Osservazioni del Consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan sul rinnovamento della leadership economica americana_ a cura di Giuseppe Germinario

Questo del Consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan, tenuto il 27 aprile scorso, è un discorso particolarmente importante ed interessante. Un altro punto della ardua parabola che stanno seguendo, per meglio dire, che sono costrette a seguire le amministrazioni statunitensi di fronte alle attuali dinamiche geopolitiche. Nel giro di quaranta anni siamo al quasi compimento di una giravolta epocale. All’inizio la chiave di volta del trionfo di un mondo globalizzato e unificato doveva essere il connubio inscindibile tra liberal democrazia e libero mercato. Alle prime insopprimibili difficoltà il legame indissolubile comincia ad allentarsi: anche i regimi zoppicanti o dichiaratamente illiberali potranno trovare una qualche ospitalità ed accondiscendenza purché accettino le regole del libero mercato. Il primo a riconoscerlo esplicitamente è stato proprio Biden, appena un anno fa. Jake Sullivan ha quasi chiuso il cerchio, sembra attraversare finalmente il Rubicone. Il mercato non è più il totem cui sacrificare il resto, ma una variabile da regolare sulla base delle esigenze della sicurezza nazionale, nella fattispecie statunitense, sulla necessità di ridurre le diseguaglianze e di ricostruire su basi solide il benessere e la funzione equilibratrice e dinamica dei ceti medi. Il Consigliere attribuisce esplicitamente allo Stato e agli investimenti e all’intervento pubblici diretti in economia il compito di orientare ed incentivare il settore privato e di innescare un processo virtuoso di riequilibrio e di reindustrializzazione dell’economia statunitense. Non si limita solo a questo. Offre ai “volenterosi”, incapaci di rompere il guscio di appartenenza, l’opportunità di inserirsi nel circuito di questa nuova configurazione delle relazioni politico-economiche e di beneficiare a loro volta delle implicazioni sulla ricostruzione e ricostruzione dei ceti medi, sulla riduzione delle diseguaglianze e sulle garanzie di sicurezza strategica a guida statunitense e compartecipazione degli alleati. Per gli ambiti residui, pur rilevanti, Sullivan non chiude le porte agli stati competitori ed avversari, ma sottintende con risolutezza che a gestirle dovrà essere il centro egemone dell’area in fase di delimitazione, gli Stati Uniti. Un ribaltamento radicale e un costrutto tanto ambizioso quanto tardivo che sorvola elegantemente su incoerenze, omissioni e propositi reconditi; che, in particolare, non coglie, o non vuol cogliere adeguatamente il contesto entro il quale intende realizzarsi.

Intanto va precisato che non si tratta di passare da un libero mercato, sin troppo spontaneo e semplificato, ad uno regolato, delimitato ed occupato dallo stesso arbitro. Ogni mercato, compreso il più “libero” ed esteso, è comunque regolato e presuppone un regolatore comunque presente ed attivo nel campo di gioco. L’eccessiva delirante ambizione, e frenesia universalistica del regolatore e l’opportunismo intelligente e spregiudicato degli attori emergenti hanno progressivamente piegato ad “usum Delphini” le cosiddette regole e fatto saltare il banco. E’ un sistema di relazioni, per altro ancora vigente, sia pure seriamente intaccato, che poggia su un presupposto ed ha una sua logica cogente. La condizione è che il regolatore, nella fattispecie gli Stati Uniti, detenga la supremazia militare e tecnologica, il controllo sostanziale delle leve finanziarie e valutarie e la supervisione manageriale del mondo imprenditoriale, specie multinazionale. La logica è quella di un drenaggio generale verso il centro regolatore di valute, di finanze e di risorse, queste ultime progressivamente estratte e prodotte nelle semiperiferie e nelle periferie. IL corollario, però, di questa dinamica non è stato l’estinzione o l’indebolimento degli stati, ma una loro ridefinizione dei compiti a seconda della postura e delle ambizioni dei centri decisori. Per gli Stati Uniti, nella fattispecie, una sottovalutazione del livello di coesione sociale interna necessario a garantire la proiezione esterna e la stabilità interna, altrimenti garantita approssimativamente da interventi assistenzialistici. Per gli stati emergenti o di fatto già emersi un assorbimento a guida politica delle capacità tecnologiche e strategiche legate allo sviluppo manifatturiero ed organizzativo delle imprese con il corollario di un crescente tessuto di ceti medi professionalizzati e di accumulo di potenza latente.

Una dinamica appena intuita dalla presidenza Obama, colta in pieno e con realismo pragmatico da quella di Trump, a prescindere dalle controversie del suo percorso e ricodificata in termini estremamente aggressivi e avventuristi da una parte sia verso gli avversari dichiarati che verso le forze “amiche”  e dall’altra circoscritta essenzialmente agli ambiti dei semiconduttori e della conversione energetica dall’attuale amministrazione Biden. In quest’ottica l’intento inclusivo che informa l’intervento di Sullivan assume piuttosto i tratti di un canto delle sirene e di un adescamento per almeno due ragioni e un pesante retaggio. 

  • il classico drenaggio finanziario si sta facendo sempre più esigente e occupa uno spazio geopolitico progressivamente più ristretto;
  • agli Stati Uniti occorre riacquisire capacità produttive, competenze professionali e manageriali, capitali. E’ questo il vero cambiamento di paradigma del circuito economico-finanziario incentrato sugli Stati Uniti. In questa ottica l’accenno alla collaborazione internazionale assume un significato sinistro soprattutto per quell’area, i paesi dell’Europa Occidentale, che più hanno beneficiato delle politiche economiche statunitensi del secondo dopoguerra, non a caso richiamate da Sullivan. I dati confermano il destino manifesto cui si sta condannando il continente europeo, a cominciare dai duecento miliardi su seicento totali di investimenti produttivi acquisiti dall’estero, per finire con il trasferimento di importanti aziende, tecnologie ed intere filiere specie dalle aree europee più elette. Con le privatizzazioni e le partecipazioni azionarie statunitensi varate a partire dagli anni ’90 e lo spostamento dell’orbita d’attrazione dei manager, vedi in Italia quello dell’ENI e di Leonardo, ma lo stesso e su scala più ampia vale per Francia e Germania, questa svolta trova un terreno fertile ed una resistenza flebile. L’attuale conformazione della Unione Europea è, per altro, costruita per garantire il successo di questo proposito predatorio. Il modello di ricostruzione dei ceti medi offerto all’esterno assume tutti i contorni di una riconformazione di una borghesia compradora dedita, tutt’al più, a funzioni di ordine e di gestione, al meglio, di semplici opifici. Esattamente quello che i nostri avevano intenzione di riservare alla Cina e dalla cui classe dirigente sono stati beffati; esattamente quello a cui paiono condannati, per complicità e passiva accondiscendenza, i nostri centri decisori.

Quanto ai retaggi, ne risulta almeno uno impossibile da superare, almeno in tempi ragionevoli e nelle regioni esterne all’Europa: la perdita di credibilità e di autorevolezza di un paese che ha seminato per un trentennio caos e destabilizzazione prima in maniera selettiva (Jugoslavia), poi generalizzata (primavere arabe) sino all’avvio di interventi armati proditori. Un addomesticamento sfacciato delle stesse regole formulate dai decisori statunitensi e dagli stessi spesso e volentieri eluse e riesumate a piacimento. Una caduta giunta a livelli di autentica derisione e di contestuale diffidenza da parte di classi dirigenti di paesi più o meno emergenti dei vari continenti. Il re è sempre più nudo e per ribadire la propria supremazia è costretto a ricorre sempre più alla forza, ma con esiti sempre più incerti e controproducenti. La pochezza e la irrilevanza degli appigli ai quali si è aggrappato Sullivan dice molto sul reale stato dell’arte della politica statunitense. L’ergersi a paladino dell’emancipazione dagli imperialismi altrui assume il sapore di una beffarda ed offensiva caricatura verso nuove classi dirigenti sempre più avvezze a sfruttare gli spazi aperti dal contenzioso geopolitico dei paesi emersi più significativi. Il passato di predazione e di destabilizzazione è ancora un presente tuttora operante per essere glissato e rimosso dai quattro quinti della popolazione e dei paesi del mondo. Tanto più inquietante se a cambiare il paradigma sono esattamente gli stessi centri, incapaci di ricambio, che hanno trascinato il mondo in questa situazione. Buona lettura, Giuseppe Germinario 

Osservazioni del Consigliere per la Sicurezza Nazionale Jake Sullivan sul rinnovamento della leadership economica americana alla Brookings Institution
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SALA BRIEFING
DISCORSI E OSSERVAZIONI
COME SONO STATI PRONUNCIATI

Vorrei iniziare ringraziando tutti voi per aver concesso a un Consigliere per la Sicurezza Nazionale di discutere di economia.

Come molti di voi sanno, la settimana scorsa il Segretario Yellen ha tenuto un importante discorso sulla nostra politica economica nei confronti della Cina. Oggi vorrei soffermarmi sulla nostra politica economica internazionale in senso lato, in particolare per quanto riguarda l’impegno principale del Presidente Biden – anzi, la sua indicazione quotidiana – di integrare più profondamente la politica interna e la politica estera.

Dopo la Seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno guidato un mondo frammentato nella costruzione di un nuovo ordine economico internazionale. Hanno fatto uscire dalla povertà centinaia di milioni di persone. Hanno sostenuto entusiasmanti rivoluzioni tecnologiche. E ha aiutato gli Stati Uniti e molte altre nazioni del mondo a raggiungere nuovi livelli di prosperità.

Ma gli ultimi decenni hanno rivelato delle crepe in queste fondamenta. Il cambiamento dell’economia globale ha lasciato indietro molti lavoratori americani e le loro comunità.
Una crisi finanziaria ha scosso la classe media. Una pandemia ha messo in luce la fragilità delle nostre catene di approvvigionamento. Il cambiamento del clima ha minacciato vite e mezzi di sussistenza. L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha sottolineato i rischi dell’eccessiva dipendenza.

Questo momento richiede quindi la formazione di un nuovo consenso.

Ecco perché gli Stati Uniti, sotto la guida del Presidente Biden, stanno perseguendo una moderna strategia industriale e di innovazione, sia a livello nazionale che con i partner di tutto il mondo. Una strategia che investa nelle fonti della nostra forza economica e tecnologica, che promuova catene di approvvigionamento globali diversificate e resilienti, che stabilisca standard elevati per tutto ciò che riguarda il lavoro e l’ambiente, la tecnologia affidabile e il buon governo, e che impieghi i capitali per realizzare beni pubblici come il clima e la salute.

L’idea che il “nuovo consenso di Washington”, come è stato definito da alcuni, riguardi in qualche modo solo l’America, o l’America e l’Occidente ad esclusione di altri, è semplicemente sbagliata.

Questa strategia costruirà un ordine economico globale più equo e duraturo, a beneficio di noi stessi e dei cittadini di tutto il mondo.

Oggi, quindi, vorrei illustrare ciò che stiamo cercando di fare. Inizierò definendo le sfide che vediamo, le sfide che dobbiamo affrontare. Per affrontarle, abbiamo dovuto rivedere alcuni vecchi presupposti. Poi illustrerò, passo dopo passo, come il nostro approccio è stato concepito per affrontare queste sfide.

Quando il Presidente Biden è entrato in carica più di due anni fa, il Paese si trovava ad affrontare, dal nostro punto di vista, quattro sfide fondamentali.

In primo luogo, la base industriale americana era stata svuotata.

La visione dell’investimento pubblico che aveva animato il progetto americano negli anni del dopoguerra – e in realtà per gran parte della nostra storia – era svanita. Aveva lasciato il posto a un insieme di idee che sostenevano la riduzione delle tasse e la deregolamentazione, la privatizzazione a scapito dell’azione pubblica e la liberalizzazione del commercio come fine a se stessa.

Alla base di tutte queste politiche c’era un presupposto: che i mercati allocano sempre il capitale in modo produttivo ed efficiente, indipendentemente da ciò che fanno i nostri concorrenti, da quanto grandi siano le sfide che condividiamo e da quante barriere di protezione abbiamo abbattuto.

Ora, nessuno – di certo non io – sta scartando il potere dei mercati. Ma in nome di un’efficienza di mercato troppo semplicistica, intere catene di fornitura di beni strategici – insieme alle industrie e ai posti di lavoro che li producono – si sono trasferite all’estero. E il postulato secondo cui una profonda liberalizzazione del commercio avrebbe aiutato l’America a esportare beni, non posti di lavoro e capacità, è stata una promessa fatta ma non mantenuta.

Un altro presupposto implicito era che il tipo di crescita non fosse importante. Tutta la crescita era una buona crescita. Così, varie riforme si sono combinate per privilegiare alcuni settori dell’economia, come la finanza, mentre altri settori essenziali, come i semiconduttori e le infrastrutture, si sono atrofizzati. La nostra capacità industriale, che è fondamentale per la capacità di qualsiasi Paese di continuare a innovare, ha subito un vero e proprio colpo.

Gli shock di una crisi finanziaria globale e di una pandemia globale hanno messo a nudo i limiti di queste ipotesi prevalenti.

La seconda sfida che abbiamo affrontato è stata quella di adattarci a un nuovo ambiente definito dalla competizione geopolitica e di sicurezza, con importanti impatti economici.

Gran parte della politica economica internazionale degli ultimi decenni si era basata sulla premessa che l’integrazione economica avrebbe reso le nazioni più responsabili e aperte, e che l’ordine globale sarebbe stato più pacifico e cooperativo – che portare i Paesi nell’ordine basato sulle regole li avrebbe incentivati ad aderire alle sue regole.

Non è andata così. In alcuni casi sì, in molti altri no.

Quando il Presidente Biden è entrato in carica, abbiamo dovuto fare i conti con la realtà che una grande economia non di mercato era stata integrata nell’ordine economico internazionale in un modo che poneva notevoli sfide.

La Repubblica Popolare Cinese ha continuato a sovvenzionare in modo massiccio sia i settori industriali tradizionali, come l’acciaio, sia le industrie chiave del futuro, come l’energia pulita, le infrastrutture digitali e le biotecnologie avanzate. L’America non ha perso solo l’industria manifatturiera, ma ha eroso la propria competitività in tecnologie critiche che avrebbero definito il futuro.

L’integrazione economica non ha impedito alla Cina di espandere le sue ambizioni militari nella regione, né alla Russia di invadere i suoi vicini democratici. Nessuno dei due Paesi è diventato più responsabile o collaborativo.

E ignorare le dipendenze economiche che si erano accumulate nei decenni di liberalizzazione era diventato davvero pericoloso: dall’incertezza energetica in Europa alle vulnerabilità della catena di approvvigionamento di attrezzature mediche, semiconduttori e minerali critici. Si trattava di dipendenze che potevano essere sfruttate per ottenere una leva economica o geopolitica.

La terza sfida che abbiamo affrontato è stata l’accelerazione della crisi climatica e l’urgente necessità di una transizione energetica giusta ed efficiente.

Quando il Presidente Biden è entrato in carica, eravamo drammaticamente al di sotto delle nostre ambizioni climatiche, senza un percorso chiaro verso abbondanti forniture di energia pulita stabile e conveniente, nonostante i migliori sforzi dell’amministrazione Obama-Biden per fare progressi significativi.

Troppe persone credevano che dovessimo scegliere tra la crescita economica e il raggiungimento degli obiettivi climatici.

Il Presidente Biden ha visto le cose in modo completamente diverso. Come ha spesso detto, quando sente parlare di “clima” pensa a “posti di lavoro”. Ritiene che la costruzione di un’economia a energia pulita del XXI secolo sia una delle opportunità di crescita più significative del XXI secolo, ma che per sfruttare questa opportunità l’America abbia bisogno di una strategia di investimento deliberata e concreta per promuovere l’innovazione, ridurre i costi e creare buoni posti di lavoro.

Infine, abbiamo affrontato la sfida della disuguaglianza e dei suoi danni alla democrazia.

In questo caso, l’ipotesi prevalente era che la crescita abilitata dal commercio sarebbe stata una crescita inclusiva – che i guadagni del commercio avrebbero finito per essere ampiamente condivisi all’interno delle nazioni. Ma il fatto è che questi guadagni non hanno raggiunto molti lavoratori. La classe media americana ha perso terreno, mentre i ricchi hanno fatto meglio che mai. E le comunità manifatturiere americane sono state svuotate, mentre le industrie all’avanguardia si sono trasferite nelle aree metropolitane.

Ora, le cause della disuguaglianza economica – come molti di voi sanno meglio di me – sono complesse e includono sfide strutturali come la rivoluzione digitale. Ma la chiave di tutto è rappresentata da decenni di politiche economiche “trickle-down”, come tagli fiscali regressivi, tagli profondi agli investimenti pubblici, concentrazioni aziendali incontrollate e misure attive per minare il movimento sindacale che inizialmente ha costruito la classe media americana.

Gli sforzi per adottare un approccio diverso durante l’amministrazione Obama – compresi gli sforzi per approvare politiche per affrontare il cambiamento climatico, investire nelle infrastrutture, espandere la rete di sicurezza sociale e proteggere i diritti dei lavoratori a organizzarsi – sono stati bloccati dall’opposizione repubblicana.

E francamente, anche le nostre politiche economiche interne non hanno tenuto pienamente conto delle conseguenze delle nostre politiche economiche internazionali.

Ad esempio, il cosiddetto “shock cinese”, che ha colpito in modo particolarmente duro sacche della nostra industria manifatturiera nazionale, con impatti ampi e duraturi, non è stato adeguatamente previsto e non è stato affrontato in modo adeguato nel momento in cui si è manifestato.

E collettivamente, queste forze hanno incrinato le fondamenta socioeconomiche su cui poggia qualsiasi democrazia forte e resistente.

Ora, queste quattro sfide non erano esclusiva degli Stati Uniti. Anche le economie consolidate ed emergenti le stavano affrontando, in alcuni casi più acutamente di noi.

Quando il Presidente Biden è entrato in carica, sapeva che la soluzione a ognuna di queste sfide consisteva nel ripristinare una mentalità economica favorevole alla costruzione. E questo è il cuore del nostro approccio economico. Costruire. Costruire capacità, costruire resilienza, costruire inclusione, in patria e con i partner all’estero. La capacità di produrre e innovare e di fornire beni pubblici come infrastrutture fisiche e digitali forti ed energia pulita su scala. La capacità di resistere alle catastrofi naturali e agli shock geopolitici. E l’inclusività per garantire una classe media americana forte e vivace e maggiori opportunità per i lavoratori di tutto il mondo.

Tutto questo fa parte di quella che abbiamo definito una politica estera per la classe media.

Il primo passo consiste nel gettare nuove basi in patria, con una moderna strategia industriale americana.

Il mio amico ed ex collega Brian Deese ha parlato a lungo di questa nuova strategia industriale e vi raccomando le sue osservazioni, perché sono migliori di quelle che potrei fare io sull’argomento. Ma riassumendo:

Una moderna strategia industriale americana identifica settori specifici che sono fondamentali per la crescita economica, strategici dal punto di vista della sicurezza nazionale e in cui l’industria privata da sola non è in grado di fare gli investimenti necessari per garantire le nostre ambizioni nazionali.

In questi settori vengono effettuati investimenti pubblici mirati che liberano la forza e l’ingegno dei mercati privati, del capitalismo e della concorrenza per gettare le basi di una crescita a lungo termine.

Aiuta le imprese americane a fare ciò che le imprese americane sanno fare meglio: innovare, scalare e competere.

Si tratta di favorire gli investimenti privati, non di sostituirli. Si tratta di fare investimenti a lungo termine in settori vitali per il nostro benessere nazionale, non di scegliere vincitori e vinti.

E ha una lunga tradizione in questo Paese. Infatti, anche quando il termine “politica industriale” è passato di moda, in qualche forma è rimasta silenziosamente al lavoro per l’America, dalla DARPA e Internet alla NASA e ai satelliti commerciali.

Ora, guardando al corso degli ultimi due anni, i primi risultati di questa strategia sono notevoli.

Il Financial Times ha riportato che gli investimenti su larga scala nella produzione di semiconduttori e di energia pulita sono già aumentati di 20 volte dal 2019, e un terzo degli investimenti annunciati da agosto riguarda un investitore straniero che investe qui negli Stati Uniti.

Abbiamo stimato che il totale del capitale pubblico e degli investimenti privati derivanti dall’agenda del Presidente Biden ammonterà a circa 3.500 miliardi di dollari nel prossimo decennio.

Consideriamo i semiconduttori, che sono tanto essenziali per i nostri beni di consumo di oggi quanto per le tecnologie che daranno forma al nostro futuro, dall’intelligenza artificiale all’informatica quantistica alla biologia sintetica.

Oggi l’America produce solo il 10% circa dei semiconduttori mondiali e la produzione, in generale e soprattutto per quanto riguarda i chip più avanzati, è geograficamente concentrata altrove.

Questo crea un rischio economico critico e una vulnerabilità per la sicurezza nazionale. Grazie alla legge bipartisan CHIPS and Science Act, abbiamo già assistito a un aumento di ordini di grandezza degli investimenti nell’industria americana dei semiconduttori. E siamo ancora agli inizi.

Oppure consideriamo i minerali critici, la spina dorsale del futuro dell’energia pulita. Oggi gli Stati Uniti producono solo il 4% del litio, il 13% del cobalto, lo 0% del nichel e lo 0% della grafite necessari per soddisfare l’attuale domanda di veicoli elettrici. Nel frattempo, oltre l’80% dei minerali critici viene lavorato da un solo Paese, la Cina.

Le catene di approvvigionamento di energia pulita rischiano di essere armate come il petrolio negli anni ’70 o il gas naturale in Europa nel 2022. Quindi, attraverso gli investimenti nell’Inflation Reduction Act e nella Bipartisan Infrastructure Law, stiamo agendo.

Allo stesso tempo, non è fattibile o auspicabile costruire tutto a livello nazionale. Il nostro obiettivo non è l’autarchia, ma la resilienza e la sicurezza delle nostre catene di approvvigionamento.

Ora, costruire la nostra capacità interna è il punto di partenza. Ma lo sforzo si estende oltre i nostri confini. E questo mi porta alla seconda fase della nostra strategia: lavorare con i nostri partner per garantire che anche loro costruiscano capacità, resilienza e inclusione.

Il nostro messaggio a loro è stato coerente: Porteremo avanti la nostra strategia industriale a casa, ma ci impegniamo senza ambiguità a non lasciare indietro i nostri amici. Vogliamo che si uniscano a noi. Anzi, abbiamo bisogno che si uniscano a noi.

La creazione di un’economia sicura e sostenibile di fronte alle realtà economiche e geopolitiche richiederà a tutti i nostri alleati e partner di fare di più, e non c’è tempo da perdere. Per settori come i semiconduttori e l’energia pulita, non siamo neanche lontanamente vicini al punto di saturazione globale degli investimenti necessari, pubblici o privati.

In definitiva, il nostro obiettivo è una base tecno-industriale forte, resiliente e all’avanguardia su cui gli Stati Uniti e i loro partner affini, sia le economie consolidate che quelle emergenti, possano investire e fare affidamento insieme.

Il Presidente Biden e il Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ne hanno parlato qui a Washington il mese scorso.

Hanno rilasciato una dichiarazione molto importante che, se non avete letto, vi invito a leggere. Il fulcro della dichiarazione è il seguente: al centro della transizione energetica devono esserci coraggiosi investimenti pubblici nelle nostre rispettive capacità industriali. La Presidente von der Leyen e il Presidente Biden si sono impegnati a lavorare insieme per garantire che le catene di approvvigionamento del futuro siano resilienti, sicure e rispecchino i nostri valori, compreso quello del lavoro.

Nella dichiarazione hanno illustrato le misure pratiche per raggiungere questi obiettivi, come l’allineamento dei rispettivi incentivi per l’energia pulita su entrambe le sponde dell’Atlantico e l’avvio di un negoziato sulle catene di approvvigionamento di minerali e batterie essenziali.

Poco dopo, il Presidente Biden si è recato in Canada. Insieme al Primo Ministro Justin Trudeau ha istituito una task force per accelerare la cooperazione tra Canada e Stati Uniti esattamente con lo stesso obiettivo: garantire l’approvvigionamento di energia pulita e creare posti di lavoro per la classe media su entrambi i lati del confine.

E pochi giorni dopo, gli Stati Uniti e il Giappone hanno firmato un accordo che approfondisce la nostra cooperazione sulle catene di approvvigionamento di minerali critici.

Stiamo quindi sfruttando l’Inflation Reduction Act per costruire un ecosistema di produzione di energia pulita radicato nelle catene di approvvigionamento qui in Nord America ed esteso all’Europa, al Giappone e altrove.

È così che trasformeremo l’IRA da fonte di attrito a fonte di forza e affidabilità. Sospetto che sentirete parlare ancora di questo al vertice del G7 a Hiroshima il mese prossimo.

La nostra cooperazione con i partner non si limita all’energia pulita.

Per esempio, stiamo lavorando con i nostri partner – Europa, Repubblica di Corea, Giappone, Taiwan e India – per coordinare i nostri approcci agli incentivi per i semiconduttori.

Le proiezioni degli analisti sulla destinazione degli investimenti nei semiconduttori nei prossimi tre anni sono cambiate drasticamente, e gli Stati Uniti e i partner chiave sono ora in cima alle classifiche.

Vorrei anche sottolineare che la nostra cooperazione con i partner non si limita alle democrazie industriali avanzate.

Fondamentalmente, dobbiamo – e intendiamo farlo – sfatare l’idea che i partenariati più importanti per l’America siano solo quelli con le economie consolidate. Non solo dicendolo, ma anche dimostrandolo. Dimostrandolo con l’India su tutto, dall’idrogeno ai semiconduttori. Dimostrandolo con l’Angola sull’energia solare a zero emissioni. Dimostrandolo con l’Indonesia, con la sua Just Energy Transition Partnership. Dimostrarlo con il Brasile, con una crescita rispettosa del clima.

Questo mi porta al terzo passo della nostra strategia: andare oltre i tradizionali accordi commerciali per passare a nuovi partenariati economici internazionali innovativi incentrati sulle sfide fondamentali del nostro tempo.

Il principale progetto economico internazionale degli anni ’90 è stato la riduzione delle tariffe. In media, le tariffe applicate dagli Stati Uniti sono state quasi dimezzate nel corso degli anni Novanta. Oggi, nel 2023, il nostro tasso tariffario medio ponderato per il commercio è pari al 2,4%, un valore storicamente basso rispetto ad altri Paesi.

Naturalmente, queste tariffe non sono uniformi e c’è ancora del lavoro da fare per ridurre i livelli tariffari in molti altri Paesi. Come ha detto l’ambasciatore Tai, “non abbiamo rinunciato alla liberalizzazione del mercato”. Intendiamo perseguire accordi commerciali moderni. Ma definire o misurare la nostra intera politica sulla base della riduzione delle tariffe doganali non coglie un aspetto importante.

Chiedere quale sia la nostra politica commerciale oggi – inquadrata come un piano per ridurre ulteriormente le tariffe – è semplicemente la domanda sbagliata. La domanda giusta è: come si inserisce il commercio nella nostra politica economica internazionale e quali problemi cerca di risolvere?

Il progetto degli anni 2020 e 2030 è diverso da quello degli anni Novanta.

Conosciamo i problemi che dobbiamo risolvere oggi: Creare catene di approvvigionamento diversificate e resilienti. Mobilitare gli investimenti pubblici e privati per una giusta transizione energetica pulita e una crescita economica sostenibile. Creare buoni posti di lavoro lungo il percorso, posti di lavoro che sostengano le famiglie. Garantire la fiducia, la sicurezza e l’apertura della nostra infrastruttura digitale. Fermare la corsa al ribasso nella tassazione delle imprese. Rafforzare le tutele per il lavoro e l’ambiente. Affrontare la corruzione. Si tratta di una serie di priorità fondamentali diverse dalla semplice riduzione delle tariffe.

Abbiamo progettato gli elementi di un’ambiziosa iniziativa economica regionale, l’Indo-Pacific Economic Framework, per concentrarci su questi problemi e risolverli. Stiamo negoziando con tredici Paesi dell’Indo-Pacifico capitoli che accelereranno la transizione verso l’energia pulita, implementeranno l’equità fiscale e combatteranno la corruzione, stabiliranno standard elevati per la tecnologia e garantiranno catene di approvvigionamento più resistenti per beni e fattori di produzione essenziali.

Permettetemi di parlare un po’ più concretamente. Se l’IPEF fosse stato in funzione quando il COVID ha devastato le nostre catene di approvvigionamento e le fabbriche erano ferme, saremmo stati in grado di reagire più rapidamente – aziende e governi insieme – passando a nuove opzioni per l’approvvigionamento e la condivisione dei dati in tempo reale. Ecco come può apparire un nuovo approccio a questo e a molti altri problemi.

Il nostro nuovo Partenariato delle Americhe per la prosperità economica, lanciato con alcuni dei nostri partner chiave qui nelle Americhe, mira allo stesso insieme di obiettivi di base.

Nel frattempo, attraverso il Consiglio per il commercio e la tecnologia tra Stati Uniti e Unione Europea e il coordinamento trilaterale con il Giappone e la Corea, stiamo coordinando le nostre strategie industriali per completarci a vicenda ed evitare una corsa al ribasso da parte di tutti coloro che competono per gli stessi obiettivi.

Alcuni hanno guardato a queste iniziative dicendo: “Ma non sono accordi di libero scambio tradizionali”. È proprio questo il punto. Per i problemi che stiamo cercando di risolvere oggi, il modello tradizionale non è sufficiente.

L’era dei rattoppi politici a posteriori e delle vaghe promesse di ridistribuzione è finita. Abbiamo bisogno di un nuovo approccio.

In poche parole: nel mondo di oggi, la politica commerciale non deve limitarsi alla riduzione delle tariffe e deve essere pienamente integrata nella nostra strategia economica, sia all’interno che all’estero.

Allo stesso tempo, l’Amministrazione Biden sta sviluppando una nuova strategia globale per il lavoro che fa avanzare i diritti dei lavoratori attraverso la diplomazia, e la sveleremo nelle prossime settimane.

La strategia si basa su strumenti come il meccanismo di risposta rapida del lavoro nell’USMCA, che fa rispettare i diritti di associazione e contrattazione collettiva dei lavoratori. Proprio questa settimana, infatti, abbiamo risolto il nostro ottavo caso con un accordo che ha migliorato le condizioni di lavoro: una vittoria per i lavoratori messicani e per la competitività americana.

Stiamo continuando a guidare un accordo storico con 136 Paesi per porre finalmente fine alla corsa al ribasso sulle imposte societarie che danneggiano la classe media e i lavoratori. Ora il Congresso deve dare seguito alla legislazione di attuazione, e noi stiamo lavorando per farlo.

Inoltre, stiamo adottando un altro tipo di approccio nuovo che riteniamo un’impronta fondamentale per il futuro: collegare il commercio e il clima in un modo che non è mai stato fatto prima. L’accordo globale sull’acciaio e l’alluminio che stiamo negoziando con l’Unione Europea potrebbe essere il primo grande accordo commerciale ad affrontare sia l’intensità delle emissioni che l’eccesso di capacità. E se riusciamo ad applicarlo all’acciaio e all’alluminio, possiamo valutare come applicarlo anche ad altri settori. Possiamo contribuire a creare un circolo virtuoso e garantire che i nostri concorrenti non ottengano vantaggi degradando il pianeta.

Ora, per coloro che hanno posto la domanda, l’Amministrazione Biden è ancora impegnata nell’OMC e nei valori condivisi su cui si basa: concorrenza leale, apertura, trasparenza e stato di diritto. Ma le sfide serie, in particolare le pratiche e le politiche economiche non di mercato, minacciano questi valori fondamentali. Ecco perché stiamo lavorando con molti altri membri dell’OMC per riformare il sistema commerciale multilaterale in modo che sia vantaggioso per i lavoratori, che tenga conto dei legittimi interessi di sicurezza nazionale e che affronti questioni urgenti che non sono pienamente integrate nell’attuale quadro dell’OMC, come lo sviluppo sostenibile e la transizione verso l’energia pulita.

In sintesi, in un mondo trasformato dalla transizione verso l’energia pulita, da economie emergenti dinamiche, dalla ricerca della resilienza della catena di approvvigionamento, dalla digitalizzazione, dall’intelligenza artificiale e dalla rivoluzione delle biotecnologie, il gioco non è più lo stesso.

La nostra politica economica internazionale deve adattarsi al mondo così com’è, in modo da poter costruire il mondo che vogliamo.

Questo mi porta al quarto passo della nostra strategia: mobilitare trilioni di investimenti nelle economie emergenti – con soluzioni che quei Paesi stanno elaborando da soli, ma con capitali resi possibili da un diverso marchio di diplomazia statunitense.

Abbiamo avviato un grande sforzo per far evolvere le banche multilaterali di sviluppo in modo che siano all’altezza delle sfide di oggi. Il 2023 è un anno importante.

Come ha sottolineato il Segretario Yellen, dobbiamo aggiornare i modelli operativi delle banche, soprattutto della Banca Mondiale, ma anche delle banche di sviluppo regionali. Dobbiamo ampliare i loro bilanci per affrontare i cambiamenti climatici, le pandemie, la fragilità e i conflitti. E dobbiamo ampliare l’accesso a finanziamenti agevolati e di alta qualità per i Paesi a basso e medio reddito, che devono affrontare sfide che vanno oltre i confini di ogni singola nazione.

Il mese scorso abbiamo assistito a un primo passo in avanti su questa agenda, ma dovremo fare molto di più.

E siamo entusiasti della nuova leadership di Ajay Banga alla Banca Mondiale per trasformare questa visione in realtà.

Contemporaneamente all’evoluzione delle banche multilaterali di sviluppo, abbiamo lanciato un grande sforzo per colmare il divario infrastrutturale nei Paesi a basso e medio reddito. Lo chiamiamo Partenariato per le infrastrutture e gli investimenti globali (PGII). Il PGII mobiliterà centinaia di miliardi di dollari in finanziamenti per infrastrutture energetiche, fisiche e digitali da qui alla fine del decennio.

A differenza dei finanziamenti previsti dalla Belt and Road Initiative, i progetti del PGII sono trasparenti, di alto livello e al servizio di una crescita a lungo termine, inclusiva e sostenibile. In poco meno di un anno dall’avvio di questa iniziativa, abbiamo già realizzato investimenti significativi, dalle miniere necessarie per alimentare i veicoli elettrici ai cavi di telecomunicazione sottomarini globali.

Allo stesso tempo, siamo anche impegnati ad affrontare le difficoltà del debito di un numero sempre maggiore di Paesi vulnerabili. Abbiamo bisogno di un vero sollievo, non solo di “proroghe e finzioni”. E dobbiamo che tutti i creditori bilaterali, ufficiali e privati, condividano l’onere.

Tra questi c’è anche la Cina, che ha lavorato per costruire la sua influenza attraverso prestiti massicci al mondo emergente, quasi sempre con vincoli. Condividiamo l’opinione di molti altri che la Cina debba ora farsi avanti come forza costruttiva nell’assistenza ai Paesi in difficoltà.

Infine, stiamo proteggendo le nostre tecnologie fondamentali con un piccolo cortile e un’alta recinzione.

Come ho già detto in precedenza, il nostro compito è quello di inaugurare una nuova ondata di rivoluzione digitale che garantisca che le tecnologie di nuova generazione lavorino a favore, e non contro, le nostre democrazie e la nostra sicurezza.

Abbiamo implementato restrizioni accuratamente personalizzate sulle esportazioni in Cina delle tecnologie più avanzate per i semiconduttori. Queste restrizioni si basano su semplici preoccupazioni di sicurezza nazionale. I principali alleati e partner hanno seguito il nostro esempio, in linea con le loro preoccupazioni in materia di sicurezza.

Stiamo anche migliorando lo screening degli investimenti stranieri in aree critiche per la sicurezza nazionale. E stiamo facendo progressi nell’affrontare gli investimenti in uscita in tecnologie sensibili con un nesso fondamentale con la sicurezza nazionale.

Si tratta di misure su misura. Non sono, come dice Pechino, un “blocco tecnologico”. Non sono rivolte alle economie emergenti. Si concentrano su una fetta ristretta di tecnologia e su un piccolo numero di Paesi che intendono sfidarci militarmente.

Una parola sulla Cina in senso più ampio. Come ha detto di recente la Presidente von der Leyen, noi siamo per il de-risking e la diversificazione, non per il disaccoppiamento. Continueremo a investire nelle nostre capacità e in catene di approvvigionamento sicure e resistenti. Continueremo a spingere per ottenere condizioni di parità per i nostri lavoratori e le nostre aziende e a difenderci dagli abusi.

I nostri controlli sulle esportazioni rimarranno strettamente concentrati sulla tecnologia che potrebbe alterare l’equilibrio militare. Stiamo semplicemente assicurando che la tecnologia statunitense e alleata non venga usata contro di noi. Non stiamo tagliando gli scambi commerciali.

In realtà, gli Stati Uniti continuano ad avere relazioni commerciali e di investimento molto importanti con la Cina. L’anno scorso il commercio bilaterale tra Stati Uniti e Cina ha stabilito un nuovo record.

Ora, se ci si allontana dall’economia, siamo in competizione con la Cina su più dimensioni, ma non cerchiamo il confronto o il conflitto. Cerchiamo di gestire la concorrenza in modo responsabile e di collaborare con la Cina dove è possibile. Il Presidente Biden ha detto chiaramente che gli Stati Uniti e la Cina possono e devono collaborare su sfide globali come il clima, la stabilità macroeconomica, la sicurezza sanitaria e alimentare.

Per gestire la concorrenza in modo responsabile, in definitiva, occorrono due parti disposte a collaborare. È necessario un certo grado di maturità strategica per accettare che dobbiamo mantenere aperte le linee di comunicazione anche quando intraprendiamo azioni per competere.

Come ha detto la scorsa settimana il Segretario Yellen nel suo discorso su questo tema, possiamo difendere i nostri interessi di sicurezza nazionale, avere una sana competizione economica e lavorare insieme dove possibile, ma la Cina deve essere disposta a fare la sua parte.

Quindi, che cosa significa avere successo?

Il mondo ha bisogno di un sistema economico internazionale che funzioni per i nostri salariati, per le nostre industrie, per il nostro clima, per la nostra sicurezza nazionale e per i Paesi più poveri e vulnerabili del mondo.

Ciò significa sostituire un approccio unico incentrato sui presupposti troppo semplici che ho esposto all’inizio del mio discorso con uno che incoraggi investimenti mirati e necessari in luoghi che i mercati privati non sono in grado di affrontare da soli, anche se continuiamo a sfruttare la potenza dei mercati e dell’integrazione.

Significa dare spazio ai partner di tutto il mondo per ripristinare i patti tra i governi e i loro elettori e lavoratori.

Significa fondare questo nuovo approccio su una profonda cooperazione e trasparenza, per garantire che i nostri investimenti e quelli dei partner si rafforzino e siano vantaggiosi per entrambi.

E significa ritornare alla convinzione fondamentale che abbiamo sostenuto per la prima volta 80 anni fa: che l’America dovrebbe essere al centro di un sistema finanziario internazionale vibrante che permetta ai partner di tutto il mondo di ridurre la povertà e aumentare la prosperità condivisa. E che una rete di sicurezza sociale funzionante per i Paesi più vulnerabili del mondo sia essenziale per i nostri interessi fondamentali.

Significa anche costruire nuove norme che ci permettano di affrontare le sfide poste dall’intersezione tra tecnologia avanzata e sicurezza nazionale, senza ostacolare il commercio e l’innovazione in senso lato.

Questa strategia richiederà risolutezza, un impegno dedicato a superare le barriere che hanno impedito a questo Paese e ai nostri partner di costruire in modo rapido, efficiente ed equo come abbiamo potuto fare in passato.

Ma è la strada più sicura per ripristinare la classe media, per produrre una transizione energetica pulita giusta ed efficace, per garantire le catene di approvvigionamento critiche e, attraverso tutto questo, per ripristinare la fiducia nella democrazia stessa.

Come sempre, per avere successo abbiamo bisogno della piena collaborazione bipartisan del Congresso.

Abbiamo bisogno del sostegno del Congresso per rilanciare la capacità unica dell’America di attrarre e trattenere i talenti più brillanti di tutto il mondo.

Abbiamo bisogno della piena collaborazione del Congresso nelle nostre iniziative di riforma dei finanziamenti allo sviluppo.

E dobbiamo raddoppiare gli investimenti in infrastrutture, innovazione ed energia pulita. La nostra sicurezza nazionale e la nostra vitalità economica dipendono da questo.

Permettetemi di concludere con questo.

Il Presidente Kennedy amava dire che “una marea crescente solleva tutte le barche”. Nel corso degli anni, i sostenitori dell’economia trickle-down si sono appropriati di questa frase per i loro usi.

Ma il Presidente Kennedy non stava dicendo che ciò che è buono per i ricchi è buono per la classe operaia. Stava dicendo che siamo tutti coinvolti in questa situazione.

E guardate cosa ha detto dopo: “Se una parte del Paese è ferma, prima o poi la marea calante fa cadere tutte le barche”.

Questo vale per il nostro Paese. È vero per il nostro mondo. Alla fine, economicamente, col tempo, ci alzeremo o cadremo insieme.

E questo vale sia per la forza delle nostre democrazie sia per la forza delle nostre economie.

Nel perseguire questa strategia in patria e all’estero, ci sarà un ragionevole dibattito. E ci vorrà del tempo. L’ordine internazionale che è emerso dopo la fine della Seconda guerra mondiale e poi della Guerra fredda non è stato costruito in una notte. Non lo sarà nemmeno questo.

Ma insieme possiamo lavorare per risollevare tutti i cittadini, le comunità e le industrie americane, e possiamo fare lo stesso con i nostri amici e partner in tutto il mondo.

Questa è la visione che l’Amministrazione Biden deve e vuole realizzare.

Questo è ciò che ci guida nel prendere le nostre decisioni politiche all’intersezione tra economia, sicurezza nazionale e democrazia.

E questo è il lavoro che faremo non solo come governo, ma con ogni elemento degli Stati Uniti e con il sostegno e l’aiuto dei partner, sia all’interno che all’esterno del governo, in tutto il mondo.

https://www.whitehouse.gov/briefing-room/speeches-remarks/2023/04/27/remarks-by-national-security-advisor-jake-sullivan-on-renewing-american-economic-leadership-at-the-brookings-institution/

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“Il percorso BRICS”: aspetti chiave e compiti dell’espansione dell’appartenenza, di Sergey Michnevich

“Il percorso BRICS”: aspetti chiave e compiti dell’espansione dell’appartenenza

Per ottenere i massimi benefici dalla cooperazione economica nel quadro dei BRICS, è necessario coinvolgere il settore privato il più attivamente possibile; in particolare attraverso le associazioni imprenditoriali dei BRICS e delle istituzioni partner come la SCO e la EAEU, scrive l’esperto del Valdai Club Sergey Mikhnevich .

Il rafforzamento dei BRICS e l’ingresso di questa associazione nei ranghi delle istituzioni chiave della governance globale ha attualizzato la questione dell’ampliamento della sua adesione. All’inizio di maggio di quest’anno, 19 paesi hanno in programma di diventare membri BRICS: Iran, Egitto, Arabia Saudita, Algeria, Emirati Arabi Uniti, Argentina, Indonesia e una serie di altri stati. I motivi per aderire ai BRICS includono l’attrattiva del modello di cooperazione esistente, la sua agenda, nonché il desiderio dei nuovi membri di diventare alcuni degli attori chiave che determineranno la direzione dello sviluppo del sistema politico ed economico internazionale multilaterale nel prossimo futuro.

Anil Suklal, sherpa sudafricano dei BRICS, osserva che in una situazione in cui “singoli paesi occidentali hanno preso in ostaggio il sistema multilaterale di relazioni e lo stanno usando a proprio vantaggio… Noi (nei BRICS — ndr), al contrario, vogliamo creare un’architettura globale delle relazioni internazionali e farlo insieme”. Secondo  Kirill Babaev, direttore dell’Istituto per la Cina e l’Asia moderna dell’Accademia delle scienze russa, BRICS, insieme all’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO), “riflettono la speranza di alcuni stati del mondo di creare un sistema di cooperazione inclusiva e cooperazione reciprocamente vantaggiosa, sia nel campo della sicurezza che nel campo dell’economia, libera dalla pressione delle strutture occidentali”.

Uno dei fattori che hanno aumentato l’influenza dei BRICS è stato l’impegno dei suoi membri a sviluppare approcci alla cooperazione, tenendo conto degli interessi reciproci determinati dai singoli partecipanti principali, senza che la pressione e la coercizione determinassero le condizioni per la loro attuazione. L’uguaglianza di tutti i partecipanti e l’agenda inclusiva sono elementi importanti che stanno alla base di quello che può essere definito il “Percorso BRICS”. Questo di per sé funge da potente fonte di “potere di attrazione” istituzionale (come un analogo del “soft power”) di questa associazione.

Nonostante anni di discorsi sull’espansione dell’adesione ai BRICS, la prima e ultima aggiunta dalla sua fondazione è stata il Sudafrica nel 2011, che ha aggiunto la lettera “S” all’acronimo BRIC. Molteplici sono le ragioni per cui, nei successivi 10+ anni, nessun altro Paese ha aderito all’associazione: dai rischi di complicare notevolmente il programma di lavoro e conciliare gli interessi non sempre coincidenti delle parti allo “zelante atteggiamento” degli Stati membri nei confronti rappresentare gli interessi delle loro regioni nei BRICS.

Anche nelle relazioni tra gli attuali membri del BRICS c’è un numero significativo di contraddizioni che rendono difficile approfondire la cooperazione, come tra Cina e India. Con l’allargamento dei membri dell’associazione, i punti di tensione, ovviamente, aumenteranno. Ad esempio, quando l’Argentina entrerà a far parte dei BRICS, potrebbe sorgere una competizione con il Brasile, che influirà sulla solidità e sulle potenziali capacità dell’organizzazione. Inoltre, è importante anche determinare una serie di requisiti per i nuovi membri.

Difficilmente si tratterà solo di criteri economici o di partecipazione ai lavori delle principali istituzioni di governance globale su scala globale e regionale, come il G20 o la SCO. È più probabile che gli attuali membri sviluppino criteri politici ed economici complessi che tengano conto dell’influenza del paese sulla scena internazionale e della sua capacità di risolvere i problemi globali più importanti in alcuni settori, come la sicurezza alimentare ed energetica.

Come osserva giustamente Dmitry Razumovsky, ex direttore dell’Istituto per l’America Latina dell’Accademia Russa delle Scienze, “oggi i BRICS non sono più un club di leader della crescita, e la capacità dei paesi candidati di partecipare efficacemente alla risoluzione della corrente più acuta i problemi che affliggono il mondo in via di sviluppo – le crisi energetica e alimentare – stanno venendo alla ribalta”.

A questo proposito, di particolare importanza per i BRICS è la misura in cui i suoi membri saranno in grado di costruire un programma d’azione efficace sullo sfondo della crisi delle istituzioni globali.

Il movimento lungo il “Percorso BRICS” come cooperazione radicata nello sviluppo di soluzioni globali attraverso il bilanciamento degli interessi reciproci e la rinuncia alla pressione può aiutare a mitigare i fenomeni di crisi esistenti e creare condizioni positive per l’ulteriore rafforzamento del potenziale dei membri come leader di il nuovo mondo multipolare.

Per questo motivo, è importante che i BRICS sviluppino la modalità ottimale per utilizzare le possibilità del formato BRICS+ per “integrare le integrazioni”, con la partecipazione di EAEU, SCO, MERCOSUR, ASEAN (attraverso la Cooperazione economica regionale globale), il Unione Africana, ecc. Il corrispondente mega-formato ombrello (America Latina, Africa, Eurasia) potrebbe essere utilizzato per creare un quadro istituzionale completo per promuovere la cooperazione economica tra tutti i paesi del Sud del mondo. Ekaterina Arapova e Yaroslav Lissovolik hanno scritto sulle prospettive dei BRICS+ per la formazione di un nuovo sistema di governance globale, tenendo conto delle esigenze dei paesi del Sud del mondo.

Il reale emergere dei BRICS sulla scena mondiale richiede anche un aumento degli sforzi dei membri dell’associazione per coordinare le loro posizioni in altre importanti istituzioni di governance globale, come il G20. All’interno del suo quadro, i paesi membri BRICS potrebbero elaborare un’agenda consolidata su questioni chiave, utilizzando l’esperienza del G7.

Allo stesso tempo, è importante per i BRICS “mostrare risultati pratici” in aree chiave. Tra questi, si possono notare in particolare la produzione industriale, il settore agroindustriale, l’energia e i trasporti, i sistemi di pagamento e regolamento, i. e. sfere che svolgono un ruolo speciale nell’assicurare la vitalità dei sistemi socio-economici. Allo stesso tempo, è necessario rafforzare i legami nel campo dell’armonizzazione della regolamentazione e della digitalizzazione – per garantire la massima continuità nell'”articolazione dei tessuti” dei legami in via di sviluppo, nonché dei contatti educativi e culturali – per garantire la loro integrazione e completezza natura attraverso la costruzione della fiducia reciproca e il coinvolgimento delle “grandi masse pubbliche e imprenditoriali”.

Allo stesso tempo, è importante che l’agenda includa non solo lo sviluppo di formati di regolamentazione e interazione, ma anche meccanismi e strumenti adattativi per la cooperazione, nonché la formazione di un pool e l’attuazione di specifici progetti pratici. Pertanto, se l’Iran si unirà ai BRICS, potrebbe contribuire all’utilizzo delle capacità dell’associazione per l’attuazione del megaprogetto del corridoio di trasporto internazionale nord-sud, a cui sono interessati gli attuali membri dei BRICS. Il rafforzamento della direzione del progetto richiede l’adattamento e il ridimensionamento del lavoro della New Development Bank(NDB) ai nuovi compiti ed esigenze dei candidati membri, nonché al riavvio del suo lavoro nella Federazione Russa, che è stato effettivamente sospeso sotto minaccia di sanzioni da parte di alcuni Stati occidentali.

In conclusione, sembra importante sottolineare ancora una volta che per ottenere i massimi benefici nella cooperazione economica nell’ambito dei BRICS, è necessario coinvolgere il settore privato il più attivamente possibile; in particolare attraverso le associazioni imprenditoriali dei BRICS e delle istituzioni partner come la SCO e la EAEU. Sembra promettente stabilire collegamenti istituzionali tra i consigli aziendali dei BRICS, la SCO e la EAEU. La base per questo potrebbe essere il sistema di dialoghi commerciali del Business Council EAEU, che è stato molto apprezzato dal Presidente della Russia Vladimir Putin. Un dialogo commerciale congiunto potrebbe diventare un efficace fornitore di progetti commerciali, economici e di investimento, oltre a rappresentare una voce imprenditoriale consolidata sulle questioni chiave dello sviluppo dell’integrazione megaregionale.

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Conversazioni sulla Cina 4a puntata_Le ambizioni di una classe dirigente_Con Daniela Caruso

Se si può individuare una costante nella Cina degli ultimi ottanta anni è il sentimento di indipendenza e di ricostruzione nazionale. La Cina, in questo periodo, è incappata in due gravi crisi, la rivoluzione culturale a cavallo degli anni ’60/’70 e la crisi di piazza Tienanmen alla fine degli ’80. Due cicli interni al paese, riflesso di una situazione più generale legata alla drammatica implosione del blocco sovietico, che hanno fatto maturare una ferma convinzione nelle classi dirigenti: l’avvio di un colossale processo di trasformazione della società e dell’economia cinese all’ombra e con l’ossessione della stabilità del regime. Ne è venuta fuori, esempio raro nella storia mondiale, specie dei paesi di grandi dimensioni, si può dire con notevole successo in una sorta di dinamismo controllato, ma dai ritmi vertiginosi. Il segno di un regime in grado di gestire con flessibilità e con orecchie attente alle dinamiche sociali le proprie ambizioni e le proprie strategie di potenza e di sviluppo, contrariamente alla narrazione occidentale. Un merito che le ha garantito di acquisire il prestigio di un modello di riferimento nel mondo estraneo al club occidentale. Che questa aura possa trasformarsi a breve in ambizione imperiale è troppo azzardato affermarlo. Molto dipenderà dalle dinamiche geopolitiche piuttosto che da quelle interne al paese e dalla sua tradizione culturale. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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L’Europa è seria riguardo all’autodifesa o al free riding?_ Di Emma Ashford

Con l’aumentare della tensione USA-Cina, aumenta anche la discussione sul fatto che gli stati europei stiano facendo la loro parte.

Di  , editorialista di Foreign Policy e senior fellow del programma Reimagining US Grand Strategy presso lo Stimson Center, e  , editorialista di Foreign Policy e vicepresidente e direttore senior dello Scowcroft Center for Strategy and Security dell’Atlantic Council .

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Il presidente francese Emmanuel Macron fa un gesto mentre tiene un discorso al forum sulla sicurezza regionale Globsec a Bratislava, in Slovacchia, il 31 maggio.
Il presidente francese Emmanuel Macron fa un gesto mentre tiene un discorso al forum sulla sicurezza regionale Globsec a Bratislava, in Slovacchia, il 31 maggio.
Il presidente francese Emmanuel Macron fa un gesto mentre tiene un discorso al forum sulla sicurezza regionale Globsec a Bratislava, in Slovacchia, il 31 maggio. MICHAL CIZEK/AFP TRAMITE GETTY IMAGES

Matt Kroenig: Ciao Emma! Spero che ti stia godendo questo bel clima primaverile. Sono appena tornato da Stoccolma, dove ho avuto alcune discussioni affascinanti con funzionari del ministero degli esteri e del nuovo consiglio di sicurezza nazionale.

È discutibile

Ho anche avuto un po’ di tempo libero per visitare i musei e, tra le altre cose, ho potuto vedere il cavallo scuoiato, impagliato e montato del re Gustavo Adolfo il Grande!

Emma Ashford: Curiosità: quel cavallo ha partecipato a più azioni militari contro la Russia di alcuni dei nostri alleati europei di free riding.

Quindi gli svedesi entreranno a far parte della NATO? Ora che abbiamo avuto le elezioni turche, ho sentito che il presidente turco Recep Tayyip Erdogan potrebbe cedere e lasciarli aderire.

MK: Beh, a loro avviso, Erdogan non avrebbe ceduto, ma sarebbe stato all’altezza della sua fine dell’accordo. La Svezia e la Turchia hanno concluso un accordo al vertice della NATO a Madrid lo scorso anno, e la Svezia ha seguito la sua parte, approvando una nuova legislazione per criminalizzare l’appartenenza a un’organizzazione terroristica, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK).

Quindi, ora tocca a Erdogan. L’auspicio di Stoccolma è che la nuova normativa gli permetta di dirsi soddisfatto e che approverà l’ingresso della Svezia nell’alleanza prima del vertice di luglio a Vilnius, in Lituania.

Erdogan potrebbe anche dire, però, che ha bisogno di più tempo per vedere come funziona nella pratica la nuova legge svedese. Ad esempio, la Svezia perseguirà effettivamente i membri del PKK ai sensi di questa legge? Quindi, potrebbe rimandare la decisione.

Tuttavia, Stoccolma sta principalmente pianificando, come se si trattasse di quando, non se, entrerà a far parte della NATO.

Come Macron ha detto senza mezzi termini alla conferenza GLOBSEC di questa settimana: gli europei possono permettersi di lasciare la loro sicurezza nelle mani degli elettori americani ?

EA: Ad essere onesti, non è certo la domanda più importante per coloro che sono preoccupati per la sicurezza europea. La Svezia non è poi così significativa in termini di difesa, Gustavus Adolphus e il suo cavallo impagliato a parte. Forse è per questo che le conversazioni a Washington negli ultimi mesi si sono concentrate principalmente su questioni più importanti: chi dovrebbe garantire la sicurezza europea? Gli Stati Uniti dovrebbero dare la priorità all’Asia rispetto all’Europa? E, come ha detto senza mezzi termini il presidente francese Emmanuel Macron alla conferenza GLOBSEC di questa settimana a Bratislava, in Slovacchia: gli europei possono permettersi di lasciare la loro sicurezza nelle mani degli elettori americani ?

MK: Macron è semplicemente francese. Altri leader europei sono stati chiari sul fatto che parla per la Francia, ma non per l’Europa. Dopo la visita di Macron in Cina, ad esempio, un gruppo di legislatori europei si è sentito obbligato a rilasciare una dichiarazione in cui si affermava: “Va sottolineato che le parole [di Macron] sono gravemente in disaccordo con il sentimento diffuso nelle legislature europee e oltre”.

C’è un modello di sicurezza transatlantica che ha funzionato per tre quarti di secolo, con il contributo degli Stati Uniti e delle potenze europee. Gli alleati europei (come la Germania) devono fare di più, ma non c’è motivo di ripensare radicalmente questo modello di successo.

EA: Sono completamente in disaccordo. Come ho scritto con alcuni colleghi la scorsa settimana, Macron potrebbe essere eccessivamente schietto, ma sta facendo le domande giuste. L’Europa vuole essere un vassallo degli Stati Uniti o un partner capace di reggersi sulle proprie gambe? E perché, quasi 80 anni dopo la decisione degli Stati Uniti di aiutare l’Europa a rimettersi in piedi dopo la seconda guerra mondiale, Washington sta ancora fornendo la parte del leone in finanziamenti, armi e truppe per la sicurezza europea?

È vero che questo modello ha funzionato per molto tempo. Ma le circostanze globali stanno cambiando e ci sono dei costi per continuare a farlo! Gli Stati Uniti sono in relativo declino, la Cina è in crescita e ci sono minacce urgenti altrove che richiedono anche l’attenzione degli Stati Uniti. Continuare a concentrarsi sull’Europa ha costi di opportunità per la base industriale della difesa degli Stati Uniti e per la posizione militare. La politica del dopoguerra degli Stati Uniti nei confronti dell’Europa ebbe un enorme successo! Perché gli americani hanno così paura di abbracciare il nostro successo e adottare un approccio più diretto alla sicurezza europea?

MK: Ho così tanto da dire, non so da dove cominciare. In primo luogo, gli Stati Uniti stanno crescendo. La sua quota del PIL globale è aumentata negli ultimi anni, mentre la crescita della Cina si sta stabilizzando. Washington ei suoi alleati possono gestire contemporaneamente Mosca e Pechino.

EA: Tutto dipende da quale misura usi. La quota degli Stati Uniti sul PIL globale è aumentata. Ma la Cina l’ha superata per alcune misure del reddito nazionale lordo e sta colmando il divario in termini di ricchezza nazionale totale. Nel contesto storico, gli Stati Uniti sono relativamente più deboli di quanto non fossero durante la Guerra Fredda; e in un contesto regionale, il quadro è anche peggiore. Il Lowy Asia Power Index , che tenta di costruire un quadro completo delle risorse militari, economiche e politiche in una regione, suggerisce che gli Stati Uniti e la Cina sono sempre più alla pari in Asia. Quindi puoi selezionare alcuni dati per dimostrare che non ci sono problemi, ma penso che uno sguardo più ampio suggerisca che le cose non sono così rosee.

Non importa che abbiamo appena avuto una resa dei conti sul tetto del debito e sulla spesa pubblica a Washington! Dici “Washington e i suoi alleati possono gestire Mosca e Pechino” – sono d’accordo. Ma con i crescenti vincoli sugli Stati Uniti, quegli alleati devono fare di più. Questo non dovrebbe essere controverso.

MK: La Cina ha superato economicamente gli Stati Uniti solo se si tiene conto della parità di potere d’acquisto. Ciò potrebbe avere senso per i tagli di capelli ma non per la geopolitica.

EA: Mi dispiace, ma non vedo perché dovrebbe essere così. Le armi cinesi sono più economiche; i cinesi ottengono più soldi per il loro dollaro. Letteralmente, nel caso delle spese militari! Questo è un punto che il presidente del Joint Chiefs of Staff Gen. Mark Milley ha fatto al Congresso.
La Germania o la Francia improvvisamente faranno un passo avanti e guideranno le questioni di difesa e sicurezza europee? Negli ultimi anni, il loro istinto è stato più quello di placare la Russia che di resisterle.

MK: Questo è vero. Anche gli ufficiali militari cinesi costano meno. Ma ottieni quello per cui paghi. Gli ufficiali militari statunitensi sono meglio addestrati, istruiti e curati.

Inoltre, per l’influenza internazionale, il commercio, gli aiuti, ecc., i numeri sono assoluti. La Cina non ottiene un bonus perché i noodles sono economici a Nanchino. Gli studiosi di relazioni internazionali usano tipicamente il PIL nominale per misurare il potere per questo motivo.

Sarebbe interessante, tuttavia, che qualcuno facesse uno studio più approfondito su dove gli aggiustamenti della parità di potere d’acquisto siano importanti per il potere e l’influenza internazionale, e dove invece no. Se uno studio del genere esiste, non l’ho visto.

Ma stiamo andando un po’ fuori strada.

Penso che siamo d’accordo sul fatto che gli Stati Uniti ei loro alleati debbano fare di più per la loro difesa collettiva sia in Europa che in Asia. La domanda è come farlo. Io sostengo che il modello tradizionale, in cui gli Stati Uniti guidano e gli alleati contribuiscono, è l’unica soluzione praticabile.

La mia più grande critica all’articolo stimolante di te e dei tuoi colleghi, e altri simili, è che l’alternativa che proponi non è delineata in alcun dettaglio. Dici che gli Stati Uniti dovrebbero concentrarsi sull’Asia e che “l’Europa” dovrebbe “farsi avanti” per provvedere alla difesa dell’Europa. Non so cosa significhi.

Se vuoi che il tuo piano venga adottato, penso che dovresti fornire qualche dettaglio in più su come funzionerebbe.

EA: Beh, sono abbastanza sicuro di poter dire lo stesso della tua affermazione secondo cui “il modello attuale funziona”. Questo ha bisogno di un po’ più di dettagli, per essere sicuro. L’inerzia non è certo una strategia.

Ci sono un sacco di ottimi articoli e libri là fuori che descrivono in dettaglio come sarebbe un approccio più diretto degli Stati Uniti alla sicurezza europea. Barry Posen, ad esempio, ha diversi buoni pezzi che esplorano le ramificazioni della difesa, i costi e i rischi del trasferimento di maggiori responsabilità agli stati europei. Oppure ecco un fantastico forum del Center on Security Studies di Zurigo, con una varietà di autori. Ci sono molti dettagli là fuori se guardi, e molte persone intelligenti su entrambe le sponde dell’Atlantico stanno riflettendo su questo problema.

Ma in generale, farei un paio di punti chiave: 1) Il cambiamento dovrà essere graduale, forse fino a un decennio, per dare agli Stati europei il tempo di avviare la necessaria produzione industriale della difesa e costruire la necessaria forze, e 2) è importante notare che un approccio più diretto alla sicurezza europea non significa che gli Stati Uniti usciranno dalla NATO, né che si disimpegneranno dall’Europa. Affida semplicemente la responsabilità primaria della difesa agli stati europei, rendendo gli Stati Uniti più un backup e meno una prima risorsa.

MK: Ma gli Stati Uniti dovranno continuare a guidare o non funzionerà. Cos’è questa “Europa” di cui parli? La Germania o la Francia (i due pesi massimi dell’economia in Europa) improvvisamente faranno un passo avanti e guideranno le questioni di difesa e sicurezza europee? Negli ultimi anni, il loro istinto è stato più quello di placare la Russia che di resisterle. I paesi dell’Europa orientale si affideranno a Berlino e Parigi per guidare la sicurezza europea? Non credo. Washington può fidarsi di Parigi e Berlino per garantire gli interessi degli Stati Uniti in Europa? La risposta è no. E la deterrenza nucleare? La Germania passerà al nucleare in violazione del Trattato di non proliferazione nucleare? La Francia costruirà fino a 1.500 armi nucleari (un aumento di sette volte) come contrappeso all’enorme arsenale russo?

Queste sono grandi domande e le risposte significano quasi sempre che Washington e il popolo americano si troverebbero in una situazione molto peggiore se tentassero di esternalizzare i loro importanti interessi in Europa a Macron!
L’articolo 5 della NATO dovrebbe essere perfettamente sufficiente per la credibilità senza truppe statunitensi in prima linea.
EA: Matt, sono inglese. Non c’è bisogno che mi diciate che il concetto di “europeo” come identità è fortemente contestato.

Ma il fatto è che l’Europa si è unita in molti altri settori, anche dove ci sono interessi divergenti. La Comunità europea (e successivamente l’Unione) ha costruito un’area di libero scambio nonostante l’opposizione interna di gruppi potenti come gli agricoltori. L’euro è riuscito a sopravvivere alle crisi finanziarie degli ultimi due decenni con tutti i suoi membri intatti. Gli stati europei tendono ad essere relativamente bravi a superare i problemi di azione collettiva quando vogliono.

Per molti versi, è degno di nota il fatto che l’unica area in cui l’Europa continua a lottare per riunirsi sia la difesa, l’area in cui gli Stati Uniti hanno sempre risolto il problema dell’azione collettiva, eliminando la necessità di un compromesso.

Hai ragione sul fatto che gli stati europei non hanno necessariamente tutti le stesse opinioni sulla difesa e sulla politica estera. Forse il risultato finale sarà una sorta di accordo di difesa minilaterale, in cui stati come la Polonia si concentreranno sulla Russia e stati come l’Italia e la Grecia si concentreranno sul Mediterraneo. Ma dire semplicemente “non può succedere” non è una risposta soddisfacente. Gli stati europei si alzeranno in difesa se necessario, il che significa che il governo degli Stati Uniti deve essere chiaro e coerente sulle sue intenzioni e aiutare con una transizione ordinata nella sicurezza europea.

MK: Non sto dicendo “non può succedere” perché non so ancora cosa sia “esso”. Dire che la Polonia si prenderà cura della Russia non ha senso. La Polonia costruirà armi nucleari?

EA: Se gli Stati Uniti non lasciano la NATO, allora il suo ombrello nucleare continua ad applicarsi. E anche i francesi e gli inglesi sono potenze nucleari.

MK: Va bene. Quindi, se l’alleanza continuerà a fare affidamento sugli Stati Uniti per la deterrenza strategica, allora Washington dovrà continuare a svolgere un importante ruolo di leadership. Per essere credibili, gli Stati Uniti dovranno anche mantenere le forze in Europa, idealmente in prima linea, per collegare le forze strategiche statunitensi a una grande guerra convenzionale in Europa. È quello che avete in mente anche voi e i vostri colleghi?

Se sì, qual è il nuovo modello? La Germania fornisce più uomini, carri armati e artiglieria? Mi sembra fantastico, ma non sono sicuro che sia il cambiamento radicale che sembri chiedere.

EA: No. L’articolo 5 della NATO dovrebbe essere perfettamente sufficiente per la credibilità senza truppe statunitensi in prima linea. E onestamente non importa l’esatta composizione della forza nell’Europa orientale fintanto che è europea piuttosto che americana. Ci sono una varietà di opzioni che potrebbero funzionare: Germania e Francia che si fanno avanti, Stati dell’Europa orientale che uniscono le loro risorse e approfondiscono la cooperazione in materia di difesa con il Regno Unito, ecc. Spetterà agli europei decidere.

Ci sono alcuni pezzi eccellenti del Center for Strategic and International Studies proprio qui a Washington che esplorano come alcuni di questi cambiamenti potrebbero apparire in pratica per la difesa aerea , la logistica e le forze navali.

Solo gli Stati Uniti hanno il potere e il diffuso sentimento di buona volontà all’interno dell’Europa per guidare l’alleanza transatlantica.

MK: Questi articoli esaminano i pezzi in cui gli stati europei possono contribuire di più. Sarebbe il benvenuto.

Mi sto un po’ frustrando. So com’è l’attuale architettura di sicurezza transatlantica. Continuo a non capire l’alternativa che proponi.

EA: Non capisco cosa ci sia di così difficile da capire. Una divisione del lavoro all’interno della NATO in cui gli stati europei portano la maggior parte dell’onere – e svolgono la maggior parte del lavoro in termini pratici – di scoraggiare la Russia, difendersi e proteggere le frontiere dell’Europa, mentre gli Stati Uniti adottano un approccio più diretto per concentrarsi sull’Asia, ma è disponibile a fornire risorse e aiuti se una grave crisi lo richiede. Questa è una vera partnership, ed è dove credo che gli Stati Uniti e l’Europa debbano andare se si vuole che la relazione transatlantica continui a prosperare.

Va bene per gli Stati Uniti, va bene per gli alleati americani in Asia, va bene per gli stati europei. Dopotutto, come ha sottolineato Macron, quale Stato si sentirebbe a suo agio nel mettere la propria difesa ai capricci degli elettori di un altro Paese? Con il riscaldamento delle primarie repubblicane degli Stati Uniti, puoi scommettere che nei prossimi mesi sentirai parlare di più sui free rider europei.

MK: Penso che solo gli Stati Uniti abbiano il potere e il diffuso sentimento di buona volontà all’interno dell’Europa per guidare l’alleanza transatlantica. Dovrebbe continuare a fornire una visione d’insieme e un coordinamento. Solo Washington può fornire deterrenza strategica contro la Russia. E penso anche che gli stati europei dovrebbero fornire più dadi e bulloni della difesa convenzionale, dagli aerei ai carri armati al personale, ecc.

Allora, siamo d’accordo o no? Penso che stiamo esaurendo lo spazio, quindi potremmo aver bisogno di tornare su questo in una colonna futura.

EA: Non siamo d’accordo. Ma possiamo essere d’accordo su questo: non passerà molto tempo prima che Macron faccia un’altra dichiarazione da prima pagina che infastidisce i transatlantici di Washington!

MK: C’est la vie.

Emma Ashford è editorialista presso Foreign Policy e senior fellow del programma Reimagining US Grand Strategy presso lo Stimson Center, assistente professore aggiunto presso la Georgetown University e autrice di Oil, the State, and War. Twitter:  @EmmaMAshford

Matthew Kroenig è editorialista presso Foreign Policy e vice presidente e direttore senior dello Scowcroft Center for Strategy and Security dell’Atlantic Council e professore presso il Department of Government e la Edmund A. Walsh School of Foreign Service presso la Georgetown University. Il suo ultimo libro è The Return of Great Power Rivalry: Democracy Versus Autocracy From the Ancient World to the US and China . Twitter:  @matthewkroenig

https://foreignpolicy.com/2023/06/02/nato-macron-defense-europe-spending-free-riding/

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LA CAOSIFICAZIONE DEGLI AMERICANI, di Pierluigi Fagan

In un doppio post recente sulla crisi della civiltà occidentale, ponevo come un sottosistema a sé le società anglosassoni, gli Stati Uniti d’America, la Gran Bretagna ed altre tre minori. Riguardo gli USA, c’è da segnare come, finita la presidenza Trump, le notizie date qui su quel mondo sono semplicemente sparite. Sulla Gran Bretagna, talvolta, qualche europeista prova piacere a raccontare i significativi malesseri britannici addebitandoli alla Brexit, ma niente di più. Infine, col nuovo governo, siamo diventati “amici preferiti” tanto dell’uno che dell’altro. Nel caso americano ne va anche della coerenza di allineamento geopolitico con attualità nel conflitto ucraino, posizione super-partes nello schieramento politico italiano che per altro, secondo scarni sondaggi, non rifletterebbe per niente il sentimento maggioritario del Paese. Quindi sugli USA, dal punto di vista interno, non c’è niente da dire?

Nel 2022, una storica americana specializzata in conflitto civile (fondazione storica degli States), ha fatto clamore, sostenendo che in base alla letteratura di analisi storica generale, si potevano sintetizzare alcuni punti di crisi che potevano far prevedere l’imminente rischio di scoppio di una “stasis”. Secondo B.F. Walter, gli Stati Uniti sono oggi dei perfetti candidati a piombare nella guerra civile. È stata seguita da altri autori e molta eco mediatica, sia americana che britannica, hanno amplificato il tema ponendolo al centro del dibattito pubblico.

In un recente articolo di L. Caracciolo sulla Stampa, lo studioso usa questa espressione “Oggi l’America non si piace più. Come può affascinare gli altri?”. Buon annusatore dello spirito del tempo, Caracciolo si è convertito già dall’editoriale sull’ultimo numero di Limes ora in edicola, alla verità dell’epocale transizione dei poteri nel mondo, segnalando come gli Stati Uniti abbiano perso l’aurea e con essa il soft power.

Ribadisce George Friedman sulla stessa rivista, nel titolo della sua analisi “Gli Stati Uniti sono prossimi a un collasso interno”, sorbole! L’elenco di Friedman cita “rivendicazioni sociali al picco di intensità, questioni morali, religiose, culturali”, poi ci sono i fallimenti bancari, le revisioni strategiche verso la globalizzazione, il grande punto interrogativo cinese, ombre scure sui Big Five dell’on-line (che per altro licenziano a manetta) e le oscure sorti progressive dell’A.I., la Nasa che pare non sappia più come fare una tuta da astronauta, figuriamoci mandarlo sulla Luna; permangono attriti sui flussi migratori e sempre forti sulla convivenza razziale. C’è anche una profonda crisi interstatale/federale che arriva fino al ruolo del Congresso e della Corte Suprema. “Mai nella storia, vi è stato un tale livello di rabbia e disprezzo reciproco tra gli americani”, è la nota inquietante di Friedman. Se ne danno davvero di santa ragione su questo e su quello a livelli veramente pre-isterici, quando non si sparano e fanno e parlano di cose in modi davvero bizzarri (Dio, aborto, transessuali che risulterebbero solo lo 0,5% della popolazione, tradizionalismo e progressismo, pedofilia, complotti surreali et varia).

Questa agitazione, che più d’uno ha interesse a radicalizzare, trova il suo inferno su Internet ed i social. Quanto ai social, è il formato stesso dell’interazione anonima, con scritto privo di corredo facciale e comportamentale, costretto in spazi più da battuta che da discorso argomentato (woke! cristofascista!), la clausura nelle piccole comunità dei comuni pensanti che si eccitano a vicenda, a dar benzina a braci già ardenti. Radicalizzazione ci mette del tempo a costruirsi e non si smonta in tempi brevi, deposita rancori, astio, odio viscerale. Alla fine, non è più una questione di argomenti ma di irrigidimenti.

Sebbene sia una nazione di 330 milioni di persone (con, si stima, 400 mio di armi private, molte di livello militare) e pure con una composizione assai varia, tende a spaccarsi semplicemente in due ed il formato “noi contro loro”, alimenta il suo stesso radicalizzarsi semplificando. La semplificazione, del resto, è un tratto caratteristico della mentalità americana empirico-pragmatica ovvero sovrastimante il fare al posto -o priva- del pensare.

L’aspettativa di vita in America è in caduta libera da circa un decennio: è arrivata a 76,1 anni (da noi è da cinque a dieci anni di più). Grandi balzi in avanti tanto della mortalità infantile che di quella generale: diffusione armi ormai fuori controllo (in America oltre 200 persone al giorno vengono ferite da armi da fuoco, 120 vengono uccise. Di queste 120, 11 sono bambini e adolescenti), tasso di omicidi tra adolescenti +40% in due anni, overdosi ed abuso farmaci, incidenti auto. Nelle scuole, a molti bambini è imposto un corso di comportamento nel caso qualcuno entrasse in classe sparando con un mitra. E meno male che sono pro-life!

Al 10° posto per teorica ricchezza pro-capite in realtà gli USA sono 120° per uguaglianza di reddito (WB 2020), dopo l’Iran ma prima del Congo (RD). L’ascensore sociale è rotto da almeno trenta anni, ammesso prima funzionasse davvero. Americani poveri, in contee povere, in stati del Sud, muoiono fino a venti anni prima degli altri. Gli afroamericani cinque anni -in media- prima dei bianchi. Col solo 4,5% della popolazione mondiale hanno il 25% della popolazione carceraria, spaventoso il grafico di incremento negli ultimi trenta anni. La media europea è di 106 incarcerati su 100.000 abitanti, in US è 626, sei volte tanto che è primato mondiale. Fatte le debite proporzioni tra morti per overdose e popolazione totale, per ogni morto in Italia ce ne sono 50 in USA. Sebbene abbiano meno del 5% di popolazione mondiale spendono il 40% del totale mondo in spesa militare (a cui aggiungere le armi interne). Se ci si annoia coi libri di storia, basta guardare nell’immaginario la produzione cinematografico-televisiva per capire quanto attragga culturalmente la violenza, da quelle parti. La violenza è la cura dei contrasti sociali, atteggiamento pre-civile.

Avendo a norma sociale il libero perseguimento della felicità versione successo economico-sociale su base competitiva delle qualità individuali nel far soldi, non avendo idea di come il gioco sia truccato, mancando tradizione di pensiero e di analisi di tipo europeo (ad esempio per classi), questa massa di reietti, che spesso vivono in condizioni subumane, ovviamente arrabbiati quando non rintontiti da tv-alcol-farmaci-droghe, vengono reclutati dalle varie élite per sostenere o combattere ora questo, ora quel diritto civile. Il che alimenta questa tempesta di odio reciproco a livello di “valori”, che siano della ragione o della tradizione, ma mai economico-sociali.

I “bianchi” sono oggi il 58% ma nel 1940 erano l’83% ed ancora nel 1990 il 75%, il trend è chiaro. Già si sa che perderanno la maggioranza assoluta nel 2044, tra due decenni. Peggio per la quota WASP dentro il cluster “bianchi”, con età media più alta, in piena sindrome Fort Apache.

Un sondaggio 2022 dava a 40% tra i dem e 52% tra i rep, favorevoli a separare stati rossi e blu in una sorta di secessione ideologica e atti politico-giudici locali, nonché la pratica tradizionale del -gerrymandering-, una sorta di sartoria dei collegi elettorali per predeterminare la vittoria di certi candidati nelle forme della rappresentanza che non è mai proporzionale, sembra esser andata in questa direzione negli ultimi anni. Alcuni rep, da un po’, propagandano l’idea di alzare l’età del voto per evitare che i più giovani portino voti ai dem. Questa idea di divorzio territorial-ideologico è inedita e dà il senso della profondità della frattura sociale. Lo screditamento reciproco dei rappresentanti locali e federali dei due partiti è all’apice.

Del resto, il crollo di fiducia è molto ampio: chiesa, polizia, giornalisti, intellettuali, accademia e scuola stessa ed ovviamente i politici che spesso in realtà sono cercatori di posizione sociale disposti a tutto. La guerriglia condotta sulla legittimità dei voti, potrebbe adombrare una ipotesi ventilata sul “voto contingente” dove in mancanza di un chiaro pronunciamento (ovvero contestato), ad ogni stato viene attribuito un voto, essendo la maggioranza degli stati (che hanno però minor popolazione) repubblicani, ecco qui realizzata l’intenzione che sempre più spesso esce da certe bocche “Noi siamo una Repubblica, non una democrazia”, il che -per altro- è una limpida verità.

È del resto certificato da studi di Princeton e Northwest sui contenuti delle leggi deliberate dal Congresso, già di dieci anni fa, che gli Stati Uniti sono una oligarchia e non una democrazia. È questa oligarchia che ha interesse ad incendiare il sottostante, lì dove il popolo si scanna per questioni di diritti civili, razza, prevalenza sessuale e non per diritti sociali, qualità della vita, ridistribuzione dei redditi e potere connesso.

Ci sono presupposti per verificare questa profezia di una ipotetica guerra civile, profezia che dato il grande rilievo media dato in America rischia di diventare del tipo “… che si auto-avvera”? Ci sono parecchie ragioni per dubitarne, sempre che s’immagini barricate e vasti disordini per strada accompagnati da terrorismo interno. Tuttavia, per quanto l’analisi dovrebbe esser più profonda di quanto permetta un post, questa analisi specifica sulla crisi interna la società americana certifica che è il cuore della civiltà occidentale ad esser in crisi profonda.

Per questo agli europei si consiglierebbe di allentare i legami trans-atlantici, gli americani sono destinati ad una continuata contrazione di potenza mondiale mentre all’interno danno sempre più di matto su tutto tranne che sul continuo aumento delle diseguaglianze, malattia mortale per ogni società.

Parecchia della fenomenologia perversa qui brevemente descritta, ha già contagiato le nostre società. Dal globalismo-neoliberale alla lagna unidimensionale sui diritti civili e non sociali che eccita l risposta tradizionalista, l’intero immaginario che percola dalle serie tv e dal cinema, l’intero Internet e la logica dei social, ora dell’A.I. che discende da un preciso milieu psico-culturale comportamentista (cioè finalizzato al controllo del comportamento e della cognizione, altro che “intelligenza”), la ripresa europea ed italiana nelle produzione e commercio di armi, la distruzione democratica già programmata dai primi anni ’70, la demagogia, l’ignoranza aggressiva, il drastico scadimento qualitativo delle élite, la scomparsa della funzione intellettuale, il semplicismo, l’infantile entusiasmo tecnologico, una irrazionale fede sul ruolo della tecnica, le epidemie di solitudine sociale e depressione, la farmaco-dipendenza, la plastificazione corporea e la manipolazione neurale. La crisi del centro anglosassone del sistema occidentale irradia da tempo tutta l’area di civiltà, anche dove l’antropologia culturale, sociale e storica, sarebbe ben diversa.

Si consiglierebbe di cominciare a programmare un divorzio, una biforcazione dei destini, una rifondazione dell’essere occidentali che chiuda la parentesi anglosassone. Viaggiare i tempi complessi con questa gente alla guida potrebbe esser molto pericoloso.

https://pierluigifagan.wordpress.com/2023/05/28/la-caosificazione-degli-americani/

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Il paradigma machiavelliano. Per la definizione di una teoria politica non ideologica, di Gennaro Scala

Fu la lettura del saggio di Marco Geuna Machiavelli e il ruolo dei conflitti nella vita politica (2005), circa 4 o 5 anni fa, a mettermi sulla traccia di un percorso di ricerca che successivamente mi ha associato alla scoperta del «continente teorico» (per usare le parole di Luca Baccelli) del «repubblicanesimo», un continente ormai esplorato teoricamente da vari decenni, ma non ancora abitato politicamente. La fertilità di questo continente apparirà in tutta la sua potenzialità soltanto se pensiamo radicalmente, se «andiamo alla radice dei problemi».

Ritengo che il repubblicanesimo possa diventare, da corrente teorica confinata all’ambito accademico, un utile strumento per iniziare a definire una nuova teoria politica per gli emergenti movimenti, più emergenti che compiutamente formati, cosiddetti «populisti» (un epiteto con cui si vorrebbe stigmatizzare un’istanza sostanzialmente democratica). È senso comune ormai ritenere che il discredito raggiunto dai partiti politici sorti nell’ambito dello stato moderno sia radicale e definitivo. I partiti politici esistenti non sono in grado, e non ne hanno nessuna intenzione, di affrontare i problemi che assillano la maggior parte delle società odierne. Vedremo in che senso il paradigma machiavelliano può essere utile per affrontare un radicale ripensamento della politica necessario per far fronte alla crisi radicale a cui ci troviamo di fronte. E questo mio scritto vuole essere un modesto quanto iniziale contributo in tal senso.

L’epoca delle ideologie, delle visioni del mondo complessive, una patologia europea del secolo scorso, è tramontata. Machiavelli a distanza di cinque secoli può essere letto con profitto, ma il suo repubblicanesimo non dovrebbe essere considerato un’ideologia, ma un paradigma che configura una teoria politica diversa rispetto alle altre teorie politiche. Tanto più che i repubblicani, sul piano puramente nominale, in Italia ci sono già già stati (un ormai scomparso partito liberale non di massa della «I repubblica» che aveva le sue radici nella storia dell’unità d’Italia), e attualmente sono uno dei due maggiori partiti degli Stati Uniti. Anche per evitare questi equivoci preferisco parlare di paradigma machiavelliano.

Com’è noto, Machiavelli è l’autore più politico dell’intera storia del pensiero occidentale: non confonde la politica con la religione, ma nemmeno con la filosofia o con l’etica. Non per questo è immorale, privo di fini etici secondo quella che è stata una diffamazione secolare. Esiste una specifica moralità della politica che è diversa dalla morale dei rapporti intersoggettivi. Il fine della politica è di mantenere la «repubblica bene ordinata», e a questo scopo è lecito usare la violenza, se necessario, perché il male che ne risulterebbe in caso di disgregazione della collettività, cioè disordine e maggiore violenza, è minore rispetto alle violenze a cui si può essere costretti per mantenere un determinato assetto politico. Come ha chiarito definitivamente Isaiah Berlin, Machiavelli non «separa la morale dalla politica», nel senso che la politica sarebbe priva di fini etici, piuttosto ha una morale diversa rispetto a quella cristiana che ha informato l’intero pensiero moderno, secondo la quale l’individuo ha la preminenza, ma è invece quella antica secondo la quale l’insieme è prioritario rispetto al singolo, la salvezza della città è più importante della salvezza dell’anima. Machiavelli pur non mancando di fini morali (la «repubblica bene ordinata» in cui gli uomini possano vivere liberi) non confonde i piani, voler subordinare l’etica, la religione, la cultura, la filosofia, l’arte ai fini politici è l’essenza della ideologia, che finisce per cancellare qualsiasi piano culturale comune al di là dei conflitti che necessariamente attraversano le relazioni umane. Il concetto marxiano di ideologia partiva da un dato di fatto: l’arte, il diritto, la filosofia, la morale dominante, la religione, persino la ricerca scientifica riflettono i conflitti del loro tempo, ma questo non vuol dire che sono pura espressione di «classe», che i romanzi di Balzac (che Marx tanto apprezzava), espressione sicuramente di un certo mondo borghese, non possano interessare i «proletari».

Il fine della politica è un fine necessariamente particolare che riguarda i conflitti tra gli esseri umani, quindi non può innalzarsi a visione generale. Chi è alla ricerca di una visione del mondo non deve rivolgersi alla politica, ma all’arte, alla filosofia, alla religione, all’insieme del cultura del proprio tempo e di quello passato. Ma proprio perché l’individualismo su cui si regge la società moderna distruggeva ogni presupposto di una cultura comune ci si rivolse alle ideologie nella ricerca di una patria spirituale, ma il rimedio fu peggiore del male.

Se oggi continuiamo a leggere Marx, Hegel, Nietzsche, Heidegger è perché nonostante una loro precisa collocazione nei conflitti del loro tempo, e nonostante il loro essere immersi nell’ideologismo del loro tempo, le loro riflessioni superavano questo fatto contingente per toccare questioni che riguardano tutti. Uno studioso non è tale se non tocca questo livello comune, altrimenti è un puro e semplice propagandista destinato ad essere dimenticato. Nel suo tener fermo alla questione politica Machiavelli è un pensatore anti-ideologico, un salutare correttivo rispetto all’ideologismo del secolo scorso. Se si trasforma la lotta politica in una lotta ideologica, simile alle lotte di religione, il conflitto politico mira necessariamente alla conversione o al non riconoscimento come interlocutore e tendenzialmente all’annientamento di chi non condivide la propria ideologia. Quando una società si divide in gruppi impegnati in una lotta ideologica questa è una società che è destinata al declino, e sottoposta all’influenza determinante di altre società che possono manipolare queste contrapposizioni.

Dopo il «crollo del muro» nessuno più crede ad una delle ideologie concorrenti del liberalismo, il comunismo, mentre per quanto riguarda quella particolare declinazione del nazionalismo che furono il fascismo e il nazismo, la questione fu chiusa con la II guerra mondiale. Oggi esiste una solo grande ideologia, il liberalismo, che non si presenta più come tale, ma come una sorta di senso comune che ogni gruppo politico che vuole avere un ruolo non può non professare. In tale «liberal consensus» che è sempre stato dominante negli Usa, che non hanno avuto movimento nazionalisti e socialisti paragonabili a quelli europei, mentre nelle nazioni europee si è venuto affermando dopo «il crollo del muro», e mentre già negli anni settanta già si iniziava a sperimentare il cosiddetto neo-liberismo in Cile, fece discutere la scoperta del «repubblicanesimo» da parte di John Greville Agard Pocock in The Machiavellian Moment portava alla luce un filone di pensiero «sommerso» che parte dal pensiero comunale repubblicano comunale italiano e che ebbe come massimo esponente Machiavelli, e passa per i pensatori inglesi della prima rivoluzione inglese (principalmente Harrington), fino ai rivoluzionari americani. Il «repubblicanesimo» metteva radicalmente in discussione il «liberal consensus», una storia del pensiero politico statunitense che vedeva «Locke e poco altro», ma non riguardava solo tale contesto, ma il modo in cui guardiamo all’insieme delle dottrine politiche moderne occidentali.

La rilettura della storia del pensiero politico «occidentale» nasceva da un disagio, se così vogliamo chiamarlo, nei confronti di tale paradigma liberale dominante e da un’insoddisfazione per la «democrazia liberale» (come recitava il titolo di un libro di Michael J. Sandel, Democracy and its discontents). In questo modo però si dava per buono il concetto che ciò che la «democrazia liberale» sia davvero tale. Il repubblicanesimo machiavelliano, tra le altre cose, è utile per evidenziare la moderna distorsione del concetto di democrazia, che secondo il significato etimologico significa pur sempre potere del popolo. Particolarmente ostico per la mentalità indivualistica moderna che si ritiene sommamente «libera e democratica» confrontarsi con l’ideale della democrazia antica basata sul cittadino-soldato. Scrive Pocock:

«È proprio l’Arte della guerra [di Machiavelli] a fornirci il quadro preciso delle caratteristiche morali ed economiche del cittadino-soldato. Costui, infatti, per nutrire il dovuto interesse per il pubblico bene, deve possedere una famiglia e avere un’occupazione che non sia quella delle armi . Il criterio qui applicato è identico a quello cui doveva corrispondere il cittadino di Aristotele, che deve, anche lui, avere una sua famiglia da reggere e guidare per non essere servo di alcuno e per poter e conseguire di persona e con le proprie forze il bene, imparando cosí ad avvertire il rapporto che il suo bene particolare ha con il bene generale della polis». 1

Grazie alla sottolineatura della continuità del pensiero repubblicano comunale con il pensiero classico greco, principalmente quello aristotelico, in un primo momento il repubblicanesimo è stato visto come una variante del comunitarismo. Ma se è vero che Machiavelli condivide l’ideale classico della democrazia antica è pur vero che aggiunge qualcosa in più rispetto al pensiero classico che costituisce il suo contributo specifico alla storia del pensiero politico.

Con la critica dell’eccessivo avvicinamento del repubblicanesimo al comunitarismo, che rischiava di far scolorire il profilo autonomo del primo, studiosi come Quentin Skinner si sono affermati nella discussione internazionale sul repubblicanesimo (discussione soprattutto di carattere accademico). Come scrive Geuna, «Skinner cerca di dare un profilo autonomo al repubblicanesimo, sottraendolo all’abbraccio di aristotelici vecchi e nuovi . A suo giudizio, il repubblicanesimo non è una forma di politica aristotelica … Per dimostrare questo, mette in luce come nel pensiero di Machiavelli, e dei repubblicani che a lui si rifanno, non ricorrano alcuni assunti tipicamente aristotelici: l’uomo, innanzitutto, non è presentato come un animal politicum et sociale, per usare l’espressione tomistica, ma come un essere esposto alla “corruzione”, un essere che tende a trascurare i suoi doveri verso la collettività»2.

Per separare il repubblicanesimo dall’ «aristotelismo» (comunitarismo) si è individuata una componente «romana» (Skinner ha adottato la definizione «repubblicanesimo romano» avanzata da Philip Pettit), ma è stata un’operazione teoricamente poco convincente. «L’enfasi sul fatto che la tradizione repubblicana sia una tradizione esclusivamente romana, per origini e caratteri di fondo, lascia più di un dubbio: quasi che l’esperienza politica e culturale di Roma sia avvenuta senza alcun legame con quella greca, quasi che Cicerone nel redigere le sue opere non abbia avuto dei precisi modelli, primo fra tutti Platone»3. Condivisibile è il proposito di differenziare il repubblicanesimo dal comunitarismo, si tratta in effetti di dottrine diverse, senza però creare una netta separazione (ignorando i legami che pur ci sono), operazione che consente a Skinner e Pettit di riavvicinarlo al liberalismo, annacquando il carattere di alternativa teorica del repubblicanesimo.

Per i greci e i romani la libertà individuale si identifica con quella collettiva: il singolo partecipando alla determinazione dei fini collettivi si considerava libero. Nel pensiero comunale e poi nel Rinascimento si fa strada una maggiore individualizzazione, tuttavia la libertà non è ancora vista come esclusivamente individuale, divergente dai fini collettivi, come sarà poi nel liberalismo. Se è vero che la libertà è un concetto fondamentale per il pensiero comunale e rinascimentale, e certo Machiavelli conosceva i versi di Dante «Libertà va cercando che è si cara», altrettanto vero è che la libertà di Machiavelli non è quella di Hobbes o di Locke, è una libertà che comprende anche la «libertà degli antichi», è, se vogliamo dirlo con il Faust di Goehte, il «vivere libero con un popolo libero». Che si tratti di libertà come «non interferenza» (liberalismo) o di libertà come «non dominio» (repubblicanesimo come inteso da Skinner e Pettit), il fine principale è sempre la libertà dell’individuo, mentre per Machiavelli, com’è noto, la salvezza della città è prioritaria rispetto alla salvezza dell’individuo. L’«urbanizzazione» (come l’ha definita Geuna) del repubblicanesimo operata da Skinner e Pettit a me pare piuttosto una compatibilizzazione con il paradigma liberale ancora dominante. Quindi, pur condividendo il proposito di differenziare il repubblicaneismo dal comunitarismo, non condivido questo avvicinamento opposto al liberalismo. Pocock resta molto più interessante nel mettere in luce tutti gli aspetti in cui il repubblicanesimo che nasce da Machiavelli cozza contro la mentalità individualista moderna.

Machiavelli è più vicino a noi rispetto ad Aristotele non solo in senso temporale, pur perseguendo un fine «comunitario» (Machiavelli si considerò sempre un patriota, disse che bisogna amare la propria patria anche quando da questa si un cattivo trattamento4), lo fa tenendo conto della divisione in classi, mentre invece il comunitarismo può significare imporre un «patriottismo», la ricerca di un’unità sociale, che alla fine non può che essere velleitaria oltre che autoritaria, in quanto prescinde dalla mancanza di volontà delle classi superiori di integrare le classi popolari nella società. Mentre si persegue deliberatamente la precarizzazione, demolendo le conquiste del movimento operaio del secolo scorso, al fine di una esclusione delle classi non dominanti, non si può pretendere che si sentano partecipi di una società che le esclude. Machiavelli è più vicino a noi perché prendeva atto del fatto che nella società esistono due «umori diversi», e l’arte della politica consisteva nel far in modo che la conflittualità che ne scaturiva fosse fonte di dinamismo e non di disgregazione. Per quanto riguarda un comunitarismo, anch’esso aristotelico, che tiene conto della divisione in classi, abbiamo un comunitarismo abbastanza unico nel panorama teorico internazionale come quello di Costanzo Preve, per il quale la comunità si può realizzare attraverso il comunismo di Marx, cioè attraverso l’abolizione delle classi, ma tale comunitarismo oggi, dopo la passata esperienza storica, si può conservare solo come utopia, o nei termini dell’ideale regolativo kantiano, come ebbe a riformulare l’ideale comunista Costanzo Preve negli ultimi anni della sua vita.

Per quale motivo il repubblicanesimo è entrato a far parte delle storia delle «correnti sommerse» (Skinner) del pensiero umano? Diamo anche in questo caso la parola a Geuna «Qual è il senso di queste argomentazioni di Skinner? A che cosa mira questo suo lavoro di scavo? Anche in questo caso, si possono individuare due ordini di ragioni: ragioni di tipo storico e ragioni di tipo teorico. Ragioni di tipo storico, innanzitutto. Skinner è alla ricerca di spiegazioni persuasive del tramonto, della decadenza della teoria neo-romana . E effettivamente convinto che le critiche mosse alla teoria neo-romana della libertà, sul lungo periodo, abbiano contato . Menziona, a dire il vero, anche altri motivi, che non attengono al piano delle argomentazioni politiche, motivi di tipo sociale . E cioè il tramonto dell’ideale del gentiluomo indipendente, che tra Sei e Settecento aveva incarnato le aspirazioni di libertà e indipendenza dei teorici neo-romani. Ma le sue ragioni sono, ancora una volta, soprattutto di ordine teorico. Skinner intende difendere la teoria neo-romana da queste critiche. E’ convinto che queste critiche, per quanto importanti ed influenti, non si misurino con il cuore dell’argomentazione dei teorici neo-romani: con il loro modo complesso di pensare la costrizione, che assegna un ruolo di rilievo alla dipendenza. Nell’esporre e discutere le tesi dei pensatori liberali, Skinner ha dunque l’occasione per ribadire la sostanziale fondatezza, coerenza, e persuasività della teoria neo-romana»5.
Ma il repubblicanesimo machiavelliano non venne dimenticato perché soccombette alle critiche degli avversari. Federico Chabod ci fornisce una convincente esposizione dei «limiti» dell’analisi politica di Machiavelli, soprattutto per quanto riguarda la critica del «mercenarismo», cioè al suo «fissarsi» soltanto sulle questione di ordine militare, senza tenere conto delle questioni di ordine «economico». «E non s’avvedeva che proprio in quei tempi il mercenarismo militare diventava una necessità assoluta per i monarchi, volti a creare faticosamente gli Stati nazionali; e non sapeva intendere come, volendo dar loro i mezzi per trionfare delle resistenze feudali, de’ particolarismi di regioni o città, e ad un tempo per consentire l’inizio di una vera, grande politica di espansione europea, fosse necessario porre sotto gli ordini del capo del governo centrale un esercito che soltanto da lui dipendesse, da lui e dal suo tesoro, ed acquistasse, nella lunga consuetudine di una vita guerresca, la disciplina e la tecnica di battaglia necessarie per una vittoria … è superfluo mettere quindi in rilievo quanto sia errata l’affermazione di Machiavelli, che i denari non sono il nerbo della guerra, l’esperienza di quegli anni stava dimostrando proprio il contrario»6. E ciò si aggiunga la diffidenza di Machiavelli per le armi da fuoco che a suo parere non potevano sostituire la virtù.

Dunque Machiavelli non seppe vedere che il futuro apparteneva allo stato nazionale basato sulla concentrazione del potere coercitivo, nella creazione degli eserciti professionali e nello sviluppo della potenza economica atta a sostenerli. Ma Machiavelli aveva in mente uno ordinamento diverso basato sulla virtù del cittadino-soldato. Più adatta fu la teoria hobbesiana quale espressione teorica della concentrazione del potere statuale, presupposto necessario per creare quelle condizioni adatte allo sviluppo del commercio e dell’industria. In verità, Machiavelli pur cogliendo gli inizi un rivolgimento storico epocale, (la civiltà europea moderna nella fase della sua formazione) non credeva molto a ciò che stava nascendo che vedeva segnato fin dalla nascita dalla corruzione7. L’incoraggiamento della ricerca della ricchezza personale (a cui Machiavelli era contrario8 ), l’auri sacra fames, è stato il principale stimolo che ha alimentato una delle rivoluzioni tecnologiche più impressionanti dell’intera storia dell’umanità, a cui la civiltà europea si è trovata alla testa, ma che riesce a realizzare mettendo insieme le scoperte di tutte le altre civiltà (carta, polvere da sparo, sistema numerico decimale, per dirne solo alcune), conferendole un enorme vantaggio sulle altre grandi civiltà. La civiltà europea ha potuto puntare tutto sulla tecnica trascurando la virtù. La superiorità tecnica ha permesso alle società europee di superare le contraddizioni interne attraverso l’espansione coloniale e imperialistica, ed è esattamente l’opposto di quello sviluppo basato sul territorialismo a cui pensava Machiavelli rifacendosi all’esperienza di Roma.

Non è affatto «apparente»9 l’anti-imperialismo di Machiavelli, a meno di non trasformare l’anti-imperialismo in uno strumento del «politicamente corretto» con cui si condanna l’imperialismo altrui, mentre si persegue il proprio sventolando la bandiera dei diritti umani e della democrazia. Non è l’espansionismo in quanto tale ad essere imperialistico, ma un determinato tipo di espansionismo. Tutti gli stati moderni sono stati creati dall’espansionismo di una parte sull’altra che acquisisce la funzione di gruppo dominante. Il risultato finale di un anti-imperialismo basato sul concetto morale di autonomia sarebbe che ognuno dovrebbe starsene per sé. Tuttavia ci sono aggregazioni umane che lasciano uno spazio per vivere secondo i propri intendimenti e svilupparsi anche a chi è subordinato e aggregazioni basate su un dominio che tende al completo assoggettamento e controllo. Roma seguì il primo modello di dominio10 Il fascismo e il nazismo che si richiamavano per motivi propagandistici all’Impero romano seguirono il secondo. Lo sciovinismo razziale è l’antitesi della concezione imperiale romana, esso è piuttosto un prodotto dell’imperialismo europeo. Il razzialismo, poi elevato a ideologia ufficiale dal nazismo, non a caso è nato in Inghilterra. L’imperialismo vero e proprio è l’espansionismo senza limiti e senza confini che non crea un ordine, basato sulla ricerca dell’accumulazione potenzialmente illimitata di ricchezza. L’imperialismo europeo ha assoggettato e stravolto l’intero globo, ha costretto a cambiamenti radicali le altre civiltà, imponendo dappertutto il suo modello. L’imperialismo statunitense attualmente, dopo il «crollo del muro», mira alla distruzione di qualsiasi forma statuale al fine di stabilire il suo dominio mondiale. L’imperialismo europeo non ha mai creato un sistema stabile, ma ha prodotto delle «egemonie» che sono durate l’espace d’un matin rispetto all’Impero romano. Il regime finora più lungo, quello dell’egemonia britannica non è durato neanche un secolo (dalla sconfitta di Napoleone alla I guerra mondiale quando essa è già seriamente minata). Il regime statunitense sembra sulla strada di battere ogni altro «impero» (le virgolette sono d’obbligo) della storia per brevità di durata.

Per quale motivo gli stati europei non sono riusciti a costituire un sistema unitario, cioè un «impero» (tra virgolette perché a mio parere sarebbe possibile un sistema unitario di stati senza un imperatore) non può essere discusso adeguatamente in questo saggio. Dobbiamo accontentarci di riprendere alcune valutazioni di Victoria Tin-Bor Hui11: «Gli stati europei non impiegarono gli stratagemmi machiavelliani o stile-Qin l’uno contro l’altro, neanche Napoleone che “lesse avidamente e ammirò grandemente” Il Principe». Le valutazioni sul mancato impero europeo si basano su di un principio comparativo con lo sviluppo della Cina imperiale che meriterebbe di essere approfondito: «Gli europeisti credono che tale processo di formazione degli stati sia unicamente europeo e moderno. Ma le stesse dinamiche sono nel sistema dello zhongguo o stati centrali nella Cina antica»12. Possiamo dire che la politica di Napoleone fu più militaristica che strategica, motivo per cui non seppe creare un sistema di alleanze europee, come fece Roma. Non fu soltanto la mancanza dell’impiego della forza o dell’inganno, ma la mancanza soprattutto della capacità strategica che mostrarono i romani. Questo parallelo tra l’Europa moderna e la Cina antica è molto suggestivo ma data la mia scarsa conoscenza della storia cinese altro non saprei dire, mi limito a riportare un’osservazione di una certa importanza «Sun Tzu and e Fei sono talvolta chiamati i Machiavelli cinesi. Ma si potrebbe anche chiamare Machiavelli il Sun Tzu europeo»13. Rilievo ineccepibile in quanto Sun Tsu visse un millennio prima di Machiavelli. Vediamo come Machiavelli sintetizza la condotta strategica dei Romani: «Perché come ei cominciorono a uscire con gli eserciti di Italia, e ridurre i regni in provincie, e farsi suggetti color o che per essere consueti a vivere sotto i re non si curavano di esser e suggetti, ed avendo governatori romani ed essendo stati vinti da eserciti con il titolo romano, non riconoscevano per superiore altro che Roma . Di modo che quegli compagni di Roma che erano in Italia, si trovarono in un tratto cinti da’ sudditi romani ed oppressi da una grossissima città come era Roma; e quando ei s’avviddono dello inganno sotto il quale erano vissuti, non furono a tempo a rimediarvi».

Fu questo il principale stratagemma con cui Roma costituì il suo impero. Il fatto che Roma lasciò una relativa autonomia ai popoli conquistati, anche dopo che fu compiuta la sua egemonia sul Mediterraneo, dimostra che non si trattò di un puro e semplice stratagemma, ma di un carattere costitutivo della politica dei romani.

Machiavelli è il pensatore dell’Europa intesa come sistema di stati, questo è il senso principale dell’avere come modello Roma. Se è vero che un sistema di stati si è sviluppato solo in Cina e in Europa, ha molto più senso paragonare l’Europa moderna alla Cina imperiale piuttosto che all’Impero romano che si sviluppò in modo simile a quell degli altri imperi da una città-stato. Machiavelli conosceva però solo lo sviluppo dell’Impero romano e attraverso questo termine di riferimento cerca di capire la dinamica del sistema di stati europeo agli albori sotto i suoi occhi. Questo sistema implica la presenza di più stati, il che può avere sviluppi positivi in quanto «il mondo è stato più virtuoso dove sono stati più Stati che abbiano favorita la virtù o per necessità o per altra umana passione»14. Tuttavia c’è qualcosa di diverso nello sviluppo di Roma, che determina qualcosa di irrisolto nel pensiero di Machiavelli: sa che per Roma la fine del suo doppio, Cartagine (una città che aveva un sistema sociale molto simile a quello di Roma), la fine della sua sorella antagonista fu la fine della virtù di Roma. Meglio sarebbe dire che Machiavelli è fautore di quel processo che poi portò alla costituzione dell’impero. Vorrebbe che gli stati europei si indirizzassero su un percorso simile a quello di Roma e se questo sfociò nell’Impero fu negativo, ma tutte le cose di questo mondo sono finite, nondimeno Roma visse libera per 500 anni.

Se è vero che «tutto torna ma diverso», e quindi l’Europa non avrebbe seguito di pari passo l’evoluzione della Repubblica Romana#, è pur vero che qualcosa è andato storto nella storia dell’Europa moderna. Con Napoleone l’Europa si avvicinava ad un’evoluzione paragonabile a quella di Roma, ma com’è noto fu sconfitto. Noi che siamo vissuti dopo possiamo vedere come la rovina degli stati europei consista nel fatto di non esser riusciti a costruire un’aggregazione «imperiale» (secondo i termini suoi propri che non potevano essere quelli dell’antica Roma) che trascendesse e risolvesse i conflitti interni. Dalla sconfitta di Napoleone inizia una fase di decadenza dell’Europa da cui nascono le contrapposizioni ideologiche nazionalistiche o di classe. Secondo Toynbee, la nascita di un «proletariato interno» è l’indice di una frattura interna nella società che segna la sua fase di decadenza. Le contrapposizioni ideologiche non sono dovute a motivi meramente spirituali ma sono la manifestazione superficiale di fratture profonde della società.

Che Machiavelli non sia solo un patriota che auspica la nascita dello stato nazionale italiano (cosa che certamente fu, basti pensare alla parte finale de Il principe), ma che la sua ottica sia europea, lo si evince dall’analisi delle vicende dello stato francese. «Per combattere l’Inghilterra, Carlo VII costituì il primo esercito permanente in Europa, le Compagnie d’Ordinanza. Egli impose anche un drastico incremento delle tasse dirette e indirette. Sebbene rudimentali, queste furono misure auto-rafforzanti perché richiedevano alla Corte francese il miglioramento della propria capacità estrattiva [in senso finanziario]. Se la Francia avesse sviluppato queste pratiche, la storia europea sarebbe stata più simile a quella cinese … è degno di nota che Machiavelli avesse identificato il problema fin dall’inizio del sedicesimo secolo. Machiavelli elogiava la comprensione di Carlo VII della “necessità di armarsi di arme proprie”. Egli credeva che se il Regno di Francia sarebbe stato “insuperabile, se l’ordine di Carlo era accresciuto o preservato”. Sfortunatamente “re Luigi suo figliuolo spense quella de’ fanti, e cominciò a soldare Svizzeri: il quale errore, seguitato dalli altri, è, come si vede ora in fatto, cagione de’ pericoli di quello regno. Perché, avendo dato reputazione a’ Svizzeri, ha invilito tutte l’arme sua; perché le fanterie ha spento e le sua gente d’arme ha obligato alle arme d’altri; perché, sendo assuefatte a militare con Svizzeri, non par loro di potere vincere sanza essi”»15 .

Machiavelli non condivide la concezione imperiale di Dante ancora legata al medioevo e al compromesso tra i «due soli», intuendo che quanto stava venendo formandosi era qualcosa di nuovo che per affermarsi dovette lottare sia contro il Papato che il Sacro Romano Impero. La continuità tra la Roma repubblicana e quella imperiale è un elemento irrisolto del pensiero di Machiavelli, tuttavia se è vero che la fine della Roma repubblicana è la fine della virtù romana, e che fu proprio essa a dar vita all’impero si tratta di un processo inevitabile in un mondo in cui tutto è destinato a nascere, crescere e perire. Machiavelli era un patriota, ma non in senso angustamente nazionalistico. La patria di Machiavelli è laddove si sviluppa la virtù. Se la virtù muore a Roma, rinasce da qualche altra parte16.

Tuttavia vi sono delle affinità con la visione dantesca. L’Ulisse di Dante è una figura della hybris greca, la cui incarnazione con un po’ di immaginazione individuo in Alessandro Magno che dalla Persia volle raggiungere l’India in direzione di un confine ignoto, un assalto all’infinito, un voler andare oltre i limiti (come Ulisse) che poteva terminare solo con la sua sconfitta e la fine della civiltà greca.

Non a caso il Canto inizia con l’invettiva contro Firenze che stabilisce una precisa relazione con la hybris greca:

«Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande,

che per mare e per terra batti l’ali,

e per lo ‘nferno tuo nome si spande!»

(Inferno, Canto XXVI)

Lo spirito capitalistico di espansione infinita, illimitata, senza confini agli albori in Firenze per Dante è erede della hybris greca. Egualmente Machiavelli condanna Atene, Sparta e Firenze da parte di Machiavelli per aver assoggettato i territori circostanti, e la condanna è sincera perché il puro e semplice desiderio di conquista è diverso dalla capacità strategica dei Romani.

Diversamente procedette Roma. Roma nei suoi mille anni di storia arrivò ad un confronto diretto con l’impero persiano solo verso la fine dell’Impero romano (e persiano). Roma operò nell’ambito suo proprio costituito dal bacino del Mediterraneo.

L’Europa moderna invece ha varcato stabilmente le colonne d’Ercole conducendo il mondo di fronte ad un pericolo mortale.

L’imperialismo europeo trasfiguratosi nel non-luogo denominato Occidente è arrivato alla conclusione del suo percorso ora che le altre grandi civiltà, ad eccezione della civiltà islamica, sono riuscite a far fronte alla minaccia distruttiva della «civiltà occidentale». L’aver fondato tutto sulla superiorità tecnica ed economica ci rivela che la civiltà occidentale si è fondata sul nulla. Forse è questo uno dei motivi, più o meno consapevoli, per cui vari studiosi hanno ripreso a leggere Machiavelli. Ad es. Skinner dichiara che il suo interesse per Machiavelli sta proprio nella sua alterità rispetto al pensiero moderno.

In realtà il repubblicanesimo non è stato sommerso del tutto, c’è un motivo per cui continua a persistere pur all’interno di una teoria dello stato dominata dal paradigma hobbesiano. Nel conflitto tra gli stati che ha portato alla piena formazione dello stato europeo (secondo la «sociologia storica» di Charles Tilly ed altri) si è avuto ancora bisogno della virtù, in particolare durante le due più importanti rivoluzioni nell’organizzazione dello stato, la guerra civile inglese seguita dalla Glorious revolution e la rivoluzione francese, che sono due rivoluzioni principalmente statuali dettate dal conflitto tra le nazioni europee che è stato il principale motore di questo sviluppo (in tal senso vedi Tilly che ne è stato il principale teorico). «L’esercito cromwelliano fu una forza rivoluzionaria perché fu meno un’armata mantenuta dallo stato che un esercito in cerca di uno stato che potesse mantenerlo»17 Harrington non può ancora concepire l’esercito professionale, poiché era ancora in formazione, ma da ciò deriva il suo interesse per la critica machiavelliana delle milizie mercenarie.

E’ nella new model army di Cromwell che si diffondono le tendenze radicali, repubblicane, rivoluzionarie fino al radicalismo dei livellatori. Il tentativo teorico di Harrington è quello di fare una sintesi tra il repubblicanesimo e l’assolutismo. Un’eguale tendenza a conciliare il repubblicanesimo con l’assolutismo si riscontra in Rousseau «un pensatore che ha inserito sul patrimonio di concettualizzazioni del diritto naturale categorie tipiche della tradizione repubblicana moderna, pur a costo di rilevanti tensioni teoriche»18.

Se è vero che l’esercito professionale da cui poi si è sviluppato l’esercito di leva è diverso («Non è stata la coscrizione militare di per sé ma l’esercito cittadino auto-equipaggiato che storicamente ha servito come baluardo contro la dominazione»19) dall’esercito di popolo sul modello romano a cui pensava Machiavelli è pur vero che è diverso dall’esercito mercenario e dall’esercito medievale. Come scrive Max Weber:

«Il motivo della democratizzazione è sempre di natura militare; sta nella comparsa della fanteria disciplinata, dell’esercito di corporazione nel Medioevo, dove l’elemento decisivo era che la disciplina militare prevaleva sulla lotta tra eroi. La disciplina militare significò la vittoria della democrazia poiché si dovevano e volevano arruolare le masse di non cavalieri, si mettevano loro in mano le armi, e quindi il potere politico»20.

Da questa necessità di coinvolgere le popolazioni nella lotte reciproche dei principali stati europei, sorgono delle contro-tendenze democratiche nella costituzione sostanzialmente oligarchica degli stati moderni fino ai nostri giorni. Riconoscere il potere «assoluto» dello stato vuol dire riconoscere il potere assoluto di chi controlla il potere coercitivo dello stato, cioè un’oligarchia. Siccome però queste oligarchie hanno avuto bisogno del popolo si è creato quello «ossimoro» vivente che sono state le «democrazie» moderne: la democrazia oligarchica come l’ha definita il direttore di un quotidiano italiano che di repubblicano ha solo il nome, senza però tematizzare la contraddizione per cui il suo «ossimoro» è semplicemente un’assurdità, tipo il secco dell’acqua, o l’umidità della fiamma.

Il repubblicanesimo liberale di Harrington e di Locke è un sistema basato su di una contraddizione di fondo: voler conciliare il repubblicanesimo con l’assolutismo. «Né Harrington né Locke si opponevano a un potere sovrano: ritenevano entrambi che in qualunque società civile si rendesse necessaria da qualche parte la presenza di un potere politico, a cui, come si doveva sottintendere, ogni individuo avesse rimesso tutti i propri diritti e poteri, e che non fosse sottoposto a limiti da parte di qualsiasi potere umano superiore o associato. Harrington fu del tutto esplicito: “Là dove il potere sovrano non è intero e assoluto proprio come nella monarchia, non ci può assolutamente essere alcun governo” . Locke pose il potere sovrano nella società civile, cioè nella maggioranza: ammetteva che la maggioranza non volesse nient’altro che il bene pubblico, e che perciò potesse detenere senza pericolo il potere sovrano da conferire a qualcuno. Ovviamente, l’uomo o l’assemblea a cui la società civile affidava allora il potere legislativo e l’esecutivo non erano sovrani; ma in questi casi, in cui il potere veniva affidato a un’assemblea elettiva piuttosto che a un’assemblea o a un monarca auto-perpetuantesi, Locke riconosceva un esercizio virtuale del potere sovrano. Sia Harrington che Locke non videro la necessità di porre irrevocabilmente il potere sovrano nelle mani di una persona o di un’assemblea di persone con l’autorità di designare il proprio successore o i propri successori; anzi, giudicarono ciò incompatibile con gli unici scopi plausibili per cui degli individui potrebbero autorizzare un potere sovrano. In effetti, si opponevano non a un potere sovrano perpetuo, ma a una persona o a un’assemblea sovrana auto-perpentuantisi»21.

Lo stesso Hobbes aveva chiarito il potere assoluto poteva essere incarnato anche da una assemblea, tuttavia poiché riteneva necessaria l’auto-perpetuazione del potere assoluto è stato visto erroneamente come un teorico della monarchia assoluta. Poiché il suo modello, prevedeva un’inevitabile frammentazione sociale dovuta alla conflittualità generalizzata, come sostiene Macpherson, non potè considerare il dominio della borghesia in modo maggiormente flessibile ammettendo la possibilità di un assetto costituzionale che consentisse importanti cambiamenti al suo interno, pur perpetuandosi come sistema di dominio. A ciò va aggiunto il fatto che il nuovo tipo di stato è ancora un modello rigido privo di quelle articolazioni che svilupperà in seguito per restando il modello di base lo stesso.

L’equivoco riguardo al rapporto tra la teoria di Hobbes e al liberalismo è dovuto al fatto che il «collettivismo», cioè il potere assoluto dello stato, sembra escludere l’individualismo, ma si tratta di una coppia polare, l’individualismo è inseparabile dal potere assoluto dello stato, come ha brillantemente messo in luce Macpherson:. «La concezione per cui individualismo e “collettivismo” sono le estremità opposte di una scala lungo la quale si possono disporre stati e teorie dello stato, senza tener conto dello stadio di sviluppo sociale in cui si formano, appare superficiale e induce in errore. L’individualismo di Locke, cioè di una società capitalistica emergente, non esclude, ma, al contrario, richiede la supremazia dello stato sull’individuo. Non si tratta di più individualismo o di meno collettivismo. Piuttosto, quanto più compiuto è l’individualismo, tanto più totale è il collettivismo. Esempio estremamente significativo ne è la teoria di Hobbes, ma il fatto di aver negato la legge naturale della tradizione e di non aver garantito la proprietà nei confronti di un sovrano che si perpetuava, non raccomandava le sue concezioni a quelli che vedevano la proprietà al centro dei fatti sociali. Locke era più accettabile, sia per la posizione ambigua sulla legge naturale, sia per un certo tipo di garanzia che forniva ai diritti di proprietà. Se si interpreta in questo modo il carattere specifico dell’individualismo borghese del diciassettesimo secolo, non è più necessario cercare un compromesso tra le affermazioni lockiane individualiste e quelle collettiviste: nel contesto infatti si implicano a vicenda»22.

Cosa vuol dire potere assoluto dello stato? Lo stato non è e non potrà mai essere il popolo. Nietzsche la denuncia come la più «fredda menzogna del mostro», ovvero il Leviatano hobbesiano. La democrazia pura cioè basata sul governo del popolo è stata costitutivamente instabile. Machiavelli rifiuta il modello ateniese, modello di ogni forma ideale di democrazia, per la sua instabilità, dissolvendosi nella lotta tra fazioni a causa della mancanza di un governo centrale, che determina il passaggio alla monarchia (governo di uno solo), che degenera in dittatura per cui si passa all’aristocrazia che degenera a sua volta in oligarchia, da cui si passa alla democrazia determinando quel ciclo in cui si erano avvitate le città greche (ad esclusione di Sparta) che secondo Polibio il sistema misto della Roma repubblicana aveva interrotto. Il sistema non instabile più vicino alla democrazia è il sistema misto, a cui al potere dello stato si affiancano dei contro-poteri esterni allo stato. Bodin lo identifica con la democrazia tout court. Assolutismo e democrazia sono termini antitetici se stiamo al significato etimologico dei due termini. Incidentalmente Kant mise in luce il carattere non democratico del sistema parlamentare proprio perché fondato sull’assolutismo.

Che cos’è un monarca assoluto? È quello che, se dice: «Guerra sia», è subito guerra. – Che cos’è viceversa un monarca limitato? Colui che prima deve chiedere al popolo se ci debba esserci o no la guerra; e se il popolo dice «Non ci dev’essere guerra», allora non viene fatta. – La guerra, infatti, è una condizione in cui tutte le forze dello stato devono stare agli ordini del suo capo supremo. Ora, le guerre che ha condotto il monarca britannico senza chiedere alcun consenso su ciò sono davvero molte. Perciò tale re è un monarca assoluto, cosa che in base alla costituzione egli non dovrebbe essere; la quale, invece, si può sempre aggirare, proprio perché attraverso quei poteri dello stato può assicurarsi il consenso dei rappresentanti del popolo, dato cioè che egli ha il potere di affidare tutti gli uffici e gli onori. Per avere successo, un tale meccanismo di corruzione non ha certo bisogno della pubblicità. Perciò rimane sotto il velo, molto evidente, del segreto»23.

Ecco perché il potere effettivo diventa qualcosa di nascosto. Il sistema parlamentare si basa fin da Hobbes su di un patto: la sovranità, cioè il potere, la gerarchia sociale non sono legittimi in sé stessi ma derivano da un accordo collettivo che conferisce il potere a qualcuno al fine di evitare la guerra di tutti contro tutti, cioè la disgregazione sociale. In realtà il potere che non deriva da nessuna legittimazione esterna esiste eccome, come tutti sanno. Tuttavia questa finzione funzionale è essenziale al sistema, per cui la gerarchia sociale diventa qualcosa di nascosto. Per questo Marx ad es. va a ricercare dove si «nasconde» la struttura del potere effettivo, individuandola nei «rapporti di proprietà», in particolare in chi controlla i mezzi di produzione, ma è una visione parziale ed erronea, chi controlla gli strumenti coercitivi dello stato ha avuto un ruolo preponderante.
Finora nessuna società è riuscita a funzionare senza una gerarchia. Motivo per cui la gerarchia sociale non avrebbe bisogno di nessuna giustificazione. Nella Roma antica i Consoli e il Senato non avevano bisogno della legittimazione popolare (giustamente per questo Polibio dice che i Consoli erano dei re), ma oltre ai Consoli e al Senato c’era un’articolazione di varie assemblee popolari che costituivano l’aspetto democratico della Roma repubblicana.
Il potere delle classi dominanti può affermare apertamente la sua legittimità quando riconosce l’esistenza di contro-poteri nelle classi popolari. Il potere assoluto adotta invece una maschera, cioè la personae fittizia dello stato.

Oggi a noi sembra addirittura inconcepibile che il popolo possa decidere della guerra, al massimo possiamo pensare che la decisione possa essere nelle mani del parlamento, quale «rappresentante della volontà popolare», ma sappiamo che il parlamento è piuttosto uno strumento dello stato, come efficacemente mette in luce Kant. Inoltre, negli ultimi tempi si è imposta la tendenza a bypassare anche il parlamento. In Italia ad es. molte missioni all’estero sono state decise dal governo con lo strumento del decreto-legge. Nella Roma repubblicana la decisione ultima sulla guerra spettava ai comitia centuriata che erano delle assemblee popolari.

Questo patto hobbesiano fonda il sistema su basi individualistiche. L’individualismo è la radice del totalitarismo, come ha ben messo in evidenza Louis Dumont nei sui Saggi sull’individualismo: il razzialismo hitleriano era un modo meccanico per ristabilire l’unità in una società individualistica. Ma come abbiamo visto l’individualismo è inseparabile dal «collettivismo» cioè dalla concentrazione del potere statuale che crea le condizioni per cui possa esistere una «sfera privata» in cui l’individuo è «libero» di perseguire il suo «interesse privato». Tuttavia perché potesse configurarsi ciò che noi definiamo totalitarismo era necessaria un’ulteriore evoluzione dello stato, la concentrazione del potere ideologico che è stata la trasformazione precipua dello stato nel XX secolo, ragione per cui molti studiosi si sono concentrati sulla funzione svolta dai media. Con la concentrazione del potere ideologico il sistema di dominio diventa più articolato e capillare, lo stato si evolve come Apparato di dominio.

I totalitarismi sovietico e tedesco furono tentativi imperfetti, rudimentali di far fronte ai mezzi, alla capacità di mobilitazione che aveva lo stato totalitario pienamente sviluppato, cioè gli Usa, il quale proprio perché funziona bene può instaurare un controllo capillare senza abbandonare la facciata democratica. Lasciamo da parte l’Unione Sovietica che aveva la concentrazione di potere statuale necessaria per questo scopo, ma non aveva lo sviluppo economico necessario per la creazione di un’ampia classe media, per cui sviluppò un totalitarismo molto rudimentale. La Germania invece già dal finire del XIX secolo era lo stato europeo più avanzato, quello che mostrava maggiori somiglianza con gli Usa, ed è stato quello che maggiormente ha sviluppato questi nuovi aspetti dello stato (lo stesso Hitler paragonava la propaganda politica alla propaganda americana delle saponette).

Questa dinamica la si può cogliere sulla base della teoria di Charles Tilly secondo cui le strutture statuali e non solo, ma l’organizzazione complessiva della società, si sviluppano attraverso il conflitto, in pratica, ogni qualvolta uno stato introduce un cambiamento che aumenta la propria potenza costringe gli altri stati ad introdurlo anch’essi, pena la sconfitta. La stessa rivoluzione francese ha le sue radici in questa dinamica (vedi il mio Ripensare la rivoluzione francese). Gli Stati Uniti, oltre alla concentrazione del capitale e alla concentrazione del potere coercitivo (che per Tilly sono i tratti costitutivi dello stato moderno), introducono la concentrazione del potere ideologico con lo sviluppo del sistema mediatico.

Questo nuovo regime ha la sua base nella classe media, che è essa stessa prodotto di un’ulteriore concentrazione del capitale e lo sviluppo dell’economia di scala: Charles Wright Mills nel suo classico studio sui «colletti bianchi» sottolineava la somiglianza di questa classe media con gli «impiegati» tedeschi descritti da Kracauer. Una classe media semi-parassitaria, privilegiata e allo stesso tempo priva di potere, che guarda con orrore alla classe lavoratrice. Da questa condizione sociale derivano tutte le storture della sua psicologia (in merito esiste un’ampia letteratura). E’ la progenitrice del ceto medio semi-colto, che è la principale base di propagazione del diritto-umanesimo e del politicamente corretto costitutivi dell’ideologia dominante (vedi in merito il mio Tendenze totalitarie odierne: la gender theory).

Machiavelli è il pensatore anti-totalitario per eccellenza proprio perché il totalitarismo è un’evoluzione dello stato moderno rispetto alla quale Machiavelli indica un’altra direzione.

Skinner si è occupato in vari scritti della nascita del concetto di stato, lavori sicuramente interessanti, frutto di un impressionante scavo storico, tuttavia individua una inesistente continuità24, al di là delle normali interazioni tra i principali pensatori della politica. Machiavelli è l’anti-Hobbes, il suo concetto dello stato è l’opposto dell’assolutismo hobbesiano. Il sistema misto come descritto da Polibio di cui Machiavelli era fautore è ciò che principalmente rifiutano i teorici dell’assolutismo.

Skinner e Pettit hanno concorso a darne una migliore definizione, ma ritengo che l’effettiva enucleazione del paradigma repubblicano machiavelliano la si debba allo studioso italiano Marco Geuna (e sulla sua scorta Baccelli), nonostante la minore notorietà internazionale (in ambito accademico), soprattutto perché riesce a mettere in evidenza la radicale alterità di Machiavelli rispetto a Hobbes, il principale teorico dello stato moderno. Credo non vi sia campanilismo quando Baccelli sottolinea l’italianità di Machiavelli, egli è pur sempre un prodotto della cultura italiana, chi ha studiato nella scuola italiana meglio può capirne le sfumature del linguaggio. Riporto qui un’estratto che contiene in sintesi una definizione del «paradigma machiavelliano» ripresa, approfondita e differenziata in vari articoli25.

È forse utile ricordare la pluralità di termini utilizzati da Machiavelli, sia nei Discorsi sia nelle Istorie, per sviluppare le sue riflessioni. Egli si serve, per lo più, dei termini ʻdisunioniʼ e ʻtumultiʼ per riferirsi a quei conflitti fra le parti costitutive della città che trovano una sorta di composizione istituzionale e arricchiscono di leggi e ordini la vita politica della res publica, mantenendo viva la sua libertà; altre volte, per riferirsi a questo primo tipo di conflitti, usa le espressioni ʻcontroversieʼ, ʻdissensioniʼ, ʻdifferenzieʼ, ʻromoriʼ.

Ricorre, invece, alle espressioni ʻcivili discordieʼ, ʻintrinseche inimicizieʼ, per designare un altro tipo di conflitti, per riferirsi a quegli antagonismi che degenerano in scontro di ʻfazioniʼ e di ʻsetteʼ, e mettono a repentaglio la libertà stessa della res publica. Con questi termini, Machiavelli riesce a veicolare una riflessione sui conflitti assolutamente nuova e peculiare che lo colloca in posizione di marcata discontinuità rispetto alla tradizione antica e medioevale del pensiero politico occidentale; ma che lo situa anche ai margini, in una prospettiva altra, rispetto al cosiddetto progetto politico moderno, incentrato, da Bodin e Hobbes in poi, sul ruolo del potere sovrano e sulla neutralizzazione del conflitto da esso attuata.

Questo è in sintesi il paradigma machiavelliano, il suo principale apporto allo storia del pensiero politico, il nucleo concettuale attorno al quale Machiavelli articola la sua teoria politica, una nuova concezione del conflitto che in determinate condizioni, quando non si trasforma nella creazione di «sette» è fonte di dinamismo sociale, di difesa della libertà, e delle leggi che creano l’ordine sociale.

Per chi volesse farsene un’idea con le parole di Machiavelli stesso consiglio di primo acchitto la lettura del cap. IV dei Discorsi dal titolo Che la disunione della Plebe e del Senato romano fece libera e potente quella republica.

Proviamo ad applicare il paradigma alle principali ideologie moderne: tutte sono segnate dal paradigma hobbesiano, a dispetto delle loro differenze sono accomunate dalla volontà di eliminare i conflitti sociali.

Il liberalismo neutralizza il conflitto sociale attraverso una pseudo-democrazia, basata sul gioco di specchi fra destra e sinistra, che ha inondato di menzogna e corruzione il mondo.

Il socialismo/comunismo intendeva eliminare i conflitti eliminandone le cause economiche (addirittura eliminando la divisione del lavoro secondo l’estremismo individualistico del giovane Marx), ma tale intento si rovescia necessariamente una volta al potere nella soppressione autoritaria dei conflitti.

Il fascismo intendeva sopprimere i conflitti sociali attraverso il corporativismo. Il nazismo invece li soppresse nella creazione della comunità razziale saldata dal Führerprinzip.

Tutte e tre le principali ideologie moderne e loro derivati sono segnate da un totalitarismo di fondo perché tutte nascono dal paradigma individualista hobbesiano.

Voler eliminare la conflittualità dalle relazioni umane è un’aspirazione di per sé totalitaria. Polemos è il padre di tutte le cose, scriveva Eraclito 2500 anni fa. È il conflitto per l’esistenza tra le creature viventi, e tra queste e le condizioni ambientali (caldo, freddo, acqua, mancanza di acqua, vento), che ha fatto sorgere occhi per cogliere il più piccolo movimento, arti per correre velocemente, artigli, udito, olfatto ecc. Gli esseri umani lottano per l’esistenza tanto in cooperazione quanto in lotta con i propri simili. Il conflitto scaturisce dalla necessità di cooperazione stessa, in quanto necessita di stabilire dei singoli che abbiano un ruolo di comando (finora nessuno è riuscito a creare delle società senza gerarchie, le società primitive sono soltanto più semplici ma non ne sono prive). Soltanto attraverso il conflitto si può stabilire chi comanda, ed è con il conflitto che vengono spodestate le classi dominanti incapaci di svolgere il loro principale compito, quale assicurare un’adeguata riproduzione sociale. E’ attraverso il conflitto tra i vari insiemi sociali (stati-nazione) che si evolvono i vari sistemi sociali. Negare il conflitto attraverso il pacifismo finora è servito soltanto a screditare il nemico in modo totale, in quanto nemico della «pace», criminale da spazzare dalla faccia della terra (su tale questione è imprescindibile Carl Schmitt, e più recentemente Danilo Zolo), cioè per portare al nemico una guerra più totale rispetto a chi riconosce lo justus hostis (nemico legittimo: un concetto quasi inconcepibile per la mentalità moderna egemonizzata dall’ipocrita pacifismo). Voler eliminare il conflitto è un’aspirazione propriamente totalitaria, piuttosto bisognerebbe indirizzarlo verso forme non distruttive che favoriscano lo sviluppo sociale.

Acquisito il paradigma machiavelliano proveremo ad applicarlo per definire una nuova teoria politica, ma prima volevo riprendere un interessante contributo di Massimo Morigi che ci consente di articolare ulteriormente la definizione del repubblicanesimo. Libertà come non interferenza del potere o libertà come non dominio? Morigi ha effettuato un ribaltamento dei termini della questione, potenzialmente in grado di mettere fine alla diatriba, se non fosse che «il dibattito (accademico) deve continuare», ponendo la libertà come estensione e diffusione nella società del potere. In una serie di interventi, che mi auguro possano trasformarsi in un contributo più sistematico, egli ha delineato un «repubblicanesimo geopolitico», nel quale «l’accento è messo sul potere come energia generatrice di libertà mentre il marxismo classico vuole una società dove i rapporti di forza siano estinti (fine della storia, estinzione dello stato). Secondo perché se per il marxismo l’agente generatore di una società più libera è il proletariato, per il Repubblicanesimo Geopolitico l’agente per una maggiore libertà sono proprio quelle forze ed energie (quindi anche il proletariato ma pure le forze che vi si contrappongono) che scontrandosi originano una dialettica del potere che è alla base per un concreto e non astratto ampliamento della sfera della libertà (sottolineo che questa della conflittualità come origine della libertà e/o della forza di una comunità politica non è certo molto originale discendendo direttamente da Machiavelli e dalla sua spiegazione della forza militare degli antichi romani, la quale, secondo il Segretario fiorentino, discendeva direttamente dalla lotta fra patrizi e plebei che trovava una sua valvola di sfogo nella espansione territoriale di Roma). E queste forze ed energie per il Repubblicanesimo Geopolitico possono trovare la loro piena espressione solo a condizione che il quadro geopolitico in cui questa comunità vive la sua esperienza storica sia favorevole a che questa comunità possa irrobustire la sua identità e, di conseguenza, progettare e lottare per sempre maggiori spazi di libertà»26.

Inoltre, Morigi in un’intervista video27 sottolineava che che la divisione fra dominanti e dominati non deve condurre alla conclusione apparentemente logica che i dominati non decidono. I dominati decidono a loro modo, possono decidere di seguire o non seguire i dominanti, oppure se costretti possono decidere di seguire i dominanti in modo passivo, oppure facendo resistenza fino al sabotaggio. I romani lo sapevano benissimo ed è per questo che erano consci della necessità di coinvolgere il popolo, che costituiva la base dell’esercito, nelle decisioni. Gianfranco Campa, un «repubblicano» di origine italiana trasferitosi negli Usa, «appartenente prima al mondo militare e poi a quello delle forze dell’ordine», ha scritto un articolo28 in cui descrive a tinte fosche lo stato mentale dell’esercito statunitense dove imperversano malattie mentali, uso e abuso di droghe, alcol e psicofarmaci. Non è difficile capire perché i soldati rifiutano intimamente il loro ruolo pur essendo costretti ad esercitarlo per avere un salario. È evidente che l’essere pagati non è un motivo sufficiente per uccidere o essere uccisi, quando si è consapevoli che la propria famiglia non ha nessuna garanzia di appartenenza ad un sistema sociale che la protegga dal finire in mezzo alla strada (e negli Usa è molto facile che ciò accada). E quando non si capiscono i motivi per cui si combatte una determinata guerra, se non che questa guerra non migliorerà le condizioni della propria classe sociale. Le classi dominanti statunitensi non possono contare pienamente sul proprio esercito, ma proprio questo le rende molto pericolose, perché le può spingere ad una soluzione «tecnica» (cioè facendo affidamento su armi micidiali) della propria crisi di egemonia.

Geuna ha fornito un fondamentale contributo nella definizione del paradigma machiavelliano, tuttavia la radicalità del pensiero machiavelliano non può emergere se non osiamo andare oltre il recinto accademico, sfidando ciò che i colleghi accademici occidentali ritengono sia concepibile. Geuna alla fine ci propone una realizzazione pratica del conflitto tutta interna ad un pensiero dominante. La «contestazione» (nata in ambito studentesco) che ritiene una espressione del conflitto, sulla scorta di Pettit, è in realtà una sua parodia, ricorda piuttosto le recriminazioni adolescenziali relative alla paghetta. Se davvero vogliamo parlare di conflitto dobbiamo intendere il conflitto che avviene tra adulti. Le tesi di Pettit sono poco realistiche (come lamenta Baccelli) perché ricadono nel formalismo democratico, discostandosi alquanto da ogni realismo machiavelliano. Soltanto la teoria di Machiavelli può eguagliare in realismo quella di Hobbes. La legge senza la spada è nulla, e chi impugna la spada non è sottoposto alla legge, quindi la sovranità è per forza di cose assoluta, se è l’unico ad impugnare la spada. Il motivo per cui bisogna concedere la spada al popolo costituisce uno dei passi salienti dell’intera riflessione machiavelliana:

Per tanto, se tu vuoi fare uno popolo numeroso ed armato per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi poi maneggiare a tuo modo: se tu lo mantieni o piccolo o disarmato per poter maneggiarlo, se tu acquisti dominio, non lo puoi tenere, o ei diventa sì vile che tu sei preda di qualunque ti assalta.

Si doveva concedere la spada al popolo, anzi era necessario se si intendeva costruire quel tipo di repubblica espansiva sul modello romano. Questo fondamentale principio machiavelliano è simile un’arma che può essere utilizzata tanto in senso offensivo che difensivo, anche intende difendersi dall’espansionismo altrui deve poter contare su un popolo forte: altrimenti sei preda di chiunque ti assalta.

Il paradigma machiavelliano va inquadrato nel concetto di sistema misto di cui Machiavelli era fautore, soltanto in questo contesto può esplicarsi quella conflittualità virtuosa che costituì la grandezza di Roma. Riprendiamo la formulazione originaria di Polibio che Machiavelli ricalca nei Discorsi 29:

«Come ho detto sopra, tre erano gli organi dello stato che si spartivano l’autorità; il loro potere era così ben diviso e distribuito, che neppure i Romani avrebbero potuto dire con sicurezza se il loro governo fosse nel complesso aristocratico, democratico, o monarchico. Né è il caso di meravigliarsene, perché considerando il potere dei consoli, si sarebbe detto lo stato romano di forma monarchica, valutando quello del senato lo si sarebbe detto aristocratico; se qualcuno infine avesse considerato l’autorità del popolo, senz’altro avrebbe definito lo stato romano democratico»30.

Il governo misto romano nacque in uno specifico contesto, diverse sono le nostre società, ma possiamo ugualmente trarne un insegnamento: nei prossimi conflitti avranno la meglio quelle società che oltre a sviluppare gli strumenti difensivi e offensivi sapranno realizzare nuove forme di integrazione del popolo, quelle società che sapranno essere più compatte sviluppando un senso di appartenenza.

A partire da questi presupposti, proviamo a pensare un nuovo ruolo per degli ipotetici movimenti popolari di domani dei quali sentiamo assoluto bisogno. Essendo la mia formazione originaria marxista mi occuperò qui delle classi inferiori, ma ugualmente bisognerebbe tentare di ridefinire un ruolo per le classi medie. Per cominciare, le classi popolare dovrebbero creare delle proprie organizzazioni politiche che non abbiano come obiettivo inviare deputati al parlamento, perché questo è uno strumento delle classi dominanti. Cosa avrebbero detto i Populares qualora i Tribuni del popolo fossero diventati parte organica del Senato? È facile immaginarlo, avrebbero detto che non erano più i loro rappresentanti, mentre ciò avviene normalmente in tutti i sistemi parlamentari. Inoltre bisognerebbe pensare in prospettiva a forme di organizzazione militare finalizzata alla difese di queste organizzazioni, altrimenti esse sono ostaggio di chiunque detiene gli strumenti per l’utilizzo della forza.

Nella maggior parte delle nazioni occidentali, le classi popolari non possono utilizzare il rifiuto delle armi come strumento di pressione nei confronti delle classi dominanti, oggi la maggiori parte degli eserciti sono formati da professionisti volontari, e anche quando esisteva l’esercito di leva, la coscrizione impediva di utilizzare questo strumento, per la plebe romana invece questo era uno strumento di pressione maggiore ancora dello sciopero. Tuttavia bisogna capire che i professionisti militare non vivono nel nulla, il loro maggiore o minore impegno è determinato dal senso di appartenenza alla società, dalla presenza di motivi validi ed uno dei principali è il combattere per una società a cui si sente di appartenere.

Lo sciopero resterebbe una delle armi principali con cui le classi inferiori manifestano la loro indispensabilità per l’intera società, ma attualmente tale strumento è stato bagattellizzato da sindacati inghiottiti dallo stato. Anche in ambito sindacale bisognerebbe mirare a ricostuire delle organizzazioni autonome dei lavoratori.

I comunisti intendevano inserirsi nei parlamenti perché il loro obiettivo era il rovesciamento dello stato, mentre invece non deve essere questo l’obiettivo piuttosto quanto creare un contro-potere che difenda gli interessi delle classi popolari, consapevoli che una forma di comando, di governo ci deve pur essere altrimenti uno stato non è tale.

Le classi sociali non hanno una base esclusivamente «economica» eliminata la quale si eliminano anche le classi sociali, le classi sociali derivano dall’esistenza di chi comanda e chi è comandato. Tuttavia le classi dominanti se non hanno un contro-potere che le contrasta tendono ad assumere il massimo potere possibile, fino a forme estreme di esclusione dalla società di quote rilevanti delle classi popolari . Tra le sventure che possono colpire l’individuo l’esclusione sociale è oggi l’equivalente della schiavitù nel mondo antico, anzi forse per chi è «buttato in mezzo alla strada» e tagliato completamente fuori può sembrare preferibile la sorte dello schiavo a cui perlomeno era assicurato un tetto e del cibo. L’esclusione sociale condivide con la schiavizzazione la dimensione della «morte sociale» che Orlando Patterson individua come il tratto distintivo della schiavitù31. Le classi dominanti hanno per loro natura il sogno di un dominio assoluto ed eterno, compito delle classi inferiori è rendergli presente, ponendo loro un argine, che questo sogno è distruttivo perché irreale, altrimenti subiranno le tendenze distruttive delle classi superiori. Finora nessuna società è riuscita a stare insieme, ad assicurare la cooperazione dei suoi membri senza uniformare molte volontà, ad una sola o a poche volontà, e da ciò deriva la necessità di affidare il comando a qualcuno, e questo comporta l’esistenza di un potere coercitivo e relative diseguaglianze di potere. Marx ed Engels ammettevano benissimo questa realtà di fatto quando si trattava di polemizzare con gli anarchici (Engels adduceva l’esempio del comandante di una nave: quando c’è una tempesta è vitale che ognuno si uniformi alla sua volontà), tuttavia vollero conservare l’obiettivo dell’«estinzione dello stato».

Ci saranno esponenti delle classi dominanti disposti a tollerare e anche ad incoraggiare e favorire forme di auto-organizzazione delle classi popolari (e con questo termine intendo sia le classi medie che inferiori), avendo bene stampato in mente l’avvertimento di Machiavelli che senza un popolo forte, attivo alla fine un stato è preda di «chiunque l’assalta»)?

Le classi inferiori devono difendere delle condizioni di vita dignitose e difendere l’autonomia della propria classe sociale, ma allo stesso tempo devono accettare il posto subordinato nella società. Non c’è nulla di disonorevole nello stare alla base della società. Inoltre, sembra che oggi la vita non abbia senso se non si fa qualcosa di «particolare», a mio parere invece non va disprezzata una «normalità» costituita da una vita in cui si da il proprio contributo lavorativo necessario al funzionamento della società, che lasci il tempo libero necessario per curare la propria famiglia e i propri interessi, oltre alla formazione militare che rende capaci di difendere se stessi, la famiglia e la patria. Una vita fondata su queste basi è del tutto sensata. Chi invece è chiamato a compiti particolari per attitudini e vocazione, deve avere la possibilità di farlo, anche se proviene dalle classi inferiori.

La teoria marxiana che voleva la classe lavoratrice capace di gestire l’intera società si è rivelata infondata, seppur diversi sono stati partiti operai di massa del novecento costituiti dai lavoratori manuali della grande industria, in quanto Marx per classe lavoratrice intendeva dall’«ingegnere all’ultimo manovale». Le «forze mentali della produzione», cioè i tecnici non si sono uniti alla classe operaia, ma se anche si fosse verificata la dinamica prevista da Marx secondo cui la proprietà si sarebbe trasformata in un gruppo parassitario, a cui si sarebbe opposto il lavoratore associato (i lavoratori manuali insieme alla forze mentali della produzione o general intellect) credo che non avrebbe configurato una «classe intermodale», cioè capace di gestire la transizione ad un nuovo sistema sociale, poiché per guidare la società non sono sufficienti le sole conoscenze di carattere tecnico, ma è necessaria quella formazione che da sempre hanno caratterizzato le classi dominanti, cioè oltre alla formazione fornita dalla pratica politica, quel tipo di formazione definita «umanistica» che si acquisisce con la conoscenza della storia, della filosofia, della giurisprudenza, delle arti. Inoltre, la politica è un’arte e come tale necessita di attitudini specifiche, in parte innate, non solo un determinato grado di intelligenza e di formazione, ma anche le attitudini psico-fisiche per reggere il conflitto, che seppur in questo campo non si svolge direttamente con le armi, spesso è ugualmente pericoloso. La politica a tempo pieno non è per tutti, e neanche tutti sono interessati ad un tale tipo di impegno. Ci sono diversi gradi, c’è chi ne fa una ragione di vita, ma la maggioranza si interessa alle questioni politiche quando sente le proprie condizioni di vita minacciate.

Le classi popolari non possono svolgere un’efficace lotta politica senza organizzazione, la quale presuppone una forma di divisione in classi interna tra chi dirige e chi è diretto. Ciò significava il principio, che Lenin trasse dal «rinnegato Kautsky», secondo cui agli «operai la coscienza può essere portata solo dall’esterno», in base al quale si organizzarono i partiti operai del secolo scorso che ebbero come modello principale la socialdemocrazia tedesca.

L’obiettivo della «fine della società di classe» va abbandonato perché si è dimostrata un’utopia individualistica (il giovane Marx con la sua hybris estremistica individualistica avrebbe voluto addirittura abolire la «divisione del lavoro»)32. L’essere umano è un essere sociale che vive in società organizzate, cioè costituite da gerarchie. Una volta stabilito tale punto fermo tutto da discutere è il rapporto tra le classi. Sicuramente le società occidentali odierne con le loro mostruose differenze di reddito necessitano di una radicale riorganizzazione. Di una radicale riorganizzazione ha bisogno anche la forma dello stato, che miri al suo rafforzamento attraverso una sua trasformazione democratica che assegni un ruolo alle classi medie e alle classi inferiori (non mi soffermo qui sul ruolo del «ceto medio semicolto» trattato in vari interventi, che è in realtà un’appendice dell’apparato statale odierno). Tale radicale trasformazione dello stato assolutistico, implica un’estensione del potere alle classi non dominanti, per dirla con Massimo Morigi, pur mantenendo una gerarchia di poteri.

Una volta stabilito il principio dell’autonomia delle classi popolari, ma all’interno di una società organizzata, le classi popolari devono ricercare l’alleanza con i membri delle classi dominanti, se ce ne sono, che non abbiano le tendenze auto-distruttive prevalenti in quelle attuali, e che abbiano l’intenzione di combattere la deriva attuale delle società occidentali. Soltanto se si realizzare tale sinergia sarà possibile nelle condizioni attuali invertire la deriva.

Va ritrovata un’unità sociale nella difesa dello stato. I recenti movimenti «sovranisti» intendono difendere la sovranità dello stato nei confronti della «globalizzazione», cioè nei confronti del tentativo statunitense di stabilire un dominio mondiale. Tuttavia la difesa di questa sovranità implica una decisa trasformazione dello stato che ne trasformi radicalmente le basi assolutistiche sulle quali è fondato. Senza questo intento il «sovranismo» non potrà essere che un altra forma di inganno, ancora un altro partito che una volta in parlamento fa esattamente il contrario di quanto aveva promesso per ottenere il voto.

Toni Negri è un «cattivo maestro», ma si impara anche dai maestri cattivi una volta riconosciuti come tali. Come scrisse Preve, è un pensatore da prendere sul serio, perché a suo modo geniale e innovativo. In Impero egli effettua una colossale mistificazione, presentando la «globalizzazione» statunitense quale erede del repubblicanesimo machiavelliano, ma confrontandosi con i suoi argomenti, frutto di una conoscenza sofisticata, si possono migliorare gli strumenti teorici necessari per combattere i conflitti attuali. Quello di Negri è stato il tentativo più significativo di trasformare il repubblicanesimo machiavelliano in una teoria politica per l’oggi, ma pervertendone il significato, trasformandolo in un’ideologia a servizio della globalizzazione. La sua antropologia del desiderio è esattamente il contrario della virtù machiavelliana, quale attaccamento alla patria, fortezza e temperanza, senso della giustizia, capacità militare e politica allo stesso tempo, e infine audacia, perché sarà necessaria molta audacia per affrontare l’Idra. Leviatano, il mostro marino, vinse Behemoth, il mostro terrestre, e con questi poi si congiunse e con l’ausilio della Tecnica diede vita all’Idra che vuole dominare tutto il globo.

Non c’è dubbio che la critica di Toni Negri della sovranità statale corrisponda alle finalità di destrutturazione degli stati a cui mira la globalizzazione (statunitense), ciò non toglie che sia sostanzialmente giusta. Difendersi dalla globalizzazione semplicemente affermando la sovranità dello stato è una lotta di retroguardia destinata alla sconfitta, perché questo tipo di sovranità svuota di ogni forma di partecipazione le classi medie e le classi inferiori. Abbiamo una contrapposizione tra stato-apparato (l’insieme dell’apparato di dominio che comprende anche i media) e la nazione (l’intera collettività). Lo stato-nazione si difende quindi ritrovando una forma di partecipazione ad esso delle classi non dominanti, il che comporta la messa in discussione dell’assolutismo di base su cui è costruito lo stato moderno. Ecco la critica dell’assolutismo su cui si fonda lo stato moderno, è evidente che essa coglie i nodi essenziali della questione:

«La teoria hobbesiana della sovranità era funzionale allo sviluppo della monarchia assoluta e, tuttavia, il suo schema trascendentale poteva essere ugualmente applicato alle altre forme di governo: all’oligarchia e alla democrazia. Nel momento in cui la borghesia stava diventando la classe emergente, sembrava che non vi fosse alcuna alternativa a questo schema di potere. Non fu dunque casuale che il repubblicanesimo democratico di Rousseau finì per assomigliare al modello hobbesiano. Il contratto sociale di Rousseau garantisce che l’accordo tra le volontà individuali viene sostenuto e sublimato nella costruzione di una volontà generale che nasce dall’alienazione delle singole volontà a favore della sovranità dello stato. In quanto modello di sovranità, l’«assoluto repubblicano» di Rousseau non è realmente diverso dall’hobbesiano «Dio in terra», e cioè dal monarca assoluto. «Queste clausole [del contratto], beninteso, si riducono tutte a una sola, cioè all’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti a tutta la comunità». Le altre condizioni poste da Rousseau per la definizione della sovranità in senso democratico popolare sono assolutamente irrilevanti rispetto all’assolutezza della fondazione trascendente. In particolare, la nozione rousseauviana della rappresentanza diretta è completamente distorta e, in ultima analisi, viene inghiottita dalla rappresentanza della totalità a cui è strutturalmente connessa – e tutto ciò, ancora una volta, risulta perfettamente compatibile con la concezione hobbesiana della rappresentanza. Hobbes e Rousseau non facevano altro che ripetere il paradosso che Bodin aveva già concettualizzato nella seconda metà del sedicesimo secolo. La sovranità appartiene, propriamente, soltanto alla monarchia, poiché uno solo è il sovrano. Se due, tre o più avessero il potere, non vi sarebbe sovranità, poiché il sovrano non può essere soggetto al potere di altri. Le forme politiche democratiche, plurali e popolari potranno anche essere proclamate, ma la sovranità moderna avrà sempre una sola configurazione politica: un unico potere trascendente»33.

Uno dei primi a rendersi conto che una società senza una cultura comune non poteva andare avanti fu Rousseau, il quale propose di creare in sostituzione una «religione della patria», ma poiché non vi può essere una tale comunanza in presenza di differenze sociali sostanziali, egli propose allo stesso tempo una religione dell’umanità e dell’eguaglianza, che aveva anche un suo peccato originale costituito dallà «proprietà». Se all’inizio religione della patria e religione dell’umanità andavano accompagnate nella stessa persona, come ancora in Filippo Buonarroti34 successivamente finiranno per divaricarsi per dar vita a nazionalismo e socialismo (successivamente: fascismo e comunismo), diventeranno le sorelle nemiche tanto acerrime proprio perché nate dallo stesso seme. Era già iniziato il processo della disgregazione europea. Ma il problema non fu principalmente ideologico, se l’Europa non riusci a creare una cultura comune in sostituzione del cristianesimo fu perché non riusci a svilupparsi come realtà unitaria.

La civiltà europea è giunta ad un punto morto. La sua storia iniziata con le crociate si è conclusa con conflitti insolubili, sfociati in due guerre mondiali, e infine la sottomissione agli Usa, ma non prima di aver stravolto la faccia del mondo. Chi pensa di ripartire da questa storia, dai suoi nazionalismi, magari ribattezzati rispettabilmente in «patriottismo», secondo me perde tempo. La stato nazionale va difeso, pena la disgregazione totale, ma in un’ottica rivolta al futuro, e per quanto riguarda l’Europa ciò vuol dire ricostruire le sue articolazioni nazionali intorno ad un nuovo centro, il quale sarà Russia, se è vera la profezia secondo cui Mosca è la Terza Roma. Ma questa non è prospettiva a breve termine, emergerà come orizzonte politico dopo lo scontro tra le grandi potenze che si preannuncia.

Non ritengo sia tutto da buttare della storia europea, ma neanche ci si deve nascondere il sostanziale fallimento della civiltà europea. Potremmo dire che avremmo preferito con Machiavelli uno sviluppo più classico più simile a quella di Roma, con un «progresso» meno accellerato, e più integrabile dalla psiche umana e dalle strutture sociale e non lo sviluppo abnorme, mostruoso e fuori controllo a cui siamo di fronte, tuttavia la storia non segue degli sviluppi «classici» perché attinge nella natura (nel senso di physis) che per l’essere umano è imperscrutabile nei suoi fondamenti ultimi, a cui l’essere umano può accostarsi ma mai dominare a suo piacimento. A cosa ci condurrà l’odierna situazione non lo sappiamo, di sicuro l’epoca «tranquilla», seguita alla II guerra mondiale (perché basata sulla deterrenza nucleare) durata pochi decenni sta definitivamente per concludersi. Non sappiamo cosà accadrà, di sicuro saranno conflitti enormi, proporzionati alla capacità distruttiva acquisita dell’essere umano, per affrontare i quali sarà necessaria molta, tantissima virtù per non soccombere alla fortuna.

La capacità esplicativa del paradigma machiavelliano la si può verificare utilizzandola per quanto riguarda il mondo uscito dalla II guerra mondiale. Per l’occidente, e per la stessa Italia, le cose sono andate meglio fin quando gli Usa avevano un antagonista nell’Urss, era proprio questo antagonismo a creare un ordine. Non appena tale antagonista sbiadisce, e questo avviene ben prima del «crollo del muro», comincia la decadenza del mondo occidentale del dopoguerra e nasce il «neo-liberismo».

Machiavelli ritorna d’attualità nella misura in cui si esaurisce il vantaggio tecnologico «occidentale» sul resto del mondo iniziato cinque secoli fa. Se la civiltà ortodossa, quella sinica e anche quell’indiana (sebbene meno protagonista rispetto alla prime due non corre però rischi esistenziali), hanno superato la prova della minaccia mortale costituita dall’espansionismo mondiale dell’occidente, diversamente è stato per la civiltà islamica. A causa del fatto che ha avuto la sventura di trovarsi sopra i maggiori deposito di petrolio mondiale e per debolezze intrinseche dovute alle divisioni confessionali, la civiltà islamica è l’unica rimasta sotto le grinfie dell’occidente. Il tentativo di conquista del dominio mondiale degli Usa dopo il crollo del muro ha colpito soprattutto in questo ambito distruggendo l’Iraq e poi la Libia, mentre l’Iran resta permanentemente nel mirino. Attraverso l’Arabia Saudita e il Qatar si è riusciti a manipolare i movimenti islamisti che utilizzano gli attentati terroristici tra i principali mezzi di lotta, in modo da indirizzarli principalmente contro la Russia. Dato lo sporco gioco occidentale e dato il fatto che i nostro s-governanti hanno avuto la felice idea di lasciar crescere delle enclaves di popolazioni di religione islamiche nelle città europee, con organizzazioni legate all’Arabia Saudita e al Qatar è da prevedere che gli attentati cresceranno, qualora diventassero fenomeno quotidiano con un rischio statistico significativo, potrebbe essere lo sviluppo di forme di milizia popolare. Nei recenti attentati in Europa, la presenza diffusa di cittadini armati, con armi adeguate ed addestrati ad usarle, avrebbe potuto determinare esiti differenti (cittadini nel senso autentico della parola, cioè membri di una comunità capaci di difendere se stessi e la collettività in cui vivono). Altrimenti, l’alternativa sarebbe, nel caso di crescita significativa degli attentati sarebbe la militarizzazione delle società, e la fine di quella libertà di movimento a cui siamo attaccati.

Riconsideriamo quindi il monito che risuona nei secoli lanciato da Machiavelli alle classi dominanti:

Per tanto, se tu vuoi fare uno popolo numeroso ed armato per poter fare un grande imperio, lo fai di qualità che tu non lo puoi poi maneggiare a tuo modo: se tu lo mantieni o piccolo o disarmato per poter maneggiarlo, se tu acquisti dominio, non lo puoi tenere, o ei diventa sì vile che tu sei preda di qualunque ti assalta35.

Se è vero che gli eserciti odierni hanno una ineliminabile componente di specializzazione, è anche vero che ad usare questi strumenti sono pur sempre degli uomini e in quanto tali devono avere delle motivazioni per combattere. Il culto del drone radiocomandato è un simbolo del nichilismo tecnologico in cui si sono infognate le società occidentali. Ma il drone non si guida da solo, neppure è in grado di combattere Igor il cattivo, protagonista della recente e scadentissima saga mediatica. Le società occidentali individualiste e disgregate non forniscono queste motivazioni. Man mano che si intensificherà lo scontro multi-polare Machiavelli tornerà d’attualità. L’«occidente» ha puntato tutto sulla superiorità tecnica, ma il divario tecnico è la cosa più facile da colmare, mentre è molto più difficile far risalire la china ad una società disgregata, divisa al suo interno. Il divario tecnico di cui ha goduto l’occidente è già praticamente superato, e nel prossimo scontro vinceranno le società più compatte che sapranno realizzare forme di inclusione del popolo, che sapranno trovare un popolo disposto e capace di difendere la propria nazione.

Il Progresso è un’idea scaduta, messa radicalmente in discussione da due guerre mondiali e dall’invenzione della bomba atomica. Il progresso tecnico accresce tanto le capacità costruttive quanto quelle distruttive dell’essere umano. Affidarsi al Progresso equivale ad affidarsi alla Divina Provvidenza, un concetto religioso di cui il Progresso fu una secolarizzazione. Per gli occidentali che di fronte alla superstizione del progresso hanno adottato più o meno consapevolmente l’attitudine di alcuni superstiziosi in Italia secondo cui «non è vero ma ci credo», cioè essi non credono più al Progresso, ma continuano a credere che la «civiltà occidentale» sia comunque al culmine della civiltà mondiale, forse la visione ciclica di Machiavelli ha qualcosa da dire: «…la virtú partorisce quiete, la quiete ozio, l’ozio disordine, il disordine rovina, e similmente dalla rovina nasce l’ordine, dall’ordine virtù, da questa gloria e buona fortuna»36. Non è forse l’aver pensato di essere il culmine della civiltà e di non avere più nemici una delle cause della disgregazione e decadenza delle oscietà occidentali?

La cultura americana (statunitense) ha inondato il mondo di ciarpame, ma rispetto alla cultura europea attuale (se ne esiste una visto che ormai si limita a seguire al traino quella statunitense) è possibile rovistando trovare qualcosa di utile, talvolta indispensabile. Prendiamo la questione della guerra, è da tempo ormai che la cultura europea è incapace di affrontare tale fondamentale realtà umana, mentre invece la cultura statunitense non ha bisogno di rimuoverla. C’è un’attenzione alla questione del conflitto assente nella produzione intellettuale delle nazioni europee. Ad es. non saprei indicare un testo di uno scrittore europeo contemporaneo che possa eguagliare per profondità e realismo il libro di James Hillman, Un terribile amore per la guerra, una lettura altamente consigliata che può offrire un valido aiuto per affrontare i tempi che verranno, in quanto affronta la guerra da un punto di vista filosofico e psicologico. Penso inoltre inoltre a tutta una corrente storiografica e sociologica che ha visto nella guerra il principale fattore di sviluppo dello stato moderno. Proprio il marxismo, che si dimostra in questo un frutto della decadenza europea, è stato uno dei principali promotori di questa vera e propria rimozione. Nato, il marxismo, in un momento in cui le nazioni europee si incartavano, per così dire, in conflitti regressivi, pensava di superare questa situazione rimuovendo del tutto il fattore dell’identità di gruppo, della nazione, della conflittualità tra gli esseri umani, che ha caratterizzato ogni epoca della storia umana, sostituendovi la sola conflittualità tra le classi sociali, la quale portata all’estremo avrebbe creato un mondo senza conflitti. Il marxismo ha contribuito di molto alla perdita di contatto con la realtà della cultura europea. Non che il conflitto tra le diverse classi non esiste, l’errore è isolarlo dagli altri conflitti, non metterlo in relazione ad es. a quello inter-nazionale, mentre invece è in questa relazione che acquisisce significati diversi, anche opposti (vedi in merito il mio Relatività dei conflitti. Per un nuovo paradigma nell’analisi politica).

Guardiamo con realismo alla questione del conflitto. Ciò che ha moderato il carattere sostanzialmente oligarchico e degli stati occidentali che ha creato uno spazio per le rivendicazioni salariali è stata la necessità che si è avuta del coinvolgimento popolare per condurre il conflitto con gli altri stati. Dopo la seconda guerra mondiale la presenza dell’alternativa di sistema costituita dall’Unione Sovietica aveva spinto a delle misure, soprattutto in Europa, atte a mantenere un certo consenso popolare, da ciò è sorto il cosiddetto stato sociale. Dopo che, l’Unione Sovietica cessò di essere una sfida, prima del crollo del muro, già negli anni settanta si aveva sentore del non funzionamento del sistema sovietico, ritornò il neo-liberismo. Esso è sostanzialmente una forma estrema di individualismo, come disse la Thachter «la società non esiste». Le città statunitensi, dopo il breve periodo di ordine del dopoguerra, ritornavano allo hobbesiano stato di natura. Frank M. Colman in un articolo degli anni settanta, riconducendo il sistema alla sue radici hobbesiane, coglieva benissimo la tendenza (neo)liberista (ri)nascente. Come ha scritto successivamente Colemanm, lo stato hobbesiano quale incarnazione del creazionismo biblico nullifica il mondo. Il nichilismo in cui si è conclusa la cultura «occidentale», e che di conseguenza ha infettato le culture di tutto il mondo, è frutto di un lungo percorso. Se non altro Hobbes, il suo primo e principale fautore, ebbe l’onestà di chiamarlo con il suo nome di mostro marino, Leviatano. Esso combattè con un mostro terrestre, Behemoth, che sconfisse. Da allora Leviatano si è ingrandito al punto di essere capace ora di inghiottire la Terra, ma pochi osano dichiarare la sua mostruosità.

L’ «occidente» deve prendere atto dell’esistenza di altre civiltà con cui deve convivere. Esse non possono essere sottomesse o distrutte. L’unico tentativo «serio» di impedire la rinascita delle altre civiltà è stato quello nazista. Figurarsi quindi se l’ «occidente» oggi sarebbe in grado di sottomettere la Cina o la Russia.

Bisogna ricercare un assetto che prenda atto realisticamente della competizione per le sfere d’influenza fra le potenze eredi delle grandi civiltà, compresa la possibilità di conflitti locali e a margine delle linee di faglia degli stati eredi delle grandi civiltà, senza però che questo degeneri nel conflitto di civiltà. Il timore, anzi l’orrore, per le conseguenze probabili di una collisione diretta tra civiltà è ciò che deve guidare in negativo le relazioni internazionali. Per l’«occidente» si richiederebbe una decisa inversione di rotta dall’imperialismo da cui è sorto il globalismo (cioè la tendenza al dominio mondiale) ad un territorialismo che curi l’ordine interno. La campagna elettorale di Trump è stata improntata a un «protezionismo» che sembrava riflettesse in una certa misura il desiderio di una inversione di tendenza, ma naturalmente ora eletto non sta mantenendo nessuna promessa. Dicono perché costretto dal «deep state» (cioè dal potere effettivo nascosto, il vero stato), ma temo che quei settori delle classi dominanti che hanno sostenuto Trump non hanno avuto fin dall’inizio l’intenzione di effettuare una seria inversione di marcia. Il «populismo dall’alto» non potrà mai funzionare, se non si incontra con «populismo dal basso». Mi chiedo quanto le classi dominanti possano abusare del popolo nella loro infinita arroganza, finché i cittadini non decidano che sia il tempo di dare loro una lezione. Tra l’altro negli Usa si è conservato uno dei principi fondamentali del repubblicanesimo, cioè la possibilità per il popolo di portare le armi. Di solito si vuole discreditare questo principio sacrosanto attribuendogli la responsabilità dell’alto tasso di violenza. Accusa infondata in quanto in Canada e in Svizzera, dove ugualmente la possibilità di portare liberamente le armi è sancita dalla costituzione, vi sono tassi di mortalità per le armi da fuoco simili a quelli europei, mentre in varie nazioni dell’America Latina dove non vi è questo diritto costituzionale i tassi di mortalità sono più alti di quelli statunitensi.

Un radicale cambiamento di indirizzo degli Usa dal globalismo alla cura dell’ordine interno non è possibile senza cambiamento radicale della sua struttura interna. Tale cambiamento sembra molto difficile nelle condizioni attuali, ma l’alternativa è il declino e il disfacimento interno, oppure la ricerca di una «soluzione tecnica» della crisi attraverso le micidiali armi attuali che comporterebbe una catastrofe mai vista nell’intera storia dell’umanità. Anche se non credo che comporterebbe la fine del genere umano, si tratterebbe comunque di una catastrofe di proporzioni inenarrabili.

Siamo ad una tappa decisiva, che impone un radicale cambiamento di indirizzo, di un percorso iniziato oltre tre millenni fa. Ciò che Jaspers chiama il periodo assiale andrebbe visto come un percorso in cui l’essere umano è passato dalla soggezione verso la natura al tentativo di conquistarla. Non credo che la volontà di non essere in balia della natura sia in sé sbagliata, sicuramente vanno capite bene le modalità e i rischi che essa comporta. Innanzitutto l’essere umano può conquistare uno spazio di preminenza all’interna della natura, ma non può pensare di mettersi al di sopra di essa perché da essa è generato. Come aveva ben capito Jaspers è proprio attraverso l’insensato proposito dell’essere umano che la natura ristabilisce la preminenza. «La soggezione dell’uomo alla natura è resa manifesta in maniera nuova dalla tecnica moderna. La natura minaccia di sopraffare in modo imprevisto l’uomo stesso, proprio mercé il dominio enormemente maggiore che questi ha su di essa. Attraverso la natura dell’uomo impegnato nel lavoro tecnico, la natura diventa davvero la tiranna dell’essere umano. C’e il pericolo che l’uomo sia soffocato dalla seconda natura, a cui egli da vita tecnicamente come suo prodotto, mentre può apparire relativamente libero rispetto alla natura indomata nella sua perpetua lotta fisica per l’esistenza.»

Heidegger nell’analisi della illimitata volontà di potenza a cui Nietzsche diede l’espressione più pregnante, e che non fu certo solo della Germania nazista, scrisse: «La volontà di potenza non è soltanto il modo in cui e il mezzo mediante il quale accade la posizione di valori, ma è, in quanto essenza della potenza, l’unico valore fondamentale in base al quale viene stimata qualsiasi cosa che deve avere valore o che non puo pretendere di averne. «Ogni accadere, ogni movimento, ogni divenire come uno stabilire rapporti di grado e di forza, come una lotta… . Chi è che in tale lotta soccombe è, in quanto soccombe, nel torto e non vero. Chi è che in questa lotta rimane a galla è, in quanto vince, nella ragione e nel vero. Per che cosa si lotti è, pensato e auspicato come fine con un contenuto particolare, sempre di importanza secondaria. Tutti i fini della lotta e le grida di battaglia sono sempre e solo strumenti di lotta. Per che cosa si lotti è già deciso in anticipo: è la potenza stessa che non ha bisogno di fini. Essa è senza-fini, così come l’insieme dell’ente privo-di-valore. Questa mancanza-di-fini fa parte dell’essenza metafisica della potenza. Se mai qui si puo parlare di un fine, questo fine è la mancanza di fini dell’incondizionato dominio dell’uomo sulla terra. L’uomo di questo dominio è il super-uomo (Uber-Mensch)»37.

Frank Coleman, nell’analizzare il rapporto tra Hobbes e l’Antico Testamento, ritiene che nella misura in cui «il capitalismo è ciò che genera la percezione di un difetto nella natura, è anche il capitalismo, assistito dalla scienza moderna, che mostra ad Hobbes la via d’uscita. Il modo in cui il capitalismo ci libera dalla presenza di un difetto nella natura è attraverso il progetto di derivazione biblica di dominio sulla terra. I poteri del Dio dell’Antico Testamento sono riattribuiti al capitale e alla scienza moderna che procede quindi alla produzione di un artefatto della società civile che fa da parallelo e da rinforzo all’artefatto costituito dallo stato. […] Non è tanto il ruolo politico assegnato al capitalismo e alla scienza in sostegno allo stato moderno che è di interesse, ma il concetto che di natura ad esso sottostante. L’idea di derivazione biblica della natura quale artefatto, lasciatemi sottolineare, soggiace allo stato leviatano, alla scienza moderna, e al capitalismo nella teoria hobbesiana»38.

Seppure l’Antico Testamento ha giocato un ruolo fondamentale, io credo esso vada collocato nella cornice più ampia del movimento del pensiero umano costituito dal periodo assiale. Non a caso l’Artefice, il Creatore, the Maker (secondo la lingua inglese) ha un suo antenato nel Demiurgo platonico, figura che nasce dal e allo stesso tempo intende superare il netto dualismo tra mondo delle idee e realtà sensibile. Il trascendentalismo dominante durante il periodo assiale, che si differenzia rispetto ad un periodo precedente dominato da religioni immanenti alla natura, è l’espressione della volontà dell’essere umano di porsi al di sopra della natura. Poiché ciò che trascende l’essere umano è la natura da cui esso è generato, spostare la trascendenza dalla natura allo spirito, determinando una netta contrapposizione tra materia e spirito, tra corpo e anima, significa porre la trascendenza nell’intelligenza, in ciò che l’uomo ritiene che lo ponga al sopra degli altri esseri viventi, restringendo il significato di natura che nell’accezione dei greci comprendeva l’intero cosmo, alle sole «creature» viventi.

Il peccato maggiore dei moderni, prima che due guerre mondiali e la Bomba spegnessero le illusioni, è stata la hybris. Prometeo fu trasformato in una figura positiva, mettendone in secondo piano la tragicità. Persino Goethe, il più equilibrato di tutti, non fu esente da questa distorsione. Eppure se Prometeo fu condannato ad un pena terribile non fu senza ragione. Non tanto per aver rubato il fuoco agli Dei, quanto per aver pensato in questo modo di rendere gli uomini simili ad essi. Il peccato della hybris consiste nell’illusione di poter diventare padroni della natura, dimenticando che siamo sempre soggetti ad essa. Massima è la hybris di Marx secondo il quale sarebbe stato possibile padroneggiare addirittura la Storia, prevederne gli esiti. La storia e la natura hanno le loro radici nell’Ignoto, non sono prevedibili e padroneggiabili nei loro fondamenti ultimi. Far fronte a tale condizione esistenziale è compito degli esseri umani, ma senza pensare di poter padroneggiare ciò da cui siamo stati generati. Engels, un pensatore originale scrisse che la natura «si vendica di ogni nostra vittoria. Ogni vittoria ha infatti in prima istanza le conseguenze sulle quali avevamo fatto assegnamento; ma in seconda e terza istanza ha effetti del tutto impreveduti, che troppo spesso annullano a loro volta le prime conseguenze (…). Ad ogni passo ci vien ricordato che noi non dominiamo la natura come un conquistatore domina un popolo straniero soggiogato (…). Tuttavia il nostro dominio sulla natura consiste nella capacità, che ci eleva al di sopra delle altre creature, di conoscere le sue leggi e di impiegarle nel modo più appropriato»39.

Quando leggiamo Machiavelli lo sentiamo come un moderno, qualcuno che parla di un mondo che è anche il nostro, ma riguardo al rapporto dell’uomo con la natura appare la diversità del «pagano» Machiavelli portavoce di una modernità diversa rispetto a quella che ha prevalso.

«Quanto alle cause che vengono dal cielo, sono quelle che spengono la umana generazione, e riducano a pochi gli abitatori di parte del mondo. E questo viene o per peste o per fame o per una inondazione d’acque: e la più importante è questa ultima, sì perché la è più universale, sì perché quegli che si salvono sono uomini tutti montanari e rozzi, i quali, non avendo notizia di alcuna antichità, non la possono lasciare a’ posteri. […]. E che queste inondazioni, peste e fami venghino, non credo sia da dubitarne; sì perché ne sono piene tutte le istorie, sì perché si vede questo effetto della oblivione delle cose, sì perché e’ pare ragionevole ch’e’ sia: perché la natura, come ne’ corpi semplici, quando e’ vi è ragunato assai materia superflua, muove per sé medesima molte volte, e fa una purgazione, la quale è salute di quel corpo; così interviene in questo corpo misto della umana generazione, che, quando tutte le provincie sono ripiene di abitatori, in modo che non possono vivervi, né possono andare altrove, per essere occupati e ripieni tutti i luoghi; e quando la astuzia e la malignità umana è venuta dove la può venire, conviene di necessità che il mondo si purghi per uno de’ tre modi; acciocché gli uomini, sendo divenuti pochi e battuti, vivino più comodamente, e diventino migliori»40.

Vediamo quindi come Machiavelli ripristina spontaneamente la trascendenza nella natura. La modernità dalla antica visione del mondo si rivela tutta in queste parole che dovrebbero essere da monito per noi viventi. Se gli esseri umani non riusciranno ad invertire la tendenza riparando ai mali prodotti da un percorso millenario, che non è condannare in sé, quale volontà dell’essere umano di non essere in completa balia della natura, ma solo nell’illusione di poter soggiogare la natura, dimenticando che essa stabilisce comunque la sua preminenza rispetto al singolo individuo.

Il Grande Falegname (per quelli del tempo della Bibbia) o il Grande Ingegnere Interstellare per quelli di oggi è un concetto antropomorfico. C’è bisogno di un concetto che indichi l’esistenza di ciò che trascende la capacità di comprensione umana o che l’essere umano può cogliere in minima parte senza poterla esaurire, possiamo chiamarlo Dio, Infinito, Natura. E’ da superare il concetto di Dio creatore della natura (che il settimo giorno si riposò), perché è una proiezione dell’illusione umana di dominare la natura.

Se non si metterà il massimo impegno a invertire una «crescita» che ormai somiglia più al diffondersi di una metastasi e ristabilire un equilibrio allora sarà la natura a farlo. Questo non vuol dire affatto porsi dalla parte della «de-crescita», quel semplicismo per cui basta mettere il segno negativo al valore della «crescita». Sapranno conquistare l’egemonia quei sistemi sociali che sapranno indicare ai popoli un diverso modello qualitativo di sviluppo.

Siamo oggi nel crepuscolo del Demiurgo. Si spera che la notte che incombe non sia illuminata da esplosioni nucleari.

Non il pacifismo, né il buonismo, questi due figli ipocriti della carità cristiana, entrambi arruolati dal globalismo, ma la virtù machiavelliana può ispirare uno spirito di antagonismo nei confronti dell’Idra le cui teste sono sparse in tutto il globo, l’Apparato di potere che rischia di devastare l’intero mondo nella sua agonia. Il pericolo maggiore è che l’Idra-Apparato voglia ricorrere alla Tecnica (nello specifico all’utilizzo delle armi atomiche su vasta scala), sulla quale ha fatto sempre affidamento prioritario, per impedire o ritardare la sua fine, perché non può ricorrere alla virtù che da tempo ha soffocato nei suoi sottoposti. Il compito prioritario degli «occidentali» sarebbe distruggere questo mostro che altrimenti li porterà alla rovina. Siamo sulla strada che porterà ad uno scontro generalizzato che ridefinirà i rapporti inter-nazionali, acquisiranno un ruolo di primo piano le società che faranno affidamento non solo sulla superiorità tecnica degli armamenti, ma sulla loro maggiore compatezza, sul maggiore attaccamento dei loro cittadini al proprio stato, al proprio sistema sociale, alla proprià civiltà. Gli occidentali questo attaccamento non l’hanno, troppo marce sono diventate le società occidentali, troppo piene di diseguaglianza e plateali ingiustizie, troppo pieni di menzogne i programmi dei partiti politici, inqualificabili sono i media occidentali si dedicano deliberatamente al rimbambimento dei loro spettatori e a suscitare tutti i più miseri particolarismi.

Prepariamoci psicologicamente e fisicamente, non esiste una netta distinzione, a tempi difficili. La cosa peggiore è la fuga dalle realtà degli «occidentali», ma per chi non vuole essere in balia degli eventi, per chi ritiene che la dignità dell’essere umano consista nel tentare almeno di far fronte ai colpi della Fortuna, Machiavelli è sicuramente un compagno di strada.

1Pocock, Il momento machiavelliano, ed. it. II vol. p. 389. Ho semplificato i riferimenti bibliografici, con gli attuali strumenti informatici è molto facile ritrovare i testi citati. Inoltre, poiché ho utilizzato la versione digitale di molti testi, ho inserito il numero di pagina solo quando era disponibile, non l’ho inserito nel caso di articoli e introduzioni. L’eventuale lettore interessato al contesto da cui sono tratte alcune citazioni non farà fatica a ritrovarlo. Vorrei infine ringraziare che ha allestito il sito http://gen.lib.rus.ec/, dove ho reperito tantissimi testi e senza il quale non avrei potuto portare a termine questo lavoro.

2 Marco Geuna, Introduzione a Skinner, La Libertà prima del liberalismo, p. XVII

3 M. Geuna, Introduzione a Philip Pettit, Il repubblicanesimo. Una teoria della libertà e del governo, p. 28

4 «Sempre ch’io ho potuto onorare la patria mia, eziandio con mio carico et pericolo, l’ho fatto volentieri: perché l’uomo non ha maggiore obbligo nella vita sua che con quella, dependendo prima da essa l’essere, e dipoi tutto quello che di buono la fortuna e la natura ci hanno conceduto; e tanto viene a essere maggiore in coloro che hanno sortito patria piú nobile. E veramente colui il quale con l’animo et con l’opera si fa nimico della sua patria, meritamente si può chiamare parricida, ancora che da quella fussi suto offeso». Machiavelli, Discorso intorno alla nostra lingua

5 M. Geuna, Introduzione a Q. Skinner, La libertà prima del liberalismo

6 Chabod, Scritti su Machiavelli, p. 77

7 «Questo esemplo, con molti altri che di sopra si sono addotti, mostrano quanta bontà e quanta religione fusse in quel popolo [romano], e quanto bene fusse da sperare di lui. E veramente, dove non è questa bontà, non si può sperare nulla di bene; come non si può sperare nelle provincie che in questi tempi si veggono corrotte: come è la Italia sopra tutte l’altre, ed ancora la Francia e la Spagna di tale corrozione ritengono parte». Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

8« …tener ricco il pubblico, povero il privato, mantenere con sommo studio li esercizi militari, sono le vie a far grande una Repubblica» Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

9William J. Connell, L’espansione come telos dello stato

10 «Se però è corretto definire Impero “una organizzazione tale che in essa l’unità non agisca in modo distruttivo e livellatore nel riguardo della molteplicità etnica e culturale da essa compresa”, a ragione si può affermare con de Benoist che l’Impero romano, sotto questo profilo è un esempio particolarmente illuminante: nell’Impero romano la tolleranza religiosa è la norma, esiste una doppia cancelleria imperiale, in Egitto si continua ad applicare il diritto indigeno spolverato di diritto greco e il diritto ebraico continua ad essere valido per gli ebrei. Ogni comunità cioè ha il diritto di organizzarsi in base alla propria tradizione, benché chi gode del diritto di cittadinanza romana (concessa con l’editto di Caracalla del 212 d. C. a tutti gli abitanti liberi dell’impero) possa sempre appellarsi alla giustizia imperiale. Insomma, il cittadino romano si trova a dipendere sia dalla città in cui è nato sia dall’amministrazione imperiale. E Maurice Sartre giunge a sostenere: “Se c’è un insegnamento che dobbiamo trarre dalla storia dell’Impero romano potrebbe essere proprio questo: la coesione di un insieme tanto disparato che si basa sul rispetto di strutture locali responsabili della gestione della vita quotidiana, guardiane delle tradizioni […] A conti fatti, il rispetto delle identità culturali è più importante, a lungo termine, del successo economico o degli imperativi strategici”, in quanto sono in gioco un modello di civiltà e un sistema di valori che si ritiene di dover difendere “contro chi vorrebbe metterli in discussione, all’esterno (i barbari) o all’interno (in particolar modo i cristiani)”». Fabio Falchi, L’impero come «grande spazio» . Vedi l’intero articolo per una distinzione tra il concetto di impero e l’imperialismo. Anche se personalmente preferisco utilizzare il termine territorialismo al posto di impero. (L’articolo si può consultare sullo spazio dell’autore in academia.edu).

11da War and State Formation in Ancient China and Early Modern Europe Victoria Tin-Bor Hui, un’apparentemente modesta ricercatrice accademica, ma dal pensiero affilato come la lama di una katana, ha elaborato un interessantissimo saggio comparativo tra la sviluppo della Europa moderna e quello della Cina antica. Putroppo, lo stato comatoso della cultura europea ha lasciato passare inosservato questo saggio che pur ha ricevuto una serie di premi in ambito accademico statunitense.

12 Victoria Tin-Bor Hui, op. cit. p. 39

13Victoria Tin-Bor Hui, op. cit. p. 28

14 Arte della guerra

15Victoria Tin Hui, op. cit. p. 140-1. La citazione di Machiavelli è da Il principe

16… giudico il mondo sempre essere stato ad uno medesimo modo, ed in quello essere stato tanto di buono quanto di cattivo; ma variare questo cattivo e questo buono di provincia in provincia, come si vede per quello si ha notizia di quegli regni antichi, che variano dall’uno all’altro per la variazione de’ costumi, ma il mondo restava quel medesimo: solo vi era questa differenza, che dove quello aveva prima allogata la sua virtú in Assiria, la collocò in Media, dipoi in Persia, tanto che la ne venne in Italia e a Roma. E se dopo lo Imperio romano non è seguíto Imperio che sia durato né dove il mondo abbia ritenuta la sua virtú insieme, si vede nondimeno essere sparsa in di molte nazioni dove si viveva virtuosamente; come era il regno de’ Franchi, il regno de’ Turchi, quel del Soldano, ed oggi i popoli della Magna, e prima quella setta Saracina che fece tante gran cose ed occupò tanto mondo, poiché la distrusse lo Imperio romano orientale. In tutte queste provincie adunque, poiché i Romani rovinorono, ed in tutte queste sétte è stata quella virtú, ed è ancora in alcuna parte di esse, che si desidera e che con vera laude si lauda.

  1. Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

17 Pocock, Introduzione a James Harrington The Commonwealth of Oceana and A System of Politics

18 M. Geuna, Rousseau interprete di Machiavelli

19 Victoria Tin-Bor Hui, op. cit. p.. 194

20 Max Weber, Storia economica, p. 227-8

21Crawford Brough MacphersonLibertà e proprietà alle origini del pensiero borghese: la teoria dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke

22Idem

23 Kant, Il conflitto delle facoltà

24Come sintetizza il titolo, From the state of princes to the person of the state, del capitolo finale del II vol. di Vision of Politics

25Diversi testi di Marco Geuna sono disponibili sul sito academia.edu

26Gli interventi di Massimo Morigi sul Repubblicanesimo Geopolitico sono stati pubblicati dal sito http://corrieredellacollera.com

27https://www.youtube.com/watch?v=VeOUHYC8zq8&t=533s

28http://www.cogitoergo.it/l%E2%80%99esercito-esaurito/

29E avvengaché quelli suoi re perdessono l’imperio, per le cagioni e modi discorsi; nondimeno quelli che li cacciarono, ordinandovi subito due Consoli che stessono nel luogo de’ Re, vennero a cacciare di Roma il nome, e non la potestà regia: talché, essendo in quella republica i Consoli e il Senato, veniva solo a essere mista di due qualità delle tre soprascritte, cioè di Principato e di Ottimati. Restavale solo a dare luogo al governo popolare: onde, sendo diventata la Nobilità romana insolente per le cagioni che di sotto si diranno si levò il Popolo contro di quella; talché, per non perdere il tutto, fu costretta concedere al Popolo la sua parte e, dall’altra parte, il Senato e i Consoli restassono con tanta autorità, che potessono tenere in quella republica il grado loro. E così nacque la creazione de’ Tribuni della plebe, dopo la quale creazione venne a essere più stabilito lo stato di quella republica, avendovi tutte le tre qualità di governo la parte sua. E tanto le fu favorevole la fortuna, che, benché si passasse dal governo de’ Re e delli Ottimati al Popolo, per quelli medesimi gradi e per quelle medesime cagioni che di sopra si sono discorse, nondimeno non si tolse mai, per dare autorità agli Ottimati, tutta l’autorità alle qualità regie; ne si diminuì l’autorità in tutto agli Ottimati, per darla al Popolo; ma rimanendo mista, fece una republica perfetta: alla quale perfezione venne per la disunione della Plebe e del Senato

30Polibio, Storie (Libro VI) L’eccellenza della costituzione romana

31Slavery and Social Death

32Sull’individualismo di Marx vedi Louis Dumont, Homo aequalis

33Michael Hardt (Autore), Antonio Negri (Autore), A. Pandolfi (a cura di), D. Didero (a cura di), Impero

34Vedi in merito il lavoro di James H. Billington, Fire in the Minds of Men: Origins of the Revolutionary Faith

35 Machiavelli, Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

36 N. Machiavelli, Istorie fiorentine

37 Nietzsche

38The prosthetic God: Thomas Hobbes, the bible, and modernity

39Dialettica della natura

40Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio

http://www.gennaroscala.it/2017/06/21/il-paradigma-machiavelliano-per-la-definizione-di-una-teoria-politica-non-ideologica/

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Multipolarismo tra aspettative e realtà_con Gianfranco La Grassa

Questa conversazione con Gianfranco La Grassa ha preso spunto dalla pubblicazione sul nostro sito di un saggio intitolato “il mito del multipolarismo” “http://italiaeilmondo.com/2023/04/27/il-mito-del-multipolarismo-di-stephen-g-brooks-e-william-c-wohlforth/ . Si parte dal punto di vista dei due analisti statunitensi per confrontarlo con le opinioni di Gianfranco La Grassa riguardanti le dinamiche dell’attuale contesto geopolitico a partire dalla sua chiave interpretativa del “conflitto e confronto tra centri strategici”. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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BREVE DIALOGO SULL’ESISTENZA DEL NEMICO, di Teodoro Klitsche de la Grange

BREVE DIALOGO SULL’ESISTENZA DEL NEMICO (*)

 

Nei giorni 25 e 26 novembre 2004 la rivista “Catholica” organizzava alla Sorbona a Parigi un convegno su alcuni aspetti e problemi della modernità.

Riportiamo qui la relazione sull’esistenza del nemico di Teodoro Klitsche de la Grange e i due interventi sulla stessa di Bernard Dumont e Gilles Dumont, la cui pubblicazione (Behemoth n. 37) era gentilmente autorizzata da “Catholica”.

 

Teodoro Klitsche de la Grange: Credo che la convinzione dell’inesistenza del nemico sia assurda, perché il nemico non ha bisogno di permessi, licenze o legittimazioni di chicchessia per esistere. Gli basta, per poter essere tale, la libertà che Dio gli ha dato come uomo, e potrà di conseguenza decidersi per la guerra o la pace, l’amicizia o l’inimicizia, il bene o il male. Credere quindi che il nemico non possa (o non debba) esistere è un falso problema, perché ontologicamente impossibile. Il nemico esiste e questo è questione d’esistenza, di Dasein che consegue al fatto di essere uomo. Non aveva torto Proudhon, quando a tale proposito, riteneva la guerra connotato peculiare del genere umano, ed approvava de Maistre, che la giudicava divina perché legge del mondo. Si può certo scegliere di non essere nemici, di non voler muovere guerra, ma vi sono sempre guerre e violenza; per cui è questo fatto e la conseguente facoltà di scegliere tra guerra e pace (possibili) che ha implicazioni morali.

La teologia cattolica (e cristiana in generale) ha da secoli posto quattro condizioni perché una guerra sia giusta. Se un sovrano cristiano voleva intraprendere una guerra giusta, poteva, di fatto, farla, ma se ne assumeva la responsabilità di fronte all’Onnipotente; all’inverso doveva prepararsi ad affrontare i possibili nemici. Ricordo la definizione che da l’abate Sieyès della Nazione: che è tutto ciò che può essere per il solo fatto di esistere. La si può adattare anche per il concetto di nemico: il quale è tutto ciò che può divenire per il solo fatto di esistere. Lo stesso pacifismo è più razionale della negazione (dell’esistenza) del nemico. Perché, per far guerra, occorre essere in due. Per aggredire, basta deciderlo da soli: mentre perché vi sia guerra, ripeto, occorre essere due. Alla decisione di qualcuno di attaccare, deve contrapporsi quella dell’aggredito per la difesa. E anche questa è una scelta, tra il difendersi e l’arrendersi: se non ci si difende si fa come i cecoslovacchi o i lituani nel 1939. Di conseguenza il pacifismo, quand’è coerente, mantiene una certa ragionevolezza: si può preferire la servitù alla libertà (meglio rossi che morti), ed è comunque una decisione certamente possibile. Ma la negazione del nemico non ha nulla di ragionevole, perché impossibile.

Pertanto dalla negazione del nemico (e del conflitto) deriva uno strano effetto. Più la si fa, più nemici (e conflitti) crescono (di numero e soprattutto) d’intensità. Aron rileva che nel corso del XX secolo, più si è stati pacifisti convinti (o presunti) più si sono fatte guerre, perché le stesse idee-cardine del pacifismo possono convertirsi in giustificazioni (pretesti) della guerra. Si fa la guerra per non fare più guerre e quella che si combatte allo scopo è l’ultima: ma proprio perché è l’ultima, il nemico diviene assoluto, e soprattutto si possono pagare scotti pesantissimi per combatterlo e vincerlo. Dopo di che si sarebbe avuto il regno della pace, la fine della storia, (il paese dei balocchi), e così via. Invece si è avuto (solo e tutt’al più) un nemico nuovo, al posto di quello vecchio.

Credo che il nemico (in politica)  è, (quasi) sempre, il nemico relativo, non assoluto. Se si va a leggere il discorso dell’Imperatore Claudio, negli Annales di Tacito, questo è assai chiaro: Claudio sostiene l’ammissione in Senato delle grandi famiglie galliche, per integrarle meglio nell’Impero. I Romani erano dubbiosi, ma l’imperatore riteneva di doverle ammettere anche se avevano combattuto contro Giulio Cesare: ed affermava che è un’attitudine specificamente romana considerare il nemico come non assoluto, ma relativo. Romolo, ricorda, nello stesso giorno aveva mosso guerra e concluso un foedus, un accordo, con dodici popoli nemici.

In questo consisteva la differenza essenziale tra Greci e Romani, tale che questi hanno costruito un grande impero, e quelli no. Mentre i Greci consideravano i nemici (irrimediabilmente) diversi da se, i Romani li reputavano uomini come loro. Tale situazione (e il problema relativo) si è ripetuto spesso nella Storia. In effetti, dietro l’orazione di Claudio, questo discorso sull’integrazione, c’è sempre la questione del nemico, se assoluto o relativo; e nel diritto internazionale classico dal XVII al XIX secolo, il nemico è sempre relativo. Non c’è nemico assoluto nello jus publicum aeuropeum, tra le Nazioni cristiane d’Europa.

Ma, nel tempo ne cambiava il senso e con una distinzione importante: all’uopo ne ricordiamo due chiare formulazioni l’una del XVIII e l’altra del XX secolo. Vattel, a metà del XVIII secolo, ai tempi della “guerra in merletti”, scriveva: “l’ennemi est celui avec qui on est en guerre ouvert. Les Latins avaient un terme particulier (hostis) pour désigner un ennemi public, et ils le distinguaient d’un ennemi particulier (inimicus). Notre langue n’a qu’un même terme pour ces deux ordres de personnes, qui cependant doivent être soigneusement distingués. L’ennemi particulier est une personne qui cherche notre mal, qui y prend plaisir ; l’ennemi public forme des prétentions contre nous, ou se refuse aux nôtres et soutient ses droits, vrais ou prétendus, par la force des armes. Le premier n’est jamais innocent : il nourrit dans son coeur l’animosité et la haine. Il est possible que l’ennemi public ne soit point animé des ces odieux sentiments, qu’il ne désire point notre mal, et qu’il cherche seulement à soutenir ses droits”.

In effetti, il nemico pubblico  è un nemico che rivendica di esserlo, perché, in generale, vanta una pretesa (e uno status) giuridico.

Teologi-giuristi della Tarda Scolastica come Vitoria e Suarez, l’hanno sottolineato; mentre nell’altro caso il  nemico è ingiusto in se, (anche) perché agisce (solo) per odio.

Qui, a Parigi, nel 1965 fu rappresentato un dramma assai interessante di Montherlant, La guerre civile. Nel prologo la Guerra Civile prende la parola: “Ne ho piene le tasche di questi salami che si guardano in faccia su due fronti, come se facessero le loro stupide guerre nazionali. Io non sono la guerra delle trincee e dei campi di battaglia. Sono la guerra della piazza inferocita, la guerra delle prigioni e delle strade, del vicino contro il vicino, del rivale contro il rivale, dell’amico contro l’amico.

Io sono la Guerra Civile, io sono la buona guerra, quella dove si sa perché si uccide e chi si uccide: il lupo divora l’agnello, ma non lo odia; ma il lupo odia il lupo”[1].

In effetti la vera guerra, nel XX secolo, era diventata quella civile.

Per Vattel (come per Rousseau) la guerra (vera e legittima) era solo quella condotta da soggetti pubblici e la guerra civile era ingiusta in se perché non è tra due Stati. Secondo Montherlant, è la guerra civile la “vera” guerra: affermazione assai simile a quella di Schmitt o Lenin nelle loro teorie della guerra (civile e ) partigiana. Secondo Lenin vera guerra non era quella regolare, in uniforme, ma la weltbürgerkrieg, destinata ad essere la levatrice della società perfetta – la frase di Saint-Simon, di sostituire al governo degli uomini l’amministrazione delle cose, era stata ripresa da Engels per la società senza classi. Per la quale valeva la pena far una guerra assoluta. L’odio, ciò che Clausewitz chiamava il sentimento ostile, l’ “istinto cieco”; diventa così prevalente sugli aspetti razionali della guerra (il “triedo”).

Concludo il mio intervento sulla distinzione amico-nemico. Sulla quale, ora, c’è una gran confusione, così come tra pubblico e privato. Ad analizzare la frase di Saint-Simon, questa porta a una sorta di privatizzazione del pubblico. Del pari nella distinzione amico-nemico, non si comprende più chi è l’amico ed il nemico. Nel periodo dello Stato classico europeo, l’amico era il concittadino, vi erano limiti di spazio, di costume, di nazionalità, e si sapeva bene chi era il nemico: quello designato tale dall’autorità legittima. Ma da quando si sono diffuse (e sono assai più numerose di quelle tra Stati) le guerre civili, non fondate sull’appartenenza a uno Stato, non si capisce più se il nemico possa essere il proprio vicino di casa, il collega d’ufficio o qualcun altro.

Penso che il deperimento del politico nello Stato s’estende alla distinzione tra privato e pubblico. Ed anche a quella di comando-obbedienza, perché spesso si perde il coraggio del comando. E si crede che non c’è bisogno d’obbedienza: cosa impossibile, perché c’è sempre la necessità del comando.

Gilles Dumont: Non so se la questione non si identifichi, semplicemente, con quella del liberalismo, sia in relazione alla teoria di Montesquieu sulla distinzione dei poteri, sia, parimenti, al pensiero di Machiavelli.

Se si rifiuta di nominare il nemico, è perché lo stesso ordine politico liberale, nel senso della filosofia politica liberale, è fondato sulla necessità dell’integrazione del nemico nell’ordine politico. Tutta la teoria di Montesquieu si basa non sul potere esercitato contro una qualsiasi minaccia esterna, ma contro il potere considerato come una minaccia all’interno stesso dell’ordine politico: è perciò che rivolge le diverse istituzioni politiche le une contro le altre.

La questione è, mi sembra, di sapere ove si colloca la frontiera tra il nemico ed il politico. Perché dire che la negazione del nemico è una forma di spoliticizzazione, è vero ma non è forse connaturale alla politica liberale?

Da Machiavelli, in fondo, a partire dal momento in cui si afferma che non si deve più distinguere tra bene e male nell’ordine politico, che il male è più significativo del bene, e che è necessario quindi servirsi di mezzi illeciti per conseguire finalità politiche, si istituzionalizza il nemico allo stesso interno dell’organizzazione politica.

Quando Remirro de Orco viene fatto a pezzi, come ricorda Machiavelli, nel Principe, dopo che Cesare Borgia gli aveva affidato il compito, a causa della sua reputazione di crudeltà, di reprimere le sedizioni  in Romagna, è proprio perché era un nemico utile, quindi necessario all’interno, per l’ordine pubblico.

Se ne è, in qualche misura, modificato il confine tra amico e nemico all’interno della politica, per cui il nemico non è più colui che è esterno all’ordine politico; in questo caso il nemico essendo nella comunità. È in effetti uno sconfinamento tra guerra politica e guerra civile. Ma la guerra civile è una forma di guerra politica, o più esattamente è la conseguenza di una scelta voluta, che è del pari tale in partenza, trasferire la guerra all’interno dello Stato. Perché lo scopo – e bisogna riallacciarsi alla teoria liberale, molto chiaramente espressa in Montesquieu – è limitare il potere, non potendolo sopprimere completamente. Se c’è la guerra permanente all’interno del potere, ci sarà meno potere, e maggiore tranquillità per godere la nostra libertà, soprattutto se il popolo non vi partecipa.

La figura del nemico esiste sempre, anche quella del nemico pubblico, ma si colloca in seno all’ordine politico. Questo pone il problema dell’obbedienza e dell’autorità, perché, in fondo, è una negazione dell’ordine politico stesso, e non si può più avere autorità ed obbedienza, dal momento in cui non si sa più a quale capo, in seno all’ordine, o meglio al disordine politico, si dovrebbe obbedire. È l’instaurazione della guerra civile che consegue dalla spoliticizzazione. La negazione del nemico esterno non è una soppressione, anzi è una affermazione della guerra interna: si sopprime il nemico esterno per valorizzare meglio la guerra civile. Il che mi fa dire che questa è, come direbbe Eric Werner, intrinseca alla democrazia, il sistema politico liberale essendo fondamentalmente un sistema di guerra civile organizzata, che non può funzionare senza nemico interno, ed è interamente costruito su questa ipotesi di partenza.

Bernard Dumont. Teodoro Klitsche de la Grange ha mostrato l’importanza del fatto che non solo l’amico e il nemico si sono modificati nel loro rapporto, ma anche un certo numero di altri concetti, a partire da una chiave, da una parola chiave, che è quella di confusione. E penso che a questa parola chiave bisogna aggiungerne un’altra, l’astrazione. E questa aggrava l’altra: si fa astrazione della realtà per invertire concetti che non vi si trovano o per sopprimere ciò che è, cosa che confonde completamente le carte. Così, si astrae dall’esistenza del nemico, che è un’assurdità ontologica, perché questi è qui accanto, ciò che prova in fatto la possibilità che ci sia un nemico. È inverosimile che nel cattolicesimo contemporaneo, o nel cristianesimo contemporaneo, si possa mettere tra parentesi questa possibilità e dimenticare che in materia d’inimicizia, c’è prima di tutto colui che è chiamato appunto il Nemico, il Diavolo, nemico del genere umano. Questo Nemico esiste, e negarne l’esistenza è pura follia, perché non si misconosce solo una realtà estremamente pericolosa, ma per lo stesso fatto si è indotti a negare o svuotare di senso il peccato originale, la Redenzione, e, alla fine, tutto quanto il cristianesimo. Quindi è un’assurdità ontologica, teologica e storica (nel senso della storia della salvezza). Ne consegue che la negazione del nemico è una astrazione, ma un’astrazione profondamente peccaminosa, una follia, un’ingiustizia, una bestemmia. È gravissimo, e questo è il frutto dell’opera del Nemico, il cui proprium è seminare confusione, in particolare delle nozioni di bene e di male, di provocare un bailamme generale. Siamo in presenza di un disordine concettuale che si manifesta nel fatto che l’inimicizia negata è diffusamente concreta e presente, e questa presenza si traduce in guerra civile con differenti gradi di violenza, dall’incitamento al crimine all’intimidazione, al linciaggio mediatico, all’ostracismo, ecc. Perché, in realtà, la guerra civile permanente è una guerra condotta fin dall’interno delle persone, al punto che oggi, quando il ruolo dello psicologico è assai consistente, si manifesta in una pressione che colpevolizza nel profondo, che coltiva il risentimento e ogni tipo di cattiva disposizione diametralmente opposta alla philia, questa benevolenza reciproca che è il cemento di ogni società. Non soltanto c’è il nemico tutt’intorno a noi, il vicino sospetto, ma c’è anche il sospetto in se stessi nella misura in cui si coltiva questa colpevolizzazione interna e permanente.

Dietro la negazione astratta della possibilità del nemico si creano tutta una serie di inimicizie, ben camuffate quanto reali e durature.

[1] Trad. it. di Piero Buscaroli, Torino 1976.

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Ucraina, 33a puntata! Ultime ore per Bakhmut, il resto in sospeso_Con Max Bonelli e Stefano Orsi

Questione di giorni, se non di ore, Bakhmut non ci sarà più. Tornerà ad essere Artemosk. Non sarà la fossa nel quale sprofonderà l’esercito ucraino e con esso, probabilmente, il regime. E’ certamente un duro colpo alla loro solidità e allaloro possibilità di sopravvivenza. Sia Zelensky che la NATO hanno profuso enormi energie in una narrazione epica molto lontana dalla tragica realtà. Gli stessi tempi di una controffensiva, mai così preannunciata e sbandierata, sono tarati a prescindere dalle possibilità di successo soprattutto in funzione del contraccolpo negativo determinato dalla perdita dell’importante centro urbano. Nel frattempo persiste un gioco di posizionamento di truppe e materiali, indispensabile quantomeno ad avviare la reazione, cui corrisponde una puntuale opera di distruzione dei centri logistici e di comunicazione ad opera delle forze militari russe. I volti dei militari ucraini direttamente impegnati sul campo e le distese di caduti sui campi di battaglia documentati in numerosi filmati, specie di militari che non riescono nemmeno a vedere in faccia il loro avversario, valgono più dei bollettini di guerra trionfalistici cui ci sta abituando il regime ucraino. Cresce a livello internazionale la pressione per fermare la guerra; ma cresce ancora di più l’ostinazione di una amministrazione statunitense ormai intrappolata su una strada obbligata senza vie di uscite alternative. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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Lula, gli Stati Uniti, i BRICS_a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto una serie di articoli di varia estrazione riguardanti il ritorno di Lula a Presidente del Brasile e i suoi primi atti nello scacchiere geopolitico. So bene che buona parte di questi articoli susciterà le perplessità se non l’avversione di tutta quell’area politica attratta, ormai da generazioni, dalle azioni e dai proclami della sinistra rivoluzionaria e populista dell’America Latina. Una attrazione determinata più da una visione romantica di quelle spinte, rivoluzionarie o riformiste che siano, che dai reali successi conseguiti in termini di solidità del potere eventualmente conseguito e di reale trasformazione positiva dei rapporti sociali di quelle formazioni. Un abbaglio che ha impedito di cogliere i trasformismi e gli opportunismi che regolarmente seguono a prese di posizione velleitarie o mal poste. E’ troppo presto per esprimere un giudizio definitivo sul senso reale del ritorno di Lula alla presidenza; come pure appare troppo sbrigativo qualificarlo come un mero strumento statunitense all’opera all’interno dei nuovi schieramenti geopolitici in via di formazione. I dubbi, però, sono tanti e giustificati. Lula fungerà, comunque, da una sorta di cartina di tornasole. Attualmente lo scacchiere geopolitico vede uno schieramento occidentale, a guida statunitense, in fase di contrazione, ma ancora coeso politicamente e militarmente in un suo proprio sistema di alleanze. Dall’altra parte si assiste ad aggregazioni crescenti, tra queste i BRICS, ma ancora eterogenee nei fini e nei mezzi, le quali riescono ad assumere con relativa efficacia il compito di destrutturare la forma di dominio tuttora dominante, con minore efficacia quella propositiva. Diventano, così, al contempo, esse stesse un campo di azione delle varie potenze attive nello scacchiere, comprese quelle che intendono avversare. Man mano che negli Stati Uniti dovesse crescere la consapevolezza di una competizione geopolitica impensabile solamente venti anni fa, tanto più si intensificheranno le azioni diversive e dirompenti all’interno di quei nuovi schieramenti in formazione. Lula potrebbe rientrare in queste dinamiche. Staremo a vedere. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Non siamo obbligati a seguire tutte le opinioni degli Stati Uniti”, dice Celso Amorim

BAHIA

 

A 80 anni, l’ex ministro degli Esteri Celso Amorim è il diplomatico con più esperienza in Brasile. È anche il più vicino a Lula (PT), che lo ha scelto come consigliere speciale per rappresentare il presidente nelle delicate missioni internazionali.

 

Amorim ha comandato il Ministero delle Relazioni Estere nel governo di Itamar Franco tra il 1993 e il 1995, ha ricoperto la stessa carica nei due precedenti mandati di Lula come Presidente della Repubblica ed è stato Ministro della Difesa sotto Dilma Roussef (PT).

 

In questa intervista, difende la posizione di Lula sulla guerra in Ucraina e afferma che le critiche del presidente non riguardano solo la posizione degli Stati Uniti e dell’Unione Europea in relazione al conflitto.

 

Afferma che le critiche sono già state rivolte a gran voce alla Russia, che ha invaso il Paese confinante, e che il Brasile ha persino accompagnato i Paesi occidentali nella condanna dell’atto alle Nazioni Unite.

 

Tuttavia, afferma che bisogna cercare la pace e che le “sanzioni” o l’insistenza per “sconfiggere la Russia” non risolveranno la questione.

 

“Che cosa volete? Una vendetta? Dare una lezione?”, dice a proposito della posizione dei Paesi occidentali nel conflitto. “L’ultima volta che ci si è provato [con il Trattato di Versailles dopo la sconfitta della Germania nella Prima guerra mondiale] è andata proprio così”, afferma.

 

Amorim afferma inoltre che il Brasile riconosce l’importanza del ruolo degli Stati Uniti, che hanno riconosciuto il risultato delle elezioni presidenziali brasiliane quando queste erano messe in discussione dall’ex presidente Jair Bolsonaro (PL). Questo, però, non obbliga il Brasile a seguire gli interessi statunitensi negli affari internazionali.

 

“Non c’è stato alcun patto”, afferma.

 

Leggete, di seguito, i principali estratti dell’intervista.

 

RICEVERE

 

Il coordinatore delle comunicazioni strategiche del Consiglio di sicurezza nazionale della Casa Bianca, John Kirby, ha dichiarato che le dichiarazioni del presidente brasiliano sulla guerra in Ucraina sono profondamente problematiche e che sta “ripetendo a pappagallo” la propaganda di Cina e Russia sul conflitto. Lula sta dicendo verità scomode o sta ripetendo ciò che interessa a questi due Paesi?

 

Non ho intenzione di entrare in polemica con l’addetto stampa della Casa Bianca. Lasciamogli pensare ciò che vuole.

 

Ma, in realtà, la posizione del Presidente Lula è molto chiara: è una difesa degli interessi brasiliani e della percezione del Brasile rispetto al mondo. È la difesa di un mondo multipolare, che ha a che fare anche con la questione della dollarizzazione o della de-dollarizzazione di parte delle relazioni economiche [tra Paesi].

E ha anche a che fare con la ricerca di equilibrio nel mondo, [con il tentativo di] contribuire a renderlo più equilibrato.

 

Per quanto riguarda specificamente la guerra, la nostra ricerca è la pace. Il Brasile ha condannato [la guerra tra Russia e Ucraina] innumerevoli volte e in innumerevoli occasioni.

 

Il Presidente Lula ha criticato verbalmente l’azione russa di invasione dell’Ucraina. Il Brasile difende il principio dell’integrità territoriale degli Stati. Su questo non ci sono dubbi.

 

INCONTRO TRA LULA E IL CANCELLIERE RUSSO

 

Lula ha ripetuto le sue critiche al Cancelliere russo Sergei Lavrov, con cui si è incontrato lunedì (17)?

 

Mettiamola in prospettiva: il cancelliere russo non è venuto in Brasile come emissario [del presidente russo Vladimir Putin].

 

Il suo ospite è stato il ministro Mauro Vieira [delle Relazioni estere]. I due hanno parlato a lungo e ciò che hanno detto in seguito è stato divulgato alla stampa. Entrambi.

 

L’incontro del Cancelliere russo con il Presidente [Lula] è stata una visita di cortesia. Non entrerò nei dettagli [della conversazione tra i due].

 

Ma il nostro atteggiamento è chiaro. Abbiamo già votato le risoluzioni dell’ONU [che condannano l’aggressione russa all’Ucraina], lui [Lula] ha già parlato [condannando l’azione della Russia]. Non c’è dubbio che il Brasile sia critico.

 

Il Brasile difende la Carta delle Nazioni Unite e il diritto internazionale.

 

Ora, quello che pensiamo è che non serve a nulla rimanere fermi su questo, o continuare ad applicare sanzioni, o voler sconfiggere la Russia. Questo non porterà la pace. La Russia è un Paese molto importante e molto grande, oltre ad essere partner del Brasile. E bisogna cercare un modo per avere [negoziati di pace]. Questo è stato il senso delle parole del Presidente Lula.

 

Perché c’è la percezione, da parte sua e del Presidente Lula, che gli Stati Uniti e l’Unione Europea non stiano cercando la pace in questo momento?

 

Ci sono dichiarazioni specifiche [da parte di funzionari degli Stati Uniti e dei Paesi europei], come “dobbiamo sconfiggere la Russia” o “dobbiamo indebolire la Russia”. Questo è variato nel tempo.

 

Ora, nell’ambito della concezione che la Russia ha sbagliato, la nostra posizione è quella di far dialogare i Paesi.

 

La guerra non è una soluzione né per la Russia né per l’Ucraina. Questa è la domanda del Brasile.

 

Lavorare solo per rafforzare militarmente una parte [come hanno fatto gli Stati Uniti e i Paesi europei], o per, ad esempio, imporre sanzioni all’altra, non contribuisce alla pace. Non si contribuisce alla conversazione, non si crea un clima favorevole alla ricerca di negoziati.

 

E [queste autorità] finiscono, volontariamente o involontariamente, per contribuire al prolungamento della guerra.

 

RICERCA DELLA PACE IN UCRAINA

 

Una parte della stampa statunitense afferma che l’ambizione del Brasile di negoziare la fine della guerra e la pace è ingenua, non è alla portata del nostro Paese.

 

Non credo che sia ingenua. C’è buona fede nelle nostre azioni, nella ricerca della pace.

 

C’è una grande chiarezza sul fatto che non sarà il Brasile a fare la pace. Deve essere un gruppo di Paesi.

Rileggete la dichiarazione congiunta del Presidente Lula e del Presidente cinese Xi Jinping, in cui si afferma che entrambi i Paesi sostengono tutti i movimenti per la pace e invitano altri Paesi a unirsi a questo sforzo.

È chiaro che non si tratta di un’azione che il Presidente Lula farà da solo.

 

Ora, contrariamente a quanto dicono certi editoriali, il Brasile è un Paese importante, è uno dei cinque Paesi più grandi del mondo in termini di territorio, insomma è un Paese molto rispettato a livello internazionale.

 

Si dà il caso che, in questo caso [di guerra], l’Unione Europea abbia adottato un partito.

 

Non dico che sia sbagliato criticare l’azione specifica [della Russia contro l’Ucraina].

Ma bisogna farlo in modo da non rendere impossibile la pace.

 

Cosa volete? Una vendetta? Volete dare una lezione?

 

L’ultima volta che è stata tentata una politica del genere, dopo la Prima guerra mondiale, con il Trattato di Versailles [in cui i Paesi vincitori della guerra imponevano dure condizioni alla Germania], ha portato a quello che è successo dopo [l’ascesa al potere di Adolf Hitler]. Ha dato origine a questo sentimento di rancore e risentimento.

 

Noi non crediamo che le cose stiano così.

 

Quali sono i limiti del Brasile in questo scenario?

 

Molte volte, per fare la pace, c’è bisogno di un po’ di denaro per aiutare la ricostruzione [dei Paesi distrutti dai conflitti]. E questo il Brasile non ce l’ha.

 

Abbiamo una capacità di dialogo che fa parte della nostra storia, che è una storia di pace con i suoi vicini, di mediazione, di ricerca di soluzioni pacifiche ai conflitti, come è nella nostra Costituzione e anche nella Carta delle Nazioni Unite.

 

Quindi, se aggiungiamo un Paese come la Cina, che ha una forte capacità di persuasione, e Paesi come il Brasile… Per esempio, la troika del G20 oggi è composta da Indonesia, India e Brasile. Possiamo anche aggiungere il Sudafrica.

 

Quando si dice “c’è una reazione molto forte” [alle dichiarazioni di Lula], si tratta di una forte reazione occidentale. Ora, se si va a vedere cosa pensano gli indiani, gli africani e molti altri che magari non hanno le stesse condizioni per esprimersi, la visione non è la stessa.

 

MONDO MULTIPOLARE

 

Gli Stati Uniti non hanno capito la posizione del Brasile? O il Presidente Lula non ha usato bene le parole? O ancora, gli Stati Uniti non sono realmente interessati alla pace?

 

Non lo so, né posso dare giudizi sugli altri.

 

Penso che sia una visione diversa, sì, da quella brasiliana.

 

È una differenza di visione nel senso seguente: vogliamo un mondo equilibrato e multipolare, perché è quello che interessa di più al Brasile. Naturalmente, il Brasile non avrà la forza di creare questo mondo. Ma può contribuire a un mondo che non sia diviso in una “guerra fredda”, tra buoni e cattivi.

 

Questa non è la politica storica del nostro Paese. Il Brasile storicamente, anche durante il governo militare, ha evitato di adottare una politica del genere.

 

Nel caso [dell’indipendenza] dell’Angola, il Brasile ha riconosciuto il governo angolano. E gli Stati Uniti lo aborrivano, perché si definiva marxista-leninista. Noi volevamo la pace, fin da allora.

 

Nelle attuali condizioni mondiali, dell’economia e di molti altri aspetti, interessa al Brasile lavorare per un mondo multipolare.

 

La nostra voce sarà ascoltata meglio lì che in un mondo diviso da una guerra fredda tra buoni e cattivi.

 

Un mondo multipolare interessa agli Stati Uniti?

 

È curioso. L’ex presidente [Barack] Obama ha persino usato questa espressione in un’occasione.

 

Negli Stati Uniti non c’è una visione univoca su questo tema. E quello che abbiamo detto non è molto diverso da quello che ha detto l’ex Segretario di Stato Henry Kissinger, soprattutto all’inizio di questo conflitto, in relazione all’idea che bisogna cercare soluzioni pacifiche, non provocatorie.

 

Ad esempio, sull’espansione della NATO [alleanza militare dei Paesi occidentali]: sono d’accordo con Kissinger.

 

Kissinger è di sinistra, è comunista, è antiamericano? No. Ma non pensiamo che questa [espansione della NATO] contribuisca alla pace, perché crea più tensioni.

 

Giustifica l’invasione [dell’Ucraina da parte della Russia]? Anche no. Ecco perché siamo a favore della soluzione pacifica.

 

È una cosa complicata, perché bisogna riconoscere gli interessi e le preoccupazioni delle varie parti, e allo stesso tempo garantire il rispetto delle norme fondamentali del diritto internazionale – non regole inventate e poi cambiate da un Paese o dall’altro.

 

Questo è ciò che stiamo cercando di fare.

 

Non saremo all’unisono con tutti, ma, ad esempio, con la Cina c’è stata un’ottima intesa.

 

Contrariamente a quanto a volte si pensa, la Cina non è impegnata solo a sconfiggere gli Stati Uniti o altro.

 

C’è una competizione, non c’è dubbio. Non sono ingenuo a non vederlo. Ma la Cina è il Paese che è cresciuto di più con la globalizzazione. E la globalizzazione dipende dalla pace.

 

La nostra posizione in merito, anche se da punti di vista diversi o differenti, è vicina a [quella della Cina], perché anche noi vogliamo la pace. Non vogliamo una guerra fredda e non vogliamo scegliere [una parte del conflitto].

 

In molte cose, gli Stati Uniti sono un partner eccellente per il Brasile.

 

Se si considera la politica sociale ed economica del presidente [Joe] Biden, abbiamo molte coincidenze con essa.

 

Riconosciamo l’atteggiamento positivo dell’amministrazione Biden nei confronti del processo elettorale in Brasile.

 

Ora, questo non ci obbliga a seguire tutte le loro opinioni. Possiamo divergere, come facciamo in altre cose, nei negoziati commerciali e in altre questioni.

 

I Paesi hanno interessi e per il Brasile una guerra fredda non è interessante.

 

Guardate il nostro settore agroalimentare: esporta [molto in Cina] e ha raggiunto delle posizioni.

 

È chiaro che non venderemo i nostri principi per questo. Ma non abbiamo nemmeno intenzione di lanciarci in provocazioni e conflitti inutili.

 

DIFESA DELLE ELEZIONI BRASILIANE DA PARTE DEGLI STATI UNITI

 

Si dice che i diplomatici statunitensi invochino il fatto che il loro governo abbia riconosciuto l’elezione del presidente Lula, come se fossero i garanti della nostra democrazia, e che ora si infurierebbero. Avrebbero un’altra alternativa? Appoggerebbero un colpo di Stato?

 

La nostra democrazia è una responsabilità brasiliana, fondamentalmente.

 

Ora, non c’è dubbio che la posizione americana, la posizione degli Stati Uniti, abbia influenza in Brasile. Ha influenza in tutti i settori della vita brasiliana.

 

Hanno assunto un atteggiamento corretto nei confronti del processo elettorale brasiliano, e questo è positivo.

 

Tra l’altro, non sono stati solo gli Stati Uniti. Sono stati loro e tutta la comunità internazionale. Loro e i tifosi del Flamengo, come si dice a Rio de Janeiro.

 

E questo non vincola il Presidente Lula alle posizioni americane.

 

Certo che no. Non c’è stato alcun patto per dire: “Guardate, noi sosteniamo il processo elettorale e voi ci sosterrete nel nostro conflitto contro la Cina”. No. Ogni Paese ha la propria opinione e ha il diritto di discutere civilmente. Di poter essere in disaccordo.

 

Discutiamo, vediamo e parliamo. Più partner abbiamo, meglio è.

 

Anche l’Unione Europea ha reagito alle posizioni del Brasile. Potrebbero esserci delle ritorsioni contro il Brasile?

 

L’Unione europea non ha una posizione unica [sulla guerra in Ucraina], vero? Cerchiamo di essere obiettivi.

 

Ad esempio, il presidente francese [Emmanuel] Macron è stato in Cina e ha parlato molto più a lungo di noi con Xi Jinping. Ed è tornato [in Francia] dicendo che è importante affermare l’autonomia strategica dell’Europa.

 

Ha detto che l’Europa non è in grado di risolvere i propri problemi, riferendosi all’Ucraina, e quindi non deve intromettersi a Taiwan.

 

Immagino che a Washington ci siano persone che non hanno gradito. Ma è normale. Non è ostilità. È una ricerca di difesa degli interessi del proprio Paese.

 

Il Presidente Lula ha parlato spesso con gli europei. Lui stesso si sta recando di nuovo in Europa, in Portogallo e in Spagna, e ha avuto contatti con il cancelliere tedesco, con il primo ministro [Olaf Scholz], con il presidente Macron e anche con il presidente ucraino Volodimir Zelenski.

 

Abbiamo parlato con tutti.

 

IN UCRAINA

 

L’Ucraina ha invitato Lula a visitare il Paese e a vedere da vicino la guerra, e anche la Russia vorrebbe la sua presenza e un forum economico a San Pietroburgo. Quante possibilità ci sono che questi viaggi avvengano?

 

Non posso dare certezze  su questo, perché queste cose a volte si evolvono.

 

Ma, al momento, il Presidente Lula, personalmente, non ha in programma alcun viaggio in quest’area. Al momento no. Per quanto ne so, non ci sono piani.

https://politicalivre.com.br/2023/04/nao-somos-obrigados-a-seguir-todas-opinioes-dos-eua-diz-celso-amorim/#gsc.tab=0

Lula annuncia le condizioni per visitare Russia e Ucraina

Il presidente brasiliano afferma che i futuri viaggi in uno dei due paesi dipenderanno dall’avanzamento dei colloqui di pace

 

Il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva (L) incontra il presidente portoghese Marcelo Rebelo de Sousa (R) prima di un colloquio al Palazzo Belem di Lisbona il 22 aprile 2023. © Stringer/Agenzia Anadolu via Getty Images

Il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva, comunemente noto come Lula, ha dichiarato sabato, durante una visita diplomatica in Portogallo, che rimane necessario che una coorte di Paesi aiuti a guidare sia la Russia che l’Ucraina verso la pace. Ha anche riservato critiche al ruolo di Mosca nell’istigare “una guerra con l’Ucraina”.

 

“Il Brasile vuole trovare un modo per stabilire la pace”, ha detto Lula sabato durante una conferenza stampa con il suo omologo portoghese Marcelo Rebelo de Sousa, con il quale aveva appena concluso un incontro a porte chiuse.

 

“È meglio trovare una via d’uscita al tavolo dei negoziati che una via d’uscita sul campo di battaglia”, ha dichiarato Lula. “La guerra distrugge soltanto, non costruisce nulla”, ha aggiunto, affermando che si rifiuterà di visitare Mosca o Kiev finché una o entrambe non faranno passi concreti verso la cessazione delle ostilità.

 

I commenti di Lula arrivano dopo che è stato criticato in Occidente per aver suggerito, poco dopo una visita di Stato in Cina questo mese, che gli Stati Uniti e i loro alleati europei stavano “incoraggiando la guerra” in Ucraina con la fornitura di armi alle forze di difesa di Kiev.

 

Il suo progetto di una roadmap verso la pace è stato elogiato dal ministro degli Esteri russo Sergei Lavrov, in visita a Brasilia all’inizio della settimana, ma un portavoce della Casa Bianca ha accusato il presidente brasiliano di “ripetere a pappagallo la propaganda russa e cinese senza guardare ai fatti”.

 

 

Leggi tutto La Casa Bianca si scaglia contro il Brasile per l’Ucraina

Tuttavia, venerdì la Reuters ha riferito che Lula avrebbe ammorbidito la sua posizione sulle critiche al ruolo dell’Occidente nel conflitto ucraino. Due funzionari di Brasilia hanno dichiarato all’agenzia di stampa che i commenti di Lula hanno provocato “rumore inutile” e hanno minato la posizione del Brasile come potenziale mediatore di pace.

 

Ciononostante, sabato Lula ha ribadito che “se non si fa la pace, si contribuisce alla guerra” e ha detto di aver rifiutato la richiesta del cancelliere tedesco Olaf Scholz di fornire aiuti militari all’Ucraina. Ma ha aggiunto che il suo governo si oppone fermamente alle azioni di Mosca; una posizione che, a suo dire, si è riflessa nei “voti dell’ONU” del Brasile.

 

“La Russia ha commesso un errore”, ha detto Lula sabato. “Tutti pensiamo che la Russia abbia commesso un errore. Non avrebbe dovuto invadere, ma lo ha fatto. Il Brasile non vuole scegliere da che parte stare. Vuole un gruppo di Paesi con cui parlare”.

 

L’arrivo di Lula in Portogallo venerdì è stato accolto da un’ondata di proteste da parte di cittadini e sostenitori ucraini fuori dall’ambasciata brasiliana a Lisbona, molti dei quali erano irritati da ciò che consideravano l’incapacità di Brasilia di affrontare la vera causa del conflitto. Venerdì Lula ha annunciato che il suo principale consigliere di politica estera avrebbe incontrato il presidente ucraino Vladimir Zelensky a Kiev.

 

La visita del leader brasiliano in Portogallo sarà seguita da un soggiorno di due giorni in Spagna, dove incontrerà il re Felipe IV e il primo ministro Pedro Sanchez.

https://www.rt.com/news/575189-brazil-lula-ukraine-russia/?utm_source=substack&utm_medium=email

 

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Lula ha appena screditato la politica estera del Brasile ponendo condizioni alla sua visita in Russia

ANDREW KORYBKO

23 APR

DETTAGLI

Lula sta essenzialmente dicendo che l’espansione globale delle relazioni economiche tra Brasile e Russia dipende dal fatto che la Russia comprometta gli obiettivi di sicurezza nazionale che cerca di portare avanti attraverso l’operazione speciale in corso in Ucraina, che Mosca considera ufficialmente come esistenziale. Questa posizione contraddice tutto ciò che la comunità multipolare rappresenta, ponendo così il Brasile dalla parte politica dell’Occidente nella dimensione russo-statunitense della nuova guerra fredda, nonostante i suoi crescenti legami con la Cina.

 

La transizione sistemica globale verso il multipolarismo ha visto decine di Paesi abbandonare il paradigma occidentale-centrico delle relazioni internazionali, tristemente noto per l’imposizione di condizioni unilaterali agli altri e per l’influenza che il pensiero a somma zero esercita sulla formulazione delle politiche. Il Brasile si annovera formalmente tra gli Stati che si concentrano sulla costruzione di un ordine mondiale più equo, in particolare nel coordinamento congiunto con i partner BRICS, ma il Presidente Lula lo ha appena screditato durante il suo viaggio in Portogallo.

 

Mentre si trovava lì, RT ha riferito che ha posto delle condizioni alla sua visita in Russia che gli erano state estese dal Presidente Putin attraverso il Ministro degli Esteri Lavrov durante la recente visita di quest’ultimo in Brasile. Il principale consigliere di Lula per la politica estera ha recentemente rivelato, in una lunga intervista sulla visione del mondo del suo capo, che al momento non ha in programma di recarsi in Russia o in Ucraina, ma sabato il leader brasiliano ha chiarito che potrebbe riconsiderare l’idea se i due paesi compiranno progressi tangibili verso la pace.

 

Probabilmente pensava che questo lo avrebbe fatto apparire “equilibrato”, “neutrale” e “pragmatico”, ma se da un lato questo approccio gli farà probabilmente guadagnare una proverbiale pacca sulla spalla dai suoi partner occidentali, dall’altro scredita completamente la politica estera del suo Paese agli occhi della Russia e del resto della comunità multipolare. La ragione di questa valutazione è che questa seconda categoria di Paesi non crede nell’imposizione di condizioni unilaterali ai propri partner, tanto meno che coinvolgano le loro relazioni con terze parti.

 

Ciò che Lula ha appena fatto dimostra quanto la sua visione del mondo sia strettamente allineata con i Democratici liberali-globalisti al potere negli Stati Uniti, con i quali avrebbe proposto di lanciare una rete di influenza globale durante il suo viaggio a Washington a febbraio, secondo quanto riportato recentemente da Politico, che ha citato esponenti del Congresso che hanno partecipato all’incontro. Invece di inventare un pretesto “pubblicamente plausibile” per rifiutare “gentilmente” l’invito del suo omologo a partecipare al Forum economico internazionale di San Pietroburgo di metà giugno, Lula sta facendo delle richieste al Presidente Putin.

 

In sostanza, sta dicendo che l’espansione globale delle relazioni economiche tra Brasile e Russia dipende dal fatto che la Russia comprometta gli obiettivi di sicurezza nazionale che cerca di portare avanti attraverso l’operazione speciale in corso in Ucraina, che Mosca considera ufficialmente come esistenziale. Questa posizione contraddice tutto ciò che la comunità multipolare rappresenta, ponendo così il Brasile dalla parte politica dell’Occidente nella dimensione russo-statunitense della Nuova Guerra Fredda, nonostante i suoi crescenti legami con la Cina.

 

A questo proposito, la grande strategia di Lula (che può essere approfondita attraverso le due analisi ipertestuali precedenti) è fondamentalmente quella di “bilanciare” i suoi principali partner cinesi e statunitensi – per quanto maldestramente – attraverso la de-dollarizzazione con i primi e il proselitismo del “wokeismo” con i secondi. Le relazioni con la Russia sono considerate sacrificabili, poiché la sua importanza in questo paradigma impallidisce rispetto a quelle dei due paesi, essendo per lo più relegata alla sfera della cooperazione sulle materie prime (compresa l’energia).

 

Anche se il Brasile e la Russia hanno interessi comuni nell’accelerare il multipolarismo finanziario, soprattutto attraverso il progetto della nuova valuta di riserva dei BRICS, Lula ha chiaramente lasciato che la sua preferenza ideologica per l’Occidente avesse la precedenza su questo, imponendo le condizioni che ha appena fatto per partecipare all’evento di metà giugno. Non c’è assolutamente alcuna possibilità che la Russia scenda a compromessi sui suoi obiettivi di sicurezza nazionale in Ucraina solo per fargli prendere in considerazione l’idea di presentarsi a quel forum di investimenti, quindi si dovrebbe dare per scontato che non ci andrà.

 

Anche se i propagandisti del suo schieramento potrebbero tentare di distorcere la situazione ricordando a tutti che non andrà in Ucraina a meno che la Russia non faccia progressi tangibili verso la pace, le relazioni del Brasile con Kiev non sono così importanti per la transizione sistemica globale come lo sono quelle con Mosca. Si può quindi affermare che Lula non sta solo tenendo in ostaggio i legami bilaterali con la Russia attraverso la sua richiesta unilaterale, ma sta anche rallentando il ritmo di realizzazione dei loro comuni obiettivi di multipolarità finanziaria.

 

La cosa più dannosa di questa intuizione è che ogni osservatore obiettivo sa che non si può fare affidamento sul Brasile durante il terzo mandato di Lula, che sta formulando la politica estera sotto l’influenza di paradigmi occidentalocentrici obsoleti a causa del suo allineamento ideologico con i democratici statunitensi. Nessun membro della comunità multipolare può dare per scontati i legami con questo Paese, nemmeno la Cina, perché c’è sempre la possibilità che gli Stati Uniti facciano pressioni per replicare questa politica ostile anche nei loro confronti.

 

Se dovesse scoppiare un conflitto caldo nel Mar Cinese Meridionale o nello Stretto di Taiwan, ad esempio, ci si aspetta che Lula riduca unilateralmente i legami del Brasile con la Cina con il falso pretesto di voler apparire “equilibrato”, “neutrale” e “pragmatico”. Dopo tutto, la NATO guidata dagli Stati Uniti sta attivamente conducendo una guerra per procura contro la Russia attraverso l’Ucraina, eppure non ha permesso che questo gli impedisse di visitare Washington all’inizio di febbraio o il Portogallo questo fine settimana. Questo dimostra che sta davvero applicando ipocritamente due pesi e due misure.

 

Alla luce di ciò, la sua retorica pacifista non può essere considerata altro che una copertura per il suo allineamento politico con gli Stati Uniti contro la Russia nel conflitto geostrategicamente più importante dalla Seconda Guerra Mondiale. È solo una tattica per ingannare i creduloni della comunità Alt-Media e facilitare le operazioni di gaslighting dei suoi propagandisti, volte a manipolare le percezioni popolari sulla verità della sua politica estera. Ponendo condizioni alla sua visita in Russia, Lula ha dimostrato che i legami con il Paese BRICS sono sacrificabili.

https://korybko.substack.com/p/lula-just-discredited-brazils-foreign?utm_source=post-email-title&publication_id=835783&post_id=116678834&isFreemail=true&utm_medium=email

Il piano di Lula: Una battaglia globale contro il trumpismo

Ispirati dal presidente brasiliano, gli americani di sinistra stanno valutando se rispondere alla destra internazionale con un proprio movimento.

 

Il presidente Joe Biden, a destra, cammina con il presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva.

I presidenti Joe Biden e Luiz Inácio Lula da Silva hanno profonde divergenze politiche, soprattutto sull’Ucraina. Per ora, hanno messo a tacere le loro differenze per presentare un fronte unito contro le forze autocratiche e insurrezionali locali. | Foto Alex Brandon/AP

 

Di ALEXANDER BURNS

 

13/04/2023 04:30 AM EDT

 

Aggiornato: 04/13/2023 10:25 AM EDT

 

Alexander Burns è redattore associato per la politica globale di POLITICO. La sua rubrica Domani esplora il futuro della politica e i dibattiti politici che attraversano i confini nazionali.

 

Luiz Inácio Lula da Silva è arrivato a Washington all’inizio di quest’anno nel bagliore di un glorioso ritorno. Liberato dal carcere, eletto per un nuovo mandato come presidente del Brasile e trionfatore di un’insurrezione in stile 6 gennaio, il populista di sinistra sembrava incarnare la resistenza della democrazia in un’epoca di estremismo.

 

Ma negli incontri privati con i legislatori progressisti e i leader dei lavoratori, Lula ha lanciato un messaggio terribile, secondo quattro persone presenti alle discussioni.

 

Sebbene demagoghi velenosi siano caduti sia in Brasile che negli Stati Uniti, Lula ha avvertito che una rete globale di forze di destra continua a minacciare la libertà politica. Gli elettori schiacciati dalla disuguaglianza economica e confusi da un torrente di disinformazione sui social media sono rimasti vulnerabili a figure come Donald Trump e Jair Bolsonaro, il brutale uomo forte che Lula ha sconfitto a fatica lo scorso autunno.

 

“Mi suona familiare”: Biden scherza con Lula su Bolsonaro e le “fake news”.

 

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A Washington, il 77enne leader brasiliano ha lanciato un appello alla battaglia: La sinistra deve costruire una propria rete transnazionale, ha detto Lula, per combattere per i suoi valori politici e affrontare crisi come la privazione economica e il cambiamento climatico.

 

I leader dell’estrema destra come Trump e Bolsonaro nelle Americhe si sono cercati a vicenda e hanno trovato compagni di viaggio negli integralisti europei come la francese Marine Le Pen e il primo ministro ungherese Viktor Orbán. A sinistra non è esistito un club analogo. Secondo Lula, è giunto il momento di cambiare le cose.

 

La rappresentante Pramila Jayapal (D-Wash.), capo del Congressional Progressive Caucus, ha detto che Lula voleva mobilitare le forze di sinistra contro “una rete internazionale di persone e movimenti di destra” che sta cercando di “impadronirsi dei Paesi democratici”.

 

“Si è rivolto a noi chiedendo al Caucus Progressista di costruire qualcosa che possa contrastare questo fenomeno”, ha ricordato Jayapal.

 

Un primo passo potrebbe essere compiuto nel corso dell’anno, con un possibile viaggio in Brasile dei progressisti del Congresso. Il deputato californiano Ro Khanna, uno dei principali liberali della Camera che ha incontrato Lula, ha dichiarato che il presidente brasiliano ha sollecitato tre volte i legislatori a recarsi in visita.

 

Khanna ha detto di aver chiesto al suo staff di esplorare altri forum internazionali in cui i progressisti statunitensi dovrebbero far sentire la loro presenza.

 

L’esortazione di Lula rappresenta una sfida attesa da tempo per la sinistra statunitense. Per tutta l’influenza che hanno esercitato sulla politica interna, i Democratici di sinistra non sono ancora riusciti ad articolare un programma transnazionale distintivo.

 

Questa è stata un’occasione mancata.

 

Non è che ai progressisti non interessi il resto del mondo. È solo che tendono a coinvolgerlo come un insieme sparso di punti nevralgici e cause personali, senza raccontare una storia più universale sulle lotte del XXI secolo.

 

A Washington, molti progressisti hanno abbracciato la narrazione scelta dal Presidente Joe Biden di una grande competizione tra democrazia e autocrazia, lamentando al contempo l’abisso tra la retorica di Biden e la sua tolleranza verso tirannie strategicamente utili come l’Arabia Saudita. Tuttavia, essi hanno fatto solo tentativi stentati di delineare un programma generale di sinistra che parta dal cambiamento negli Stati Uniti e si estenda al resto del mondo.

 

Il senatore del Vermont Bernie Sanders ha fatto lo sforzo più sviluppato, chiedendo nel 2018 un “fronte progressista internazionale” contro oligarchi, despoti e multinazionali. Ma il suo ruolo principale in questi giorni è quello di presiedere il Comitato per la Salute, l’Educazione, il Lavoro e le Pensioni del Senato, una carica potente che si concentra sull’economia degli Stati Uniti.

 

Matt Duss, ex consigliere di Sanders per la politica estera, ha detto che c’è una “crescente sensibilità a sinistra” per un impegno più coerente con i partner di altri Paesi, “non solo in Sud America ma nel Sud globale”. Il momento sembra propizio per i progressisti per far valere le loro ragioni per una politica transnazionale ancorata a idee economiche tradizionalmente di sinistra.

 

Ma i progressisti statunitensi non dispongono attualmente di una ricca rete di relazioni all’estero a cui attingere.

 

“È un’area in cui la sinistra in particolare deve fare un lavoro molto, molto migliore”, ha detto Duss.

 

È facile sopravvalutare l’influenza globale della destra statunitense. Provocatori legati a Trump come Steve Bannon possono irrompere in altri Paesi, dichiarare l’alba di una nuova era di nazionalismo di ultradestra e generare una copertura ansiosa nella stampa tradizionale. Ma è stato più difficile per queste forze conquistare il potere e governare. Gli appoggi di Trump alle elezioni straniere non sono serviti a molto.

 

All’inizio di quest’anno, la mia collega Zoya Sheftalovich ha riferito che il panico per l’ingerenza in stile Bannon era diminuito in Europa: Věra Jourová, vicepresidente della Commissione europea, ha ricordato il timore che, dopo il 2016, un personaggio come Bannon potesse contribuire ad accendere un movimento continentale. “Non è successo”, ha detto Jourová.

 

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Tuttavia, per i conservatori estremi ha avuto un valore politico pensare a se stessi in termini globali. Li ha aiutati a identificare le tendenze e gli atteggiamenti culturali che hanno guidato le elezioni oltre i confini nazionali – la rabbia per la crisi dei rifugiati siriani, la paura della Cina, il risentimento verso le grandi tecnologie – e ad affinare un vocabolario comune per discuterne.

 

A livello intangibile, ha dato a un gruppo di ideologi un tempo emarginato un certo esprit de corps che può tradursi in ciò che gli americani chiamano spavalderia.

 

Guarda: I manifestanti pro-Bolsonaro assaltano gli edifici governativi del Brasile

 

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Lula, che in precedenza è stato presidente del Brasile dal 2003 al 2010, potrebbe trovarsi in una posizione unica tra i leader stranieri per chiamare la sinistra statunitense alle barricate.

 

Anche prima del suo ritorno al potere, Lula occupava un posto speciale nell’immaginario dei progressisti statunitensi: un crociato populista in una delle più grandi democrazie del mondo, un difensore dell’Amazzonia, uno schietto esponente della sinistra americana durante l’era di George W. Bush. La sua incarcerazione nel 2018, frutto di un discutibile processo per corruzione, lo ha reso un martire politico.

 

C’è una componente estetica nel suo fascino per i progressisti che aiuta a oscurare altre realtà scomode, come la sua visione equivoca dell’invasione russa dell’Ucraina.

 

Si pensi alle immagini dell’ultima candidatura di Lula, che mostrano un ruggente combattente di sinistra che fa campagna nei quartieri poveri e saluta folle estasiate da un’auto scoperta. Sono scene sconosciute agli elettori statunitensi del nostro tempo. Per molti progressisti, sembrano la versione migliore della politica.

 

La detenzione di Lula ha rafforzato il suo rapporto a distanza con i legislatori di sinistra di Washington, che hanno sposato la sua causa. Sanders ha guidato lo sforzo, chiedendo ripetutamente il rilascio di Lula durante la sua campagna presidenziale. Dopo il suo rilascio, il politico brasiliano ha ringraziato Sanders.

 

“Spero che i lavoratori americani ti facciano diventare presidente degli Stati Uniti”, ha scritto Lula a Sanders su Twitter.

 

Nella foto il presidente della Commissione Salute, Istruzione, Lavoro e Pensioni del Senato, Bernie Sanders, I-Vt.

Il ruolo principale del senatore Bernie Sanders è quello di presiedere il Comitato per la salute, l’istruzione, il lavoro e le pensioni del Senato, una carica potente che si concentra sull’economia degli Stati Uniti. | J. Scott Applewhite/AP Photo

 

Quest’anno ha continuato a esprimere gratitudine a Washington, incontrando Sanders e ringraziando lui e altri progressisti per il loro sostegno. Quando Lula si è riunito con i leader sindacali, è stato effusivo. “Voleva ringraziare il movimento sindacale per essere al suo fianco”, ha detto Randi Weingarten, presidente della Federazione americana degli insegnanti.

 

Anche con i dirigenti sindacali, Lula ha sollecitato una mobilitazione transnazionale. Ha fatto pressione su di loro affinché conducano una “lotta per i lavoratori e per sollevare le loro aspirazioni economiche, i loro salari di sussistenza”, oltre a proteggere l’Amazzonia, ha detto Weingarten.

 

Nel suo incontro con i progressisti del Congresso, Khanna ha detto che Lula ha descritto una certa forma di politica progressista – incentrata sull’avanzamento economico della classe operaia e sulla lotta al cambiamento climatico – come l’antidoto allo stato di disperazione che alimenta le politiche autoritarie.

 

“Una delle intuizioni interessanti che ha avuto è che c’è un movimento, non solo in Brasile ma in tutto il mondo, di antipolitica”, ha detto Khanna, “e che le persone hanno perso la fiducia nell’organizzazione e nell’attività politica, e si sono bevute il racconto che tutto è corrotto, tutto è rotto e la politica non conta”.

 

La soluzione, secondo Lula, è una “politica di speranza e di aspirazioni” che dia agli elettori la fiducia “di poter migliorare le condizioni economiche della gente”, ha detto Khanna.

 

Per certi versi, questo sembra un personaggio molto vicino a noi: Joe Biden.

 

Il Presidente degli Stati Uniti e Lula hanno profonde divergenze politiche, soprattutto sull’Ucraina. Per ora, hanno messo a tacere le loro differenze per presentare un fronte unito contro le forze autocratiche e insurrezionali locali. Alla Casa Bianca, ciascuno ha salutato l’altro come un campione della democrazia.

 

Quando ho contattato il portavoce di Lula, José Crispiniano, in merito ai suoi incontri a Washington, ha condiviso una dichiarazione che sottolinea l’ammirazione di Lula per Biden: “È rimasto colpito e soddisfatto dell’impegno del Presidente Biden nei confronti dei sindacati e dei lavoratori”. Ha rifiutato di commentare le osservazioni di Lula sulla costruzione della sinistra globale.

 

Manifestanti, sostenitori dell’ex presidente brasiliano Jair Bolsonaro, prendono d’assalto l’edificio del Congresso nazionale a Brasilia, in Brasile.

CASA BIANCA

 

L’amministrazione Biden condanna l’assalto agli edifici governativi della capitale brasiliana

DI OLIVIA OLANDER E NAHAL TOOSI

Biden e Lula sono simili per un altro aspetto importante. Sono entrambi leader nazionali di lunga data che hanno portato alla vittoria coalizioni di centro-sinistra, in parte perché hanno saputo resistere agli attacchi della destra che avrebbero potuto abbattere qualsiasi candidato meno familiare agli elettori.

 

Il ministro delle Finanze brasiliano, Fernando Haddad, che ha raggiunto Lula a Washington, lo ha fatto notare ai progressisti del Congresso. “Ha detto che nessun altro oltre a Lula avrebbe potuto vincere”, ha detto Khanna. Secondo Haddad, solo Lula era in grado di superare la valanga di bile e disinformazione diretta contro la sua candidatura.

 

In nessuno dei due Paesi è garantito che un messaggio di sinistra o di centro-sinistra possa avere successo con un altro messaggero.

 

Anche questo è un monito e una sfida per i progressisti.

https://www.politico.com/news/magazine/2023/04/13/lula-global-battle-against-trumpism-00091794?utm_source=substack&utm_medium=email

L’ultima guerra ibrida contro il Brasile è condotta da forze dichiaratamente pro-Lula

 

ANDREW KORYBKO

4 MAR 2023

 

La seconda guerra ibrida in Brasile è in realtà il risultato di una lotta di potere non dichiarata all’interno del partito, iniziata dai sostenitori del “Nuovo Lula” contro la base di sostenitori del partito che pensano ancora che sia il “Vecchio Lula”, il cui esito determinerà la traiettoria del Brasile nella Nuova Guerra Fredda. Continuerà a muoversi in una direzione allineata con gli Stati Uniti in mezzo all’imminente triforcazione delle relazioni internazionali o si ricalibrerà più vicino all’Intesa sino-russa e/o al Sud globale.

 

Chiarire il significato di guerra ibrida

 

La prima guerra ibrida in Brasile è stata condotta dagli oppositori del Presidente Lula per effettuare un cambio di regime contro il suo Partito dei Lavoratori (PT), il che rende l’ultima guerra ibrida in Brasile ancora più intrigante, poiché è condotta da forze apparentemente pro-Lula per rafforzare il regime. Prima di procedere, è necessario un chiarimento sulla terminologia precedente, per evitare qualsiasi malinteso sul modo in cui viene descritto lo stato attuale delle cose.

 

Per Guerra Ibrida si intende la manipolazione non convenzionale dei processi socio-politici di uno Stato preso di mira per far avanzare l’agenda degli operatori. Per quanto riguarda la parola “regime” nei termini “cambio di regime” e “rafforzamento del regime”, essa si riferisce semplicemente al governo e non viene utilizzata nel modo in cui i propagandisti occidentali l’hanno usata per delegittimare le autorità. Tenendo conto di ciò, l’osservazione che ci sono due guerre ibride in Brasile ha più senso.

 

La prima e la seconda guerra ibrida contro il Brasile

 

La prima è stata orchestrata dagli Stati Uniti con l'”Operazione Autolavaggio” per rimuovere il PT attraverso un colpo di Stato post-moderno guidato dalle forze dell’ordine, come punizione per la politica estera relativamente più multipolare dell’epoca. La seconda, invece, è condotta su prerogativa indipendente di forze apparentemente pro-Lula, al fine di manipolare le percezioni della base del PT sulla politica estera di Lula, relativamente più allineata agli Stati Uniti, durante il suo terzo mandato, in modo da scongiurare preventivamente il dissenso interno.

 

La prima guerra ibrida contro il Brasile si è basata su presunte rivelazioni anti-corruzione per mettere in moto la dimensione “lawfare” del processo di cambio di regime, che ha poi catalizzato una combinazione di proteste organizzate indipendentemente contro il PT e di quelle organizzate da agenzie di intelligence straniere mascherate da “ONG”. Al contrario, la seconda guerra ibrida contro il Brasile si basa esclusivamente su teorie del complotto armate per impedire alla base del PT di protestare contro Lula.

 

La realtà dell’approccio di Lula alla guerra per procura tra NATO e Russia

 

“Lula ha chiarito nella sua telefonata con Zelensky che è contrario all’operazione speciale della Russia”, che ha fatto seguito al voto del Brasile a sostegno di una risoluzione ONU anti-russa, che a sua volta è arrivata poco dopo che lui stesso aveva condannato l’operazione speciale della Russia nella sua dichiarazione congiunta con Biden all’inizio di febbraio. Invece di rimanere neutrale nei confronti del conflitto ucraino, astenendosi come hanno fatto i suoi colleghi BRICS, ha ordinato ai suoi diplomatici di allinearsi apertamente con gli Stati Uniti su questa delicata questione.

 

“La visione multipolare ricalibrata di Lula lo rende favorevole ai grandi interessi strategici degli Stati Uniti”, come spiegato nella precedente analisi ipertestuale e dimostrato dalla sua politica nei confronti della guerra per procura tra NATO e Russia in Ucraina. I lettori possono saperne di più esaminando le opere citate in questo pezzo. Il punto è che la sua politica nei confronti di questo conflitto non è quella che si aspettava la base del PT, che sperava che avrebbe invertito la posizione del suo predecessore Bolsonaro di votare contro la Russia alle Nazioni Unite, astenendosi invece.

 

Alla fine è successo l’esatto contrario: Lula ha ribaltato la posizione relativamente più neutrale del suo predecessore nei confronti della guerra per procura tra NATO e Russia, condannando senza precedenti la Russia nella sua dichiarazione congiunta con Biden, cosa che Bolsonaro non ha fatto dopo il suo incontro con il leader statunitense la scorsa estate. Ogni pretesa di neutralità che il Brasile avrebbe potuto tentare di invocare nei confronti di questo conflitto è stata screditata dal momento che Lula ha deciso di andare contro la tendenza dei BRICS diventando il primo leader a condannare ufficialmente la Russia.

 

La teoria del complotto sulla presunta posizione “segreta” di Lula

 

Il suo approccio indiscutibilmente allineato agli Stati Uniti nei confronti del conflitto geostrategicamente più trasformativo dalla Seconda Guerra Mondiale ha turbato molti tra la base del PT, soprattutto perché ha sollevato preoccupazioni su tutto ciò che questa posizione potrebbe comportare. Ad esempio, suggerisce che nell’imminente triforcazione delle relazioni internazionali tra il Miliardo d’oro dell’Occidente guidato dagli Stati Uniti, l’Intesa sino-russa e il Sud globale guidato informalmente dall’India, il Brasile si allineerà molto più vicino al blocco statunitense che agli altri due.

 

Al fine di evitare preventivamente il dissenso interno tra i suoi ranghi, sia che si esprima attraverso il cyberspazio sotto forma di critiche sui social media, sia che si esprima nelle strade sotto forma di proteste, le forze dichiaratamente pro-Lula hanno elaborato una teoria del complotto sulla sua posizione. Nonostante i fatti oggettivamente esistenti e facilmente verificabili, insistono sul fatto che Lula sostiene “segretamente” l’operazione speciale della Russia e che tutte le mosse pubbliche che lo riguardano sono solo un suo gioco di “scacchi 5D”.

 

Questa teoria del complotto è fondamentalmente un’imitazione brasiliana di quella messa in giro dal famigerato QAnon, secondo il quale ogni mossa fatta pubblicamente da Trump nella direzione opposta alle aspettative della sua base era solo un suo presunto gioco di “scacchi a 5D” per “psicologizzare” i suoi avversari, ma che “solo loro” e non i loro rivali “conoscono la verità”. Entrambi sono avulsi dalla realtà, sono stati inventati solo per evitare preventivamente il dissenso interno tra le file dei loro sostenitori e funzionano essenzialmente come “religioni secolari”.

 

Quest’ultima caratterizzazione è più azzeccata di quanto gli osservatori possano inizialmente pensare. Proprio come la base del Movimento MAGA era così disperata da credere che il suo “eroe” Trump fosse il suo “salvatore” che avrebbe invertito tutte le politiche odiate del suo predecessore Obama, così anche la base del PT è così disperata da credere che il suo “eroe” Lula sia il suo “salvatore” che invertirà tutte le politiche odiate del suo predecessore Bolsonaro.

 

In realtà, Trump ha finito per diventare il presidente più duro nei confronti della Russia sin dalla vecchia guerra fredda, prima della nuova guerra fredda in corso, che ha raggiunto la sua ultima fase sotto Biden dopo l’inizio dell’operazione speciale di Mosca. Quanto a Lula, ha abbandonato la posizione relativamente più neutrale di Bolsonaro nei confronti della guerra per procura tra NATO e Russia, condannando senza precedenti la Russia nella sua dichiarazione congiunta con Biden e diventando così il primo leader dei BRICS a farlo. Entrambi hanno finito per deludere le loro basi sulla Russia.

 

Il complotto per prevenire disperatamente il dissenso interno al PT

 

Per essere assolutamente chiari, non è realistico immaginare che la base del Movimento MAGA avrebbe protestato contro la politica ostile di Trump nei confronti della Russia se non fosse stata ingannata dalla teoria cospirativa degli “scacchi 5D” di QAnon, né avrebbe fatto alcuna differenza se lo avesse fatto. La base del PT è molto più consapevole e attiva dal punto di vista politico, quindi c’è la possibilità che alcuni protestino contro la politica ostile di Lula nei confronti della Russia, e questo potrebbe fare la differenza.

 

Anche se il loro dissenso interno rimane nell’ambito del cyberspazio, potrebbe comunque avere un impatto notevole sul ridisegno della percezione di Lula e della politica estera di questo terzo mandato, che potrebbe quindi cambiare le dinamiche interne al partito nel lungo periodo. Coloro che hanno architettato la teoria del complotto sulla sua posizione nei confronti della Russia, l’hanno armata contro la base del PT e impiegano aggressivamente attacchi tossici ad hominem contro chiunque li verifichi, vogliono disperatamente evitare questi due scenari.

 

Stanno letteralmente conducendo una guerra ibrida non solo contro lo stesso partito che dicono di sostenere, ma contro tutti i brasiliani attraverso i mezzi non convenzionali con cui mirano a manipolare i processi socio-politici del Paese attraverso la campagna di disinformazione appena descritta. Sebbene non si possa escludere che elementi di alto livello del PT abbiano incoraggiato o orchestrato questi ultimi sviluppi, questo non si può sapere con certezza e rimane quindi una pura speculazione.

 

Prove inconfutabili dell’esistenza della seconda guerra ibrida contro il Brasile

 

Tuttavia, l’esistenza di questa seconda guerra ibrida contro il Brasile non può essere negata da nessun osservatore onesto, poiché è indiscutibile che questa teoria cospirativa armata stia circolando in modo virale in tutto l’ecosistema informativo del Paese. Ecco tre esempi di oggi, che sono stati riciclati da “utili idioti” che hanno creduto a questa disinformazione sull’approccio di Lula alla guerra per procura tra NATO e Russia, oppure deliberatamente spinti da persone che intendevano consapevolmente fuorviare il loro pubblico.

 

Anche una setta nota come “Partito della Causa dei Lavoratori” (“PCO”, secondo l’abbreviazione portoghese) ha assunto questa teoria del complotto come causa principale, nel tentativo di reclutare nuovi membri e di accattivarsi il favore delle élite del PT, senza che nessuno dei due obiettivi sia garantito. Il punto è che la guerra ibrida descritta nel presente articolo, alimentata dal disperato desiderio politico di scongiurare preventivamente il dissenso interno alla base del PT, è attivamente condotta contro i brasiliani in questo momento.

 

Per ricordare al lettore che questo processo può essere tranquillamente descritto come una guerra ibrida, poiché si tratta di mezzi non convenzionali per manipolare i processi socio-politici dello Stato preso di mira al fine di portare avanti l’agenda degli operatori, che è stata appena riassunta sopra. A differenza della prima guerra ibrida contro il Brasile, non è orchestrata da alcun soggetto esterno, non mira a provocare proteste e non ha l’intenzione di promuovere un cambio di regime contro il PT.

 

“Sostenitori del “nuovo Lula” e sostenitori del “vecchio Lula

 

Piuttosto, questa seconda guerra ibrida contro il Brasile viene condotta sulla base di una prerogativa indipendente delle forze apparentemente pro-Lula (presumendo che non siano coinvolte figure di alto livello del PT) per scongiurare preventivamente il dissenso interno alla base del PT (compreso quello che potrebbe assumere la forma di proteste) a fini di rafforzamento del regime. Il motivo per cui questi agenti sono descritti come solo apparentemente a favore di Lula è che chi lo sostiene sinceramente non sentirebbe il bisogno di mentire sulle sue posizioni.

 

Un vero credente aspirerebbe sempre ad articolare accuratamente le sue politiche, anche quelle con cui potrebbe non essere d’accordo, invece di manipolare le percezioni degli altri su di esse, per non parlare di quelle della base del PT. Opinioni contrarie espresse in modo responsabile, attraverso critiche costruttive come quelle contenute nel presente articolo, potrebbero portare a cambiamenti significativi per il meglio o, almeno, a modellare in qualche modo i parametri per dibattiti a lungo attesi su questioni delicate come l’approccio “politicamente scomodo” di Lula alla guerra per procura tra NATO e Russia.

 

Ciò che invece sta accadendo è che gli opportunisti politici (sempre supponendo che non siano coinvolte figure d’élite del partito al potere) stanno impedendo che ciò accada per paura che i processi socio-politici risultanti all’interno del PT possano alla fine portare a ricalibrare la politica estera di Lula. Essi sostengono davvero il “Nuovo Lula”, incarnato dal suo approccio relativamente più allineato agli Stati Uniti durante il suo terzo mandato, in contrapposizione al “Vecchio Lula” che la maggior parte della base del PT apparentemente pensa ancora che sia.

 

Riconcettualizzare la seconda guerra ibrida contro il Brasile

 

Questa intuizione (a prescindere dalle speculazioni sul coinvolgimento di figure di alto livello del PT in quest’ultima guerra ibrida) consente agli osservatori di riconcepire il tutto come una lotta di potere interna al PT volta a manipolare la base del partito affinché ignori le prove inconfutabili che la sua visione del mondo è cambiata. Ciò di cui questi operatori non si rendono conto è che anche la consapevolezza di questa spiacevole realtà da parte della sua base non li porterebbe ad abbandonare il sostegno a Lula, poiché il loro feroce odio per Bolsonaro lo rende impossibile.

 

In questo senso, si può quindi affermare che le forze che stanno dietro a questa ultima guerra ibrida al Brasile sono pro-Lula nel senso che sostengono il “Nuovo Lula”, mentre la base del PT è anch’essa pro-Lula, ma soprattutto perché sostiene il “Vecchio Lula”. La seconda maggioranza dei suoi sostenitori non lo abbandonerebbe di certo per Bolsonaro o per chiunque altro anche se venisse a sapere che la sua visione del mondo è cambiata, ma potrebbe comunque cercare di fargli pressione per ricalibrare la sua politica estera più vicina alle loro aspettative.

 

Osservazioni oggettive

 

Da un punto di vista esterno, i sostenitori del “Nuovo Lula” che si armano di teorie cospirative sul suo approccio alla guerra per procura tra NATO e Russia sembrano avere la coscienza sporca, poiché si aspettano che la base del PT rifiuti questa politica, e quindi mentono per nasconderla. Quello che avrebbero dovuto fare è articolare la sua nuova visione del mondo e soprattutto la sua posizione nei confronti di questa delicata questione, avviando così un dibattito relativamente controllato all’interno del PT su tutto questo.

 

Conducendo una guerra ibrida guidata dalla disinformazione sui loro compagni di partito in particolare e sul resto dei loro compatrioti in generale, questi sostenitori del “Nuovo Lula” stanno facendo un gioco di potere per il controllo del PT, che a sua volta può essere descritto come un gioco di potere per il controllo della politica estera del Brasile. Sanno di essere in minoranza e che la maggioranza della base del PT rifiuterebbe la direzione allineata agli Stati Uniti in cui Lula sta portando il Paese, ergo perché stanno ricorrendo alla guerra ibrida per mantenere il loro potere.

 

Questa osservazione dà credito a quella che al momento è una pura speculazione sulla complicità di alti membri del partito nell’ultima guerra ibrida contro il Brasile, che appare probabile se si concettualizzano le dinamiche socio-politiche analizzate – soprattutto quelle interne al PT – in questo modo. Le loro teorie cospirative vengono utilizzate non per rafforzare il regime in sé, poiché la base del PT non abbandonerà mai Lula, ma specificamente per rafforzare il controllo di questa minoranza ideologica sul partito.

 

Riflessioni conclusive

 

Alla luce di ciò, la seconda guerra ibrida in Brasile è in realtà il risultato di una lotta di potere non dichiarata all’interno del PT, iniziata dai sostenitori del “Nuovo Lula” contro la base dei sostenitori del partito che lo ritengono ancora il “Vecchio Lula”, il cui esito determinerà la traiettoria del Brasile nella Nuova Guerra Fredda. Continuerà a muoversi in una direzione allineata con gli Stati Uniti in mezzo all’imminente triforcazione delle relazioni internazionali o si ricalibrerà più vicino all’Intesa sino-russa e/o al Sud globale.

https://korybko.substack.com/p/the-latest-hybrid-war-on-brazil-is?utm_source=substack&utm_medium=email

La restaurazione della politica estera brasiliana

Come Lula può recuperare il tempo perduto

Di Hussein Kalout e Feliciano Guimarães

15 marzo 2023

Il Presidente brasiliano Luiz Inacio Lula da Silva a Brasilia, marzo 2023

Il Presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva a Brasilia, marzo 2023

Adriano Machado / Reuters

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Il trionfo di Luiz Inácio Lula da Silva, noto come Lula, alle elezioni presidenziali brasiliane del 2022 ha segnato niente meno che il salvataggio della democrazia del Paese. La presidenza del suo predecessore, Jair Bolsonaro, aveva indebolito i pilastri fondamentali del sistema brasiliano: lo Stato di diritto e la coesione delle istituzioni statali, il consolidamento democratico raggiunto da quando il Paese è uscito nel 1988 da decenni di dittatura militare. In effetti, la vittoria di Lula ha rappresentato una rinascita della democrazia e un rifiuto dell’autoritarismo atavico.

 

Il 77enne presidente brasiliano ha ora iniziato il suo terzo mandato (due mandati tra il 2003 e il 2010). Deve affrontare sfide importanti su tutti i fronti. Come negli Stati Uniti, il Paese è polarizzato e molti sostenitori di Bolsonaro si rifiutano di accettare il risultato delle elezioni, una convinzione rabbiosa che ha portato a rivolte nella capitale Brasilia a gennaio. Il Brasile è cambiato dall’ultima volta che Lula è stato al potere e così anche il mondo. La politica estera di Lula deve tenere conto di un ordine internazionale che è più frammentato, competitivo e fragile di quanto non fosse due decenni fa.

 

Bolsonaro ha lasciato la politica estera del Brasile alla deriva. Quando ha lasciato il suo incarico, Brasilia non aveva ancora stabilito come posizionarsi nel contesto della crescente rivalità tra Cina e Stati Uniti. Aveva voltato le spalle a un’azione concertata nel suo cortile sudamericano. E grazie al negazionismo climatico di Bolsonaro e dei suoi luogotenenti, la sua politica ambientale era a pezzi.

 

Rimanete informati.

Analisi approfondite con cadenza settimanale.

Il governo di Lula deve ora raccogliere i cocci. I politici brasiliani hanno a lungo insistito sulla virtù di un ordine mondiale multipolare, ma questa insistenza sarà messa alla prova dall’ineluttabile competizione tra Cina e Stati Uniti, le due maggiori potenze mondiali. Lula deve tracciare una rotta tra questi due Paesi, che sono entrambi partner essenziali per il Brasile. Sulla scena globale, il Brasile può tornare a svolgere un ruolo chiave nello sforzo di contenere il cambiamento climatico, un progetto ampiamente abbandonato da Bolsonaro. E nel suo vicinato, il Brasile dovrebbe usare le sue dimensioni e il suo peso economico per contribuire a sostenere la stabilità e la prosperità della regione. Se Lula riuscirà a trovare un equilibrio tra idealismo e pragmatismo, potrà mettere il Brasile sulla strada per recuperare il prestigio e la rilevanza persi sotto il suo predecessore.

 

A PIEDI LA LINEA

Quando Lula è diventato presidente, nel 2003, Washington e Pechino non erano ancora rivali quasi alla pari. Gli Stati Uniti si comportavano ancora come l’unica superpotenza mondiale. Sebbene in rapida crescita, la Cina non chiedeva di essere riconosciuta alla stregua degli Stati Uniti. Né i responsabili politici brasiliani dovevano preoccuparsi di come le loro decisioni avrebbero potuto giocare contemporaneamente in Cina e negli Stati Uniti. Oggi, la competizione tra le grandi potenze ha invariabilmente influenzato gli interessi del Brasile in varie arene internazionali, anche in America Latina, dove i due Paesi si contendono l’influenza. La competizione tra Stati Uniti e Cina rappresenta una sfida enorme per il governo Lula nel breve periodo e per la politica estera brasiliana nel lungo periodo.

 

La politica estera della nuova amministrazione Lula dovrebbe basarsi soprattutto sul bilanciamento tra le potenze. Non può sperare di sostituire l’una con l’altra: entrambe sono indispensabili. Gli Stati Uniti sono il principale investitore del Brasile e la Cina il suo principale partner commerciale. Entrambi i Paesi sono ugualmente importanti per lo sviluppo tecnologico del Brasile. Ad esempio, per quanto riguarda i semiconduttori, sia la Cina che gli Stati Uniti vogliono aumentare i loro investimenti per espandere gli elementi della catena di fornitura dei chip in Brasile. L’amministrazione Lula non può permettersi di perdere nessuno di questi investimenti nel tentativo di reindustrializzare il Paese.

 

Il Brasile può recuperare il prestigio e la rilevanza che ha perso sotto Bolsonaro.

Certo, il Brasile è stato deluso dal comportamento degli Stati Uniti negli ultimi 20 anni. Da tempo i politici brasiliani ritengono che Washington abbia trascurato il loro Paese e, più in generale, l’America Latina, che riceve l’attenzione degli Stati Uniti solo quando una grande potenza straniera – oggi la Cina – cerca di estendere la propria influenza. Il Brasile e gli Stati Uniti si trovano ora ad affrontare due sfide importanti nelle loro relazioni bilaterali. In primo luogo, Brasilia e Washington devono identificare e poi definire le aree importanti in cui entrambi possono cooperare. In un incontro di febbraio a Washington, Lula e il Presidente degli Stati Uniti Joe Biden hanno convenuto che entrambi i Paesi sono impegnati ad affrontare il cambiamento climatico e a difendere la democrazia. In secondo luogo, entrambe le parti devono avere una chiara percezione dei punti di disaccordo e di quelli che potrebbero sorgere in futuro. I diplomatici statunitensi, ad esempio, non sono riusciti a convincere il Brasile a sostenere apertamente l’Ucraina nella sua guerra con la Russia, un conflitto di cui il Brasile non vuole far parte. Brasilia e Washington possono istituire un gruppo di lavoro permanente per mitigare questi punti di attrito e, a poco a poco, smussare le potenziali tensioni. Ovviamente, i diplomatici non saranno in grado di risolvere ogni questione. Non ci si può aspettare che Paesi delle dimensioni del Brasile e degli Stati Uniti siano d’accordo su ogni aspetto dell’ordine internazionale e regionale.

 

Il Brasile deve evitare alleanze rigide e abbracciare partenariati più flessibili, in linea con l’idea che l’ordine internazionale sta diventando sempre più multipolare. In alcuni casi, il Brasile guadagnerà di più lavorando con i Paesi del Nord globale. Entro la metà di quest’anno, Lula cercherà di finalizzare l’accordo di libero scambio tra l’Unione Europea e i Paesi del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay). L’amministrazione di Lula potrebbe anche prendere in considerazione l’adesione all’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico, un piano avviato dai suoi predecessori ma deriso da settori della sinistra brasiliana. In altri casi, tuttavia, il Brasile cercherà partnership più adatte nel Sud globale. La Cina ha segnalato, ad esempio, il suo interesse a firmare un accordo commerciale con il Mercosur.

 

La guerra in Ucraina ha messo il Brasile in una posizione difficile. Non può non condannare l’invasione russa, né opporsi completamente alla Russia, suo partner in iniziative come il gruppo BRICS (che riunisce Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Lula ha ventilato l’idea che un gruppo di Paesi non allineati, tra cui il Brasile, potrebbe contribuire a portare le due parti in conflitto al tavolo delle trattative e a porre fine alla guerra. Una cosa è avere una posizione sulla guerra a livello multilaterale e un’altra è cercare di mediare un conflitto molto intricato, in cui il Brasile ha una capacità limitata di influenzare gli eventi sul campo. Le innegabili qualità di negoziatore di Lula potrebbero scontrarsi con i duri limiti dell’incompatibilità degli interessi russi e ucraini.

 

Nei forum multilaterali, come il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, il Brasile aspira ad assumere nuove responsabilità in materia di sicurezza globale. Sotto la guida di Lula, non dovrebbe deviare dai principi fondamentali della sua politica estera, tra cui l’impegno per la risoluzione pacifica delle controversie, il diritto internazionale, il multilateralismo e i diritti umani. A livello più ampio, i funzionari brasiliani hanno chiesto che le organizzazioni internazionali, in particolare il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, affrontino meglio le minacce alla pace, così come le pandemie, le crisi dei rifugiati, le guerre commerciali, la sicurezza informatica, l’insicurezza alimentare e, soprattutto, i cambiamenti climatici.

 

POTERE CLIMATICO

Sotto Bolsonaro, il Brasile ha abbandonato la sua posizione di attore principale nell’affrontare la crisi climatica. Lula spera di raddrizzare la situazione e di riconquistare il rilievo che il Brasile aveva e il ruolo di leadership nella lotta al cambiamento climatico prima della presidenza di Bolsonaro.

 

Le foreste amazzoniche brasiliane, secondo il luogo comune, sono “i polmoni della Terra”, assorbono enormi quantità di anidride carbonica ed espirano ossigeno. Eppure queste foreste sono sotto pressione, minacciate da allevatori, agricoltori e minatori. La lotta alla deforestazione in Brasile è di interesse mondiale. Il governo di Lula, a differenza di quello di Bolsonaro, probabilmente applicherà le severe leggi esistenti volte a proteggere l’Amazzonia. Ma al di là dell’applicazione delle protezioni legali, la società brasiliana deve comprendere meglio il valore e lo scopo della conservazione della foresta. Per raggiungere questo obiettivo sociale più ampio, lo Stato deve incoraggiare gli sforzi per sviluppare bioindustrie in Amazzonia che sfruttino le sue risorse senza portare alla deforestazione – come la coltivazione delle bacche di acai – e dare potere alle comunità locali e ai gruppi indigeni. In questo modo, la nuova amministrazione Lula ritiene di poter affrontare la crisi climatica nel modo più efficiente possibile.

 

Purtroppo, i necessari investimenti pubblici e privati in scienza, tecnologia e innovazione per realizzare questa iniziativa sono ancora molto al di sotto di quanto necessario. Il Brasile e i suoi vicini amazzonici devono approfittare degli impegni assunti da tutti i firmatari dell’Accordo di Parigi per cercare finanziamenti sufficienti e tecnologie verdi. A tal fine, il governo Lula spera di dare nuovo impulso all’Organizzazione del Trattato di Cooperazione Amazzonica, un forum multilaterale con sede a Brasilia che promuove lo sviluppo sostenibile nel bacino amazzonico, ma che non è mai stato pienamente utilizzato dalla sua creazione nel 1995. Il Brasile potrebbe portare la sua politica climatica a un nuovo livello creando un’iniziativa multilaterale che potrebbe chiamarsi Forum mondiale dell’Amazzonia, una sede per riunire tutti i Paesi e gli attori politici interessati a garantire l’Amazzonia per le generazioni future.

 

ESSERE UN BUON VICINO

In questo contesto, il Brasile deve raddoppiare gli sforzi nel proprio cortile, in Sud America, il suo spazio d’azione naturale. Un Brasile disinteressato al Sudamerica, come è stato durante l’amministrazione di Bolsonaro, non fa che approfondire i possibili problemi. Impegnarsi nel dialogo con democrazie fragili e imperfette, e persino con Stati autocratici come il Venezuela, è meglio che ostracizzarli. Isolare questi attori porta solo alla rinascita dell’autoritarismo e genera instabilità politica e sociale.

 

Tuttavia, il Brasile deve stabilire come vuole esercitare la sua leadership e promuovere lo sviluppo nella regione. Bolsonaro ha trattato il Sudamerica come un ostacolo al futuro del suo Paese. Lula deve cercare un nuovo approccio al Sud America, riconoscendo che il suo Paese può guidare l’integrazione della regione. Il Brasile può offrire ai Paesi del Sudamerica vantaggi che nessun altro Stato sudamericano può offrire: un grande mercato di consumo, la capacità finanziaria della sua banca nazionale di sviluppo, la cooperazione su questioni di sicurezza più ampie e il peso diplomatico.

 

Per poter proiettare il proprio potere e conservare la propria influenza, il Brasile dovrà fare delle concessioni. La leadership regionale ha un costo. Queste concessioni, per la maggior parte, sono di natura economica e potrebbero danneggiare gli interessi di alcuni settori economici brasiliani. L’apertura del mercato interno a particolari esportazioni dai vicini, come le banane dall’Ecuador o i prodotti tessili dal Perù, potrebbe segnalare la volontà del Paese di pagare il prezzo della leadership. Se il Brasile non offre ai suoi vicini ulteriori incentivi per integrare le loro economie con il mercato brasiliano, il governo Lula corre il rischio di vedere potenze esterne alla regione prendere il controllo delle catene di approvvigionamento e interrompere ulteriormente l’integrazione sudamericana.

 

IL BRASILE È TORNATO

Naturalmente, quando tutto è una priorità, niente è una priorità. Il nuovo governo Lula deve stabilire come incanalare le proprie energie e risorse verso le iniziative giuste. La politica estera è una politica pubblica e, in quanto tale, deve rappresentare le richieste dei brasiliani e soddisfare le loro esigenze più pressanti. La priorità numero uno del Brasile è quella di ridurre la vergognosa disuguaglianza; come misurato dal coefficiente Gini, il Paese è uno dei più disuguali al mondo. La politica estera del Brasile dovrebbe guidare tutte le sue iniziative verso questo obiettivo essenziale, concentrandosi sui temi della sicurezza alimentare, del cambiamento climatico, dell’agricoltura sostenibile, dell’integrazione regionale, dello sviluppo tecnologico e dell’accesso al mercato. Qualsiasi azione che si discosti da questo obiettivo fondamentale non dovrebbe essere considerata una priorità.

 

Dopo il tumulto degli anni di Bolsonaro, il Brasile può riaffermarsi come una forza preziosa sulla scena internazionale. Il mondo è cambiato dal primo mandato presidenziale di Lula e la politica estera del Brasile deve adattarsi alle sfide attuali e future. Lula ha ora la grande opportunità di costruire una nuova dottrina, coesa, credibile e innovativa. Il Brasile è tornato e può svolgere un ruolo positivo, persino indispensabile, nella regione e nel mondo.

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In Focus: i commenti dell’Ucraina di Lula

Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva gesticola durante un evento al Palazzo Planalto di Brasilia il 20 aprile.

Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva gesticola durante un evento al Palazzo Planalto di Brasilia il 20 aprile. EVARISTO SA/AFP TRAMITE GETTY IMAGES

Mentre Lula ha cercato di posizionarsi come un arbitro neutrale e degno di fiducia per aiutare a mediare la fine della guerra della Russia in Ucraina, una serie di suoi commenti nei giorni scorsi ha suscitato aspre critiche da parte di funzionari statunitensi ed europei, che hanno accusato il presidente brasiliano di schierarsi dalla parte di Mosca .

Sabato a Pechino, Lula ha detto che gli Stati Uniti dovrebbero smetterla di “incoraggiare la guerra”; domenica, durante una sosta negli Emirati Arabi Uniti, ha affermato che la decisione di fare una guerra “è stata presa da due paesi”. Lunedì, il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov è arrivato in Brasile per un viaggio precedentemente programmato e ha affermato che Russia e Brasile hanno una “visione simile” della guerra.

I commenti di Lula sono stati “semplicemente fuorvianti”, ha detto lunedì il portavoce della sicurezza nazionale degli Stati Uniti John Kirby. Martedì, la portavoce della Casa Bianca Karine Jean-Pierre ha affermato che una conferenza stampa tenuta il giorno precedente dal ministero degli Esteri brasiliano sulla guerra non presentava “un tono di neutralità”.

In Europa, i funzionari hanno criticato pubblicamente i commenti e, secondo quanto riferito , un briefing interno dell’UE ha espresso preoccupazione per la posizione del Brasile sull’Ucraina. Martedì il ministero degli Esteri ucraino ha affermato che “l’approccio che mette sullo stesso piano vittima e aggressore” non è “in linea con la reale situazione” e ha invitato Lula a visitare il Paese.

Martedì Lula aveva rilasciato una nuova dichiarazione in cui condannava “la violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina” e mercoledì il suo consigliere per gli affari esteri Celso Amorim ha discusso della guerra con il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca Jake Sullivan, dove c’è stata una “franca discussione in un tentativo di chiarire i malintesi”, ha riferito Bloomberg .

Sullivan e Jean-Pierre hanno affermato che il rapporto Brasile-USA è rimasto forte, ma i commentatori hanno concordato in modo schiacciante che il Brasile ha bruciato parte della benevolenza occidentale di cui godeva inizialmente dopo l’insediamento di Lula a gennaio. Il Brasile dovrebbe assumere “impegni reali nei confronti delle democrazie liberali che hanno contribuito a sconfiggere il golpe di Bolsonaro”, ha twittato il giornalista brasiliano João Paulo Charleaux . “È necessario prendere posizione nelle relazioni internazionali”.

Catherine Osborn è la scrittrice del settimanale Latin America Brief di Foreign Policy . È una giornalista di stampa e radio con sede a Rio de Janeiro. Twitter:  @cculbertosborn

Il Brasile corteggia la Cina per rafforzare i legami tecnologici

Lula crede che Pechino possa aiutare, non ostacolare, le ambizioni industriali di Brasilia.

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Di Catherine Osborn , autrice del settimanale Latin America Brief di Foreign Policy .

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Il ministro delle finanze brasiliano Fernando Haddad parla durante una conferenza stampa presso l’ambasciata brasiliana a Pechino il 14 aprile.

Il ministro delle finanze brasiliano Fernando Haddad parla durante una conferenza stampa presso l’ambasciata brasiliana a Pechino il 14 aprile. TINGSHU WANG-POOL/GETTY IMAGES

21 APRILE 2023, 8:00

Bentornati al  Latin America Brief di Foreign Policy .

I punti salienti di questa settimana: esaminiamo gli alti e bassi del recente viaggio in Cina del presidente brasiliano Lula, compresi i suoi commenti su tutto, dal commercio alla guerra in Ucraina, e incontriamo una rivoluzionaria pop star cilena palestinese .

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Il legame Pechino-Brasilia

La megadelegazione brasiliana che si è recata in Cina la scorsa settimana comprendeva una sfilza di uomini d’affari, sette ministri, cinque governatori statali, 27 legislatori e, naturalmente, il presidente Luiz Inácio Lula da Silva. Mentre i commenti di Lula sulla guerra in Ucraina hanno forse ricevuto la maggior copertura sulla stampa occidentale (ne parleremo più avanti in “In Focus”), il viaggio ha anche ripristinato le relazioni del suo governo con il suo più grande partner commerciale. A Pechino, Brasile e Cina hanno firmato una serie di memorandum e accordi che secondo i funzionari valgono circa 10 miliardi di dollari.

Lula ha molta esperienza nel trattare con la Cina e si è avvicinato al paese durante le sue due precedenti amministrazioni presidenziali, dal 2003 al 2010. In quel periodo, i due paesi hanno firmato un accordo per essere partner strategici, hanno visto un aumento del commercio e degli investimenti bilaterali e co -ha fondato il gruppo BRICS insieme a Russia, India e Sud Africa.

A quel tempo, Lula ei suoi consiglieri celebravano i crescenti legami tra Brasile e Cina. Ma alcuni nelle comunità di politica estera ed economica del Brasile hanno anche iniziato a chiedersi se il Brasile fosse abbastanza attento nel suo commercio bilaterale con la Cina. La stampa fine dei vari accordi firmati la scorsa settimana suggerisce che le loro preoccupazioni hanno plasmato l’approccio del nuovo governo Lula a Pechino.

Durante il primo periodo in carica di Lula, la Cina aveva un appetito travolgente per le materie prime brasiliane come la soia, il minerale di ferro e il petrolio. Ma alcuni produttori di manufatti brasiliani hanno segnalato difficoltà a vendere sul mercato cinese. Nel frattempo, la quota manifatturiera del PIL brasiliano si stava riducendo rapidamente. Quando il ministero degli Esteri brasiliano ha pubblicato una raccolta di saggi sulle relazioni Brasile-Cina nel 2011, molti hanno discusso se le relazioni economiche con la Cina stessero contribuendo alla deindustrializzazione del Brasile.

Gli studiosi hanno avvertito che la deindustrializzazione prematura è rischiosa per i paesi in via di sviluppo. Molti paesi che sono passati da poveri a ricchi hanno prima costruito i loro settori manifatturieri e hanno iniziato a lasciarli indietro solo quando le persone sono migrate verso lavori altamente qualificati e ad alto salario in altri settori. (Il Brasile si è mosso lungo la prima parte di questo percorso dagli anni ’50 agli anni ’80, quando sono cresciuti settori come la lavorazione dei metalli, la produzione di automobili, la produzione tessile e la produzione di macchinari pesanti.)

Ma in alcune parti del mondo in via di sviluppo che vedono una deindustrializzazione prematura, come il Brasile, le persone spesso lasciano i settori industriali per lavori a bassa retribuzione e bassa produttività piuttosto che lavori con salari più alti. Ad esempio, un ex operaio potrebbe ora lavorare come cassiere, autista Uber o venditore ambulante. Un enorme 39% dei lavoratori brasiliani oggi lavora nel settore informale.

Un documento del 2022 dell’economista ed esperta di Cina Tatiana Rosito e Vinicius Mariano de Carvalho del Kings College di Londra, entrambi brasiliani, sostiene che mentre il Brasile e la Cina hanno mantenuto “un’agenda complementare di successo”, i dati commerciali degli ultimi due decenni mostrano che il Brasile “non è stato in grado di diversificare in modo significativo le sue esportazioni” verso la Cina.

Rosito ha ora un’opportunità privilegiata per cambiare rotta: lei e altri che hanno chiamato a perfezionare la strategia del Brasile nei confronti di Pechino sono stati nominati a posizioni di rilievo nella nuova amministrazione Lula.

Tra i volti nuovi di Brasilia c’è Tatiana Prazeres, segretaria per il commercio estero del Ministero dello Sviluppo, Industria, Commercio e Servizi del Brasile. Prazeres ha detto a Foreign Policy che la nuova amministrazione sta cercando competenze e investimenti cinesi in Brasile che possano promuovere “una neo-industrializzazione del Paese” incentrata sulle tecnologie verdi e altri settori ad alta tecnologia. Ha definito queste le “industrie del futuro”.

Il Brasile è stato il maggior destinatario di investimenti diretti esteri cinesi nel 2021, secondo un rapporto del China-Brazil Business Council . Tra il 2007 e il 2021, il gruppo ha calcolato che gli investimenti cinesi in Brasile sono andati principalmente nei settori dell’elettricità e del petrolio, e i due paesi stanno pianificando un fondo di investimento congiunto per l’energia verde.

Uno dei memorandum firmati la scorsa settimana si impegna a facilitare progetti che includono trasferimenti di tecnologia; separatamente, sono stati annunciati accordi che includono un impianto di idrogeno verde, progetti eolici offshore e l’ultima fase di un programma satellitare prodotto congiuntamente, nonché un impegno per facilitare le start-up brasiliane a commercializzare i loro prodotti in Cina e un piano per creare un binazionale azienda di logistica agricola.

Molte delle idee annunciate “sono ancora intenzioni” piuttosto che piani concreti, come ha detto a Foreign Policy l’economista Paulo Morceiro dell’Università di Johannesburg , “ma è generalmente positivo”. Ha detto che il Brasile dovrebbe trarre vantaggio dal fatto che ha molti dei minerali critici necessari per la transizione energetica, “e la Cina ha la tecnologia”.

Tuttavia, i frequenti discorsi dell’amministrazione Lula sulle nuove politiche industriali – in collaborazione o meno con la Cina – innervosiscono alcuni economisti. Tali politiche sono molto difficili da calibrare con successo, ha dichiarato a Foreign Policy l’economista Emanuel Ornelas della Fondazione Getúlio Vargas Ha detto che l’attuale discorso sulla politica industriale gli dà “un po’ di pelle d’oca” e ha aggiunto che la storia del Brasile è disseminata di politiche industriali fallite che hanno portato a industrie che sono state “protette per decenni e sono sopravvissute senza diventare competitive a livello internazionale”.

Indipendentemente da come Lula progetta le sue ultime politiche industriali, il governo non ha i soldi per lanciare i pacchetti di stimolo verde multimiliardari che vanno di moda negli Stati Uniti e in Europa. Quello che ha sono le materie prime, un mercato interno di 215 milioni di persone e, se si fa attenzione, la capacità di contrattare a livello internazionale.

https://foreignpolicy.com/2023/04/21/brazil-china-lula-xi-trade-lavrov-russia-ukraine/

 

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