L’oceano mondiale contro il continente, di  Jacek Bartosiak

L’oceano mondiale contro il continente

La potenza marittima dominante sta acquisendo forza per una contesa con una crescente potenza terrestre.

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Per secoli, il potere che controlla i mari – il “World Ocean” – ha ostacolato con successo i rivali continentali e dettato le regole del commercio mondiale. Il geografo tedesco Friedrich Ratzel descrisse questo conflitto come uno tra il Leviatano e il Behemoth, rispettivamente. Il Behemoth cerca di fare a pezzi il Leviatano usando le corna e i denti, mentre il Leviatano cerca di soffocare il Behemoth in modo che non possa respirare, mangiare o bere. Classicamente, questo si riferisce ai blocchi navali, ma nel mondo moderno il Leviatano – gli Stati Uniti – ha altre opzioni meno rischiose, come tagliare l’accesso del Behemoth alla valuta di riserva globale. Questo era di progettazione.

Halford Mackinder credeva che nel tempo il continente avrebbe ottenuto un chiaro vantaggio sull’Oceano Mondiale perché l’Heartland eurasiatico, sebbene inaccessibile alle navi mercantili, è inaccessibile anche alle navi da guerra, ed è quindi immune all’autorità dell’Oceano Mondiale. Allo stesso tempo, le innovazioni nei trasporti ferroviari, stradali e aerei migliorerebbero notevolmente i collegamenti terrestri. La massa terrestre eurasiatica, sosteneva Mackinder, possedeva tutti gli elementi per la mobilità economica e militare (quella che oggi chiameremmo la libera proiezione del potere) su distanze molto lunghe. Come ulteriore vantaggio, il continente godrebbe di linee di comunicazione interne in tutta la massa terrestre eurasiatica, in contrasto con le inefficienti linee di comunicazione esterne del potere che controlla l’Oceano Mondiale intorno all’Eurasia.

Oggi, la Cina sta implementando le idee di Mackinder per il consolidamento eurasiatico tramite la sua Belt and Road Initiative. Autostrade, ferrovie, collegamenti aerei, porti, cavi, 5G e flussi di dati sono tutti sintomi del consolidamento eurasiatico. I decisori di Pechino non hanno dimenticato gli insegnamenti di Nicholas Spykman – anche la loro Belt and Road corre lungo la costa e attraverso i mari costieri eurasiatici – ma il continente verrà necessariamente prima.

L'iniziativa cinese Belt and Road

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La firma del patto di investimento UE-Cina nel dicembre 2020 è stato un segnale che l’unità transatlantica che ha definito gli equilibri di potere dal 1945 potrebbe scomparire molto rapidamente e che l’Eurasia potrebbe diventare un sistema per la prima volta. Il sistema eurasiatico sarebbe molto complesso e la concorrenza per i mercati e il denaro sarebbe intensa. Una tale svolta degli eventi sarebbe una minaccia per lo stato dell’Oceano Mondiale, una minaccia che gli Stati Uniti non possono tollerare.

La battaglia per la supremazia ha sempre riguardato le catene del valore e la conseguente divisione globale del lavoro. Questi determinano nuove tecnologie e cicli di investimento, che conferiscono denaro e potere a coloro che entrano nel mercato per primi o in una posizione strutturale migliore. L’arbitro ultimo è la potenza militare in grado di dominare la scala dell’escalation, che per la maggior parte è determinata dalla ricchezza.

Dopo il crollo dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti godettero di un dominio indiscusso (o, come preferiscono chiamarlo gli americani, leadership o primato). È stata l’unica egemone negli ultimi 30 anni di globalizzazione, sostenuta dal dollaro, dalla Marina degli Stati Uniti e dalle sue portaerei, dal GPS, dalla Silicon Valley, dalla Borsa di New York, da Hollywood, dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale. Gli Stati Uniti stabiliscono le regole, che gli conferiscono un’influenza massiccia sulla divisione del lavoro nella produzione, nei servizi e nelle catene del valore; prezzi e flussi strategici; la valuta in cui avvengono le transazioni; la direzione e gli obiettivi di investimento; cicli tecnologici e nuove scoperte scientifiche; e regolamenti che modellano il mercato.

La ricchezza e il potere degli Stati Uniti si basano sulle dimensioni della classe media americana, sulla sua immensa capacità di domanda e sulla forza del mercato interno degli Stati Uniti, ma tale potere non sarebbe sorto senza il commercio marittimo nell’Oceano Mondiale. Né gli americani avrebbero il primato senza il controllo dell’Oceano Mondiale, dove ha luogo la maggior parte dei flussi strategici mondiali. Le regole dell’Oceano Mondiale sono fatte in America e difese dalla US Navy, che domina i suoi nemici con la sua flotta ammiraglia di portaerei in grado di proiettare forza lontano dalle coste del Nord America.

Nel mondo moderno, la proiezione di potenza globale attraverso gli oceani e il controllo del traffico marittimo fanno sempre più uso di molti sistemi di osservazione e comunicazione spaziali che aiutano sia la navigazione che la guerra. Ciò riduce notevolmente la nebbia di guerra, che era la rovina del dominio marittimo, soprattutto in mare aperto. Ha aiutato gli Stati Uniti a controllare il corso della globalizzazione e a promuovere i principi del commercio mondiale che hanno funzionato a loro favore, il tutto mentre gli Stati Uniti hanno mantenuto la loro posizione dominante nella finanza internazionale e il dollaro funge da valuta mondiale. Gli Stati Uniti sono stati in grado di diffondere la propria influenza attraverso gli investimenti e il mantenimento di alleanze militari vantaggiose per Washington, come accordi bilaterali con Giappone, Australia e Corea del Sud e accordi di sicurezza collettiva come la NATO.

Negli ultimi 500 anni, il Nord Atlantico è stato il fulcro geostrategico del mondo. Il controllo del Nord Atlantico nel XIX e XX secolo ha aiutato gli Stati Uniti e la Gran Bretagna a coordinare e attuare congiuntamente le politiche durante le principali guerre europee dell’epoca. Durante entrambe le guerre mondiali e la guerra fredda, la comunicazione ininterrotta dalla costa orientale degli Stati Uniti all’Europa occidentale è stata la base della forza della NATO e il fondamento della presenza avanzata dell’America nel continente, che ha reso credibili le garanzie di sicurezza degli Stati Uniti in Europa contro il Vecchio Continente.

L’obiettivo fondamentale della strategia di entrambe le potenze è proteggere i loro interessi e la loro sicurezza e garantire la stabilità e la prevedibilità di un sistema internazionale che serva i loro interessi. Gli elementi chiave di questo sistema sono le linee di comunicazione, anche transfrontaliere, che garantiscono stabilità sociale ed economica e, ove necessario, assistenza militare. Esistono differenze significative tra i confini terrestri e marittimi, e quindi tra le linee di comunicazione. Le linee di comunicazione terrestri sono sempre meno sicure perché le persone vivono sulla terraferma e le loro azioni e interazioni (flussi di capitali, rimesse, migrazioni, ecc.) significano che i confini terrestri sono molto più inclini a cambiare, specialmente in assenza di barriere naturali come le montagne , paludi o foreste.

Inoltre, bilanciare i comportamenti contro la pressione dei poteri terrestri è molto più comune perché a terra ogni minaccia è più immediata. La storia dell’Europa ne è un esempio lampante. I confini terrestri generano più conflitti, che era un’altra ragione per cui l’Eurasia era strutturalmente più debole dell’Oceano Mondiale.

Alfred Thayer Mahan è famoso per aver affermato che le potenze navali che controllano le rotte marittime sono intrinsecamente più potenti delle potenze terrestri. Questo è vero, ma c’erano e ci sono ancora importanti vie di terra. In effetti, per alcuni paesi eurasiatici, come il Kazakistan, non c’è alternativa. Uno di questi percorsi era l’antica Via della Seta, che collegava la Cina all’Europa e attraversava il Medio Oriente e il Levante. Una rete di oleodotti e gasdotti, ferrovie e autostrade essenziali per il funzionamento dell’economia globale garantisce ancora la connettività tra le aree ricche di risorse.

L’Eurasia – abitata da molte nazioni, stati, imperi, gruppi etnici e persino tribù legate insieme in una rete di interessi conflittuali – è estremamente volatile, soprattutto su lunghi orizzonti. Le alleanze sono mutevoli e la fiducia è scarsa. Al contrario, la stabilità delle rotte marittime può cullarci nella falsa sensazione che la navigazione degli oceani sia libera e aperta, al di là del controllo di qualsiasi potenza. Questa percezione persiste in tempi di dominio di un’unica potenza marittima, prima la Gran Bretagna e ora gli Stati Uniti. Ma l’egemonia del mare può in qualsiasi momento negare ad altri il diritto alla navigazione libera e indisturbata, interrompendo i flussi marittimi strategici. Il commercio marittimo tedesco è stato interrotto durante la prima guerra mondiale e gli Stati Uniti hanno interrotto Cuba durante la crisi missilistica cubana. Lo stesso potrebbe essere tentato in qualsiasi momento lungo gli approcci a Malacca o nel Mar Cinese Meridionale,

Jacek Bartosiak è un esperto di geopolitica e geostrategia e analista senior di Geopolitical Futures. È fondatore e proprietario di Strategy & Future. Il Dr. Bartosiak è l’autore di tre libri: Pacific and Eurasia: About the war (2016), che tratta dell’imminente rivalità delle grandi potenze in Eurasia e della potenziale guerra nel Pacifico occidentale; Il Commonwealth tra terra e mare: On war and peace (2018), sulla situazione geostrategica della Polonia e dell’Europa nell’era della rivalità tra le potenze in Eurasia; e Il passato è un prologo sui cambiamenti geopolitici nel mondo moderno. Inoltre è Direttore del Programma Giochi di Guerra e Simulazione della Fondazione Pulaski; Senior Fellow presso The Potomac Foundation a Washington, co-fondatore di “Play of Battle”, che prepara simulazioni militari; socio della Nuova Confederazione e del New Generation Warfare Center di Washington; membro del gruppo consultivo del Plenipotenziario del governo per il porto di comunicazione centrale (2017-2018), presidente del consiglio di amministrazione della società Centralny Port Komunikacyjny Sp. z oo (2018–2019). Il Dr. Bartosiak interviene a conferenze sulla situazione strategica nell’Europa centrale e orientale, nel Pacifico occidentale e in Asia. Laureato presso la Facoltà di Giurisprudenza e Amministrazione dell’Università di Varsavia, è socio amministratore di uno studio legale che si occupa di servizi alle imprese dal 2004.

COMUNITÁ, DIRITTO, STATO: IN MARGINE AD UN SAGGIO DI HÖHN, di Teodoro Klitsche de la Grange

COMUNITÁ, DIRITTO, STATO: IN MARGINE
AD UN SAGGIO DI HÖHN
1. L’Aja, agosto 1937, secondo congresso di diritto comparato. I vari paesi
mandano un proprio rappresentante per illustrare la condizione del diritto in
ciascun Stato. La Germania invia Theodor Maunz e Reinhard Höhn, che
illustra il contributo che qui viene commentato e proposto: Popolo, Stato e
diritto. La memoria va subito al saggio di C. Schmitt di quattro anni prima,
Stato, movimento e popolo, ma, nonostante l’assonanza dei titoli, il taglio
esprime due prospettive diverse.
Il saggio di Höhn conserva un tratto profondamente giuridico ed illustra in
modo magistrale le modalità con cui la nuova scienza del diritto dell’epoca
stesse cercando di superare la precedente impostazione di stampo
individualistico, con il risultato che il diritto viene inserito ora nel concetto
più ampio di comunità e perde la precedente primazia.
Nella Germania nazista emergeva una concezione che, nel momento in cui
provvede a livellare sul piano della comunità tutte le differenziazioni ed i
particolarismi (società, diritto, Stato, i suoi rappresentanti e via dicendo),
toglie autonomia a queste singole componenti e soprattutto alla relativa
premessa: l’individuo. In questa visione vanno buttati al macero istituti
fondamentalissimi del diritto moderno come il diritto soggettivo, la persona
giuridica dello Stato e quant’altro, ossia i fondamenti della civiltà giuridica
occidentale. Tutto viene spazzato via ora e prevale solo l’avvolgente e anzi
totalizzante concetto di comunità, tale da assorbire non solo l’individuo, ma
naturalmente anche le sue derivazioni, ossia il diritto e lo Stato, la società e
gli interessi organizzati.
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Il saggio è diviso in cinque parti più una sintesi, di cui sono di seguito
trascritte alcuni passi per agevolarne la comprensione. L’interesse che
presenta, al di là di concezioni assai datate e per nulla condivisibili (in
particolare i richiami alla razza e alla “biologia” politica) è ancora notevole
per la coerenza con cui si contrappone ad una visione liberale. Tuttavia ora
che il liberalismo è inteso nel senso più depotenziato possibile – un
liberalismo “debole” e spoliticizzato – il richiamo a certi parametri realistici
e comunitari può servire a riflettere e riportare la democrazia
(asseritamente) liberale, sempre più simili al “dispotismo mite” descritto da
Tocqueville nella Démocratie en Amerique, a presupposti più concreti e
percorsi più utilmente praticabili.
2. All’inizio della relazione Höhn scrive “Il sistema giuridico
individualistico deve essere compreso sulla base del generale sviluppo
storico europeo. Si possono cogliere in pieno i suoi effetti solo se si
riconosce in esso un prodotto di decomposizione1
, debitore per la propria
nascita nei confronti della progressiva dissoluzione delle comunità di vita,
diventate salde, delle precedenti epoche storiche. La concezione
individualistica si è sviluppata storicamente dalla caduta dell’ordinamento
del mondo e della vita medievali e compare per la prima volta in modo
chiaro e senza dubbi, nei suoi principi di base, nello Stato sovrano del
principe. Si tratta qui di un sistema sociale fondato sul confronto tra
individui, di cui uno, il principe, è chiamato all’esercizio del potere su una
massa di sudditi. Il diritto appare in quest’epoca come un sistema di

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relazioni possibili che si possono egualmente sviluppare tra il principe e
alcuni dei suoi sudditi o anche tra diversi sudditi.
La rivoluzione francese comportò l’emancipazione dei cittadini
dall’assolutismo e diede inoltre al cittadino il diritto di collaborare
all’esercizio del potere. Da qui si determinò allora la possibilità di sviluppi
sul piano costituzionale e democratico. Dal punto di vista del diritto
pubblico ciò ha reso più profondo ed ulteriormente consolidato il sistema
giuridico individualistico attraverso l’introduzione di diritti di base, di diritti
pubblici soggettivi e soprattutto della persona giuridica dello Stato, che
subentra alla personalità del principe sovrano. Con il che trovò allora
compiutezza il sistema giuridico individualistico in quanto sistema di
relazioni tra individui. Sebbene solo in epoca più recente ben sotto l’influsso
di idee marxiste, possa essere fissato in molti Stati un tratto complessivo di
tipo collettivo, questo sistema giuridico si è però mantenuto invariato nei
suoi fondamenti fin direttamente ad oggi… In Germania si è ora attuato, nei
tempi più recenti, il distacco consapevole dal sistema giuridico
individualistico. La scienza giuridica tedesca ha intrapreso, nello spirito
della sua visione del mondo, il cui principio di base è la “comunità di
popolo e la guida [Führung]”, la verifica di tutti i precedenti concetti
giuridici di diritto pubblico sulla base della loro utilizzabilità. Essa intende
superare il dissidio sussistente tra la formazione di una comunità che si attua
nella prassi della vita, da un lato, e, dall’altro, la scienza del diritto pubblico
e della dottrina dello Stato.
L’odierno diritto tedesco si basa su una nuova concezione della comunità
che si pone in termini problematici nei confronti del sistema giuridico
tradizionale nella sua totalità. Questa nuova concezione della comunità parte
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da un nuovo sentire quale si è acceso nel popolo tedesco intorno
all’esperienza della guerra mondiale e che ha trovato la propria
caratterizzazione politica nel movimento nazionalsocialista.
Il principio di comunità richiede, ai fini della sistematica scientifica, un
nuovo orientamento di base. Diviene necessario per la scienza tedesca
rivedere le idee sul diritto e sullo Stato sulla base della loro conciliabilità
con l’idea della comunità2
, distanziarsi dai concetti e dalle costruzioni
individualistiche e andare oltre, verso la nuova conformazione del diritto.
La nuova scienza giuridica si confronta oggi con un sistema e con una
dogmatica emersi in un’epoca che si basava su una visione del mondo
completamente diversa. Un tale confronto presuppone però che si riconosca
la dipendenza del sistema individualistico dalle condizioni storiche e che si
intraprenda un chiarimento dell’intera sistematica giuridica a partire dal
punto di vista storiografico implicato dal concetto tradizionale di diritto. La
scienza giuridica tedesca parte infatti dal riconoscimento del fatto che
concetti scientifici non esistono mai di per sé, ma possono essere
considerati sempre e solo espressione del loro tempo. Trova così
progressivamente attuazione l’abbattimento delle idee giuridiche
individualistiche e deve essere visto come evidentissima caratteristica di ciò,
per esempio l’allontanamento dei concetti generali tradizionali nonché del
relativo pensiero giuridico, come la presa di distanza dalle costruzioni
relative ai diritti di base, ai diritti pubblici soggettivi e alla persona giuridica
dello Stato”. È interessante notare tuttavia come il giurista tedesco apprezzi
proprio la patria storica del liberalismo, cioè la Gran Bretagna e la sua

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diversità dai sistemi giuridici occidentali “Lo sviluppo giuridico in
Inghilterra, che è stato poco toccato da quel processo storico, si pone in
opposizione con questo sviluppo europeo continentale. Qui non si è potuta
sviluppare perciò neanche la dottrina giuridica individualistica nella forma
con cui si manifesta nel continente. Qui il diritto si muove piuttosto
nell’ambito di antiche tradizioni, abitudini ed usi, quali sono saldamente
radicati nell’anima popolare inglese”.
Quindi comunità versus individualismo; a prescindere si noti, entro certi
limiti, dai valori fondanti. Ciò che più rileva appare che l’ordinamento (e
l’istituzione) siano conformi al sentire (e all’operare) comune.
3. Nel primo capitolo Höhn tratta di un tema assai frequentato, allora più di
ora: il rapporto tra diritto e sociologia. «Per comprendere il diritto è
importante ritornare ai suoi fondamenti nella vita sociale. Nelle dottrine
internazionali sullo Stato e sul diritto viene perciò trattata, quasi dappertutto
in modo approfondito, la questione di quali reciproci rapporti intercorrano
tra diritto e sociologia. Nella misura in cui si ponga attenzione ai fondamenti
sociali, sulla base della concezione finora dominante, sembra sussistere un
dissidio indissolubile tra diritto e realtà.
Esso si mostra anzitutto nella dottrina dello Stato, che rimane sottoposta ad
una duplice modalità di pensiero, quella normativa e quella sociologica…
Esiste ora però ancora un’altra differenza, che riguarda egualmente la vita
sociale e che spesso non viene considerata a sufficienza. La vita sociale può
essere rappresentata per una volta nelle forme di una vita chiusa di
comunità, così come però, se abbiamo davanti agli occhi le antiche relazioni
germaniche, può essere trovata d’altra parte anche nelle condizioni di un
allentamento, di uno scioglimento e di un dissolvimento. In opposizione alla
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comunità chiusa viene allora assunto come punto di partenza l’individuo
libero, piantato in sé, che entra in relazione con altri individui. La sociologia
prima dominante corrispondeva ampiamente a quest’ultimo mondo di idee.
Essa osservava e sperimentava in gran parte solo il singolo uomo. Tipica era
per la Germania la dottrina di Georg Simmel, cui era legata in modo
particolare la scuola di sociologia di Colonia, e di Leopold v. Wiese, che
risolve l’intera vita sociale nelle relazioni tra uomo e uomo. La sociologia è
per Leopold v. Wiese «la scienza degli avvenimenti nello spazio sociale». In
essa viene mostrato come gli uomini si incontrino, fraternizzino e si evitino.
L’intero sistema della dottrina delle relazioni non è altro che
un’interpretazione della parolina «infra». Quale oggetto della sociologia v.
Wiese vede «la sfera dell’esserci che sussiste tra gli uomini, quello spazio
quindi in cui gli uomini vengono alleati reciprocamente ovvero divisi l’uno
dall’altro». Con il che egli riconduce la vita umana di comunità a «processi
infraumani», in cui si dispiega «il comportamento di uomini nei confronti di
uomini»… Questa specie di sociologia assunse una posizione considerevole
nella scienza tedesca prima della rivoluzione nazionalsocialista. Essa
dichiarava in tutta chiarezza che non esiste affatto per essa un modello
sociale come scienza. Perché secondo v. Wiese modelli sociali «possono
essere compresi solo dalle serie in esse prevalenti dei processi sociali». I tre
gruppi di modelli sociali da lui costruiti: massa, gruppo e corpo, vengono
poi differenziati sulla base della distanza in base alla quale essi sono
«lontani dal singolo uomo empirico». Una compagnia di soldati ad esempio
è «solo un complesso di relazioni organizzate tra uomini in vista di scopi».
Per Leopold v. Wiese non c’è lo Stato come realtà. La sociologia non «cerca
lo Stato né nel regno della natura né in quello dello spirito. Essa non cerca
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affatto un tale modello, perché non lo troverebbe; perché esso come
sostanza non si trova da nessuna parte». Il popolo costituisce in ciò un
modello che, relativamente insignificante rispetto agli altri (massa, Stato e
classe), viene reso oggetto di relazioni sociologiche. Esso sembra allora, nel
sistema di v. Wiese dei modelli sociali, tale da insistere sulla «zona-limite
della sociologia», in cui l’elemento biologico si fa strada al di là del confine
e si mischia con una problematica scientifico-sociale. Irrompe così il
popolo, accanto alla famiglia e all’umanità, come «modello di generazione»,
con cui gli altri elementi più differenziati possono essere mischiati.
La scienza giuridico-sociale nazionalsocialista tedesca si confronta in
particolare con questa concezione unilateralmente individualistica
dell’oggetto della sociologia. Per essa il metodo di risolvere tutto l’accadere
sociale e giuridico in relazioni tra singole persone non è affatto valido in
generale. Quest’affermazione corrisponde piuttosto solo ad una visione del
mondo individualistica e a relazioni individualistiche. Essa diviene nulla
con il superamento dell’individualismo. Ciò accade nella scienza tedesca
con la dottrina del popolo. Popolo significa non somma di individui, ma una
comunità che poggia sulla razza, sullo spazio e sulla storia. Essa è stata
creata ex novo dal Führer e ci viene incontro visibilmente nella comunità dei
seguaci [Gefolgschaft] e nella guida [Führung]. La comunità di popolo va
ben al di là rispetto ad un puro spazio di relazioni infraumane e racchiude
l’aspetto biologico e spirituale dell’uomo nella sua esistenza complessiva.
La comunità di popolo non è, come noi stessi abbiamo sperimentato, un
dato e basta. Essa è realtà, ma anche scopo e compito. Essa è presente
proprio là dove uno spirito di comunità comprende uomini che stanno uno
di fianco all’altro e in effetti li comprende in modo tale che il singolo agisce
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a partire da questo spirito di comunità e vive in questo spirito di comunità.
Proprio così il singolo diventa persona nella comunità. Persona e comunità
appartengono necessariamente l’uno all’altra così come si corrispondono
l’individuo e la massa… Il divenire dello spirito di comunità è ora vincolato
a certi presupposti, soprattutto all’eguaglianza di stirpe [Artgleichheit] di
quegli uomini che costituiscono la comunità. In conseguenza di ciò la
concezione giuridica teedesca si basa sulla dottrina della razza. Uguale
pensiero, sentimento e agire in un popolo sono necessariamente vincolati
attraverso impostazioni coerenti con la stirpe (artmässig). Solo in presenza
di questi fondamenti esiste anche la possibilità della nascita dello spirito di
comunità in un popolo. Lo spirito di comunità non va compreso con i
metodi usuali di una descrizione scientifica secondo natura. Si tratta
piuttosto qui di una realtà di altro tipo. Lo spirito di comunità si mostra in
particolare nell’esperienza della comunità che comprende gli uomini che
prima stavano l’un insieme all’altro come singoli e li cinge con un vincolo
comune riguardante l’anima e lo spirito. Questa esperienza di comunità il
singolo ce l’ha non come singolo, ma come persona nella comunità. Non è
quindi come se l’esperienza della comunità fosse la somma delle esperienze
dei singoli consorziati nella comunità, ma si tratta di una esperienza che li
comprende tutti insieme e che viene vissuta da ciascuno non come singolo,
ma come persona all’interno della comunità. La dottrina della comunità e
della persona non ha pertanto nulla a che vedere con la contemplazione da
lontano del mondo da parte dei romantici, ma è l’espressione di una nuova
realtà della vita tedesca. Ed è a partire da questa concezione di fondo che si
determina per la scienza tedesca il punto di vista decisivo per tutti i campi
della scienza. In base ad esso sussiste anche la possibilità di superare
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l’opposizione tra diritto e sociologia… Il diritto tedesco della comunità si
basa su questa dottrina della comunità.
Rispetto a ciò la divisione tra diritto e sociologia è destinata a stare in
primo piano se la vita sociale rimane ferma alle battaglie di interessi tra
individui. Questa è la concezione quale ancora oggi viene estesamente
rappresentata negli Stati fuori della Germania. In conformità a ciò, come
Dumas illustra approfonditamente per la Francia, oggetto della sociologia è
la vita in continuo movimento, in cui si contrappongono gli interessi degli
uomini. Dumas vede incombere il caos nel campo sociale e contrappone il
diritto alla vita sociale quale creatore di ordine. Solo la materia del diritto
viene sottratta alla sociologia. Il diritto è norma, ordinamento, forma e
istituzione, ad esso, come spesso viene rilevato, è proprio il momento della
durata. Le organizzazioni di diritto sono chiamate “ad essere durevoli
nonostante l’eterno divenire delle cose umane. Grazie a queste istituzioni
c’è stabilità nella vita sociale. I processi sociali, per contro, si
contrappongono alla norma e alla durata, essi si esprimono nella mobilità e
nella trasformazione delle forme sociali… Ma se si vede nella vita sociale
null’altro che un caos, si può assumere il diritto solo come una funzione che
dà ordine al caos. La nuova dottrina giuridica tedesca non ha più bisogno di
venire fuori dal caos e dai conflitti d’interesse, essa ha una solida base nella
comunità di popolo creata dal Führer, la quale significa il superamento della
società del XIX secolo. Essa può pertanto basare il diritto sulla comunità e
considerarlo come espressione dell’ordinamento di vita della comunità. Ciò
emerge chiaramente, nella determinazione della comunità d’impresa e nella
legge sull’ordinamento del lavoro nazionale… È interessante il fatto che il
problema: diritto e sociologia, appena esista per la dottrina giuridica
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inglese. Qui lo Stato, il diritto e la società sono tanto buoni quanto identici.
Goodhart così dice: «Il diritto esiste poiché esso è una parte essenziale della
società che noi conosciamo come Stato». Il diritto consiste qui però non di
norme nel senso stretto quale viene inteso sul continente questo concetto.
Esso consiste ampiamente nell’osservanza di una generalità di principi che
vengono applicati nella giurisprudenza, anche se di recente può sussistere la
tendenza ad una più forte vincolatività della legge. «Poiché il diritto inglese
ha attraversato una crescita durevole sul piano storico nei passati nove
secoli, esso è diventato una parte inconscia della vita del popolo. Significa
perciò qualcos’altro il fatto che la dottrina giuridica inglese parli di
“signoria del diritto”. Tuttavia il problema qui è ancora completamente
diverso; in Inghilterra risultano contrapposti diritto e forza discrezionale di
decisione, non diritto e realtà. È infatti tipico che Goodhart dichiari che “la
differenza tra legge e comando discrezionale è stata riconosciuta con la
massima chiarezza».
Con una tale concezione non vi può essere neanche un settore particolare
della sociologia da porre alla base del diritto come “materia”. Il diritto è
basato sulla valenza e sul riconoscimento fattuale3
. “L’obbedienza nei
confronti della legge viene quindi determinata in ultima analisi attraverso la
premura di quanti fanno parte dello Stato e che hanno desiderio a che la loro
società possa risultare durevole”.
La distinzione tra sein e sollen, causa ed imputazione è ricondotta alla realtà
dalla comunità e dalla sua esistenza. Questa è un ordinamento di vita e il
diritto ne è l’espressione4
. La cosa più originale del pensiero del giurista

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tedesco è il “superamento” della impostazione hobbesiana caro al pensiero
borghese e al “tipo ideale di società di Tönnies” – che vede nello Stato il
creatore dell’ordine attraverso la risoluzione dei conflitti d’interesse (causa
principale del bellum omnium contra omnes)
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.
4. Höhn passa poi a trattare il rapporto tra giustizia e diritto positivo
«Accanto al compito di comprendere la connessione tra diritto e relative
basi sociologiche, è inoltre necessario porre il quesito dei fini e delle idee
che il diritto positivo deve realizzare. In particolare, si tratta dell’idea di
giustizia, il cui rapporto con il diritto positivo è oggetto di un trattamento
approfondito nelle relazioni dei Länder. I positivisti di più stretta osservanza
– come chiarisce Dumas – “sono obbligati ad ammettere che le idee di
giustizia e di diritto, sebbene indivisibili, divergono l’una dall’altra”. Questa
contrapposizione tra “mondo e giustizia” sembra essere spesso
inconciliabile… La conciliazione tra giustizia e diritto positivo rimane però
ovunque un obiettivo, che non è mai da attuare in forma pura. Questo
dichiara Dumas: «al di sopra del diritto positivo esiste un ideale pieno di
mistero ed indefinibile: gli uomini non lo coglieranno mai, ma neanche vi
rinunzieranno mai».
Con questa concezione del rapporto tra idea di giustizia e diritto positivo le
idee in materia di giustizia danno attuazione ad un compito del tutto
determinato. Esse costituiscono la base portante di norme più stabili e
rappresentano in quanto tali una consapevole limitazione nei confronti di
una attività legislativa discrezionale. In esse dimorano rappresentazioni
etiche di valori che non possono trovare attuazione direttamente nella norma

5 V. sul conflitto d’interessi come base del diritto F. Carnelutti, Teoria generale del diritto,
Padova 1946, pp. 12 ss.
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giuridica, ma che devono trovare considerazione nell’attività legislativa e
nell’attuazione del diritto. Per il diritto pubblico ne deriva il principio: salus
publica suprema lex esto, per il diritto privato il principio di fedeltà e di
fede. Ad esse il singolo deve essere vincolato anche allorquando il suo
comportamento non sia chiaramente determinabile con norma. Anche
quando, nel diritto privato, il singolo gode fondamentalmente di libertà
contrattuale ovvero può procedere, dal punto di vista del diritto pubblico,
nei confronti di un ufficio amministrativo per considerazioni di opportunità,
questo libero agire non può sostanziarsi in un abuso giuridico e non può
comunque apertamente contraddire le idee di giustizia. Tuttavia, queste idee
etiche di base non possono mai del tutto essere assorbite nel diritto positivo.
Esse rimangono solo regole per la conformazione del diritto in generale. Più
di tutte è l’idea di giustizia ad essere limitata ad una funzione negativa. Essa
offre la base per una critica. Mai riesce però, l’idea di giustizia, a pervadere
direttamente il diritto positivo.
Rispetto a ciò alla nuova concezione tedesca del diritto, che parte dal
popolo e dalla sua comunità concreta, è data la possibilità di superare la
spaccatura tra idea di giustizia e diritto legislativo. Diritto non è, secondo la
dottrina giuridica tedesca, né un sistema di norme né una somma di
rappresentazioni di valori, diritto è espressione dell’ordinamento della
società. La giustizia non si colloca al di fuori del diritto. Premessa del fatto
di potere vivere il diritto nella comunità è l’unità del sangue. Perciò la
dottrina giuridica si basa sul pensiero della razza. Nella razza si colloca,
secondo la concezione del mondo nazionalsocialista, la realtà di ogni unità
di ideali e di vita. Quando dunque la dottrina giuridica tedesca mette in luce
il fatto che la comunità non sta solo nel mondo delle idee, ma deve essere
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vissuta e conosciuta come ordinamento concreto della vita, essa è
necessariamente costretta a rifiutare la limitazione della comunità di popolo
ad una pura comunità di diritto. Essa sente come insufficiente la comunità di
diritto, che rimane limitata ad un vincolo sentimentale in ordine a
determinate convinzioni generali. Perché anche la profonda frattura tra
diritto e moralità perde il proprio significato. Il diritto non è pura tecnica
per portare ad attuazione principi morali autonomi, diritto può solo
significare piuttosto la moralità stessa così come vissuta da un popolo…
Nella misura in cui il diritto si basa ancora ed in misura preponderante su
forme pervenute dalla tradizione e radicate nella vita, la questione del
rapporto tra rappresentazioni di valori e diritto positivo è piuttosto
irrilevante. Questo insegna il diritto inglese. Qui il concetto di legislazione
non si è sviluppato nella profonda misura in cui ciò è avvenuto nel diritto
continentale europeo come atto di volontà. La legge appare qui non
l’espressione della volontà della persona dello Stato, che può essere
riconoscibile solo se gli organi costituzionalmente chiamati alla costruzione
della volontà la esprimono nella forma della legge. In Inghilterra l’atto della
legislazione significa che fattori della politica da tutti riconosciuti, come il
re e il parlamento, si muovono all’interno di forme giuridiche, cioè
all’interno delle forme che risultano riconosciute in secoli di antico uso e
che pertanto risultano ancorate alla coscienza giuridica del popolo inglese. È
sulla base di questa circostanza che va chiarito anche il significato di fondo
della formula «King in Parliament» e «King in Council». Questa condizione
in cui versa il diritto inglese è essenzialmente da ricondurre al fatto che
l’assolutismo, che ha introdotto nel concetto di legge proprio quella
sottolineatura del momento della volontà, non si è mai realizzato del tutto in
14
Inghilterra. Tuttavia, ancora oggi il problema è qui ancora totalmente
diverso; con leggerezza vengono contrapposti diritto e potere di decisione
discrezionale, laddove per “discrezionalità” si intende più il comando
informale, cioè dato disconoscendo le forme tradizionali, che non la
mancata considerazione di certe rappresentazioni etiche di valori…La
questione del come possa essere superata la frattura tra idea di giustizia
diritto positivo riveste un significato fondamentale per una serie di questioni
giuridiche pratiche, in particolare ai fini dell’interpretazione e
dell’attuazione delle leggi. Per dare un fondamento alla differenza tra idea
di giustizia e diritto positivo sussistono due possibilità: o la preoccupazione
per un alleggerimento del diritto in vigore porta ad una rigida insistenza e ad
un rifiuto di punti di vista non giuridici e metagiuridici (ovvero)… Una
giurisprudenza intuitiva, che Georgasco fa passare come ideale per la
Romania, costituisce l’opposto al riguardo. Qui il giudice si cala nel caso in
esame e si sente “vicinissimo al calore e all’inesprimibile luce della
giustizia” e la giustizia “si colloca alla fine del processo dinamico della
intuitiva compenetrazione nel conflitto giuridico”.
In modo del tutto diverso si conforma il rapporto tra diritto e legge per la
dottrina giuridica tedesca sul terreno della concreta comunità di popolo. Il
nazionalsocialismo pone il diritto sopra la legge. Il diritto è per esso una
grandezza data con il popolo, nata dall’essenza del popolo, legata al popolo.
Questo diritto non può essere creato attraverso un atto di volontà
individuale. Esso viene vissuto nella comunità del popolo e può essere
vincolante anche senza normazione (il corsivo è nostro). La legge è per
contro solo l’espressione temporale dell’essere del popolo in ordine alla
soluzione di singoli compiti. Ciò significa una volta per tutte che legge non
15
è un atto di volontà di un individuo, ma un atto della collettività, che viene
ad espressione nell’agire del Führer. Ma significa d’alta parte che la legge
non costituisce la forma del diritto, ma un criterio di massima per lo
sviluppo del diritto. Corrispondentemente a ciò cade la profonda differenza
tra creazione e applicazione del diritto. Il giudice non è titolare individuale
della supremazia dello Stato, che deve attuare nei confronti del singolo,
nelle forme della conoscenza logica, l’ordinamento giuridico coattivo che si
colloca al di sopra dei concittadini ovvero rappresentazioni generali di
valori. Egli piuttosto deve tutelare, come persona della comunità, la vita
della comunità. Pertanto, egli è nella condizione di organizzare la nascita
della regolazione legislativa del campo [su cui si innesta] l’ordinamento
complessivo della vita”. Ma sul punto il giurista tedesco fa rilevare che,
contrariamente ai principi degli ordinamenti borghesi, il giudice deve
interpretare la legge “secondo la concezione del mondo nazionalsocialista”;
nel diritto penale ciò porta “all’annullamento del divieto di analogia”.
Sostiene Höhn “Con il che non c’è in nessun caso il pericolo della
incertezza giuridica. Esso esiste finché un ordinamento possa essere
pensato solo come tale da sostanziarsi in norme, come tale da evitare un
caos. Quindi la maggiore o minore libertà della magistratura (Richtertum)
dipende, in una tale concezione, dal se si ritenga un tale ordinamento come
il solo possibile. Prima della rivoluzione nazionalsocialista il giudice vedeva
dappertutto davanti a sé relazioni sociali non consolidate. Con una
configurazione giuridica autonoma egli stesso cadeva nel pericolo di
apparire come partito nella lotta tra i poteri della società, da un punto di
vista marxiano egli era inoltre osteggiato nella sua giurisprudenza come
esponente di una classe. In conseguenza di ciò, prima del 1933 non
16
rimaneva alla magistratura alcun’altra possibilità, in Germania, se non il
ritirarsi il più possibile in modo neutrale alla pura attuazione delle norme.
Solo la corte suprema si assegnava potere decisionale politico. Quando per
contro è l’ordinamento stesso ad essere vissuto in una comunità, la
normazione non gioca il solo ruolo decisivo. Su queste basi non è affatto
sorprendente se il giudice nazionalsocialista sia posto completamente in
libertà e spesso rileva solo il suo legame con i fondamenti in termini di
visione del mondo quali determinano l’intera vita del popolo6
.
Questa unità di visione del mondo per la magistratura costituisce oggi la
premessa autonoma, e da qui deriva anche la particolare posizione del
giudice nel popolo. L’essenza della magistratura va oltre il puro
funzionariato. La profonda opposizione tra attuazione del diritto e attività
che pone il diritto risulta qui addolcita. Entrambe fluiscono dalla fonte
unitaria della comunità di popolo. Ciò significa una riduzione della profonda
divisione che sussisteva prima sul piano scientifico tra il metodo della
politica in materia di diritto e quello dell’interpretazione giuridica. I modi di
pensare de lege ferenda e de lege lata presentano lo stesso orientamento
nell’ambito della realizzazione delle finalità programmatiche
nazionalsocialiste. Di conseguenza diritto e politica si contrappongono non
più come un rigido sistema di norme da un lato e un quadro discrezionale di
opinioni dall’altro. La politica è una continua creazione del diritto della
comunità con i mezzi della guida [Führung]”; il tutto richiede un nuovo tipo
di giurista il quale “deve trovare la propria realizzazione nel tipo del
difensore del diritto. Nel difensore del diritto vengono superate le profonde

6
Il corsivo è nostro.
17
ed in parte esagerate differenze tra l’attività che pone il diritto e i compiti,
per esempio, delle professioni giuridiche cosiddette libere ovvero a metà
dipendenti (per es. avvocato, notaio) e delle professioni giuridiche dei
funzionari (per es. giudici, pubblici ministeri), tra giudici e funzionari
amministrativi, giudici e per esempio amministratori fiduciari in economia.
Difensore del diritto è «ogni lavoro nel campo del diritto le cui funzioni
caratteristiche stanno nella cura e nella realizzazione del diritto in tutti i
campi della vita del popolo tedesco, senza che possa essere riconosciuta una
qualsivoglia degenerata differenza di valori», così viene detto nella
proclamazione dello stato del diritto [Rechtsstand] tedesco del dicembre
1933.
Difesa del diritto è dunque non solo l’esercizio della cosiddetta
amministrazione della giustizia, il campo del giudice indipendente e
dell’avvocato; a proposito della difesa del diritto sono in gioco tanto il
lavoro del funzionario amministrativo quanto la dottrina giuridica, ma
anche, per esempio, la funzione, che appare ad un primo esame puramente
economica, dell’amministratore fiduciario in economia».
5. Sostiene poi Höhn che «Nella dottrina dello Stato si incontrano i pensieri
in precedenza trattati in materia di sociologia e teoria del diritto… D’altra
parte, la dottrina tedesca dello Stato parte non dallo Stato, ma dal popolo,
come grandezza decisiva. Vista da questo punto di vista la più volte rilevata
opposizione tra Stato e diritto perde la propria profondità. Lo Stato come
comunità è il punto di partenza tanto della dottrina dello Stato quanto di
quella del diritto. Ciò si mostra anzitutto nella contrapposizione con il
concetto di personalità giuridica dello Stato. Proprio nel diritto tedesco del
18
XIX secolo il concetto della invisibile personalità giuridica dello Stato
costituiva la pietra miliare ed angolare dell’intero diritto pubblico.
La concezione dello Stato come persona giuridica discende dal mondo
ideale individualistico e in Germania rappresenta politicamente
l’espressione della lotta della borghesia contro lo Stato assoluto. Quando
non si poté più tollerare la personalità sovrana dei principi, si dovette, in
un’epoca in cui l’intero pensiero giuridico si muoveva solo nell’ambito di
relazioni tra individui, nuovamente porre una persona al posto della persona
del principe… Ma per l’odierna dottrina giuridica dello Stato, che aveva
sofferto lo sviluppo individualistico, in primo piano stava la
contrapposizione sul concetto della persona dello Stato. Questo era una
conseguenza necessaria del sistema giuridico individualistico. Il problema
di fondo del nuovo diritto pubblico tedesco suonava anzitutto così: persona
giuridica dello Stato ovvero popolo come punto di partenza di un nuovo
pensiero di diritto pubblico. È a partire da qui che si chiariscono le
contrapposizioni di dettaglio che aspirano ad una nuova concezione dei
rapporti tra Stato e popolo. Il concetto nazionalsocialista di popolo si
differenzia per motivi di fondo dalla concezione del popolo del XIX secolo.
Il popolo era qui determinato dallo Stato e risultava giuridicamente dalla
somma di tutti i singoli che comparivano innanzi alla persona dello Stato, in
parte ubbidendo come sudditi, in parte come cittadini dello Stato con pretese
giuridiche. Questo concetto di popolo proveniva dallo Stato assoluto ed è
rimasto in piedi anche nel diritto pubblico del XIX secolo così come nel XX
secolo con la costituzione di Weimar. Esso ha solo sperimentato un
ampliamento nella misura in cui il singolo è diventato titolare attivo di
diritto anche nei confronti dello Stato.
19
L’aspirazione ad elevare il popolo ad elemento portante del diritto pubblico
tedesco ha portato ai tentativi più disparati. Ciò si dimostra una volta per
tutte nella preoccupazione volta a includere più fortemente il popolo nello
Stato; collegato a ciò si pone un riallacciarsi alla dottrina organica dello
Stato di Gierke… caratteristica inoltre è la differenza tra un concetto più
ristretto di Stato e uno più ampio, laddove il concetto più ristretto di Stato
raccoglie l’essenza delle autorità e degli uffici, il concetto più ampio
descrive una sintesi concettuale tra Stato e popolo… Ma come oggi si
continua, nell’ambito del nuovo diritto pubblico, a portare avanti la
differenza tra i due concetti di Stato più ristretto e più ampio, si vuole allora
porre nello Stato individualistico il popolo al posto dei sudditi e lo si vuol
concepire, insieme all’organizzazione dello Stato, come una nuova totalità
per lo Stato in senso più ampio. Spesso si utilizza quindi il concetto di Reich
per questo più ampio concetto di Stato (così Heckel, Huber)… La differenza
tra concetto più ristretto e più ampio di Stato conduce spesso ad equivoci e a
scarsa chiarezza. Essa mostra però in ogni caso la chiara aspirazione ad
ammorbidire il concetto di Stato a partire dal popolo.
La soluzione conseguente a questi intendimenti sta però in una chiara
differenza tra popolo e Stato, laddove invece il popolo come comunità
rappresenta l’autonomo punto di partenza e il punto centrale della dottrina
del diritto e dello Stato, al cui servizio lo Stato è attivo come apparato di
uffici e di funzionari. Con il che, per la concezione tedesca, l’unità politica
dello Stato si colloca nel popolo. Il popolo, sottoposto ad una guida, non
acquista capacità giuridica e di agire con le modalità dello [auf dem Wege
über] Stato, ma è in sé una unità vivente e capace di agire. La funzione
dello Stato si limita con ciò ad una funzione al servizio della comunità di
20
popolo. Lo Stato perde il carattere di una grandezza propria e non può
essere più concepito in particolare come persona od organismo. In quanto
apparato di uffici e di funzionari lo Stato nelle mani del Führer serve alle
finalità della comunità di popolo. Con questa concezione dello Stato è
possibile superare la rappresentazione individualistica che domina lo Stato
liberale e assoluto. Viene qui solo portato ad espressione, con la descrizione
dello Stato come apparato, il fatto che lo Stato viene impiegato per scopi
determinati della comunità di popolo e non agisce come persona dotata di
signoria autonoma7
. Lo Stato come apparato non è neanche, per esempio,
un «puro» meccanismo con carattere puramente «strumentale»”. Si noti che
la concezione del giurista nazionalsocialista ha diversi tratti in comune con
la definizione di Hauriou del concetto d’istituzione, e con la di essa funzione
di protezione della comunità8
, comune a ogni Stato, di qualsiasi
orientamento ideologico (“valoriale”). E prosegue «I principi costituzionali
che ne derivano si basano su un altro principio rispetto alla relazione Statosuddito; al suo posto sono subentrati “comunità e guida” come principio del
diritto. In conseguenza di ciò la guida in quanto principio del diritto acquista
grandissimo significato. La legge non è un’emanazione del potere dello
Stato, ma un atto della guida. In quanto guida del movimento e del popolo il
Führer e cancelliere del Reich tedesco è al contempo capo dello Stato. Al
suo posto decisiva non è pertanto l’attivazione del potere dello Stato. Questa
è piuttosto solo la conseguenza necessaria della sua posizione di guida. Con
questa concezione della posizione del Führer si pone però la questione di

7
Il corsivo è nostro
8

21
come stiano in rapporto con il Führer le precedenti funzioni del potere dello
Stato, legislazione, amministrazione, giurisdizione. È evidente il fatto di
vedere nel Führer la sintesi di tutti i poteri pensabili. Con il che sarebbe però
disconosciuta l’essenza della guida quale si estende ben al di là della pura
attivazione dell’apparato dello Stato e dei suoi strumenti coercitivi. Il potere
del Führer non è subentrato al posto del potere di prima dello Stato. Se
oggi parliamo della legge come di un atto del Führer e quindi vediamo qui
una relazione Führer-comunità di seguaci, vediamo con ciò superata l’antica
rappresentazione del potere legislativo quale espressione delle autorità e
della possibilità di darvi attuazione… Questo lo dimostra particolarmente il
caso d’emergenza. Se tutto il popolo viene chiamato all’appello dal Führer
per la difesa nei confronti di un nemico esterno, la relazione Führercomunità di seguaci è destinata a dimostrare la sua grandissima forza. Il
potere dello Stato non comporta in sé quella forza che il Führer possiede
invece di una comunità. Essa, a differenza di quella del Führer che riesce a
collocarsi direttamente all’interno delle forze della comunità, si basa invece
ampiamente sul potere della costrizione. Con il che non si può più
giuridicamente concepire il Führer e cancelliere del Reich come organo
dello Sato. Il cuore della sua posizione sta piuttosto nel popolo e nel
movimento. A partire da qui si determinano impostazioni in ordine
all’attuazione di un nuovo principio costituzionale, che consiste nell’utilizzo
dell’amministrazione statale per gli scopi della guida. In questo legame tra
«guida e amministrazione» la dottrina giuridica tedesca fornisce una
possibilità di soluzione concreta ai fini della relazione tra statica e dinamica,
il cui contrario costituisce un problema permanente nella vita dello Stato”
22
con ciò la tripartizione di Montesquieu viene ovviamente meno, e con essa
la di essa funzione di proteggere la libertà (sociale e) individuale.
Invece il potere del capo, secondo Höhn serve all’unità politica e alla
capacità d’azione della comunità.
Lo stesso concetto di dittatura è superato “Molto spesso, soprattutto nella
letteratura straniera, si tenta di spiegare la posizione di diritto pubblico del
Führer nel Terzo Reich con il concetto di dittatura. Ciò risiede nel fatto che
specialmente le democrazie occidentali riescono a pensare solo nell’ambito
dell’opposizione tra democrazia e dittatura. Se si è ancora prevenuti da un
mondo rappresentativo individualistico si possono immaginare solo forme
di signoreggio grazie alle quali esercita il comando un insieme di singoli
organizzato da punto di vista parlamentare ovvero una singola personalità
sovrana. Tutto ciò che compone l’essenza del Führer, la sua posizione come
comunità e la concentrazione nella sua persona di tutte le forze della
comunità, viene pertanto ignorato”.
6. Come sopra scritto, l’impostazione comunitaria e antindividualista data
da Höhn al diritto nazionalsocialista si distingue decisamente non solo dalle
concezioni del diritto dello Stato borghese, ma anche da quelle di giuristi
non individualisti e perfino da quelle di teorici nazionalsocialisti – (o meglio
vicini al nazionalsocialismo) come Schmitt.
In effetti (la concezione e) l’esistenza effettiva della comunità, secondo
Höhn rende superflua tutta la ricostruzione teorica e la concatenazione
concettuale elaborata dalla dottrina dello Stato moderno, a cominciare da
Thomas Hobbes. Il quale, come scriveva Tönnies (così distinguendosi da
quanto ritenuto da gran parte di coloro che si sono occupati del filosofo di
Malhesbury) era un coerente anticipatore della società borghese e dello
23
Stato liberale, perché muoveva da una prospettiva individualistica, di
società e non di comunità. Anche se Höhn non cita Tönnies, se ne avverte
l’influenza.
Infatti Tönnies sosteneva descrivendo la concezione del “tipo ideale” della
società (borghese) “La società, aggregato unito dalla convenzione e dal
diritto naturale, viene quindi concepita come una massa di individui naturali
e artificiali, le cui volontà e i cui settori stanno in molteplici connessioni
l’una rispetto all’altra e l’una con l’altra, e tuttavia rimangono tra loro
indipendenti e senza influenze interne. Qui ci appare il quadro generale
della «società borghese» o «società di scambio», di cui l’economia politica
cerca di riconoscere la natura e i movimenti – una condizione in cui secondo
l’espressione di Adam Smith, «ognuno è un commerciante»”9
Il tutto lo differenzia anche da Schmitt. Il quale nella premessa alla seconda
edizione della Politische theologie scriveva distinguendo i tre “tipi” di

9 Comunità e società, trad. it. di P. Rossi, Milano 1979, p. 95, tale “visione del mondo” è
tendenzialmente illimitata “La società intesa come totalità al di sopra della quale deve
estendersi un sistema convenzionale di regole, è quindi, in linea ideale, illimitata; essa
rompe costantemente i suoi confini reali e accidentali. Nel suo ambito ogni persona tende al
proprio vantaggio, e afferma gli altri soggetti solamente in quanto e finché essi lo possono
favorire. Così, prima e al di fuori della convenzione – e anche prima e al di fuori di ogni
contratto particolare – il rapporto di tutti verso tutti può essere concepito come un rapporto
di ostilità potenziale o come una guerra latente, contro cui tutti quegli accordi delle volontà
spiccano poi come altrettanti trattati e conclusioni di pace. Questa è l’unica concezione che
sia adeguata a spiegare tutti i fatti del traffico e del commercio, in cui i diritti e i doveri
possono essere ricondotti a pure determinazioni patrimoniali e a valori: su di essa deve
quindi fondarsi, anche inconsapevolmente, ogni teoria di un diritto privato o di un diritto
naturale (socialmente inteso) puro” (op. cit.); quanto allo scambio “compratore e venditore
si trovano sempre, l’uno rispetto all’altro – pur nelle loro molteplici modificazioni – in
posizione tale che ognuno desidera e tenta di ottenere, in cambio della quantità minima del
proprio patrimonio, la quantità massima del patrimonio altrui” e alla concorrenza: “Questa
è la concorrenza generale che ha luogo in molti altri campi, ma in nessun modo così chiaro
e consapevole come in quello del commercio – al quale viene quindi limitato il concetto
nell’uso comune – e che è già stata descritta da più di un pessimista sul modello di quella
guerra di tutti contro tutti che un grande pensatore ha addirittura concepito come lo stato
naturale della specie umana” (op. cit., p. 96).
24
pensiero giuridico “Oggi distinguerei non più fra due, ma fra tre tipi di
pensiero giuridico: cioè, oltre al tipo normativistico e a quello
decisionistico, anche quello istituzionale… Mentre il normativista puro
pensa attraverso norme impersonali ed il decisionista stabilisce il giusto
diritto attraverso una decisione personale in una situazione politica
correttamente conosciuta, il pensiero giuridico istituzionale si articola in
istituzioni e conformazioni soprapersonali. E mentre il normativista nella
sua degenerazione fa del diritto una mera funzione di una burocrazia statale
ed il decisionista si trova sempre in pericolo di fallire, con la
puntualizzazione del momento, l’essenza implicita in tutti i grandi
movimenti politici, un pensiero isolatamente istituzionale conduce al
pluralismo di una crescita priva di sovranità, di tipo cetual-feudale. In tal
modo è possibile ricondurre le tre sfere ed elementi dell’unità politica –
Stato, movimento, popolo – ai tre tipi di pensiero giuridico”10
.
Sempre nella Politische theologie Schmitt sottolinea il carattere
personalistico quale componente insopprimibile di una concezione del
diritto e dello Stato11
.

10 E prosegue “Il cosiddetto normativismo e positivismo della dottrina tedesca del diritto e
dello Stato dell’epoca guglielmina e della repubblica di Weimar è un positivismo
degenerato – poiché, invece di essere fondato su un diritto naturale o razionale, dipende da
norme semplicemente «vigenti» di fatto – e perciò in sé contraddittorio, mescolato con un
positivismo che era soltanto un decisionismo degenerato, giuridicamente cieco, riferito alla
«forza normativa del fattuale» invece che ad una vera decisione. Questa commistione priva
e incapace di forma non era collegata a nessun problema di diritto statale o costituzionale”
(i corsivi sono nostri) v. Politische Theologie trad. it. di P. Schiera ne Le categorie del
politico, Bologna 1972, p. 30.
11 V. “Ciò corrisponde alla tradizione originaria dello Stato di diritto che è sempre partita
dal presupposto che solo una massima giuridica generale possa fungere da criterio di
giudizio… non è che chiunque possa eseguire e realizzare ogni possibile norma giuridica.
Quest’ultima in quanto norma di decisione dice solo come si deve decidere non anche chi
deve decidere. Chiunque potrebbe appellarsi alla giustezza del contenuto, se non vi fosse
un’ultima istanza. Ma l’ultima istanza non deriva dalla norma. Il problema dunque è quello
25
Nell’opera sul Leviatano, poi il giurista di Plettemberg ritorna più volte sul
carattere individualistico del pensiero di Hobbes e di fondazione della
concezione dello Stato borghese12
.
7. Altra conseguente cesura dal pensiero borghese sullo Stato e il diritto è
l’assenza nel saggio di Höhn di qualsiasi riferimento ai rapporti di scambio,
tipici di un tipo “societario” di aggregazione sociale. Il carattere organico
della comunità nazionale pone in secondo piano ogni legame di tipo
associativo-sinallagmatico. Perfino l’impresa è vista come una comunità
“minore” dove l’imprenditore non è (tanto) un datore di lavoro, ma il Führer

della competenza; un problema che non si può porre, né tantomeno risolvere, in base alla
qualità giuridica del contenuto della norma. Risolvere i problemi di competenza
rimandando al dato materiale, significa burlarsi della gente… Il rappresentante classico del
tipo decisionistico (se posso impiegare questo termine) è Hobbes… Hobbes ha anche
portato un argomento decisivo che riguarda il nesso esistente fra questo decisionismo e il
personalismo e che vanifica tutti i tentativi di sostituire alla concreta sovranità dello Stato
un ordinamento avente validità astratta” op. cit., pp. 56-57.
12 V. i saggi pubblicati in italiano col titolo Sul Leviatano a cura di C. Galli, Bologna 2011,
pp. 68-69; a p. 106 scrive “Hobbes in modo scientificamente oggettivo e neutrale, fonda lo
Stato come opera umana che nasce da un patto di tutti con tutti… Lo Stato
istituzionalizzato o «costituzionale» è infatti uno Stato ordinato nella forma di una
deliberazione di una «moltitudine di uomini», cioè da una «assemblea nazionale
costituente»”; a p. 112 Schmitt vi ritorna “Frattanto, soprattutto per merito dei lavori di
Ferdinand Tönnies, sono stati enucleati gli elementi di «Stato di diritto» presenti nella
dottrina di Hobbes, e quest’ultimo è stato riconosciuto come teorico dello «Stato di diritto
positivo». Ma per secoli Hobbes fu il malfamato rappresentante dello «Stato di potenza»
assolutistico; l’immagine del Leviatano fu enfatizzata come quella di un orrendo Golem o
di un Moloch, e ancor oggi ha la funzione di archetipo, in cui si vede tutto ciò che la
democrazia occidentale intende con lo spauracchio polemico di Stato «totalitario» e di
«totalitarismo»”; e p. 147 conclude “Hobbes è il padre spirituale del moderno positivismo
giuridico, il precursore di Jeremy Bentham e di John Austin, il pioniere dello Stato «di
leggi» liberale. È stato lui il primo a sviluppare con piena chiarezza sistematica il principio
«nullum crimen, nulla poena sine lege», essenziale per il diritto penale liberale”; si veda
invece che fine fa tale principio nel saggio di Höhn. La differenza principale sul punto tra la
concezione di Hobbes e quella di Schmitt è che nella prima sono pressocché assenti le
nozioni di popolo e di comunità, mentre nella seconda in specie il popolo è decisivo per la
sintesi politica.
26
della comunità di impresa, dove “il pensiero della comunità subentra al
pensiero degli interessi”.
Così il diritto (e lo Stato che lo pone (spesso) e deve applicarlo) non trova la
propria ragione fondamentale nel conciliare i contrapposti interessi
individuali e dirimere i relativi conflitti (cioè nello scongiurare il caos) ma è
espressione dell’ordine comunitario, così come la persona è tale nella
comunità. In questo senso la stessa distinzione tra uomo e cittadino (e
relativi diritti) perde senso (tant’è che Höhn non la tratta).
Di guisa che il diritto perde la primazia e la funzione di strumento del potere
per creare (e mantenere) l’ordine (Hauriou): è la stessa comunità quale
ordinamento di vita a costituire l’ordine e quindi ad esprimerlo. La
distinzione tra potere, ordine, diritto viene dissolta in quella di comunità
composta di capo e seguito, legati dal “sentimento” di appartenenza
comunitaria.
Tale prospettiva, a tacer d’altro, ha il difetto di mancare di realismo.
Che vi siano, pur nella stessa comunità, tanti individui (e relativi “gruppi”)
con diverse opinioni, interessi, credenze, è un dato reale ineliminabile. Che
poi la comunità sia una e abbia una “funzione” unificante di tante diversità
(anche a mezzo del diritto) è altrettanto reale. Il problema che si pone,
almeno nella dottrina dello Stato moderno, da Hobbes in poi, è quello come
fare e pluribus unum; compito sia politico che giuridico; e che consiste nel
punto centrale della costruzione dell’ordine e del potere. Affermare che la
comunità (e l’organizzazione che ne consegue) possa risolvere questo
problema è (forse) possibile: ma non che lo elimini, di guisa che il problema
non si ponga.
27
All’uopo basti ricordare ciò che ne pensavano Montesquieu, Hauriou e
Freund.
Il primo fa della distinzione dei tre poteri un fattore d’ordine e d’equilibrio
sociale, oltre che politico. Il secondo scrive che “Les equilibres sociaux sont
inviolables dans nos societés politiques”
13. Proprio per questo è necessario
contemperarli e equilibrarli. E regolarli giuridicamente. Anche se un
ordinamento costituzionale può limitarsi alla regola dell’ “appartenenza al
sovrano di tutti i poteri”14, tuttavia il sovrano (il capo, la guida) ha
comunque necessità di regolare il comportamento del “seguito” e ordinare i
poteri derivati e sottostanti. Pertanto anche se il regime nazionalsocialista
era sostanzialmente monista (e monocratico) ciò non implicava l’inesistenza
di una pluralità d’interessi e di poteri15
.
Sotto un altro profilo la concezione di Höhn si discosta vistosamente dal
“tipo ideale” del pensiero della scienza giuridica “borghese” tra il XIX e
l’inizio del XX secolo: nel sottovalutare la volontà e il potere. All’uopo è
utile confrontarlo con le concezioni, per certi versi emblematiche del
positivismo giuridico “classico”, di Max von Seydel. Secondo questi molti
errori hanno “condotto un falso idealismo del diritto. In nessun altro campo,
come in questo, finzioni fallaci hanno così facilmente pullulato rigogliose, e

13 Principes de droit public, rist. Paris Dalloz 2010, p. 11.
14 V. Santi Romano Principi di diritto costituzionale generale, Padova 1947, p. 3 e
prosegue “ma almeno questa norma non potrà mancare e non essere giuridica, se su di essa
si impernia per intero quell’ordinamento giuridico quale è sempre, per sua indeclinabile
natura, lo Stato”; il passo citato è in antitesi alle teorie “restrittive” del concetto di
costituzione, tipiche del costituzionalismo liberale.
28
impedita la via alla verità… La finzione è solo un modo di esprimersi
specifico per parificare giuridicamente e trattare con gli stessi criteri
rapporti diversi. Quindi non si può… con l’aiuto di finzioni spiegare o porre
rapporti giuridici”16; ciò che è reale è che “Lo Stato sorge per ciò che un
numero di uomini, il quale occupa una parte della superficie terrestre, si
unisce sotto un supremo volere. Da ciò appare che lo Stato non è altro che
un prodotto della volontà umana, anziché il prodotto di una forza naturale o
di un processo di evoluzione naturale… la tendenza della volontà umana a
formare lo Stato è senza dubbio fondata sulla disposizione naturale
dell’uomo: l’uomo è uno zoon politikon”
17 e sostiene “il diritto non sorge
che per opera dello Stato”. Dove invece von Seydel è meno distante dal
giurista nazionalsocialista è nella netta distinzione-subordinazione tra Stato
e Sovrano “risulta chiaramente che lo Stato non è affatto il volere sovrano,
né possiede il volere sovrano, anzi, è diverso da esso. Il volere sovrano è

15 V. sul punto in una teoria dell’ordine e degli equilibri nello Stato moderno, Hauriou op.
cit., pp. 11 ss. il quale scrive “La Costituzione degli Stati è ordine introdotto nella loro
organizzazione, separazione dei poteri ed equilibrio”.
16 E prosegue “Dinanzi a un unico concetto chiaro deve dileguare il fantasma nebuloso
dello spirito del popolo del Puchta; ad esso tengon dietro i soggetti giuridici non
effettivamente esistenti, ma solo immaginati; le totalità che sono qualcosa di diverso
dall’insieme dei loro elementi, i diritti che non sono uguali alla somma delle facoltà ad essi
corrispondenti, e così – non vogliamo continuare la lista che si potrebbe facilmente
moltiplicare – molto ancora che non è mai esistito, ma solo è stato pensato, che non deve il
suo essere alla realtà, ma semplicemente all’immaginazione”.
17 E prosegue “Il singolo Stato è sempre prodotto dalla volontà umana. È quindi un pensiero
senza alcun valore giuridico e filosofico quello che lo Stato sia un organismo. Questa
espressione figurata riposa sopra un pensiero oscuro, che scambia la tendenza della schiatta
umana a produrre lo Stato con l’atto creatore che produce lo Stato reale” (i corsivi sono
nostri) op. cit, p. 1153.
29
sopra lo Stato, e la soggezione ad esso dà al territorio e al popolo la qualità
di Stato. Essi si chiamano Stato soltanto se sono dominati, analogamente
come si chiama proprietà la cosa solo quando ha un padrone. È quindi un
modo di esprimersi affatto riprovevole scientificamente quello che pone alla
pari lo Stato e il volere sovrano, e attribuisce allo Stato un volere. Stato e
sovrano sono diversi così come proprietà e proprietario”18. Potere (di
comando) e volontà sono gracili se non assenti nella ricostruzione di Höhn,
contrariamente a quello che avviene in una coerente costruzione del diritto
“borghese” (v. anche, in seguito, le critiche dei giuristi antinazisti).
D’altra parte la concezione comunitarista di Höhn può essere confrontata
con la tesi di Schmitt sull’evoluzione dallo Stato liberale dualista dal XIX
secolo a quello “totale” dei XX secolo; analisi sviluppata in particolare nel
Hüter der verfassung. Dove è centrale l’affermazione del giurista di
Plettemberg che “la società che si organizza da sé in Stato passa dallo Stato
neutrale del liberale secolo XIX ad uno Stato potenzialmente totale. La
potente svolta può essere interpretata come parte di uno sviluppo dialettico,
che si svolge in tre stadi: dallo Stato assoluto del XVII e XVIII secolo
attraverso lo Stato neutrale del liberale secolo XIX allo Stato totale
dell’identità di Stato e società”19
.
Tuttavia lo Stato (nella specie la Repubblica di Weimar) ancorché totale (in
senso quantitativo) e “autorganizzazione della società” era pur sempre
anche “teatro del sistema pluralistico” perché (tra l’altro) “Per il fatto che

18 Op. cit., p. 1155 (il corsivo è nostro).
19 Il custode della Costituzione trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1981, p. 125.
30
esiste una maggioranza di simili complessi, che entrano in concorrenza gli
uni con gli altri e si mantengono reciprocamente entro certi limiti, ossia uno
Stato pluralistico dei partiti, si impedisce che lo Stato totale in quanto tale si
ponga in risalto con quella stessa veemenza che ha già manifestato negli
Stati cosiddetti a partito unico, la Russia sovietica e l’Italia. Con la
pluralizzazione non è però eliminata la svolta verso il totale, ma è per così
dire soltanto parcellizzata, giacché ogni gruppo di potere sociale organizzato
– dalla società di canto e dal club sportivo dell’autodifesa armata – per
quanto possibile cerca di realizzare la totalità in se stessa e per se stessa”20
.
8. Nel saggio Staat, Bewegung, Volk, scritto dopo la presa del potere da
parte di Hitler, , Schmitt ricostruisce il regime nazionalsocialista come
sistema triadico21. Delle tre membra il movimento “sorregge lo Stato e il
popolo, penetra e conduce le due altre”22. Delle tre è il movimento (la cui
forma è il partito nazionalsocialista) ad essere il principio dinamico e ad
esercitare la direzione politica, a guidare da un lato lo Stato (inteso come
apparato di autorità ed uffici) e dall’altro il popolo. La sfera del popolo è
“lasciata all’amministrazione autonoma, che abbraccia tanto l’ordinamento

20 Op. ult. cit., p. 131
21 “L’unità politica dello Stato presente è l’unità di tre membra: Stato, movimento, popolo.
Essa si distingue radicalmente dallo schema statale liberaldemocratico pervenutoci dal
secolo decimonono, e non soltanto per i suoi presupposti ideologici e i suoi principii
generali, ma anche in tutte le linee essenziali della costruzione e organizzazione del
concreto edificio dello Stato. Ogni concetto essenziale e ogni istituzione importante risente
di questa diversità” trad. it. di D. Cantinori in Principi politici nel nazionalsocialismo, rist.
Settimo Siggillo, Roma 1996 p. 184.
22 E prosegue “Ciascuna delle tre parole: Stato, Movimento, Popolo, può essere usata da
sola per la totalità dell’unità politica. Essa designa però nello stesso tempo anche un lato
particolare e un elemento specifico di questa totalità. Così si può considerare lo Stato in
senso stretto come la parte politica statica, il movimento come l’elemento politico dinamico
e il popolo come il lato apolitico crescente sotto la protezione e all’ombra delle decisioni
politiche” op. cit. p. 185
31
economico e sociale a categorie di professioni come anche
l’amministrazione autonoma comunale”23. Lo Stato d’altro canto “nel senso
della classe statale dei funzionari e delle autorità perde il monopolio della
politica che si era acquistato nel secolo decimosettimo e decimottavo”24. La
legalità dello Stato borghese, formalizzata e meccanicizzata, per ciò stesso
“entra in opposizione al diritto, che permane buono nel contenuto”. Nello
Stato nazionalsocialista “ essa riceve il significato secondario che le spetta,
relativo perché strumentale; diventa il modo di funzionare dell’apparato
statale delle autorità. Questa legalità è tanto poco identica col diritto del
popolo quanto l’apparato statale con l’unità politica del popolo. Al diritto
nel senso sostanziale appartiene come prima cosa di assicurare l’unità
politica soltanto sulla base delle decisioni politiche incontestate, e in questo
senso positive, il diritto si può poi spiegare in tutti i campi della vita
pubblica in una crescita libera ed autonoma” (il corsivo è nostro).
Nell’opera suddetta il giurista di Plettemberg non insiste sul termine
comunità, ma utilizza il bagaglio concettuale e la problematica del pensiero
politico e giuridico “classico”. Manca il carattere pervasivo e “tentacolare”
della comunità espresso da Höhn. Schmitt distingue tra direzione politica ed
“amministrazione autonoma”; parla del Partito come élite (Pareto);
organizza la comunità in un sistema tripartito, con ambiti distinti, di cui una
delle “membra” è comunque decisiva rispetto alle altre (ed è l’élite a

23 Op. cit. p. 186
24 E prosegue “Esso viene riconosciuto come una semplice parte dell’unità politica e
precisamente una parte fondata sull’organizzazione che sostiene lo Stato. L’insieme delle
autorità e dei funzionari per sé solo non si identifica dunque più con la totalità politica né
con una autorità di “superiore” riposante su se stessa. Oggi non si può più determinare la
politica partendo dallo Stato, ma bisogna che sia determinato lo Stato partendo dalla
politica” op. cit. p. 189.
32
dirigere il “movimento”); distingue tra legalità (come modo di
funzionamento dell’apparato statale) e diritto (e così via): tutte dicotomie e
distinzioni “classiche” assenti nel saggio di Höhn.
9. Freund rileva che il “pubblico” è in primo luogo l’affermazione dell’unità
(in relazione al saggio di Höhn è la comunità a costituire l’essenza di ciò
che è pubblico) e fa notare l’esattezza del giudizio di Hegel relativo al
popolo il quale “considerato senza il suo monarca e senza l’organizzazione
necessariamente e immediatamente connettiva della totalità, è la moltitudine
informe che non è più Stato, alla quale non spetta più alcuna delle
determinazioni che esistono soltanto nella totalità formata in sé – sovranità,
governo, giurisdizione, magistratura, classi … Per il fatto che tali momenti
che si manifestano a un’organizzazione, alla vita dello Stato si presentano
…. cessa di essere quell’astrazione indeterminata”25. Nel pensiero di Hegel
la connessione tra poteri, uffici e organi e relativi rapporti con il vertice e la
base della sintesi politica è decisiva (per l’esistenza e la capacità d’azione
della collettività politica); e non può, come si legge invece in Höhn, essere
ricondotta al (solo) rapporto capo-seguito e al sentimento comunitario.
Freund sostiene anche, seguendo la tesi di Schmitt che “c’è sempre una
pluralità di gruppi di natura diversa all’interno di un’unità politica … anche
al tempo dello Stato assoluto esistevano gruppi dalle diverse funzioni:
chiese, corporazioni, confraternite, compagnie”26. I cui (potenziali, ma
certi) conflitti devono essere decisi, e ciò compete “al potere, ovvero al

25 Lineamenti di filosofia del diritto, prgrf 279 trad it. di F. Messineo, Bari rist. 1974.
26 L’essence du politique, Paris 1965 p. 211
33
Comando sovrano, che ha il compito di assicurare la concordia, di prendere
le decisioni opportune”27
.
A prendere le decisioni non è “la democrazia”, “la classe” o “la comunità”
ma un’autorità determinata; a doverle eseguire un’organizzazione da essa
dipendente. A fare la differenza tra l’una e l’altra forma o tipo di sintesi
politica, è a chi spetta di decidere e a chi d’eseguire le decisioni. Le altre
differenze, pur importanti, non hanno il carattere primario di queste.
Il carattere pervasivo della concezione di Höhn riduce o annulla la
distinzione tra pubblico e privato, e quella – avrebbe scritto Miglio – tra
obbligazione politica e obbligazione-scambio28; è illuminante leggere a tale
proposito il passo, sopra riportato, sulla concezione comunitaria
dell’impresa29
.
10. Anche nella dottrina politica e giuridica anti-nazionalsocialista le tesi di
Höhn erano (ovviamente) criticate. Franz Neumann scrive che: “I più
avanzati giuristi nazionalsocialisti, Reinhard Höhn e Gottfried Neesse,
respingono il concetto stesso di Stato e le loro idee sono ampiamente
approvate. Entrambi respingono il concetto della personalità dello Stato
come una mera costruzione liberale, poiché essi sostengono, se il concetto

27 Op. loc. cit.
28 V. Su detta distinzione G. Miglio, Lezioni di politica, Bologna 2011, pp. 153 ss.
29 È appena il caso di rammentare che il tutto ovviamente nega la (dualistica) lotta di classe,
riconducendola all’unità della comunità nazionale di destini. Sul punto è utile ricordare che,
come scriveva Tönnies “La storia della comunità muove – in conformità alle
determinazioni poste in luce – dalla premessa della perfetta unità delle volontà umane come
stato originario o naturale, che si è conservato nonostante e attraverso la separazione
empirica, atteggiandosi in forme molteplici secondo la natura necessaria e data dei rapporti
tra individui diversamente condizionati”, Comunità e società, Milano 1999, p. 51.
34
dello Stato venisse accettato, quelli che esercitano il suo potere sarebbero
semplicemente i suoi organi”30
.
Ernst Fränkel sostiene che la concezione giuridica nazionalsocialista, su
base biologica, “Si potrebbe definire nella teoria e nella prassi «biologismo»
politico, si basa sul riconoscimento e sulla cura di «forze» vitali…Al di là
del diritto naturale razionale e societario esiste un diritto naturale irrazionale
e comunitario, fondato biologicamente, che viene ad aggiungersi alla lunga
lista di varianti storiche del diritto naturale”31; la distinzione tra “diritto
naturale societario e diritto naturale comunitario fu formulata già dai
giuspubblicisti del XVII secolo mediante la contrapposizione dei concetti di
societas e socialitas”
32; tra questi Leibniz. Descrive poi i “tipi ideali” del
diritto naturale societario e del diritto naturale comunitario, i cui caratteri
si attagliano con notevole precisione a quanto esposto da Höhn nel saggio
qui commentato33
.

30 E prosegue “Secondo loro, invece, il potere politico in Germania si fonda sul Führer, che
non è un organo dello Stato ma è la comunità, e non agisce come il suo organo ma come la
sua personificazione” e “Questa teoria costituzionale nazionalsocialista avanzata, benché
attaccata persino da Carl Schmitt, ammette chiaramente che non è lo Stato a unificare il
sistema politico ma che vi sono tre (a nostro avviso, quattro) poteri politici coesistenti, la
cui unificazione non è istituzionalizzata ma solo personalizzata” e conclude che “le teorie
della comunità del popolo e il Führerprinzip siano semplici maschere che coprono i poteri
di apparati burocratici enormemente rigonfi. Ma, almeno un grano di verità può essere
contenuto in queste teorie; vale a dire che è difficile dare il nome di Stato a quattro gruppi
che entrano in trattativa. In effetti, eccettuato il potere carismatico del Führer, non vi è
alcuna autorità che coordina i quattro poteri, nessun luogo dove il compromesso fra di essi
può essere fondato su basi universali” v. Behemoth, trad. it. di M. Braccianini, Milano
1999, p.
31 Der Doppelstaat trad. it. di P.P. Portinaro, Torino 1983, p. 174.
32 Op. loc. cit.
33 “Il diritto naturale comunitario sostiene che fra gli individui singoli esiste un ordine
armonico fondato sugli istinti naturali, che scaturisce dalla «volontà essenziale» dei
componenti della comunità e ad essa corrisponde…Il diritto naturale comunitario vede nel
diritto soltanto una forma di manifestazione della comunità, la cui coesione è prodotta e
35
11. Dopo questa rapida esposizione occorre considerare quanto di ciò che
scrive Höhn appaia ancora rappresentativo non tanto di un modo concreto di
concepire il diritto da parte di un regime politico dato ma in quale misura sia
utilizzabile per la ricostruzione di connotati ed elementi costanti delle
istituzioni, indipendentemente dalla specifica ideologia politica che le
“conforma”. Se quindi la concezione comunitaria di Höhn, col suo carattere
pervasivo e totalizzante ma poco determinato e precisato presenti ancora
interesse per alcuni punti enunciati.
In primo luogo il concetto stesso di comunità: se quello di Höhn è un
ectoplasma così evanescente e dai contorni sfuggenti, l’assenza di quello in
buona parte della dottrina giuridica successiva al secondo conflitto
mondiale, è frutto di una concezione riduttiva e limitata del diritto, una
coperta corta che non considera la totalità dell’esperienza e (del fenomeno)
giuridico34
.

conservata da forze extragiuridiche. Il diritto svolge tutt’al più una funzione di
appoggio…Il diritto naturale comunitario è portatore di un potere delegato. Quanto al suo
contenuto, è determinato dalle forze terrene che lo hanno prodotto; da queste deriva la sua
autorità temporalmente e spazialmente limitata. Il diritto naturale comunitario rifiuta la
ragione non appena questa mette in questione la legittimità degli istinti, sulla cui
affermazione esso invece si fonda…Il diritto naturale comunitario possiede un limitato
ambito di validità cronologico, topografico come pure personale. La coscienza comunitaria,
a cui deve la propria esistenza, emerge soltanto nel processo di differenziazione da altre
comunità. Il diritto naturale conunitario è concepibile solo all’interno di un gruppo sociale
concreto. Il diritto naturale comunitario non è egualitario in analogia alla forma originaria
di tutte le comunità, la famiglia, che è fondata sulla disuguaglianza dei suoi membri …Per
il diritto naturale comunitario lo Stato è soltanto la secondaria espressione della primaria
unità di tutti i compagni di stirpe (Volksgenossen). La comunità di popolo è una
formazione biologica che esiste anche se non è organizzata in forma statale. Lo Stato è un
fenomeno organico derivato dalla comunità di popolo intesa biologicamente”, op. cit., p.p.
175-176.
34 Come scrive Carl Schmitt sul carattere “limitato” del positivismo giuridico “possiede nel
caso migliore, tanto e, nel caso peggiore, tanto poco valore quanto ne posseggono i trattati
fra stati e le leggi interne alle quali esso aderisce. Del resto, per la scienza del diritto, esso
non sta a significare altro che una funzione normativistica, il cui valore, come il valore
dell’intera prospettiva positivistica caratterizzante il XIX secolo, è relativo o storicamente
36
Ad esempio l’indeterminazione è un limite della concezione comunitaria di
Höhn,ma è tuttavia accostabile alla contrapposizione
nazione/costituzione/forma esposta da Sieyès in Qu-est-ce-que le Tiérs
État35. È chiaro che l’abate rivoluzionario calca la mano sulla volontà e
sull’associazione politica (di individui liberi ed uguali), concezione perciò
opposta a quella di Höhn, ma comune ad entrambi è che la comunità (la
Nazione) è superiore e decisiva rispetto alla forma costituita (e costituenda)
in cui si organizza. Al contrario di quanto ritengono in molti che la “forma”
(intesa peraltro in senso normativistico, cioè riduttivo) prevalga sulla
volontà e il consenso comunitario, di per sè elementi metagiuridici e perciò
espunti.
Peraltro la comunità di Höhn che è il fondamento (e la causa finale) e
dell’organizzazione dello Stato (sul punto v. anche E. Fränkel)36 ricorda
alcune considerazioni di Hauriou sull’istituzione-Stato; la quale “domata ed

determinato. Esso trascura intenzionalmente il significato dei contenuti e delle specificità
del diritto, cioè il senso politico, sociale ed economico delle istituzioni e degli ordinamenti
concreti e non può quindi pretendere, già per tale ragione, di possedere il monopolio del
pensiero giuridico e di dire l’ultima parola sul nostro tema. Un’interpretazione ed una
sistematizzazione di tipo scientifico-giuridico deve appunto tener conto del contenuto
concreto delle norme e del senso specifico delle istituzioni”v. Die Lage der europäischen
Rechtswissenschaft (il corsivo è nostro), trad. it. di L. Cimmino (con introduzione di A.
Carrino), Roma 1996, pp. 37-38.
35 “La comunità non si spoglia affatto del diritto di volere; si tratta di una proprietà
inalienabile, essa può solamente affidarne l’esercizio. Tale principio è sviluppato altrove” –
“La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre
conforme alla legge, essa è la legge stessa. Prima di essa e al di sopra di essa non c’è che il
diritto naturale” trad. it. di G. Troisi Spagnoli in Opere, Tomo I, Milano, pp. 254-255.
36 “Hitler ha sostenuto: «Lo Stato è un mezzo per raggiungere un fine. Il suo fine consiste
nella conservazione e nell’incremento di una comunità di creature fisicamente e
moralmente omogenee…Stati che non servono a questo scopo sono costruzioni mal
riuscite, anzi aborti. Ciò non cambia in considerazione del fatto della loro esistenza, così
come il successo di un’associazione di filibustieri non può giustificare la rapina»” op. cit.,
p. 176.
37
addomesticata” secondo Hauriou dal costituzionalismo post-rivoluzionario
deve svolgere tre funzioni essenziali:
1) proteggere la società individualista a mezzo del governo, assicurarle la
pace e l’ordine all’interno e all’esterno… 2) controllarla e renderle servizi
attraverso l’amministrazione 3) Reprimere gli eccessi dell’individualismo37
.
Anche se Hauriou scrive di società e non di comunità
38, l’istituzione-Stato è
quindi la forma in cui s’organizza la società, la protezione dell’esistenza
della quale è funzione essenziale di quello: il che vuol dire che lo Stato è
strumento della società.
Inoltre una seconda analogia (nella “funzione”) del concetto di comunità di
Höhn con concezioni del tutto opposte ma omologhe, è che quello ha, come
queste, l’effetto di depotenziare l’aspetto autoritario – e necessario – del
comando. Così in certe concezioni dello Stato di diritto, inteso quale
“governo di leggi, non di uomini”, o in quella di Rousseau della volontà
generale come “eliminazione” del comando, perché ognuno obbedisce a se
stesso, avendo partecipato a deliberare la legge, la comunità col suo idem
sentire de re publica (e anche di più) diventa un modo per minimizzare il
lato “discendente” del rapporto politico (dal capo alla comunità) a vantaggio
di quello ascendente (dalla comunità al capo).
Peraltro c’è un terzo punto di convergenza strettamente connesso al
precedente: il rapporto tra “capo” e “seguito”, richiamato più volte da Höhn.
Il quale è il più chiaro e determinato del saggio. E pour cause: perché il

37 V. Precis de droit consitutionnel, Paris 1929, p. 49.
38 Tuttavia il termine società di Hauriou è prossimo (e non contrapposto) al significato di
comunità (o più in generale, di “gruppo sociale” – ossia il genere). Al punto che quando si
riferisce alla società “borghese” l’accompagna con l’aggettivo individualista.
38
rapporto tra capo e seguito, ovvero tra vertice e base della sintesi politica è
la condizione essenziale dell’esistenza e della capacità d’agire della
comunità: questo perché il presupposto del comando/obbedienza in una
comunità (anzi in ogni gruppo politico organizzato) è insostituibile. Le
sintesi politiche possono assumere diverse forme e costituire vari tipi: ma a
tutti è essenziale che i comandi del vertice ottengano l’obbedienza e la
minore possibile resistenza alla volontà dei governanti39
.
Vale al riguardo quanto scriveva Hegel distinguendo tra ciò che è necessario
perché esista uno Stato e ciò che è, invece, accidentale40. Inoltre il richiamo
continuo di Höhn al diritto “espresso” dalla comunità rammenta da un lato
la distinzione tra diritto statuito e diritto consuetudinario; dall’altro lo jus
involuntarium, la cui importanza è stata messa in evidenza – tra gli altri – da
Santi Romano41
.

39 Nell’esposizione di Höhn mentre è chiaro il rapporto di direzione del Führer, non lo è
come sia organizzato, in particolare nel lato ascendente se non sulla base, per appunto
dell’idem sentire, dell’appartenenza, della storia. Mentre nei regimi democratici quello che
Smend chiama integrazione funzionale (votazioni, plebisciti, accesso a cariche ed impieghi
pubblici) è dettagliatamente prevista e regolata.
40 Chiedendosi cosa sia necessario perché “una moltitudine formi uno Stato “Dobbiamo
nella nostra considerazione, separare le due cose: ciò che è necessario, che cioè una
moltitudine sia uno Stato e un potere comune, e ciò che invece è soltanto una particolare
modificazione di questo potere e non rientra nella sfera del necessario, bensì appartiene, per
il concetto, alla sfera del più o meno bene, per la realtà invece alla sfera del caso e
dell’arbitrio” Verfassung Deutchlands trad. it. a cura di A. Plede, in Scritti Politici Bari
1961 p. 31
41 “Del resto, anche fra gli Stati moderni ce ne sono alcuni che, non alla legge, ma alla
consuetudine attribuiscono il primo posto nella produzione delle norme giuridiche. Così,
come è noto, l’Inghilterra, dove la «common law» è considerata la base di tutto il diritto e la
legge scritta interviene solo quando è indispensabile, con la figura di un «emendamento»
della prima” v. Principi di diritto costituzionale generale Milano 1947 p. 91
39
Verosimilmente la considerazione che Höhn ha del diritto inglese è
attribuibile al carattere consuetudinario (e quindi involontario, comunitario)
di questo42
.
Bisogna tuttavia considerare che la concezione di Höhn di una produzione
prevalentemente (o quasi totalmente) spontanea del diritto era ampiamente
contestata dai giuristi antinazisti, tenuto conto che nel Terzo Reich non
mancava certo potere statuente e momento “autoritativo” onde appare
forzata ed edulcorata, come sopra cennato. Anche se in ogni ordinamento
convivono sia l’aspetto autoritativo che quello spontaneo-consensuale cioè,
sotto un diverso profilo, il comando e l’obbedienza.
Piuttosto occorre considerare il saggio di Höhn uno dei contributi più
conseguenziali alla “spolicitizzazione” dello Stato, tipica del XX secolo,
espressa da Carl Schmitt nel Begriff des politischen; in particolare nella
“Premessa” al testo del 193243
.

42 Sul punto v. Santi Romano “Del resto, anche fra gli Stati moderno ce ne sono alcuni che,
non alla legge, ma alla consuetudine attribuiscono il primo posto nella produzione delle
norme giuridiche. Così, come è noto, l’Inghilterra, dove la «common law» è considerata la
base di tutto il diritto e la legge scritta interviene solo quando è indispensabile, con la figura
di un «emendamento» della prima. Contrariamente all’opinione del Bentham, che del resto
anche agli «statuti» del parlamento rivolse critiche acerbe, la dottrina inglese ritiene che
alla volontà del legislatore, che può essere arbitraria e sbagliare, sia da preferire la comune
convinzione giuridica, nella quale si esprime direttamente e genuinamente la saggezza del
popolo” op. loc. cit..
43 L’epoca della statualità sta ormai giungendo alla fine: su ciò non è più il caso di spendere
parole… Lo stato come modello dell’unità politica, lo Stato come titolare del più
straordinario di tutti i monopoli, cioè del monopolio della decisione politica, questa fulgida
creazione del formalismo europeo e del razionalismo occidentale, sta per essere
detronizzato… Vi fu realmente n tempo in cui era corretto identificare i concetti di ‘statale’
e di ‘politico’. Infatti allo Stato europeo classico era accaduto qualcosa di assai
improbabile: di creare la pace al suo interno ed eliminare l’inimicizia come concetto
giuridico” trad. it. di P. Schiera ne Le categorie del politicoi, p. 90, Bologna 1972.
40
Anche il connotato della volontà viene messo in ombra nel saggio di Höhn e
più ancora se riferito allo Stato; ad esempio a fare un confronto con il
pensiero di Gentile, tutto incentrato sullo Stato, sul suo rapporto con il
cittadino e sul diritto come volontà dello Stato44
12. Altre idee di Höhn sono comunque trasmigrate, o comunque presentano
analogie – sotto diversa veste ideologica, con differenti termini e scopi – in
alcune concezioni della successiva dottrina giuridica. Così l’affermazione
che il Giudice nel regime nazionalsocialista è “posto in libertà” e rileva solo
il suo “legame con i fondamenti in termini di visione del mondo quali
determinano l’intera vita del popolo”, a prescindere con i collegamenti con
le (precedenti) teorie del “diritto libero” può accostarsi alle concezioni,
successive, che vedono il Giudice quale interprete – più che di norme – di
principi, valori e anche interessi. Del pari il richiamo alla “visione del
mondo” comunitaria è analogo a quelli alla tavola dei valori, ai principi
costituzionali, e differisce da questi principalmente perché non si basa su un
supporto scritto, qual è la costituzione45
.
Quel che invece appare irrealistico (e quindi impossibile) è la – pressoché
assente – trattazione della forma politica, onde non è chiaro in che modo la
comunità agisce – se non attraverso il Führer (ma così si ritorna alla forma,

44 Che è in molte affermazioni incompatibile con quello di Höhn. Per Gentile, ad esempio
“Non è la nazionalità che crea lo Stato; ma lo Stato crea (suggella e fa essere) la
nazionalità. Che conquistando la propria unità e indipendenza celebra la sua volontà
politica, realizzatrice dello Stato”; la “volontà dello Stato è diritto (pubblico o privato,
secondo che regola i rapporti tra Stato e cittadini, o tra cittadini e cittadini); quanto al
rapporto governanti-governati “come il diritto positivo è negato nell’attualità dell’azione
etica, così ogni opposizione di Governo e governati cade nel consenso di costoro, senza il
quale il governo non si regge”: quindi coazione e consenso sono complementari e ambedue
necessari, v. Genesi e struttura della società, rist. Firenze 1987, pp. 57-60.
45 V. sul punto le interessanti considerazioni di L. M. Bandieri Dallo Stato di diritto al neocostituzionalismo in Behemoth online, n. 54.
41
sia pure ridotta all’osso, dei pieni poteri). Il problema della necessità della
forma, al di là del diritto a dare forma, è di rendere la comunità capace di
esistere ed agire. E senza quella l’una, ma ancor più l’altra sono impossibili:
a meno di non integrarle, come un po’ fa in sordina Höhn, con i
Führerbehfele.
Teodoro Klitsche de la Grange

http://www.behemoth.it/index.php?pag=news&id=1235499015_59&titolo=COMUNIT%C1%2C%20DIRITTO%2C%20STATO%3A%20IN%20MARGINE%20%20AD%20UN%20SAGGIO%20DI%20H%D6HN-Teodoro%20Katte%20Klitsche%20de%20la%20Grange

POLARIZZAZIONI, di Pierluigi Fagan

POLARIZZAZIONI. Il teorico di economia comportamentale Cass Sunstein, co-autore con R. Thaler di “Nudge” (2009) che in buona parte fu ragione del Nobel per l’economia a Thaler nel 2017, nel suo “Come avviene il cambiamento” (Einaudi, 2021), illustra il meccanismo sociale osservato ed indagato sperimentalmente della “polarizzazione”. Ve ne riferisco a titolo d’ipotesi su cui confrontarsi.
In breve, si tratterebbe di un meccanismo di precisazione delle opinioni nei gruppi per il quale chi è orientato verso un corno di un problema sociale, nel tempo, tende a precisare e polarizzare la propria iniziale tendenza, assumendo posizioni sempre più nitide, conformi a quelle del suo gruppo d’opinione, opposte radicalmente a quelle del polo avversario, per altro oggetto di pari dinamica.
Motivi della dinamica secondo il Sunstein, sarebbero: 1) ogni gruppo che si forma intorno una opinione, tende -nel tempo- a selezionare per lo più informazioni conformi alla propria opinione che, rinforzandosi, si polarizza; 2) il discorso svolto in una di queste enclave d’opinione diventa sempre più stilizzato e perentorio, centrato su verità ritenute acquisite, spostandosi su toni sempre più estremi (anche se questa estremizzazione è dovuta anche da pari progressiva estremizzazione dell’antitesi avversaria); 3) il tutto ha un dente d’arresto di irreversibilità in quanto l’opinione spesa ripetutamente e condivisa dal gruppo di riferimento diventa parte dell’identità e mostrare identità deboli depone in sfavore della reputazione sociale.
Si potrebbero aggiungere altri elementi sfuggiti al Sunstein, come il conformismo (che vale anche per il presunto anti-conformismo), l’allineamento a sovra-ideologie imperanti nel livello più fondamentale delle immagini di mondo, le strutture sociali che permettono e non permettono il confronto tra diversamente pensanti, la voglia di odiare un nemico costruito di tutto punto per meritarsi il nostro odio dovuto per lo più ad altre questioni sociali non proprie dell’argomento scelto per la polarizzazione.
Ma forse, il meccanismo più insidioso che spesso opera al di sotto della dinamica è il progressivo allontanamento dalla realtà, specie quando questa è, come spesso è, contradditoria. In verità sarebbero contradditori i sistemi di opinione, ma la volontà di pensare preciso, lucido, veritiero e condiviso, porta a sostituire la realtà con il sistema d’opinione in una forma di nevrosi che può sfociare nella psicosi. Quest’ultimo meccanismo diventa in realtà la convenzione del gioco sociale delle due polarizzazioni, unite nel progressivo allontanarsi dalla realtà, divise nel percorso scelto della direzione ideale cui tendere per rappresentarsi una realtà-verità nitida e non contraddittoria. Condividere nevrosi sociali, anche se poi si gioca ai guelfi e ghibellini, è pur sempre uno stare assieme. Non è che non siamo esistiti nei secoli i senesi, nonostante l’alta conflittualità rionale.
Ci sono poi altre dinamiche di contorno interessanti da indagare tra cui i polarizzatori professionali di cui sono ricchi i social e gli imprenditori della polarizzazione che tramite i media hanno infine scopi sempre politici o economico-politici, se non geopolitici. Vale per i poteri in atto come per quelli sfidanti.
Il tutto tende a diventare norma in tempi come questi in cui società sfibrate da almeno quaranta anni di deriva adattiva manifestatasi con globalizzazione, finanziarizzazione, crisi ripetute, terrorismi, migrazioni, discesa dei poteri d’acquisto, rottura dell’ascensore sociale, processi iniziati quarantacinque anni fa di esplicita “democrazia diminuita”, la poco analizzata profonda crisi di capacità che in questi decenni ha colpito le classi dirigenti generando una sfiducia ormai irrecuperabile, progressiva ed inquietante informatizzazione, de-socializzazione ed altro, si trovano sempre più spesso di fronte a vere e proprie sequenze di problemi inediti e minacciosi senza aver modo e tempo di almeno comprenderli.
La complessità intrinseca certi problemi come quello ambientale e climatico o quello pandemico o le contrazioni del sistema economico moderno occidentale in rapporto ai processi intenzionali di democrazia diminuita e lo stesso rapporto tra West vs the Rest, accresce l’ansia di ridurre questioni ricche di varietà ed interrelazioni, effetti e controeffetti non lineari, a quadri nitidi, tersi, confortevolmente polari. Si forma una sorta di condivisione dell’ignoranza in cui la convenzione è avere idee tanto più chiare quanta meno conoscenza ed informazione si ha di un fenomeno.
La certezza del poter aver un nemico da combattere, su un tema che assurge a “contraddizione principale” (come se un mondo contradditorio tale fosse perché c’è una contraddizione fondamentale quando in un sistema non c’è “un” fondamentale poiché l’intera sua struttura e funzionalità è fondamentale) è pur sempre meglio che l’incertezza totale, è un semplice fatto esistenziale.
A mio avviso tutto ciò non è socialmente un bene, depotenzia la coesione sociale che può esser anche basata su diversità ritenute necessarie ma ricordandosi che la vita biologica ha da 3,5 miliardi anni inventato come sua strategia adattiva il veicolo sociale o più banalmente “l’unione fa la forza” e forza per resistere alle intemperie adattive ce ne vuole sempre parecchia. Vero è che i senesi sono sopravvissuti e secoli di conflitto rionale, ma solo perché l’hanno sublimato in una innocua corsa di cavalli. Le polarizzazioni avvengono per lo più intorno interessi individuali o di gruppo, quasi mai rispetto al più importante interesse generale, l’interesse che tutti dovremmo avere verso il sistema di cui facciamo parte. Non si tratta di opporre una indesiderabile unipolarizzazione di gruppo alla bipolarizzazione di questo meccanismo. Si tratta di constatare che tra polo ed equatore, la vita si è maggiormente diffusa nelle fasce intermedie dove c’è del caldo ma anche del freddo.
In caso di polarizzazione assumere conoscenze ed informazioni in dosi massicce rafforza il sistema immunitario alle prese con questa sindrome tipica dei periodi storici di torsione adattiva profonda, quindi di crisi profonda. Lì dove tendiamo tutti a non fare più i conti con la realtà regalandoci momenti di confortevole certezza antagonista, viepiù se l’argomento su cui ci dividiamo è innocuo dal punto di vista del conflitto sociale basato sui più concreti rapporti di potere sociale.
[Nella foto, frame di “La parola ai giurati” del grande Sidney Lumet (1957), un film basato su un processo di inversione di polarizzazione che ben ne illustrava le dinamiche, sessanta anni prima di Sunstein]

Pragmatismo tecnocratico e inattualità della filosofia, di Andrea Zhok

Per la prima volta nella storia dei finanziamenti nazionali nessun PRIN (Progetto di Ricerca di Interesse Nazionale) è stato finanziato per l’area filosofica. I progetti di quest’area rappresentavano il 10% dei progetti presentati, ma sono stati bocciati tutti.

Al netto del dispiacere per i mancati finanziamenti, credo che ci si possa compiacere di questo evento almeno per il suo contributo a fare chiarezza.

Si tratta di una scelta che si inquadra perfettamente nell’atmosfera del nuovo pragmatismo emergenziale, che non ha più tanto tempo da perdere con le apparenze.

Dopo tutto, come ha detto il ministro Cingolani, basta studiare quattro volte le guerre puniche. Ci vogliono più conoscenze tecniche.

Questo nuovo “pragmatismo” sta rapidamente dismettendo tutti gli orpelli, tutti i passati omaggi alla Costituzione, ai diritti, alla libertà di pensiero ed espressione, e sta andando rapidamente al cuore del progetto tecnocratico contemporaneo, senza più infingimenti. L’imperativo è la rapidità d’esecuzione previa cancellazione di controlli, pratiche di mediazione, tempi di riflessione.

In questo senso si tratta di un evento chiarificatore, molto meglio della strategia adottata sui finanziamenti alla ricerca a livello europeo, dove vige ancora (ma vediamo per quanto) un altro stile d’azione, quello per cui si finanziano progetti “trendy”. Adesso è il momento del Greenwashing e dunque i finanziamenti alla libera ricerca cadono e cadranno su progetti che si raccomandano per la capacità di sostenere l’attuale narrazione sull’emergenza climatica.

Beninteso, naturalmente non c’è niente di male a svolgere ricerca su questo importante tema.

Il problema – non proprio marginale per la libertà di ricerca – è che il finanziatore stabilisca i temi degni di essere ricercati a monte (e, in effetti, scelga anche le linee di fondo delle tesi che si andranno a testare). Questo qualche problema direi che lo genera, visto che l’agenda del finanziatore è eminentemente politica, mentre quella del ricercatore dovrebbe essere il perseguimento della verità.

In attesa di vedere come verranno valutati in futuro progetti filosofici su “Spinoza e la Piccola Era Glaciale” e “La stufa di Cartesio e il Global Warming“, possiamo apprezzare la chiarezza fatta dalla scelta italiana.

Va detto che l’idea stessa di concepire i finanziamenti, specificamente per aree come quelle afferenti a forme di pensiero critico, nella modalità di pochi grandi finanziamenti, è parte del problema. Questo modello viene promosso come “altamente competitivo”, e il presunto “alto livello della competizione” rende l’esclusione anche di progetti manifestamente meritevoli del tutto normale. Dunque, che i meritevoli, anche gli assai meritevoli, restino fuori è un’idea cui il modello ci abitua.

In questa idea di “alta competizione” c’è qualcosa di profondamente fuorviante. Qui non siamo in una gara di corsa in cui il più veloce arriva primo, o in un incontro di boxe in cui il più forte resta in piedi. Qui siamo in un ambito più simile a un concorso di bellezza, dove si mettono in mostra i propri punti di forza sperando di convincere la giuria. E siccome “la bellezza è negli occhi di chi guarda”, questo modello conferisce alle “giurie” un totale controllo su quali linee di ricerca promuovere. Questo fatto stesso, a prescindere dall’obiettività e buona fede delle giurie che può essere adamantina, limita la libertà di ricerca, in quanto promuove implicitamente un gioco di anticipazione dei desiderata dei giudici. Progetti ambiziosi, fondati, ma “strani” tendono a scomparire per autocensura.

Detto questo, che la filosofia debba riciclarsi in un formato disciplinare “self-contained“, in un campo ben delimitato e dunque “tecnicizzabile”, è qualcosa di promosso e incentivato da tempo. Tuttavia la riflessione filosofica – finché esiste e non sono ottimista sul suo stato di salute – è intrinsecamente refrattaria alla chiusura in un campo.

Con qualche semplificazione, si potrebbe dire che mentre tutte le altre scienze possono di principio (magari malvolentieri) concepirsi come studio di “mezzi”, di “tecniche”, la filosofia perde completamente la sua natura se non è sempre insieme indagine sui “mezzi” e sui “fini”, sui mezzi in rapporto ai fini, sui fini in rapporto ai mezzi. E ogni discussione che chiami in campo i fini tende ad avere carattere olistico, non settoriale.

Ora, dovrebbe essere chiaro a chiunque sia aduso a riflettere sulla politica e sulla storia che, per il potere – chiunque lo gestisca di volta in volta – un sapere relativo ai mezzi è prezioso, perché ti fornisce ulteriore potenza; ma una riflessione aperta sui fini è invece esiziale, perché il potere la propria agenda di fini ce l’ha già e non desidera affatto che sia messa in discussione. Dunque i saperi tecnici sono i benvenuti, ma tutte le forme di riflessione che possono mettere in discussione l’agenda dei fini (forme che comunque, di fatto, possono nascere in qualunque area del sapere) rappresentano un problema.

La filosofia in questo senso, nella misura in cui esiste ancora in forme tradizionali, rappresenta un piccolo scandalo, una sorta di atavismo, il residuo di epoche al tramonto. In filosofia porsi domande intorno all’intero, alla storia e alla società in cui si è collocati, alla propria posizione nel cosmo, e farlo sulla base della critica radicale, del dubbio verso l’opinione maggioritaria, dell’uscita dallo schema pregresso, è precisamente la base, il cuore da cui tutto parte.

Per questo motivo la filosofia – finché esiste e nella misura in cui ancora esiste – esige innanzitutto libertà di pensiero ed espressione, e se c’è una battaglia rispetto a cui nessun filosofo che voglia dirsi tale può arretrare è una battaglia per la libertà di pensiero e di espressione.

Per far capire alla fine di che cosa ne va al momento, è utile riportare un breve passo da l’Avvenire; qui, proprio all’inizio di un articolo in cui si discute della mancata erogazione dei PRIN al settore filosofico, troviamo scritto:

“Qualche maligno attribuisce il risultato negativo a qualche isolato e presenzialista “avversario del Green pass” e all’avversione che può avere suscitato verso la disciplina, ma la comunità filosofica ha reagito con tempestività e con contributi di valore, mostrando al contrario di quanto bisogno vi sia di buone elaborazioni concettuali anche di fronte a un’emergenza sanitaria.”

Traduzione informale:

“Non lo dico io, naturalmente, mai mi permetterei; è solo una voce maligna, però, però, pensateci sopra, non sarà mica che il sostenere tesi eterodosse da parte di qualcuno che si fregia del nome di filosofo (Agamben? Cacciari?) abbia attratto sull’intera comunità filosofica l’ira funesta dei Giudici? No, no, cosa vado mai a pensare! Infatti – e per fortuna, altrimenti chissà cosa sarebbe potuto accadere – c’è stata una reazione pronta che ha riportato la nave sulla giusta rotta.”

Ecco, questa, per chi non lo avesse colto, è una garbata forma di intimidazione, ed è esattamente ciò che si desidera diventi la filosofia – altrimenti poi non ci si lamenti se non verrà finanziata: un amplificatore colto di tesi ortodosse, con bollinatura governativa.

Insomma veniamo lasciati scegliere come morire, se per soffocamento, senza soldi, o per snaturamento, senza critica.

https://www.lafionda.org/2021/11/29/pragmatismo-tecnocratico-e-inattualita-della-filosofia/?fbclid=IwAR09qFyVyeUum9zB_zEj6-EqVF07slcd1jGdRAKL28GdfvnDr9dKl1EOfl8

 

Seguono alcuni dei commenti apparsi su facebook:

Roberto Buffagni

Tutto giustissimo. Mi permetto però un parziale dissenso, o meglio una nota di specificazione a margine, sulla frase “Ora, dovrebbe essere chiaro a chiunque sia aduso a riflettere sulla politica e sulla storia che per il potere (chiunque lo gestisca di volta in volta) un sapere relativo ai mezzi è prezioso, perché ti fornisce ulteriore potere; ma una riflessione aperta sui fini è invece esiziale, perché il potere la propria agenda di fini ce l’ha già e non desidera affatto che sia messa in discussione.” Questo è senz’altro vero se la discussione sui fini è “aperta”, democratica, e può concludere ad atti politici efficaci (a nessuno piace cedere il posto). E’ meno vero se si considera la formazione culturale della classe dirigente. Ogni classe dirigente ha certo bisogno di saperi tecnici, dalla competenza militare alla competenza amministrativa. Per conservare il potere e accrescerlo nel conflitto sia interno, sia esterno al proprio campo, nella incessante lotta per l’egemonia tra le potenze, è invece indispensabile che la classe dirigente, e in specie i decisori politici di ultima istanza, siano culturalmente formati anche, e vorrei dire soprattutto, alla riflessione sui fini; perché la riflessione sui fini importa la riflessione sull’uomo e sul mondo, e le discipline indispensabili sono proprio la filosofia e la storia: anche la psicologia, la teologia, l’antropologia, etc., ma le prime due sono affatto necessarie. Per comprendere che cos’è la geopolitica, per formarsi al pensiero strategico, ossia per mettersi in condizione di prendere le decisioni di ultima istanza, che vertono sempre sull’essenziale, è indispensabile conoscere, assimilare, fare proprie la riflessione storica e filosofica (il che non vuol dire esserne specialisti, ovviamente). Alcuni errori colossali commessi dalle dirigenze occidentali negli ultimi anni – es. vent’anni di guerra persa in partenza in Afghanistan, traslocare infinite manifatture dagli USA alla Cina, un nemico potenziale di pari grado, la scelta del vaccino come unica risposta alla crisi pandemica – penso siano da ascrivere proprio a un difetto di riflessione in merito ai fini nei decisori di ultima istanza, a una povertà culturale, a un accecamento ideologico, a una mancanza di flessibilità intellettuale, a una imbecillità intelligente che hanno effetti concreti e rovinosi proprio sul piano della Realpolitik: perché per fare politica realistica bisogna prestare attenzione alla realtà, e la realtà è infinitamente vasta, inesauribile, misteriosa, e difficilissimo anche solo iniziare a comprenderla. Niente è più arduo che vedere le cose come sono; e l’arte politica è la più difficile delle arti, perché i materiali che deve mettere in forma sono i più riottosi, complessi, viventi. il disprezzo per la riflessione sui fini, per farla corta, prepara le sconfitte.
Andrea Zhok

Roberto Buffagni Capisco ciò che dici, ma qui credo sia da specificare una cosa. Quello che tu dici riguarda un’ideale élite al potere, che di riflessioni sui fini ha bisogno per non commettere gravi errori. Ma l’élite al potere oggi ha un carattere assai modestamente ‘personale’. E’ braccio esecutivo sostituibile di un sistema capitalistico acefalo. Il capitalismo sa sempre dove vuole andare. Nella direzione che incrementa le prossime trimestrali. Che questo a lungo termine possa condurre ad una qualche grande distruzione è irrilevante, anzi: il capitalismo fiorisce nelle grandi distruzioni, da cui emerge più forte di prima (beh, sì, salvo se la distruzione è planetaria, ma questa è ancora eventualità remota).
Antonio Boncristiano

Andrea e Roberto, scusate se mi intrometto nella vostra gara di fioretto, ma avrei un paio di considerazioni supplementari. Posto che la nonna di Einstein è sempre in agguato useró un linguaggio meno aulico. Condivido le osservazioni di entrambi in quanto ragionate, cionondimeno trovo che mal si attagliano alla situazione oggettiva sui punti seguenti.
Primo, la pericolosità della filosofia, per il Potere non è tanto a causa del proprio ruolo sui fini o sulle domande assolute ma rispetto ai destinatari. Vi siete persi la lotta di classe. Essi non hanno paura delle critiche se provengono da una piccola sezione comunque controllabile della società, anzi Agamben, Cacciari o chi per loro (vedi anche il caso di Borghi, Bagnai e Barra Caracciolo nella Lega nel caso politico) sono contorno necessario all’immagine della libera democrazia partecipativa. Il problema viene fuori quando figli e nipoti di operai, contadini, piccoli impiegati, ovvero milioni di persone potenzialmente, prendono coscienza e capacità critica e, soprattutto, forza reattiva.
Secondo, così come esiste un politically correct, esiste un condizionamento nella classe intellettuale di oggi nell’esprimere le proprie tesi, pur controcorrente, che rifiuta a priori di valutare l’ipotesi della malafede di Essi. Si ricorre a stigmi di incapacità politica, di miopia culturale o quant’altro pur di non essere ascritti al becero complottismo delle classi incolte. Mi dispiace di deludervi, Essi sono molto più avanti delle vostre ipotesi, in filosofia si destreggiano abbondantemente come in qualsiasi altra materia. Il che comporta l’ammissione che i loro atti e gli effetti derivanti siano accuratamente pianificati esattamente per tali effetti. Che poi a dirlo sono loro stessi. Ridisegnare la mappa del pianeta sotto vari profili, economico, digitale, genetico, ambientale e via discorrendo. Lo hanno teorizzato Essi e non qualche invasato complottista. E stanno procedendo come schiacciasassi. Il che puó voler dire tutto meno che impreparazione o improvvisazione. Trovate il coraggio di dire che sono proprio cattivi. E che non si sono venduti l’anima al diavolo. Rispetto a Essi, satana è un poveraccio qualsiasi.
Andrea Zhok

Antonio Boncristiano Capisco e in parte condivido. Non dimentico affatto la questione della lotta di classe, che oggi si ripresenta in una nuova forma, molto più radicale e misconosciuta che mai, essendo contrasto tra chi dipende essenzialmente dal proprio lavoro per vivere e chi dipende da varie forme di rendita (o da “lavori” che operano con la rendita).
Quanto al ‘piano’, ho letto “The Fourth Industrial Revolution” di Schwab e ne sono rimasto impressionato. Quello è un piano, ridente, ottimista, utopico e totalmente inconsapevole di essere una distopia fatta e finita. Non escludo che una qualche proiezione di un piano simile sia davvero all’opera. Ma anche in tal caso, la categoria della ‘malvagità’ è povera e inefficace. E’ una concettualità tecnologica che si è trasformata in un’ideologia filosoficamente miserabile, ma perfettamente all’altezza dei tempi. (E per quel che conta, combattere una visione del genere è al centro di tutto quello che ho pensato e scritto da buoni vent’anni.)
Andrea Zhok

Roberto Buffagni Non decide tutto. Non decide, perché non è una persona. Spinge in una direzione. E chi va nella direzione della spinta ha un supplemento di forza che spesso, quasi sempre, è decisivo. In quel quasi sta lo spazio in cui si possono incuneare occasionalmente altre ragioni.
Roberto Buffagni

Andrea Zhok Su questo concordo, e del resto si vede a occhio nudo. Secondo me uno dei fattori principali di questa scarsa capacità di direzione occidentale risiede proprio nella distorsione culturale che, in affinità con la tecnostruttura e l’ideologia dominante, tende a a) privilegiare lo studio dei mezzi sullo studio dei fini b) sopravvalutare la potenza materiale rispetto ad altri fattori di potenza come la qualità delle persone e le idee c) privilegiare la logica lineare sulla logica strategica, che NON è lineare ma paradossale (v. “si vis pacem para bellum”) d) privilegiare una concezione astratta e universale dei profili antropologici sulla valutazione empatica delle alterità e delle motivazioni profonde, tanto del proprio popolo quanto, a maggior ragione, degli altri. Questi sono punti ciechi molto pericolosi, perché oscurano una porzione molto grande e importante della realtà, che è indispensabile tentar di comprendere per partecipare con successo al conflitto tra le potenze.
Andrea Zhok

Roberto Buffagni Naturalmente concordo. Io però dubito molto fortemente della capacità delle odierne classi dirigenti, incluse quelle dell’Impero Americano di cui siamo provincia, di governare alcunché. Che alcuni ci provino, ok, su questo non ho dubbi.
Roberto Buffagni

Andrea Zhok Non so. Non sono d’accordo, almeno non sono d’accordo per intero. Che il capitalismo esista e pensi alla trimestrale di cassa e influenzi fortemente le decisioni politiche, non ci piove. Il capitalismo c’è dappertutto, coincide con la società industriale della quale nessuna formazione politica può fare a meno, perché essa sviluppa la potenza, e se non ce l’hai vieni spazzato via da chi ce l’ha. Però il capitalismo non è un soggetto, e però esistono, invece, oltre al capitalismo, anche gli imperi e gli Stati. Gli imperi, es. l’impero americano, non si fanno per fare profitti: si fanno per la gloria, per la primazia (poi spesso originano da un moto difensivo, vedi Roma alle origini circondata dalle altre piccole polis laziali, ma questo è un altro discorso). Negli Stati Uniti e in UK, ad esempio, c’è un fitto dibattito culturale in merito all’ordine dei fini, e proprio nell’ambiente che ospita e cresce le élites politiche al massimo livello. Negli USA è un dibattito poco invitante e spesso distorto perché la violenza dello scontro culturale è al livello “ti stermino la famiglia”, ma c’è eccome, con ricadute pratiche contraddittorie clamorose, vedi ad es. le preparatory schools più celebri e antiche che reintroducono nel curriculum obbligatorio il latino e a volte anche il greco, e le università della Ivy League in preda alla dinamica autodistruttiva del politically correct. Nell’ultimo discorso del presidente cinese, egli individua con precisione gli aspetti politicamente e culturalmente dannosi e pericolosi del capitalismo (disgregazione della personalità individuale e dell’armonia comunitaria) e vara una campagna pedagogica di massa. Analoga linea segue il presidente russo, istituendo il cristianesimo ortodosso come religione imperiale, promuovendo gli studi storici, difendendo la famiglia, etc. Insomma per farla corta e facile io al capitalismo che decide tutto non ci credo.
Roberto Buffagni

Andrea Zhok Certo. Ma il supplemento di forza che ti sospinge verso la vittoria ti può anche sospingere verso la sconfitta, appunto perché è forza cieca, “sistemica”. La potenza va governata, e non è per nulla facile governarla.
Roberto Buffagni

Andrea Zhok Il problema di fondo, spirituale, è che la potenza acceca, v. hybris greca, v. il racconto della Genesi, che mette a fuoco la linea di faglia essenziale della natura umana, il desiderio di essere “sicut dii”. Il controllo della potenza è la cosa più difficile del mondo, per chi ne dispone.
Giuseppe Germinario

Concordo con la riflessione con una noterella. L’impronta denunciata da Zhok è molto più evidente e incisiva nei paesi periferici e più subordinati. In Russia, in Cina, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e Francia, paesi dal passato e presente imperiale e di resistenti, l’aspetto filosofico, umanistico e strategico viene curato; in alcuni in maniera più diffusa (Francia), in altri più riservati alle élites. Un aspetto che dovrebbe far riflettere sul ruolo politico degli intellettuali più orientati verso il realismo politico, di qualsiasi estrazione essi siano

Violenza sulle donne, di Roberto Buffagni

VIOLENZA SULLE DONNE
Se vogliamo cadere per un attimo nel serio, ciascuno e ciascuna dovrebbe, magari, interrogarsi un pochino sul fascino, anche erotico, che esercita la violenza. Resecare chirurgicamente l’eros dalla violenza, Afrodite da Ares, è affatto impossibile. Se ce ne si rende conto, il rapporto erotismo-violenza si può addomesticare. Non che sia facile ma si può. Sarebbe la funzione della virtù cardinale della temperanza, che non è il moderatismo ma la forgia del carattere, che si tempra come si tempra(va) l’acciaio, ossia immergendo nell’acqua gelida il metallo incandescente martellato dal fabbro. Un uomo che abbia imparato a dominare la paura e la violenza, trasmutando la violenza in forza, non userà mai violenza contro una donna, che è fisicamente più debole, perché è disonorante abusare della propria forza impiegandola contro chi non può reagire. Il ricorso alla violenza fisica, in una relazione, è il sintomo più appariscente di un blocco della capacità di comunicare altrimenti un’emozione soverchiante che non si riesce a dominare. Il punto chiave è “che non si riesce a dominare”, cioè una debolezza del carattere, che può derivare da semplice barbarie e rozzezza, perché il barbaro deve saper dominare la paura, ma di rado si pone il problema di dominare la violenza; o dalla “barbarie riflessiva” (Vico), ossia dall’eccesso di raffinatezza, cinismo, corruzione dei costumi, che compromette la formazione corretta della personalità; o da veri e propri disturbi della personalità individuale.
Se invece, per correggere l’uomo violento, si punta sulla riforma in senso moderato, coccoloso, politically correct del trasporto erotico, il risultato è: a) se la riforma riesce, il rapporto erotico è intenso come una minestrina di dado, l’investimento emotivo sotto il minimo sindacale, e probabilmente lo erano già prima che il riformatore si mettesse all’opera b) se la riforma non riesce (caso più frequente) non si fa che provocare una reazione emotiva ancor più potente e incontrollabile, perché reprimere, negare, dichiarare fuorilegge un’emozione profonda, che a volte è un vero e proprio affetto nel senso psichiatrico della parola, non l’ha mai fatta sparire da che mondo è mondo e uomo è uomo; e anzi, ciò che viene così represso e negato prende proporzioni formidabili nella vita interiore, più facilmente travolgendo la volontà cosciente. Un secolo e mezzo di studi psicoanalitici dovrebbe averci insegnato almeno questo.
Le relazioni affettive tra uomo e donna sono un mondo intero. In questo mondo ci stanno, giusto per nominare gli aspetti principali: a) la relazione erotica vera e propria, che anch’essa è un mondo intero, e presenta aspetti e livelli molto diversi. Esemplifico con l’Odissea: Circe è “appetitio”, sensualità incontrollata, istinto sessuale che prende il comando e imbestia l’uomo; Calipso è “perditio”, isolamento, oblio, sospensione della vita nella bolla erotica; Penelope è “affectio”, attrazione fisica + affinità d’anima. b) in una relazione stabile, di tipo matrimoniale, c’è il progetto di vita in comune, con la sua dimensione anche economica, sociale, giuridica, comunitaria, religiosa, e, quando dalla relazione nascono figli, questo progetto di vita in comune coinvolge necessariamente altri esseri ed entrambe le stirpi dei coniugi, e così diviene un albero – l’Albero della Vita, l’ulivo dal quale Ulisse ricava il letto matrimoniale intorno al quale fa costruire la casa – che affonda nel passato con le radici, e si protende nel futuro con i rami. Quanto sopra per dire che le relazioni tra uomo e donna sono qualcosa di molto complesso, delicato, e di un’importanza che è un vero e proprio suicidio sottovalutare, ridurre a un astratto modello impoverito di uomo e donna. Ue’ ragazzi: da questa cosa nasce il mondo dell’uomo, di tutti gli uomini e le donne che esistono, sono esistiti, esisteranno. Ci dovremmo impegnare di più per capirla, se non vogliamo che imploda e trascini il mondo vitale dell’uomo nella disgregazione.

Teodoro Klitsche de la Grange: “Francesco Calasso, Medio evo del diritto_recensione

Teodoro Klitsche de la Grange: “Francesco Calasso, Medio evo del diritto, Adelphi edizioni, Milano 2021, pp. 647, € 40,00”

È pubblicato in nuova edizione, con postfazione di A. Cecchinato, il saggio di Francesco Calasso del 1954, già all’epoca oggetto di attenzioni diffuse.

La postfazione nota come l’attività scientifica dell’autore con la sua aura di antiformalismo “ha infuso l’esperienza scientifica di Calasso d’una piena fiducia nel valore autoritativo della tradizione, che è stata la vera cifra – come ha insegnato Manlio Bellomo – di una vita condotta per il diritto”.

A distanza di oltre cinquant’anni e malgrado la materia – la storia del diritto – il saggio di Calasso suscita interessi d’attualità.

In primo luogo per la “rinascita” del diritto romano, avvenuta nei primi secoli del passato millennio, in Italia ad opera, in particolare, d’Irnerio e della scuola di Bologna. Lentamente i giuristi del diritto comune, interpretando il corpus juris in una con consuetudini, statuti e (anche) contaminazioni, contribuiscono all’unità giuridica. Ovviamente nei e con i limiti di un sistema non codificato, e le cui fonti non avevano il carattere formale di un’organizzazione che le ponesse in essere e ne garantisse l’applicazione. Caratteri ambedue, ancorché non esclusivi, del (successivo) Stato moderno. Come scrive Calasso, il sistema giuridico è un tutto, un’unità. E il quid che gli da vita è “un’organizzazione cioè nella quale distinguiamo un meccanismo che produce le norme e degli organi che le applicano e ne garantiscono l’osservanza”. Come successe che, malgrado la debolezza dell’organizzazione politica medioevale, avvenisse quella “unificazione”? Fu, scrive l’autore per “un ideale supernazionale: quella monarchia universale che perpetua il nome di Roma”.

Tale tesi ricorda quella di Vittorio Emanuele Orlando che sia fonte di equivoci ed errori “la pretesa di assumere come caratteri assoluti dello Stato e del Diritto, non che dei rapporti intercedenti fra loro, le forme moderne, in cui quelle nozioni han trovato il loro attuale assetto”. E che l’affermarsi di un ordinamento superiore e generale avviene per gradi, onde in relazione alla realizzazione coattiva delle pretese perdura “l’esistenza e continui l’efficacia, anche se ridotta, della forza spettante alle forme anteriori: il diritto pubblico romano dimostra tangibilmente il valore politico e istituzionale che, per lungo tempo dopo la loro trasfusione nello Stato, serbarono la familia, la gens, la curia, la tribus”, scriveva Orlando.

Secondariamente, molti hanno notato, come, a partire dal secolo scorso, ma in particolare dagli ultimi decenni del medesimo, sia in atto il percorso inverso: da un monopolio statale della decisione politica e della forza legittima (la coazione) ci stiamo avviando verso una pluralizzazione normativa (e anche istituzionale): il conferimento di funzioni a organismi internazionali, la progressiva crescente diffusione di Tribunali internazionali (e l’efficacia delle di essi decisioni sul diritto interno), e la stessa legittimazione di guerre e di occupazioni militari attraverso l’appello ai diritti dell’uomo (et alia) e le conseguenti espressioni lessicali che le designano (“operazioni di polizia internazionale”), mostrano il processo in atto. Al quale corrisponde una nuova antitesi politica, prevalente in gran parte del mondo sviluppato: quella tra globalizzatori, cioè sostenitori – per ora – di un diritto (ed un’economia) universale, e sovranisti, cioè partigiani di diritto e scelte economiche particolari (cioè statali).

Come andrà a finire questa contrapposizione è in mente jovis. Anche qua tuttavia la tesi di Calasso che il diritto comune si fondò (e si diffuse) in forza di un’idea universale, di “un fatto spirituale” può indicarci come dal diritto, anzi dall’aspirazione a un diritto, possa nascere l’istituzione.

Teodoro Klitsche de la Grange

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CREDERE NELLA CULTURA?_di Pierluigi Fagan

QUANDO ABBIAMO SMESSO DI CREDERE NELLA CULTURA? (Post per chi ha più di sessanta anni in quanto fa riferimento a situazioni sociali che vissute, hanno un sapore diverso da quello dei fatti che si apprendono intellettualmente). Berlusconi accusava i “comunisti” o la “sinistra” (ma lui usava “comunisti” sapendo che provocava più ribrezzo) di aver monopolizzato alcune istituzioni sociali tra cui la “cultura”. Era vero.
La mia generazione è nata in un ambiente in cui la massa gravitazionale della cultura era di sinistra, comunista (in varie versioni e tonalità), socialista, progressista, democratica. Qualcuno era anche anarchico. Dati di fatto dicono che tale massa critica monopolizzava il cinema, la radio, la musica, l’arte, i giornali, le case editrici, la scuola e parte dell’università. Ma poi si estendeva anche alla magistratura, in parte alla polizia, forse qualcuno anche nell’esercito e molto nell’amministrazione burocratica dello Stato. La massa era data a livello di individui ma anche partiti e soprattutto sindacati. Addirittura, alcuni artisti o intellettuali sono diventati di destra solo perché quella era l’unica altra opzione disponibile per chi non era di “sinistra” ed hanno coltivato un certo rancore anche perché erano pur sempre lavoratori, lavoratori ostracizzati in base al non allineamento di pensiero.
Come tutti i fenomeni di gravitazione sociale, la massa attirava a prescindere per cui sulle vere convinzioni intellettuali e poi politiche di molti iscritti al fronte egemonico, si potevano nutrire dubbi e questo spiega anche perché il tasso di intelligenza reale di questo fronte fosse ben minore della sua massa. E spiega anche la velocità allegra del rompete e fila quando il fronte si disintegrò ai primi anni ’80.
Il fenomeno era alla base di quella anomalia prettamente italiana e solo un po’ francese, per la quale in piena guerra fredda, un Paese poi del tutto allineato all’atlantismo anglo-americano, aveva un partito che si dichiarava comunista. Al canto del cigno di questa dinamica, nel 1976, il PCI sfiorò il 35%, con DP ed un PSI ancora abbastanza “socialista”, pesavano il 45% del Paese. E si tenga conto che la DC del tempo, aveva segretario Zaccagnini, comunque della sinistra DC. La forte tradizione culturalista che esercitava una sua egemonia che favoriva questa eccezionale pesatura del fronte di sinistra che sfiorò la maggioranza, derivava da una specifica tradizione del comunismo italiano data dal pensiero di Antonio Gramsci. Gramsci si colloca in posizione atipica nella tradizione comunista occidentale. Mai teorizzato nitidamente ma, nei fatti, il pensiero di Gramsci dava a gli aspetti sovrastrutturali, un peso inverso a quello che la tradizione economicista del comunismo occidentale dava delle priorità politiche. La situazione democratica e quindi non rivoluzionaria del dopoguerra, portava l’azione politica su i doppi binari della democrazia politica e quindi dell’importanza della cultura democraticamente distribuita. Erano infatti anche i tempi in cui si teneva in grande considerazione lo studio, l’apprendimento, la lettura, la capacità argomentativa come precondizioni di massa per l’esercizio democratico. Con precisi sforzi di culturalizzazione degli strati sociali più bassi della popolazione.
Tutto ciò poi implose dopo il raggiungimento del suo culmine nel 1976. Vennero gli anni di piombo, le cose generali non andavano bene, sopravenne la stanchezza intellettiva, ci furono moti di fastidio per la pesantezza e gravità di questa egemonia che sfociava spesso in dittatura del pensiero e del pensiero sull’azione concreta, sul limite oltre il quale il valore culturale non si trasformava in valore della qualità di vita via qualità politica. Si partecipò allora festanti al grande rimbalzo del rompete le righe e dal dibattito a seguito della proiezione della Corazzata Potemkin in lingua originale e sottotitoli, si passò ad imitare John Travolta sulle arie dei Bee Gees. Nel 1977, mentre il pensiero arruffato dei Negri e Scalzone portava ignari adolescenti con la P38 a sparare in piazza ed a spaccare le vetrine di via del Corso per rubare oggetti del desiderio consumistico ritenuti “diritto proletario”, usciva Saturday Night Fever. L’anno prima in quel di Milano, nasceva Fininvest. Dopo il decennio ottanta alla fine del quale cadeva il Muro, seguiva il crollo del’URSS e nel 1993 mr Fininvest diventava un politico. L’egemonia gramsciana ma anti-culturalista di Berlusconi, desertificò l’attitudine culturale, ormai stigma sociale di persona triste, grave, rancorosa, antipatica, pessimista, invidiosa ed acidula, presuntuosa, dedita alla monotonia critica, fuori dal mondo del piacere, del successo, della vita (dei soldi e del sesso) e quindi del “diritto alla felicità”.
Ecco, il riepilogo serviva a capire quando e perché abbiamo smesso di credere nella cultura. La disillusione è nata dal fallimento di un sistema che aveva dato della cultura una interpretazione sbagliata che ha generato il suo contro-movimento. Abbiamo smesso di credere nella cultura perché ne avevamo sbagliato l’interpretazione. Di una cosa che è del regno della vita umana avevamo fatto una cosa morta, ne avevamo intuito il valore di forma ma ne abbiamo sbagliato l’interpretazione di sostanza, di una cosa aperta ne abbiamo fatto un conformismo, di una dinamica ne abbiamo fatto una collezione di dogmi statici, di una forma tendente all’egalitarismo ne abbiamo fatto l’ennesima aristocrazia, di un codice essoterico ne abbiamo fatto un ennesimo esoterico, di una caratteristica dell’umano ne abbiamo fatto un dualismo con le menti staccate dai corpi. Per primo, il Paese occidentale più nominalmente “comunista” è rimbalzato violentemente al suo opposto. Un valore è diventato un dis-valore.
Siamo in una condizione di devastazione intellettiva da quaranta anni. Forse varrebbe la pena tornare su i misfatti compiuti per capire cosa si è sbagliato. Non basta la forza del nemico, la congiuntura occidentale, le colpe del sovietismo e la Luna Nera a dar conto del fallimento. Ogni forza si afferma su una debolezza e quella che credevamo una forza si è rivelata una grande debolezza.
Forse ci farebbe bene cominciare a scrivere dei quaderni sulla nostra attuale condizione nel carcere dell’ignoranza edificato su i nostri fallimenti intellettivi. Magari aiuta ad evadere, se non a noi, a quelli dopo.
tratto da facebook

PER UNA AUTONOMIA NAZIONALE, a cura di Luigi Longo

PER UNA AUTONOMIA NAZIONALE BISOGNA ROMPERE LA SERVITÙ VOLONTARIA VERSO GLI STATI UNITI D’AMERICA

a cura di Luigi Longo

Propongo la lettura dello scritto Conflitti tra stati e autonomia nazionale. Perchè? di Gianfranco La Grassa apparso su www.conflittiestrategie.it il 12/11/2021.

Premetto che riprenderò il costruendo paradigma del conflitto strategico di Gianfranco La Grassa in un altro scritto complessivo e sistematico. Il conflitto strategico, visto in una logica multidisciplinare, rappresenta una lettura approfondita, originale ed altra della conoscenza, dell’interpretazione e della progettualità della coda della realtà. E’ chiaro che occorre avere acutezza nell’individuare il sapere che illumina e avvolge gli altri saperi assumendo a base dell’analisi i rapporti sociali reali e il loro sistematico insieme nazionale e mondiale, soprattutto in questo periodo di decisivo sviluppo della fase multicentrica che la cesura storica della guerra batteriologica da Covid-19 ha accelerato. Il conflitto strategico apre nuove strade teoriche e pratiche.

Vengo, ora, allo scritto proposto. E’ una riflessione stimolante che inizia a fare chiarezza sulle seguenti questioni principali: 1) la distinzione tra lo stato (gli strumenti degli agenti strategici dominanti articolati sull’intero territorio nazionale, la robusta catena di fortezza e di casematte di Antonio Gramsci) e la nazione (il territorio della comunità con la sua storia, il suo rapporto sociale, la sua cultura, la sua lingua, il suo paesaggio, il suo costume, la sua natura, eccetera); 2) il conflitto tra gli agenti strategici delle varie nazioni europee non si gioca intorno ad una idea di sviluppo autonomo dell’Europa (qualunque sia la forma dello stare insieme che le diverse nazioni si vorranno dare) ma si consuma nella corsa di posizione privilegiata verso la servitù statunitense. Preciso che divido gli agenti strategici in: quelli che pensano le strategie, quelli che gestiscono le strategie e quelli che eseguono le strategie; 3) la necessità di rompere con la servitù volontaria verso gli USA (potenza dominante in declino che è per un mondo monocentrico a sua immagine e somiglianza) e la possibilità della costruzione di relazioni con l’Oriente (Russia e Cina, potenze in ascesa che sono per un mondo multicentrico); 4) l’autonomia nazionale per la costruzione di un modello di sviluppo che renda possibile stabilire nuove relazioni interne e mondiali a partire da una nuova idea di Europa (bisogna andare oltre il progetto statunitense dell’Unione Europea che è sempre più sostituito dalla nuova NATO come strumento degli Usa nel conflitto strategico della fase multicentrica); 5) le riflessioni critiche dell’esperienza rivoluzionaria del secolo scorso (soprattutto quella russa e quella cinese) e sul tipo di società che sono diventate oggi (a prescindere dall’eterogenesi dei fini che è un concetto a me poco simpatico) che nulla hanno a che fare né con il socialismo né tantomeno con il comunismo; 6) il conflitto per scalzare gli agenti strategici esecutori e servili (per esempio, Mario Draghi è un esecutore e per questo è un pericolo per gli interessi nazionali con le sue articolazioni sociali: la sua storia a partire dagli anni Novanta del secolo scorso è illuminante per le funzioni svolte) per costruire una vera autonomia nazionale in grado di guardare a Oriente per il consolidamento della fase multicentrica (nell’attesa della costruzione di una Europa in grado di essere un soggetto politico autonomo capace di costruire relazioni altre nel rispetto della diversità tra l’Occidente e l’Oriente?); 7) lo stabilizzarsi della fase multicentrica aprirebbe il conflitto all’interno delle singole potenze per la messa in discussione delle relazioni di potere e di dominio che dominano i rapporti sociali, storicamente determinati, a vantaggio di una esigua minoranza delle popolazioni.

Credo che si possa ragionevolmente affermare che la questione fondamentale si sposta nella Politica, intesa come azioni strategiche per l’acquisizione del potere e del dominio nel senso che il potere degli agenti strategici delle diverse sfere sociali (economica, politica, culturale, eccetera) si indirizza, nel conflitto, verso la costruzione di un blocco egemone per il dominio dell’intera società. Tale dominio non è mai definitivo ma temporalmente dinamico proprio a causa del continuo e ineliminabile conflitto per conquistare il potere e il dominio sociale (rimanendo nell’ambito dell’ordine simbolico maschile). E’ nel suddetto blocco egemone che si gioca l’egemonia degli agenti strategici espressione della potenza di fuoco rappresentata simbolicamente dal denaro accumulato con tutti i mezzi legali e illegali (Vincenzo Ruggiero). Le relazioni nelle diverse sfere sociali hanno un comune denominatore che è dato dal rapporto di potere che nelle diverse sfere (economica, politica, eccetera) si configura in maniera diversa tra chi ha gli strumenti (che variano da fase a fase della storia umana sessuata) per conquistare il potere (la minoranza) e chi non ha niente (la maggioranza).

Chi si deve far carico, nel breve-medio-lungo periodo, di queste questioni: una forza nuova, un nuovo principe sessuato o altro?

L’importante è non scordare la lezione attuale di Karl Marx quando afferma: << È né più né meno che un inganno sobillare il popolo senza offrirgli nessun fondamento solido e meditato per la sua azione. Risvegliare speranze fantastiche […] lungi dal favorire la salvezza di coloro che soffrono, porterebbe inevitabilmente alla loro rovina: rivolgersi ai lavoratori senza possedere idee rigorosamente scientifiche e teorie ben concrete (corsivo mio, LL) significa giocare in modo vuoto e incosciente con la propaganda, creando una situazione in cui da un lato un apostolo predica, dall’altro un gregge di somari lo sta a sentire a bocca aperta: apostoli assurdi e assurdi discepoli.

In un paese civilizzato non si può realizzare nulla senza teorie ben solide e concrete; e finora, infatti, nulla è stato realizzato se non fracasso ed esplosioni improvvise e dannose, se non iniziative che condurranno alla completa rovina la causa per la quale ci battiamo. L’ignoranza non ha mai giovato a nessuno! (Hans Magnus Enzensberger, a cura di, Colloqui con Marx e Engels, Einaudi, Torino, 1977, pag. 53).

CONFLITTI TRA STATI E AUTONOMIANAZIONALE. PERCHE’?

di Gianfranco La Grassa

1. Tratto normalmente Stato, paese o anche nazione quasi si trattasse di sinonimi. So che non è così, ma per quanto riguarda quanto devo dire in merito al problema dell’autonomia nazionale, credo si capisca comunque il discorso. Ammetto di non sapere mai con precisione che cosa debbo intendere con la parola Stato. Mi sembra che se ne parli sempre in modo metafisico o quasi; e in ogni caso come ci si riferisse ad un vero e proprio soggetto, di cui si possa disquisire quasi avesse volontà, desideri, intendimenti, finalità, ecc. propri, esattamente come quando si parla di un singolo individuo umano o di un determinato gruppo sociale, insieme di individui espletanti funzioni specifiche o che assuma decisioni in comune. Diciamo pure che per Stato si potrebbe intendere un grande raggruppamento di individui, in genere con ben preciso insediamento territoriale definito da confini, spesso (ma non sempre) unito da una sola lingua, che accetta un dato complesso di regole di comportamento fissate da leggi e il cui non rispetto viene sanzionato mediante un sistema di perseguimenti e di punizioni posto in atto da organi unanimemente accettati nel loro funzionamento a tali fini.

Preferirei tuttavia che si specificasse meglio il complesso, strutturato, di apparati che costituisce quello che chiamiamo Stato, sia nell’esercizio dei compiti relativi all’intero territorio posto sotto la sua potestà sia in quello decentrato nelle diverse parti in cui è suddiviso quest’ultimo. In particolare, darei la massima rilevanza a quegli apparati addetti all’esercizio della Politica, intesa quale insieme organico di mosse – che possiamo definire strategia – compiute per raggiungere determinate finalità all’interno di un dato paese così come all’esterno d’esso, nei confronti degli altri paesi. Un conto è quella che potremmo definire l’amministrazione di determinati affari riguardanti il coordinamento d’insieme di una data comunità territoriale (suddivisa in diversi gruppi sociali); un altro è il vero potere di esplicare la Politica diretta all’interno o all’esterno di quel paese. Il controllo degli apparati dotati di tale potere è il vero oggetto della lotta che si svolge tra diverse associazioni di individui (partiti o altri organismi di vario genere).

Di questi apparati (di potere) si dovrebbe soprattutto discettare per meglio definire i compiti che si pone chi intende perseguire l’autonomia del proprio paese. In questi ultimi anni si era diffusa una particolare concezione, che tuttavia mi sembra oggi un po’ in decadenza. Si sosteneva la fine della funzione degli Stati nazionali. Con ciò s’intendeva sostenere precisamente che quegli apparati di potere (interno ed esterno), di cui ho appena detto, non avevano più alcun reale compito in quanto ormai il potere in questione spetterebbe ad organismi sovranazionali, in particolare di carattere finanziario; vere massonerie che ormai comanderebbero in tutto il mondo o quasi. A tali organismi dovrebbero ribellarsi tutti i cittadini (le “moltitudini”), senza più distinzione di questo o quel paese (di tutto il mondo appunto). Tale tesi, che sembra voler essere una sorta di versione aggiornata e moderna dell’antico “internazionalismo proletario” (essa è in genere propagandata da vecchi arnesi della pseudo rivoluzione sessantottarda e sue propaggini ulteriori), mira di fatto a salvaguardare il potere di quei gruppi che, all’interno di ogni paese, controllano gli apparati statali in questione (sia rivolto all’interno che verso l’estero). I “vecchi arnesi” sono ormai parte integrante, e subordinata, dei gruppi dominanti.

In realtà, in ogni paese (o nazione, se si preferisce) vi sono gruppi dominanti dotati di potere (decisionale), che controllano gli apparati statali di cui stiamo parlando; questi sono costantemente in funzione, per nulla superati e riposti in un qualche museo. Il problema è diverso. Esistono complessi (e spesso ben mascherati) legami internazionali tra i vari gruppi decisionali nei diversi paesi. E tali legami assicurano a quelli attivi nei paesi preminenti – oggi sopra tutti stanno gli Stati Uniti – un particolare potere di “influsso” (chiamiamolo così) sui gruppi decisionali di paesi che si pongono in una determinata filiera di potere via via discendente; per cui abbiamo gruppi che potremmo definire subdominanti, subsubdominanti, ecc. fino a quelli via via sempre più subordinati. I gruppi di potere nei vari paesi, anche i più subordinati, hanno pur sempre capacità decisionali nell’ambito degli apparati statali appositamente addetti alla Politica, alla strategia, alle mosse da compiere per giungere a certe finalità interne ed esterne. Semplicemente, i loro poteri decisionali si subordinano a quelli dei gruppi dominanti di altri paesi, secondo una gerarchia che muta di fase storica in fase storica; e ha gradazioni differenti anche nell’ambito di ognuna di queste fasi.

Tanto per fare un “banale” esempio, i gruppi decisori italiani sono sempre stati subordinati a quelli statunitensi dalla fine della seconda guerra mondiale. E oggi siamo sempre in quella fase storica iniziata nel 1945, in cui sono stati creati vari organismi per sanzionare la supremazia Usa, fra cui la NATO e poi le varie organizzazioni intereuropee, fino a questa indecorosa UE. Tuttavia, il grado di subordinazione dei gruppi decisori italiani ha avuto un netto scatto in crescita con la fine della prima Repubblica, con la sporca operazione di falsa “giustizia” denominata “mani pulite” e tutto ciò che ne è seguito. E oggi appare in ulteriore continuo accrescimento.

Bene, una volta chiarito questo punto, e dichiarata pura mistificazione la tesi della fine degli Stati nazionali, passerò ad un altro ordine di considerazioni. In effetti, la nostra attuale attenzione ai problemi dell’autonomia nazionale potrebbe sembrare un semplice cambiamento di impostazione teorica. In quanto marxisti, eravamo interessati un tempo alla lotta di classe e al problema dell’abbattimento e trasformazione della società capitalistica; ci siamo oggi innamorati della geopolitica, dell’interazione tra Stati? Oppure siamo stati folgorati da una visione nazionalistica e quindi abbandoniamo ogni discorso di conflitto (in verticale) tra classi per abbracciare quello (in orizzontale) tra comunità nazionali? Non è affatto questa la nostra effettiva posizione.

2. Personalmente, continuo a ritenere importante, in linea di principio, la struttura dei rapporti sociali (rapporti tra diversi gruppi in cui è suddivisa la società). Proprio per questo, malgrado la mia critica non marginale al marxismo, continuo tuttavia ad avere grande attenzione per tale teoria della società. E, sempre in linea di principio, la ritengo più avanzata rispetto all’individualismo tipico delle teorie liberali. Tuttavia, in Marx è fondamentale, nella costituzione di società, la sfera produttiva. In una sua lettera a Kugelman (mi sembra del 1864) si afferma che anche i bambini sanno che, se non si producesse nulla per un breve periodo di tempo, ogni società verrebbe a dissolversi. E’ quindi logico che i rapporti sociali per questo pensatore decisivi sono quelli di produzione. E simili rapporti si annodano intorno al problema della proprietà (potere effettivo di disposizione) o meno dei mezzi produttivi. In base a quest’ultima, Marx distinse, nella società capitalistica, la classe borghese (i proprietari) e quella proletaria (o operaia) solo in possesso della propria capacità lavorativa da vendere in qualità di merce come ogni altro bene circolante nella società in questione. Da qui – corro perché ho scritto in proposito ormai centinaia di pagine – deriva l’ipotesi della dinamica capitalistica che avrebbe condotto infine ad una borghesia assenteista rispetto alla direzione dei processi produttivi, mentre in questa sfera sociale si sarebbe andato consolidando un corpo di produttori associati; dal massimo gradino dirigente fino all’ultimo di carattere esecutivo. Già nel grembo del capitalismo, quindi, si sarebbe formata la condizione base della nuova società socialista, primo gradino di quella comunista.

Nulla di tutto questo si è storicamente verificato; in nessuna delle società a capitalismo avanzato si è mai andato costituendo il “lavoratore collettivo cooperativo” (i produttori associati) così come previsto da Marx. E, soprattutto, le rivoluzioni più radicali si sono avute in società a prevalenza contadina e non operaia. Il cosiddetto socialismo del XX secolo – o quanto meno la “costruzione” (solo presunta purtroppo) dello stesso – si è rivelato essere una società estremamente verticistica, in cui la sfera produttiva era completamente sottomessa alla direzione di quella degli apparati del potere strettamente politico. Non intendo qui diffondermi su che cosa è stata questa particolare formazione sociale venuta a crearsi con le rivoluzioni guidate da partiti comunisti in paesi sostanzialmente precapitalistici. Mi sembra comunque evidente che non si è creata alcuna società socialista nel senso marxiano del termine. Lascio perdere i tentativi di diffondere l’idea (del resto tarda, ultimo sbiadito tentativo di difendere l’indifendibile) che si trattava di un “socialismo di mercato” (questa la definizione data della Cina odierna da alcuni “ritardati”).

Di fronte al fallimento storico di un movimento rivoluzionario guidato da una specifica teoria – del resto ormai molto modificata rispetto all’originale e ridotta a pura agitazione di tipo ideologico con presa sempre minore fino al suo azzeramento – ho proposto già da tempo l’abbandono del principio guida della proprietà o meno dei mezzi produttivi, andando invece nella direzione della Politica intesa appunto quale conflitto tra le strategie di più gruppi sociali in cerca di una supremazia nel controllo dei vari apparati funzionanti nelle diverse sfere sociali: produttiva, politica, ideologico-culturale. Credo che questo mutamento abbia effetti abbastanza positivi nella considerazione realistica delle lotte sociali sussistenti all’interno della società in cui viviamo; anche perché fa vedere come gli “attori” in conflitto non siano, prevalentemente, quelli attivi nella sfera produttiva, ma vi siano invece svariati rapporti, e spesso piuttosto stretti, tra agenti in opera nelle diverse sfere per la conquista di una supremazia sociale complessiva. Tuttavia, è ovvio che la teoria del conflitto tra strategie non consente alcuna divisione netta tra le classi in lotta, riducendole a due soltanto. E non pone in luce alcuna dinamica, intrinseca all’attuale formazione sociale di tipologia capitalistica, diretta alla sua trasformazione in altra nettamente differente che possa pensarsi quale fase di transizione ad una qualsiasi forma di socialismo o comunismo.

I gruppi sociali, insomma, non possono essere definiti classi nel senso in cui queste erano intese nel marxismo in base al criterio, rivelatosi piuttosto semplicistico, della proprietà o meno dei mezzi produttivi. Inoltre, tali gruppi non possono mai ridursi a due; a meno che il conflitto diventi tanto acuto da spingere vari gruppi ad allearsi tra loro in modo che, alla fine, si trovano a confrontarsi due schieramenti contrapposti, che non saranno mai comunque due classi in lotta, ma due coacervi di gruppi riunitisi per le concrete esigenze “di combattimento” in quella particolare fase storica e in quella determinata formazione sociale, in cui si è prodotto un contrasto così netto e ormai irrisolvibile con semplici mediazioni. Vi è di più. Si possono verificare – per contingenze non riconducibili all’intenzione consapevole di trasformare quella data formazione sociale in un’altra considerata superiore – dei cosiddetti “sollevamenti di masse”, causati dal malcontento e disagio sociale particolarmente acuti, in genere susseguenti all’incapacità ormai manifesta di coloro, che hanno in mano gli apparati del potere, di saperli gestire in modo minimamente appropriato ai bisogni complessivi di quella società. Questi sollevamenti non produrranno mai effetti stabili e di reale trasformazione, se nel loro ambito non agiscono dati nuclei dirigenti dei “malcontenti”, che possono allearsi, in genere solo temporaneamente, per dare risposta alla gravità della crisi provocata dalla suddetta incapacità dei vecchi nuclei al potere.

In ogni caso, sia se si producono, abbastanza raramente, situazioni così estreme sia se ci si trova in una situazione di più “normale” e non sconvolgente conflitto tra strategie per ottenere la supremazia (in base ad esigenze di lungo periodo o invece per risolvere problemi di portata momentanea e d’ambito ristretto), non si è in presenza del semplificato scontro tra dominanti e dominati di cui troppo spesso si blatera. In un certo senso esiste un confronto, più o meno serrato, tra gruppi sociali con maggiori o minori (in certi casi magari nulle) prerogative decisionali. Tuttavia, nel reale conflitto, sempre condotto in base alla Politica (cioè secondo varie linee strategiche), si enucleano alcune élites dirigenti, che tendono a rappresentare più gruppi sociali. E anche quando si tratti di gruppi formati principalmente da “non decisori”, le loro dirigenze partecipano comunque, con maggiore o minore forza, alle decisioni sociali di maggiore portata. Esempio tipico ne è la lotta sindacale. I nuclei dirigenti di quei gruppi situati alla base della piramide sociale (i cosiddetti ceti lavoratori) non sono certo privi di qualsiasi potere decisionale in merito a questioni interessanti l’intera collettività di quel dato paese.

3. Giungiamo adesso al problema centrale che ci interessa. E che ci interessa – almeno per quanto mi riguarda e riguarda, credo, anche coloro che con me hanno dato vita a “Conflitti e Strategie” – proprio in quanto abbiamo dovuto prendere atto del fallimento delle finalità poste al movimento delle cosiddette “masse popolari” da una data concezione dello sviluppo sociale, quella concezione che è appunto il marxismo. Si è dovuto prendere atto che non c’è stata finora alcuna effettiva possibilità di evoluzione dell’attuale società verso strutture di rapporti da definire oltre-capitalistiche. Quello che abbiamo sempre chiamato capitalismo (e così continuiamo a denominarlo) si è andato indubbiamente trasformando profondamente rispetto al suo punto di partenza; o anche semplicemente considerando l’ultimo secolo. Tuttavia, alcuni suoi moduli non si sono modificati; non si è certo giunti al rivolgimento della sua configurazione piramidale caratterizzata dalle concentrazioni imprenditoriali e dal correlato assetto degli apparati politici, fortemente verticistico anche nei paesi dove si ciancia sempre di “democrazia parlamentare” e si esaltano le periodiche “chiamate al voto”, che si fanno passare per espressione genuina della “volontà popolare” in grado di governare gli affari del paese, sempre invece nella sostanza affidati a contrapposizioni tra date élites.

Intendiamoci bene. Nessuno di noi svaluta quelle lotte sociali che mirino a migliorare le condizioni di vita e di lavoro delle più vaste “masse” situate nei gradini medi e bassi della piramide sociale. E dobbiamo ammettere che oggi, anzi, quelle lotte stentano perfino a mantenere vecchie “conquiste” in tema di benessere. Di conseguenza, un rilancio di queste lotte sarebbe senz’altro visto da tutti noi con estremo favore. Tuttavia, dobbiamo rilevare alcuni semplici fatti. Simili lotte diventano sempre più difficili, sono viepiù spezzettate e condotte spesso in modo da lasciare largo spazio a quella divisione tra strati sociali medio-bassi che favorisce i vertici della società (il ben noto “dividere per imperare”). E’ però un caso che ciò avvenga? E soprattutto nella presente fase storica (che dura da due-tre decenni)? Non posso dilungarmi nella considerazione delle condizioni storiche che avevano consentito un qualche elevamento della posizione degli strati sociali in questione. Noto solo che l’attuale peggioramento di tale posizione dimostra a iosa come non si fosse compiuto alcun decisivo passo in direzione dell’indebolimento di quella società denominata capitalismo.

Si è dovuto constatare un fatto ancora più rilevante per le nostre convinzioni ideologiche (e anche teoriche). Sia l’iniziale successo (relativo) di certe lotte sociali, sia la loro crescente irrilevanza attuale, sono fondamentalmente dipesi dalla predominanza di fatto che sempre hanno mantenuto gli Stati Uniti dalla seconda guerra mondiale in poi. Credevamo che il mondo bipolare fosse un contrasto tra capitalismo e socialismo. Siamo stati messi in crisi dalla rottura tra Urss e Cina, ma non abbiamo interpretato correttamente (e non sappiamo farlo ancora adesso) che cosa in realtà fosse accaduto. Abbiamo preso il successo di certe lotte anticoloniali (vedi Vietnam) come si trattasse di un allargamento del campo “socialista”; un allargamento durato l’espace d’un matin, con conflitto tra Vietnam e Cina e poi il progressivo spostarsi di quel paese verso l’orbita statunitense (sia pure dopo il crollo dell’Urss, che comunque non è stato un caso “sfortunato”). Oggi dobbiamo prendere atto – in una considerazione di più lungo periodo; ed è su questo che la storia deve essere “misurata” nei suoi effettivi andamenti – che gli Stati Uniti sono stati sempre il perno più solido dell’andamento degli affari mondiali.

In definitiva, è ora di ammettere infine che non esiste più da molto tempo (ammesso che sia mai esistita nei termini pensati dai marxisti) la lotta di classe su cui tante speranze erano un tempo riposte. Non esiste soprattutto un antagonismo tra due grandi blocchi sociali alternativi, foriero di trasformazioni anticapitalistiche. Nei paesi a capitalismo sviluppato – che ha conosciuto varie trasformazioni da giudicarsi interne a quel certo “modulo” sociale – si sono verificati contrasti, anche assai forti a volte, che sono sempre stati di tipo redistributivo; soprattutto di reddito, in parte anche di potere. E’ tuttavia mancato proprio l’effetto che alcuni attribuivano a tale conflitto, la trasformazione in senso anticapitalistico. Chiunque ancora ne parli – ormai alcuni rimasugli di dementi – va proprio ignorato. Ripeto che questo tipo di lotte va appoggiato proprio per quello che può al massimo conseguire: la difesa delle condizioni di vita e di lavoro dei ceti medio-bassi, oggi in deciso peggioramento. E sempre con la precisa consapevolezza che simili conflitti sono diretti da determinati gruppi dirigenti politici e sindacali, i maggiori beneficiari degli eventuali risultati positivi dello scontro, oggi piuttosto rari.

Cosa invece si nota nettamente nell’attuale fase storica? I conflitti più acuti e più significativi sono quelli tra Stati. Di conseguenza, diventa in un certo senso scopo preminente seguire gli eventi di quella che è la politica internazionale, l’interrelazione tra i diversi Stati, lo stabilirsi di determinati rapporti di forza tra essi, il loro eventuale modificarsi i cui effetti ricadono immediatamente anche sull’andamento dei sistemi economici. Tuttavia, abbiamo già ricordato come gli Stati siano un insieme organico di svariati apparati, di cui alcuni sono quelli adibiti all’effettivo uso del potere (mentre altri hanno un carattere più propriamente amministrativo, diciamo così). E’ allora rilevante la comprensione dei contrasti in atto tra quei gruppi d’élite che si battono per il controllo e l’uso di tali apparati. Poiché questo “battersi” è appunto la Politica, è un intreccio tra differenti strategie svolte per conquistare la supremazia, i gruppi d’élite (se tali sono effettivamente) debbono essere strettamente correlati con dati nuclei in cui si elaborano le strategie. E poiché le mosse della Politica mirano al successo nell’ambito di uno scontro tra le varie élites, la segretezza è d’obbligo; e ogni venir meno della stessa o è una di queste mosse o è lo sgretolamento della “copertura” (lo sbucciarsi della “corteccia”) dovuto ad un acuirsi del combattimento tra due o più “attori”.

Del resto ho già ricordato un fatto ben noto a chiunque segua minimamente le vicende politiche. Non esistono élites dirigenti dei gruppi sociali nei diversi paesi, che non siano variamente interrelate tra loro in senso economico, politico, culturale. E certamente nel nostro paese, e più generalmente in tutti i paesi europei, in misura maggiore o minore queste élites sono strettamente collegate con quelle statunitensi, ponendosi nei loro confronti in una situazione di maggiore o minore subordinazione. In questo senso, gli Stati Uniti sono ancor oggi il centro di un ampio sistema mondiale di paesi; in particolare, hanno la guida, per quanto a volte appena mascherata, dell’intera UE che, come già detto, è in definitiva un’organizzazione parallela a quella della NATO. E’ impossibile seguire le vicende politiche interne di un qualsiasi paese europeo senza tener conto dei rapporti di subordinazione rispetto al paese predominante. Questo è particolarmente valido per l’Italia, paese la cui subordinazione è di alto livello e va crescendo. E continuerà a crescere per quanto diremo subito appresso.

4. Con quanto appena sostenuto, sia pure succintamente, abbiamo svelato il “segreto” della nostra pretesa preferenza – soltanto temporanea e secondo me obbligata dai “fatti” – per la politica internazionale e per il tema dell’indipendenza o autonomia di singoli paesi; ma non certo per spirito nazionalistico, ci mancherebbe altro! Abbiamo semplicemente preso atto della fine della ormai “mitica” lotta di classe; e constatiamo che attualmente sono in ribasso perfino le lotte sindacali per la semplice “redistribuzione”, pur anche soltanto nel tentativo di evitare l’arretramento delle cosiddette “conquiste sociali” di alcuni decenni fa. Dopo circa mezzo secolo di mondo bipolare e con i pericoli, spesso esagerati e montati a bella posta, relativi alla “guerra fredda”, si è avuto il “crollo” del campo sedicente socialista ed è sembrato che ci si avviasse verso una sorta di monocentrismo Usa. La sensazione è durata poco e ormai, malgrado sia ancora predominante quel paese, pare assai probabile che ci si avvii intanto verso un multipolarismo per quanto ancora imperfetto. Il caos nel mondo va accentuandosi come sempre avviene in epoche del genere; più volte ho fatto il paragone con la fine del secolo XIX.

In una situazione simile, è del tutto evidente un crescente impegno degli Stati Uniti per accentuare la presa sull’Europa e scongiurare quanto indubbiamente sembra serpeggiare al suo interno con il rafforzarsi di movimenti detti “euroscettici”; per quanto essi sembrino ancora abbastanza deboli e del tutto confusionari. Il “Trattato transatlantico” (TTIP) dal punto di vista economico (che ha sempre riflessi politici), gli sconvolgimenti, più o meno ben riusciti, suscitati nel Nord Africa e in Medioriente, la crisi ucraina (dopo il primo approccio in Georgia), l’impulso dato alle organizzazioni islamiche “estremiste” poi ovviamente combattute (con forti ambiguità e senza ancora una conclusiva decisione), le situazioni estremamente confuse e di sostanziale stallo (pur assai sanguinoso) in Libia e Siria, così come altre egualmente poco chiare (in Egitto come in Turchia o Iran, ecc.),sono operazioni che avranno certo motivazioni legate ai rapporti di forza nelle aree interessate; e tuttavia non vi è dubbio che il principale obiettivo degli Stati Uniti è, in ultima analisi, il mantenimento della presa in Europa e l’isolamento massimo possibile della Russia.

Se veniamo al nostro paese, credo che esso sia abbastanza importante per le suddette finalità perseguite dagli Stati Uniti. La posizione geografica dell’Italia è in tutta evidenza significativa per le operazioni nelle aree investite, non sempre direttamente, dagli Usa (con l’Amministrazione Obama ci si è largamente serviti di “sicari”). Tuttavia, con l’operazione “giudiziaria” che mise fine alla prima Repubblica (solo dopo il crollo del campo “socialista”) si è reso del tutto manifesta la funzione che a noi spetta nelle intenzioni americane di tenere strettamente agganciata l’Europa. Dobbiamo essere decisamente affermativi in proposito. L’Europa è l’area in cui ancora si giocheranno i destini del probabile prossimo scontro policentrico per conquistare una nuova centralità preminente (uno scontro non temporalmente vicino, meglio essere espliciti in proposito). E l’Italia è paese fondamentale per il controllo europeo. Ci sono forti tendenze – a mio avviso tutte ben finanziate da chi di dovere – a sostenere l’ormai irreversibile decadenza europea e la crescente dipendenza italiana. Sia chiaro che l’ultimo premier (il ben noto sedicente tecnico sempre in linea da dove soffia il vento) è in realtà un commissario di poteri stranieri e soprattutto americani.

Mai si era visto in quest’area e in questo paese un degrado sociale (e culturale) come quello odierno. Tutto questo avviene però proprio perché l’Europa (e, al suo interno, l’Italia) sono aree di importanza decisiva per gli Usa nel loro tentativo di restare preminenti; anzi di arrivare un giorno a porsi in una situazione di sostanziale monocentrismo, magari attraverso un futuro regolamento generale di conti. In questa fase, la pressione Usa sul nostro paese è massima, anche se non viene solitamente rilevata perché ovviamente non si esprime con le vecchie modalità. Di conseguenza, nella presente fase storica di non breve momento, chiunque straparli di lotta anticapitalistica, inganna scientemente quelle minoranze che cominciano a rendersi conto della situazione di degrado e sfascio sociale (e anche istituzionale), in cui ci hanno condotto le forze politiche padrone  dell’andamento degli “affari” nel nostro paese.

Non ci sono per nulla prospettive di superamento del capitalismo in Italia (e in Europa); e nemmeno si saprebbe in che direzione si dovrebbe andare in una simile fantasiosa prospettiva. Ripeto che nessuno (di noi) si oppone a che i ceti medio-bassi difendano le proprie condizioni di vita aggredite dal potere esistente. Questo però non significa avere la forza (e le idee) in grado di abbattere il capitalismo (e di quale si sta parlando, del resto, se non a vanvera?). E non c’è nessuna difesa possibile se restiamo un paese governato da élites che si pongono nella relazione di subordinazione rispetto a quelle del paese predominante. E’ di una evidenza palmare che il primo passo da compiere è (diciamo sarebbe) togliere il governo ai servi del potere statunitense. E vorrei essere preciso. Quando parlo in questo contesto di governo non mi riferisco soltanto a quelle forze politiche che hanno in mano la direzione dell’Italia. Tutte quelle oggi in campo sono invischiate in quel gioco elettorale che fa dimenticare ogni problema di reale potere, con il mero scopo di conquistare favori nell’“opinione pubblica” onde migliorare la propria posizione all’interno dell’attuale struttura politica, comunque sempre subordinata alla predominanza degli Stati Uniti.

Ecco allora spiegato perché è indispensabile battersi oggi per un minimo di autonomia nazionale (lo ripeto: senza ideologie nazionalistiche!). E per porsi in quest’ottica, è necessario dedicare i nostri sforzi soprattutto all’analisi degli intrecci internazionali tra i vari paesi; nelle loro filiere di predominanti, subdominanti, subsubdominanti….ecc. fino alle ultime propaggini della subordinazione, laddove siamo tutto sommato situati noi italiani. E mi sembra lampante che passi in avanti di questa autonomia sarebbero favoriti dall’affermarsi crescente della tendenza al multipolarismo. Quindi ci si deve battere per il rafforzamento delle relazioni – non solo economiche, bensì proprio politiche e di collegamento tecnico-scientifico e di “Informazione” e magari anche militari – con i paesi che hanno maggiori prospettive “oggettive” di ergersi quali antagonisti degli Stati Uniti; e fra questi, a mio avviso, il principale è la Russia (senza per questo trascurare la Cina). Nessuna particolare simpatia per questo paese e nessuna particolare antipatia per gli Stati Uniti. Semplicemente, è necessario battersi per l’accentuarsi del multipolarismo e, dunque, per la nostra autonomia. Multipolarismo e indipendenza sono in relazione biunivoca. E sono il primo compito per la fase attuale.

5. C’è poco da aggiungere, io credo. Ritengo auspicabile – nella fase storica che viviamo e che non sarà di breve momento – una politica tesa all’autonomia dei paesi europei rispetto a quello ancora oggi preminente, pur se a mio avviso procediamo, in modo certo non lineare e continuo, verso una situazione multipolare. Qualcuno potrebbe obiettare che sarebbe bene allora battersi per una profonda revisione dell’attuale organizzazione dell’Europa Unita in modo da ottenere l’effetto voluto. Credo che ci si avvierebbe lungo una strada fallimentare. La UE non mi sembra affatto riformabile per come è nata e si è andata configurando sulla base dell’accettazione di una chiara subordinazione – sia pure con accenti diversi nei vari paesi – agli Stati Uniti. Mi sembra anche non molto chiara l’agitazione di alcuni movimenti per l’uscita del proprio paese dalla UE e dall’euro.

Il problema centrale è la lunga subordinazione che, soprattutto i più sviluppati paesi europei (quelli “occidentali”), hanno dovuto subire rispetto agli Usa. Bisogna invertire questo processo – economico, politico, culturale – di dipendenza. Per far questo, nei vari paesi europei devono crescere movimenti consapevoli della difficoltà e complessità di tale compito, che comporterà infine la necessità di abbattere con energia i governi del servilismo. E’ un processo che va sviluppato all’interno dei vari paesi; e che, se avrà successo, lo avrà in modi e tempi specifici per ognuno d’essi. Ogni movimento dovrà rispettare le caratteristiche del proprio paese, delle proprie popolazioni (e, in questo senso, tornerà utile anche l’analisi delle differenti strutture dei rapporti sociali).

I movimenti di autonomia devono senza dubbio ricercare il reciproco collegamento nel contesto europeo, ma senza mai dimenticare le differenze del proprio paese rispetto agli altri; pena il diffondersi di una nuova “mistica” europeista che ha già prodotto in passato i guasti che vediamo oggi sotto i nostri occhi. E’ stata proprio la propaganda di questa idea di una generica Europa unita a consentire il prevalere nella nostra area di élites dirigenti che – oggi finalmente è venuto in chiara luce – si sono piegate, spesso con pingui finanziamenti, agli intendimenti e voleri degli Stati Uniti. Alcuni si saranno anche “venduti”, ma altri hanno superficialmente creduto che, come si erano fatti gli Stati Uniti d’America, si potessero fare quelli d’Europa, i cui paesi hanno ben più complessa e “antica” storia. E sono sempre stati in costante antagonismo d’interessi; per molto tempo perfino bellico, oggi con altre modalità. Pur sempre politiche, lo si tenga presente. Chi insiste sui problemi del dominio della finanza e altre superficialità consimili, è al servizio – consapevole o meno – degli interessi dei gruppi subdominanti europei legati ai dominanti statunitensi.

Ulteriore problema. Malgrado molti paesi europei siano economicamente piuttosto avanzati, è altrettanto evidente la loro debolezza politica e – perché voler essere pacifisti ad oltranza – bellica. Ogni movimento che si batta per l’autonomia del proprio paese – lo ripeto ossessivamente, autonomia soprattutto in direzione degli Usa – dovrà non soltanto cercare i collegamenti con i propri simili europei, bensì sviluppare precise politiche verso est; in particolare nei confronti della Russia. Inutile nascondersi che simili politiche potrebbero un giorno provocare il passaggio dalla tendenza multipolare all’affermarsi di un reale policentrismo conflittuale, con tutti i rischi che ben conosciamo dal XX secolo. Se si teme questo, è inutile mettersi sulla strada dell’autonomia; si resti subordinati come lo si è adesso.

E veniamo così all’ultimo punto. Ci sono molti sciocchi che credono ad un’Italia di benessere diffuso sulla base del turismo, sfruttando i suoi mari blu, i cieli azzurri, le cosiddette bellezze paesaggistiche (come se altrove mancassero), i suoi cibi (che nemmeno gli italiani più giovani sanno ormai apprezzare); e altre litanie del genere. Se l’Italia rimane a questo livello, resterà pure tranquillamente subordinata; e avvizziranno progressivamente in essa tutti quei settori che consentono il maggiore sviluppo di un qualsiasi paese nell’epoca moderna (a meno che non si tratti di quei paeselli, magari isole, che sono piccole oasi per i “ricchi del mondo”). E mancando l’autonomia e il tipo di sviluppo ad essa connesso, inutile anche pensare a chissà quali possibilità di lotta sociale per difendere le proprie condizioni di vita, soprattutto da parte dei già più volte ricordati ceti medio-bassi.

Lasciamo perdere per favore la lotta anticapitalistica; abbiamo una concezione arretratissima di capitalismo, ancora primonovecentesca se va bene. Non abbiamo assolutamente l’idea di quel che dovrebbe essere una società non più capitalistica (a parte le ubbie anti-grande finanza diffuse oggi). Ho però sostenuto che è approvabile la resistenza dei ceti meno abbienti di fronte ad un chiaro peggioramento delle prospettive nei nostri paesi detti avanzati. E’ bene mettersi in testa che in un periodo di multipolarismo in accentuazione, si amplifica il “caos” nelle relazioni internazionali; e non solo politicamente, ma pure economicamente. In poche parole, quella che chiamiamo crescita (aumento del Pil) non conoscerà andamenti travolgenti per molto tempo. Molti finalmente cominciano ad arrivare a simili conclusioni. Tuttavia, la debole (o nulla) crescita non impedisce uno sviluppo, cioè un miglioramento di certe strutture sociali e

l’arresto del progressivo smantellamento delle “conquiste” ottenute già da tempo.

Tuttavia, non vi sarà nulla di tutto questo se si cede sul punto dell’autonomia propria, dello sviluppo di settori innovativi che la subordinazione invece sacrificherà sempre più. Cari “amici delle lotte sociali”, volete che possano essere ancora condotte almeno in un certo grado? Ebbene, battetevi per l’autonomia del paese rispetto all’attuale piatta subordinazione agli Stati Uniti. Battetevi per una diversa politica internazionale. Invece di fissarvi sul superamento del capitalismo (che si supera da solo in sempre nuove forme che vi lasciano poi a mani, e testa, vuote), concentratevi sull’attuale evoluzione dei rapporti di forza tra Stati (paesi), in modo da giocare nel suo ambito con opportune politiche di “nuove alleanze” al fine di non veder peggiorare gravemente le condizioni del vostro paese e, dunque, dei ceti sociali in esso meno favoriti.

E con questo fervorino finale, veramente Amen.

http://www.conflittiestrategie.it/conflitti-tra-stati-e-autonomia-nazionale-perche

Murray N. Rothbard, L’etica della libertà, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Murray N. Rothbard, L’etica della libertà, Liberilibri editore, Macerata 2021, pp.468, € 14,00.

Pubblicata dall’editore Liberilibri oltre vent’anni fa, ora è ristampata dallo stesso editore, in un momento in cui il “liberalismo” (come inteso dai media mainstream) è colpevolizzato di tutto: dalla globalizzazione fino all’inadeguatezza della risposta alla crisi pandemica. Non riportiamo quanto già scritto in molte recensioni, tra cui una apparsa sull’Opinione circa un mese orsono. Ci limitiamo alla critica che un liberale “archico”, come chi scrive può muovere ad un libertario (o liberale anarchico).

Rothbard propone una società in cui sia abolito il monopolio statale della violenza (legittima) e tutti i servizi pubblici siano offerti (ed acquistati) sul mercato. L’etica di tale società senza Stato si basa sul carattere pre-statale e naturale (giusnaturalistico) dei diritti dell’individuo; sviluppa (in particolare) il pensiero di John Locke. La contrarietà dello Stato all’etica è costituita dal fatto che obbliga i sudditi senza il consenso (individuale e volontario) degli stessi.

Così sintetizzando al massimo quello che Rothbard sviluppa in centinaia di pagine di Etica della libertà.

A questo un liberale archico può svolgere due critiche fondamentali.

La prima che l’uomo è sia homo aeconomicus che zoon politikon; ma politico ed economico sono essenze non dipendenti – anche se interferiscono l’una sull’altra – e tantomeno la scelta per una può eliminare ragioni, presupposti e regolarità dell’altra. Come scriveva tra i tanti e da ultimo Miglio, vi sono contratti-scambio e obbligazioni politiche. Quest’ultime intese hobbesiamente, volte a barattare protezione con obbedienza. Prima di Miglio, Hauriou riteneva che ci sono (sempre) due diritti (e due giustizie): quella comune tra soggetti pari e quella disciplinare (istituzionale) tra soggetti non in condizione di parità. Pretendere di eliminare uno dei due è, in sostanza, voler cambiare la natura umana. Cioè proprio quello che non solo preti e teologi, ma anche i giusnaturalismi non credono.

L’altra è che, anche perciò il liberalismo ha costruito lo Stato borghese di diritto, al quale accanto alla tutela dei diritti fondamentali è essenziale la distinzione dei poteri (Montesquieu); come mezzo e organizzazione di uno Stato attento alle libertà politica, sociale ed economica. Il potere statale non è così eliminato, ma limitato e controllato. In fondo, vale quanto scritto nel Federalista sul rapporto tra natura umana e governi: che se gli uomini fossero angeli, i governi non sarebbero necessari; e se fossero angeli i governanti, non servirebbero i controlli sui governi. Ma dato che gli uomini (tutti) non sono angeli, sono necessari sia i governi che i controlli sui medesimi.

Una concezione realistica della natura umana conduce necessariamente, coniugata all’aspirazione alla libertà, alla forma dello Stato di diritto, allo Stato liberale. Il quale è una species del genus “Stato”. Vi appartengono altre species, lo Stato assoluto che l’ha preceduto, gli Stati comunisti del XX secolo (meteore spente), gli Stati nazi-fascisti, e così via.

Lo Stato liberale è uno Status mixtus, mescolanza di principio politico (in genere, prevalentemente democratico) e dei principi dello Stato borghese di diritto. In questa fusione testimonia l’impossibilità di prescindere dal politico (e da uno o più principi politici) per realizzare una sintesi che sia “la realtà della libertà concreta” (Hegel).

Rothbard trascura perciò la realtà storica dalla forma che ha assunto il liberalismo, man mano che si realizzava, divenendo ordine ed istituzione. La polemica sull’immoralità dello Stato del filosofo nordamericano è serrata, radicale e a giro d’orizzonte: la tassazione è “obbligatoria e perciò indistinguibile dal furto, segue che lo Stato, che prospera grazie ad essa, è una vasta organizzazione criminale, di gran lunga più fortunata e formidabile di qualsiasi mafia privata”; essendo un’istituzione permanente, ha bisogno al contrario di un bandito di strada, di assicurarsi almeno l’acquiescenza dei governati attraverso una pletora di tirapiedi ideologici la cui funzione è “di spiegare alla popolazione che in realtà il re indossa bellissime vesti. In sintesi gli ideologi devono spiegare che, mentre il furto commesso da una persona o più persone o gruppi è un male, se è lo Stato a compiere tali azioni, allora non si tratta più di un furto, bensì dell’atto legittimo, e persino consacrato, detto tassazione” e anche “quando è lo Stato a uccidere, allora non si deve parlare di omicidio, ma di una pratica glorificata detta “guerra” o “repressione della sovversione interna””, onde “Il successo consolidato nel tempo degli ideologi dello Stato è probabilmente la più colossale frode nella storia dell’umanità”. Dato però che lo Stato è necessariamente fondato sul furto e l’omicidio, è costretto a servirsi di intellettuali che giustifichino queste pratiche giudicate da Rothbard immorali.

E qui troviamo un problema di etica politica che va da Platone a Croce (ed oltre), passando per la teologia cristiana: per il governante (lo “stato”) vale la stessa etica che per i governati? La risposta dei teologi e dei filosofi (molti) è che non è la stessa: sostenuta dai teologi con l’argomento che difendere la vita e la proprietà dei sudditi è opera “preziosa e divina”, come sosteneva (tra i tanti) Lutero. Deducendolo dall’antropologia negativa (l’esistenza del male e dei malvagi) cui il potere politico, istituito dalla Provvidenza divina, deve porre rimedio.

Malgrado il mio (parziale ma esteso) dissenso, il libro di Rothbard è comunque una lettura quanto mai salutare, soprattutto perché contraddice in modo radicale quegli idola propinati con dovizia e costanza da governanti e dai loro intellos, con argomenti che il filosofo nordamericano demolisce con acume e vis polemica. Una terapia di cui, in tempi di decadenza, non si può fare a meno.

Teodoro Klitsche de la Grange

COPERNICANESIMI, di Pierluigi Fagan

COPERNICANESIMI. La cultura delle immagini di mondo ha una sua credenza fondativa. La credenza è quella che, data una struttura di pensiero gerarchica che da uno o più assunti di vertice produce discorso complesso a cascata secondo l’operatore logico “se … allora”, “se” si mette in discussione il punto iniziale, “allora” cambia l’intera struttura di pensiero. Classicamente, si è presa l’ipotesi di Copernico del porre la Terra in periferia ed il Sole al centro, al contrario di quanto faceva l’ideologia dominante cristiana di derivazione tolemaica, per chiamare questo processo “rivoluzione copernicana”.
Kant dichiara di esser stato soggetto ad una rivoluzione copernicana quando venne svegliato dal “sonno dogmatico” grazie alla lettura di Hume. Marx sarà ancor più copernicano nel voler rimettere la dialettica a testa in su dopo che Hegel l’aveva messa a testa in giù. Darwin fece altrettanto con l’idea che le specie nascevano, cambiavano e sparivano in un ciclo di esistenza adattiva e quindi non erano fisse, immobili, create perfette ex ante dal Perfetto Assoluto. Freud fece qualcosa di simile con la pretesa razionalista, in parte anche Nietzsche, come riconobbe Paul Ricoeur nel confezionare la definizione di “scuola del sospetto” (Marx-Freud-Nietzsche). Einstein infine fece qualcosa di simile con Newton o meglio con la pretesa epistemologica che la gravità newtoniana fosse l’unica dimensione valida per comprendere il funzionamento macro dell’Universo. Per non parlare della distruzione paradigmatica della meccanica quantistica rispetto alle nostre pretese di uniformare il mondo macro al micro.
Insomma, da dopo Copernico, si nota quello che solo negli anni ’60 per merito di un epistemologo americano (Thomas Khun) verrà razionalizzato come un sistema di pensiero che discende da un paradigma, messo in dubbio la pretesa ordinativa del paradigma, si muove tutto il sistema di pensiero fino a trovare un nuovo paradigma che sembra più adatto al cumulo delle conoscenze sviluppate.
Si noti il fattore tempo. Un paradigma è sempre figlio di un’epoca storica. Passando il tempo si accumulano evidenze a favore ma anche molte non a favore di quel paradigma, da cui l’idea di metterlo in discussione per cercarne un altro che faccia i conti con tutto ciò che si sapeva al tempo in cui è stato formulato, ma anche con tutto ciò che s’è scoperto dopo.
Sottoponiamo allora a verifica il paradigma del materialismo storico. Classicamente il paradigma, che era a sua volta un copernicanesimo anti-hegeliano, invertiva i rapporti tra struttura materiale produttiva e sociale con la sovrastruttura ideologica sovrastante. Così funzionava l’ordine delle cose e quindi così doveva funzionare l’anti-ordine delle cose. Fare “politica” per trasformare lo stato delle cose in atto, ordinava di cambiare le strutture. In effetti poiché lo ordinava in base ad una analisi e prognosi, cioè a seguito di una costruzione di pensiero, aveva in sé una contraddizione in quanto esso stesso negava il suo presupposto. C’era una idea prima dell’azione. In effetti, già prima nella sequenza storica del suo pensiero, Marx non aveva affatto escluso il ruolo delle idee, aveva solo raccomandato di tenerle in contatto col mondo reale delle cose, di pensare mentre si agisce, creando quello che noi oggi possiamo chiamare un “circolo ricorsivo” tra pensiero-azione-nuovo pensiero-nuova azione etc.
Dopo un secolo e mezzo di progresso conoscitivo operato da molte discipline, oggi si è per lo più convinti che, coscienti e non sempre del tutto coscienti, gli esseri umani agiscono in base a ciò che pensano. L’uomo è l’animale con il più sfolgorante successo adattativo della storia recente del vivente, proprio perché pur non dotato di alcuna specialità fenotipica, pensa prima di agire. Financo pensa che è meglio non agire, talvolta, cosa che lo ha -in parte- emancipato da certi meccanismi istintuali non sempre adatti a tutte le circostanze. Il complesso sistema che sovraintende alla funzionalità mentale, noi qui lo chiamiamo “immagine di mondo”, logiche, memorie, informazioni, teorie, conoscenze, giudizi, attraverso i quali pensiamo prima di agire. Ci teniamo talmente tanto (in effetti lo potremmo dire la nostra “identità”) che spesso che ce freghiamo se i risultati delle nostre azioni sono in contraddizione con il sistema di verità dell’attività pensante, facciamo prima a dar la colpa al mondo, piuttosto che alla nostra immagine.
A questo punto potremmo fare una contro-storia culturale del dominio dell’uomo sull’uomo, evidenziando quanto problematica sia l’idea che tale dominio si sia creato nelle condizioni materiali e solo dopo sia stato “giustificato” da quelle ideali. Fino a giungere all’Origine di questa asimmetria che secondo alcuni (tra cui chi scrive) data all’inizio delle società complesse, cinquemila anni fa. Origine che alla sua origine, si è affermata al contrario, prima distruggendo l’immagine di mondo condivisa naturalmente nei piccoli gruppi umani, per poi sviluppare un doppio processo ideale e materiale che ha portato progressivamente alla forma gerarchica della società. Ma non abbiamo spazio e tempo per poter esser più precisi a riguardo.
Saltiamo allora direttamente ad oggi. Come forse saprete, c’è una “discorso delle idee” che si dipana con grande coerenza ed intensità dalla fine della Seconda guerra mondiale, soprattutto in ambito statunitense. E’ un discorso complesso fatto di psicologia diretta allo sviluppo prima del comportamentismo e poi del cognitivismo, che poi si interseca con la rivoluzione informatica, lo sviluppo dei mass-media, che poi arriva ad Internet che nasce da una rete militare, che poi si sviluppa progressivamente nella cultura digitale, nel più ampio movimento della informazione, della cultura e dell’intrattenimento in direzione di certi precisi canoni conformi all’ordinatore economico mediato dal marketing. Fino ad arrivare ai primi del nuovo millennio, ad una nuova strategia lanciata dal governo americano detta NBIC, appunto la convergenza e sinergia tra le ricerche su nanotecnologie-biotecnologie-informazione-sviluppi della “cognitive science” che porterà al Internet of Things, al Metaverso, alla Realtà aumentata e molto altro per altro da tempo anticipato dalla letteratura fantascientifica distopica.
Ci si domanda quindi: quanto della battaglia politica condotta dalle élite oggi si basa su strutture piuttosto che sovrastrutture? Quanto materiale e sociale condizionamento sono esercitati, quanto controllo biopolitico, ma a questo punto quanto controllo psicopolitico come intuito da Byung-chul Han? Siamo sicuri che il dominio dell’uomo sull’uomo è operato dal piano materiale e solo dopo si confezionano ideologie? E come spieghiamo allora la vasta e storica servitù volontaria dei Molti se non con l’introiezione che è giusto sia così e non altrimenti possibile ancorché desiderabile? Se l’uomo è l’animale che pensa prima di agire, il controllo dell’uomo sull’uomo non parte dal controllo di questa facoltà di pensiero per poi raccogliere i frutti nel dominio materiale? Cosa hanno fatto le religioni per milioni di anni?
Sino a giungere alla nostra domanda finale: non è che convinti ancora che la battaglia politica debba partire dalle forme materiali, ci siamo persi l’opportunità di agire invece sul piano mentale? Perché invece di fondare partiti materiali, non proviamo a fondare un partito mentale? Che faccia conflitto organizzato mentale? Avremo dei vantaggi a fare un nostro copernicanesimo che riconosca la necessità di agire in forme organizzate il conflitto sociale e politico sul piano mentale? Non è che ci serve un partito culturale, un movimento culturale organizzato prima di quello sociale e politico?
O crediamo che basti la nostra confusa e scoordinata, vociante ed inconcludente “guerriglia critica” per combattere le potenti forze messe in campo dall’ ordinatore dominante e relativa élite con codazzo funzionariale sempre più dedita a capire e controllare come riannodare i fili dei nostri dendriti disciplinando i flussi elettrici e chimici che da neurone vanno a neurone?
E’ forse questa la risposta che non troviamo per la versione attuale dell’eterna domanda politica: che fare?
NB_Tratto da facebook
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