentemente benintenzionate è quanto di più volatile e ostile possa esistere alla vicinanza e alla famiglia.

Non solo il progressismo semina vaste divisioni, ma la natura radicale e rivoluzionaria di queste iniziative forzate spesso richiede che le famiglie non conformi vengano fatte a pezzi: basti pensare a ciò che accade quando i genitori non sono d’accordo con le “cure per l’affermazione del genere” per il proprio figlio. Piuttosto che essere progettate per rendere comune la società, queste iniziative sono in realtà sovvertimenti mirati per eliminare l’opposizione.

In secondo luogo, anziché promuovere uno stile universale di “risonanza” con il prossimo, il progressismo moderno si limita a promuovere una “risonanza” di gruppo tra l’avanguardia rivoluzionaria che funge da minoranza sociale, spingendo al contrario per un’aperta ostilità contro tutti gli altri. In questo modo, il movimento si arricchisce di un senso di tribalismo radicale, piuttosto che del tipo di risonanza umana universale che la natura ci ha donato.

Senza contare che, spingendo gli esseri umani nelle braccia delle corporazioni e del grande governo socializzato, il progressismo moderno contraddice le sue stesse pretese di “emancipazione” umana e i nobili ideali di individualità: non si può essere un “individuo” libero quando si è resi dipendenti, come servi della gleba neofeudali, dai partner e dalle alleanze transazionali delle grandi corporazioni e del grande governo.

L’ironia finale è che il “liberalismo” classico, che promuoveva le libertà individuali e il governo limitato, è passato al moderno “liberalismo sociale” che promuove il suo esatto opposto: enormi meccanismi di regolamentazione per controllare i “mandati di giustizia sociale” con una massiccia spesa governativa per programmi socializzati per sovvenzionare la classe “svantaggiata”, vittima perpetua. E poiché il progressismo è essenzialmente considerato un’ala del moderno liberalismo sociale, ciò significa che il progressismo è per definizione illiberale al massimo grado nel senso classico del termine. Si tratta di controllo: misure governative forzate per creare un’utopia di “equità” scientificamente quantificata.

Harrington conclude ribadendo il punto chiave:

Poi mi ricordo che viviamo in un mondo ordinato al Progresso, cioè alla ricerca religiosa del paradiso in terra, attraverso la logica strumentalizzante ed estrattiva della tecnologia. Unamentalità strutturalmente in contrasto con una mentalità fondata sull’interdipendenza, e quindi sul limite della relazione.

Questo ci riporta all’enigma principale della modernità: l’ascesa di uno sfrenato transnazionalismo corporativo-finanziario ha portato all’armamento del concetto di “indipendenza” allo scopo di renderci schiavi della quota di lavoro salariato estrattivo. Quasi tutti i movimenti di “liberazione” non sono stati altro che una campagna di astro-turfing delle multinazionali per spremere maggiori profitti, efficienza e, in ultima analisi, valore dal loro bestiame umano. La liberazione delle donne aveva lo scopo di raddoppiare le entrate fiscali, non esentando l’altra metà fungibile della popolazione; gran parte del movimento “marxista culturale” aveva lo stesso compito di spezzare l’unità familiare, minando l’autorità del padre – e alla fine anche quella dei genitori – per garantire che la nidiata crescesse in malleabili guardiani dello Stato.

Ma l’imposizione forzata di questi regimi sociali ha spezzato la delicata rete della legge naturale, sconvolgendo le gerarchie sociali tra i sessi, i membri della famiglia, i ruoli sociali, eccetera, il tutto per la decostruzione scientifica e “critica” di ogni e qualsiasi tradizione sulla base dell’annullamento di tutto ciò che è venuto prima.

L’ultimo pezzo dei Substack di Archedelia colpisce proprio questo aspetto :

Nel normale corso della società umana, si nasce in una cultura che ha preparato la strada per noi. Vi inizia alla sua lingua e vi racconta la storia da cui venite. Il mondo è saturo di significati grazie a una catena di nascite che risale nel tempo, ogni generazione delle quali è iniziata e cresciuta attraverso atti d’amore: al momento del concepimento e nel lavoro continuo di insegnamento, trasmissione e cura. In altre parole, il mondo è accogliente. È stato costruito dai vostri antenati, che vi hanno immaginato molto prima del vostro arrivo. Si sono chiesti che tipo di lavoro avreste potuto fare, prima che voi sapeste che esiste il lavoro. I vostri genitori potrebbero aver riconosciuto l’eco di un fratello o di un genitore nel vostro viso mentre cercavate il capezzolo. Vi hanno sorriso.

Questo senso di un mondo tramandato nell’amore si interrompe quando i contorni e le possibilità fondamentali della vita sembrano essere ordinati da forze impersonali.

Liberandoci dalla saggezza dei nostri antenati, ci hanno messo al servizio della macchina leviatanica, creando un tecno-nichilismo hobbesiano con accenti faustiani. Ora il panico della fallacia dei costi irrecuperabili impedisce loro di ammettere fatalmente che non hanno un percorso praticabile per il futuro; invece, andranno avanti, fingendo competenza e fiducia nel loro elefante bianco utopico. Ma il progetto di rimodellare un genere umano cancellato dalla memoria comune è come seminare un terreno incolto e salato e aspettarsi un raccolto abbondante. Gli equilibri devono essere ristabiliti, per evitare che il mondo vada in pezzi a causa dell’aggravarsi dei fattori di stress dell’imminente disastro di risonanza meccanica.

Gettate la mano nel fiume, mistico e inconoscibile, ma sempre familiare. Sentite il respiro fluente della vita che passa, portando con sé l’essenza alluvionale del restauro e del rinnovamento, che macchia il terreno sotto i nostri piedi con il limo del nostro diritto di nascita. Il sole si ritirerà da un momento all’altro; qui si trova – per poco tempo – il crocevia della nostra eventualità, la vampata temporale della vita vibrante, mentre si allunga, si inarca verso la sua infinità.

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La Guerra Grande: universalismo USA vs Stati – Civiltà By Gennaro Scala

La Guerra Grande: universalismo USA vs Stati – Civiltà

Intervista a Gennaro Scala a cura di Luigi Tedeschi

1) Nella attuale transizione dal mondo unipolare a quello multipolare è d’obbligo interrogarsi sulla conformazione che assumerà il nuovo ordine mondiale. Con l’impero americano tramontano anche il suo sistema politico – economico e la sua legittimazione ideologica: l’universalismo globale neoliberista. Il falso universalismo americano (in quanto particolarismo assunto a valore universale), aveva soppiantato le narrazioni ideologiche universaliste dello storicismo novecentesco. Il primato globale americano ha abrogato i principi di Vestfalia, resuscitando dall’oblio della storia il concetto di “nemico assoluto”, quale legittimazione delle guerre americane come “guerre sante”, secondo la definizione di Danilo Zolo. La fine dell’ordine internazionale vestfaliano è stata efficacemente descritta da Giulio Sapelli: “L’Europa non riesce neppure a immaginare perché ha abbandonato – accompagnata ahimè dagli Usa – i principi di Vestfalia ed è ritornata alla disgrazia dei «wilsonismi» che miracolosamente si accesero – ma a che prezzo! – nel primo dopoguerra. Come una malattia infettiva, li vediamo risorgere dopo l’intermezzo del dominio intellettuale kissingeriano della diplomazia. Il suo posto è stato preso dagli avversari di Machiavelli e dai seguaci di Leo Strauss, tanto eroico moralmente quanto inetto e catastrofico intellettualmente. E quando un personaggio simile guida la storia c’è veramente da temere”. Senza principi universalisti, la ragion di stato degenera in volontà di potenza. Uno stato assurge al rango di potenza nel consesso di altre potenze, secondo parametri prefissati. Non è errato concepire il multilateralismo come negazione dell’universalismo (vedi Dugin), dato che ogni soggetto internazionale trae riconoscimento in base a valori universalmente riconosciuti in un contesto mondiale? Non è quindi necessario che un nuovo ordine mondiale sia strutturato sulla base di un pluriverso multilaterale ispirato ad un universalismo (certamente ancora tutto da definire), dato che, come afferma Lucio Caracciolo “la potenza assoluta è impossibile”?

La questione dell’universalismo è cruciale. Oggi è all’orizzonte il fallimento dell’universalismo occidentale «liberale», qualche decennio fa abbiamo visto il fallimento dell’universalismo comunista sovietico. Capire il fallimento del secondo aiuta a capire il fallimento del primo, anche perché in un certo qual modo i due universalismi si sorreggevano a vicenda. Nel mio libro Per un nuovo socialismo ho cercato di descrivere come l’ideologia marxiana si struttura come un universalismo alternativo a quello inglese, ma ne mutua la caratteristica di fondo di essere appunto un universalismo, lo stesso Marx era sostanzialmente favorevole all’imperialismo inglese, pur criticandone in varie occasioni la barbarie, perché avrebbe creato dappertutto le condizioni per la rivoluzione comunista che doveva essere globale, come globale era l’espansione inglese. Questo universalismo si rivelava funzionale all’Unione Sovietica del dopoguerra perché era una sfida globale all’influenza globale del sistema americano. Il comunismo fu un’ideologia universalista che faceva presa al di fuori dell’Unione Sovietica, influente anche in paesi del campo occidentale come l’Italia, la Francia, e che ebbe un ruolo importante nei movimenti di liberazione coloniale del dopoguerra.

Tuttavia, l’universalismo comunista sovietico subisce uno scacco con l’ascesa della potenza cinese. Per quel che ne so, è stato poco studiato il ruolo avuto dal quasi conflitto russo-cinese nella crisi e successivo crollo del sistema sovietico, secondo me fu decisivo. I cinesi rifiutarono la dottrina Breznev di ingerenza nei paesi appartenenti al campo dell’influenza sovietica ed arrivarono nel 1969 ad un quasi conflitto con la Russia. Sebbene la Cina non facesse parte del Patto di Varsavia, essa era considerata un paese «fratello», ma comunque subordinato al «paese guida» del comunismo mondiale. Questo era evidentemente incompatibile con l’aspirazione all’autonomia della Cina che allora iniziava la sua ascesa. Successivamente, nel 1971, ci fu il viaggio di Kissinger in Cina, e iniziava allora quel rapporto speciale degli Usa con la Cina che secondo Arrighi fu il modo in cui gli Usa superarono la crisi di accumulazione degli anni ‘70, ma che fu anche crisi politica del sistema globale degli Usa (sconfitta in Vietnam). Portare la Cina nel proprio campo fu un grosso colpo per l’Unione Sovietica e una vittoria per gli Usa che invertirono un trend negativo, ma si ponevano le basi per l’ascesa della potenza cinese, attualmente il principale avversario degli Usa. Diciamo che la Cina è stato il grosso scoglio contro cui si sono infranti sia il globalismo sovietico sovietico che quello liberale.

I limiti dell’ideologia universalista sovietica, inoltre, sono venuti alla luce con la guerra in Ucraina. Credo che avesse ragione Putin quando ricordava, in un discorso del 21 Febbraio 2022, che l’Ucraina fu una creazione leniniana e «ora “discendenti riconoscenti” hanno demolito e demoliscono i monumenti a Lenin in Ucraina». Si narra che Kruscev abbia regalato la Crimea all’Ucraina una sera in cui era ubriaco, probabilmente si tratta di un aneddoto, ma da un’idea della leggerezza con cui si diede corpo a questa entità statale chiamata Ucraina. Nel dopoguerra i sovietici mescolarono città e aree abitate da popolazione non solo russofone ma di etnia russa, nonché regioni come la Crimea che sono strategiche e irrinunciabili per la potenza russa, con popolazioni come quelle che vivono nella Galizia, una volta appartenente all’impero austro-ungarico, che non sono di cultura russa, e in essa non si riconoscono, e che accolsero con favore l’invasione nazista. In questa area nacque l’Organizzazione dei Nazionalisti Ucraini, filo-nazista, guidata da Bandera, la cui eredità, coltivata dai servizi segreti statunitensi, è continuata nell’Ucraina del dopoguerra, dando vita ad organizzazioni neo-naziste come Svoboda e Pravy Sector, che hanno giocato un certo ruolo nel colpo di stato di Maidan, e quale braccio armato dei settori più favorevoli al conflitto con la Russia.

Possiamo dire che la presenza di un nemico come l’Urss ha reso la politica estera statunitense più realistica. Kissinger, ma anche altri importanti esponenti come Kagan, avevano un’attenta considerazione dei rapporti di forza e studiavano attentamente la realtà delle altre nazioni e del loro principale avversario, l’Urss, mentre l’attuale ideologia «liberale» secondo la descrizione di John Mearsheimer, pretende di dar forma ad un mondo che non si preoccupa di studiare e conoscere.

Tra gli ispiratori di questo tipo di ideologia vi sarebbe appunto Leo Strauss, considerato filosofo guida dei neocon. Personalmente, non conosco la sua filosofia, quindi mi mantengo su delle considerazioni di carattere generico. Mearsheimer, in un testo in cui mostra il carattere irrealistico e illusorio dell’«ideologia liberale» riporta una citazione di Strauss, secondo cui «the more we cultivate reason, the more we cultivate nihilism: the less are we able to be loyal members of society.» In pratica l’esito della filosofia sarebbe nichilistico, con essa si raggiunge la consapevolezza che non esiste nessuna verità. Mentre Nietzsche lo dice apertamente, Strauss nasconde questa verità dell’assenza di verità (il che sarebbe pur sempre l’affermazione una verità, contraddizione classica del relativismo, ma non ci formalizziamo…). Il filosofo sarebbe colui che è consapevole dell’impossibilità di affermare delle verità su ciò che è bene e male, ma questa verità la possono sopportare solo pochi eletti, per cui bisogna essere disposti a raccontare a fini pratici ai «semplici» le platoniane «nobili bugie» sul bene e male.

Sarebbe interessante approfondire il ruolo di Strauss, non è quello che intendo fare in questa occasione. Da quanto detto possiamo invece trarre delle indicazioni sulle caratteristiche specifiche dell’ideologia dell’«esportazione della democrazia» che ha dominato il periodo della cosiddetta globalizzazione, il suo carattere sostanzialmente irrealistico (fortemente sottolineato da Mearsheimer), e nichilistico, l’idea che non esista una realtà di cui tener conto, ma di poter dar forma al mondo secondo i propri «principi», a cui tra l’altro neanche si crede. È una forma di «volontà di potenza», intendendo con questo termine non la ricerca della potenza, ma una caratteristica della cultura occidentale descritta da Heidegger, ma non solo, l’analisi di Agamben riguardante la nascita di un nuovo concetto di volontà con il creazionismo cristiano, costituisce un rilevante contributo nella più precisa definizione del termine. Ne ho scritto nel mio lavoro sull’Ulisse dantesco, in cui ho cercato di mostrare la precoce e geniale identificazione dantesca di ciò che oggi chiamiamo volontà di potenza.

Per Heidegger la volontà di potenza nicciana è solo il compimento di un lungo percorso della cultura europea-occidentale, non riguarda la sola Germania, e lo stesso Nietzsche non è altro che la sua espressione più rappresentativa. Possiamo dire che l’ideologia dell’«esportazione della democrazia e dei diritti umani» è in continuità con l’espansionismo globale europeo, ne ha raccolto l’eredità. Il «cattivismo» nicciano, intendeva invertire la decadenza che ha origine dall’aver posto da parte di Platone il valore nel bene, e nella successiva creazione di un Dio buono, rovesciando il discorso platonico, ma restando sempre nel suo ambito, come osserva Heidegger, poiché anche quello di Nietzsche è un discorso di carattere morale, anche se di una morale «inaudita» che assume al contrario di quella platonica il valore del male, cioè la morale barbarica della «bestia bionda» capace di commettere a cuor leggero le peggiori stragi, una violenza necessaria per invertire la decadenza dell’Europa e ristabilire la sua supremazia.

Con l’ideologia dell’«esportazione della democrazia e dei diritti umani» il valore torna ad essere posto nel bene (qualcuno ha definito gli Usa «l’impero del bene»), l’origine del ben noto e irritante «buonismo» che ha imperversato nel discorso pubblico, ma si tratta delle fandonie moralistiche che è necessario raccontare alla plebe, poiché il fine reale è l’affermazione degli Usa quale unica potenza mondiale. Siamo sempre nell’ambito della volontà di potenza per i connotati del nichilismo, dell’irrealismo e del soggettivismo che sorreggono un espansionismo senza limiti, una volontà di potenza che incontra il suo limite nella presenza di altre «volontà di potenza», di cui una prassi politica che non voglia essere fallimentare deve tener conto. Questo soggettivismo è stato favorito dal fatto che per un certo periodo gli Usa potevano effettivamente considerarsi come l’unica potenza mondiale, ma ciò non significava che potevano modellare il mondo a proprio piacimento.

Di solito si sottolinea il ruolo dei neocon (abbreviazione di neo-conservatori) nel promuovere l’interventismo statunitense, tuttavia, si tratterebbe di un conservatorismo differente da ciò che intendiamo in Europa con questo termine. Di loro, i neocon ci hanno messo l’interventismo, ma ciò che è stato «esportato» con le guerre statunitensi degli anni della «globalizzazione», sia dai democratici che dai repubblicani, sono stati i «valori liberali» della democrazia e dei diritti umani, naturalmente deprivati di ogni significato reale, poiché democrazia e diritti umani non si esportano a suon di bombe, ma queste erano le «noble lies» da raccontare alla popolazione perché il fine reale difendere il bene superiore dell’affermazione degli Usa quale unica potenza mondiale. La devastazione dell’Iraq fu il culmine delle guerre «vittoriose» degli Usa, dimostrazione della grande potenza degli Usa nel «riportare all’età della pietra gli stati canaglia» (Bush), esercitata contro nazioni incapaci di opporre difesa alla supremazia tecnico-militare degli Usa, ma disastrose sul piano dell’influenza statunitense nel mondo, a detta dello stesso Mearsheimer, contrario alla guerra in Iraq, fortemente voluta dai «neocon», nei quali un ruolo non trascurabile aveva la lobby ebraica e la politica israeliana che principalmente volle questa guerra.

L’ideologia dell’esportazione della democrazia e dei diritti umani, che ha retto la politica estera degli Usa negli anni della «globalizzazione», è stata una forma di volontà di potenza. La menzogna dei «bombardamenti umanitari» poteva avere corso soltanto su un nichilismo che comporta uno svuotamento del significato stesso del linguaggio. Ad un tale livello di menzogna la comunicazione stessa perde significato, un nichilismo che non è solo dei neocon, ma che è diventato proprio della cultura statunitense e occidentale, come ben messo in luce da Todd nel suo libro sulla «disfatta dell’Occidente». Le balle raccontate durante le guerre per «l’esportazione della democrazia» (ricordiamo Powell con la provetta in mano che provava la presenza di armi chimiche in Iraq) segnava un decadimento del sistema dei media, che è continuato ad ha raggiunto nuovi livelli con la guerra contro la Russia. Marco Travaglio in qualche suo articolo ha fatto la raccolta delle balle stratosferiche che sono state pubblicate sui media dopo l’inizio della guerra in Ucraina. È qualcosa che va oltre la propaganda, è una forma di auto-intossicazione di un sistema che ha perso il contatto con la realtà. Media, riviste, giornalisti, intellettuali non hanno solo la funzione di indottrinare la popolazione, ma devono anche correggere con «l’esame di realtà» la politica dei propri governi. Questa funzione ormai è svolta da pochissimi confinati in piccole nicchie che ancora vengono concesse in internet (ma sottoposte ad una censura sempre incombente), lo stesso Mearsheimer, che non è certo un sovversivo, ma uno che ragiona nell’ottica della difesa della potenza statunitense, non viene più pubblicato su quotidiani e riviste di grande tiratura, ma deve limitarsi agli articoli pubblicati sul proprio blog e alle interviste pubblicate su youtube, come un «influencer» qualsiasi.

Giulio Sapelli auspica in un’intervista che si possa abbandonare la «teoria anti-realista neocon degli allievi di Leo Strauss, e tornare alla teoria e pratica realista in politica estera». Certo, la politica kissingeriana era più realistica, anche per la presenza di un nemico reale, e non alquanto fittizio e creato ad arte come il «terrorismo islamico» non certo in grado neanche di scalfire la potenza statunitense, tuttavia gli esponenti attuali di questo realismo come Mearsheimer criticano il carattere fallimentare della politica estera statunitense, ma perché incapace di mantenere la supremazia statunitense, concentrandosi sul compito di contenere la Cina. Bisognerà vedere cosa si intende con l’obiettivo di contenere la Cina, se ciò comporterà prima o poi una guerra, e che tipo di guerra, con la Cina.

Il globalismo statunitense è erede della lunga storia del globalismo europeo, soprattutto nella fase dell’egemonia inglese. Frenato dalla presenza dell’Unione Sovietica, è emerso solo in forma aperta con il crollo dell’Urss, sfociando in aperta volontà di potenza. Una inversione di rotta rispetto a questa storia non avverrà senza conflitti, tanto esterni, quanto interni, essendo una caratteristica di sistema, comporterebbe un cambiamento di sistema. Tuttavia, io credo che dopo un periodo di conflitti, sarebbe possibile giungere ad un assetto multipolare fatto di un mondo suddiviso in zone, occupate da diverse civiltà. In fondo, questa è stata la realtà del mondo prima del balzo in avanti sul piano dell’organizzazione sociale e della tecnica militare della civiltà europea rispetto alle altre civiltà che l’ha proiettata in tutto il mondo, abbattendo le muraglie cinesi e trascinando le altre civiltà nel «progresso» (per dirla con il Manifesto di Marx ed Engels). Varie specie animali sono territoriali, ad es. i branchi di lupi che si suddividono il territorio, ogni branco evita di muoversi in quello degli altri, per evitare dannose contese. Dovrebbero esserne capaci anche gli esseri umani.

Un cambiamento di rotta si impone ora che l’«Occidente» si trova di fronte delle potenze reali capaci di resistergli, a meno che non voglia abbattere potenze quali la Cina o la Russia, ma quest’ultima ha già chiarito che in caso di minaccia esistenziale verranno usate le armi atomiche. Fa parte della dottrina politica-militare ufficiale (non credo che facciano tanto per dire). Per quanto personalmente sia critico della politica occidentale, non sono né filo-russo, né filo-cinese, appartengo pur sempre alla cultura europea, di cui l’Italia fa parte, anche se non si sa più bene in cosa consiste questa appartenenza, quale sia la nostra identità, credo però che queste potenze esistano, non solo la Cina e la Russia, non dimentichiamo l’India, la Turchia, l’Iran. Sarà necessario e legittimo contendersi degli spazi con loro. E’ impossibile, invece, tornare ad un mondo in cui l’Occidente sia la sola potenza dominante. Ma fare i conti con questa realtà del mondo non sarà per noi facile.

Ritengo Dugin una figura molto rappresentativa, in quanto espressione dell’importanza del fattore dell’identità culturale, innegabile, come ci dice il fatto che le potenze che si oppongono al globalismo statunitense sono tutte eredi di grandi civiltà storiche, ma si tratta di un’estremizzazione in senso opposto di ciò che mancava all’ideologia sovietica comunista, quale forma di universalismo. Significativa la sua visione della storia come «noomachia», ovvero come la lotta tra diversi Nous (il termine greco con cui si intende mente, intelletto, coscienza) che sarebbero all’origine delle diverse culture (che si concretizza in un progetto editoriale di una ventina di volumi con cui si intende analizzare il Nous di svariati popoli). L’identità culturale è cruciale, ma è un errore questa ipostatizzazione che la personifica in un Nous, specifico per ogni popolo, determinato dal conflitto tra diversi Logos (quello di Dioniso, di Apollo, indicati da Nietzsche, e quello di Cibele «scoperto» da Dugin). La cultura (intesa nel senso di civiltà) è un fattore cruciale che si conserva nel tempo, ma si conserva nell’incontro-scontro con altre culture-civiltà. È un fuoco che va continuamente alimentato, e non è culto delle ceneri, per dirlo con una famosa massima. Per alimentare questo fuoco è necessario il confronto con un altre cultura-civiltà, pur correndo il rischio del conflitto. Proprio per diversificarsi ogni cultura ha bisogno di un terreno comune con le altre culture, costituito dalla comune appartenenza al genere umano. Il rischio, nel caso di Dugin, è di considerare chiusa in se stessa ogni cultura-civiltà, personificata, mitologizzata e ipostatizzata in Nous, e che dal giusto rifiuto del falso universalismo, si ricada nel particolarismo che ignora la comune appartenenza al genere umano.

Sono d’accordo, è necessario ricercare una nuova forma di universalismo. Va trovato un terreno comune di comunicazione tra le varie culture, anche nel conflitto, anzi soprattutto nel conflitto, perché non degeneri in conflitto distruttivo per tutte le parti in lotta.

Per questo di grande utilità resta il comunitarismo di Costanzo Preve, che possiamo considerare principalmente come una forma di critica all’universalismo comunista. Quando scriveva Preve, durante il periodo della globalizzazione, guardava soprattutto agli Stati quali principale fattore di resistenza comunitaria al rullo compressore della globalizzazione statunitense. Ora che la Cina e anche la stessa Russia si autodefiniscono come «stati-civiltà» (ne parleremo meglio più avanti), dobbiamo andare oltre alla classica «questione nazionale» su cui tanto hanno dibattuto nel movimento comunista, considerandola all’interno dell’identità culturale, che possiamo considerare come uno dei passaggi comunitari fondamentali e ineliminabili tra l’individuo e il genere.

Respingendo l’accusa di «localismo», con cui si vuole intendere particolarismo, anti-universalismo, scriveva Preve in Elogio del comunitarismo:

«Il comunitarismo, così come ho cercato di delinearlo, resta la via maestra all’universalismo reale, intendendo per universalismo non un insieme di prescrizioni dogmatiche “universali”, ma un campo dialogico di confronto fra comunità unite dai caratteri essenziali del genere umano, della socialità e della razionalità. Quando si parla di universalismo, infatti, non si deve pensare a un insieme di prescrizioni, bensì a un campo dialogico costituito da dialoganti che hanno imparato a capire le lingue degli altri, anche se forse non le parlano con un accento perfetto.»

Singolare che l’accusa di localismo sia ripresa da Mimmo Porcaro in una nuova edizione di Elogio del comunitarismo (per la casa editrice casa editrice Inschibboleth, che comprende inoltre un testo inedito di Preve sempre sul comunitarismo), il quale evidentemente non ha ben compreso il testo previano di cui ha scritto la prefazione. Porcaro, da quanto scrive, mi sembra che sia un nostalgico dell’universalismo comunista, invece Preve prese atto del fallimento del comunismo storico e cercò di correggerne il difetto fondamentale a partire appunto da questa forma di universalismo che non aveva retto alla prova della storia.

Dopo il fallimento dei falsi universalismi, ritrovare la strada dell’universalismo autentico non è solo qualcosa di auspicabile, ma direi addirittura necessario proprio oggi in cui il conflitto tra le varie potenze appare come inevitabile, se non vogliamo che questo conflitto degeneri in scontro frontale con le inevitabili immani conseguenze. Potrà apparire paradossale, ma proprio il conflitto rende necessario a trovare un linguaggio e regole comuni (un «campo dialogico» come scrive Preve) per regolare questo conflitto. Esso passa per un universalismo che non oblitera le identità nazionali e quella forma di identità culturale di lungo periodo rappresentata dalle civiltà storiche.

2) L’ordine mondiale unilaterale americano scaturito dalla dissoluzione dell’URSS, è ormai in fase di avanzata decadenza. Le cause del suo conclamato fallimento sono evidenti: alla fine del bipolarismo USA – URSS, non ha fatto seguito una nuova Yalta, cioè un nuovo equilibrio internazionale. L’autoreferenza dell’unica superpotenza superstite, ha fatto venire meno il necessario confronto dialettico tra i protagonisti nella geopolitica mondiale. E’ infatti dal confronto / scontro tra una pluralità di soggetti geopolitici, in cui ciascuno assimila dalla controparte avversaria gli elementi politico – culturali dell’altro, che si genera quella necessaria dialettica tra le parti che rende possibile l’instaurazione di un ordine internazionale. La geopolitica mondiale non si struttura dunque su questo processo dialogico / dialettico da cui scaturisce un equilibrio tra il pluriverso delle potenze mondiali? L’ordine / disordine unilaterale degli USA, non è fallito perché globale, ma non internazionale e fondato non su una filosofia della storia, ma sul presupposto ideologico astratto di concepire il suo avvento come la fine e/o il fine della storia, cioè l’ordine in cui la storia fosse giunta al suo definitivo compimento sia nei suoi cicli temporali che nella sue finalità ultime?

L’ordine di Yalta seguì alla seconda guerra mondiale, in seguito al crollo di uno degli attori principali di questo ordine, non vi è stato un nuovo ordine, ma il tentativo degli Usa di affermarsi come unica potenza mondiale (la «globalizzazione»), il che in realtà ha accresciuto il disordine mondiale, tuttavia risulta già oggi chiaro che questi due decenni di «globalizzazione» sono stati un interregno, durante il quale vi è stata l’ascesa della potenza cinese, e il ritorno della potenza russa che si è spogliata della sua veste sovietica, nonché l’ascesa di altre potenze riunite sotto i cosiddetti Brics, che non è una vera e propria alleanza, ma riflette più o meno l’insieme delle nazioni che non si riconoscono nella subordinazione alla supremazia statunitense. Questo «nuovo mondo» è ancora agli inizi, anche se si è abbastanza già ben delineato, e una sua piena affermazione non avverrà senza conflitti, che sono già in corso, la guerra in Ucraina è già una guerra dell’«Occidente allargato» contro la Russia. Bisognerà fare in modo che tali conflitti non assumano la forma dello scontro diretto e frontale, come durante le due guerre mondiali, dato il tipo di armi oggi disponibili. Magari sarà una guerra strisciante che durerà decenni, «senza limiti» secondo il titolo di un significativo libro di due militari cinesi, ma senza limiti nel senso che investirà varie sfere, dall’azione bellica classica, così come investirà l’economia, la sfera culturale, le comunicazioni, internet ecc. Se invece prendesse la forma di un confronto militare diretto, quasi inevitabilmente comporterebbe l’utilizzo delle armi nucleari, e nessuno può immaginare cosa verrà dopo, anche se come ho già detto in altre occasioni non credo che sarà la fine dell’umanità (risvolto apocalittico della credenza nell’onnipotenza della Tecnica), ma di sicuro qualcosa di paragonabile ad un nuovo diluvio universale (per dirlo in termini biblici).

Comunque, credo che se ci sarà un nuovo ordine sarà solo al termine di questo conflitto appena iniziato. Sono convinto che un ordine multipolare sia possibile, ovvero il mondo suddiviso in grandi spazi, ognuno con un proprio ordine interno. Penso invece che chi crede che il multipolarismo sia solo una fase di passaggio conflittuale che vedrà il suo assestamento con la nascita di una nuova potenza egemone sia in errore, in quanto estrapola le dinamiche della storia europea che è stata fatta di tante «egemonie» (come descritto nella World-systems theory) e ne fa un modello universale. Credo che diverse potenze possano con-vivere sulla Terra definendo un proprio spazio, anche se poi sarà uno spazio variabile, con zone di influenza continuamente ridefinite, ma dal conflitto indiretto e limitato, perché oggi conflitto diretto tra due potenze significherebbe conflitto atomico.

3) L’unilateralismo americano si è imposto come unico modello economico, politico e culturale su scala globale. Mentre nell’ambito geopolitico il mondo americanocentrico, dopo rilevanti e ripetute sconfitte politico – militari degli USA sembra in via di dissoluzione, dal punto di vista culturale non sembra invece registrare sintomi di decadenza. L’americanismo si è diffuso a livello globale come stile di vita individualista, libertario e relativista dal punto di vista etico – morale, consumista ed economicista nella vita sociale e radicato nel pensiero unico nelle espressioni artistico – culturali della società. L’americanismo è stato inoltre supportato dal progresso tecnologico dell’era digitale, che ha profondamente inciso sulla psicologia delle masse, contribuendo massicciamente allo sradicamento delle identità culturali specifiche dei popoli. Al tramonto dell’unilateralismo americano, non fa infatti riscontro anche la fine del modello socio – culturale americanista. Pertanto, non va delineandosi un mondo multipolare in cui l’americanismo potrebbe sopravvivere anche alla fine del primato americano? Come mai non si è finora sviluppata una contro – cultura anti – globalista alternativa al modello americanista? Perché alla omologazione cosmopolita americanista non si contrappone un multilateralismo, quale pluriverso della multiformità delle culture identitarie?

In effetti, l’egemonia occidentale ha lasciato il segno, quel certo modello di vita di cui parlavi si è affermato in tutto il mondo, favorito dal fatto paradossale che le altre civiltà proprio per difendersi dall’espansionismo occidentale ne hanno dovuto adottare alcuni aspetti. C’è da notare però che questo modello di vita è in profonda crisi proprio nel paese dominante. Dario Fabbri in una conferenza pubblica ha affrontato il tema della «depressione americana», intendendo propriamente il disagio psichico, la depressione che si ritiene abbia colpito un terzo della popolazione, insieme ad altri indici di disagio profondo, quali il tasso di suicidi (tre volte quelle europeo), il tasso di omicidi, le stragi di massa, l’obesità di massa. La «narrazione» di Fabbri, come al solito suggestiva, attribuiva la «depressione americana» alla crisi del ruolo americano nel mondo quale nazione che incarna una «missione speciale», ma non considerava l’incidenza dello stile di vita statunitense individualista e radicalmente anticomunitario, e in quanto tale contrario alla natura dell’essere umano quale essere sociale. Difficile negare che l’isolamento e lo svuotamento del contenuto della vita individuale che tale modo di vita comporta abbia un ruolo non trascurabile nel generare tale diffusione di un profondo disagio psichico e morale. Magari altre popolazioni del mondo, come quella cinese e anche russa, che da poco hanno potuto assaporare qualcosa del tanto agognato e propagandato «benessere» del consumismo occidentale, la casa con tutte le comodità, l’automobile, l’abbondanza di cibo (ma di dubbia qualità), le vacanze ecc.. inebriate dalla novità sono poco inclini a vederne gli aspetti negativi e anche distruttivi. Credo che anche su questo aspetto si giocherà il conflitto, se tra le varie potenze in competizione vi sarà chi riuscirà a creare un modello di vita che pur superando la povertà crei meno infelicità rispetto all’american way of life, meno individualista e più capace di includere la popolazione e darle un senso di appartenenza, avrà un’importante carta da giocare, potendosi proporre effettivamente come modello alternativo da seguire.

Credo che che in generale questa diffusione dello stile vita occidentale sia un fatto superficiale e transitorio. L’identità culturale continua ad essere presente, come testimonia la presenza stessa della Cina, della Russia, dell’India, dell’Iran, della Turchia, che sono eredi delle grandi civiltà storiche.

4) Con il fallimento dell’unilateralismo neoliberista americano, tornano di attualità le problematiche ideologiche e politiche novecentesche. Occorre dunque elaborare un bilancio storico dell’era del primato americano impostosi dall’implosione dell’URSS ai nostri giorni. Occorre innanzi tutto rilevare che tutti i mali che l’Occidente imputava al socialismo reale sovietico, quali l’egualitarismo, la struttura massificata della società, il dirigismo economico, il totalitarismo ideologico e politico, sembrano essere stati ereditati ed esasperati dal capitalismo globalista. L’egualitarismo è stato compiutamente realizzato dalla generalizzata proletarizzazione dei ceti medi, la massificazione su scala globale è conseguenza dell’imposizione di un unico modello economico – sociale fondato sulla produzione e sul consumo di massa, il dirigismo economico assumerà dimensioni globali con la rivoluzione digitale del Grande Reset, il pensiero unico scaturito dall’ideologismo liberale si impone mediaticamente come totalitarismo culturale e politico assoluto. Da tali considerazioni, non emerge che l’avvento del capitalismo globale non abbia rappresentato il superamento delle ideologie novecentesche, ma solo l’esasperazione dei loro aspetti più negativi? L’avvento di un nuovo ordine multilateralista non costituisce l’occasione storica per la riproposizione di quelle istanze di giustizia sociale, così come di quelle idealità utopiche che prefiguravano una umanità riconciliata, già patrimonio della cultura novecentesca? Altrimenti, non è largamente prevedibile il rischio che il nuovo ordine multilaterale possa tramutarsi in una competizione geopolitica tra capitalismi di dimensione non più globale ma continentale?

L’«egualitarismo» odierno lo definirei una forma di plebeizzazione (mi si passi il termine), che vede un vertice oligarchico con una plebe alla base, formata di una massa destrutturata e impoverita tanto sul piano materiale che culturale. Le diseguaglianze sono sul piano economico sono enormi, e stando ad una mappa mondiale del coefficiente di Gini che ritrovo su Wikipedia, la situazione è piuttosto simile negli Usa, in Cina e in Russia, che non incarnano dei «modelli alternativi» come erano una volta volevano essere l’Urss e il comunismo. C’è chi guarda alla Cina e alle sue «grandi capacità di sviluppo», anche se può essere nient’altro che una forma accelerata di industrializzazione che nei paesi occidentali c’è già stata. La Cina non sembra un modello granché alternativo al capitalismo occidentale, anche se io credo che si tratti comunque di un sistema diverso che andrebbe studiato. Certo si può imparare da tutti, però non credo che risolveremo il nostro problema interno guardando alla Cina, dovremo risolverlo noi. Per questo, non mi interessa molto la diatriba se il sistema cinese sia o meno socialista. In Cina la politica sembra essere maggiormente alla guida rispetto all’occidente dove predomina l’economia, si tratta di un modello dirigista e meritocratico di ispirazione confuciana, che però gode di un consenso popolare di base dovuto alla capacità di far uscire un miliardo e passa di cinesi dalla povertà e di ridare dignità alla Cina quale grande civiltà storica. Ma è un modello che si basa su presupposti culturali differenti dai nostri, quindi difficile da importare. Credo che gli intellettuali comunisti come Carlo Formenti che sulla scorta dell’ultimo Arrighi guardano alla Cina come «sistema socialista» e potenziale nuovo egemone mondiale, e punto di riferimento per il rilancio del «socialismo», siano nostalgici di quell’universalismo che non avrà più ragion d’essere in un mondo multipolare che vedrà la presenza di diverse potenze, senza una potenza egemone a livello globale. La Cina non potrà essere un nuovo egemone mondiale come sono state le nazioni europee e gli Stati Uniti. Inoltre, credo che le nazioni europee, e l’Italia, per motivi geopolitici, economici e culturali debbano guardare più alla Russia che alla Cina. Esattamente il contrario di quanto sta avvenendo, sono stati infatti tagliati dei legami proficui di scambio che hanno peggiorato la nostra crisi economica. La completa subordinazione alla fallimentare politica statunitense testimonia il grave stato in cui versiamo, dovuto a classi politiche completamente inette e subordinate agli Usa.

Non vedo effettivamente grandi movimenti politici che vogliano far fronte allo stato di effettiva decadenza dell’Occidente palesatosi con la «prova di realtà della guerra», così ben descritto da Emanuel Todd nel suo libro sulla «disfatta dell’Occidente». Forse è questo il problema più grave, l’incapacità delle nazioni occidentali, soprattutto quelle europee, di affrontare un mondo in profonda trasformazione, come testimonia la volontà di proseguire una guerra già persa con la Russia, senza nessun obiettivo preciso se non quello di trascinare questa guerra per non voler prendere atto della sconfitta.

La definizione di un’identità europea risulta quasi impossibile, in quanto l’Europa è una civiltà che ormai appartiene al passato, che non ha saputo raggiungere una forma di unità interna, conclusasi con due guerre mondiali. Successivamente ci si è subordinati agli Usa, dando vita a questo non luogo chiamato Occidente, ma appare già come una soluzione di breve durata. Mentre è possibile immaginare che gli Usa, dopo un periodo di conflitti e crisi interna possano trovare un proprio modo di stare al mondo e convivere con le altre potenze, non riesco invece ad immaginare come possano farlo le nazioni europee, senza scivolare nel piano inclinato di un rapido declino. Da questo credo derivi la subordinazione e l’attaccamento cieco e disperato agli Usa, che rischia di far diventare le nazioni europee mero strumento della politica statunitense.

Accumulazione capitalistica e imperialismo, ovvero espansione senza limiti, a-territoriale e globale, nascono insieme, possiamo dire sono la stessa cosa. Ciò fu già ben compreso da Dante come ho cercato di mostrare nel mio saggio Il folle volo in Occidente. La tragicommedia di Ulisse. La prima accumulazione capitalistica della storia quella fiorentina, nella forma del capitale accumulato dalle famiglie dei Bardi e dei Peruzzi, finanziò, dal lato inglese, la «guerra dei cent’anni», la prima delle innumerevoli guerre interne europee. L’Italia comunale vede i primi vagiti di quella formazione sociale che chiamiamo “capitalismo” che in tappe successive ha visto un enorme sviluppo tecnico ed economico, e, allo stesso tempo, l’espansione in tutto il mondo alla ricerca di materie prime e mercati. Nel momento in cui tale espansione raggiunge i suoi limiti nella presenza di altre potenze, si impone un cambiamento di sistema, a partire dall’Occidente dove tale sistema sociale è nato e si è affermato.

L’impoverimento, la desertificazione, l’atomizzazione sociale, la devastazione culturale e la mancanza di prospettive dovute alla incapacità di adeguarsi ad un mondo che cambia, purtroppo da parte non solo delle classi dominanti, ma riguardanti il decadimento dell’intera collettività, sono le cause della mancanza di movimenti sociali, nonostante il continuo peggioramento delle condizioni di vita delle classi popolari, eccettuata la breve stagione del «populismo» che si è caratterizzato per la sua debolezza e inconsistenza.

Di fronte agli ulteriori e inevitabili shock vi sarà un’effettiva reazione collettiva, oppure prevarrà la presente incapacità di reagire? Lo sapremo solo vivendo, per dirla con Lucio Battisti.

5) Al primato unilaterale americano ha corrisposto l’espandersi a livello globale di un nuovo modello neoliberista in cui l’economia finanziaria prevale sull’economia della produzione industriale. Pertanto, con il venir meno del primato dell’industrialismo, è scomparsa anche la dicotomia borghesia / proletariato e con essa la dialettica della lotta di classe. Sembra tuttavia che nella struttura elitaria verticalizzata della società neoliberista, estesa su scala globale, si siano riprodotti i presupposti rivoluzionari del materialismo storico – dialettico della filosofia di Marx. Tale prospettiva è ben delineata in un saggio di Flores Tovo dal titolo “Considerazioni sul presente storico”: “C’è un fatto tuttavia che bisogna sottolineare, ossia che il negletto e vituperato Marx, sembra che abbia avuto ragione nella sua analisi sul capitalismo proprio nei giorni nostri. I presupposti concreti e reali per attuare una rivoluzione anticapitalista si sono tutti realizzati. La concentrazione del potere finanziario è in mano a poche decine di persone; la socializzazione del lavoro con il macchinismo automatico è stato imposto (il “Gestell” heideggeriano) in tutti i settori delle società; l’altro grado di sviluppo tecnico ha comportato l’avvento dell’automazione; i ceti medi, sia quelli nuovi, che quelli tradizionali stanno scomparendo, per cui la proletarizzazione è un fatto compiuto. Infine l’impoverimento delle masse sta avanzando sempre più a livello mondiale”. Aggiungasi inoltre che l’attuale capitalismo è in una fase di declino irreversibile in quanto esso può sussistere artificialmente solo mediante incessanti emissioni di liquidità e tassi a zero, salvo poi generare inflazione e gravi crisi del debito. Non si sta inverando dunque, la previsione marxiana secondo cui il capitalismo sarebbe collassato per l’incapacità di generare forze produttive? Non dunque configurabile l’avvento del multilateralismo, come l’esito di una lotta di classe instauratasi nel contesto geopolitico globale tra Nord (USA e Occidente – classe dominante) e Sud del mondo (gruppo del BRICS e paesi terzi – classe dominata), che comporti la crisi e il collasso del capitalismo?

Sicuramente, abbiamo ancora noi oggi, eufemisticamente, un problema con il Capitale, e in questo senso l’analisi marxiana resta indispensabile, come giustamente scrive Tovo, ma proprio per recuperarne quanto è ancora valido è necessaria la previana «correzione comunitaria» di quella forma di universalismo storicamente fallimentare che apparteneva tanto a Marx quanto al comunismo storico. Credo che vada abbandonata la prospettiva del comunismo quale utopia globalista, ma conservato il socialismo quale forma di ripristino del controllo della politica sul potere del Capitale, in forme nuove che sono tutte da ripensare.

Nel mio libro Per un nuovo socialismo ho proposto un diverso modello di spiegazione delle rivoluzioni storiche, quali forme di ristrutturazione interna dovuta al conflitto esterno, nel caso della Francia come ristrutturazione della struttura statale, e relativo esercito (l’introduzione della leva di massa fu un’innovazione decisiva introdotta dalla Rivoluzione francese), per vincere il conflitto con l’Inghilterra, nel caso della rivoluzione russa come forma di modernizzazione per affrontare il pericolo dell’espansione europea, concretizzatasi con l’invasione nazista. In generale, le rivoluzioni (ovvero le forme più o meno profonde di ristrutturazione interna di una società), sono un portato della guerra. Se guardiamo all’esperienza storica guerra e rivoluzione viaggiano insieme. Nel caso l’attuale oligarchia dominante in Occidente, che ha devastato le sue stesse società, che versano in uno stato di effettiva decadenza (secondo il quadro complessivo che ha delineato Todd), dovesse subire una sconfitta nella guerra appena iniziata, potrebbe avere «seri problemi» interni. Già qualche segno si vede negli Stati Uniti.

6) La contrapposizione tra unilateralismo americano e multilateralismo è sorta sulla base delle rivendicazioni identitarie da parte dei paesi non allineati con l’Occidente, spesso identificati dalla potenza americana come “nemico assoluto” o “stati canaglia”. Al dissolversi dell’unilateralismo americano e delle sue pretese di occidentalizzazione del mondo, potrebbe dunque subentrare, non ad una comunità geopolitica mondiale formata da imperi continentali, ma ad una frantumazione del mondo in tante piccole potenze conflittuali sorte su base etnico – regionale. Tale fenomeno è già in atto e rappresenta una delle contraddizioni più evidenti prodotte da un processo di globalizzazione che, oltre ad omogeneizzare il mondo, secondo le sue premesse ideologiche, ha generato innumerevoli frammentazioni e conflitti tra nazioni e/o etnie la cui identità si richiama ad origini mitico – storiche spesso assai labili. Tale processo di disgregazione, ha condotto alla progressiva erosione della coesione interna degli stati nazionali. Il multilateralismo dunque, non potrebbe degenerare in una “Caoslandia” geopolitica globale da cui non scaturirà un nuovo ordine mondiale, ma bensì un bellum omnium contra omnes incontrollabile e senza soluzioni di continuità? Non a caso, i principali attori geopolitici dei BRICS non sono gli stati nazionali, ma la Cina, la Russia, l’India, l’Iran, quegli “stati – civiltà” eredi degli antichi imperi multinazionali?

Credo che le potenze che si oppongono all’egemonia statunitense non mostrino grandi problemi interni. La Russia ha dimostrato la sua coesione interna con la guerra in Ucraina, l’eredità del suo sistema imperiale funziona, le popolazioni di cultura islamica presenti al suo interno dopo la conclusione delle guerre in Cecenia, non creano più grossi problemi, anzi i ceceni hanno combattuto in Ucraina e per un certo periodo, all’inizio della guerra, hanno avuto anche un certo protagonismo. Grandi problemi interni non hanno la Cina e l’Iran. I processi di disgregazione sembrano esservi maggiormente laddove non vi è una potenza che faccia da centro ordinatore. La rivista Limes ha individuato una grande fascia del mondo chiamata «caoslandia» afflitta dalla conflittualità di cui parlavi. Vi è il grande problema della civiltà arabo-islamica che non è riuscita ad effettuare la modernizzazione necessaria per resistere all’espansionismo occidentale (diversa è la questione dell’Iran e della Turchia che si richiamano all’eredità di civiltà storiche ben definite). Così come è il caso dell’Africa che non è riuscita a sviluppare al proprio interno una potenza in grado di resistere alle potenze estere. In generale, in queste aree le conflittualità locali e la frammentazione sono alimentate da potenze esterne, soprattutto occidentali.

La questione degli stati-civiltà è di grande importanza. Così si autodefiniscono sia la Cina che la Russia. Vi è in merito un interessante libro di Zhang Weiwei sull’«ascesa della Cina come stato-civiltà», che sarebbe l’unico autentico stato-civiltà data la sua continuità millenaria, ma il termine è stato raccolto dallo stesso Putin che ha definito la stessa Russia uno «stato-civiltà». L’identità dovuta all’appartenenza ad una comune civiltà, è diversa dall’identità etnica, in quanto diverse etnie o anche Stati con diverse lingue, culture, e religioni possono riconoscersi nella appartenenza ad una comune cultura-civiltà. Sulla questione della civiltà vi è un’ampia tradizione di studi che fanno capo a Braudel, ma di grande interesse restano, secondo me, le intuizioni di un grande storico come Toynbee, anche il testo di Huntington sullo «scontro di civiltà» non è da buttare, perché contiene un riconoscimento dell’importanza del fattore cultura-civiltà, nonostante l’uso strumentale che ne ha fatto una certa destra per affermare l’esistenza di un inesistente «pericolo islamico».

Il motivo per cui viene valorizzato il fattore dell’identità della cultura-civiltà è dovuto alla sua rilevanza storica, visto che appunto la Russia, la Cina, l’Iran, l’India, la Turchia sono eredi delle civiltà storiche, valorizzare questa identità ha, inoltre, un valore strategico a lungo termine perché invece l’Occidente la propria identità l’ha smarrita.

Gli stati-civiltà non sono semplicemente il ritorno degli antichi imperi (come scrive Christopher Coker in un libro dedicato agli «stati-civiltà», ma senza realmente prendere sul serio l’argomento, perché, si sa, l’unica vera civiltà è quella occidentale), ma sono gli imperi del passato che hanno attraversato la pressione modernizzatrice dell’espansionismo occidentale. Hanno delle caratteristiche dello stato moderno (non sono retti dall’imperatore, dallo zar, dal sultano o dallo scià), ma conservano delle caratteristiche degli imperi di cui sono eredi. In generale, ritengo che questa eredità imperiale non ha i limiti dello stato-nazione classico europeo, a cui è necessaria una certa omogeneità culturale, e sia maggiormente efficace nel gestire i «grandi spazi» raccogliendo al proprio interno diverse etnie, identità religiose e culturali, assegnandogli un proprio territorio. Mentre il multiculturalismo occidentale realizza un melting pot, un minestrone frullato di diverse identità, che devono convivere nello stesso spazio, che nei periodi di crisi può diventare esplosivo. Il cosiddetto multiculturalismo occidentale è in realtà un distruttore nichilistico delle identità culturali sia della propria che di quella altrui.

In generale, credo che gli «stati-civiltà» siano una nuova formazione storica rispetto allo «stato-nazione» europeo, che andrebbe studiata attentamente.

7) Dal tramonto del primato dell’unilateralismo americano, emerge una chiara e definitiva confutazione dell’ideologia della «fine della storia» di Francis Fukuyama, che aveva inaugurato l’era della globalizzazione capitalista all’indomani della dissoluzione dell’URSS. La storia dunque non è mai un processo compiuto, ma un continuo divenire dagli esiti imprevedibili. Questa rivincita della storia sulla post – storia comporterà un profondo riorientamento della geopolitica globale. Se dunque all’unipolarismo americano subentrerà il multipolarismo, non dovrà essere necessariamente instaurato un nuovo ordine mondiale in cui il primato dei diritti individuali cederà il passo a quello dei diritti collettivi? Ai diritti dell’uomo non dovrebbero essere anteposti i diritti dei popoli in quanto il mondo multipolare è per definizione una struttura geopolitica comunitaria a livello mondiale? Gli stati sono i soggetti che costituiscono la comunità del mondo multipolare. Ma la concezione dello stato nazionale del ‘900, quale entità rappresentativa delle identità dei popoli è stata stravolta dall’avvento del cosmopolitismo globalista. Le identità dei popoli subiscono del resto trasformazioni nel corso della storia. L’identificazione poi della nazione con l’etnicità è un relitto astorico dei secoli passati. Afferma infatti a tal riguardo Alain de Benoist in una recente intervista: “La vera natura dell’uomo, è la sua cultura (Arnold Gehlen): la diversità delle lingue e delle culture deriva dalla capacità dell’uomo di affrancarsi dalle limitazioni della specie. Voler fondare la politica sulla bioantropologia equivale a fare della sociologia un’appendice della zoologia, e impedisce di comprendere che l’identità di un popolo è innanzitutto la sua storia”. Se quindi l’identità di un popolo coincide con la sua storia e la sua cultura, attualmente le culture identitarie, proprio perché scaturiscono da valori e periodi storici premoderni, sono trasversali agli stati. Assistiamo infatti al proliferare a livello mondiale di conflitti interni agli stati, a contrapposizioni insanabili tra opposte culture, visioni del mondo, che assumono di volta in volta carattere religioso, politico, culturale, sociale. Spaccature verticali della società con effetti destabilizzanti per gli stati, si manifestano ovunque nel mondo, (con particolare violenza proprio negli USA). Sembrano delinearsi due fronti contrapposti a livello globale, tra l’ideologismo liberal della modernità e le culture ispirate al comunitarismo identitario. Un nuovo ordine mondiale non scaturirà quindi da profonde trasformazioni storiche e geopolitiche globali che comporterebbero una guerra civile mondiale attualmente ancora a livello potenziale?

L’identità culturale è un fattore costitutivo della natura umana, sono d’accordo con de Benoist e in quanto tale si stabilisce differenziandosi dalle altre culture, per questo la diversità culturale è una ricchezza, una cultura omogenea per tutta l’umanità sarebbe un livellamento che comporterebbe la scomparsa di ogni cultura. L’identità culturale come fattore costitutivo della natura umana è implicita anche nel comunitarismo previano. La differenziazione culturale comporta il rischio del conflitto, diciamo che fa parte della vita, ma non necessariamente. Anche la costituzione di una famiglia possiamo dire fa parte della natura umana, ma l’attaccamento alla propria famiglia non comporta necessariamente l’odio per le famiglie altrui, anzi direi che essere soddisfatti della propria vita familiare rende più inclini ad apprezzare e rispettare le famiglie altrui. Ma avendo presente che però la famiglia assume forme diversissime, e a volte anche patologiche, come la «famiglia nucleare» occidentale che ha finito per distruggere l’idea di famiglia stessa, una delle cause delle patologie dell’individualismo occidentale. Lo stesso si può dire dell’identità culturale, anche in questo caso, l’autentico apprezzamento delle altre culture passa per il riconoscimento e l’attaccamento alla propria identità culturale.

Come dicevo precedentemente gli «stati-civiltà» sono maggiormente in grado di far fronte ai particolarismi identitari, che sono l’altra faccia del livellamento culturale indotto dalla globalizzazione, e allo stesso tempo alimentati e sfruttati dall’Occidente. Senza dubbio un nuovo ordine mondiale non si affermerà senza conflitti, e un effetto caotico pericoloso (una caoslandia, per dirla con quelli di Limes, in cui rischia di ricadere anche l’Italia) potranno averlo quelle forme di identità nazionale, etnica, culturale, religiosa che non sapranno a ricondursi a forme di identità a più ampio raggio e più lungo termine come l’appartenenza ad una comune civiltà.

8) Il nuovo ordine multilaterale non potrà che ripristinare i principi di Vestfalia. Si preannuncia allora un ritorno al ‘900? No, perché siamo in una fase storica che succede naturalmente al ‘900. L’ideologia astorica liberale sarà archiviata dai suoi stessi fallimenti. L’unilateralismo americano è infatti in coerente continuità storica con l’eurocentrismo anglosassone otto / novecentesco e ne rappresenta sua evoluzione in dimensioni globali. Esso si è rivelato incompatibile con la realtà storica perché geneticamente incapace di concepire l’ “altro” da sé. Ma l’avvento del multilateralismo comporterà anche la deglobalizzazione del mondo? In realtà le potenze emergenti del BRICS sono coinvolte nei processi evolutivi della globalizzazione, quali la rivoluzione digitale e la transizione green. Anzi, la Cina è destinata a svolgere un ruolo di protagonista nella quarta rivoluzione industriale. Ci si chiede pertanto, come sia concepibile un ordine multilaterale senza un profondo riorientamento dell’economia globale. Alla globalizzazione non dovrebbe subentrare la creazione di tante aree economiche integrate su scala continentale? Ma soprattutto, è concepibile un multilateralismo senza un processo di deglobalizzazione geopolitica e dedollarizzazione economica? Il multilateralismo infine, come svolta epocale, non si identifica con una deocidentalizzazione del mondo che prefiguri nuovo modello di sviluppo?

La «pace di Vestfalia» seguì alla conclusione della «guerra dei trent’anni», e alle devastanti guerre di religione e civili che insanguinarono l’Europa, allora le potenze europee convenirono sulla necessità di accordarsi su una forma di regolazione dei rapporti e di conflitti tra gli stati, questi accordi ancora osservati durante il periodo delle guerre napoleoniche, in cui ancora si rispettava il principio di non coinvolgere la popolazione civile, furono distrutti con l’affermarsi della «guerra totale» durante le due guerre mondiali, in cui la distruttività e l’assenza di regole nella condotta dei conflitti superarono ogni limite.

Un comportamento come quello degli Usa che hanno impiccato Saddam Hussein, ucciso e profanato il cadavere di Gheddafi, processato e fatto morire in carcere Milosevic, è un’eredità delle due guerre mondiali dove si è persa ogni regola nella condotta della guerra e si è passati dal justus hostis alla criminalizzazione del nemico, come osservava Zolo sulla scorta di Schmitt.. Questa eredità è così forte che appare quasi assurdo affermare che in guerra si debbano osservare delle regole, è noto il detto «in amore e in guerra tutto è lecito». Voglio invece affermare che questa è un’eredità di un preciso periodo storico, e che invece in guerra devono essere osservate delle regole.

Durante le ultime guerre statunitensi ogni volta il nemico ha subito una «redutio ad hitlerum», hitler-milosevic, hitler-saddam, Ma è stato il caso di quel periodo particolare della «globalizzazione» e si è esercitato contro nazioni incapaci di difendersi rispetto alla supremazia tecnica statunitense. Oggi gli Usa sono molto più riluttanti a lanciarsi in un intervento militare contro l’Iran, fortemente voluto da Israele, quale compimento del progetto di un «nuovo Medio Oriente» (Benjamin Netanyahu) che ora passa per la liquidazione prossima al genocidio della popolazione palestinese. Probabilmente il progetto incontrerebbe il favore anche dei vertici americani, se non sapessero che un attacco all’Iran non sarebbe quasi a costo zero (in termini di danni militari subiti). È finito il tempo delle «dimostrazioni di potenza» come è stato nel caso della Jugoslavia, dell’Iraq, della Libia, per non parlare della fallimentare, tanto costosa quanto inutile militarmente guerra in Afghanistan.

È fondamentale ritrovare il principio del justus hostis nel conflitto in corso. Ciò vuol dire che il conflitto inevitabile tra gli Usa e le potenze che gli si oppongono, non dovrà superare certi limiti, dovrà assumere la forma di una competizione legittima, in cui è assente la criminalizzazione del nemico. Come scriveva Schmitt ne Il nomos della terra i principi di Vestfalia con il passaggio dalla justa causa belli allo justus hostis resero possibile «il fatto stupefacente che per duecento anni in terra europea non ha avuto luogo una guerra di annientamento». Il conflitto con la Russia e la Cina non può assumere la forma della guerra di annientamento, in questo senso va sicuramente superata l’eredità delle due guerre mondiali ed è necessario il ritorno «principi di Vestfalia» estesi a livello globale. Magari cominciando con il porre fine alla sciocca retorica anti-putiniana.

Il carattere fallimentare delle guerre del periodo della «globalizzazione» sembra abbia reso più ragionevole la politica militare statunitense, resta da capire come gli Usa possano adeguarsi ad un mondo multipolare essendosi costituiti come sistema globale, sostenuto sia dalla «spada» delle basi militari sparse in tutto il globo, sia dall’«oro» del dominio del dollaro. La dimensione finanziaria è strettamente legata a quella militare, la perdita di influenza militare accresce la «de-dollarizzazione», questa a sua volta riduce gli strumenti finanziari per il mantenimento del sistema delle basi in tutto il mondo. È chiaro che la crisi di questo sistema proseguirà, e potrebbe arrivare in un arco di tempo non prevedibile a dei punti di rottura. Come l’Occidente a guida statunitense affronterà questa crisi non è possibile saperlo. Vi sarà il caos interno, di cui ci sono già molti segni? Vi sarà un colpo di testa nel tentativo di «risolvere» il problema annientando militarmente le potenze che si oppongono agli Usa? Ancora non si vedono le forze che possono avanzare l’unica soluzione del problema, cioè fine della globalizzazione finanziaria e drastica riduzione delle basi militari statunitensi nel mondo, re-industrializzazione e ricreazione di un mercato interno basato su una drastica riduzione delle diseguaglianze, in generale ritorno della politica al comando rispetto al «predominio dell’economia». Tale ultima soluzione passa necessariamente per la sconfitta delle attuali oligarchie dominanti, ma non si vedono al momento le forze politiche potenzialmente in grado di farlo.

Ritornare a fare la guerra come durante le due guerre mondiali avrebbe degli effetti apocalittici data l’entità delle potenze in gioco e la distruttività delle armi odierne. A osservare la guerra in Ucraina si direbbe che vi sia un tacito accordo sulla presenza di limiti («linee rosse») che non devono essere superati, la Russia ha voluto chiarire fin dall’inizio il carattere limitato della sua guerra (definita «operazione speciale»), l’«Occidente allargato» non interviene direttamente e non fornisce all’Ucraina armi con cui colpire direttamente il territorio russo. Reggeranno questi taciti accordi, si manterrà il principio che non bisogna superare certi limiti? Questo lo possiamo solo sperare, nonché diffondere in modo organizzato la consapevolezza della pericolosità del conflitto in corso, date le immani conseguenze seguenti al superamento di certi limiti. Ma, altra grave lacuna da registrare, è l’assenza, al momento, di un significativo movimento politico contro la guerra.

La «de-occidentalizzazione» la auspico, la chiamerei «de-globalizzazione» «de-universalizzazione» ovvero superamento del falso universalismo in cui è caduto l’«Occidente», auspico, in quanto italiano ed europeo, il ritrovamento di noi stessi, del rapporto con le nostre radici culturali, nella consapevolezza che la civiltà europea è crollata con le due guerre mondiali, e questo rende molto difficile ritrovare la nostra identità culturale che sarebbe tutta ri-costruire. Una massima di Goethe recita: «Tutto può perdere un uomo fin quando rimane se stesso». Trasposta a livello collettivo tale massima ci dice che l’identità culturale è il bene maggiore, quando viene smarrita si perde tutto. Abbiamo rinunciato alla nostra identità, ricevendone in cambio il «benessere», un termine ingannatore, perché non siamo diventati più felici, anzi è vero il contrario. Questo è il problema più difficile da affrontare, e riguarda principalmente le nazioni europee. Si spera che dato il fallimento della «globalizzazione» si segua un percorso diverso, ma siamo ancora gli inizi di una nuova era e si fatica a trovare la strada.

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Governare dietro le quinte, a cura di Guido Melis e Alessandro Natalini, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

A.A.V.V.  Governare dietro le quinte, a cura di Guido Melis e Alessandro Natalini, edizioni il Mulino, Bologna 2023, pp. 201, € 20,00.

Questa raccolta di saggi ha quale oggetto i gabinetti ministeriali (o meglio gli uffici di staff), cioè quegli uffici composti da “una rete di persone provenienti da grandi corpi dello Stato che per periodi significativi della loro carriera hanno occupato le posizioni di capo del gabinetto e – specialmente – dell’ufficio legislativo”, in genere (ma non sempre) non appartenenti alla burocrazia del ministero al quale sono addetti. Dati la collocazione, il carattere, il trattamento e il sistema di “reclutamento” costituiscono un’eccezione all’ordinamento normale delle amministrazioni: la scelta è fiduciaria (da parte del ministro), la durata è, di solito, quella del Ministro, la nomina non comporta avanzamenti di “carriera”. Accanto a ciò e a conferma del carattere “eccezionale” di queste figure sono collocati sulla linea di confine tra diversi ordini, organi e poteri: nei crocevia tra amministrazione e politica, Parlamento e Governo, potere amministrativo, governativo e legislativo. Il tutto in uno Stato, come quello contemporaneo che è, sul piano materiale uno Stato amministrativo, ossia connotato della prevalenza per funzione, ampiezza dei poteri, dei compiti e delle risorse e così dal primato del potere governativo-amministrativo. Primato il quale sul piano formale, compete al Parlamento, tenuto conto del principio di legalità e della riserva di legge. Proprio questa collocazione nei crocevia, poco o punto “regolati” è alla radice del potere dei gabinetti, alimentato e connotato proprio dai caratteri delle rette che vi s’intersecano. Così dalla politica prendono la temporaneità e dall’amministrazione la “professionalità”, mentre non è detto che la stessa scelta discrezionale del Ministro renda “stabili” coppie ricorrenti tra Ministri a capi degli “uffici di staff” (con politicizzazione del capo di gabinetto). Succede, ma capita anche l’inverso: ossia che capi di gabinetto abbiano collaborato con ministri diversi, talvolta provenienti da diverse forze politiche: i c.d. “gabinettisti professionisti”. Sempre dal connotato di Stato amministrativo materiale, consegue l’importanza degli uffici legislativi dei ministeri, che di fatto sono i “veri” legislatori, tenuto conto che gran parte delle norme legislative (decreti legislativi delegati e decreti-legge) sono redatte da questi, e l’altra attentamente dagli stessi “controllata” nell’iter di formazione.

Nei saggi è considerato anche il ruolo differente (e crescente) dei gabinetti e dei loro dirigenti dall’Unità d’Italia in poi; suddiviso in cinque fasi.

Nelle prime due (la liberale e la fascista) il ruolo di tali uffici era limitato e i capi erano tratti dalla stessa burocrazia ministeriale. Con la Repubblica, data la diffidenza nei confronti della burocrazia, ereditata dal fascismo, prevale la nomina di elementi tratti dai grandi corpi della Repubblica (Consiglio di Stato, Avvocatura dello Stato, Corte dei Conti); nella quarta e quinta fase (da fine anni ’60 in poi) l’estrazione è la stessa ma cresce la fidelizzazione al vertice politico. Ora si prevedono “due effetti negativi: il primo consiste in quella che si potrebbe definire come la supplenza nei confronti della dirigenza amministrativa (che risulta depressa e ulteriormente emarginata); il secondo come la supplenza nel confronti della politica: una politica che, all’atto pratico, priva com’è di conoscenza approfondita della macchina amministrativa, finisce sovente sotto tutela dei suoi principali collaboratori”.

Dato l’assetto della competenza e il carattere gerarchico dell’organizzazione amministrativa, l’influenza di tali uffici non si esercita tanto con provvedimenti, quanto con consigli, suggerimenti, indicazioni. I consigli vengono dati verso il basso, ma soprattutto verso l’alto: cioè al vertice politico (dove possano tradursi in comandi).

Proprio il particolare carattere del rapporto tra gabinetti e Ministro in carica ricorda l’argomento del saggio di Carl Schmitt, tradotto in italiano da Antonio Caracciolo e pubblicato sul Behemoth n. 2 nel 1987 (cui sono seguite altre due diverse traduzioni pubblicate nei decenni successivi), dal titolo Colloquio sul potere e sull’accesso presso il potente.

In tale breve saggio, scrive Schmitt che, “anche il principe più assoluto deve affidarsi a informazioni e relazioni e dipende dai suoi consiglieri… Chi fa una relazione al detentore del potere o lo informa, partecipa di già al potere, indipendentemente dal fatto che egli sia un ministro che controfirma responsabilmente o che sappia in modo indiretto farsi da lui ascoltare… Così ogni potere diretto diventa subito soggetto ad influenze indirette. Ci sono stati detentori del potere che hanno avvertito questa dipendenza e sono andati per questo in collera”. Per cui “In altre parole: davanti ad ogni luogo del potere diretto si forma un’anticamera di influenze e poteri indiretti, un accesso all’orecchio, un corridoio verso l’anima del detentore del potere. Non c’è potere senza questa anticamera e senza questo corridoio”. E ricordava come esempio storico di controversia sull’accesso al potente la caduta di Bismarck e, in letteratura, il Don Carlos da Schiller. Per cui i capi di gabinetto possono essere considerati una specie, rapportata all’organizzazione dello Stato moderno, e con caratteristiche peculiari, di potere indiretto (in altri tempi e contesto attribuito al Papa).

Teodoro Klitsche de la Grange

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