Italia e il mondo

LA MATRICE DEL MALE_ di Marco Della Luna

LA MATRICE DEL MALE:

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OLTRE LA PONEROLOGIA

La difesa ad oltranza delle illusioni genera inevitabilmente comportamenti mostruosi.

Premessa

Questo tempo di Avvento – Avvento  non del Messia, ma della Guerra –, nel quale governanti corrotti ci addebitano grandi spese per inutili armamenti, mentre noi europei, nel nostro continente sempre più tartassato, aspettiamo impotenti di essere esposti a una guerra nucleare per interessi altrui, è un tempo perfetto per analizzare l’origine della malvagità al potere.

Svolgerò di seguito dapprima un ragionamento nei limiti del normale pensiero etico e psicologico, nel tracciato della ponerologia; poi farò un salto qualitativo.

La ponerologia (dal greco poneròs, “cattivo”, “malvagio”) è un campo di studio che si concentra sulle origini, la natura e i modelli della malvagità o del male. Precisiamo che la ponerologia spiega i comportamenti malvagi – intesi come il perseguimento dei propri interessi a scapito degli altri, tipico di decisori politici ed economici – ricorrendo a concetti come la “ponerizzazione” o la diffusione del male “normale” e non clinico. Lasciamo quindi, almeno per ora, fuori dalla porta i casi patologici gravi come il sadismo (che ricadono nella psicopatia o disturbi di personalità).

Spiegazione Ponerologica dei Comportamenti Malvagi Non Sadici

Il meccanismo principale su cui si focalizza la ponerologia nei contesti non patologici (o almeno non primariamente sadici) è l’interazione tra individui, la formazione di gruppi e la psicologia sociale. La spiegazione si articola su diversi livelli:

1. L’Egoismo, la Deumanizzazione e la Razionalizzazione

I decisori politici ed economici spesso non agiscono per il piacere di infliggere dolore (sadismo), ma per:

  • Egoismo Spinto/Ambizione: Il desiderio smodato di potere, ricchezza e controllo è la forza motrice. I danni collaterali (il male fatto agli altri, incidentalmente o strumentalmente) non sono l’obiettivo, ma un costo accettabile o un effetto collaterale ignorato per raggiungere fini personali o di gruppo.
  • Deumanizzazione: È più facile perseguire i propri interessi a scapito degli altri quando le vittime non sono percepite come esseri umani pieni e degni, ma come cani miscredenti o come razza inferiore. La deumanizzazione riduce l’empatia e la colpa, trasformando le persone in numeri, statistiche, “danni collaterali” o, in senso politico, “nemici” o “sudditi da manipolare”.
  • Razionalizzazione: I decisori spesso si convincono di agire per un “bene superiore” (il bene dello Stato, dell’azienda, della nazione: salus rei publicae suprema lex) o che le loro azioni, per quanto dure, siano “necessarie” o “inevitabili” per motivi di mercato, o scientifici. O per volontà divina, espressa nelle Sacre Scritture. Questo permette loro di mantenere una visione positiva di sé stessi nonostante le conseguenze negative delle loro decisioni su milioni di esseri umani.

2. Il Ruolo della Psicopatia e della Ponerizzazione

Un concetto centrale, specialmente nella versione proposta da Andrzej M. Lobaczewski (che coniò il termine ponerologia politica), è quello della “ponerizzazione” della società e del ruolo delle personalità patologiche non sadiche ma egocentriche (come la psicopatia o disturbi narcisistici) al suo interno:

  • Personalità Anormali ai Vertici: La ponerologia suggerisce che le strutture di potere (aziende, partiti, Stati) tendono ad attrarre e promuovere persone con lievi o moderate anomalie caratteriali/psicologiche (come una ridotta capacità di provare empatia o senso di colpa) che le rendono particolarmente adatte a prendere decisioni “fredde” e spietate – su questo torneremo nel finale, dopo aver introdotto vedute che alla ponerologia sfuggono..
  • Adattamento per Imitazione: La presenza di tali individui nei ruoli chiave può “ponerizzare” (o “corrompere”) l’ambiente circostante. Le persone “normali” che lavorano sotto di loro imparano che l’unico modo per avere successo o sopravvivere è imitare i comportamenti non etici, sopprimere la propria coscienza e adottare le stesse logiche spietate, anche se non sono sadiche o maligne per natura.

3. La Pressione del Sistema e la Banale Malvagità

Questo aspetto si allinea con le teorie sulla “banalità del male” (Hannah Arendt) e l’influenza del contesto (esperimento di Milgram, esperimento della prigione di Stanford).

  • Pressione Strutturale: Nei grandi sistemi (multinazionali, burocrazie statali), l’individuo si sente spesso solo un ingranaggio. La responsabilità delle decisioni non è personale, ma diffusa nel sistema o nella catena di comando. “Stavo solo eseguendo gli ordini” o “Questo è il modo in cui funziona il mercato”  o “Ce lo chiede l’Europa” diventano giustificazioni per azioni che, prese singolarmente, sarebbero ritenute inaccettabili.
  • Conformismo e Paura: Il male può essere perpetrato per conformismo, per non rompere i ranghi, per paura di perdere la posizione o di essere esclusi o invasi dalla Russia. Questo non è sadismo, ma debolezza morale in un sistema che ricompensa la spietatezza e punisce l’integrità.

In sintesi, nella ponerologia, il male politico ed economico non sadico, non morboso, è spiegato come un processo dinamico guidato dall’egoismo e dall’ambizione, facilitato dalla deumanizzazione e dalla razionalizzazione, e amplificato dalla presenza di personalità amorali (anche non sadiche) che contaminano e distorcono la moralità delle strutture sociali e dei processi decisionali.

Dissezione dell’Illusione

Quanto sopra, l’opinione corrente, è incontestabile, entro i suoi limiti, ma è costitutivamente inidoneo a spiegare la matrice, la fonte del Male, inteso come l’indifferenza alla sofferenza che si arreca agli altri nel perseguire il proprio tornaconto particolare. Quella matrice è un preciso habitus mentale, compendiabile come segue:  

1.      Esiste una dimensione, il mondo, esterna alla mente, indipendente da essa, consistente di materia ed energia, quindi oggetto conquistabile: concezione realistica ingenua  dell’essere. 

2.      Questo mondo è composto di enti, di cose fisse, esistenti in se stesse (selbständig) e permanenti nel tempo, nel divenire. 

3.      Anche l’io personale o empirico, cioè il me, è fisso e permanente nel tempo.

4.      Il me è capace di acquisire e detenere le cose, ed è vulnerabile dall’esterno; perciò il suo interesse è conquistare quanto più possibile della realtà esterna, per mettersi al sicuro da pericoli provenienti dall’esterno: istinto di autoconservazione e volontà di potenza. 

5.      Il mondo è una realtà limitata, scarsa (in senso economico), in cui ciò che è mio non è tuo; onde, per massimizzare la propria capacità di autoconservazione, ciascuno razionalmente tende ad espandere il suo possesso di questa realtà e può farlo solo sottraendolo agli altri. 

6.      Anche gli altri esseri umani, come materia ed energia,  sono parte di questa realtà, quindi l’interesse e lo scopo di ciascuno è conquistare anche gli altri per sfruttarli. 

7.      Con queste premesse, automaticamente, per autoconservazione, il comportamento degli uomini tende ad essere egoistico e soppressivo dei beni e delle libertà del prossimo nonché indifferente alla sofferenza che causa negli altri. 

  Il Buddhismo, senza giudicare in chiave morale, insegna che la suddetta concezione della realtà, dell’essere e di sé, è erronea, illusoria; che causa dolore mentre impegna nel perseguimento di scopi essi pure illusori; e che è possibile liberarsi da tutto ciò mediante specifici esercizi mentali e corporali di rettificazione  del pensiero, dell’azione, degli stati d’animo. La liberazione, o nirvana, consiste appunto nella correzione di errori e nell’eliminazione del loro portato. Il Buddhismo, notoriamente, insegna:

– che non esiste una dimensione “esterna” alla mente e che il mondo, le cose, sono “vuoti” (sunya), nel senso che non hanno esistenza propria, indipendente dalla mente (non dalla mente mia o mia, ma dalla mente o coscienza trascendentale): sono oggetti mentali, rappresentazioni (nel senso del mondo come rappresentazione di Schopenhauer);

– che quelli che crediamo e viviamo come cose, enti, permanenti e a se stanti non sono tali, ma sono aspetti e momenti di un flusso, del flusso del divenire, come gli accordi sono passaggi della melodia; sicché l’idea di conquistarli e possederli stabilmente è irrealizzabile, è un auto-inganno;

– che anche l’io empirico, ossia il me (non la coscienza, la consapevolezza), non è una cosa fissa, separata, permanente, bensì un flusso, in costante mutamento, sicché non può, non posso, avere un’identità costante, ancor meno eterna; onde lottare per perpetuare il proprio me individuale non ha senso, è impossibile per inesistenza dell’oggetto da perpetuare.

Via via che si assimilano questi principi (non solo intellettualmente, è ovvio, ma anche come vissuto), cambiano, si correggono, le mete e le aspirazioni. Evidenzio che, se non li si assimila, si può bensì essere buoni, fare il bene, sacrificare l’interesse proprio a quello altrui – ma, per l’appunto, sarà sempre un sacrificare un interesse per un altro interesse, sarà sempre una contrapposizione tra il bene di un me e il bene di altri me. Perciò non sarà una posizione o una opzione stabile, e soprattutto rimarrà, al fondo, la contrapposizione tra i vari me, i molti centri di interessi.

L’insieme di idee buddhiste sopra delineato non è affatto estraneo alla cultura europea, poiché anche alcuni filosofi occidentali hanno dimostrato l’erroneità della concezione suddetta: il realismo-materialismo è stato confutato da Cartesio, Berkeley, Kant e poi dall’idealismo; la fissità e indipendenza degli enti era nota come illusoria già ad Eraclito; la loro indissolubile, reciproca dipendenza ontologica è stata acquisita da Hegel; l’illusorietà dell’io empirico (o me) come entità stabile e definita è stata dimostrata da Bradley, il quale ha inoltre dimostrato l’illusorietà del comune concetto di tempo, spazio, causa; e altresì da Gentile, il quale ha ulteriormente dimostrato la realtà non statica ma processuale, agente, dell’esistente (realtà come atto in atto), e che l’io o coscienza, il soggetto, non è una cosa, ma un’azione, senza un oggetto altro da sé: un’azione intransitiva.  Nel mio saggio Terminus ho argomentato l’inconciliabilità logica di esistenza e infinità o perfezione, quindi l’insuperabile contraddittorietà logica del concetto del dio cristiano.

Di contro a queste comprensioni filosofiche, sta il fatto che il genere umano vive nel culto ossessivo del “permanentizzare” il me fisso e il possesso delle cose. Le illusioni permeano e impregnano la vita, informano a sé il sentire, il volere, il percepire; strutturano la morale, il diritto, la società, la politica, l’economia. Esse regnano – e più avanti tratteremo le implicazioni di questa loro sovranità.

L’uomo adora dei che, a differenza del mondo naturale, fenomenico, sono eterni, quindi possono dispensare eternità. Ad essi chiede la vita eterna per il suo supposto me fisso che non esiste; e le astute religioni, in cambio dell’obbedienza in questa vita, la promettono per la successiva. Le più popolaresche, come l’Islam e i Testimoni di Geova, promettono addirittura l’eternità del me corporeo materiale su questa Terra, con tutti i suoi piaceri. Altre promettono la conservazione del me a diversi livelli di purezza: con il corpo però senza brutte funzioni escretorie e sessuali, malattie e morte; oppure senza il corpo ma con la forma; oppure ancora senza corpo e senza forma, con solo il me. Noterete che questa successione di prospettive escatologiche costituisce una progressione, una progressiva spogliazione dagli elementi dell’empiricità verso l’identità con l’io o coscienza trascendentale. Richiama il funzionamento di una torre di raffinazione per il petrolio grezzo.

Il Paradigma Ontologico

Col discorso che sto svolgendo ho inteso spostare la spiegazione del Male non sadico dal piano della mera psicologia individuale e sociale (ponerologia) a un piano metafisico ed epistemologico. La mia tesi centrale è che l’indifferenza alla sofferenza altrui (la matrice del Male) non è solo una conseguenza di ambizione ed egoismo, ma è radicata in una percezione, in un vissuto della realtà fondamentalmente erronei e illusori (il realismo ingenuo), che fanno vivere in un modo deviato e che portano automaticamente a un conflitto soppressivo. Propongo, in sostanza, quanto segue:

  1. Individuazione della Radice Metafisica: L’identificazione di un “habitus psichico” come vera matrice del Male. Spostare l’attenzione dalla patologia o dal semplice vizio morale alla struttura percettivo-cognitiva (la concezione del sé e del mondo) è un salto qualitativo. Questo eleva l’analisi dal che cosa al perché profondo.
  2. Sistematizzazione Chiara: La sequenza logica dei punti 1-7 del precedente paragrafo descrive l’illusione realista e le sue conseguenze morali. Mostra come la credenza in un mondo esterno conquistabile induca la credenza in un “me” fisso che a sua volta suscita la percezione di scarsità e vulnerabilità, che ha come conseguenza la necessità logica dell’egoismo e dello schiacciamento degli altri.
  3. Integrazione Interculturale (Buddhismo): L’uso del Buddhismo (in particolare i concetti di śūnyatā – vacuità, anikka – impermanenza. e anātman – non-sé) come antidoto è estremamente pertinente. Il Buddhismo offre non solo una confutazione teorica, ma anche un percorso pratico (habitus mentali e corporali) per la rettificazione, in quanto l’errore epistemologico è collegato alla sofferenza e alla malvagità.
  4. Riferimento alla Filosofia Occidentale: La connessione finale con Eraclito, Plotino, Cartesio, Berkeley, Kant, Hegel e l’Idealismo italiano (Gentile), non dimenticando il grande apporto di Schopenahier è fondamentale. Dimostra che la critica al realismo ingenuo e all’idea di un io (me) fisso non è un’esclusiva orientale, ma una base filosofica universale.

1. Il Salto tra Metafisica e Azione Morale

Assolto il compito di definire l’errore ontologico, l’illustrazione del passaggio dall’errore epistemologico all’azione malvagia richiede di un ponte più solido. Infatti il critico potrebbe dire: Affermare “automaticamente, per autoconservazione, il comportamento… tende ad essere egoistico e soppressivo” sembra ignorare la sfera della libertà morale o della scelta etica che esiste anche all’interno di una concezione realista. Molte persone con una visione “realista” del mondo riescono comunque a essere altruiste (sebbene, come giustamente evidenzi, con un fondo di “sacrificio di un interesse per un altro interesse”). A questa possibile obiezione in parte ho risposto parlando dell’illusorietà della soluzione che passa per l’idea del sacrificio di sé per il bene altrui, e per il resto risponderò infra, parlando dei meccanismi di condizionamento che prevalgono sulla coscienza morale.

Intanto faccio presente che quel passaggio avviene non direttamente, omisso medio, ma attraverso la sfera del vissuto (del desiderio, dell’emozione, della volizione), in un percorso non lineare ma circolare, che circolarmente rinforza i suoi elementi (quel tipo di percezione rinforza quel tipo di emozione, che a sua volta rinforza quel tipo di condotta, che a sua volta rinforza quel tipo di percezione); inoltre, sottolineo come l’habitus mentale realista non costringe al Male, ma ne riduce drasticamente la soglia di accesso e lo rende l’opzione razionalmente più efficiente (secondo la logica di autoconservazione/volontà di potenza). La concezione sbagliata prepara il terreno e giustifica il Male, specialmente nei decisori di potere, ma la scelta rimane. E il Male, una volta compiuto, corrobora la concezione sbagliata. Così il flusso mentale costituente il soggetto “affonda” sempre più nell’errore – quindi anche nel suo proprio male, nella propria sofferenza (dukkha), come una corrente marina affonda verso profondità più oscure quando si raffredda.

2. Differenziare il Sé Empirico dal Sé Trascendentale

Nel paragrafo sul Buddhismo, la distinzione tra l’io empirico (il “me”) e la coscienza trascendentale/mente è cruciale; ma, privilegiando la rapidità, quando la ho introdotta, la ho trattata molto rapidamente, e intendo ora rimediare.

 Per un lettore non esperto di filosofia orientale o idealista, la frase “indipendente non dalla mente mia o tua, ma dalla mente o coscienza trascendentale” rischia di rimanere enigmatica. Essa è tuttavia la chiave per distinguere la vacuità buddhista (che non è un nichilismo) dal nichilismo come inteso chez nous e dall’annientamento totale. Perciò qui chiarisco che la coscienza trascendentale o la realtà come Flusso/Atto del pensiero è il carattere autocosciente dell’essere stesso oltre gli ego individuali: il vero Io  non è il “me” empirico (un flusso di dati psicologici), ma è l’unità universale e attuale che opera in ogni individuo quando compie l’atto di pensare. Quando tu pensi, non è il tuo “me” separato che opera, ma l’Atto Universale del Pensiero. Questo sottolinea che la liberazione (Nirvana) non è apatia, ma la comprensione a tutti i livelli dell’interdipendenza ontologica, che mostra il male arrecato all’altro un male arrecato a sé stessi.

3. La Instabilità dell’Altruismo

La mia conclusione sulla non-stabilità dell’altruismo basato sul sacrificio va sviluppata. Ho scritto: “…sarà sempre un sacrificare un interesse per un altro interesse, sarà sempre una contrapposizione tra il bene di un me e il bene di altri me. Perciò non sarà una posizione o una opzione stabile…” Questa stringata enunciazione vuole evidenziare come l’altruismo interno al vissuto “realista” sia sempre una transazione, un’etica del dovere/sacrificio che si basa su una tensione non risolta (il mio me contro gli altri me). E così pure si osserva il comune destino di tutti i movimenti nati “per il bene comune”: essi vanno incontro al regolare fallimento per degenerazione in senso affaristico, o per frammentazione e abbandono. Regolarmente, succede che in essi si ritrovano troppi galli nel pollaio, troppe prime donne – troppi soggetti che intendono quei movimenti come strumenti per affermare ciascuno il proprio me, in forma di leadership e/o intellettualità, sugli altri. Le organizzazioni del samsara, cioè del mondo dell’illusione, non cagliano intorno al bene comune, diffuso, bensì intorno al bene dei loro membri dirigenti, perseguito in distinzione o contrapposizione rispetto al bene comune, collettivo, generale, e persino a quello dei membri non dirigenti. Questi concetti valgono anche a invalidare l’idea che possa arrivare un salvatore a risolvere i mali del mondo, sia egli un essere soprannaturale, extraterrestre, o più banalmente un Trump o un Putin.

Al rovescio di tutto ciò, la liberazione buddhista/idealista, e pure quella neo-platonica, è l’eliminazione della tensione stessa, poiché non c’è più un me separato da difendere o sacrificare. Questo è l’essenza della mia critica all’etica dell’altruismo. La mia non è un’analisi etica o psicologica, ma una diagnosi ontologica: il male nasce dall’errore di credere e senitre che l’essere  consista in enti e “me” fissi, separati e in competizione. Questa è una linea di ragionamento si allinea con l’idea che la vera rettificazione non è un cambio di comportamento, ma un cambio di coscienza e di sentire sulla natura della realtà, seppure il cambiare gradualmente il proprio comportamento aiuta a correggere la mente. È una linea argomentativa che si spinge alle fondamenta di come percepiamo la realtà e il sé.

Implicazioni Pratiche dell’Illusione Realista

 Tenendo conto della mia analisi ontologica (l’errore del “sé fisso” e del “mondo conquistabile” come radice del Male) e aggiungendo i fattori impersonali e il contesto decisionale (mercato e groupthink), possiamo sviluppare le implicazioni pratiche e la differenza tra l’analisi  Ponerologica e l’analisi Ontologia.

Se la matrice del Male è l’illusione di un sé separato e in competizione in un mondo di risorse scarse (il tuo punto 1-7), la sua traduzione nell’agire politico ed economico diventa il tentativo incessante di cementare quell’illusione attraverso il possesso e il potere.

1. Il Mercato come Manifestazione dell’Illusione della Scarsità

Il “mercato” e le sue “richieste” non sono forze naturali, ma sistemi umani costruiti sulla premessa dell’individualismo metodologico e della scarsità competitiva (punti 4, 5, 6  supra).

  • Necessità Fittizia: La credenza che il mio benessere dipenda dal mio possesso e dalla mia espansione (autoconservazione) si traduce nella logica del profitto illimitato. Il decisore economico non è mosso dal sadismo, ma dalla paura ontologica (la paura dell’io separato di essere vulnerabile) che viene razionalizzata come “esigenza del mercato” o “massimizzazione del valore per gli azionisti”.
  • Gli stakeholders ti richiedono la massimizzazione dei ritorni egoistici senza considerazione per le esternalità generate a danno della collettività; se non performi, ti cacciano e ti rimpiazzano con uno che sta al gioco; quindi tu ti adatti e performi.
  • Deumanizzazione Strutturale: Quando le persone sono considerate “capitale umano” o “consumatori”, e l’ambiente “risorsa”, l’illusione ontologica si traduce in un linguaggio quantitativo ed estrattivo. L’indifferenza alla sofferenza (la matrice del Male) non è un atto di volontà, ma una conseguenza automatica dell’applicazione di modelli che vedono la realtà e gli altri come oggetti conquistabili (punto 6). Il sistema non richiede l’odio, ma l’indifferenza calcolata. Te lo chiede il Mercato.

2. Il Groupthink e la Congruenza Illusoria

La dinamica del “groupthink” (la tendenza dei gruppi a cercare il consenso e a sopprimere il dissenso razionalmente critico perché introduce nel gruppo dubbi sgradevoli) amplifica l’errore ontologico di partenza e spiega come “uomini buoni” (o non malvagi) possano compiere “azioni malvagie” in gruppo (il tuo esempio: senatores boni viri, senatus mala bestia).  L’obiettivo non è la verità o l’etica, ma la sopravvivenza collettiva dell’io di gruppo (“il nostro interesse”). Il “me fisso e separato” viene sostituito dal “noi fisso e separato” (nazione, azienda, partito), che deve difendersi dagli “altri noi”.
Il gruppo si sente meno vulnerabile rispetto all’individuo. Questo incoraggia l’assunzione di rischi immorali, poiché la responsabilità è diffusa e il danno percepito all’esterno come “inevitabile” o “collaterale” viene razionalizzato più facilmente.
I membri, individualmente capaci di empatia (boni viri), cedono il giudizio etico alla logica di gruppo. Poiché la loro autoconservazione e identità dipendono dall’appartenenza (la fissità dell’io si trasferisce al noi), la soppressione della coscienza individuale è vista come un “sacrificio necessario” per il bene maggiore (e illusorio) del gruppo. Così l’effetto campo del gruppo amplifica l’illusione realista e corrobora il me in forma collettiva, aumentando il senso della sua forza e invulnerabilità.

Il groupthink è quindi la prova che l’errore ontologico (il sé fisso e separato) non è solo individuale, ma sistemico: il sistema premia chi condivide l’illusione di un “noi” contrapposto al “loro”.

Ponerologia e Ontologia a Confronto

La mia analisi non nega la Ponerologia, ma la radica e la spiega. Vediamola nel confronto con la mia teoria.

Ponerologia (Lobaczewski)

Si concentra sul come il Male si diffonde. Il meccanismo centrale è l’infiltrazione e l’influenza di personalità patologiche (psicopatici, ecc.) che creano una struttura di potere distorta e contaminano gli individui normali, portandoli al male per imitazione e conformismo.

Ontologia (La mia tesi)

Si concentra sul perché il sistema è vulnerabile all’infiltrazione. La vulnerabilità nasce dall’errore fondamentale sulla natura dell’Essere.

In sintesi, la Ponerologia descrive come i malvagi prendono il potere; La società è vulnerabile perché attrae e legittima la logica morbosa e perché le persone sane non sanno riconoscere i patologici e mancano di un sistema immunitario etico. Come soluzione, propone una sorta di igienizzazione mentale e politica, col riconoscimento e isolamento dei soggetti patologici.

Invece, la mia analisi ontologica spiega perché le strutture di potere sono intrinsecamente predisposte ad accogliere la logica malefica, a causa di una comprensione errata della realtà che è già accettata come “normale” dal mercato e dalle dinamiche di gruppo. La società è vulnerabile perché basata sul miraggio del me fisso e separato e della competizione per il controllo delle cose fisse – un miraggio che legittima quella logica. La soluzione è la “rettificazione” sopra delineata.

Siamo, con tanto, arrivati al cuore del problema, collegando direttamente l’errore epistemologico (l’irrealtà del me fisso e delle cose fisse) alle sue estreme conseguenze etiche.

La frase “La difesa ad oltranza dell’indifendibile perché irreale (il me fisso, le cose fisse) genera comportamenti mostruosi”, anticipata come sottotitolo, può essere analizzata come la formula causale del Male non sadico, vista in chiave ontologica:

  • L’Illusione (L’Irreale): La concezione che l’io sia un’entità stabile, separata e permanente (me fisso), e che la realtà esterna sia composta da oggetti definiti e conquistabili (cose fisse): questo è il presupposto di base della competizione e dell’autoconservazione egoistica.
  • La Difesa ad Oltranza: L’instancabile sforzo (politico, economico, militare) per mantenere in vita questa illusione. Poiché il “me fisso” e le “cose fisse” sono ontologicamente indifendibili (sono flussi e interdipendenze, come insegna il Buddhismo e l’Idealismo), la loro difesa richiede una quantità sproporzionata di violenza mentale e fisica.
  • Il Comportamento Mostruoso: L’inevitabile risultato. Quando l’obiettivo è difendere ciò che non esiste (l’identità separata), ogni mezzo è giustificato. I danni collaterali (la sofferenza altrui) diventano marginali, in quanto l’urgenza di preservare l’illusione del proprio essere o del proprio possesso eclissa ogni considerazione etica. L’indifferenza alla sofferenza diventa non un atto di sadismo, ma un imperativo logico generato dalla paura di vedere dissolta la propria (irreale) identità.

Questa dinamica spiega perché i comportamenti diventano “mostruosi” anche in assenza di sadismo:

  1. Vulnerabilità Intrinseca: Poiché l’io empirico separato è ontologicamente indifendibile e il possesso è instabile, si percepisce una minaccia costante. Questo genera una paranoia radicale che vede gli altri non come partner nell’interdipendenza, ma come concorrenti necessari per le “cose”.
  2. Escalation Logica: La difesa dell’irreale non può mai avere successo, e ciò porta a una spirale di richiesta di maggiore potere e controllo. Per difendere l’illusione del possesso e della permanenza, si è costretti ad agire con misure sempre più estreme, fredde e disumanizzanti, culminando in azioni che, dall’esterno, appaiono oggettivamente “mostruose”.
  3. Rinforzo Progressivo: Quanto più sento, penso e agisco all’interno del suddescritto paradigma illusorio, tanto più lo rafforzo in me, facendone un’abitudine e un automatismo mentale e comportamentale.

Occorre, insomma, una diagnosi profonda che vada oltre l’analisi morale o psicologica per identificare la radice della malvagità nel fraintendimento ontologico, della natura interdipendente della realtà.

Avanti i sadici!

Rimane un punto molto importante, dinamicamente e psicologicamente, da considerare: la difesa oltranzista dell’indifendibile recluta, seleziona e promuove difensori con determinati tratti di personalità…

Questo è il punto cruciale di connessione tra la mia analisi ontologica (l’errore matriciale) e l’analisi psicologica/ponerologica (l’applicazione pratica del Male): la difesa di un sistema basato sull’irreale non è anche un potente meccanismo di selezione del personale.

La difesa oltranzista dell’indifendibile (l’illusione del sé fisso e della scarsità competitiva) funge da filtro che recluta, seleziona e promuove individui che non solo accettano l’illusione, ma sono anche psicologicamente più adatti a operare al suo interno senza subire crisi di coscienza.

Il Filtro Psicologico del Sistema Illusorio

Il sistema (sia esso politico, economico o burocratico) che opera sulla base di una premessa irreale (l’ego separato come unica realtà) necessita di decisori che possiedano tre caratteristiche fondamentali:

1. Ridotta Empatia e Senso di Colpa (Tratti Psicopatici/Narcisistici)

Il sistema premia coloro che riescono a mantenere la distanza emotiva dalle conseguenze delle loro azioni, e a non vedere il ruolo di esse nell’insieme del meccanismo in cui sono inseriti (selezione dell’ottusità).

  • Necessità del Sistema: Poiché la logica del “me fisso vs. altri” richiede decisioni che arrecano danno (“ciò che è mio non è tuo” – “mors tua vita mea”), il sistema non può permettersi leaders con un alto grado di empatia o una coscienza morale normo-reattiva.
  • Selezione: Vengono promossi individui con tratti sub-clinici (non necessariamente sadici, ma egocentrici, machiavellici o con un lieve narcisismo grandioso) che possono razionalizzare il danno come “necessario” o delegare la colpa al sistema, al mercato, o alla concorrenza. Essi non si sentono “mostruosi” perché il loro filtro emotivo li rende indifferenti (la matrice del Male) alla sofferenza generata.

2. Rigida Coerenza Cognitiva e Conformismo all’Ideologia

La difesa di una premessa irreale (come l’illimitata crescita in un mondo finito, o l’assoluta sovranità dell’individuo) richiede una forte adesione dogmatica.

  • Necessità del Sistema: L’irrazionalità di base del sistema deve essere protetta da ogni disallineamento cognitivo. Chi mette in discussione le premesse (ad esempio, l’interdipendenza o la finitezza delle risorse) è percepito come una minaccia, un “nemico interno” o un debole.
  • Selezione: Vengono scelti individui che mostrano fedeltà cieca all’ideologia e alla gerarchia (sia essa di partito, aziendale o finanziaria) e una resistenza al pensiero critico o all’auto-riflessione. Questo è l’essenza del groupthink: il decisore ideale non è chi porta la realtà nel sistema, ma chi rinforza l’illusione condivisa.

3. Super-Identificazione con la Posizione e il Potere

L’illusione del “me fisso” viene proiettata e fissata nel ruolo sociale o economico.

  • Necessità del Sistema: La difesa dell’indifendibile richiede persone che confondano totalmente la propria identità con la carica che ricoprono.
  • Selezione: La promozione va a coloro per i quali il potere, la ricchezza e la posizione non sono strumenti, ma sostituti dell’io (l’identità irreale). La perdita di potere è percepita non come un cambio di lavoro, ma come l’annientamento dell’io. Per questo motivo, la difesa del proprio status e delle politiche che lo garantiscono diventa una lotta per la sopravvivenza ontologica, giustificando azioni sempre più estreme e difensive.

In conclusione, la difesa dell’irreale non solo scavalca o anestetizza l’empatia e la coscienza morale e rende inevitabile il “comportamento mostruoso”, ma attira selettivamente i caratteri psicologici che sono naturalmente meno ostacolati dall’etica e dalla realtà per realizzarlo. È una dinamica di rinforzo reciproco: l’errore ontologico struttura il sistema, e il sistema seleziona gli agenti ottimali per perpetuare e premiare l’errore stesso.

E con questo abbiamo chiuso il cerchio, accogliendo finalmente e a pieno diritto nella nostra analisi, dalla porta di servizio, i sadici, i narcisisti e gli psicopatici, che all’inizio avevamo lasciato fuori ad aspettare.

28.09.25 Marco Della Luna

Rudolf Von Jhering, La lotta per il diritto e altri saggi_a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Rudolf Von Jhering, La lotta per il diritto e altri saggi, Castelvecchi editore (traduzione di Roberto Racinaro, a cura di Pasquale Femia e Francesco Mancuso), € 21,00, pp. 254.

A leggere questa nuova edizione della traduzione (del 1989) di Roberto Racinaro di un classico del pensiero giuridico come Der Kampf um’s Recht occorre porsi alcuni interrogativi.

Il primo è: se il saggio di Jhering è uno dei libri giuridici più conosciuto (e pubblicato) degli ultimi centocinquant’anni, tradotto in una ventina di lingue, continuamente ripubblicato (Italia compresa) a che serve una nuova edizione? La prima risposta che si può dare è che i problemi lì affrontati (connaturati al diritto) sono  sempre attuali. Facciamo un esempio. Nelle prime edizioni del saggio, Jhering scriveva “Il concetto del diritto è un concetto pratico, cioè rivolto ad uno scopo, ma ogni concetto rivolto a uno scopo è configurato per sua natura dualisticamente, poiché racchiude in sé l’antitesi di scopo e di mezzo: non basta rendere noto semplicemente lo scopo, ma deve insieme essere fornito il mezzo, attraverso cui esso possa essere raggiunto”.

A chi rimproverava a Jhering di aver enfatizzato la litigiosità perciò rispondeva, nella prefazione del 1891 (non presente nell’edizione italiana precedente, neanche in quella del 1935, traduttore R. Mariano) “mi limito soltanto a rivolgere, a coloro che si sentono chiamati a farmi delle critiche, due preghiere. In primo luogo, che non facciano in modo di distorcere e snaturare le mie vedute, da farmi propugnare la lite e la lotta, l’amore di far liti e processi, mentre io non richiedo assolutamente la lotta per il diritto in ogni lite, ma solo là, ove l’assalto contro il diritto implica parimenti il dispregio della persona… L’arrendevolezza e lo spirito di conciliazione, la mitezza e la natura pacifica, la composizione amichevole e la rinunzia a far valere il diritto trovano anche nella mia teoria il posto che loro compete; ciò contro cui essa si pronunzia è unicamente l’umiliante tolleranza dell’ingiustizia che deriva da viltà, pigrizia, indolenza” e sottolinea il limite di opposte critiche “Cos’ha il dovere di fare chi si trova dalla parte del diritto, quando il suo diritto è calpestato? Chi può darmi al riguardo una risposta diversa dalla mia, ma tollerabile, cioè compatibile con il sussistere dell’ordinamento giuridico e con l’idea della personalità, mi ha battuto”; perché in attività (e problemi) pratici “per quanto riguarda i problemi puramente scientifici ci si può limitare a confutare semplicemente l’errore, anche se non si è in grado di sostituirvi la verità positiva, ma nel caso dei problemi pratici, ove è certo che un problema non può essere non trattato, e ove la questione è come debba essere trattato, non è sufficiente rifiutare come non giusta l’indicazione positiva data da un altro, ma la si deve sostituire con un’altra. Attendo che ciò avvenga riguardo all’indicazione da me fornita; finora, non sono stati compiuti in proposito neanche i primi passi”.

E nell’attualità abbondano quelli che Jhering chiamava i “Sancho Panza… i filistei del diritto”, ai quali conveniva l’espressione di Kant “chi si fa verme, non può lamentarsi se viene calpestato”: il  risultato delle loro condotte, di mancata coltivazione dei diritti soggettivi, è il venir meno del diritto oggettivo come il grande giurista ripeteva “La vita del diritto è lotta, una lotta dei popoli, del potere statale, degli individui.

Ogni diritto nel mondo è stato conquistato, ogni massima giuridica ha dovuto dapprima essere strappata con la lotta a coloro che le si opponevano, e ogni diritto, il diritto di un popolo come quello del singolo individuo, presuppone la disposizione continua alla sua affermazione. Il diritto non è un concetto logico, ma un concetto di forza… La spada senza la bilancia è la cruda violenza, la bilancia senza la spada è l’impotenza del diritto… Il diritto è un lavoro ininterrotto e cioè non è soltanto un lavoro che riguardi il potere dello Stato, ma tutto il popolo. L’intera vita del diritto, vista con uno sguardo d’insieme, ci offre l’immagine di un infaticabile lavorare e lottare… Ogni singolo che si trova nella situazione di dover affermare il suo diritto, svolge la sua parte in questo lavoro nazionale, offre il suo contributo alla realizzazione dell’idea del diritto sulla terra”. Che quello stigmatizzato da Jhering sia l’andazzo prevalente nell’Italia del XXI secolo è evidente.

La ripetuta formulazione di leggi che rendono difficoltosa e onerosa l’esecuzione di sentenze, soprattutto nei confronti delle pubbliche amministrazioni ne è la componente saliente. Così come è trascurato quello che sosteneva Jhering, che il diritto è un lavoro di tutto il popolo e non solo (e non tanto) del potere dello Stato. Tanto più quando questo è strumento per l’approvazione e il mantenimento di una classe dirigente decadente: e proprio perciò propensa, come scriveva Pareto, a far uso della furbizia piuttosto che della forza.

La seconda questione è la capacità di Jhering di coniugare versanti spesso contrapposti, o quanto meno distinti, in una sorta di complexio oppositorum e così diritto soggettivo ed oggettivo, forza e diritto, norma ed eccezione.

Lunità dei quali, o quanto meno la loro coincidenza e sinergia è trascurata o negata.

Gli è che Jhering come scrive in “Das Zweek im Recht” ritiene che scopo del diritto sia la vita (collettiva ed individuale) e in ciò manifesta molti punti di contatto con altri giuristi, a cominciare da Hauriou e Santi Romano. E’ un vitalismo giuridico che vede nella norma lo strumento dell’ordine della (e nella) vita comunitaria (come nella metafora della scacchiera di Romano).

Un cenno, prima di terminare queste note. Jhering rileva che nel “Mercante di Venezia” Shylock lotta per il proprio diritto, che è, a un tempo, quello di Venezia, come afferma il mercante. A fronte di tale domanda “Il giudice aveva l’alternativa di ritenere valida oppure non valida la cambiale”. Tuttavia “dopo che è stata pronunciata la sentenza del giudice, dopo che è stato fugato dal giudice stesso ogni dubbio sul diritto dell’ebreo, non si osa più contraddire tale  diritto… lo stesso giudice, che ha riconosciuto solennemente il suo diritto, glielo rende vano con una scusa, con una malizia così meschina e vergognosa, che non merita alcuna seria critica… egli deve prendere soltanto carne senza sangue e deve tagliare solo una libbra determinata, né più né meno”.

Porzia così vanifica il diritto di Shylock non con l’argomento forte della nullità del contratto per “illiceità della causa” (o illiceità in genere) ma con un espediente da causidico di mezza tacca. E, nell’opera di Shakespeare, anche il Doge ritiene di non poter cambiare la legge di Venezia e la sentenza che la applica. In un altro capolavoro teatrale come il Tartuffe di Molière, la conclusione è inversa, perché il rapporto tra legge ed autorità politica è cambiato. Nello Stato  assoluto di Luigi XIV è l’occhio vigile del Sovrano, il quale cassando la sentenza pronunciata legalmente dai giudici (ingannati da Tartuffe) salva Orgon e la sua famiglia. Ma lo fa senza espedienti, senza ipocrisia, sicuro della propria autorità e decisione.

Come scrive Schmitt a proposito dell’Amleto, in Shakespeare c’è una rappresentazione pre-statuale (cioè pre-moderna) della realtà mentre nella commedia di Moliére, c’è un nuovo protagonista: la monarchia assoluta. E di conseguenza lo Stato sovrano, il quale oggi appare in calo di sovranità (e abbondanza di espedienti).

Teodoro Klitsche de la Grange

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Dalle feste ai follower privati_di Spenglarian Perspective

Dalle feste ai follower privati

spenglarian perspective 2 ottobre
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Il post precedente ha trattato di come gli stati cedano il passo ai partiti, che rappresentano la principale forma di leadership minoritaria durante la transizione alla civiltà. Gli stati sono unità inconsce di leader, coltivate dalla razza, mentre i partiti sono gruppi di intellettuali che si uniscono con un piano elaborato consapevolmente per plasmare idealisticamente la società. Quest’epoca di partiti dura circa 200 anni prima di sfociare nel cesarismo. Questo post ne documenterà il crollo.

La fine della democrazia e l’ascesa del cesarismo non sono indicate dalla scomparsa dei liberali e dei conservatori, ma dalla scomparsa dei partiti come forma di politica. I partiti sono caratterizzati dai loro sentimenti, dall’attenzione popolare e dagli ideali astratti, ma vengono gradualmente sostituiti da un seguito personale. Questo seguito può emergere, e di solito emergerà, inizialmente nel contesto di un partito, ma col tempo crescerà oltre la necessità di fingere di esserlo. Una classe dirigente ha istinti che la spingono ad affermare il simbolo della nobiltà, un partito ha un programma che la motiva a rendere il mondo un posto migliore, ma un seguito ha un maestro il cui carisma guida il gregge; l’elemento chiave in questo caso è il riemergere di una politica basata sulla lealtà.

Il primo esempio a Roma di un seguito organizzato fu Scipione il Giovane (185-129 a.C.). Il “Circolo Scipionico” o “Cohors Amicorum” comprendeva filosofi, poeti e giovani aristocratici amici o ammiratori di Scipione, e fu una delle prime organizzazioni di questo tipo in un’epoca in cui la struttura partitica dei Populares e dei Patrizi stava sgretolandosi. Questo avvenne anche in concomitanza con le riforme agrarie di Tiberio Gracco, che furono promosse e distrutte proprio sotto la sua guida.

Spengler contrappone questo nella nostra civiltà all’emergere di club e comitati elettorali americani all’inizio del XX secolo , ma se ci prendiamo la libertà di considerare il declino dell’Occidente, l’apice della carriera di Scipione e Gracco fu il 146 a.C. e il 133 a.C., che corrispondono al periodo della civiltà faustiana, rispettivamente il 2004 e il 2017, se si considerano gli inizi di entrambi i periodi della nostra civiltà (350 a.C. e 1800 d.C.). Donald Trump si è infiltrato nel Partito Repubblicano e, con la sola personalità, ha conquistato il Partito Repubblicano e ne ha cambiato il metodo di approccio. Nigel Farage nel Regno Unito ha condotto una campagna elettorale per diversi partiti senza riguardo per un programma, pur di perseguire i propri interessi. Ha quasi abbandonato la politica britannica finché non ha iniziato a emergere il movimento riformista, dove si è infiltrato anche lui. Al momento è divertente considerarli momenti storici, ma saranno ricordati così per le loro sfide dirette, non solo ai dogmi dell’establishment, ma anche alla struttura del partito. Questo senza menzionare l’enorme cultura degli influencer su Internet, dove chiunque abbia un microfono può raggiungere i vertici del potere grazie al numero dei suoi “follower”.

Questi quattro personaggi sono “pre-Cesari”. Si può dire che minino la democrazia, ma in realtà sono la democrazia nella sua forma più pura. La loro opposizione è sempre rappresentata dagli idealisti che vedono il loro ottimismo distrutto dalla durezza della storia, da qui la posizione dei Democratici come rappresentanti di un governo burocratico senza leader che bilancia il potere esecutivo.

L’era della politica di partito è un’era di teoria politico-sociale: piani e manifesti di partito per organizzare il mondo come dovrebbe essere. In Occidente abbiamo una linea di teoria sociale che va dall’Illuminismo, come Rousseau, all’età del materialismo spirituale, come Marx, che corrisponde alla linea da Platone a Zenone in Grecia. Queste teorie possono essere dibattute in termini di verità che postulano, ma nel contesto politico servono solo a organizzare un repertorio di slogan e grida di battaglia per movimenti ideologici che necessitano di armi efficaci. Possiamo discutere della teoria del valore-lavoro o dell’esistenza dei valori giudaico-cristiani, ma la sua applicazione pratica sarà sempre diversa da come appare nel dibattito accademico.

L’era della politica di partito è l’età dell’oro di idee come libertà, giustizia, umanità comune, progresso e, soprattutto, verità come strumenti efficaci nel discorso politico. Questo riserva la politica alla popolazione istruita e urbana. Sulla classe contadina non ha alcun effetto di default, e l’effetto che ha sugli abitanti delle città è limitato al lasso di tempo in cui le persone diventano apatiche all’idea che verità e giustizia possano manifestarsi nella sfera politica. Questo lasso di tempo dura circa due secoli prima che le persone gestiscano la situazione così com’è, anziché come dovrebbe essere .

All’inizio, abbiamo la follia dell’idealismo che porta le nazioni nelle mani di figure napoleoniche, come la Siracusa di Platone che cade in grembo a Dionisio I e la tirannia francese che cade in grembo al Direttorio francese e al Consolato di Napoleone. Dopo duecento anni di tentativi ed errori, il risultato finale è un ateismo verso le idee come qualsiasi tipo di miglioramento della politica. Dopo il II secolo a.C. – nell’età dei Cesari, dei Pompeo e dei triumvirati – solo il potere personale contava fino alla fine della storia della civiltà.

Spengler notò che ai suoi tempi non esisteva un vero successore del marxismo o del nazionalismo. Non spiegò l’ascesa delle tirannie ideologiche nel XX secolo , ma sia la Germania che la Russia dimostrarono la loro condizione temporanea prima che le ambizioni comuniste di quest’ultima si dissolvessero in un sobrio stato di sicurezza.

Grazie per aver letto Spenglarian.Perspective! Questo post è pubblico, quindi sentiti libero di condividerlo.

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L’Araba Fenice_di WS

Questo  pur condivisibile  commento di Massimo Morigi mi ha spinto  a     domandarmi : ma cosa è la “democrazia” ? E  a CHI  serve  e per cosa ?

Innanzitutto  deve  essere  chiaro  che la “democrazia” con  cui  noi  siamo  cresciuti  è un accidente  della Storia     confinato  al solo   mondo “occidentale”.  Altre  civiltà  hanno loro  peculiarità  e  i loro  meccanismi  di  “ratifica  popolare” che la  nostra “democrazia”  altro non è.

 Infatti nella eterna “lotta di classe” tra” chi deve lavorare per poter vivere (peggio) e chi può vivere (meglio) senza dover lavorare”, il  potere politico apparterrà sempre a questa   ultima classe perché  solo  essa ha il tempo e i mezzi  per fare politica.

 E questo è un concetto banalissimo già  chiaro ne “la democrazia in Atene” scritta da un “Anonimo Ateniese”  quattro  secoli prima di Cristo e come   tale anche il primo libro di politica mai scritto.

Questa ” classe”  che non ha necessità di lavorare, allora si potevano chiamare gli “Ottimati” , si impadronisce  sempre  e inesorabilmente di tutto il potere e di tutte le ricchezze, salvo laddove UNO di LORO , un “autarca”, si impadronisca del potere  assoluto  appoggiandosi alla ” classe lavoratrice” , ovviamente a sua volta  SCONTENTA di essere  completamente  espropriata  del suo.

Il quale “autarca” spesso poi si faceva “re” e lasciava il potere ad un figlio generalmente non all’altezza del padre, provocando di nuovo una  rivolta “popolare” astutamente   guidata  dagli “ottimati” per riprendersi il potere.

In “occidente”, nel mondo antico,  la  politica  ha sempre oscillato tra questi due sistemi salvo due “luminose”  eccezioni : Atene e Roma, le quali hanno prodotto due diverse ” democrazie”.

Ma che cosa è   “la democrazia “?  Nella sostanza  essa è solo il metodo con cui l’ elite verifica il consenso popolare rispetto alle PROPRIE decisioni .

 Questo ” mercato” è tutt’altro che “libero”;  “la democrazia” però funziona meglio, quando funziona, della semplice autarchia  e della ” dittatura degli ottimati” semplicemente perché, concedendo dei ” diritti politici inalienabili alla “classe lavoratrice”, ne mobilita maggiormente le energie che con le  esemplari bastonate  usate dalle altre  due.

 E qui occorre spiegare, a chi fosse interessato, la differenza tra le due “democrazie” sopra citate .

La democrazia ateniese era semplicemente la concessione DIRETTA di tutti i diritti politici alla massa dei cittadini ateniesi, i quali erano quindi obbligati comunque a perdere tempo per far politica; in mancanza del quale lasciandone il monopolio agli “Ottimati” .

Per MITIGARE questo problema fu introdotta una democrazia rappresentativa in cui gli “eletti” DIRETTAMENTE dalle assemblee ricevevano una paga per tutta la durata dell’ incarico. Probabilmente questa è stata la ” democrazia” più “democratica”, ma  con un limite “fisico”  così posto  all’espansione dello Stato Ateniese, perché  solo un ridotto numero di cittadini poteva partecipare “fisicamente “alle assemblee.

 Roma invece “coinvolse” la massa dei cittadini solo attraverso una “democrazia rappresentativa ” che non aveva questo “limite di crescita”.

La repubblica romana era quindi molto più “inclusiva” ma la sua direzione politica rimase invece sempre  completamente “aristocratica ” in quanto solo i “ricchi” potevano servire “gratuitamente ” lo stato; non c’era però preclusione a nessun cittadino che ne avesse i mezzi, spesso guadagnati, immaginate come, “servendo” lo stato in guerra nei livelli  di potere  sottostanti.

Si trattava quindi di un “patto tra “popolo ” e “elite” guidata da una oligarchia “aperta ad una “scala sociale”offerta al “populus”. 

 Quando questo famoso SPQR fu rotto dagli “Ottimati”, anche “la democrazia” Romana andò in pezzi, ma la lotta  POLITICA fu interna all’elite,  tra ” senatores” ( aka vecchia elite) ed “equites ( quella nuova ) a cui veniva precluso ciò che prima era permesso.

Bene , quale è il senso di questo mio “pippone”? Anche “l’ occidente” si è sviluppato sullo schema della Repubblica Romana e anche qui “il patto ” è ora  stato rotto dagli “Ottimati” ( i senatores) e su questo anche la attuale “classe lavoratrice ” OVVIAMENTE  non è d’accordo.

  Ed è inevitabile che, come nella tarda repubblica Romana , i “meccanismi” elettorali  ora siano sempre più manipolati da “Senatus” contro gli interessi  del “Populus “, con il risultato che “la repubblica” va in pezzi precipitando  giù  dai  suoi   fasti , finché , dopo tanto sangue e tanta ingiustizia, un “senator” prende  tutto  il potere  per  sé  appoggiandosi sui “populares”.

Ma gli “attuali “Ottimati”  della   “tardorepubblica”   in cui  stiamo vivendo  sono convinti che grazie a nuove schiaccianti tecnologie “stavolta sarà diverso” .

Bah ! Forse stavolta sarà così, ma chi può  saperlo ?

 L’ unica cosa sicura è che comunque “la democrazia ” nei fatti non esisterà più e che magari passerà un millennio prima che qualcuno si reinventi una “democrazia  diretta  “ alla  ateniese” e forse un altro ancora ce ne vorrà per una  più sofisticata, “alla romana”.

Insomma   “democrazia “ come  “rara  avis”   che  risorge   dalle  sue  ceneri  come  “l’  Araba  fenice” .

Anche  della   “ democrazia”   tutti  dicono  che  ci  sia ,  ma dove  veramente sia nessun lo  sa.

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GIANFRANCO LA GRASSA ci ha lasciati

Gianfranco La Grassa è morto giovedì scorso, 25 settembre. Appena otto mesi fa avevamo festeggiato a Conegliano i suoi 90 anni. Le sue chiavi di interpretazione delle dinamiche geopolitiche e sociali sono state la scintilla determinante che ha consentito nuovi approcci più adatti e idonei alla comprensione della complessità del mondo. Le voci che ne hanno colto appieno l’importanza sono poche, ma esistono. Conflitti e strategie e l’Italia e il mondo sono, probabilmente, l’esperimento editoriale più compiuto ispirato al suo pensiero. Manca, purtroppo, una espressione politica adeguata e conseguente, ancora ben di là da venire rispetto alla drammatica accelerazione delle dinamiche in corso. Lo ricordiamo in uno dei suoi ultimi momenti di spensieratezza. Sulla sua opera avremo modo di riflettere più in là_Giuseppe Germinario

ID digitale una volta e futuro_di Morgoth

ID digitale una volta e futuro

Un compendio di scritti e video-saggi su tecnocrazia, identità digitali e sorveglianza.

Morgoth26 settembre
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Ho un rapporto imbarazzante con le identità digitali come argomento di discussione all’interno dello zeitgeist. Vengo accusato allo stesso tempo di essere un tecnofobo paranoico che fa storie e si fa prendere dal panico per niente, e allo stesso tempo mi vengono dati complimenti per la mia lungimiranza. La verità è che probabilmente dovrei dare la proverbiale “L” alle identità digitali perché pensavo che fossero imminenti durante il COVID e che, in effetti, le identità digitali sarebbero state la rampa di accesso. Niente di tutto questo è successo. L’intera saga del COVID è stata cancellata dalla memoria, e con essa si sono accumulate molte speculazioni e teorie.

In una certa misura, comunque. Era ovvio nel mondo reale che la rete di sorveglianza digitale si stesse sviluppando, anche se per nessun altro motivo se non perché era semplicemente più facile ed efficiente per le persone usare i propri telefoni per tutto piuttosto che armeggiare con carte e documenti. La mia analisi originale dello stato di sorveglianza digitale si basava su ” Sul potere” di Bertrand de Jouvenel . La struttura del potere avrebbe spinto per più intrusioni, più dati e più sistemi di tracciamento semplicemente perché è nella natura intrinseca del potere espandere se stesso e il proprio mandato.

L’espansione della rete digitale come fenomeno emergente potrebbe protrarsi fino a quando la regolamentazione o la capacità tecnologica non consentiranno a Power di formalizzare il proprio controllo.

E ora lo Stato britannico ha annunciato formalmente che l’ID digitale sarà reso obbligatorio, e tutti sono in rivolta. La destra è arrabbiata perché sa che lo Stato li odia, i Britliberali sono arrabbiati perché pensano che verrà usato come strumento razzista contro le minoranze. La sinistra più estrema è furiosa perché il Tony Blair Institute e i suoi miliardari donatori sono dietro l’iniziativa. Alcuni liberali vecchio stampo si oppongono perché è illiberale. Ci sono anche dubbi sulla fattibilità stessa dell’implementazione dell’ID digitale, dato che il governo laburista è profondamente impopolare.

Ho sempre sospettato che il ruolo di Keir Starmer fosse quello di risolvere alcuni problemi chiave, al diavolo la popolarità. Come un rapinatore di banche che entra dalla porta principale, sparando a raffica, invece di aggirarsi furtivamente nel cuore della notte.

Dato che è probabile che questo argomento dominerà il dibattito nel Regno Unito nel prossimo futuro, ho deciso di incorporare alcuni dei miei vecchi video e saggi in questo post prima di proseguire.

Nel 2023, ho partecipato alla Conferenza Witan e ho tenuto il mio primo discorso pubblico, di persona, sul tema delle identità digitali, della sorveglianza e del loro potenziale da incubo. Ironicamente, questo è il discorso che mi ha portato a essere doxato proprio perché la sorveglianza digitale è già così avanzata.

Il discorso è qui.

Non se ne parla abbastanza, ma l’Online Harms Bill si inserirà perfettamente nell’ID digitale sotto forma di verifica dell’età.

Brevi riflessioni
La super arma di censura del governo britannico è operativa
Morgoth·27 marzo
La super arma di censura del governo britannico è operativa
Mi sento in dovere di scrivere un breve post in occasione dell’entrata in vigore del disegno di legge sui danni online del governo britannico. Ho passato gli ultimi anni a guardarlo zigzagare e insinuarsi tra procedure legislative, riscritture, rebranding e dibattiti, con un senso di inutilità e inevitabilità predominante. La gestazione è finita e l’abominio si è concretizzato…
Leggi la storia completa

In questo video saggio ho esplorato il modo in cui la tecnologia digitale crea un’esperienza reale basata sul gioco.

Come la tecnocrazia mina le fondamenta del liberalismo.

Verso l’Occidente post-liberale
Morgoth·27 luglio 2022
Verso l'Occidente post-liberale
Di recente, un paio di questioni apparentemente distinte hanno attirato la mia attenzione e, a prima vista, non sembravano avere nulla in comune, ma a un esame più attento hanno molto in comune. Entrambe hanno qualcosa da dire sulla nostra situazione attuale e su dove stiamo andando.
Leggi la storia completa

Quali sarebbero gli incentivi di un sistema di credito sociale “woke”, in contrasto con quello cinese.

In questo caso, considero il localismo come una potenziale salvaguardia allo stato di sorveglianza tecnocratica.

Non dubito che il mio portfolio di contenuti sullo stato di sorveglianza tecnocratica aumenterà ora che l’ID digitale ha finalmente ricevuto il via libera. La mia prima impressione è di sorpresa per l’indignazione e l’opposizione diffuse.

Sarà sufficiente? Vedremo.

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La polisdinamica_di WS

Gli amici Ernesto e Donato Zero nei loro commenti ad un mio precedente post sollevano considerazioni sensate che anch’io talvolta faccio tra me e me. Eviterei però i facili ottimismi perché l’ esempio della rapida “natoizzazione” dell’ucraina dovrebbe ammonirci tutti.

Alzi la mano , infatti, chi poteva 10 anni fa prevedere che in solo dieci anni sarebbe stato possibile mandare milioni di ucraini , per di più sempre più poveri e disperati , a morire per LORO contro i russi !

Tutte le passate teorie politiche non sono in grado di spiegarlo; hanno sempre sopravvalutato sia il “libero arbitrio” del singolo che l’ “economicismo” delle pulsioni umane. Le masse invece sono sottoposte anche ad altre forze che non vengono mai considerate,

Mi si perdoni qui pertanto l’ardire di un mio “discorso sul metodo” su un argomento, la politica, che è tutt’altro che “scientifico” e lo farò con un opportuno paragone scientifico.

Ad esempio, come si fa a valutare la dinamica di un sistema complesso ben sapendo che l’enorme massa di elementi che lo compongono sono non “misurabili” in modo accurato?

E chiaro che nella sostanza noi chiamiamo politica quella che in modo più corretto dovremmo chiamare “dinamica della polis “ e che questa “polisdinamica” richieda lo stesso approccio che fu usato in fisica per misurare gli effetti del “ calore” su un sistema assolutamente indescrivibile in modo puntuale con le leggi della meccanica.

Noi dovremmo cioè contentarci di trattare la “ polisdinamica” come fu necessario fare con la “termodinamica”, con la differenza che chi studia la trasformazione di un sistema termodinamico è un osservatore esterno mentre noi cerchiamo di “divinare” la “polisdinamica” da “l’interno”, mentre essa agisce su di noi , non solo come la termodinamica fa sulle singole molecole del sistema , ma essendo noi pure “corpi vivi”, in grado quindi di reagire alla dinamica che tutti ci trascina.

Insomma la società umana non è un “gas perfetto” ma un “ gas vischioso”, internamente comprimibile e dotato di un proprio moto come somma del “moto proprio” di tutti gli elementi.

Quindi che cosa possiamo valutare noi “molecole vive” nel “ gas umano” in cui siamo localmente immersi ? L’agitazione locale (aka temperatura), la densità locale e la pressione anchessa locale a cui veniamo sottoposti; ma non possiamo considerare le nostre misure “locali” come valide in tutto il sistema.

Naturalmente, poi, essendo “vivi” possiamo reagire al moto che ci trascina e cercare anche di sfuggirgli in modo coordinato o personale ma non oltre un certo limite in quanto la nostra personale “energia libera” è infima rispetto al “ calore” complessivo del sistema. Le possibilità di coordinamento sono fortemente influenzate da chi può e vuole operare la “transizione del sistema”.

Quindi c’ è una sola cosa che noi “molecole vive” possiamo misurare onde prendere le nostre piccole decisioni: la “velocità” della trasformazione a cui siamo sottoposti una volta che abbiamo capito dove LORO ci vogliono portare.

Sapendo infatti questo, noi possiamo solo tentare di valutare quanto tempo ci manca affinché LORO ci portino con la LORO pressione al NOSTRO “punto critico” di “temperatura”, “ densità” e “pressione” atta alla trasformazione IRREVERSIBILE da LORO decisa. Ad esempio: ammazzarci tutti?.

Ed è questo in fondo il nocciolo della nostra discussione.

Ora è indubbio che la “velocità” della LORO AGENDA rallenti. La “trasformazione” per vari motivi non segue la LORO “ “time table”. La “temperatura” è effettivamente salita, ma questo era voluto; la densità pure, voluto anche questo; ma il sistema è sempre meno “adiabatico” .

C’è un imprevisto “esterno” al sistema con perdite di calore impreviste verso questo “ esterno”. Se LORO vogliono arrivare comunque alla trasformazione da LORO decisa, devono ora aumentare la pressione rinforzando le pareti della caldaia perché così c’è il rischio che scoppi.

Ma la “ velocità” rallenta sufficientemente? Siamo sicuri che “la temperatura” e “la densità” che noi personalmente percepiamo come intollerabile lo sia anche per tutti gli altri? Io vedo solo che per noi “€uromolecole” la pressione non cala e che temperatura e densità aumentano ancora più velocemente, come aumentano sempre più le pareti che ci confinano .

Si forse poi LORO non riusciranno a raggiungere la trasformazione irreversibile che si erano prefissi, ma se ciò avvenisse per lo “scoppio della caldaia”, noi siamo “morti “ lo stesso perché noi non siamo molecole di gas.

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Un’Europa delle nazioni?_di Aurelien

Un’Europa delle nazioni?

Ancora una volta.

Aurelien24 settembre
 
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Dopo la discussione della scorsa settimana sulla cooperazione politica su piccola scala e basata sugli interessi a livello nazionale, ho pensato che potesse essere interessante passare al livello internazionale, dove comunque c’è molta confusione sulle attività politiche multilaterali e transnazionali e sul loro significato. Oggi mi concentrerò in particolare sull’Europa e sostengo che probabilmente assisteremo a uno spostamento dell’influenza e del potere politico dalle istituzioni agli Stati nazionali. Cercherò di spiegarlo facendo riferimento ad altri accordi e istituzioni del passato e del presente. Alcuni lo considererebbero pericoloso e persino spaventoso: io tenderei a considerarlo necessario e comunque inevitabile.

L’anno scorso ho scritto un lungo saggio sul funzionamento (o malfunzionamento) delle istituzioni internazionali, e non ripeterò tutto qui. Ma il ragionamento alla base di quel saggio, anche se non l’ho approfondito nei dettagli, si basava sul principio di quella che io chiamo integrità istituzionale. Questa espressione dal suono pretenzioso significa semplicemente che le istituzioni di successo, a qualsiasi livello, hanno diverse caratteristiche: devono servire a uno scopo ed essere strutturate in modo da perseguire tale scopo e soddisfare le aspirazioni di coloro che hanno fondato l’organizzazione e di coloro che, in teoria, dovrebbero beneficiare del suo lavoro. Se questo sembra elementare, beh, lo è, ma come molte cose elementari viene trascurato nella fretta. Cominciamo con alcuni brevi esempi storici di come le cose sono andate bene e male, per aiutarci a capire dove siamo ora.

Di solito è buona norma che qualsiasi tipo di cooperazione scaturisca naturalmente da esigenze e vantaggi reciproci: in effetti, è così che hanno avuto inizio, in un lontano passato, forme piuttosto sofisticate di cooperazione internazionale informale. Ad esempio, risulta che migliaia di anni prima che Romolo uccidesse Remo esistessero già sofisticate relazioni commerciali in tutto il Mediterraneo. E a questo proposito, gli stessi discendenti di Romolo commerciavano intensamente con altre parti del mondo, tra cui la costa orientale dell’Africa e persino l’India. Ciò richiedeva l’instaurazione di contatti diplomatici con corti e regni dall’Africa al Golfo Arabico fino ad alcune parti dell’India. (È utile ricordare che il potere e l’influenza romani non sempre si diffusero attraverso semplici conquiste e stermini.)

Queste reti commerciali, insieme a molte altre, sono state create e hanno poi prosperato semplicemente perché servivano a uno scopo utile. Non si trattava di “commercio” nel suo stupido senso ideologico moderno, in cui le nazioni scambiano beni identici cercando di battere l’una l’altra sul prezzo. Si trattava di commercio nel senso originario del termine, in cui io scambio ciò che ho e che tu desideri con ciò che tu hai e che io desidero. Al contrario, molte strutture e istituzioni moderne che si occupano di commercio (l’OMC ne è l’esempio più evidente) vedono chiaramente l’espansione del commercio come un bene assoluto e indiscutibile in sé, indipendentemente dal fatto che ciò porti o meno a risultati concretamente utili. L’aumento degli scambi commerciali tra due paesi viene inevitabilmente presentato come una cosa intrinsecamente positiva, indipendentemente dal fatto che i beni scambiati soddisfino effettivamente un’esigenza definita che in ciascun caso l’altro non può soddisfare a livello nazionale. Ecco un semplice esempio di un’organizzazione che ha perso la sua strada.

Passando dal commercio, storicamente, le singole nazioni e poi gli imperi sono cresciuti grazie all’espansione territoriale. Una volta stabilito un centro di potere, i suoi governanti cercavano di portare sotto il loro controllo le aree adiacenti. Ciò generava nuove risorse che rendevano l’entità originaria più ricca e potente, consentendo a sua volta un’ulteriore espansione. Questo effetto è visibile non solo nella crescita delle nazioni (la Francia ne è un buon esempio), ma anche nella crescita degli imperi, che fino a poco tempo fa erano di gran lunga la forma di governo dominante nella storia. Un’analisi time-lapse dell’espansione e del declino degli imperi persiano, romano, asburgico o ottomano lo dimostra molto chiaramente. E naturalmente gli imperi finirono per scontrarsi tra loro, come gli Ottomani e gli Asburgo, o semplicemente incontrarono avversari particolarmente forti, come fecero i Persiani con i Greci, con conseguenze politiche di vario genere.

A volte, come nel caso dei Romani e dei Persiani, il metodo di governo era una gestione centralizzata con governatori imperiali e guarnigioni militari. A volte, come nel caso degli Asburgo, l’Impero era tanto il risultato di alleanze matrimoniali quanto di conquiste militari. E in Africa, dove la densità di popolazione era bassa, uno Stato più forte riuniva intorno a sé Stati tributari più deboli, e talvolta li saccheggiava per procurarsi schiavi e altre merci. Ma in tutti questi casi, possiamo ragionevolmente affermare che il principio dell’integrità istituzionale era rispettato e che esisteva una certa relazione tra l’espansione degli imperi, la capacità di generare forza e gli obiettivi dei governanti. (Ci sono sempre delle eccezioni, naturalmente: ad Alessandro Magno è stato diagnosticato postumo un disturbo narcisistico di personalità, ed è sorprendente che il suo impero, che sembrava non avere alcuna logica di fondo se non il suo desiderio di conquista, sia crollato dopo la sua morte).

Gli imperi d’oltremare erano ovviamente una questione diversa, non da ultimo perché la loro fondazione richiedeva ingenti somme di denaro e risorse, oltre a notevoli capacità logistiche e di trasporto. Fortunatamente, forse, i Romani non erano in grado di trasportare un esercito in India. Naturalmente, i primi paesi a fondare possedimenti d’oltremare furono potenze marittime: prima la Spagna e il Portogallo, poi i Paesi Bassi. Gli obiettivi erano molteplici e troppo complessi per essere approfonditi in questa sede, ma certamente riguardavano il commercio, l’accesso alle ricchezze minerarie e, in alcuni casi, la diffusione del cattolicesimo. È forse interessante notare che i due imperi rovesciati dagli spagnoli, quello azteco e quello inca, erano entrambi basati su un sistema tributario ed erano entrambi in declino all’epoca.

Se guardiamo un’utile mappa di Wikipedia del mondo nel 1700, vediamo in gran parte i modelli tradizionali di espansione organica. Il mondo è costituito principalmente da imperi tradizionali (Safavide, Moghul, Qing, Ottomano, Russo e imperi minori in Africa), anche se gli imperi d’oltremare stanno facendo una timida e modesta comparsa. Ma nella maggior parte dei casi, tutto ciò che possiamo vedere è una “presenza” europea minima, legata principalmente al commercio e limitata in gran parte alla costa. Solo nelle Americhe ci sono aree apprezzabili “rivendicate” dalle potenze occidentali, e anche in questo caso solo quelle vicine al mare. La situazione coloniale si era sviluppata solo in misura marginale entro il 1800. Ciò era logico, date le tecnologie e gli obiettivi politici dell’epoca, ed era esattamente parallelo alla diffusione dell’Islam e all’influenza degli Stati del Golfo lungo la costa orientale dell’Africa, che riguardava tanto il dominio politico e la diffusione del diritto commerciale islamico quanto la conquista.

Anche a metà del XIX secolo, con l’Impero Ottomano ormai in declino e i nuovi Stati indipendenti dell’America Latina che stabilivano i propri confini, l’attenzione era ancora rivolta al commercio e alla posizione strategica. La Colonia del Capo, originariamente fondata dagli olandesi per sostenere il loro commercio con l’Oriente, fu conquistata dagli inglesi come base navale durante la guerra napoleonica, e gli afrikaner si spostarono verso nord e verso est per sfuggire agli inglesi e alle loro idee politiche liberali. A parte questo, l’unica presenza straniera in Africa era quella degli Ottomani nel nord e alcune minuscole enclavi costiere europee sparse altrove. Non a caso, l’Africa della seconda metà del XIX secolo era considerata in Europa misteriosa quanto la Luna. Nel frattempo, per gran parte del secolo l’Australia era solo una colonia penale. I francesi conquistarono il territorio che oggi conosciamo come Algeria agli ottomani nel 1830, ponendo fine alla pirateria e alla tratta degli schiavi in Europa, che era stata un problema nel Mediterraneo per secoli. Ma la logistica di ciò non era complicata.

Il contrasto tra la situazione dell’Africa nel 1880 e quella alla vigilia della prima guerra mondiale è così estremo che a prima vista sembra incomprensibile. Ma ci sono delle ragioni, anche se alcune sembrano bizzarre, che hanno portato le principali potenze europee ad allontanarsi progressivamente dai modelli di rotte commerciali e presenza strategica che erano durati per migliaia di anni, verso una vera e propria mitologia imperiale e una competizione per lo status che alla fine nessuna di esse poteva permettersi. È un altro esempio del luogo comune secondo cui nulla ha successo nella politica internazionale come una pessima idea ripresa da una grande potenza.

Poiché questo saggio riguarda le istituzioni, non mi soffermerò sui dettagli delle pressioni che hanno portato alla massiccia espansione degli imperi negli ultimi decenni del XIX secolo. (È possibile leggere informazioni sul contesto storico più ampio del Regno Unito qui e della Francia qui). In entrambi i paesi esisteva un “partito coloniale” che in entrambi i casi comprendeva elementi diversi e contrastanti: idealisti, religiosi, nazionalisti, strategici, militaristi, competitivi, speranzosi di guadagni economici e una classe media di recente alfabetizzazione e intensamente patriottica. (Non c’è da stupirsi che gli storici popolari non siano riusciti a imporre una narrazione globale).

In Gran Bretagna, l’imperialismo rappresentò una rottura significativa e controversa con la tradizione liberale, che preferiva il commercio alla guerra e sosteneva (a ragione, come si è poi dimostrato) che se si era interessati alle materie prime, era più utile mantenere buoni rapporti con i produttori piuttosto che cercare di occupare il loro paese. Infatti, fino alla fine del XIX secolo, nella politica britannica il termine “Impero” indicava l’Australia, la Nuova Zelanda, il Canada e forse la Colonia del Capo. (L’India era stata britannica per così tanto tempo che non era nemmeno considerata una colonia). D’altra parte, però, gli stessi liberali erano fortemente influenzati dal movimento evangelico, politicamente potente, per il quale la colonizzazione era un dovere sacro, al fine di abolire la schiavitù, diffondere la Parola di Dio e stabilire ciò che oggi chiameremmo buon governo. (In Francia, l’equivalente era l’ideologia repubblicana universalista). C’erano anche argomenti strategici, per il controllo delle rotte commerciali e, in Francia, per l’acquisizione di territori e popolazioni che aiutassero i 40 milioni di francesi ad affrontare in qualche modo i 70 milioni di prussiani. Alcuni speravano persino in benefici economici e, mentre alcuni individui diventavano ricchi, colonie come quelle fondate da Cecil Rhodes fallirono rapidamente e dovettero essere salvate dallo Stato. Per la Prussia, si trattava inequivocabilmente di prestigio e di “un posto al sole”; per il Belgio si trattava inequivocabilmente di saccheggio.

L’effetto, a differenza degli imperi precedenti, fu quello di trasformare i possedimenti imperiali in un simbolo dello status di grande potenza, a cui ovviamente solo le nazioni ricche potevano aspirare. Ma anche le grandi potenze scoprirono che mantenere gli imperi era costoso. Nel 1918, la Gran Bretagna aveva un impero che non poteva più permettersi. La base navale di Singapore fu costruita negli anni ’20 con un costo allora sbalorditivo di 60 milioni di sterline (miliardi, oggi), ma la Marina non poteva permettersi di basarvi permanentemente alcuna nave e non c’erano abbastanza truppe o aerei per difenderla adeguatamente. Così, mentre i Romani e gli Ottomani, ad esempio, erano in grado di organizzare ritirate misurate e persino di stabilizzare la situazione di tanto in tanto, gli imperi occidentali scomparvero rapidamente: molti paesi africani sono ormai indipendenti da quasi quanto lo sono stati colonie. Nel 1918 l’Impero britannico sembrava dominare il mondo: cinquant’anni dopo era scomparso.

Infatti, è una regola generale della politica che le istituzioni e gli accordi sviluppati come risultato di pressioni diverse e spesso contrastanti funzionino male e spesso non durino a lungo. Lo stesso vale per le istituzioni la cui ragion d’essere è venuta meno, ma che per un motivo o per l’altro devono cercare di trovarne una nuova. Ad esempio, non ha molto senso schierare le forze armate statunitensi in diversi punti del mondo. La loro natura, e persino la loro presenza, è dovuta più al caso e alla rivalità tra i vari corpi che a una logica strategica. Certamente, se qualcuno avesse suggerito nel 1945 che decenni dopo decine di migliaia di soldati statunitensi sarebbero stati di stanza in Corea del Sud, sarebbe stato considerato pazzo. Ma poi non sono mai riuscito a capire il senso di mantenere un solo reggimento di cavalleria corazzata statunitense in Germania e una divisione corazzata negli Stati Uniti, e non ho ancora incontrato nessuno che lo capisca.

Il che ci porta direttamente ai giorni nostri, in cui le istituzioni internazionali, un tempo rare, sono ormai onnipresenti: mi sembra di scoprirne una nuova almeno una volta al mese. Alcune istituzioni hanno una funzione così evidentemente utile che non sorprende scoprire che sono state istituite molto tempo fa: l’Unione postale internazionale è stata fondata nel 1874, per ragioni che erano evidenti anche all’epoca, ed è ancora utile. La vita oggi sarebbe molto più difficile senza l’Organizzazione internazionale dell’aviazione civile. Il fatto che si senta raramente parlare di tali organizzazioni indica, forse, che esse hanno uno scopo utile e incontrovertibile.

Ci sono molti controesempi, ma ne discuterò brevemente solo due. Uno è la Corte penale internazionale istituita dallo Statuto di Roma del 1998. Fin dall’inizio, la Corte ha sofferto di un problema strutturale e concettuale di fondo. Il suo scopo era quello di processare presunti criminali in circostanze molto specifiche in cui i tribunali nazionali non erano in grado o non erano disposti a farlo. Ciò avveniva solitamente quando un paese era stato distrutto da un conflitto o quando l’imputato non aveva alcuna possibilità di ottenere un processo equo nel proprio paese. La Corte opera in via eccezionale: la sua giurisdizione è complementare a quella dei tribunali nazionali. Inoltre, procede secondo le normali regole dei tribunali penali, ovvero la colpevolezza deve essere dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio. Ma queste procedure dettagliate e tecniche si svolgono in un clima di forte agitazione politica e morale, in cui i difensori dei diritti umani e i media danno semplicemente per scontato che chiunque non sia di loro gradimento possa essere trascinato davanti alla Corte, condannato e mandato in prigione. Questo probabile conflitto interno fu sottolineato all’epoca (io ero presente), ma fu calpestato dalla fretta di creare un’organizzazione che per la prima volta avrebbe portato pace e giustizia in tutto il mondo. Ricordo di aver pensato (e detto) all’epoca che la Corte sarebbe rapidamente degenerata in un gioco politico. Non pensavo che sarebbe successo così rapidamente.

Il secondo esempio è l’Unione Africana. In questo caso, i problemi strutturali derivavano da due convinzioni errate. In primo luogo, che fosse possibile creare un’organizzazione internazionale dall’alto verso il basso, come si potrebbe iniziare a costruire una casa partendo dal tetto, e in secondo luogo che fosse possibile creare un’organizzazione forte a partire da Stati deboli, essi stessi creazioni dall’alto verso il basso; nessuna delle due convinzioni sembra immediatamente convincente. Si presumeva inoltre che un continente enorme ed estremamente eterogeneo, con un quarto delle nazioni del mondo, più del doppio dei governi dell’Europa ma solo una frazione della ricchezza, potesse creare qualcosa di paragonabile all’Unione Europea, e farlo molto rapidamente. Alla fine, la struttura non è riuscita ad assorbire le pressioni e le tensioni causate da leader come Gheddafi e Mugabe, ed è stata disfunzionale per gran parte della sua esistenza iniziale. Inoltre, il 95% del suo bilancio proviene ancora da donatori stranieri. Ha un’ambiziosa architettura di pace e sicurezza, che esiste sotto forma di documenti e comitati, ma non tanto in termini operativi. La Forza africana di pronto intervento (ASF) avrebbe dovuto essere pienamente operativa nel 2010, e così è stato dichiarato nel 2015, ma in realtà è in gran parte incapace di condurre operazioni, a causa di controversie politiche e problemi di logistica e formazione. Inoltre, il tipo di crisi che avrebbe dovuto affrontare (essenzialmente l’interpretazione occidentale di quanto accaduto in Ruanda e altrove) ha lasciato il posto alla necessità di combattere organizzazioni come lo Stato Islamico, per le quali l’ASF non è mai stata progettata.

La caratteristica comune di queste due organizzazioni è che hanno fatto del bene, e sarebbe scortese negarlo, ma non c’è mai stata alcuna possibilità che potessero essere all’altezza delle aspettative esagerate dei loro sostenitori, molti dei quali non si sono nemmeno presi la briga di leggere i documenti costitutivi, ma hanno costruito organizzazioni fantasiose con attributi e capacità che non avrebbero mai potuto avere. Quelle stesse persone sono ora tra i critici più accaniti. L’Unione Africana era, per coloro che l’avevano concepita, un’espressione della dignità e dell’autosufficienza africana, nonché un’organizzazione che avrebbe stabilito il posto dell’Africa nel mondo come continente, non solo come un kit Lego con cui i donatori potevano creare modelli piacevoli. Da parte loro, le nazioni occidentali hanno investito molto nell’Architettura di Pace e Sicurezza, nella speranza che, in parole povere, gli africani potessero d’ora in poi risolvere i propri problemi senza bisogno del coinvolgimento occidentale o del dispiegamento di costose e disfunzionali operazioni dell’ONU che l’Occidente finiva per pagare in gran parte. Ma queste due concezioni, non necessariamente opposte, fallirono per ragioni pratiche, e quando nel 2013 scoppiò una vera e propria crisi in Mali, l’UA non ebbe praticamente alcun ruolo, l’ASF era introvabile e i combattimenti furono condotti principalmente dai francesi, proprio come gli algerini dominarono i tentativi di trovare una soluzione politica. Gli amici dell’Africa, tra i quali mi annovero da decenni, pensarono che si trattasse di un caso di eccessiva fretta. Ma quando ho chiesto ad alcuni di coloro che hanno partecipato alla stesura delle prime bozze dell’Atto costitutivo perché fosse stata inclusa una clausola di difesa reciproca, quando pochi Stati africani potevano pretendere di difendere anche solo il proprio territorio, la risposta è stata un’alzata di spalle piena di rammarico: per ragioni politiche dobbiamo inserirla.

Ci sono molti altri esempi di organizzazioni progettate per scopi contrastanti o che fanno l’opposto di ciò che dovrebbero fare. Un esempio è il Consiglio di cooperazione del Golfo, dominato dall’Arabia Saudita, la cui popolazione supera quella di tutti gli altri membri del CCG messi insieme e la cui influenza all’interno dell’organizzazione è spesso malvista. (Mi è stato suggerito che il CCG non sia altro che un mezzo utilizzato dall’Arabia Saudita per tenere in riga i propri vicini, ma forse questa interpretazione è un po’ troppo estrema).

E la cosa importante qui, che è il tema della seconda parte di questo saggio, è che le organizzazioni che non funzionano, o che non soddisfano le esigenze dei loro membri, inizieranno a decadere nel tempo e, se sopravvivranno, perderanno la loro importanza. E quando queste organizzazioni richiedono un impegno politico da parte del governo, e quando i governi non riescono più a persuadere i loro cittadini a sostenere tali organizzazioni, allora è probabile che si verifichino gravi problemi. A mio avviso, le principali istituzioni che strutturano la vita politica collettiva in Europa, tra cui, ma non solo, la NATO e l’UE, si trovano attualmente in questa situazione. Non svolgono più il ruolo che dovrebbero svolgere, o quello che i loro fondatori avevano previsto, e la loro esistenza è ormai simile a quella di uno zombie, che arranca senza avere una reale consapevolezza di dove sta andando.

Ho già parlato più volte della storia delle origini della NATO e non intendo ripetermi qui. Tuttavia, un aspetto che non viene sufficientemente sottolineato è la natura altamente contingente del suo sviluppo. Il senso di paura e debolezza che prevaleva in Europa alla fine degli anni ’40 probabilmente sarebbe svanito con il tempo. Sebbene il Trattato di Washington non garantisse il sostegno militare in caso di crisi che gli europei speravano, almeno segnalava all’Unione Sovietica che gli Stati Uniti si sarebbero interessati in caso di crisi e consentiva agli europei di utilizzare gli Stati Uniti come fattore di equilibrio politico. È ragionevole supporre che, con la ripresa dell’Europa dopo la guerra e in assenza di provocazioni e richieste da parte dell’Unione Sovietica, che Stalin era probabilmente troppo cauto per avanzare, la situazione si sarebbe stabilizzata. Ciò che cambiò tutto questo, naturalmente, e portò a quella che gli storici chiamano la “militarizzazione della NATO” fu la guerra di Corea e il coinvolgimento delle forze cinesi. All’epoca, ciò fu interpretato come una richiesta di Stalin (che effettivamente manteneva un rigido controllo sulle attività dei partiti e dei governi comunisti stranieri) e si pensò che una simile mossa di conquista verso ovest non avrebbe tardato ad arrivare. Tuttavia, sebbene Stalin sembri aver sponsorizzato la guerra e anche il coinvolgimento cinese, oggi sappiamo che era molto preoccupato di evitare uno scontro diretto con gli Stati Uniti, che avevano anch’essi forze nella penisola.

All’epoca queste sfumature erano sconosciute o non apprezzate, e sembrava logico supporre che il prossimo colpo sarebbe arrivato dall’Occidente. Il risultato fu un frenetico tentativo di schierare le forze e istituire una struttura di comando per la guerra che si prevedeva sarebbe scoppiata al massimo entro un paio d’anni. La guerra non arrivò – una delle poche virtù di Stalin era la sua naturale cautela – e così per decenni si assistette allo spettacolo bizzarro di un sistema di comando internazionale in tempo di guerra in tempo di pace, con quartier generali internazionali, aree di responsabilità, addestramento regolare, procedure standard e molte altre cose mai viste prima. Tutto ciò che mancava era la guerra e una teoria convincente su quale potesse essere il motivo plausibile. Paradossalmente, la paura ingiustificata dell’Unione Sovietica portò a pressioni per la rimilitarizzazione della Germania, che portò a cambiamenti sostanziali all’interno della NATO (e all’opposizione della Francia e di altri paesi occidentali), ma anche all’opposizione della Polonia e della Cecoslovacchia, che portò infine alla formazione dell’Organizzazione del Trattato di Varsavia nel 1955, il che aumentò i timori degli Stati occidentali che l’Unione Sovietica si stesse preparando per una guerra immediata, causando una serie di incomprensioni ed errori dai quali, a volte penso, siamo stati fortunati a uscire indenni.

Con il passare dei decenni, le attività della NATO assunsero una connotazione curiosamente rituale. L’organizzazione generò una massiccia burocrazia a Bruxelles e Mons, nonché nelle organizzazioni subordinate e nei quartier generali di tutta l’area NATO. Elaborò e mise in atto piani dettagliati per combattere una guerra difensiva (proprio come il WP elaborò e mise in atto i propri piani per combattere una guerra offensiva), ma non sembrò mai esserci una ragione convincente per cui entrambe le parti dovessero effettivamente entrare in guerra. Entrambe le parti sapevano quali forze sarebbero state teoricamente impegnate e in che modo, se mai ciò fosse accaduto (lo scontro tra il 1° Corpo d’armata britannico e la 3ª Armata d’assalto sovietica era previsto da entrambe le parti, ma fortunatamente non avvenne mai). Anche il vantaggio ideologico che ci si sarebbe potuto aspettare iniziò a svanire dopo l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968. Negli anni ’80, la NATO era guidata e composta da una generazione che era semplicemente cresciuta con la Guerra Fredda come un fatto compiuto. Era in gran parte concentrata su questioni interne, discutendo di bilanci della difesa, “ripartizione degli oneri”, obiettivi delle forze armate, finanziamenti delle infrastrutture, comunicati infiniti, chi avrebbe ottenuto quale incarico e così via.

Con l’evolversi della situazione, le nazioni cominciarono a vedere dei vantaggi nel continuare con la NATO che non avevano nulla a che vedere con la sua funzione primaria dichiarata. Il principale di questi era quello di limitare gli Stati Uniti. Dalla fine degli anni ’40, il timore europeo era quello di un accordo tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica sull’Europa senza che gli europei fossero consultati. Il personale statunitense schierato in Europa, anche se in numero relativamente esiguo, e la necessità burocratica per gli Stati Uniti di consultare i propri partner europei non eliminarono del tutto questo rischio, ma lo limitarono. Un altro vantaggio era che la NATO rappresentava un paracadute accettabile per il riarmo della Germania, sotto un efficace controllo internazionale, rassicurando così i vicini della Germania, oltre che un modo per riportare la Germania stessa alla rispettabilità internazionale. (In realtà, durante la Guerra Fredda la Bundeswehr era l’esercito più antimilitarista della storia, con la possibile eccezione di quello canadese). Le nazioni più piccole vedevano la NATO come un contrappeso al potenziale dominio tedesco e francese sull’Europa e come un’opportunità per influenzare gli Stati Uniti e i loro partner europei più di quanto sarebbe stato possibile altrimenti. Le nazioni più grandi (in particolare il Regno Unito) vedevano nella NATO una struttura all’interno della quale potevano impegnarsi a fondo per cercare di influenzare discretamente gli Stati Uniti. Oltre a ciò, c’erano posizioni di comando prestigiose e istituzioni internazionali da ospitare. E c’erano anche molti altri fattori, il che significava che alla fine della Guerra Fredda, quando il futuro della NATO era in discussione, c’era un consenso per mantenerla, ma per ragioni che in gran parte non potevano essere articolate e che spesso erano in opposizione tra loro.

Nel caos multiforme della fine della Guerra Fredda, un’organizzazione creata negli anni ’50 per combattere una guerra apocalittica imminente si ritrovò sostanzialmente senza lavoro. Sopravvisse in parte per i motivi taciti sopra indicati, in parte per pura inerzia, perché nessuno riusciva nemmeno a immaginare come sostituirla. Poi la gente cominciò a guardare le mappe e si rese conto che una Germania nuova e più potente era nella NATO e la Polonia no, cosicché in caso di una disputa di confine che potesse diventare grave, il Portogallo e la Grecia avrebbero dovuto sostenere la Germania, forse anche militarmente. Un momento. Questa era solo una delle tante ragioni del caotico processo di allargamento della NATO (e altrettanto grave era il timore degli Stati dell’Europa centrale di rimanere bloccati in un vuoto strategico tra una Germania unificata e la Russia), ma l’intero processo era conforme al modello generale di un processo decisionale ad hoc e a breve termine, in cui le decisioni vengono prese principalmente perché soddisfano le esigenze contrastanti dei diversi Stati, piuttosto che per le loro virtù intrinseche. A coloro che hanno espresso preoccupazione per le conseguenze, la risposta è stata: “Ce ne preoccuperemo più tardi”.

Successivamente, sorge spontanea la domanda se un’organizzazione fondata nel panico, portata avanti per inerzia e che ha lottato per rimanere rilevante per trent’anni, riuscirà a sopravvivere ancora a lungo. Personalmente ne dubito, almeno nella sua forma attuale. Questo non significa che scomparirà come il Patto di Varsavia, ma piuttosto che svanirà lentamente nell’irrilevanza e tornerà ad essere solo un meccanismo di consultazione politica, mentre l’azione reale si svolgerà tra le nazioni. Perché? Beh, direi che ci sono due condizioni fondamentali affinché la NATO sia utile, ed entrambe stanno scomparendo.

Il primo è che fornisce all’Europa un contrappeso al potere sovietico e successivamente russo, nella forma degli Stati Uniti. Come ho spiegato più volte, non si trattava principalmente di una questione militare, né gli Stati Uniti stavano “proteggendo” l’Europa. L’idea era che l’Europa fosse chiaramente un’area di grande importanza strategica per entrambi i paesi, ma non necessariamente un’area per cui fossero disposti a entrare in guerra. C’era quindi il rischio che un governo statunitense isolazionista raggiungesse un accordo tacito con Mosca che l’Europa avrebbe finito per rimpiangere. Impedire che ciò accadesse era la ragione principale, non dichiarata, per cui gli Stati europei sostenevano l’adesione alla NATO e per cui le truppe statunitensi erano schierate in prima linea, in modo da essere coinvolte in eventuali combattimenti e impedire agli Stati Uniti di sottrarsi ai propri obblighi.

Questo argomento non è più valido. Innanzitutto, è chiaro che i timori e le aspettative della classe politica statunitense sono ora concentrati altrove. In parte si tratta di una questione generazionale: fino a poco tempo fa, il complesso culturale di Washington nei confronti dell’Europa era ancora sfruttabile e molti esponenti di spicco di Washington conservavano ricordi affettuosi di un anno trascorso a Oxford o alla Sorbona, del tempo trascorso nelle istituzioni europee o semplicemente del cibo, della cultura e della storia. Gli inglesi, che inoltre parlavano la stessa lingua degli americani ma meglio, hanno sfruttato particolarmente bene questa situazione, come so per esperienza personale. Ma questo appartiene al passato. Trump può essere un caso caricaturale, ma più in generale la politica statunitense è nelle mani di una classe post-culturale che mangia solo hamburger e non conosce la storia. Probabilmente questa situazione è destinata a durare. In ogni caso, la capacità pratica degli Stati Uniti di influenzare gli eventi in Europa è ormai ridotta quasi a zero, e le loro forze militari non costituirebbero un ostacolo alla Russia nel fare praticamente ciò che vuole.

In secondo luogo, la NATO stessa non è più un’organizzazione militare seria, né può tornare ad esserlo. Il denaro è l’ultimo dei problemi: i decisori europei stanno scoprendo che il mondo non è un gigantesco negozio Amazon da cui è possibile ordinare tutto ciò che si desidera. Ci si possono aspettare solo miglioramenti marginali nelle capacità europee, e gli Stati Uniti non saranno mai più in grado di schierare più di una capacità militare simbolica in Europa stessa. Un’alleanza militare senza una seria capacità militare (come l’alleanza de facto nell’Unione Africana) è fattibile solo quando non c’è concorrenza. Ma il dominio militare che la Russia già esercita in Europa rende la NATO effettivamente inutile. Questo non significa che tutto sia perduto (e affronterò la questione di cosa potrebbe fare l’Europa la prossima settimana), ma piuttosto che un’alleanza militare senza una seria capacità militare è nella migliore delle ipotesi un’anomalia, e che la NATO rischia di tornare lentamente a essere nient’altro che il meccanismo di consultazione politica da cui è partita, forse perdendo membri lungo il percorso.

Ho anche discusso più volte in passato delle origini e dei problemi dell’UE. In questo caso, penso che il punto chiave sia che esistono due Europe e che la confusione tra loro è alla base della disillusione e dell’alienazione oggi così diffuse tra la gente comune. La prima Europa è l’Europa fisica, l’Europa della storia, della geografia, dell’identità e della cultura. Era questa l’Europa a cui pensavano i padri dell’unità europea già negli anni ’30, ma soprattutto nel decennio successivo alla seconda guerra mondiale. La guerra aveva mostrato ciò che gli europei erano capaci di fare gli uni agli altri e al loro continente. Il conseguente senso di pura disperazione era probabilmente grave quanto la distruzione fisica, e questo era già abbastanza impressionante: pensate a Gaza su scala continentale. C’era la sobria consapevolezza che se si fosse permesso ai demoni di fuggire di nuovo, non sarebbe rimasta alcuna Europa.

Se ci si prende la briga di leggere i discorsi e le memorie dell’epoca, è immediatamente evidente che il vero obiettivo dei padri fondatori dell’Europa era la ricreazione simbolica del Sacro Romano Impero, ovvero uno spazio politico con rivalità, certo, ma fondamentalmente unito in termini di cultura e presupposti storici. In un certo senso, era anche un tentativo di superare definitivamente le divisioni della Riforma: i toni cristiani dei discorsi di personaggi come Monnet e Schuman sono inconfondibili. Al di là dell’idealismo superficiale, c’era anche una scelta brutale: accettare una certa dose di sovranazionalità o accettare il grave rischio della distruzione dell’Europa stessa. Ma a quel punto, l’Europa era piccola e omogenea, composta solo da sei nazioni le cui storie erano intrecciate da secoli e le cui culture erano profondamente interconnesse. Anche l’aggiunta del Regno Unito e dell’Irlanda non cambiò radicalmente le cose all’inizio. Ciò che era fondamentale era avere Francia e Germania, la cui competizione per il potere aveva diviso l’Europa in diverse forme per centinaia di anni, sotto lo stesso tetto. Tutto il resto era secondario.

Questo è il tipo di Europa, anche ampliata, di cui quasi tutti gli europei sarebbero soddisfatti oggi: l’idea che lo sciovinismo e il fanatismo siano diffusi è una pura assurdità. Le culture nazionali non sono comunque uniformi: la Francia di Strasburgo, la Francia di Nizza e la Francia di Tolosa potrebbero benissimo trovarsi in paesi stranieri, anche perché i confini sono cambiati frequentemente e le lingue si compenetrano. Un’Europa che prendesse il suo immenso patrimonio culturale e storico e lo celebrasse sarebbe un’Europa in cui quasi tutti sarebbero felici di vivere.

Ma l’Europa che abbiamo oggi non è un luogo reale, con una storia e una cultura, bensì un’idea normativa. È una creazione artificiale, un tentativo da un lato di unire con la forza paesi diversi, vietando al contempo qualsiasi discussione sulle reali differenze storiche, e dall’altro di incoraggiare la crescita di un’élite europea sradicata, servita da una popolazione di immigrati usa e getta e sostituibile, la cui presenza contribuisce anche a diluire il senso di comunità e di storia che, agli occhi di Bruxelles, può solo provocare conflitti. (L’ironia che sia proprio questa immigrazione di massa ad aver provocato conflitti è quasi troppo difficile da contemplare). Parallelamente, è necessario trasformare le molte culture diverse dell’Europa in un unico brodo grigio distribuito da Bruxelles e calpestare con forza qualsiasi senso di impegno, per non parlare dell’orgoglio, nei confronti del passato.

Inoltre, proprio come la NATO, l’UE si è resa conto di non sapere quando fermarsi. Ho citato più volte l’argomentazione di Iain MacGilchrist secondo cui l’emisfero sinistro del cervello è sfuggito al controllo e ora domina la nostra cultura. Si può certamente vedere il concetto originale di un’Europa unita come un’idea dell’emisfero destro: il disgusto per la sanguinosa storia del continente e la speranza di costruire qualcosa di meglio. Ma l’Europa è ora dominata dall’emisfero sinistro: sempre più membri, integrazione sempre più “profonda”. Classicamente, l’emisfero sinistro non sa mai quando fermarsi.

È difficile immaginare come questa situazione possa durare, e il contributo più grande della signora von der Leyen potrebbe essere quello di mandare l’intero furgone sopranazionale della zuppa grigia a sbattere contro un muro. Il fatto è che, al di là della retorica, le nazioni europee stanno iniziando a riconoscere che i loro interessi sono spesso molto diversi e, in molti casi, opposti. È un errore pensare che l’appartenenza alla stessa organizzazione favorisca l’unità e l’accordo. In realtà, è vero il contrario, perché paesi con interessi diversi, o anche paesi che normalmente non avrebbero alcun interesse, sono costretti a scontrarsi su parole e politiche nella lotta per trovare un terreno comune che altrimenti non sarebbe necessario. Questo vale probabilmente per quasi tutta l’Europa, indipendentemente dal fatto che i paesi facciano parte della NATO o dell’UE.

In breve – e ci sarebbe molto altro da dire – le istituzioni non durano per sempre. Anche gli imperi secolari finiscono per scomparire. Le istituzioni scompaiono, con più o meno clamore, quando non sono più in grado di funzionare, quando non rispondono più a un’esigenza reale e quando si sono allontanate troppo dai loro obiettivi originari e agiscono in modo autonomo. Il risultato non può che essere un ritorno alla rinazionalizzazione di molte funzioni politiche ed economiche. Bruxelles non ha molte divisioni (anche se ne ha molte) e alla fine non sarà in grado di impedire ai paesi di lavorare collettivamente su questioni che li interessano. Il trucco sarà farlo senza rompere tutto.

L’ODIO E IL NEMICO, di Teodoro Klitsche de la Grange

L’ODIO E IL NEMICO

Nel prologo del dramma di Montherlant “La guerre civile”, questa, presentandosi, dice “Sono la guerra della piazza inferocita, la guerra delle prigioni e delle strade, del vicino contro il vicino, del rivale contro il rivale, dell’amico contro l’amico. Io sono la Guerra civile, io sono la buona guerra, quella dove si sa perché si uccide e chi si uccide: il lupo divora l’agnello, ma non lo odia; ma il lupo odia il lupo”. Già Clausewitz, col Vom Kriege aveva individuato, anche nella guerra tra Stati lo spazio  per l’odio nel sentimento ostile che s’accompagna, ma non sempre, a molte guerre internazionali, mentre ad ogni guerra è connaturale l’intenzione ostile.

Nel dibattito sull’assassinio di Charlie Kirk l’odio ha avuto un posto rilevante: e non pare che l’abbia occupato abusivamente, almeno a seguire la tesi di Montherlant. Quel che consegue da questa e dall’opinione di Clausewitz è che non è un elemento necessario in tutte le guerre onde ve ne sono state condotte senza odio: nel libro (postumo) che raccoglie scritti di Rommel, il titolo era Guerra senza odio, riferendosi a quella praticata dal generale tedesco.

Ma non è così per le guerre civili: la coesione in un gruppo sociale, e così in un popolo, presuppone una certo tasso d’amicizia che valga a co-fondare l’unità politica con l’idem sentire de re-publica; se questo non c’è o è carente, i contrasti d’interesse, volontà, opinioni diventano determinanti e corrodono l’unità politica, fino (talvolta) a sfociare nelle guerre civili.

Il carburante principale delle quali è l’odio, come ritenuto da Montherlant.

Una delle caratteristiche di quello contemporaneo è che divide le comunità in senso orizzontale: da una parte le élite e il loro seguito, dall’altra  la  parte maggioritaria o comunque in crescita dei governati.

Resta il fatto che, almeno in unità politiche con popolazione omogenea, quindi tale per lingua, religione, costumi, storia (e gli altri “fattori” indicati da Renan) occorre (creare, o) aumentare divisioni esistenti in grado di detronizzare quella principale a fondamento dell’unità politica. Ove non si può contare su differenze reali o almeno decisive, occorre lievitarle di guisa da creare un (nuovo) nemico che abbia la conseguenza, naturale in ogni conflitto, di rinsaldare la coesione del gruppo sociale che a quello si oppone. A portata di mano, per realizzare tale operazione, c’è l’intensificare l’odio al nemico scelto. In mancanza di differenze reali si corre così il rischio di crearne di immaginarie.

Una variante delle quali è di identificare il nemico quale nemico dell’umanità o di caratteristiche umane (vedi i “diritti umani”) come sottolineato già un  secolo fa da Carl Schmitt; a cui non erano estranei neppure i nazisti quando consideravano i popoli dell’Unione Sovietica degli untermenschen, cioè sotto-uomini, destinati a estingursi o a servire quello tedesco. Molto meglio per assicurare la pace e l’intesa tra popoli la concezione (e la prassi) romana che gli stranieri non erano così diversi (alienigeni) dai romani  da non potersi accordare in una pace e una coesistenza concorde e nel comune interesse.

Per cui l’odio è un moltiplicatore dei conflitti, se rivolto a creare nemici all’interno dell’unità politica, inversamente proporzionale alla coesione e potenza della stessa, nei conflitti internazionali, può diventare un elemento di coesione, ma non (o poco) controllabile.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Il miraggio del trattato, di Big Serge

Il miraggio del trattato

Storia della guerra navale, parte 13

Big Serge

17 settembre 2025

∙ Pagato

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Una grafica britannica del 1939 che mostra le navi da guerra in primo piano

Nel 1939 era ancora possibile per un cittadino della Gran Bretagna intraprendere un viaggio globale ed essere orgoglioso degli orpelli facilmente visibili del potere globale della Gran Bretagna. Imbarcandosi su un piroscafo a Bombay, avrebbe potuto fare un lungo viaggio passando per una serie di punti critici e basi globali – attraversando l’Oceano Indiano fino ad Aden, risalendo il Mar Rosso attraverso il Canale di Suez, facendo scalo a Malta nel Mediterraneo prima di passare per Gibilterra, per poi raggiungere casa a Southampton – e lungo il percorso non avrebbe visto altro che basi britanniche, navi britanniche e potere britannico.

Si trattava di un sistema secolare di proiezione del potere geopolitico, conservato con estrema cura per dare l’impressione di un mondo stabile e prevedibile. L’essenza di questo sistema era molto semplice: si trattava di un sistema mondiale eurocentrico (e uso questa parola senza una connotazione peggiorativa) in cui il potere marittimo era il mezzo di influenza globale, e il modo principale per misurare tale influenza era rappresentato dalle navi da guerra e dalle basi che consentivano loro di operare a grandi distanze. In altri mondi, le scene che attendevano il nostro passeggero erano in gran parte immutate rispetto al XVIII secolo. Le navi di linea a vela avevano ovviamente lasciato il posto all’acciaio delle navi da battaglia a cannone, ma l’asse del potere globale era ancora una rete di basi navali britanniche occupate da navi capitali britanniche. Le altre potenze marittime del mondo avevano la capacità di proiettare la forza a livello regionale (il Giappone in Asia orientale, l’Italia e la Francia nel Mediterraneo, e così via), ma solo la Gran Bretagna era ovunque, tutta insieme, con grandi cannoni.

Nel 1950, questo mondo si sarebbe disfatto praticamente a tutti i livelli. Enumerare le molte ramificazioni della Seconda guerra mondiale è un compito monumentale, ma per quanto riguarda il potere marittimo il risultato della guerra fu abbastanza semplice: dopo generazioni di supremazia britannica in mare, la Seconda guerra mondiale distrusse (completamente o praticamente) praticamente tutte le forze navali di rilievo nel mondo, con l’eccezione della Marina americana, che crebbe esponenzialmente e arrivò a predominare in modo assoluto. Alla vigilia della guerra, nel 1938, la Gran Bretagna era ancora ampiamente riconosciuta come la più grande potenza marittima del mondo, ma c’erano non meno di sei marine militari con conseguenze reali o potenziali a livello regionale. Nel 1945, tuttavia, lo scacchiere era stato talmente ripulito dai concorrenti che la Marina americana non solo era più potente di qualsiasi rivale, ma anche di tutte le altre marine del mondo messe insieme. Avendo perso la posizione all’apice della struttura del potere navale, il declino dell’infrastruttura imperiale britannica era certo.

In breve, il nostro passeggero immaginario che viaggiava dall’India all’Inghilterra attraversava un mondo che dava l’impressione di continuità e stabilità attraverso i secoli, ma che in realtà era sull’orlo del collasso totale. L’esperienza fisica di navigare dall’India, attraverso Suez, passando per Malta e Gibilterra, e poi verso l’Inghilterra, il Canada o i Caraibi – transitando per migliaia di miglia e vedendo solo navi da guerra britanniche in porti britannici – rifletteva presupposti impliciti sul mondo: una gerarchia di potere statale basata sul potere marittimo, in cui l’Inghilterra era all’apice e lo status si misurava in gran parte in navi da guerra con grandi cannoni. Tutti questi presupposti furono stracciati dalla Seconda guerra mondiale. Non solo la Gran Bretagna perse il suo posto in cima alla gerarchia, ma la gerarchia stessa cessò in gran parte di esistere; l’America non si limitò a superare i suoi rivali, ma arrivò a sopraffare l’idea di avere rivali in mare. Dal 1945 in poi, una realtà fondamentale degli affari mondiali fu il fatto che solo gli Stati Uniti potevano proiettare la loro forza via mare e via aria ovunque nel mondo, quasi impunemente. La Marina degli Stati Uniti non era solo la forza più forte del mondo, ma la forza navale più forte ovunque, nello stesso momento. È stata la distruzione di tutti i potenziali rivali nella Seconda guerra mondiale a rendere l’America, nella seconda metà del secolo, il singolo Stato più potente mai esistito. Inoltre, la vecchia moneta del potere marittimo – navi da guerra corazzate che combattevano con cannoni navali a lunga gittata – venne radicalmente oscurata da nuove piattaforme che avevano finalmente raggiunto la maturità tecnica e tattica, come i sottomarini e l’aviazione navale.

Ciò che rendeva strano il periodo tra le due guerre non era semplicemente il fatto che presentasse un falso miraggio di stabilità, ma anche che vi fosse uno sforzo consapevole da parte dei responsabili della politica navale e degli uomini di Stato per sospendere la situazione e mantenerla in stasi. La costruzione navale era regolata da trattati che miravano non solo a preservare lo status relativo della gerarchia delle potenze marittime – assegnando quote specifiche di tonnellaggio di navi da guerra per creare un equilibrio navale attentamente calibrato – ma anche a valutare e regolare esplicitamente la potenza marittima in termini di navi da guerra.

Alla vigilia della guerra del 1939, quindi, la potenza marittima assomigliava a una reliquia vivente di un passato morente: un fossile di un’epoca passata, in attesa di essere distrutto a livello tecnico, tattico e geostrategico. Finché le bombe non cominciarono a cadere, tuttavia, diedero una continua impressione di vita. Pochi sospettavano che le grandi navi da guerra, a lungo moneta corrente della proiezione di potenza globale, fossero sull’orlo dell’obsolescenza tattica, e ancora meno avrebbero potuto prevedere che la rete globale di basi navali europee – posizioni chiave come Singapore, Dakar, Malta, Saigon e Aden – stesse per essere spazzata via. In tempo reale, è sorprendentemente difficile capire quando un’era sta finendo e un’altra sta iniziando.

Congelare le flotte

La Seconda guerra mondiale ha l’insolita particolarità di contenere al suo interno due guerre distinte di diversa natura, che furono entrambe i più grandi conflitti della storia nei loro rispettivi tipi. In Europa, la guerra nazi-sovietica fu di gran lunga il più grande e distruttivo conflitto terrestre della storia, mentre la Grande Guerra del Pacifico, combattuta dalle marine imperiali giapponese e americana, fu il più grande conflitto navale mai visto, sia per le dimensioni e la potenza distruttiva delle flotte che per le colossali distanze coinvolte. C’è, tuttavia, uno scollamento relativamente curioso nell’intensità dei preparativi. La guerra nazi-sovietica fu anticipata da intensi programmi di riarmo sia da parte della Germania che dell’Unione Sovietica: sia Hitler che Stalin si affannarono ad armarsi fino ai denti con armi moderne. Nel Pacifico, tuttavia, non ci fu nulla che possa essere considerato una vera e propria corsa agli armamenti. Anzi, era vero piuttosto il contrario e nel periodo tra le due guerre le marine del mondo erano regolate da un programma globale e deliberato di controllo degli armamenti navali.

È forse un po’ controintuitivo e ironico che il più grande conflitto navale-anfibio della storia sia stato preceduto da un lungo periodo di controllo negoziale degli armamenti e di limitazione delle costruzioni navali, ma il programma aveva una logica abbastanza lineare. La costruzione navale si prestava a un tentativo di controllo negoziato, perché i totem – in particolare le navi da guerra – erano molto costosi, avevano tempi di costruzione lunghi ed erano relativamente facili da contare ai fini della verifica della conformità. La limitazione della costruzione di navi capitali aveva quindi un forte appeal come metodo di controllo dei costi – e questo era molto interessante per i governi che erano a corto di liquidità a causa della Grande Guerra – e la relativa facilità di contare le navi e di verificare i limiti di stazza significava che gli accordi potevano essere stipulati con un certo grado di sicurezza che sarebbero stati rispettati.

Un ulteriore elemento curioso della costruzione navale tra le due guerre era il fatto che tutte le marine militari di rilievo, a livello globale o regionale, appartenevano a Stati che erano stati alleati nella Grande Guerra. Nel periodo tra le due guerre c’erano esattamente cinque marine da prendere in considerazione, appartenenti a Gran Bretagna, Stati Uniti, Giappone, Francia e Italia. A questo club estremamente limitato ed esclusivo, si dovevano aggiungere la Germania e la neonata Unione Sovietica, Stati teoricamente in grado di schierare flotte da battaglia, ma che nel periodo tra le due guerre non furono in grado di farlo a causa del crollo generale della loro potenza all’indomani della Prima Guerra Mondiale. Con solo cinque potenti flotte in circolazione e due potenziali aggiunte in un momento successivo, si rivelò relativamente semplice codificare l’equilibrio relativo delle potenze sui mari.

Il risultato che emerse da questo ambiente, in cui sia l’avversione dell’opinione pubblica al militarismo che la necessità dei governi di contenere le spese, fu un accordo del tutto inedito di contenimento negoziale noto semplicemente come “sistema di controllo”. Sistema di Washington, dopo il Trattato navale di Washington, firmato dall’Impero britannico, dagli Stati Uniti, dall’Impero giapponese, dalla Francia e dall’Italia il 6 febbraio 1922 a Washington DC. I redattori e i firmatari erano giustamente orgogliosi di ciò che avevano realizzato, che fu accuratamente salutato come il trattato di controllo degli armamenti più completo e ambizioso mai concepito.

Ciò che risalta del Trattato navale di Washington non è semplicemente il fatto che le cinque potenze navali rimaste al mondo si accordarono per limitare i loro programmi di costruzione, ma lo fecero in modo diseguale, con l’obiettivo di sancire esplicitamente un particolare equilibrio di potere nel mondo. L’essenza del trattato era una triplice restrizione alla costruzione di navi capitali, che stabiliva limiti sia al tonnellaggio totale delle flotte di navi capitali sia al tonnellaggio delle singole classi di navi, stabilendo al contempo una “vacanza navale” di dieci anni in cui non si potevano sostituire le navi capitali esistenti. La vacanza fu poi estesa di cinque anni alla Conferenza navale di Londra del 1930, cosicché per la maggior parte del periodo tra le due guerre non furono varate nuove classi di navi capitali. L’effetto netto fu quello di limitare sia le dimensioni aggregate delle flotte da battaglia sia le dimensioni delle navi che le componevano, bloccando temporaneamente la modernizzazione e ritardando il lancio di nuove classi.

Parti firmatarie della Conferenza navale di Washington

Tuttavia, le parti che si riunirono a Washington concordarono una ripartizione sproporzionata del potere navale che creò esplicitamente qualcosa di simile a un sistema geopolitico formale di potere marittimo. In base al sistema di Washington, in sostanza, la Marina statunitense e la Royal Navy ricevettero ciascuna circa il 30% del tonnellaggio mondiale di navi da guerra (e di conseguenza della potenza di fuoco), mentre i giapponesi ottennero il 20% e gli italiani e i francesi il 10% ciascuno.

L’assegnazione del tonnellaggio totale, combinata con i limiti sul tonnellaggio massimo delle singole navi da guerra, sinergizzava per creare un’aritmetica estremamente trasparente che regolava il numero di navi da guerra nella flotta in questione. Poiché il dislocamento delle navi da guerra era limitato a 35.000 tonnellate, le 525.000 tonnellate totali assegnate alla Marina statunitense e a quella reale significavano che potevano possedere quindici grandi navi da guerra ciascuna, mentre le 315.000 tonnellate totali del Giappone ne consentivano nove. Per rispettare i limiti di stazza, sia i britannici che gli americani furono costretti a demolire molte delle loro vecchie corazzate dreadnought e pre-dreadnought, mentre i britannici dovettero procedere a una riprogettazione delle loro nuove navi da guerra. Nelson-per snellirla.

L’assegnazione del tonnellaggio fu un tentativo di riconoscere formalmente le variegate esigenze strategiche delle parti del trattato, accettando al contempo la realtà dell’equilibrio di potenza esistente. Gli Stati Uniti e i britannici ricevettero assegnazioni di tonnellaggio sproporzionate, essendo le due potenze con impegni veramente globali: la Marina statunitense con i suoi due oceani e i britannici con la loro catena globale di basi. Il Giappone, in quanto “singola potenza oceanica”, ricevette una buona allocazione, mentre i francesi e gli italiani furono bilanciati l’uno contro l’altro in quanto rivali regionali con pari tonnellaggio. Il Sistema di Washington presentava quindi una comprensione concreta degli affari mondiali con il seguente quadro: due grandi marine anglo-americane globali, sostanzialmente uguali, una potenza del Pacifico in Giappone che non era così lontana dalle potenze mondiali, un paio di marine mediterranee di medie dimensioni in Francia e in Italia, e una ex potenza navale umiliata in Germania.

Giudicato esclusivamente come uno strumento per porre un necessario freno alla crescita delle flotte da battaglia mondiali, il sistema di Washington fu un successo sfrenato. Dopo decenni in cui le navi da battaglia erano state continuamente costruite e sempre più grandi, l’era dei trattati bloccò la costruzione navale in una fase di stasi, come se le marine dei partiti fossero state congelate. Trascorse più di un decennio tra la progettazione della nave da guerra britannica del 1922 e la costruzione di una nave da battaglia. Nelson(l’ultima delle classi pre-trattato) e un’ondata di classi post-trattato progettate alla fine degli anni ’30, tra cui le britanniche Re Giorgio V, il francese Richelieu, la famosa Germania Bismarcke i giapponesi Yamatosupercorazzate.

In generale, il punto di arrivo è che l’era dei trattati ha funzionato per preservare temporaneamente l’impressione di una supremazia britannica globale, permettendo al nostro viaggiatore immaginario di sperimentare il mondo dei suoi nonni, girando per il mondo e vedendo solo navi da guerra britanniche in basi britanniche. La posizione della Gran Bretagna in cima al mondo fu preservata non solo grazie agli espliciti rapporti di stazza del sistema dei trattati, ma anche grazie alla disposizione geostrategica delle altre parti. Agli Stati Uniti, ad esempio, era stato concesso un tonnellaggio uguale a quello della Royal Navy, ma il ritorno dell’America a un atteggiamento insulare dopo la Prima Guerra Mondiale ha giocato a sfavore di una robusta costruzione americana. Di conseguenza, allo scadere del sistema dei trattati, la Marina statunitense era di fatto al di sotto del tonnellaggio assegnato.

Forza della flotta, 1939

Gli interessi geostrategici in tutto il mondo si intrecciavano per creare l’impressione di una supremazia britannica. Il Giappone era chiaramente una potenza ambiziosa e revisionista, ma per il momento era confinato in Asia orientale e stava investendo risorse sempre maggiori in una strategia continentale basata sul continente asiatico. Il ritorno volontario dell’America a una politica estera solitaria la lasciava sottopeso. Più vicino a noi, la marina francese e quella italiana pensavano quasi esclusivamente in riferimento l’una all’altra – in effetti, la marina italiana era di gran lunga il braccio più moderno e professionale dell’esercito italiano, ed era stata progettata specificamente per uno scenario in cui l’Italia avrebbe combattuto contro la Francia per il controllo del Mediterraneo occidentale senza il coinvolgimento della Royal Navy. Così, sebbene la proiezione di potenza britannica si affievolisse a est di Singapore, non c’era alcuna ragione discernibile per credere che i nodi centrali del sistema imperiale fossero minacciati.

I progettisti di tutte le grandi marine militari del mondo commisero errori di calcolo con diversi livelli di conseguenza e di gravità. Praticamente tutti, ad eccezione del Giappone, si sarebbero lamentati del fatto che i loro progetti di navi da battaglia post-trattato non erano tutti pronti per l’azione nel 1939. L’ammiraglio Raeder, a Berlino, si fidò della parola di Hitler che la guerra non sarebbe arrivata così presto e fu spinto ad entrare in azione con una mezza flotta. Gli inglesi, da parte loro, furono colti di sorpresa dalla rapida caduta della Francia, che diede alla flotta sottomarina tedesca un facile accesso all’Atlantico, che era mancato nella guerra precedente. Per quanto riguarda gli errori di calcolo americani e giapponesi, sono ben noti e non hanno bisogno di essere enumerati.

Il punto non è che l’era dei trattati sia riuscita a prevenire la guerra, perché è evidente che non l’ha fatto e non poteva farlo. Tuttavia, i trattati hanno svolto un ruolo importante nel contesto interbellico. A livello nazionale, i governi dovettero far fronte sia alle pressioni finanziarie per controllare i bilanci degli armamenti, sia alle pressioni di un’opinione pubblica che in molti casi si era ribellata, in modo netto, al militarismo. Il Trattato navale di Washington e il suo addendum di Londra crearono una risposta esplicita a queste pressioni, offrendo al contempo un equilibrio accettabile che teneva conto delle esigenze relative di generazione di forze delle potenze. La Gran Bretagna e gli Stati Uniti, con i loro impegni in più oceani, potevano trarre conforto dalla superiorità garantita loro dai trattati. Per quanto riguarda il Giappone, la sua flotta poteva raccogliere forse il 70% della forza delle flotte anglo-americane, ma si trattava di un numero che poteva essere sopportato per un certo periodo, sulla base del fatto che non ci si poteva aspettare che né la Royal Navy né la US Navy concentrassero tutte le loro forze nel teatro dell’Asia orientale.

Le corazzate britanniche nel Porto Grande di Malta: fossili viventi di un mondo morente

Questo creava l’illusione di una almeno tenue stabilità, ma soprattutto permetteva di inventariare e valutare la forza materiale in modo relativamente trasparente e uniforme. La valuta di base erano le navi da guerra, ma altri tipi di navi – come cacciatorpediniere, incrociatori e sottomarini – erano ben compresi, ricoprivano ruoli discreti e potevano essere contati con relativa facilità. Ciò che risalta maggiormente del sistema dei trattati è che creava un bilancio della potenza di combattimento apparentemente molto facile da capire.

Ciò che non si capiva bene era che non solo questo tenue equilibrio di potere stava per essere distrutto dagli Stati revisionisti – Germania e Giappone, soprattutto – ma anche che il sistema di misurazione su cui poggiava questo equilibrio stava per essere ridotto alla totale obsolescenza. La pianificazione interbellica si basava sugli inventari di navi capitali e sulla forza prevista della linea di battaglia principale. In Giappone e negli Stati Uniti si parlava di combattere un “secondo Jutland” nel Pacifico: un titanico duello di artiglieria navale, nella tradizione di Tsushima e Trafalgar. Gli ammiragli avrebbero ottenuto qualcosa di simile a ciò che si aspettavano e l’incombente guerra del Pacifico sarebbe stata intensamente incentrata sulla battaglia, ma sarebbero state le portaerei a deciderne l’esito.

Il Sol Levante: Il Giappone e la rivoluzione dei vettori

È banalmente ovvio che le portaerei siano diventate sistemi d’arma fondamentali e determinanti nell’eventuale guerra del Pacifico tra l’Impero giapponese e gli Stati Uniti. La loro potenza fu sottolineata fin dall’inizio dall’attacco giapponese a Pearl Harbor, che dimostrò la potenza d’urto senza precedenti dell’aviazione navale, e negli anni successivi la portaerei è diventata il sistema d’arma americano fondamentale: La supremazia navale dell’America è stata raggiunta vincendo la prima e unica grande guerra delle portaerei, e la proiezione di potenza americana trova oggi la sua forma più imponente e famigerata nei gruppi di portaerei, che danno alla US Navy la capacità unica di portare una colossale potenza cinetica quasi ovunque nel mondo.

In effetti, la portaerei è una piattaforma talmente potente, costosa e unica per la proiezione della forza che a noi sembra banale che l’aviazione navale abbia creato una rivoluzione totale nel combattimento navale, ma questo non era affatto ovvio per le ammiraglie nel periodo tra le due guerre. Era ovviamente ovvio che l’aviazione navale avrebbe giocato un ruolo importante nei conflitti futuri, ma l’idea che le portaerei avrebbero quasi immediatamente spinto le corazzate di grosso calibro verso l’obsolescenza totale era ampiamente considerata assurda. La progettazione delle portaerei, le teorie sulle operazioni delle portaerei e le tattiche delle operazioni navali seguirono invece un’evoluzione incrementale durante il periodo tra le due guerre, avanzata in gran parte dalle marine giapponesi e americane, che videro la portaerei fare il salto da un tipo di nave ausiliaria a una piattaforma cinetica fondamentale.

Alla fine della Grande Guerra l’aviazione navale era ancora in uno stato decisamente rudimentale: le marine alleate – in primo luogo quella britannica – operavano con una manciata di portaerei e tender per idrovolanti improvvisati, che servivano principalmente come sistemi di ricognizione. Le portaerei cominciarono a proliferare solo durante l’era dei trattati, grazie alle disposizioni che consentivano di convertire in portaerei gli scafi delle navi da battaglia allora in costruzione. Il Giappone Akagi eKaga e la Marina Militare degli Stati Uniti LexingtonSaratogafurono tra le portaerei della flotta ad essere costruite nell’area del trattato su scafi destinati alle navi da battaglia. Gli aerei, tuttavia, non avevano ancora dimostrato di essere in grado di fornire una potenza di fuoco anche solo lontanamente paragonabile a quella delle potenti artiglierie navali delle navi capitali dell’epoca, per cui le prime teorie sulle operazioni delle portaerei si concentrarono sul potenziale degli aerei di amplificare la potenza di fuoco della linea di battaglia principale. A causa del ridotto numero di portaerei allora in servizio, queste teorie furono elaborate principalmente in giochi da tavolo piuttosto che attraverso esercitazioni di flotta.

Negli anni Venti, durante l’era dei trattati, il pensiero giapponese cominciò a convergere sull’aspettativa di una “battaglia aerea” sulla zona di combattimento delle flotte di superficie in duello. Questa linea di pensiero prevedeva che, in un futuro scontro tra flotte di navi da guerra, gli aerei avrebbero svolto un ruolo cruciale come piattaforme di avvistamento, fornendo un occhio nel cielo per regolare la precisione dei grandi cannoni della flotta. Poiché l’artiglieria navale era ormai progettata per operare a distanze estreme che mettevano a dura prova anche le più moderne ottiche di bordo, il vantaggio di mantenere uno schermo di aerei di avvistamento sulla zona di battaglia era ovvio. Secondo il pensiero giapponese, quindi, la parte che riusciva a controllare il cielo sopra la battaglia di superficie avrebbe goduto di un’armamento significativamente migliore e quindi avrebbe dovuto prevalere nel duello di artiglieria. Se aveste chiesto a un ammiraglio giapponese a metà degli anni Venti quale potesse essere il ruolo della portaerei in un futuro impegno di flotta, vi avrebbe suggerito di lanciare i caccia per scacciare gli aerei di avvistamento nemici e proteggere quelli amici, prevedendo che la parte che avesse ottenuto il controllo dello spazio aereo avrebbe goduto di un cannoneggiamento più preciso e quindi più letale come ricompensa.

IJN Akagi nel 1929: Costruita a partire da uno scafo di un incrociatore da battaglia convertito, inizialmente aveva tre ponti di volo e nessuna isola.

La teoria secondo cui il controllo dello spazio aereo al di sopra della battaglia di tiro avrebbe fornito un vantaggio potenzialmente decisivo lasciò naturalmente spazio alla fase successiva della riflessione sull’aviazione navale, in cui poteva rivelarsi decisivo attaccare le portaerei del nemico all’inizio della battaglia, ottenendo così il controllo dell’aria fin dall’inizio. L’elemento cardine era la relativa vulnerabilità delle portaerei agli attacchi aerei. All’inizio degli anni Trenta non ci si aspettava che gli aerei fossero in grado di affondare o neutralizzare facilmente navi da battaglia pesantemente corazzate. Le portaerei, invece, non avevano bisogno di essere affondate per essere neutralizzate come mezzi da combattimento: bastava danneggiare il ponte di volo e le strutture degli hangar per impedire alla portaerei nemica di lanciare i suoi aerei. In questo schema operativo, le portaerei giapponesi avrebbero lanciato un attacco alle portaerei nemiche all’inizio della battaglia, colpendo i loro ponti di volo per ritardare il lancio del nemico o impedirlo del tutto. Avendo acquisito il controllo dello spazio aereo fin dall’inizio, i caccia e gli osservatori giapponesi sarebbero stati liberi di sorvolare la battaglia a cannone e di fare fuoco sulla linea di combattimento giapponese.

I giapponesi non erano certo i soli a giungere a questa conclusione. Già nel 1921, il Naval War College degli Stati Uniti aveva stabilito che l’affondamento o la neutralizzazione delle portaerei nemiche all’inizio della battaglia era il modo migliore per ottenere il controllo aereo dello spazio di battaglia; come nel caso giapponese, tuttavia, ciò era considerato auspicabile come mezzo per fornire un avvistamento per le cannoniere di superficie. Mentre gli appassionati di navi da guerra continuavano a dominare in entrambe le marine (il cosiddetto “club dei cannoni”), è degno di nota il fatto che nel 1930 i teorici delle flotte giapponesi e americane erano giunti, con livelli diversi di impegno, a credere che gli attacchi preventivi alle portaerei nemiche sarebbero stati un elemento decisivo della battaglia.

La domanda diventa quindi, piuttosto chiaramente, perché furono i giapponesi – una potenza molto più povera e meno industrializzata – a sviluppare per primi e in modo più completo i pacchetti di portaerei di massa che si sarebbero rivelati così decisivi nel Pacifico? La realtà – e il punto paradossale su cui stiamo conducendo l’intera discussione – è che lo sviluppo dell’aviazione navale di massa giapponese ha completamente stravolto i calcoli interbellici sulla potenza navale. Il Sistema di Washington dell’epoca dei trattati era stato concepito per calcificare una gerarchia percepita della potenza navale che poneva gli anglo-americani all’apice, ma questa gerarchia era esplicitamente misurata in termini di tonnellaggio delle navi da guerra. In base ai pesi e agli inventari delle flotte da battaglia, la Royal Navy si auto-percepiva come la forza navale più potente del mondo. In realtà, però, nel 1941 l’Armata Aerea Navale Giapponese costituiva la singola risorsa offensiva più potente messa in campo da una qualsiasi delle grandi marine del mondo.

Il percorso del Giappone verso lo sviluppo della più formidabile forza d’urto navale del mondo è stato caratterizzato, non a caso, da una miscela unica di teoria, opportunismo materiale ed esperienza di combattimento, che in questo caso si è svolta in Cina. In questo caso, il problema era particolarmente multivariato, perché richiedeva non solo lo sviluppo di una flotta di portaerei e di sistemi tattici appropriati, ma anche degli aerei e dei piloti necessari per farli funzionare.

Le portaerei giapponesi della Grande Guerra del Pacifico erano prevalentemente un’arma offensiva, in grado di proiettare un’enorme potenza d’urto su lunghe distanze. Tuttavia, l’aviazione navale giapponese fu inizialmente animata da problemi di natura difensiva. La questione, molto semplicemente, era come il Giappone potesse impedire a un avversario di portare le proprie corazzate e portaerei fino al litorale delle isole. All’inizio del 1930, il commodoro Toshio Matsunaga (all’epoca ufficiale su una delle prime portaerei giapponesi, la Akagi) ha scritto un articolo sulla rivista navale Yushuche sosteneva che i bombardieri terrestri a lungo raggio avrebbero potuto svolgere un ruolo difensivo essenziale, consentendo all’aviazione terrestre giapponese di attaccare, distruggere una flotta nemica in arrivo mentre questa era ancora in mare. Egli sosteneva – in modo iperbolico, ma comunque in una direzione generalmente corretta – che un’adeguata forza di bombardieri a lungo raggio che operasse dalle isole britanniche, integrata da una manciata di portaerei, avrebbe reso il Giappone quasi impossibile da invadere.

Ciò coincideva con la sensibilità dell’ufficiale di marina forse più famoso e famigerato del Giappone. Nel 1930, il contrammiraglio Isoroku Yamamoto era a capo dell’Ufficio Tecnologia del Dipartimento dell’Aviazione Navale. Anche lui, come Matsunaga, vedeva nei bombardieri a lungo raggio un espediente difensivo fondamentale, ma prevedeva anche il giorno in cui il Giappone avrebbe iniziato a militarizzare le sue isole in Micronesia trasformandole in una catena di basi aeree. In questo scenario, Yamamoto vedeva i bombardieri terrestri a lungo raggio, operanti dalla catena di isole più esterna, come un sistema per proiettare il potere d’attacco lontano nel Pacifico. In caso di guerra con gli Stati Uniti, un tale sistema di attacco a largo raggio avrebbe permesso al Giappone di contenere o addirittura attaccare preventivamente la ben più grande flotta americana. A differenza di Matsunaga, tuttavia, Yamamoto aveva una posizione che gli consentiva di convogliare aggressivamente risorse ed energie nello sviluppo di un bombardiere a lungo raggio adatto ai compiti previsti.

Yamamoto

Possiamo segnare lo sviluppo della sensibilità tattica del Giappone e la sua deriva verso l’ultranazionalismo con alcuni momenti chiave a metà degli anni Trenta. Nel 1934, il Giappone si ritirò dalla Società delle Nazioni e abrogò gli obblighi previsti dai trattati, compresi i limiti di stazza delle navi da guerra del Sistema di Washington. Poco dopo, si verificarono due sviluppi tecnici cruciali. Nel 1935, la Marina iniziò a sollecitare progetti per una nuova classe di navi da battaglia che avrebbe superato in modo esorbitante i limiti convenzionali di dimensioni, corazzatura e armamenti. Le navi che emersero da questo concorso di progettazione divennero le famose supercorazzate giapponesi. YamatoMusashi: le navi da battaglia più grandi e più armate mai costruite. Nello stesso anno, l’azienda Mitsubishi condusse con successo i voli di prova del nuovo aereo d’attacco terrestre G3M Type 96, noto agli americani con il nome di battaglia “Nell”.

Il Yamatoera una nave che meritava ogni singolo appellativo di enormità: colosso, gargantuesca, mostruosa, scegliete voi. Era grande. Con oltre 70.000 tonnellate di dislocamento, era quasi il 40% più grande di qualsiasi altra nave ancora in servizio. Rispetto al programma della super nave da guerra, il bombardiere G3M appariva certamente più piccolo, con un peso relativamente contenuto di 17.000 libbre. Eppure “Nell” era molto più rivoluzionaria e avrebbe generato un valore incommensurabilmente maggiore in combattimento rispetto all’enorme Yamato. Il nuovo bombardiere offriva un’allettante coppia di capacità, con un raggio d’azione di circa 2.700 miglia e un carico utile di 1.800 libbre di bombe o di un siluro sganciato dall’aria. Il G3M1 non solo era in grado di colpire più lontano e più forte di qualsiasi altra cosa presente nelle scorte giapponesi, ma era anche più veloce dei caccia esistenti. In effetti, il G3M spinse alcuni ufficiali giapponesi a sostenere che i caccia erano ormai obsoleti, poiché non avevano la velocità e il raggio d’azione necessari per intercettare i bombardieri nemici o per scortare gli amici.

Per quanto possa sembrare strano, sia Yamamoto – che guidò personalmente lo sviluppo del programma di bombardieri a lungo raggio – sia gli ufficiali del “club dei cannoni”, che bramavano le pesanti super-battaglie, stavano cercando di risolvere lo stesso problema: come il Giappone potesse pareggiare le probabilità contro una flotta americana numericamente superiore. Una serie di giochi di guerra condotti nel decennio precedente aveva confermato ciò che i giapponesi già temevano: in una battaglia tra navi da guerra armate di qualità approssimativamente simile, la flotta più grande vincerà essenzialmente sempre. Nessuno era in grado di escogitare una soluzione tattica che potesse annullare i vantaggi dell’America, così i giapponesi cercarono soluzioni altrove. Per gli ufficiali del “club delle armi”, la risposta risiedeva nel vantaggio qualitativo delle super-navi da guerra, che sarebbero state in grado di superare il nemico. Per i sostenitori del potere aereo come Yamamoto, invece, la soluzione consisteva nel cambiare la composizione delle forze navali giapponesi aumentandole con la potenza d’urto dei bombardieri a lungo raggio.

IJN Yamato: Una super arma o un costoso ornamento?

Alcuni dei sostenitori del potere aereo tendevano a esagerare con la retorica. In un certo senso questo era naturale: molti dei sostenitori dell’aviazione erano ufficiali più giovani che si sentivano soffocati dall’ortodossia corazzata dell’alto comando. Uno di questi giovani ufficiali, Minoru Genda, arrivò a scrivere un saggio in cui sosteneva che la marina avrebbe dovuto essere costruita intorno all’aviazione, con l’intera flotta di navi da battaglia demolita o demolita come moli. Questa affermazione era un po’ troppo dura e naturalmente provocò una raffica di critiche che non giovarono alla causa dei sostenitori dell’aviazione. Yamamoto, parlando nel 1934 a una classe di nuovi piloti, lanciò un insulto più sottile, ma comunque sprezzante, al club delle armi:

È consuetudine delle famiglie benestanti esporre splendidi oggetti d’arte nei loro salotti. Tali oggetti non hanno alcun valore pratico, eppure queste famiglie ne traggono un certo prestigio. Allo stesso modo, il valore pratico delle navi da guerra è diminuito, ma le marine militari di tutto il mondo continuano a tenerle in grande considerazione e mantengono il loro simbolismo come indicatore della potenza navale. Voi giovani aviatori non dovreste insistere per l’abolizione della nave da guerra, ma piuttosto dovreste considerarla come una decorazione per il nostro salotto.

Si trattava, ovviamente, di speculazioni. Nel 1934, il Giappone non aveva né i modelli di aerei necessari, né i metodi tattici, né gli aviatori esperti per eclissare totalmente la nave da guerra come arma d’attacco preferita. Tuttavia, erano ormai in corso eventi che spingevano in quella direzione. Lo sviluppo del bombardiere G3M fu un passo importante, non tanto perché il “Nell” sarebbe stato un’arma importante (il G3M era prossimo all’obsolescenza quando iniziò la guerra del Pacifico nel 1941), ma perché cambiò completamente i requisiti di progettazione degli aerei giapponesi, in particolare dei caccia.

In precedenza, la missione dei caccia doveva essere limitata a uno spazio di battaglia immediato, orientato alla superficie. Il compito del caccia, in particolare, doveva essere quello di inseguire gli aerei di avvistamento nemici lontano dalla battaglia navale, il che significava che non erano necessarie gittate esorbitanti. Ma se bombardieri a lungo raggio come NellSe il raggio d’azione dell’aviazione navale fosse stato spostato di un migliaio di miglia o più, è chiaro che i caccia avrebbero dovuto essere in grado di tenere il passo se volevano mantenere un ruolo.

Nel 1937, il Dipartimento dell’Aviazione Navale iniziò a cercare un progetto di una complessità senza precedenti. Serviva un caccia con la velocità e la potenza di fuoco necessarie per abbattere i bombardieri nemici, la resistenza necessaria per scortare il G3M nelle missioni a lungo raggio e la manovrabilità necessaria per sconfiggere i caccia nemici che avrebbe potuto incontrare durante lo svolgimento di questi compiti, il tutto in un aereo in grado di operare da una portaerei. I requisiti specifici di progettazione (una velocità massima di 270 nodi, una velocità di atterraggio inferiore a 58 nodi, una distanza di decollo di soli 230 piedi, oltre a varie specifiche di autonomia, armamento e manovrabilità) misero a dura prova gli ingegneri, ma il risultato fu uno dei grandi aerei della storia: il G3M. A6M Zero.

Il Zeroè un aereo che ha attraversato cicli di affetto e repulsione nella storiografia, il che riflette gli enormi compromessi che il team di progettazione Mitsubishi dovette fare per raggiungere le specifiche del progetto. Il problema di base era che i requisiti di progettazione erano fondamentalmente contraddittori: l’autonomia e l’armamento richiesti richiedevano un aereo grande e pesante, mentre le specifiche di manovrabilità e velocità indicavano un veicolo piccolo e leggero. Per conciliare queste esigenze, il team di progettazione fu costretto a cercare di ridurre il peso dell’aereo in modo spietato. Questo obiettivo fu parzialmente raggiunto grazie a innovazioni aerodinamiche come la rivettatura a filo e il carrello d’atterraggio retrattile, a leghe innovative di zinco-alluminio e a un serbatoio ausiliario di carburante sganciabile, ma anche a un’armatura sostanzialmente totale dello Zero, compresa la protezione per il pilota e il serbatoio del carburante.

Il risultato fu un’iconica miscela di manovrabilità, autonomia, potenza ed estrema fragilità. Lo Zero era l’incarnazione del “cannone di vetro”: aveva una manovrabilità e un raggio d’azione senza precedenti e vantava una potente coppia di cannoni da 20 mm montati sulle ali, ma era coperto da singoli punti di guasto, dove un singolo colpo avrebbe fatto precipitare l’intero aereo. Lo stereotipo generale degli aerei nella guerra del Pacifico – quello di velivoli giapponesi altamente manovrabili che si incendiano al primo contatto con le bestie americane più lente ma robuste – è certamente valido per quanto riguarda lo Zero. Il progetto presentava anche altri inconvenienti: per ironia della sorte, il peso ridotto dello Zero significava che aveva una velocità di picchiata relativamente bassa, il che lo poneva di fronte al grave svantaggio di non riuscire a fuggire quando i caccia americani lo superavano.

Il Mitsubishi A6M Zero: un velivolo controverso ma rivoluzionario che ha spinto i compromessi progettuali al limite

Lo Zero tende a suscitare ammirazione o condanna, segno che si trattava di un progetto innovativo e all’avanguardia. I critici hanno ragione quando sottolineano che si trattava di un aereo estremamente fragile che ha contribuito al logoramento degli aviatori giapponesi, ma questo era più o meno inevitabile. La progettazione di un aereo comporta sempre una serie di compromessi tra prestazioni e protezione, e le specifiche di progetto stabilite dal team di Yamamoto al Dipartimento dell’Aviazione Navale garantivano praticamente un cannone di vetro. Il nostro scopo non è quello di fare un’autopsia dello Zero, ma di dimostrare che lo sviluppo del bombardiere a lungo raggio G3M diede il via a un’ondata di nuovi progetti, tra cui lo Zero, che fornirono ai giapponesi una serie impressionante di mezzi d’attacco a lungo raggio e basati su portaerei. Questi aerei, tra cui il bombardiere da trasporto D3A (“Val”) e l’aerosilurante B5N (“Kate”), entrarono tutti in servizio nel 1937 e nel 1938, mentre gli ufficiali del club dei cannoni festeggiavano la costruzione dell’aerosilurante G3M. Yamato.

Gli enormi passi avanti compiuti dai progettisti giapponesi diedero alla marina il nucleo di una formidabile potenza d’attacco, ma gli sviluppi tattici furono altrettanto significativi. I giapponesi furono la prima potenza navale a giungere alla conclusione di pacchetti d’attacco misti e massificati: vale a dire, pacchetti d’attacco composti da un gran numero di velivoli di tipo misto (aerosiluranti, bombardieri convenzionali e in picchiata e caccia di scorta) lanciati simultaneamente in un attacco consolidato, se possibile da più portaerei. L’orientamento tattico verso gruppi d’attacco massicci e consolidati di portaerei, piuttosto che verso divisioni di portaerei disperse, fu un passo cruciale che diede alle forze navali giapponesi la loro forza offensiva all’inizio della Guerra del Pacifico, e derivò in gran parte dall’esperienza giapponese in Cina.

La guerra del Giappone in Cina è spesso dimenticata dai ricordi popolari della Seconda guerra mondiale, anche se per l’esercito imperiale giapponese la Cina fu il primo e più importante teatro di guerra. Fino all’estate del 1945, quando caddero le bombe atomiche, c’erano milioni di giapponesi e un grande apparato di occupazione attivi in Cina. Nella misura in cui gli occidentali conoscono il teatro cinese, la conoscenza tende a limitarsi alle vignette delle atrocità giapponesi, come i massacri di Nanchino.

Affrontare la strategia continentale del Giappone e le guerre sino-giapponesi va ovviamente ben oltre il nostro scopo in questa sede. Si trattò di un conflitto di otto anni in uno spazio continentale che causò decine di milioni di vittime. Per i nostri scopi, tuttavia, i primi anni di quella guerra (1937-1940) sono immensamente importanti perché hanno funzionato come un laboratorio per il potere aereo giapponese.

Due fattori, in particolare, resero la guerra aerea giapponese sulla Cina particolarmente istruttiva per la marina. Innanzitutto, sebbene i cinesi possedessero una modesta forza aerea (equipaggiata principalmente con velivoli americani dei primi anni ’30, tra cui i Curtiss Hawk e gli adorabili Boeing P-26 Peashooter), i giapponesi non temevano la capacità della Cina di attaccare le loro navi in mare. Questo permise ai giapponesi di stazionare diverse portaerei in mare aperto, tra cui la KagaRyujo, e Hosho. Operando in un ambiente essenzialmente “sicuro”, questi complementi aerei giapponesi furono in grado di acquisire una preziosa esperienza nell’attaccare obiettivi terrestri. Tuttavia, le portaerei allora in servizio avevano un raggio d’azione limitato e avevano difficoltà a colpire a profondità significative. Ciò rendeva particolarmente importante il secondo fattore, ovvero la vicinanza del teatro cinese alle basi terrestri giapponesi. Per colpire in profondità, la Marina poté ricorrere a gruppi aerei terrestri che operavano dalle isole nipponiche, dalle basi nella penisola coreana e da Taiwan. A differenza delle portaerei esistenti, con le loro gambe corte, questi gruppi aerei terrestri operavano con i nuovissimi bombardieri G3M a lungo raggio ed erano in grado di spaziare in profondità nello spazio cinese.

La guerra in Cina permise quindi alla Marina giapponese di sperimentare sia le operazioni basate sulle portaerei sia i bombardamenti strategici a più lungo raggio effettuati dai gruppi di terra. I risultati sarebbero stati molto istruttivi, non perché la campagna aerea giapponese funzionò, ma perché subì perdite enormi. Nei primi quattro mesi della guerra aerea giapponese (estate 1937) i giapponesi persero ben 229 aerei sulla Cina. La capacità dei bombardieri giapponesi di spingersi in profondità nelle retrovie cinesi, conducendo quella che era essenzialmente la prima campagna di bombardamento strategico al mondo, fu una rivelazione per il mondo, ma dietro le quinte la Marina era preoccupata per l’inaspettato alto tasso di perdite tra gli equipaggi dei bombardieri.

Le elevate perdite dei bombardieri G3M in Cina convinsero i giapponesi della necessità di un caccia di scorta a lungo raggio e di voli massicci di bombardieri.

Le ragioni di queste perdite allarmanti sono molteplici. Gli ufficiali giapponesi avevano drasticamente sovrastimato il potenziale distruttivo dei bombardieri e all’inizio della guerra tendevano a inviarli in pacchetti d’attacco molto piccoli, spesso anche solo tre bombardieri alla volta. Questi piccoli voli, uniti alla mancanza di disciplina nella formazione, rendevano i bombardieri estremamente vulnerabili agli intercettori cinesi. I piloti giapponesi non avevano esperienza di volo in formazioni più grandi e coese che forniscono protezione reciproca e massimizzano la potenza di fuoco difensiva dei bombardieri. Inoltre, la pratica di inviare piccoli pacchetti d’attacco uno dopo l’altro non era semplicemente efficace e non riusciva a mettere fuori uso le basi aeree cinesi come ci si aspettava; di conseguenza, gli intercettori cinesi continuavano ad alzarsi per affrontare gli aerei giapponesi in arrivo.

La ragione più importante dell’alto tasso di perdite del Giappone all’inizio della guerra, tuttavia, fu la totale assenza di caccia di scorta. Si trattava in parte di un fallimento della pianificazione: la Marina aveva ipotizzato che i veloci bombardieri G3M potessero superare gli intercettori cinesi e quindi non avessero bisogno di scorte. Il problema più grande, tuttavia, era che i giapponesi nel 1937 semplicemente non avevano un caccia con la resistenza necessaria per fornire una scorta nelle missioni a lungo raggio. Sebbene alla fine del 1937 fosse disponibile un caccia provvisorio, l’A5M, per fornire una scorta a medio raggio, era appena entrato in servizio prima che la Marina cominciasse a sollecitare progetti per una soluzione più completa, che divenne lo Zero.

I giapponesi furono i primi tra le forze aeree mondiali a scoprire che i bombardieri senza scorta sono intrinsecamente vulnerabili agli intercettori. La Royal Air Force imparò la stessa lezione nel 1939, quando più della metà di un volo di bombardieri Wellington fu abbattuto dai caccia della Luftwaffe sulla baia di Helgoland. Quella disastrosa battaglia aerea fu talmente segnata che la RAF rinunciò del tutto ai bombardamenti diurni e iniziò a operare solo di notte. Nel 1940, i ruoli si sarebbero scambiati e i tedeschi avrebbero perso gran parte del loro inventario di bombardieri contro gli Spitfire e gli Hurricane britannici nella Battaglia d’Inghilterra. Le perdite dei bombardieri americani furono altrettanto atroci nelle prime fasi della campagna aerea sulla Germania.

Il Giappone imparò presto questa lezione, nei cieli sopra la Cina, e ne trasse diversi importanti elementi d’azione. In primo luogo, era assolutamente chiaro che una campagna aerea di successo richiedeva un caccia con una resistenza tale da poter contrastare i bombardieri. L’introduzione dell’A5M contribuì a ridurre quasi immediatamente le perdite dei bombardieri, ma i giapponesi avrebbero atteso con impazienza il lancio dello Zero per avere un caccia in grado di operare alla massima profondità. In secondo luogo, era ovvio che la scala dei pacchetti d’attacco dovesse aumentare. Questo sia per aumentare la coesione difensiva dei bombardieri, creando formazioni dense e di supporto reciproco, sia perché le prime esperienze in Cina dimostrarono che i piccoli voli di bombardieri non erano in grado di fare i danni sperati.

Sommando il tutto, si scopre che l’aviazione navale giapponese divenne rapidamente più sofisticata e in grado di operare su larga scala. Il Giappone entrò in Cina lanciando piccoli voli di bombardieri senza scorta contro obiettivi lontani nelle retrovie cinesi. La portata era impressionante, ma le perdite erano elevate e i risultati deludenti. Nel 1940, questi piccoli gruppi aerei avevano lasciato il posto a gruppi aerei combinati, che a loro volta si erano trasformati in flotte aeree, ammassando grandi pacchetti d’attacco con scorte organiche di caccia. Questo, a sua volta, comportò l’adozione sistematica di disposizioni tattiche standardizzate, in gran parte incentrate su una sequenza di triangoli scaleni annidati che garantivano flessibilità e supporto reciproco.

Le interviste con i piloti della Marina giapponese catturati hanno rivelato un tema comune e inaspettato: i piloti veterani hanno insistito sul fatto che avevano sviluppato una forma di telepatia mentale che permetteva loro di anticipare le azioni dei loro compagni di volo in combattimento. Si dice che questo fenomeno fosse particolarmente pronunciato nei 3 caccia. ShotaiMolti piloti insistevano sul fatto che potevano coordinarsi con i loro due compagni senza parlare. La spiegazione di ciò (e i piloti giapponesi sembravano crederci davvero) è abbastanza ovvia: il rigoroso addestramento e l’ampia esperienza nella guerra aerea sulla Cina avevano condizionato gli aviatori giapponesi a vedere le situazioni tattiche allo stesso modo, mentre le lunghe ore di volo insieme avevano instillato un impressionante livello di coesione dell’unità.

Nel 1939, la Marina imperiale giapponese aveva sviluppato la base materiale per il suo principale pugno offensivo. Le pesanti perdite subite dalla flotta di bombardieri a lungo raggio all’inizio della campagna aerea in Cina avevano dato il via allo sviluppo del caccia Zero, capace e dalle lunghe gambe, e il basso livello di danni dei piccoli e dispersi raid dei bombardieri aveva convinto la Marina che solo pacchetti d’attacco massicci di tipi di velivoli misti avrebbero potuto ottenere in modo affidabile un effetto decisivo. La dottrina giapponese puntava su un attacco concentrato e graduale da parte di tutti i tipi di velivoli interessati, preferibilmente in un attacco preventivo all’inizio della battaglia, per vincere la battaglia aerea decisiva prima che iniziasse. Non appena l’obiettivo veniva avvistato, il pacchetto d’attacco si disperdeva. I caccia avrebbero spazzato via le pattuglie aeree da combattimento del nemico e avrebbero bombardato il ponte e il ponte di volo delle portaerei nemiche per ritardare il contro-lancio. Nel frattempo, i bombardieri orizzontali sarebbero scesi sopra l’obiettivo per fornire copertura ai bombardieri in picchiata, che avrebbero iniziato le loro picchiate da 10.000 piedi, sganciando le bombe a soli 1.600 piedi sopra l’obiettivo. Contemporaneamente, un’ondata di siluri sarebbe stata lanciata da più angolazioni.

I giapponesi arrivarono all’attacco di massa per due motivi: uno tattico e uno operativo. A livello tattico, le esercitazioni avevano dimostrato che le navi potevano eludere gli attacchi di minore intensità se gestiti con abilità, in particolare quando si trattava di attacchi con siluri. Sottoponendo il nemico a un’ondata di siluri, bombardamenti in picchiata, bombardamenti orizzontali e strafing, tutti da angolazioni diverse, si poteva sopraffare sia la manovra che il fuoco difensivo del nemico. Si trattava di un metodo di attacco incredibilmente disorientante che tendeva a paralizzare il processo decisionale del nemico. Dal punto di vista operativo, si riteneva che valesse la pena di “gettare l’acqua sporca” sulle portaerei nemiche, in particolare, perché l’aviazione navale si era ormai impegnata a fondo nell’idea della battaglia aerea decisiva, in cui la neutralizzazione delle portaerei nemiche al primo colpo era l’asse portante della vittoria. Se, senza un pizzico di iperbole e di esagerazione, il destino dell’impero si basava sulla capacità di sferrare colpi da ko alle portaerei nemiche, allora non c’era motivo di non inviare il più grande pacchetto d’attacco possibile.

C’era ancora un ostacolo. La trasformazione delle forze aeree navali giapponesi tra il 1937 e il 1941 fu incredibile, con l’introduzione di nuovi velivoli a lungo raggio, l’emergere di un metodo di pacchetti d’attacco massicci e l’impegno ad attaccare in massa e preventivamente i gruppi di portaerei del nemico. Il problema era che questi sviluppi erano essenzialmente guidati dall’aviazione navale, piuttosto che dal comando della flotta. L’aviazione navale, in un certo senso, aveva anticipato la marina in generale, tanto che il braccio aereo aveva ambizioni e capacità che si discostavano dai principi formali della teoria navale giapponese. L’Accademia di Stato Maggiore della Marina e lo Stato Maggiore cercarono di tenere il passo, emanando “Istruzioni di battaglia” formali. È evidente, tuttavia, che la forza aerea navale non poteva operare indipendentemente dalla marina in quanto tale.

Più precisamente, l’aeronautica voleva concentrare le risorse aeree in pacchetti d’attacco massicci, mentre la marina voleva disperdere le portaerei per la propria protezione. C’erano teorie interessanti da entrambe le parti. I fautori della dispersione sostenevano che i vantaggi dell’ammassamento della potenza d’attacco erano compensati dalla minaccia per le portaerei: se il nemico fosse riuscito a catturarle, l’intera flotta di portaerei sarebbe stata a rischio. Altri sostenevano che la dispersione delle portaerei le rendeva in realtà più vulnerabili, perché una portaerei che operava in modo indipendente poteva essere catturata e attaccata da una flotta aerea nemica numericamente superiore.

Quando la guerra in Cina iniziò nel 1937, le conclusioni dei giochi di guerra e delle esercitazioni della flotta sostenevano la dispersione, ma l’ineluttabile conclusione che i bombardieri dovevano essere ammassati per poter infliggere danni decisivi spinse inesorabilmente la Marina verso la concentrazione. Un potenziale compromesso era quello di mantenere le portaerei ragionevolmente disperse, ma far sì che i loro pacchetti d’attacco si riunissero e si ammassassero per attaccare. Tuttavia, le esercitazioni della flotta condotte nel 1939-40 dimostrarono che era estremamente difficile coordinare attacchi in massa da portaerei disperse, mentre le comunicazioni radio a lungo raggio tra le portaerei sparse rischiavano di allertare il nemico della loro presenza. Inoltre, il lancio da portaerei molto disperse riduceva la portata dell’attacco, perché gli aerei erano costretti a sprecare carburante per assemblarsi.

La IJN Akagi nel 1941, dopo il suo riallestimento, con un unico ponte di volo e la familiare torre di controllo dell’isola.

I giapponesi si stavano lentamente ma inesorabilmente orientando verso una dottrina di concentrazione delle portaerei, con alcuni compromessi. Le portaerei erano organizzate in “divisioni” di due portaerei ciascuna e nel 1940 la Marina era orientata verso una soluzione in cui le portaerei all’interno delle divisioni sarebbero state concentrate (cioè due portaerei che navigavano vicine), ma le divisioni erano ampiamente separate l’una dall’altra. La teoria – mai attuata – prevedeva che tre divisioni (quindi sei portaerei in totale) si muovessero in una forma approssimativamente triangolare, con l’obiettivo di catturare la flotta nemica al centro e di attaccare concentricamente con pacchetti di attacco da diverse angolazioni. Tuttavia, la guerra iniziò prima che ci fosse l’opportunità di implementare o praticare formalmente questa formazione, così la formazione idealizzata per le portaerei giapponesi quando si concentravano per l’azione divenne la molto più semplice “scatola”, che disponeva le portaerei in un rettangolo con spazi di circa 7.000 metri (poco più di quattro miglia) tra di loro.

Nel giugno 1940, tuttavia, più o meno nello stesso periodo in cui i panzer tedeschi stavano tagliando la Francia, il contrammiraglio Jisaburō Ozawa scrisse una lettera al ministro della Marina per esortarlo a formare una flotta aerea unificata che mettesse tutte le forze aeree della Marina, comprese tutte le portaerei, sotto un unico comando. La mossa aveva lo scopo di scavalcare l’ammiraglio Yamamoto (promosso comandante in capo della flotta combinata nel 1939) e di forzare la mano. Yamamoto, per ovvie ragioni, fu contrariato dalla manovra di Ozawa, ma nel dicembre 1940 autorizzò il concetto di flotta aerea e pose definitivamente fine al persistente dibattito tra concentratori e distributori.

La riorganizzazione comportò una serie di modifiche alle flottiglie aeree terrestri della Marina, ma il cambiamento più importante avvenne nell’aprile 1941, con la formazione della Prima flotta aerea. Inizialmente composta da tre divisioni di portaerei (a cui se ne aggiunse una quarta in settembre con l’entrata in servizio della ShokakuZuikaku), la Prima Flotta Aerea costituì, fin dal momento della sua creazione, la più potente concentrazione di potenza aerea navale sulla terra. Comprendeva tutte e sette le portaerei della flotta giapponese (più tre portaerei leggere di scorta), con un inventario combinato di 137 caccia, 144 bombardieri in picchiata e 183 aerosiluranti. Nemmeno la Flotta del Pacifico degli Stati Uniti poteva vantare una simile concentrazione di potenza aerea.

Nel 1941, con la creazione della Prima Flotta Aerea, la Marina Imperiale Giapponese aveva completato una serie di sviluppi rivoluzionari che le avevano conferito una concentrazione di potenza d’attacco senza pari. Tra questi, ma non solo, la determinazione a schierare un caccia a lungo raggio per fornire scorte in profondità, la necessità di ammassare bombardieri e creare pacchetti d’attacco misti su scala, sistemi tattici per attaccare le navi nemiche da una varietà di piattaforme (bombardamento orizzontale, bombardamento in picchiata e attacchi con siluri simultanei) e infine la concentrazione delle portaerei della flotta sotto un unico comando. Tutto ciò indicava un principio che a noi sembra semplice, ma che nel 1941 era davvero rivoluzionario e non replicato: un sistema di combattimento basato su centinaia di aerei lanciati dalle portaerei che sciamavano su obiettivi di alto valore in un attacco massiccio, coordinato ed estremamente violento. Questo è ciò che i marinai americani sperimentarono in una altrimenti sonnolenta domenica di dicembre a Pearl Harbor.

Conclusione: La seconda svolta

I cambiamenti epocali nella tecnologia militare e nei metodi tattici sono raramente così evidenti in tempo reale come lo sono per coloro che li leggono secoli dopo con il senno di poi. I cambiamenti spesso avvengono in modo lento e incrementale e spesso i cambiamenti tecnologici vengono adottati con successo da quegli Stati che sono già all’apice della struttura di potere, in modo che le gerarchie esistenti vengano rafforzate, piuttosto che sconvolte.

Ciò è avvenuto soprattutto in mare. Quando nel 1922 fu firmato il Trattato navale di Washington, l’umanità faceva la guerra in mare da migliaia di anni. In tutto questo tempo, c’era stato un solo cambiamento tecnologico nella guerra navale che poteva essere considerato veramente rivoluzionario: il passaggio dalla guerra di galea, che utilizzava le navi da guerra come mezzi d’assalto armati per la fanteria, alle grandi navi a vela e a tiro della Marina inglese, che erano progettate e utilizzate come batterie d’artiglieria galleggianti. Fu il pieno impegno dell’Inghilterra nella logica dell’artiglieria navale che le valse il controllo dei mari del mondo in una serie di vittorie su nemici come gli spagnoli, che volevano ancora combattere combattimenti ravvicinati di abbordaggio del tipo usato nel Mediterraneo fin dall’antichità, e gli olandesi, che tentarono senza successo di portare navi mercantili armate in combattimenti contro navi da guerra inglesi appositamente costruite.

La prima grande svolta nella storia della guerra in mare fu la “Great Ship” inglese, che abbracciò pienamente la logica della nave da guerra come piattaforma di tiro. Nei secoli che seguirono la sconfitta dell’Armada spagnola, le navi da guerra si evolsero drammaticamente. Le navi da guerra a vela divennero sempre più grandi e dotate di cannoni sempre più grandi, i sistemi tattici e di comando e controllo divennero sempre più sofisticati e, naturalmente, la nave alla fine abbandonò il legno, le vele e i proiettili rotondi a favore dell’acciaio, delle turbine a vapore e dei mastodontici pezzi d’artiglieria che potevano infliggere la morte da distanze misurate in miglia. Nessuno di questi cambiamenti, tuttavia, fu veramente “rivoluzionario”, nel senso che lo schema generale rimase lo stesso. Il combattimento navale rimase incentrato su flotte massicce di navi capitali che si scambiavano colpi d’arma da fuoco e gli inglesi rimasero all’apice della struttura del potere navale. Un suddito britannico che viaggiava dall’India al Canada avrebbe visto un sistema essenzialmente coerente che comprendeva: una catena di basi britanniche piene di navi da guerra britanniche, sostenute dalla capacità della Royal Navy di portare il fuoco più concentrato nel punto decisivo degli oceani del mondo.

Il periodo dei trattati tra le due guerre portava come firma il congelamento di questo sistema consolidato. Congelò la costruzione navale e creò un’esplicita gerarchia della forza delle flotte, con gli anglo-americani all’apice, una flotta giapponese in ascesa al terzo posto e un’equilibrata rivalità franco-italiana molto indietro. Inoltre, questa gerarchia era valutata in modo piuttosto esplicito in base alla forza delle navi da guerra, una premessa che praticamente tutte le parti accettarono.

I britannici patriottici potevano convincersi che il sistema dei trattati aveva preservato la supremazia della Royal Navy. Certo, il trattato faceva concessioni ai cugini americani concedendo loro parità di tonnellaggio, ma la Gran Bretagna aveva da tempo fatto pace con l’idea della potenza americana, riducendo le proprie forze nell’emisfero occidentale. In ogni caso, l’America difficilmente sarebbe stata un avversario, aveva impegni lontani nel Pacifico e la Marina statunitense non aveva nemmeno esaurito il suo tonnellaggio consentito. Solo la Royal Navy aveva la necessaria catena di basi e porti, il controllo dei grandi punti di strozzatura di Gibilterra, Suez, Aden e Singapore (le “Chiavi che chiudono il mondo”, come si diceva) e la spina dorsale della più grande flotta da battaglia del mondo.

Infatti, dal momento in cui Yamamoto costituì la Prima Flotta Aerea nel 1941, i giapponesi possedevano la più potente forza d’attacco navale del mondo. L’impegno precoce del Giappone nella particolare combinazione di attacchi aerei massicci, preventivi e a lungo raggio riecheggia in modo inquietante l’adozione pionieristica della cannoniera navale da parte della Gran Bretagna. Anche la US Navy e la Royal Navy si stavano dilettando con le portaerei, naturalmente, ma i giapponesi – spinti dall’esperienza in Cina – furono i primi a impegnarsi nell’aviazione navale di massa come sistema di attacco devastante per infliggere potenti colpi preventivi all’inizio della battaglia. Il Giappone, che se ne rendesse conto o meno, aveva inaugurato la seconda svolta: un nuovo sistema tattico che avrebbe completamente stravolto sia lo schema consolidato del tiro navale in massa sia la gerarchia del potere navale guidata dagli inglesi. Ancora più sorprendente è il fatto che apparentemente lo fecero senza nemmeno capire che tipo di arma avessero creato.

Stranamente, nonostante l’enorme potenza di combattimento concentrata nella Prima Flotta Aerea, i giapponesi non avevano ancora accettato pienamente la forza delle portaerei come elemento centrale di combattimento della flotta. La Prima Flotta Aerea era intesa essenzialmente come una forza concentrata di portaerei, progettata per sferrare un attacco preventivo e potente contro le portaerei nemiche, per vincere la “battaglia aerea decisiva” prima dell’impegno in superficie. Fino alla Battaglia delle Midway del 1942, il coefficiente di combattimento principale era ancora inteso come la forza corazzata organizzata intorno alla gigantesca nave ammiraglia di Yamamoto, la super nave da guerra Yamato. È innegabile che, allo scoppio della Guerra del Pacifico, la Prima Flotta Aerea fosse la più potente forza offensiva posseduta da qualsiasi marina del mondo, eppure il richiamo delle navi da battaglia rimase così forte che persino i giapponesi continuarono a considerare la forza delle portaerei come un sistema d’attacco ausiliario che poteva creare le condizioni ottimali per i grandi cannoni.

Ciò ha posto le basi per il dramma a tre giocatori sugli oceani del mondo che sarebbe scoppiato nel momento in cui il primo aereo giapponese si fosse levato all’orizzonte a Pearl Harbor. La percezione generale era che la Royal Navy fosse ancora la più potente del mondo, sulla base delle sue navi capitali e della sua catena di basi e punti critici di accesso al globo. In realtà, però, la Marina imperiale giapponese possedeva l’arma offensiva più potente e rivoluzionaria nella sua Prima flotta aerea, che offriva una piattaforma davvero unica per lanciare attacchi aerei massicci e a lungo raggio. Tuttavia, fu il terzo giocatore – la Marina statunitense – a spazzare via gli altri e ad aggiudicarsi entrambi i premi. Pur essendo arrivati in ritardo, gli americani avrebbero presto adottato il loro sistema di attacco massiccio alle portaerei – il Carrier Task Group – e avrebbero spazzato via i giapponesi dal gioco che avevano inventato.

Il periodo tra le due guerre, quindi, vide uno sforzo concertato da parte degli inglesi per congelare la gerarchia delle potenze navali attraverso un sistema di trattati che creava il miraggio di un mondo stabile caratterizzato dalla potenza britannica, riconoscibile nei suoi fondamenti per un viaggiatore del tempo dai tempi di Nelson. Allo stesso tempo, i giapponesi furono i pionieri del sistema di attacchi massicci delle portaerei che avrebbero fatto crollare quel sistema e fatto evaporare il miraggio. Ironia della sorte, però, né lo sforzo britannico di preservare il mondo nella stasi né il progetto giapponese di stravolgerlo funzionarono, e i frutti di entrambi – la catena di basi che si estendeva su tutto il globo e la potenza d’urto del gruppo di portaerei – sarebbero stati sistematicamente inghiottiti dalla Marina statunitense, che il 6 dicembre 1941 rimaneva un gigante assopito.

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La lista di lettura di Big Serge

  • Le navi da guerra dopo Washington: Lo sviluppo delle cinque flotte principali, 1922-1930, di John Jordan
  • Vittoria in mare: Il potere navale e la trasformazione dell’ordine globale nella seconda guerra mondiale, di Paul M. Kennedy
  • L’impero giapponese: La grande strategia dalla Restaurazione Meiji alla Guerra del Pacifico, di S. C. M. Paine
  • La Royal Navy e la nave capitale nel periodo interbellico: Una prospettiva operativa, di Joseph Moretz
  • Kaigun: Strategia, tattica e tecnologia nella Marina imperiale giapponese, 1887-1941, di David C. Evans e David Peattie
  • Sunburst: L’ascesa del potere aereo navale giapponese, 1909-1941, di Mark Peattie
  • La Marina imperiale giapponese nella guerra del Pacifico, di Mark Stille
  • La guerra di Hirohito: la guerra del Pacifico, 1941-1945, di Francis Pike

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