Circa identità e universalismo: dialoghi repubblicani, di Alessandro Visalli

Prosegue il dibattito tra identità e universalismo con tutte le sue implicazioni riguardanti le scelte politiche strategiche di questi ultimi decenni. Un confronto che ha coinvolto in particolare, oltre all’autore dello scritto in calce e indirettamente il professor de la Grange, Roberto Buffagni e Massimo Morigi. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Circa identità e universalismo: dialoghi repubblicani.

https://tempofertile.blogspot.it/2018/03/circa-identita-e-universalismo-dialoghi.html

Su Italiaeilmondo, un dialogo con Roberto Buffagni, prima, e dopo con Massimo Morigi si sta sviluppando sulla linea del confronto tra tradizioni culturali e punti di vista diversi ma capaci di reciproco riconoscimento. La cosa era partita da un commento ai fatti di Macerata di Roberto Buffagni che avevo riletto nella mia tradizione come “scontro di secolarizzazioni”, dal quale è nata un’altra linea di dibattito interessante sulle pagine di Sinistrainrete (l’ultima puntata è questa); questo dibattito incrocia quello sulle “due Europe”, anche esso avviato da Buffagni, cui replicai con “lo scontro tra due europe” e quindi le repliche dello stesso Buffagni (qui e qui).

Ciò che è in questione nell’intreccio dei tre dialoghi è la questione della forma di universalismo verso la quale manifestare lealtà, entro il sistema di tensioni non risolte della nostra cultura e valutando le forze in campo, e la sua concrezione geopolitica nel progetto europeo e mondiale, da una parte, e nella risposta alla crescita (per ragioni interne che riassumo nello schema delle “due economie politiche”) della mobilità della ‘forza lavoro’, dall’altra. Si tratta di questioni dirimenti per il posizionamento politico contemporaneo.

Sulla linea dello “scontro di secolarizzazioni”, dunque sul registro dell’immigrazione, Massimo Morigi replica in “Considerazioni al margine” attraverso una densa lettura della tradizione politica italiana imperniata sul momento risorgimentale e nella fattispecie la figura di Mazzini. Commentando questo pezzo avevo quindi scritto “Identità e universalismo”, nel quale venivano richiamati pochi momenti della grande questione tra autenticità e autonomia che struttura il pensiero politico europeo dei moderni nella sua formazione (attraverso snodi come Rousseau, Kant, Herder ed Hegel, per dire), e viene ripresa ed attualizzata nel dibattito sul multiculturalismo negli anni novanta e in quello sul comunitarismo. Nella chiusa, in quelli che necessariamente anche per il mezzo possono essere solo pochi appunti volanti, avevo scritto che oggi l’unica teoria della giustizia possibile, dunque, è quella che è in qualche modo progettata (rischiosamente) a partire dalle caratteristiche che lo sviluppo storico concreto ha depositato nell’oggi, per come queste si sono date, cioè, dal sedimento dei conflitti e dei successi o fallimenti nell’ottenere riconoscimento da parte delle diverse soggettività.

Probabilmente anche l’unica possibile pratica politica.

Massimo Morigi risponde con un pezzo che riprende questi temi dal punto di vista del “repubblicanesimo geopolitico” e sceglie di manifestare “l’estrema e multilaterale debolezza” del mio argomento giudicato centrale: l’interpretazione di Charles Taylor della tensione tra autenticità e autonomia nella nostra cultura. E soprattutto la tesi del nostro che vi sia una discontinuità tra la lettura dell’autenticità come progetto, sia pure costantemente sfidato da eteronomia (in quanto è autentico in effetti chi non sottopone a riflessione l’essere in cui si trova collocato), dei moderni e quella delle generazioni precedenti. In altre parole, che l’identità sia da leggere in modo diverso per un moderno e per un uomo colto premoderno. Con le parole di Morigi:

Il passo di Visalli testè citato sembra quindi suggerire, assieme a tutto il tono del suo intervento, che il problema dell’identità dei popoli, e di riflesso degli individui che questi popoli compongono, ha inizio in epoca moderna, legato prevalentemente ai fenomeni di secolarizzazione e di progressiva riduzione della dimensione del sacro.

L’obiezione è che, se pure di nazione e della relativa identità si cominciò a parlare con un tono diverso anche a seguito della sfida napoleonica e in ambiente tedesco prima con Herder e poi con i “Discorsi alla nazione tedesca” di Fichte, in evidente polemica con l’universalismo illuminista (che con Napoleone era imperialismo, se visto dall’alto lato delle baionette), l’identità nazionale agonistica preesiste, e di molto. Gli esempi di Morigi sono i greci contro i persiani, gli ebrei, i romani, e quindi dell’idea di Italia che emerge nel medioevo (sia pure tra pochi intellettuali, tra i quali cita Dante e Baldassar Castiglione, o, ovviamente, Machiavelli).

D’altra parte l’interlocutore finisce per concordare con la conclusione:

Scrive Visalli in conclusione del suo pregevole commento al mio articolo: «L’unica teoria della giustizia possibile, dunque, è quella che è in qualche modo progettata (rischiosamente) a partire dalle caratteristiche che lo sviluppo storico concreto ha depositato nell’oggi, per come queste si sono date, cioè, dal sedimento dei conflitti e dei successi o fallimenti nell’ottenere riconoscimento da parte delle diverse soggettività. Probabilmente anche l’unica possibile pratica politica.» Per quanto da indegno erede del  crociano storicismo assoluto io sia del tutto hegelianamente diffidente verso ogni teoria, anche se sotto forma di ‘teoria della giustizia’, calata sulla “realtà effettuale”, non ho alcuna difficoltà a riconoscermi nello spirito di questa affermazione, il cui nucleo è il sacro rispetto che si deve avere di quell’ “astuzia della ragione” che consiste nel secolare deposito storico di aspirazioni e tradizioni apparentemente contraddittorie ma che proprio nella loro contraddittorietà – ed anche mutua violenza e volontà nel passato e, purtroppo, anche odierna, di sopprimersi – formano oggi, del tutto analogamente a come avviene per gli altri popoli, la nostra identità come individui e come popolo.

Tenendo per buono questo finale accordo, probabilmente conviene però spendere qualche parola sul contesto nel quale viene individuata la discontinuità tra moderni e classici che ha colpito Morigi. Sostiene infatti questi che sia “assolutamente da respingere come storicamente inesatta l’idea che i popoli per sviluppare ed avvertire una propria identità, …, abbiano dovuto aspettare il XVIII secolo”, e specificamente “di una identità avvertita come agonistica rispetto alle altre”.

Ora, ci sono molti modi di reagire a questa osservazione:

  •   – da una parte ‘l’agonismo’ tra le organizzazioni più o meno statuali e le nazioni è ovviamente un fatto della storia. Ma entrambi i termini sono anacronistici, se utilizzati prima della modernità nella quale si forma lo Stato-nazione, in riferimento alle entità politiche e società preesistenti.
  • Dall’altra la specie umana è sempre stata formata da individui, ma non sempre questi hanno concepito se stessi e i gruppi nei quali erano immersi nello stesso modo. Il legame sociale è sempre mutato e ancora muta portando con sé l’insieme delle istituzioni, dei valori e delle norme sociali, quindi anche le identità rese possibili da queste. Anche parlare di ‘popolo’, al singolare, prima della modernità contemporanea, con la potenza dei suoi mezzi di comunicazione, per dirne una, rischia di proiettare esperienze contemporanee sul passato in modo indebito.

Quel che possiamo provare a nominare come ‘i popoli’ (che poi a grandi linee sono solo le loro élite e le clientele ad esse connesse in vario modo, e quindi facenti parte del ‘modo di produzione’ tributario ad esse) hanno sempre sviluppato una loro specificità, e quindi ciò che oggi chiamiamo una loro ‘identità’, ma quanto ad avvertirla il passo non è sempre automatico. Parlare dei ‘greci’ (una realtà molto più fratturata di quanto ci piaccia sapere, e la cui tradizione ci viene trasmessa da pochissime fonti, quasi tutte ateniesi, relative a poco più di un secolo e praticamente tutte di parte aristocratica, a partire dalla linea principale dei filosofi e dei drammaturghi) come di un ‘popolo’ opposto ai ‘barbari’ (prendendo per buona la retorica imperiale ateniese e poi macedone) richiede una certa distanza, avvicinandosi l’immagine si frammenta. Egualmente per i ‘romani’, il non-stato più multiforme, politicamente, giuridicamente, etnicamente e culturalmente, dell’antichità.

Diciamo che bisognerebbe entrare molto dettagliatamente nel merito, ed interrogare le fonti con occhio ed orecchio attento alle differenze, che spesso baluginano nei dettagli, più che alle presunte somiglianze (che possono facilmente essere proiezioni).

Ma anche l’osservazione di Charles Taylor va ascoltata nel suo proprio contesto, ovvero entro l’ambiente di discorso al quale il filosofo e storico canadese reagisce. Intanto dalla disciplina principale nella quale interviene: filosofia morale. All’ambiente culturale: Oxford prima USA, dopo. Quindi al periodo: anni settanta per gli studi hegeliani, ottanta per la teoria del linguaggio e dell’azione, l’epistemologia, e poi teoria dell’identità moderna al finire degli anni ottanta, e storia delle idee negli anni a cavallo del millennio. I suoi libri più famosi sono “Hegel”, 1975, “Radici dell’Io”, del 1989, e “L’età secolare”, del 2009.

Si tratta di un autore che avvia la sua riflessione sulla scorta di quell’evento epocale che fu la pubblicazione di “Una teoria della giustizia” di John Rawls del 1971. La ripresa della più antica tradizione contrattualista, in aperta polemica con l’allora egemone teoria morale utilitarista, nel libro epocale di Rawls determina infatti negli anni seguenti una completa ridefinizione del campo. La teoria politica liberale ne viene del tutto riscritta; quella linea genealogica che aveva Hobbes e Locke come padri, poi Kant e J.S. Mill, è riaggiornata da Rawls tenendo fermi i suoi caposaldi: concezione naturalistica dei diritti, libertà individuale come non interferenza, autonomia in senso personale e non collettivo, eguaglianza di principio, democrazia. Ma viene creata anche una coerente cornice intellettuale per far posto a quelle modifiche che il novecento aveva imposto a partire dal new deal: le libertà positive e la redistribuzione, quindi per fare spazio alla ‘questione della giustizia’. Il liberalismo di Rawls fa infatti perno sulla questione dell’eguaglianza, la determina come problema, mentre il liberalismo utilitarista classico si limitava a porre la questione della ‘libertà’ (negativa). Le questioni che diventano rilevanti sono a questo punto soprattutto due: la neutralità o meno dello Stato rispetto a diverse visioni del bene; la natura dei beni che vanno redistribuiti. Del primo problema la discussione si sviluppa con Dworkin, Ackerman, Nagel, Scanlon, ma anche Nozick. Del secondo si discute con i proceduralisti, ad esempio con Ackerman e Habermas (ne avevamo parlato qui).

Ma su questo terreno nasce anche una diversa controversia che esce dal campo liberale, e in alcune versioni attacca direttamente l’impostazione neo-kantiana di Rawls facendo uso di argomenti neo-hegeliani. È un attacco dall’esterno (mentre il primo era dall’interno), ed impegna gli anni tra ottanta e novanta. Si tratta della ripresa di motivi classici, della teoria della virtù, o comunque non liberali, da parte di una nuova famiglia di critici che sono stati etichettati come ‘comunitari’. Gli autori più rilevanti sono Alasdair MacIntyre, di cui leggeremo “Dopo la virtù”, del 1981; Michael Walzer, di cui leggeremo “Sfere di giustizia”, del 1983; Michael Sandel, “Il liberalismo e i limiti della giustizia”, 1982. La tesi a grandissime linee è che non si può presumere, se si pone la questione della giustizia, che lo stato si mantenga neutrale tra opposte concezioni del bene, o della vita buona, perché queste costituiscono gli individui che sono sempre situati ed incarnati in esse.

Charles Taylor è un esponente di seconda generazione di questa reazione all’astratto proceduralismo liberale. Ciò che scrive sulle radici dell’io e la storia delle idee che lo hanno costituito nella modernità va quindi necessariamente inquadrato in questa polemica.

Per il nostro l’identità in senso moderno si caratterizza dall’avere contemporaneamente tre caratteristiche: la percezione dell’interiorità, l’affermazione della vita come comune ed in comune, l’idea della moralità come naturale. Nello spazio morale si determina quindi un ‘io’ quando riusciamo a comprendere che cosa sia per noi di importanza cruciale e quindi in un certo senso quando sappiamo ‘dove’ siamo. Quando diventa possibile assumere una posizione e trovarsi in un orizzonte nel quale possiamo stabilire, di volta in volta, e caso per caso, che cosa è da tenersi per buono, quindi cosa dobbiamo fare o avversare. In altre parole noi siamo in quanto ci stanno a cuore delle questioni e non altre, in quanto siamo dotati di autointerpretazioni che non sono completamente esplicite, e in quanto siamo immersi in relazioni. Nessuno può essere descritto senza fare riferimento a quelli che lo circondano (T., “Radici dell’io”, p. 52). Dunque l’io esiste solo all’interno di ‘reti di interlocuzione’, e non nell’astratto e disincarnato vuoto immaginato dai ‘diritti civili’ liberali. E non esiste staticamente, ma solo narrativamente, sapendo non solo ‘dove siamo’ ma anche ‘dove andiamo’ e ‘da dove’.

Anche Taylor, in effetti, sviluppa una critica allo scientismo di cui è imbevuto il liberalismo naturalista (e le scienze economiche) e valorizza la strategia di Aristotele (come MacIntyre), tendente a definire come ‘vita buona’ quella che “combina nel più alto grado possibile tutti i beni cui aspiriamo” (idem, p.93).

Ecco che la ‘meglior forma’ evocata da Morigi trova una possibile cornice: la ragion pratica evocata ha a che fare con il racconto biografico, con la possibilità, esercitando una forma narrativa di ragione, di mostrare che una data soluzione tiene insieme meglio ciò che ci è caro, risolve meglio le contraddizioni presenti, dissolve confusioni ricorrenti.

Nel capitolo dodicesimo del suo libro sulle radici dell’io Taylor compie una digressione sulla spiegazione storica che direttamente chiarisce il dubbio che Morigi avanza. Il percorso ricostruttivo nel quale indulge (parlando di Cartesio, Locke, Montaigne e via dicendo) non è né una spiegazione ‘idealista’ né una spiegazione storica strictu sensu. Non cerca di dimostrare causazioni diacroniche, come propone ad esempio il marxismo, ma cerca solo di enucleare quali caratteristiche siano state capaci di far affermare la nuova idea di identità (p.256). La relazione tra le idee-forza (ovvero capaci di motivazione e di emergere come parte della autointerpretazione narrativa) e i meccanismi di causazione, è dunque riconosciuta come complessa e passante per pratiche sociali concrete, per l’applicazione di ciò che si può o non può fare. L’ambizione non è di risolverla.

Il seguito vede un ampio racconto che passa per la razionalizzazione del cristianesimo, esemplificata e condensata da Locke e poi le teorie dei sentimenti morali della scuola scozzese, Shaftesbury, Hutcherson, dalla quale emerge la categoria ‘dell’economico’ come ordine provvidenziale (gioverebbe anche ricordare Genovesi) che si autoregola. Quindi per gli orizzonti frantumati della perdita di dio (cui dedica il ben più ponderoso “L’età secolare”) e l’illuminismo radicale nel quale si afferma una idea di ragione autoresponsabile, strettamente connessa con la nuova ragione scientifica (Newton) e con l’affermazione dell’utilitarismo (p.410). Per il ‘controilluminismo’ di Rousseau e la nozione di ‘autonomia’ messa a fuoco da Kant fissa l’ideale di essere razionali, ma anche per la svolta espressivistica di Herder (p. 459) e l’idea di avere in effetti delle profondità interiori.

Da Darwin muove quindi la definitiva affermazione di un ordine senza ordinatore che mette a sistema la visione morale dello scientismo, affermando la secolarizzazione, che si può riassumere nell’enunciato “non si deve credere ciò di cui non si hanno prove sufficienti”. Un concetto di drammatica importanza, nel definire ciò che può essere e ciò che invece deve recedere, che si fonda su due idee-forza per Taylor: la libertà come razionale autoespressione e l’eroismo dell’incredulità. Da qui emerge una sorta di esigenza morale rovesciata: quella di non credere.

Il passo successivo è l’espressionismo postromantico di Schiller, Baudelaire, Schopenauer e Kierkegaard, ma anche Dostoevskij e Nietzsche. E la ricerca di una via di uscita dal mondo meccanico in Husserl, Heidegger, Adorno.

Il punto per Taylor, nel contesto non di una ricerca storica ma di una rimemorazione delle radici dell’io (anche se la relazione causale è incerta e la stessa composizione multiforme) è che “una società di persone tese [solo] all’autorealizzazione e le cui affiliazioni vengono considerate sempre più come revocabili non può sostenere quell’identificazione forte con la comunità politica che la libertà pubblica richiede” (p.617).

Insomma, il punto è precisamente quello evocato nel post “Ripensare i fondamenti: ‘libertà’”: l’idea di libertà come egoismo non limitato, spesso connessa internamente con lo scientismo, è strutturalmente e geneticamente connessa con l’inibizione dell’azione collettiva e milita contro quella che Taylor chiama la “libertà pubblica”. La “libertà privata” atomistica impedisce l’affermazione della “libertà pubblica”, l’autorealizzazione individualista con la lealtà collettiva.

La questione è dunque politica.

SOVRANISMO E LIBERTA’ POLITICA, di Teodoro Klitsche de la Grange

SOVRANISMO E LIBERTÁ POLITICA

1.0 Se si chiedesse, in un’inchiesta demoscopica, a cosa fa pensare la parola “sovranità”, oltre a una maggioranza di risposte improbabili, qualcuno risponderebbe ad una “autorità che giudica con decisioni inappellabili su ogni possibile oggetto e rapporto”. L’elemento più importante di una simile “definizione” è il soggetto, ossia che si tratta di un’ “autorità”. E ciò coincide con la concezione della sovranità interna allo Stato (alla sintesi politica). Se tuttavia si analizzano meglio, dal lato esterno, gli elementi essenziali del concetto, è necessario introdurre, per ottenere una definizione esaustiva (che ne comprenda quanti più elementi essenziali), il termine “antitetico” ad autorità, e cioè libertà. E questa non è contraddizione ma complementarietà: nella storia la formazione di sintesi politiche (Stati) si è realizzata, verso l’interno con la riduzione-relativizzazione dei poteri intermedi e, in una certa misura, dei diritti individuali, ossia nella costruzione di un potere irresistibile; all’esterno, attraverso la rivendicazione della esistenza politica indipendente (ovvero libera da interferenze e rapporti ineguali) della comunità (dell’istituzione) che rivendicava la sovranità. La prima espressione politico-costituzionale di ciò l’offre la dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti: “Quando nel corso degli umani eventi si rende necessario ad un popolo sciogliere i vincoli politici che lo avevano legato ad un altro ed assumere tra le altre potenze della terra quel posto distinto ed eguale cui ha diritto per Legge naturale e divina…” Questa è conseguenza naturale del potere (pubblico, di cui la sovranità e la “figura” apicale) di avere in se quali “poli” autorità e libertà e di doverli contemperare, senza poterli eliminare. Come scriveva de Maistre, è connaturato allo spirito europeo gravitare verso “quello Stato in cui il governante governa il meno possibile, e il governato è meno possibile governato. Sempre in guardia contro i suoi padroni, l’europeo ora li ha scacciati, ora ha opposto loro delle leggi. Ha tentato di tutto, ha esaurito tutte le forme immaginabili di governo per fare a meno di padroni o per ridurre il loro potere” onde “il più grosso problema europeo è di sapere come si possa ridurre il potere sovrano senza distruggerlo”2. Il problema, sosteneva de Bonald, consiste nel fatto che il potere è per sua natura indipendente “Ogni potere è necessariamente indipendente dai soggetti sottoposti alla sua azione …. Potere e dipendenza si escludono l’un l’altro per definizione, come rotondo e quadrato”3; onde, sul piano interno (allo Stato) conciliare potere e controlli sul potere è arduo e si corre il rischio o l’indebolire troppo il primo o, di converso, i secondi4; perché, come riteneva de Bonald “il potere è esercitato in virtù di certe leggi che costituiscono il modo della sua esistenza e ne determinano la natura, e quando vien meno a queste leggi, pone in forse la sua esistenza, si snatura e cade nell’arbitrio”5.

2.0 Nella dottrina dello Stato borghese la sovranità come indipendenza dall’esterno è – come in ogni Stato sovrano – riconosciuta, senza alcuna differenza rilevante rispetto a quella dello Stato assoluto. Verso l’interno, invece, all’ “espropriazione/riduzione” dei poteri intermedi (connessa al principio di funzionalizzazione, per cui ogni potere pubblico è funzione, inalienabile ed inappropriabile da chiunque e attribuito alla sintesi politica) si accompagna la tutela dei diritti fondamentali (cioè della divisione Stato/società civile) e la distinzione dei poteri (nel senso di Montesquieu) con la conseguente giuridificazione dei rapporti di subordinazione/coordinazione tra potestà, organi, uffici pubblici. La combinazione del potere sovrano con i principi sopra ricordati dello Stato borghese ha fatto sì che l’esercizio delle manifestazioni peculiari di quello fosse confinato nell’emergenza: solo quando ricorre questa, l’“état de siége”, l’“ausnahmezustand” o la “necessità” di Santi Romano, il potere sovrano manifesta tutto il proprio carattere d’assolutezza e definitività con la sospensione (anche) dei diritti fondamentali e vistose deroghe a competenze e assetti degli organi pubblici. Ovviamente questo è il caso classico dell’ “eccezione che conferma la regola”, cioè che il sovrano, in applicazione del detto romano salus rei publicae suprema lex, ha il potere di sospendere – nelle parti più garantite – il diritto (e i diritti) vigenti ove l’esistenza della comunità lo richieda. Quanto all’aspetto esterno, i costruttori e i teorici dello Stato borghese, non avevano dubitato della sovranità della Nazione: a partire da chi, come Sieyès ne aveva fatto il centro delle rivendicazioni rivoluzionarie, e dal Comitato di salute pubblica de “La patrie en danger”; fino ai liberali e ai mazziniani del Risorgimento che volevano costituire, e costituirono, lo Stato quale istituzione politica della comunità nazionale, in un ordine internazionale in cui questa assumeva il proprio posto, uguale e libero come e tra le altre. Giustamente Benedetto Croce sosteneva che il capolavoro del liberalismo dell’‘800 fosse il Risorgimento italiano6; con esso si costituirono insieme lo Stato nazionale (altrove opera della monarchia assoluta) e liberale: la sovranità (nell’ordinamento internazionale) e la libertà individuale e sociale. Comunque nel pensiero liberale si è spesso fatta strada l’idea – peraltro tutt’altro che peregrina, attesi gli eccessi della rivoluzione francese, che, come scriveva Orlando “indebolire il potere è rinforzare la libertà”7, e che è l’esatto opposto di quello che pensava Hegel ossia “che lo Stato è la realtà della libertà concreta”8. Nel XIX secolo tuttavia la conciliazione delle istanze della borghesia, integrata nelle strutture dello Stato attraverso (soprattutto) i Parlamenti e ilcarattere (relativamente) moderato della lotta politica fece si che la “contraddizione” autorità/liberta non fosse collocata ai posti prioritari dell’agenda politica. Nella prima metà del ‘900 si cercò di “conciliare” altrimenti il rapporto, eliminando (o credendo) di eliminare le sovranità. Come scrive Schmitt nella Politische theologie, furono in particolare Kelsen e Krabbe a sostenere ciò9 e il giurista di Plettemberg lo considerava conseguenza (logica) dell’ideologia liberale10. Altra conseguenza di un liberalismo debole contemporaneo è la dottrina del c.d. “neocostituzionalismo”, del quale L. M. Bandieri in un denso saggio11 sostiene essere un normativismo di valori e non di norme.

3.0 Il c.d. “sovranismo” (male assoluto – almeno secondo le classi dirigenti in affanno), non è né contrario alla concezione liberal-borghese, almeno nelle sue connotazioni tradizionali (sopraricordate), né oppressivo della libertà, almeno se inteso come normalmente sembrano intenderlo i “sovranisti”, ossia quale difesa della autodeterminazione e dell’identità dei popoli. Tantomeno è poi contrapposto alla democrazia, anzi ne è conseguenza necessaria. Quanto al primo aspetto è chiaro che altro è compulsare delle libertà civili e politiche all’interno, altro è deciderlo per proteggere la comunità dalle aggressioni e interferenze esterne. L’ultimo esempio di ciò è stato l’ Ètat d’urgence deciso da Hollande (certo non un sovranista) in Francia: è vero che comporta, come tutte le emergenze delle limitazioni alla libertà, ma, a parte la prassi consolidata al riguardo (anche delle liberaldemocrazie), cioè che lo distingue da situazioni apparentemente analoghe (regime dei colonnelli et similia) è lo scopo: li è di sopprimere la libertà, qua di conservarne gran parte, limitandone strettamente necessario12.

4.0 Scriveva S. Tommaso che è libero chi è causa di se (del suo): liber est qui causa sui est13. Tale definizione metafisica della libertà pare la più adatta per significare essenza e condizione della sovranità. In tal senso il concetto di “suità” che se ne ricava corrisponde a quanto scrive Santi Romano per distinguere tra istituzione “perfetta” a quella che non lo è “Ci sono istituzioni che s’affermano perfette, che bastano, almeno fondamentalmente, a se medesime, che hanno pienezza di mezzi per conseguire scopi che sono loro esclusivi. Ce ne sono altre imperfette o meno perfette, che si appoggiano a istituzioni diverse, e ciò in vario senso. Può darsi infatti che a quest’ultimo esse siano soltanto coordinate; talvolta invece si hanno enti maggiori in cui le prime si comprendono e a cui sono subordinate”.14 D’altra parte sempre l’Aquinate sosteneva che è servo chi è di altri (servus autem est, qui id quod est, alterius est); e – commentando la “Politica” di Aristotele – la comunità politica perfetta è quella ordinata a garantire i mezzi ad un’esistenza indipendente. Anche Bodin scriveva che sovrano è chi non dipende da altri15. Applicando tali criteri non sono né libere, né comunità perfette quelle che giuridicamente e politicamente dipendono da altri e pertanto non hanno la piena disponibilità di determinare i propri scopi né i mezzi per conseguirli. Questa, in diritto internazionale, era la condizione degli Stati sotto protettorato al tempo del colonialismo.

5.0 E questa indipendenza intesa come libera auto-determinazione e quindi indipendenza da altri, è l’essenza delle rivendicazioni sovraniste. Anche se spesso i leaders politici identitari insistono su una pluralità di aspetti e di criteri differenziali (in particolare culturali, religiosi ed etnici) atti a discriminare tra cittadini e non, la suità, come libera autodeterminazione delle comunità e quindi degli scopi e dei mezzi appare il punto d’Archimede della loro concezione. E non solo perché la composizione di un’unità politica, la concessione della cittadinanza a gruppi di non-cittadini alterano il tutto, ma perché se sono libera determinazione della volontà comunitaria, non ledono il principio dell’essere causa sui. Occorre, per chiarire il tutto, ricordare quanto sosteneva Renan nella celebre conferenza Qu’est-ce-que une nation? e adattarlo mutatis mutandi alla questione. Dopo aver affermato che “l’essenza di una nazione sta nel fatto che tutti i suoi individui condividano un patrimonio comune”; patrimonio che consiste di più legati: etnia, religione, lingua, geografia, comunanza d’interessi. Ma questo, prosegue Renan, non esaurisce quanto necessario per costituire una nazione. “Una nazione è un’anima, un principio spirituale. Due cose, le quali in realtà sono una stessa cosa sola, costituiscono quest’anima e questo principio spirituale: una è nel passato, l’altra è nel presente. Una è un comune possesso di una ricca eredità di ricordi: l’altra è il consenso presente, il desiderio di vivere insieme, la volontà di continuare a far valere l’eredità ricevuta indivisa. L’uomo, signori, non s’improvvisa”. La nazione “Presuppone un passato, ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme. L’esistenza di una nazione è (mi si perdoni la metafora) un plebiscito di tutti i giorni” perché “L’uomo non è schiavo né della propria razza, né della lingua, né della religione, né del corso dei fiumi, né della direzione delle catene montagnose. Una grande aggregazione di uomini, sana di spirito e generosa di cuore, crea una coscienza morale che si chiama nazione”. E chiarisce ulteriormente cosa intendeva “Se si sollevano dubbi sulle frontiere, consultate le popolazioni coinvolte. Esse hanno ben diritto di dare un parere sulla questione. Ecco una cosa che farà sorridere i geni della politica, quegli esseri infallibili che passano la vita a sbagliare e che, dall’alto dei loro superiori principi hanno compassione della nostra modesta proposta. Consultare le popolazioni! Quale ingenuità! È proprio una di quelle misere idee francesi che pretenderebbero di sostituire la diplomazia e la guerra con mezzi di così infantile semplicità”.

6.0 La sovranità è necessaria per avere un futuro comune; lo è ancor più per decidere quale debba essere. Se è democratica, non può prescindere dalla volontà popolare. E d’altra parte le volontà “altre” nel modo contemporaneo sono meno quelle degli altri Stati che dei cosiddetti “poteri forti”, la cui caratteristica comune – che accomuna chiese e logge, sindacati e corporazioni – è di non essere democratici (quasi sempre), e sempre se ci riferisce alla volontà sovrana nella sintesi politica. Non si capisce di converso, come sia possibile determinare un destino comune di un mondo globalizzato, in cui manca sia la comunità, e più ancora, un’istituzione politica credibile e responsabile. Nel noto saggio Impero di A. Negri e M. Hardt, la forma di governo dell’ “Impero” consiste in una nebulosa fatta di organizzazioni internazionali, lobby, FMI, Banca mondiale, sette, clubs, imprese multinazionali, in effetti prive di forma, intesa questa nel senso di un’istituzione capace di determinare pubblicamente e responsabilmente scopi (e mezzi) dell’esistenza comunitaria e dotata delle capacità e attribuzioni conferite all’uopo. Tutte cose che si trovano in uno Stato sovrano ben ordinato e perfino in Stati relativamente disordinati, ma che non è dato percepire e distinguere in un quid senza forma e responsabilità. Per cui, in mancanza di alternative reali, è meglio tenersi il vecchio: Stato sovrano, democrazia e responsabilità dei governanti verso i governati.

NOTE

1  conclude “Noi, pertanto, rappresentanti degli Stati Uniti d’Americo, riuniti in Congresso generale, appellandoci al Supremo Giudice dell’universo quanto alla rettitudine delle nostre intenzioni , solennemente proclamiamo e dichiariamo, in nome e per autorità dei buoni Popoli di queste Colonie, che queste Colonie Unite sono, e devono di diritto essere Stati liberi e indipendenti; che sono disciolte da ogni dovere di fedeltà verso la Corona britannica e che ogni vincolo politico fra di esse e lo Stato di Gran Bretagna è e dev’essere del tutto reciso; e che quali Stati Liberi e Indipendenti, esse avranno pieno potere di muovere guerra, di concludere la pace, di stipulare alleanze, di regolare il commercio, e di compiere tutti quegli altri atti che gli Stati Indipendenti possono di diritto compiere” (il corsivo è mio).

2 Du Pape, I

3 Observations sur l’ouvrage De M. me La Baronne De Staël trad. it. « La costituzione come esistenza » Roma 1985 p. 51.

4 Va da se che, in uno Stato liberale il problema è insopprimibile, perché, come scritto nel “Federalista” dato che gli uomini non sono angeli e non sono angeli i governanti occorrono sia i governi che i controlli sui governi.

5 Op. loc. cit.

6 “Se per la storia politica si potesse parlare di capolavori come per le opere dell’arte, il processo della indipendenza, libertà e unità d’Italia meriterebbe di esser detto il capolavoro dei movimenti liberali-nazionali del secolo decimo-nono: tanto ammirevole si vide in esso la contemperanza dei vari elementi, il rispetto dell’antico e l’innovare profondo, la prudenza sagace degli uomini di stato e l’impeto dei rivoluzionari e dei volontari, l’ardimento e la moderazione; tanto flessibile e coerente la logicità onde si svolse e pervenne al suo fine” Storia d’Europa nel secolo IXI, p. 224, Bari 1938.

7 Più estesamente “Gli Stati moderni europei retti con forme libere, sono detti per antonomasia rappresentativi, ma non è men vero che tutti gli Stati rappresentino il popolo, qualunque sia la loro forma. Ed è un altro pregiudizio che da quello deriva e che i casi speciali dell’epoca presente han coltivato, il credere il popolo continuamente in opposizione, anzi in lotta col governo, tendendo a strappargli dei diritti che esso gelosamente contende. In conseguenza, come disse, il Laveleye, pei liberali della vecchia scuola, indebolire il potere è rinforzare la libertà” in Diritto pubblico generale, Milano 1954, p. 572.

8 V. Lineamenti di filosofia del diritto, § 260.

9 V. riportiamo i passi salienti delle critiche di Schmitt “Kelsen risolve il problema del concetto di sovranità semplicemente negandolo. La conclusione delle sue deduzioni è «Il concetto di sovranità dev’essere radicalmente eliminato». Di fattosi tratta ancora dell’antica negazione liberale dello Stato nei confronti del diritto e dell’ignoranza del problema autonomo della realizzazione del diritto. Questa concezione ha trovato un rappresentante significativo in H. Krabbe, la cui dottrina della sovranità del diritto riposa sulla tesi che ad essere sovrano non è lo Stato, bensì il diritto. Kelsen sembra scorgere in lui solo un precursore della sua dottrina dell’identità di Stato ed ordinamento giuridico. In verità la teoria di Krabbe ha una radice ideologica comune con il risultato di Kelsen”; secondo Krabbe “Lo Stato ha solo il compito di «costruire» il diritto: cioè di fissare il valore giuridico degli interessi … Lo Stato viene ridotto esclusivamente alla produzione del diritto” in Polische Theologie I, trad. it. in Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 56.

10 Ma l’altra conseguenza logica, a considerare il liberalismo nel suo complesso, nella storia e nella prassi, e non solo quale “tipo ideale”, è proprio la tesi di Schmitt che iscrive lo Stato liberale nella categoria dello status mixtus quale compromesso tra principi di forma politica e principi dello Stato borghese, v. in particolare Verfassungslehere trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1984, p. 171 ss. ed anche 265 ss. di cui si ricorda il passo saliente “I principi della libertà borghese possono ben modificare e temperare uno Stato, ma da soli non fondano una forma politica. «La libertà non costituisce nulla», come ha detto giustamente Mazzini. Da ciò segue che in ogni costituzione con l’elemento dello Stato di diritto è connesso e misto un secondo elemento di principi politico-formali”.

11 Pubblicato in italiano su Behemoth (on-line) n. 54.

12 “In un certo senso è adattabile al rapporto tra stato d’emergenza in un senso o nell’altro, questo scriveva V. E. Orlando sull’ “atto politico”. Ossia che a distinguerlo dal semplice atto amministrativo era assai più lo scopo che la “natura” dell’atto “Bensì la distinzione acquista un’importanza effettiva, quando il carattere politico che vuolsi attribuire all’atto dipende non tanto dalla natura di esso quanto dallo scopo cui, a torto o a ragione, si dicono diretti: noi accenniamo a quegli atti del potere esecutivo che infrangono le leggi sotto l’impulso di una pubblica necessità, assumendo per gistificazione il motto: salus reipubblicae suprema lex. Non è qui certamente luogo adatto per discutere la teoria di tali atti motivati da urgente necessità politica”. V. Digesto Italiano Contenzioso amministrativo” vol. VIII p. 925

13 De regimine principum I, 1.

14 Santi Romano, L’ordinamento giuridico, rist. Firenze 1967, p. 38 (il corsivo è mio).

15 I sei libri della Repubblica, Torino 1988, p. 407.

Teodoro Klitsche de la Grange

L’Italia nella transizione globale ed epocale, di Gennaro Scala

Qui sotto un contributo alla lettura, offerta dal sociologo Gennaro Scala, delle recenti vicende politiche italiane alla luce delle dinamiche di conflitto e confronto geopolitico. Buona lettura_Germinario Giuseppe

L’Italia nella transizione globale ed epocale*

Siamo nel pieno di una transizione che è allo stesso tempo globale ed epocale. Per comprendere tale transizione dobbiamo ritornare indietro, fino alla nascita del mondo moderno che avviene proprio in Italia, precisamente nelle città di Venezia, Genova, Milano e Firenze, e che mostra già in Venezia una vocazione all’espansione commerciale a-territoriale e priva di limiti. Lo storico marxista e globalista Immanuel Wallerstein esaltava nel suo I volume sul “moderno sistema-mondo” quale dimostrazione di precoce modernità e “grande saggezza” la decisione di Venezia, che aveva dato un contributo decisivo alla sconfitta di Costantinopoli, attraverso la flotta e il finanziamento commerciale della IV crociata, di non assumersi l’eredità dell’Impero bizantino, preferendo piuttosto assicurarsi solo lo sbocco sui principali porti commerciali. Dopo la sconfitta delle città italiane, all’inizio del XVI secolo, la palla passerà alle altre potenze dell’epoca, che seppur meno ricche delle città italiane (secondo Braudel la sola Genova ancora nel XVI secolo aveva una ricchezza maggiore dell’intera Francia), ma che erano riuscite, a differenza dell’Italia, a costituirsi come stato unitario (vedi in merito la fondamentale correzione di Charles Tilly al metodo marxiano che insieme alla concentrazione del capitale considera la concentrazione del potere coercitivo – Stato – quale seconda variabile decisiva per la comprensione delle dinamiche delle società moderne.) Con la progressiva scomparsa dell’eredità del Sacro Romano Impero, le due principali potenze, il cui conflitto determinerà le sorti dell’Europa saranno la Francia e l’Inghilterra, il cui secolare conflitto si concluderà con la sconfitta di Napoleone e con la vittoria delle tendenze centrifughe all’interno dell’Europa, cioè con la tendenza a risolvere i conflitti interni dell’Europa attraverso l’espansione esterna che diventerà globale, mentre le tendenze centripete (cioè volte al raggiungimento di un ordine interno all’Europa), troveranno in Napoleone la maggiore quanto inadeguata espressione, a causa dell’approccio fondamentalmente militaristico (vedi in merito il fondamentale lavoro di Victoria Tin-Bor Hui, War and State Formation in Ancient China and Early Modern Europe).

Con straordinario intuito il grande storico inglese Arnold Toynbee, considerato che quando scrisse il suo libro Civiltà al paragone, qualche anno dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’Unione Sovietica, appena uscita vincitrice dalla II guerra mondiale, sembrava costituirsi come l’affermarsi in scena di una potenza “comunista” stabile, ipotizzò che in realtà il comunismo era stato il modo in cui la civiltà russa-ortodossa aveva reagito ad una minaccia mortale, attraverso l’adozione di un’ideologia frutto della crisi della civiltà europea. Sia la civiltà russa-ortodossa che la civiltà sinica sono uscite vincitrici dalla prova del fuoco della modernità, adottando tramite delle rivoluzioni, gli aspetti delle società occidentali necessari al fine di costituire quella potenza industriale e militare atta a far fronte all’espansionismo occidentale. Mentre non sono riuscite a superare questa prova la civiltà islamica e la civiltà africana, il che sarà fonte di enormi problemi in futuro (ad es. il fatto che il continente africano sia in piena espansione demografica, si ritiene che raddoppierà la popolazione in trenta anni, va vista all’interno di un conflitto demografico tra civiltà).

Dopo il “crollo dell’Unione Sovietica” era sembrato alla potenza guida dei paesi occidentali che si potesse rilanciare l’espansionismo globale e che gli Usa, con l’alleanza dell’Europa, potessero diventare l’unica potenza globale. Invece, come già oggi evidente, era stato solo un processo attraverso cui la Russia si era liberata dell’involucro comunista, utilizzato all’uopo per far fronte alla “minaccia mortale” di cui parlava Toynbee, ma non più adeguato agli scopi della potenza russa. Quindi il “crollo del comunismo” è stata una crisi di trasformazione che ha riportato sulla scena mondiale la potenza russa senza più i limiti dell’ideologia comunista.

Con la crisi del mondo bipolare Usa-Urss (iniziato prima del “crollo del muro” vero e proprio, quando già, a chi ha strumenti di informazioni più efficaci rispetto ai mass media, l’Unione Sovietica appariva in crisi irreversibile) le classi dominanti occidentali avevano perso lo stimolo fondamentale che aveva portato, fino alla fine degli anni sessanta a curare l’ordine interno, il consenso e l’inclusione della classi popolari (termine con cui intendo sia le classi medie che inferiori)e a trattare con le loro rivendicazioni. Iniziava la lunga fase del cosiddetto neo-liberismo che è stato soprattutto un lungo e micidiale attacco alle conquiste delle classi popolari, mirante alla loro esclusione e subordinazione (il vero obiettivo della precarizzazione dei rapporti di lavoro). Questo attacco è stato dovuto al fatto che le classi dominanti occidentali, scomparso il loro nemico principale, hanno ritenuto che non fosse più necessario conservare il consenso all’interno.

L’epoca seguita al crollo dell’Unione Sovietica è già terminata. Con il progressivo ritorno in scena della potenza russa, chiaritosi definitivamente con il decisivo intervento nella crisi siriana che ha evitato alla Siria una sorte simile a quella dell’Iraq, della Jugoslavia e della Libia, si è visto che gli Usa, come guida del mondo “occidentale”, non possono aspirare ad essere l’unica potenza mondiale. Essi dovranno fare i conti con l’esistenza della Russia e della Cina.

L’Italia è un pezzo minore, seppur non del tutto marginale, dell’Occidente. Queste elezioni italiane che hanno visto il prevalere dei partiti “populisti” vanno viste in questa fase di transizione di cui una tappa, sicuramente più importante, sono state le elezioni statunitensi che hanno visto la vittoria di Trump (il cui significato anch’esso epocale, quale fine dell’epoca della globalizzazione, ho cercato di delineare in un intervento in occasione della vittoria di Trump*). L’Italia mostra una fase avanzata di questa crisi all’interno delle nazioni europee, mentre in altre essa sembra ancora ad uno stadio iniziale, anche se il sistema politico ad es. della Germania, con l’allenza tra CDU e SPD, è già entrato in una crisi profonda. Il “populismo” è un riflesso di questa trasformazione in corso, che rende necessario curare l’ordine interno e l’inclusione delle classi popolari. Anche se il “populismo” la rappresenta in modo del tutto inadeguato, e di meglio non ci si poteva aspettare, data la distruzione di ogni cultura, non solo politica, un vero e proprio rimbecillimento collettivo, che si è avuto in questi ultimi decenni in “occidente” Mentre il “protezionismo” è necessario per difendere le industrie occidentali dalla globalizzazione che si è rivelata un boomerang (è oggi la Cina a dichiararsi a favore della globalizzazione). E’ evidente che tanto la Lega che il M5S sono inadeguati ad affrontare i problemi del paese, tuttavia almeno con essi resta la possibilità di un miglioramento, mentre invece l’Italia sarebbe sicuramente affondata nelle mani dell'(anti)berlusconismo, cioè il sistema politico basato sulla pseudo-opzione berlusconi sì/berlusconi no che ha asfissiato il contesto politico italiano per vent’anni, mentre gli apparenti contendenti hanno poi finito per allearsi, con gli ultimi governi basati sul sostegno di Pd e Fi.

Il significato del “populismo” è questo: le classi dominanti devono capire che è necessaria un’inversione di rotta, verso la cura dell’ordine interno che recuperi il consenso delle classi popolari, se invece continuerà la disgregazione interna dei paesi occidentali essi perderanno la sfida globale del domani rispetto ad altre civiltà che sono più compatte per il fatto stesso che sono in crescita. Il rischio maggiore è che le classi dominanti non siano in grado di compiere questa inversione di rotta e vogliano invece risolvere questa crisi attraverso la Tecnica, cioè attraverso l’utilizzo di armi terribili (Putin ha detto qualche giorno fa con la massima chiarezza di essere in grado di neutralizzare, con la realizzazione di nuove armi tra cui un nuovo tipo di missile intercontinentale, questo obiettivo). Il compito comune della politica in “occidente” è oggi realizzare questa inversione di rotta, e il compito di tutte le persone di buona volontà in tutto il mondo è evitare i rischi immani di uno scontro di civiltà.

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* Questo intervento molto sintetico riprende, per quanto riguarda il quadro storico, alcuni temi trattati più ampiamente in altri scritti interventi pubblicati in internet, tra i quali principalmente:

Il paradigma machiavelliano oltre i soliti schemi ideologici
1) http://www.lintellettualedissidente.it/filosofia/niccolo-machiavelli-paradigma/
2) http://www.lintellettualedissidente.it/filosofia/niccolo-machiavelli-paradigma-2/

3) http://www.lintellettualedissidente.it/filosofia/niccolo-machiavelli-paradigma-3/

Ripensare la rivoluzione francese

http://www.opinione-pubblica.com/ripensare-la-rivoluzione-francese/

Il paradigma machiavelliano (video)

https://www.youtube.com/watch?v=cXIRTx6oMdQ

Per quanto riguarda l’analisi della vittoria di Trump

Endgame for globalization

https://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=58220

Replica a “identità e universalismo:un dialogo” dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico, di Massimo Morigi

Risposta  di Massimo Morigi dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico a Identità e universalismo: un dialogo  di Alessandro Visalli

Identità e universalismo: un dialogo, di Alessandro Visalli

 

Di Massimo Morigi

 

 

«Ahi serva Italia, di dolore ostello,/ nave sanza nocchiere in gran tempesta,/ non donna di province, ma bordello!» (Purgatorio: Canto VI,  vv. 76-78, Invettiva di Dante all’Italia e Firenze); «Ma non voglio che noi entriamo in ragionamenti di fastidio; però ben sarà dir degli abiti del nostro cortegiano; i quali io estimo che, pur che non siano fuor della consuetudine, né contrari alla professione, possano per lo resto tutti star bene, pur che satisfacciano a chi gli porta. Vero è ch’io per me amerei che non fossero estremi  in alcuna parte, come talor sòl essere il franzese in troppo grandezza e ’l tedesco in troppo piccolezza, ma come sono e l’uno e l’altro corretti e ridutti in meglior forma dagli Italiani. Piacemi ancor sempre che tendano un poco piú al grave e riposato, che al vano; però parmi che maggior grazia abbia nei vestimenti il color nero, che alcun altro; e se pur non è nero, che almen tenda al scuro; e questo intendo del vestir ordinario, perché non è dubbio che sopra l’arme piú si convengan colori aperti ed allegri, ed ancor gli abiti festivi, trinzati, pomposi e superbi.» (Baldassar Castiglione, Il Cortegiano, l. II,  Del conte Baldassarre a Messer Alfonso Ariosto, § XXVII, citato da Baldassarre Castiglione, Il libro del Cortegiano, a cura di Giulio Preti, Progetto Manuzio, 1° edizione elettronica del 19 marzo 1999, all’URL https://www.liberliber.it/mediateca/libri/c/castiglione/il_libro_del_cortegiano/pdf/il_lib_p.pdf, p. 64); «Non si debba, adunque, lasciare passare questa occasione, acciò che la Italia, dopo tanto tempo, vegga uno suo redentore. Né posso esprimere  con quale amore e’ fussi ricevuto in tutte quelle provincie che hanno patito per queste illuvioni esterne; con che sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime. Quali porte se gli  serrerebbano?  quali populi gli negherebbano la obedienza? quale invidia  se gli opporrebbe? quale Italiano gli negherebbe l’ossequio? A ognuno puzza questo barbaro dominio. Pigli, adunque, la illustre casa vostra questo assunto con quello animo e con quella speranza che si pigliano le imprese iuste; acciò che, sotto la sua insegna, e questa patria ne sia nobilitata, e, sotto li sua auspizi, si verifichi quel detto del Petrarca : ‹Virtù contro a furore / prenderà l’arme, e fia el combatter corto; / ché l’antico valore / nell’italici cor non è ancor morto.› »  (Niccolò Machiavelli, De principatibus, XXVI, Exhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam,  in Id., Tutte le opere, a cura di M. Martelli, Firenze, Sansoni, 1971, p. 298). Riferendosi al capitolo XXVI del Principe, l’ Exhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam, e come suggello del suo giudizio immensamente positivo  sull’importanza della figura del Segretario fiorentino espresso nei Quaderni non solo come   scienziato sempre animato dal proposito di risalire alla ‘verità effettuale’ della politica ma anche – se non soprattutto – come il più grande artefice del mito del ‘politico’, mito del ‘politico’ incarnato per Gramsci nella figura del Principe, figura mitologica che però per Gramsci non si esauriva, come invece credeva la critica coeva e come anche si continua ad affermare tuttoggi, in una vuota esaltazione leaderistica ma trovava la sua finale entelechia nel progetto di costituzione di un partito comunista che sapendo unire il momento intellettuale con quello politico si poneva come novello principe che sarebbe dovuto subentrare all’Italia fascista, operando sia un rivoluzionamento politico che di tipo culturale –  e riuscendo con questo ad ingenerare il fiorire di quella cultura nazional-popolare che la ritardata e stentata “nazionalizzazione delle masse” italiane non aveva consentito che operasse come fattore di progresso di queste stesse masse –, Antonio Gramsci scriveva nei suoi Quaderni: «Nella conclusione [del Principe ] il Machiavelli stesso si fa popolo, si confonde col popolo, ma non con un popolo genericamente inteso, ma col popolo che il Machiavelli ha convinto con la sua trattazione precedente, di cui egli diventa e si sente coscienza ed espressione, si sente medesimezza: pare che tutto il lavoro “logico” non sia che un’autoriflessione del popolo, un ragionamento interno, che si fa nella coscienza popolare e che ha la sua conclusione in un grido appassionato, immediato.» (Antonio Gramsci, Quaderni del carcere,  a cura di Valentino Gerratana,Torino, Einuadi, 1977, vol. III, p.1556). In sede di risposta alle riflessioni di Alessandro Visalli, Identità e universalismo: un dialogo, sul mio Considerazioni dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico a margine a Lettura sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni di Alessandro Visalli, che, come recita appunto il titolo, nasce originariamente come commento all’intervento di Visalli sull’ “Italia e il mondo” sul dramma di Macerata per poi divenire esso stesso un intervento autonomo, intervento autonomo al quale è seguito a sua volta il sopracitato commento di Visalli Identità e universalismo prima all’URL https://tempofertile.blogspot.it/2018/02/identita-e-universalismo-un-dialogo.html e poi su mio invito anche all’URL dell’ “Italia e il mondo” dove è postato il mio articolo originale ed  anche questo mio commento (URL:  http://italiaeilmondo.com/2018/02/23/considerazioni-a-margine-di-lettura-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni_-di-massimo-morigi/: WebCite: http://www.webcitation.org/6xcbBIQNN

e  http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F02%2F23%2Fconsiderazioni-a-margine-di-lettura-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni_-di-massimo-morigi%2F&date=2018-03-02 . P.S.  Molto opportunamente, al momento in cui questo commento viene postato, 2 marzo  2018,  il commento di Visalli non è più presso l’URL di “Italia e il mondo” sopraindicato e, all’interno dell’ “Italia e il mondo”, gli è stato così  fornito   un suo autonomo URL: http://italiaeilmondo.com/2018/03/01/identita-e-universalismo-un-dialogo-di-alessandro-visalli/ : WebCite: http://www.webcitation.org/6xcaJuM6L), di fronte al mio gentile interlocutore ma – soprattutto – di fronte ai lettori dell’ “Italia e il mondo” mi sono preso la libertà, accostando citazioni apparentemente disomogenee e appartenenti a periodi diversi,  di adottare una metodo può essere definito cubista e non contento di questo non solo ho citato anche un autore, Antonio Gramsci, che a sua volta commenta una precedente citazione,  l’ Exhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam dal Principe di Niccolò Machiavelli, ma ho anche, a chiusura di questa giostra di citazioni, commentato il commentatore dell’ Exhortatio, Antonio Gramsci, e come l’autore dei Quaderni utilizzò il Principe nella sua costruzione idealizzata e mitizzata del ruolo che avrebbe dovuto assumere il Partito comunista in un Italia liberata dal fascismo (ed anche dalla democrazia borghese). Di fronte al profondo intervento di Visalli è questa una strategia argomentativa palesemente inadeguata o, almeno apparentemente, non a tono se non fosse che, a mio giudizio, le pur pregevoli argomentazioni di Visalli riguardo il mio articolo ruotano attorno ad  un punto che per mostrarne l’estrema e multilaterale debolezza necessita di un “attacco”, appunto, con una visione multiprospettica cubista –  punctum dolens  che ora cito direttamente (e ci risiamo): «Nel contesto di questo dibattito Charles Taylor ricorda che la questione dell’identità per come noi la capiamo è figlia della modernità, ovvero della secolarizzazione. Infatti è il crollo delle gerarchie sociali fondate sull’onore (e quindi l’adesione al ruolo) che fa emergere l’idea di pari dignità e quella di avere una voce morale individuale. Qui si segue Rousseau fino a Herder, che mette a fuoco l’idea che ognuno ha un suo modo di essere uomo, una sua “misura”. Bisogna dunque essere principalmente fedeli a se stessi; a questo ideale è ancorata la ragione di essere della propria vita. Si tratta di un potente ideale morale, che implica anche il fatto che il modello al quale conformare la propria vita è rintracciabile solo in se stessi, non in un modello esterno. “Essere fedele a me stesso significa essere fedele alla mia originalità, cioè a una cosa che solo io posso articolare e scoprire; e articolandola definisco me stesso, realizzo una potenzialità che è mia in senso proprio” (Taylor, p.16). Questo concetto di autenticità si applica per Herder sia alla persona sia ai popoli. Al Volk che dovrebbe essere fedele alla propria cultura.» Il passo di Visalli testè citato sembra quindi suggerire, assieme a tutto il tono del suo intervento,  che il problema dell’identità dei popoli, e di riflesso degli individui che questi popoli compongono, ha inizio in epoca moderna, legato prevalentemente ai fenomeni di secolarizzazione e di progressiva riduzione della dimensione del sacro. Ora, ammettendo ben volentieri che di nazione, e di missioni o qualità dei popoli che queste nazioni esprimono, diventa un argomento discriminante e fondamentale nelle polemica politica e culturale in età moderna con Herder nel XVIII secolo (seguito dopo non molto, sempre in area germanica da Fichte con i  Discorsi alla nazione tedesca) ed in polemica con l’universalismo di stampo illuministico (e fra l’altro quando Mazzini parlava della missione speciale della futura Italia libera, unita e repubblicana, che era quella di costituire l’innesco per liberare similmente gli altri popoli, mutuava il concetto di missione delle nazioni da Herder), deve essere assolutamente respinta come storicamente inesatta l’idea che i popoli per sviluppare ed avvertire una propria identità, e parlo  di un’identità avvertita in maniera agonistica rispetto alle altre e per difendere la quale si deve anche ricorrere alla guerra se necessario, abbiano dovuto aspettare il XVIII secolo. Insomma, senza scavare nemmeno troppo a fondo nei ricordi scolastici e senza far spreco di inutile erudizione, i greci pensavano come barbari, cioè come gruppi umani i cui membri quando cercavano di parlare il greco balbettavano penosamente, tutti gli altri popoli e non è certo questo il luogo per approfondire l’importanza che ebbe la costruzione dell’immagine del barbaro sia per respingere i tentativi persiani di invadere l’Ellade sia per costruire il concetto di una propria identità speciale rispetto agli altri popoli, ritenuti “barbaramente” inferiori. Gli ebrei si sono sempre considerati il popolo del libro, l’unico popolo che era riuscito a costruire un rapporto diretto con il vero e unico Dio, e i romani consideravano una loro missione speciale incivilire il resto del mondo (ogni riferimento alla potenza statunitense è, ovviamente, scontata e del tutto non casuale). Si potrebbe continuare così con decine e decine di altri esempi ma siccome nel dialogo fra il sottoscritto e Visalli è soprattutto d’Italia che si parla veniamo così alla mia strategia comunicativa cubista che ha accostato vari autori italiani appartenenti ad epoche diverse ma che  uniti compongono una Gestalt storica e culturale del tutto inequivocabile. E questa Gestalt, ma a questo punto penso che il lettore non avrebbe bisogno di troppe spiegazioni, è che d’Italia, intesa non come una metternichiana “espressione geografica” ma  come territorio che contiene un popolo con una specifica identità e con specifiche qualità, si comincia a parlare sin dal Medioevo. Mazzini in gioventù scrisse un’operetta intitolata Dell’amor patrio di Dante, per la quale anche in periodo risorgimentale venne molto criticato perché si pensò, anche giustamente, che era del tutto antistorico attribuire a Dante, come suggeriva l’operetta, un desiderio patriottico di stampo risorgimentale (fra l’altro Dante, quando l’imperatore del Sacro Romano Impero Enrico VII di Lussemburgo invase l’Italia, egli lo considerò come un nuovo Carlomagno e per celebrare la calata in Italia dell’imperatore, egli scrisse il De monarchia, dove si riconosce l’impero come unica forma di governo in grado di garantire la pace e proponendo proprio Enrico VII come monarca universale: non proprio un Mazzini con la sua Delenda Austria). Ma non è assolutamente errato od antistorico affermare che già negli ambienti letterari dell’Italia del XIII secolo si pensasse all’Italia e alle qualità del suo popolo. Dante, comunque, se non fosse stato tanto influenzato dall’idea dell’esistenza storico-culturale dell’Italia non avrebbe evidentemente potuto scrivere il Canto VI del Purgatorio, con le sue invettive contro l’Italia e Firenze. Accanto a Dante ho voluto inserire Baldassar Castiglione e il suo Cortegiano. Ora presso il ceto intellettuale semicolto, che è prevalentemente di sinistra ma annovera valorosi esponenti anche a destra, non esiste opera maggiormente “sputtanata” – mi si passi il termine – del Cortegiano, dileggiata perché quest’opera non sarebbe altro che un tristo manualetto su come si deve atteggiare un cortigiano presso una corte. Il Cortegiano sarebbe quindi un libro di istruzione per chi ha un carattere servile e rifletterebbe la mentalità delle classi intellettuali quando il Rinascimento, a seguito delle invasioni straniere, stava velocemente e tristemente declinando.   Apparentemente la citazione tratta dal Cortegiano conferma questo pregiudizio. Vi si parla di una “meglior forma”  mostrata dagli italiani nel vestire rispetto agli altri popoli. Ma chi voglia fare solo “piccolo” lavoro storico e, andando oltre il sentito dire del ceto semicolto, legga quindi direttamente e senza prevenzioni politico-ideologiche tutto il Cortegiano, non tarderà ad accorgersi che tutta l’opera è una orgogliosa rivendicazione della “meglior forma” del popolo italiano rispetto alle altre  culture e agli altri popoli, e che la  “meglior forma” non è  altro che una particolare locuzione per mostrarci il vero centro   espressivo di tutta l’opera, la convinzione, cioè, della  distinta identità italiana rispetto agli altri popoli, una distinta identità degli italiani  la cui fiera rivendicazione  è il vero  Leitmotiv di tutto il Cortegiano. Di Machiavelli è sempre stato detto di tutto ed il suo contrario, e spesso se n’è detto male e ancor peggio di errato. Andando sempre ai ricordi scolastici, che dovevano scontare un’interpretazione di Machiavelli  impregnata di spirito antifascista e sostanzialmente negativa dal punto di vista morale del Segretario fiorentino – uno spirito antifascista ancor più dannoso che quando ci si scontra contro il fantomatico oggetto specifico da ripudiare, il fascismo, ma che, con una sorta di ‘effetto teleobiettivo’ che annulla ed appiattisce proprio l’intimo tessuto cronologico dello svolgimento storico pretendendo che la storia italiana inizi dal 25 aprile 1945, avvilisce, banalizza e falsifica tutto quanto è esistito prima di tale fatidica data e a farne le spese sono stati, per esempio, un Dante che mai pensò all’Italia o un Machiavelli sì grande scrittore politico realista ma assolutamente dimentico del concetto di patria –,  della machiavelliana Exhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam si diceva che non dimostrava assolutamente nessun amor patrio di Machiavelli ma era, semplicemente e banalmente, una tirata retorica di Machiavelli, insomma il risultato di una esercitazione letteraria che, se certamente era espressione della cultura retorico-letteraria italiana tardo-rinascismentale, non significava assolutamente nulla riguardo al giudizio di fondo che si doveva dare del  Principe  e del suo autore  riguardo all’Italia, che –  secondo questo singolare modo di interpretare il Segretario fiorentino macchiato dal frutto culturalmente più amaro e terribile dell’antifascismo, l’annichilimento, cioè, della dimensione storica – sarebbe stata del tutto assente dall’orizzonte culturale ed emotivo di Niccolò Machiavelli e del Principe. Ancor prima della nascita ed affermazione culturale ed editoriale dell’odierno neo-repubblicanesimo era intervenuto però un autore, Antonio Gramsci, che aveva posto la dialettica di  Machiavelli e della sua opera con i “piedi per terra”, facendo diventare il “nuovo principe” il mito ed il modello archetipo del costruendo Partito comunista,  implementando una filosofia della prassi  che, agendo  come una sorta di  nucleo  psichico organizzativo della personalità del PCI e operando attraverso la formazione della mentalità dei  quadri politici ed intellettuali del partito (marxiana filosofia della prassi per l’individuazione della quale come nucleo generatore del pensiero di Marx era stato fondamentale Giovanni Gentile e la sua magistrale interpretazione delle marxiane Glosse a Feuerbach, ma questo non è il luogo per approfondire la decisiva influenza che l’attualismo gentiliano ebbe per Gramsci e per tutta la sua generazione di rivoluzionari di sinistra: Angelo Tasca: «All’epoca dell’ Ordine Nuovo” si era tutti gentiliani» . Basti qui solo dire che per essere definiti di destra o di sinistra, ammesso che la distinzione abbia ancora una qualche importanza per comprendere l’odierno scontro strategico all’interno della società e quindi definire  conseguenti e razionali percorsi politici, è del tutto fuorviante trovare un indicatore decisivo nel fatto  che in sede di elaborazione teorica si utilizzino pensatori che ebbero storicamente questa o quella appartenenza politica: Gramsci era di destra?…), sarebbe stata mirata  a fornire   una “meglior forma” e al proletariato italiano e alla cultura nazional-popolare del nostro paese.  Siamo quindi ritornati al problema del percorso storico dell’identità italiana, fra invettive, esortazioni, forme migliori che partendo dalle ristrette – per quanto assolutamente consapevoli in termini di acquis culturale italiano – corti rinascimentali e velate dalla tristezza per la fine di un Rinascimento segnate dalle invasioni straniere arriva alla “meglior forma” identitaria che per Gramsci doveva sorgere con lo strumento della marxiana filosofia della prassi attraverso la redenzione del proletariato e la (ri)nascita di un’autentica cultura nazional-popolare. Scrive Visalli in conclusione del suo pregevole commento al mio articolo: «L’unica teoria della giustizia possibile, dunque, è quella che è in qualche modo progettata (rischiosamente) a partire dalle caratteristiche che lo sviluppo storico concreto ha depositato nell’oggi, per come queste si sono date, cioè, dal sedimento dei conflitti e dei successi o fallimenti nell’ottenere riconoscimento da parte delle diverse soggettività. Probabilmente anche l’unica possibile pratica politica.» Per quanto da indegno erede del  crociano storicismo assoluto io sia del tutto hegelianamente diffidente verso ogni teoria, anche se sotto forma di ‘teoria della giustizia’, calata sulla “realtà effettuale”, non ho alcuna difficoltà a riconoscermi nello spirito di questa affermazione, il cui nucleo è il sacro rispetto che si deve avere di quell’ “astuzia della ragione” che consiste nel secolare deposito storico di aspirazioni e tradizioni apparentemente contraddittorie ma che proprio nella loro contraddittorietà – ed anche mutua violenza e volontà nel passato e, purtroppo, anche odierna,   di sopprimersi – formano oggi, del tutto analogamente a come avviene per gli altri popoli, la nostra identità come individui e come popolo. E questo non significa affatto che siccome Machiavelli esortava a prendere le armi contro lo straniero, il demente sparacchiatore maceratese debba ritenersi un emulo del Segretario fiorentino; o che il riconoscere la fondamentale importanza nella definizione dei nostri problemi identitari e per l’elaborazione di una teoria autenticamente rivoluzionaria di un filosofo fascista trucidato nel corso dell’ultima guerra civile voglia dire per questo avere una visione reazionaria, o di destra che dir si voglia, di questi  problemi identitari e della conflittualità sociale. (Ho citato il Machiavelli del Principe e della Exhortatio ad capessendam Italiam in libertatemque a barbaris vindicandam: spero che per questo non si intenda che io pensi che l’odierno straniero presente irregolarmente sul nostro territorio debba venire cacciato al grido belluino: «Virtù contro a furore / prenderà l’arme, e fia el combatter corto; / ché l’antico valore / nell’italici cor non è ancor morto» o che attenendomi alla lettera di «Non si debba, adunque, lasciare passare questa occasione, acciò che la Italia, dopo tanto tempo, vegga uno suo redentore. Né posso esprimere  con quale amore e’ fussi ricevuto in tutte quelle provincie che hanno patito per queste illuvioni esterne; con che sete di vendetta, con che ostinata fede, con che pietà, con che lacrime. Quali porte se gli  serrerebbano?  quali populi gli negherebbano la obedienza? quale invidia  se gli opporrebbe? quale Italiano gli negherebbe l’ossequio?», si ritenga che si abbia in animo, attraverso il Repubblicanesimo Geopolitico, di far emergere dalle contraddizioni e dalla  intrinseca violenza  della storia la figura di un novello duca Valentino per ricostituire, sotto nuove ma sostanzialmente sempre le stesse modalità autoritarie e dittatoriali,  la forma di stato totalitaria che ha preceduto l’attuale Repubblica, E sia detto per inciso, quando Visalli mi attribuisce una sorta cecità storica nel mio paragonare, per giustificare il comportamento reattivo degli italiani nei loro riguardi,  gli attuali immigrati irregolari alle truppe di occupazione, in prevalenza croate, dell’impero Austroungarico, le quali avevano compiuto eccidi in Italia, il mio gentile interlocutore non tiene conto del fatto queste truppe obbedivano a precisi ordini  militari e non perché i Croati di per sé fossero particolarmente violenti o lontani dalla nostra cultura; mentre certo non si può dire che quella parte di immigrati irregolari che sul nostro territorio nazionale  causano problemi culturali  di integrazione e di ordine pubblico lo facciano sospinti da qualche ordine superiore: lo fanno semplicemente perché sono, appunto, di difficile od impossibile integrazione. Faccio inoltre presente che tutto si può dire dell’Impero Austroungarico tranne che fosse una forma di dominio inteso a distruggere – come per esempio  accadde con il Terzo Reich nei confronti delle popolazioni dell’Est Europa che avrebbero dovuto nei piani dei nazisti essere in gran parte annientate  per far posto alle popolazioni tedesche del Reich millenario –  le popolazioni del Lombardo Veneto; e quindi, contrariamente a quanto sembra suggerire Visalli, la popolazione italiana reagiva con i moti risorgimentali a questi occupanti non perché costituissero una minaccia contro la vita delle popolazioni – il governo Austroungarico era ottimo ed onestissimo e aveva livelli di efficienza amministrativa di livello incomparabilmente superiore a quello esercitato in seguito, ad unità raggiunta, dalla monarchia sabauda! –  o perché queste truppe avessero comportamenti di violenza bestiale ma, molto più semplicemente, perché  il dominio Austroungarico veniva avvertito – a torto o a ragione – una minaccia ed un insulto per l’identità nazionale, minaccia ed insulto costituito anche dall’attuale ondata migratoria di irregolari, verso i quali, però, non si vuole, come vorrebbe ironicamente intendere l’amico Visalli, intraprendere nessuna guerra guerreggiata modello risorgimentale ma, più semplicemente ed anche produttivamente, sviluppare un atteggiamento politico-culturale non viziato dalle fumisterie universalistiche: Mazzini pensava che l’uomo apparteneva ad una medesima umanità che lui scriveva con l’iniziale maiuscola. Ma depurato questo concetto del suo misticismo, questa Umanità con la U maiuscola non significa altro che tutti gli uomini condividono universalmente le stesse caratteristiche e quindi la stessa natura, che oggi  dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico viene definita natura dialettico-espressivo-conflittual-strategica. Ma questo importa assai poco. Quello che importa è che il riconoscimento in Mazzini di una umanità con universalmente le stesse qualità condivise, non significa che egli abbia ceduto al misticismo dell’ universalismo illuministico della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. Era anzi il suo contrario: la dimostrazione del suo estremo realismo antropologico, e poco importa che in Mazzini  ciò trovasse espressione in un lessico mistico: la mentalità di Mazzini fu, in nuce, sempre una mentalità strategica, il culmine di quella mentalità strategica che significa aver compreso che la storia umana – histoire événementielle, storia culturale e storia biologico-naturale – si svolge condividendo dialetticamente – e quindi strategicamente e vicendevolmente espressivamente –  la propria comune natura con gli altri uomini: insomma l’Umanità mazziniana trova il suo più illustre predecessore nello  Zoòn Politikòn di un certo Aristotele di Stagira …). Ma anche se espresse con diversi riferimenti culturali ed anche non condivise in singoli ancorché importanti punti prospettici, sono convinto che queste conclusioni rappresentino anche la “meglior forma” del cortese e profondo intervento di  Alessandro Visalli attorno ai miei ragionamenti sul caso di Macerata.

Massimo Morigi – 2 marzo 2018

 

 

 

LE PAGELLE DI UNA CAMPAGNA ELETTORALE, di Giuseppe Germinario

Tempo di pagelle alla vigilia dell’esame e del verdetto!

Due mesi di campagna elettorale serrata seguita ad oltre un anno di guerra di posizione e di campagna elettorale strisciante hanno rivelato molto sulla condizione dei partiti, sulle loro mutazioni e sulla qualità dei loro gruppi dirigenti. C’è chi riesce a brillare nelle piazze. Meno il M5S rispetto agli anni scorsi, di più la Lega e Fratelli d’Italia rispetto al recente passato. I più avveduti sanno da tempo ormai che non esiste necessariamente corrispondenza diretta tra piazze piene e pienone di voti. La partecipazione ad esse infatti non comporta adesione automatica della stessa folla nelle urne; il voto di interesse e di opinione segue inoltre infiniti altri canali di espressione e subisce numerose altre modalità di influenza. Dopo questo breve preambolo qui di seguito un giudizio sui principali partiti con una precisazione: il voto non deve indurre ad una previsione del responso elettorale ad esso corrispondente. Sono due livelli di analisi diversi.

MOVIMENTO 5 STELLE: voto 8

Il suo gruppo dirigente è stato il protagonista di un ragguardevole miracolo al limite del funambolismo. È riuscito a mimetizzare quasi completamente una radicale operazione trasformistica del proprio programma e del proprio sistema di relazioni cercando di intaccare il meno possibile il totem costitutivo della propria forza persuasiva: la formulazione dal basso nelle decisioni e nell’elaborazione della piattaforma politica. A partire dal referendum sulle riforme istituzionali del dicembre 2016 è partita la caccia al grande sconfitto: il PD renziano. Da quel momento è partita la campagna di costruzione del personaggio Di Maio-uomo di governo. Una campagna per nulla estemporanea; costruita sapientemente passo dopo passo, con un dispendio di mezzi considerevole e con una inedita capacità, rispetto agli altri contendenti, di utilizzo dei sistemi mediatici tradizionali e più innovativi. È stato certamente agevolato dall’esistenza di un alter ego, Alessandro Di Battista, tutto intento a rassicurare e vellicare le pulsioni dell’anima movimentista del M5S. Ha potuto altresì godere dell’assenza di interlocuzione e di confronti diretti con i propri avversari. Un primo banco di prova che avrebbe potuto mettere a nudo le sue effettive capacità di sostenere uno scontro politico. Ha approfittato dello scarso spessore degli attacchi tutti incentrati sull’onerosità del programma economico, paragonabile a quella degli altri partiti e sulla scarsa moralità e sull’incompetenza del gruppo dirigente, quasi a voler trascinare tutti pretestuosamente nello stesso girone infernale. Un atteggiamento distruttivo, quello degli avversari, in realtà autolesionistico e incapace di offrire una prospettiva positiva al paese. Sta di fatto che il successo mediatico e la capacità di imporre i temi e di rovesciare la posizione di difesa dagli attacchi sono inequivocabili. Di Maio, soprattutto lo staff che ha sapientemente organizzato la campagna, è riuscito sin da subito a smontare i possibili argomenti di critica e di attacco più insidiosi. Recandosi negli Stati Uniti ha cercato sostegni e investiture nei circoli che indirizzano e condizionano la politica italiana. Un pellegrinaggio ostentato e evenemenziale da parte sua, assiduo e discreto da parte del suo staff, soprattutto il suo mentore Casaleggio. Portandosi, successivamente, nelle sedi dei “poteri forti” finanziari e istituzionali europei con un intento rassicurante riguardo alle proprie intenzioni. Costruendosi, in televisione, nei suoi numerosi viaggi mirati nelle realtà produttive del paese, persino nei rari comizi, l’aplomb di “uomo delle istituzioni”, sino al vero e proprio colpo di teatro della presentazione dell’eventuale governo in caso di vittoria elettorale. Una costruzione dell’immagine alla quale ha corrisposto un progressivo e per quanto possibile discreto spostamento degli originari indirizzi politici radicali in materia di politica estera, riguardo all’atteggiamento verso l’Unione Europea, la NATO, la Russia e di politica economica, sempre più di stampo meramente keynesiano, velleitaria rispetto agli attuali vincoli sottoscritti, ma compatibili col dogma del sedicente libero mercato sul quale si fonda l’attuale edificio europeista. È stato il modo quasi geniale con il quale si sono smontati sul nascere gli argomenti di critica degli avversari; sia di quelli ortodossi rispetto alla vulgata europeista e occidentalista sia di quella eretica, ma paralizzata dalla scelta di appartenenza allo schieramento di centrodestra. Si vedrà se tale modo di conduzione porterà al partito i frutti sperati. Di certo questi frutti si riveleranno ancora una volta avvelenati per il paese e rimanderanno ancora una volta la possibilità di costruzione di una classe dirigente capace di tirare fuori la nazione dalle sabbie mobili nelle quali è sempre più impantanata. Non si può nemmeno dire che si tratti di una vera e propria operazione trasformistica; consiste, piuttosto, in un adeguamento pressoché fisiologico degli indirizzi e obbiettivi politici alla visione di fondo del movimento legata alla illusione partecipativa predominante dal basso, al decentramento esasperato, alla sopravvalutazione delle tematiche dell’economia circolare e dell’ecologia, ad una visione dello sviluppo tecnologico slegato dal ruolo delle grandi imprese e delle strategie politiche dei centri di potere, per non parlare della questione dell’immigrazione. Tutti approcci perfettamente compatibili, anche nel loro velleitarismo, con gli attuali assetti istituzionali in Europa e nel mondo occidentale. Una strategia che ha condotto fisiologicamente il confronto elettorale verso i temi più congeniali, ma anche fuorvianti, al movimento: la moralità, l’onestà. La composizione del governo proposta da Di Maio è tutta lì ad attestare questo assestamento. Personaggi di seconda linea, scelta pressoché obbligata, visto il rischio personale di tale esposizione così azzardata. Personalità in parte legate al mondo della cooperazione internazionale; alcune con legami espliciti con le fondazioni di Soros e dei centri finanziari più potenti, altre con i centri culturali di emanazione europeista, altre ancora di centri universitari di seconda linea ma con legami internazionali e orientamenti spesso espliciti. Figure che danno una impronta di governo tecnico gestibile efficacemente solo grazie all’autorità assoluta del capo politico del Governo, pena l’eterodirezione della compagine. Una qualità tutta da dimostrare e sinora rimasta quanto meno in ombra nel leader emergente. Il voto è limitato ad otto per un motivo semplice quanto essenziale. Il completo successo di immagine avrebbe dovuto comportare la trasformazione di Di Maio e del Movimento in un soggetto capace di “dominare” autorevolmente le masse piuttosto che di esserne o fingerne di essere imbevuto dalle masse. “Le phisique du role” del personaggio è tutto lì a svelarne i limiti. Le conseguenze di queste impronte sono prevedibili. Un movimento sempre più terra di conquista di interessi particolaristici e di piccoli potentati locali; una direzione sempre più bisognosa di investiture esterne, piuttosto che di capacità egemoniche proprie. Il progressivo disvelamento dell’anima sinistrorsa più deleteria della dirigenza di quel movimento, legata all’antiberlusconismo moralistico, più volte segnalata negli anni da questo sito, è tutta lì a tracciare la direzione delle future scelte politiche del movimento. Taluni assimilano questa ascesa all’esperienza di Macron in Francia. L’opacità dei centri ispiratori, l’assenza di forti centri di potere endogeni promotori sono lì invece ad attestarne limiti e diversità.

LEGA DI SALVINI: voto 7

Le capacità tribunizie sono indubbie, come pure quella di trascinare il partito verso la costruzione di una immagine “nazionale”. La Lega infatti ha riscoperto, almeno nel Centro-Nord del paese, una capacità di mobilitazione ormai riservata ai ricordi della vecchia dirigenza. Il limite, però, è visibile nell’atteggiamento compiaciuto di “buon padre di famiglia” assunto, in realtà probabilmente connaturato al leader. Una veste che rende per il momento poco credibile la sua rivendicazione di uomo di governo, se non addirittura di Stato, portatore di una svolta radicale praticabile. Il retaggio della Lega Nord, con le sue impronte identitarie localistiche, antinazionali e spesso razziste, è ancora particolarmente pesante all’interno e presente nella memoria del paese. Il ripiego di fondare il partito nazionale sulla base di una alleanza dei “popoli italici” è di una tale ambiguità da compromettere ancora la solidità del nuovo edificio e da far rientrare dalla finestra i demoni accompagnati alla porta del nuovo partito. Un percorso analogo a quello che sta percorrendo il Fronte Nazionale francese. L’accordo elettorale nel centrodestra, un passo probabilmente obbligato dalla condizione interna del partito, si sta rivelando un capestro che ha impedito di mettere a frutto la diversità e l’alternatività di buona parte dei punti presenti nel programma elettorale rispetto agli avversari dichiarati del PD ed occulti interni del centrodestra e rispetto ai competitori del M5S. Le occasioni per smarcarsi e qualificarsi, anche in questa campagna elettorale, non sono mancate, a cominciare dai fatti di Macerata, della ritirata ingloriosa della nave dell’ENI dalle coste di Cipro, dalle pesanti intromissioni dei vertici della UE; ma non sono state colte se non parzialmente e in maniera inadeguata rispetto alla postura che Salvini vorrebbe assumere. Le oscillazioni, si vedrà se tattiche o strategiche, ma comunque tendenti alla normalizzazione, rispetto alla politica estera, alle politiche comunitarie, a quella industriale, come pure l’impronta data alle politiche di riforma istituzionale ne minano la credibilità. Denotano ancora una volta una colpevole sottovalutazione, comune per altro a tutte le forze di opposizione organizzate, del fatto che conquistare voti, prendere la maggioranza elettorale, assumere le redini del governo non significa conseguentemente avere la possibilità di esercitare effettivamente il potere e mettere in opera i programmi, per quanto ben intenzionati e costruiti. A controbilanciare parzialmente questi limiti e questa deriva rimangono alcune candidature significative come quella di Bagnai, ma ad una condizione: l’acquisizione di credibilità attraverso la rottura postelettorale della coalizione con Forza Italia e l’assorbimento di una parte delle sue spoglie. È probabilmente questo il motivo per il quale Salvini spera in una dèbacle solo parziale del PD e nella formazione di un governo di unità nazionale a lui estraneo, ma comprensivo di Berlusconi o del M5S. In alternativa si assisterà al rapido declino dell’ennesima promessa del firmamento politico italiano non proprio esaltante

FRATELLI d’ITALIA: voto 6

Valgono in buona parte le stesse valutazioni su Salvini ma con un margine più positivo rispetto alla coerenza politica ed autonomia di giudizio rispetto a Berlusconi ed uno più negativo rispetto al carattere un po’ casereccio della conduzione e dell’immagine, solo in parte compensato da figure come Crosetto, ma gravemente compromesse da quelle come Larussa.

FORZA ITALIA e PARTITO DEMOCRATICO: voto 5

La prima paga il segno evidente del declino irreversibile fisico, morale e di credibilità del leader Berlusconi. Un tramonto non legato alla moralità e alle vicende giudiziarie, spesso di carattere persecutorio, del personaggio. Collegato soprattutto alle scelte opportunistiche, di vera e propria sottomissione e trasformismo, sfociato in collusione, delle sue scelte di politica estera, comunitaria ed interna specie a partire dal 2010. Sta coronando il senso della sua esistenza, ormai al limite dell’inverecondia e un po’ penosa, viste le condizioni della persona, con l’estremo tentativo di bloccare l’affermazione di forze, ancora troppo premature da definire sovraniste, ma quantomeno più autonome e reattive nelle scelte politiche di conduzione del paese. Ormai si avvicina sempre più alla funzione del nobile decaduto ormai impegnato ad orientare, eterodiretto, la suddivisione delle proprie spoglie politiche in cambio di una probabile parziale salvaguardia di quelle economico-finanziarie. Da qui la conduzione di una campagna incapace di imporre i temi, un filo conduttore unitario e con lunghe pause di lucidità.

La sopravvivenza della dirigenza del PD e il suo possibile procrastinarsi al responso elettorale è ormai legata alla suddivisione di queste spoglie. Il tandem ipotizzato tra la forza tranquilla espressa da Gentiloni e Minniti e l’atteggiamento d’assalto e ultraottimistico di Matteo Renzi si è rivelato in realtà una corsa in parallelo tra due atleti. Tanto più che la riconduzione alla passiva ortodossia europeista e la rapida constatazione della inconsistenza della forza dei pugni battuti da Renzi al tavolo di Bruxelles ha privato il leader, ormai opaco e debilitato, della prospettiva di cui è stato capace Macron in Francia. Quelo che pareva un destino parallelo con il leader francese, appare ormai come un surrogato caricaturale che non porterà niente di buono al paese. La campagna elettorale è apparsa motivata più da ragioni pretestuose nei confronti degli avversari, che dall’offerta di una prospettiva credibile al paese, comprensiva dei successi e dei tanti insuccessi e risultati nefasti. Si tratta di una lotta ormai per la vita o la morte. C’è l’ambizione di rigenerarsi parzialmente raccogliendo le spoglie di chi sta ancora peggio; c’è però il rischio evidente di diventare esso stesso una preda, sia nelle parti nobili che in quelle in via di putrefazione. I travasi che si stanno verificando, specie nel Mezzogiorno, come pure le alleanze elettorali, come con la Bonino prodiga di finanziamenti e di impegno specie nei collegi esteri, segnalano ben poco di buono.

LIBERI e UGUALI: voto 4

La realtà politica ha rivelato rapidamente la sua natura. Una sommatoria di sigle in declino ed incerte sugli indirizzi concreti. Hanno nascosto la condizione dietro una sommatoria di rivendicazioni sindacali e redistributive con il cappello dei diritti umani, del legalismo giudiziario e della fantomatica lotta ai poteri forti finanziari dietro i quali giustificare le solite alleanze politiche sia internazionali, in specie con il Partito Democratico americano, che interne. Un manifesto pretestuoso utile a mascherare l’intenzione di logorare il PD renziano e di riproporsi tra i commensali dell’arco costituzionale. Una ambiguità che sta impedendo loro di recuperare la gran parte del popolo sinistrorso e di offrire una rappresentazione scialba e spesso infantile della propria identità a beneficio esclusivo, nemmeno certo, delle carriere al tramonto e pittoresche di personaggi come Boldrini o malinconiche e nostalgiche, quali quelle di d’Alema e Bersani. Il resto è pura appendice.

Questi sono i voti, del tutto personali. A presto l’esito degli esami, quello più oggettivo.

I DETENTORI DELLA VERITA’ di Gianfranco Campa

 

LA NUOVA CENSURA NEL VENTRE DELLA BESTIA FUTURISTICA

 

Il nostro mondo, quello in cui viviamo quotidianamente è ormai costellato, segnato, manipolato dall’universo dell’alta tecnologia. Un mondo che ci ha dato le piattaforme tecnologiche e i social media che dominano la nostra vita, quella di tutti i giorni, che ci consegna qualsiasi cosa desideriamo, a volte con un solo tocco di dito. Dall’informazione, alla comunicazione, allo shopping, ai rapporti sociali fino a finire alla educazione, le nostre vite sono segnati dal tempo speso su Google,  Facebook, Twitter, Youtube, Amazon, Ebay e così via. Consciamente o inconsciamente, molti di noi dipendono dalla correttezza di queste entità nell’attività di comunicare, comprare, vendere, visionare e perché no, anche monetizzare.

C’è però  un aspetto molto losco, sgradevole in questo nuovo che avanza. Il centro di questo mondo, di questo universo, che sempre di più detta i passi, scandisce l’orologio della nostre vite è la Silicon Valley. Nell’ultimo decennio, questo pezzo di terra nella baia di San Francisco, si è erta non solo a guida ma anche ad arbitro, giudice, tribunale e se necessario, a cecchino delle idee e delle opinioni pubbliche, politiche e sociali. A grandi falcate le industrie della Silicon Valley, forti del loro potere mediatico persuasivo, si  sono erette ed autoelette come paladine , guardiane di una cultura progressiva-liberale-globalizzata che pervade ormai tutti gli aspetti, anche quelli più insignificanti della nostra società e come tale non accetta nessun compromesso, ma semplicemente detta le leggi, le regole delle “diversità” ideologiche. Ciò che è meglio per noi, ciò che è più salutare, piu` igienico per il bene comune viene deciso, letteralmente parlando, da un Mark Zuckerberg o un Sundar Pichai.

Negli ultimi due anni, da quando cioè Donald Trump è entrato in politica, scardinando quei dogma che ormai erano considerati radicati è venuta fuori la vera parte torbida della Silicon Valley. Involontariamente, senza accorgersene, con il suo politicamente scorretto, con il suo pomposo modo di fare, Trump ha esorcizzato il mondo della Silicon Valley, facendone uscire appunto la parte più tenebrosa, spogliandolo della sua aura di finta santità.  Così due anni fa sono cominciati i problemi, sono venute fuori le insofferenze, le intolleranze, l’odio di chi predica libertà di espressione, di comportamenti e di credenze. La Silicon Valley spalleggiata dall’apparato composto da mass media, stato ombra, società segrete, forze di intelligence, sistemi bancari, finanziari e via dicendo, ha mostrato il suo volto reale.

Da quando la Brexit ha scosso le certezze elitiste, da quando Trump è apparso sulla scena, da quando il “populismo” ha cominciato a dominare il discorso politico è immediatamente partita la controffensiva delle classi progressiste-liberali-globalizzate tesa a mettere a tacere qualsiasi voce contraria, dando così inizio alle persecuzioni.  Con il pretesto delle storie di Fake News, siti, blog, canali, voci conservatrici non allineate, si sono ritrovati bloccati, tagliati fuori dai motori di ricerca di Google, bannati da twitter, cancellati da Facebook, sospesi da youtube, hackerati dalle orde barbariche. Impiegati di google si sono ritrovati licenziati dal giorno alla notte solo per aver espresso un idea non conforme al resto dell’universo google. Siti e piattaforme digitali informative di “destra” sono stati costretti a cessare le loro attività.

Alcuni esempi: il 13 di Gennaio il sito web Right Wing News ha cessato le operazioni. Era un sito popolarissimo nell’ambito degli attivisti di destra. Nato nel 2001, era  diventato mastodontico grazie alle condivisioni e ai passaparola su Facebook. Nel luglio del 2015 la pagina Facebook di Right Wing News aveva raggiunto 133 milioni di persone. Il Right Wing News aveva quasi 3,6 milioni di “mi piace” su Facebook . Era, in termini di numeri, in diretta competizione  con i giganti giornalistici americani generando la stessa quantità di traffico web di alcuni dei più grandi giornali americani. Con la scusa delle Fake News e delle ingerenze Russe nelle elezioni presidenziali, Facebook ha cominciato a bloccare, oscurare i contenuti del sito, facendolo gradualmente, per non destare sospetti e quindi l’ira dei lettori. Un lavoro paziente, sistematico, metodico, portato a compimento nel lungo termine. Se Facebook avesse oscurato ogni pagina conservatrice da un giorno all’altro, ci sarebbe stata un’enorme protesta. Ironia della sorte, molti siti sono cresciuti grazie a Facebook e sono morti grazie a Facebook, in altre parole ciò che Facebook dà, Facebook può portare via. Senza una entità capace di sostenere con milioni di dollari un progetto mediatico serio, la monetizzazione proveniente da google, facebook, youtube e twitter non poggia su solide fondamenta poiché e`alla mercé dei furori umorali e ideologici della Silicon Valley.

C’è poi anche la storia della tattica del “Shadow Banning” usato da twitter. Storia-denuncia, portata alla luce dall’attivista conservatore James O’Keefe, direttore del Project Veritas, organizzazione che segretamente registra con audio e video incontri in incognito con figure e lavoratori di organizzazioni accademiche, governative, private e statali, di lucro e non, che esprimono o descrivono pregiudizi ai danni di persone, entità, organizzazioni conservatrici. Project Veritas ha esposto qualche tempo fa`, registrando segretamente, impiegati di Twitter che hanno ammesso come Twitter applichi lo “Shadow Banning” contro simpatizzanti e organizzazioni conservatrici di destra. Shadow Banning è anche noto come “Stealth Banning” oppure “Hell Banning” e viene usato per bloccare siti o utenti “indesiderati”. Per esempio viene comunemente usato anche da altri gestori di servizi online per bloccare i contenuti pubblicati dagli spammer. Twitter, in questo caso, invece di mettere al bando direttamente un utente, classifica i suoi contenuti come spam; il malcapitato viene quindi semplicemente “nascosto” alla vista pubblica. In molti casi i proprietari dei siti  “bannati” non si rendono nemmeno conto di essere stati oscurati.

Un altro esempio è quello del Prager University, una organizzazione mediatica conservatrice che genera video a scopo educativo. La piattaforma mediatica di Prager University è enormemente  popolare. I video di Prager sono visti da milioni di persone. Il canale youtube di Prager annovera più di 1, 2 milioni di iscritti. Alcuni video hanno generato milioni di visitatori, fino a 6,3 milioni di visioni per l’esattezza. Eppure anche Prager è rimasta vittima degli insofferenti cervelloni della silicon valley. Youtube per ridurre la monetizzazione al fine di minare l’esistenza di Prager  ha catalogato alcuni video di Prager inserendoli nella lista restrittiva; i video di Prager cioè non sono visibili nelle scuole, nelle biblioteche e in qualsiasi casa dove ci sia un filtro antipornografico, nonostante che Prager sia un sito assolutamente pulito. Prager ha risposto facendo causa a Google del quale youtube e una sussidiaria. La battaglia legale si preannuncia interessante e infuocata.  Un caso che verrà seguito da moltissime persone, entità e organizzazioni che hanno un interesse personale in questa vicenda. Youtube è una compagnia privata e quindi non legata agli obblighi costituzionali della libertà di parola. Gli avvocati di Prager cercheranno di argomentare che la piattaforma dei social media è l’equivalente di una nuova piazza pubblica; un posto in cui vai quando vuoi partecipare ad un evento pubblico; di conseguenza le disparità di trattamento sono da considerarsi discriminatorie. Sarà interessante vedere se gli avvocati di Prager riusciranno a convincere i giudici della logica di questo argomento.

E così mentre nella Silicon Valley sale in cattedra la censura, il lento, inesorabile, esodo di quei già pochi imprenditori e lavoratori che si definiscono di destra è cominciato. Quelli che rimangono lo fanno a loro esclusivo rischio; nel più benevolo dei casi di essere emarginati, nel peggiore di perdere il posto, licenziati senza se e senza ma.

Uno dei leggendari imprenditori della Silicon Valley, il fondatore di Paypal, membro del Consiglio di Amministrazione di Facebook, Peter Thiel è stato forse l’unico che ha sostenuto Trump durante le elezioni presidenziali. Thiel non è il tipico esempio della Destra dura e pura americana, composta da patrioti armati fino a denti i quali si ritrovano nel weekend col fuoristrada nei boschi a sparare, cacciare e bere birra. Thiel fa parte piuttosto di un crescente numero di nuovi arrivati al movimento conservatore che mostra un aspetto più variegato rispetto agli stereotipi del conservatore tradizionale. Peter Thiel, come molti altri che si sono accostati al movimento di Trump, è un gay dichiarato, non interventista, di definizione nazionalista. Rigetta il concetto di neoconservatorismo e si distacca dalle componenti dell’establishment, pronto quindi a mettere a frutto la sua conoscenza informatica/imprenditoriale per la causa Trumpiana. L’investitore miliardario ha catturato i titoli dei media quando nel 2016  fu il primo relatore della storia, dichiarato gay, a salire sul palco della Convention Nazionale Repubblicana. All’epoca dichiarò che “ogni americano ha un’identità unica. Sono orgoglioso di essere gay. Sono anche orgoglioso di essere un repubblicano, ma soprattutto sono orgoglioso di essere un americano.

Per questo suo sostegno a Trump, Thiel ha pagato un prezzo altissimo, marginalizzato dalla Silicon Valley, condannato dai suoi stessi “amici”, si è ritrovato nella terra di mezzo, pagando in prima persona il suo anticonformismo.  Il sostegno di Peter Thiel a Donald Trump nelle elezioni presidenziali americane del 2016, nonostante le smentite, non solo ha danneggiato la sua relazione e la lunga amicizia con l’amministratore delegato e fondatore di Facebook Mark Zuckerberg, ma ha convinto l’imprenditore Thiel a lasciare del tutto la Silicon Valley. Il sostegno di Thiel al presidente Trump lo ha emarginato nelle stanze del potere della Silicon Valley, irritando tra l’altro il resto del consiglio di amministrazione di Facebook dove ricopriva un ruolo da direttore sin dal lontano 2005. Anche l’amministratore delegato di Netflix, Reed Hastings, avrebbe direttamente criticato Thiel per il suo sostegno a Trump, mettendo in discussione le capacità di giudizio di Thiel.

Thiel è stato uno dei primi investitori di Facebook, uno che se ne intende di piattaforme social e media.  Secondo un articolo pubblicato sul Wall Street Journal, Peter Thiel ha deciso di trasferirsi lasciando San Francisco. Dopo aver trascorso quattro decenni nel nord della California, Thiel sta spostando la sua residenza e le sue società di investimento a Los Angeles. Sempre secondo il Wall Street Journal, il cinquantenne ha una villa di 650 metri quadri che si affaccia sulla Sunset Strip. Si prevede che anche i 50 dipendenti di Thiel Capital e Thiel Foundation si trasferiranno nella città degli Angeli. Thiel avrebbe qualche tempo fa, durante un incontro alla Stanford University, dichiarato che “La Silicon Valley è uno stato monopartitico

In apparenza Thiel si trasferisce dalle fogne liberal-progressiste della silicon valley a quelle liberal-progressiste di hollywood. Ma in realtà l’area di Los Angeles è diversa da quella di San Francisco. Pur essendo ampiamente democratica, a Los Angeles si sono ritagliati uno spazio e hanno sede le grandi, medie e piccole entità mediatiche che si identificano con la Destra Americana. L’area di Los Angeles e` diventata il bunker dove i sopravvissuti all’olocausto Repubblicano in California hanno trovato rifugio. Il conglomerato mediatico conservatore è ancora poco rilevante rispetto ai giganti liberali; eppure qualcosa sta cambiando. A Los Angeles hanno sede istituzioni mediatiche di Destra come Breitbart, Prager University, The Daily Wire, The Drudge Report e molti altri. E quindi entrano in gioco altre ipotesi e cioè che Peter Thiel si stia preparando con altri partner a creare un gigante dell’informazione destra-nazionalista. Secondo voci da confermare Peter Thiel e Rebekah Mercer sarebbero in trattativa per formare un’organizzazione mediatica. In questi ultimi anni, molti soldi dei due miliardari sono finiti tra i contributi finanziari elargiti al partito Repubblicano; rispetto però ad altri filantropi tradizionali “conservatori”, come per esempio i fratelli Koch, Thiel e Mercer non sono entusiasti del partito Repubblicano così come attualmente configurato. I due imprenditori hanno mostrato in tante occasioni insofferenza verso l’Establishment del Partito Repubblicano.

Thiel è in simbiosi con Trump; odia l’Establishment, ritiene certi concetti ideologici del centro destra superati, come per esempio il neo-conservatorismo e comprende che la battaglia presente e futura si giocherà su una revisione del conservatorismo stesso. Più polarizzata su un nazionalismo identitario piuttosto che su una visione globale del concetto conservatore.  In questo contesto Thiel e Mercer sanno benissimo che senza uno strumento mediatico importante di supporto a una nuova destra americana, il concetto di un nuovo movimento conservatore è destinato a fallire; durerà una stagione, quella di Trump, per poi essere relegato negli annali della Storia Americana.

La battaglia è appena cominciata, la montagna da scalare enorme, le forze oscurantiste potenti, ma se c’è un personaggio che può addomesticare il Dragone della Silicon Valley, inceneritore di idee alternative e forza di appiattimento culturale è proprio Peter Thiel. Partorito dal ventre della bestia della Silicon Valley, Thiel ne conosce le forze e le debolezze. La guerra è appena iniziata.

 

 

VOTARE: PERCHÉ SÌ, di Elio Paoloni

Qui sotto un’accorata filippica di Elio Paoloni con un appello finale. Lo scopo precipuo di questo sito è fornire uno spazio ad analisi e riflessioni politiche tese ad alimentare un dibattito partendo però da chiavi di interpretazione sufficientemente definite. Un dibattito che si spera possa aprire varchi anche negli ambienti più chiusi e ostili a questi punti di vista. Non è un sito di lotta politica legato alle scelte immediate e contingenti in particolare elettorali; il paese, il suo contesto politico sono ancora molto lontani da poter esprimere un ceto politico sufficientemente maturo e determinato nell’individuare e perseguire obbiettivi corrispondenti ai punti di vista espressi qui e in poche altre realtà che questo blog ha l’ambizione, per la verità, di mettere a confronto. E’ il motivo principale per il quale il blog evita di dare indicazioni esplicite di voto, anche se l’esplicitazione delle analisi lascia intuire il giudizio e la direzione delle scelte personali dei corrispondenti. Sulla stessa scelta di voto e sull’opportunità stessa di parteciparvi, come pure sul peso da dare all’azione nel carosello elettorale rispetto ad un’azione politica più complessa, i giudizi per altro divergono. Non sono, questi ultimi, certo punti di vista dirimenti per l’economia del blog e per l’ambizione, probabilmente la presunzione che ci anima nel poter contribuire alla formazione di un nuovo ceto politico e di una nuova classe dirigente con indirizzi e chiavi operative idonee ad affrontare con maggiore autonomia e convinzione un agone multipolare dai molteplici rischi, ma anche dalle molteplici opportunità a beneficio della condizione del paese e dei suoi componenti. Una traccia e una intenzione ben presente anche nel testo di Elio Paoloni. Giuseppe Germinario 

VOTARE: PERCHÉ SÌ

Elio Paoloni

La scorsa volta non ho votato. Non per convinzione ma per disgusto, disperazione: non tolleravo che si aggiungesse al danno la beffa, tutto qui. Non ne ho mai menato vanto, né ho fatto proselitismo, ho anzi ironizzato sugli amici che lo elevavano a fulgido atto politico,  clamorosa ed efficace protesta. La mancata partecipazione, sostenevano – e sostengono – avrebbe delegittimato i governi. Pia illusione: non riusciremo mai, nemmeno nelle più rosee previsioni, a raggiungere le percentuali di astensione delle storiche democrazie occidentali, i cui governi non si sentono per questo delegittimati anzi si considerano autorizzati a mettere a ferro e fuoco il pianeta. Figuriamoci se i nostri politici, che hanno la faccia come il …., perdono il sonno perché pinco pallino non li ha legittimati.

La vecchia ricetta del meno peggio, tuttavia, quella che tutti finiscono per adottare nel giorno fatidico, non mi convinceva. Il meno peggio non era individuabile. Sembra non ci sia neanche adesso: comunque vada questo voto – qui, credo, ne siamo tutti convinti – certo non vincerà il sovranismo. Gli scenari sono stati analizzati su questo sito ben più seriamente e dettagliatamente, ma la sostanza balza agli occhi di qualsiasi profano: quand’anche fosse eletto Bagnai nella Lega, che cosa si potrà concludere con un Berlusconi afferrato per gli attributi già da anni e pronto a tutto pur di evitare processi a sé e alle sue imprese? Un Berlusconi così ‘antieuropeo’ da ventilare un Draghi premier? Con una Meloni che nessuno, credo, oserebbe definire una statista di rango? Un improbabile governo pentastellato, d’altro canto, non si sognerebbe mai di uscire da questa Europa, per non parlare di affrancarsi dalla NATO (l’ortottero designato è già volato a rassicurare tutti i poteri che contano). Sul nostro suolo, come sempre, si svolgono tanto sanguinose quanto accuratamente celate battaglie di potenze opposte. Quelli che vediamo in TV sono quasi sempre burattini o utili idioti, privi di consistenza propria. Interscambiabili. Questo il motivo che spinge molti di noi a non votare.

MA.

Non è vero che sono tutti ugualmente dannosi. Le differenze saranno pure minime ma c’è una macroscopica discriminante: solamente il PD (insieme alle false alternative d’area: Insieme, Liberi e uguali, la criminosa + Europa) è davvero coeso, pervicace, determinato. I suoi componenti hanno una mission, sono addestrati da decenni a distruggere questo paese. Molti tra loro, probabilmente, credono davvero in una intrinseca superiorità morale. Nessun’altra formazione ha mai mostrato, o fa presumere, altrettanto accanimento nel perseguire quell’opera di distruzione del nostro tessuto sociale che va dalla svendita delle imprese statali e dei beni culturali all’abbandono dei settori strategici, dall’educazione gender alla distruzione della scuola, dall’immigrazione incontrollata alla persecuzione dei cittadini, dalla adesione bovina a tutte le spedizioni militari contro i nostri interessi alla imposizione di folli sanzioni a chi potrebbe solo aiutare la nostra economia. Il disinteresse per le sorti dei malati, dei terremotati, dei giovani lavoratori schiavizzati non è privo di precedenti ma sconcerta per la mancanza di mascheramento. Sono ascari della globalizzazione e se ne vantano. L’autorazzismo ha raggiunto vette di isteria che hanno probabilmente sgomentato i loro stessi burattinai.

Confrontiamoli con il centrodestra: da quella parte, tra tante anime, qualche patriota ci sarà, alcuni avversari dell’eurolager ci sono di certo, qualche sostenitore convinto della famiglia anche, di sicuro qualcuno che mastica economia. Potrebbe addirittura nascondersi tra loro qualcuno che conosca la storia e abbia una visione strategica. Per quanto possano in seguito tacere e mettersi d’accordo, non riesco a immaginare una reale compattezza su temi caldi.

E i grillini? Una marmaglia priva di cultura, di esperienza, di capacità. Ma, proprio perché “marmaglia”, ovvero coacervo di provenienze, di convinzioni, di “colori”, mancano di compattezza nel far danno. Non sono scafati, non ancora, non del tutto, e, se questo li rende facilmente manovrabili, può anche rendere molti di loro restii al peggio. L’inconsistenza del loro programma politico li renderà dannosi più per assenza di interventi che per azioni decise e irrevocabili. La quantità di questioni ‘da vedersi’, da sottoporre a referendum o a parere internettico dei militanti o a capriccio del momento potrebbe riservare qualche piacevole sorpresa o, almeno, lasciare in stallo questioni che i piddini forzerebbero di sicuro. Qualche pentastellato potrebbe anche capire davvero cosa sia il fiscal compact e smettere di contare i soldini della paghetta sulla punta delle dita.

Insomma, esiste un solo vero nemico, erede dei Ciampi, dei Prodi, dei Monti. Composto da maggiordomi diplomati, incapaci di opporsi non solo ai principali mandanti ma a chiunque faccia la voce grossa, si chiami Macron, Erdogan, Netanhyau. Il più insignificante dei burocrati europei li fa marciare come marionette.

Il PD può essere rimpiazzato, è ovvio: bastone e carota sono già stati apprestati per ogni candidato di questa tornata. Il tunnel non finisce qui. Non sarà uno scarabocchio sulla scheda a capovolgere le sorti del paese. Ci vuole ben altro. Saranno lacrime e sangue. Ma occorre sbarazzarsi  di certi slogan, di una insopprimibile arroganza, della neolingua che ci vanno imponendo.

L’astensione premia il PD, che ha il suo zoccolo duro di beneficati e di nostalgici convinti di votare ‘a sinistra’. Ogni voto dato ad altri, invece, ne diminuisce il peso.

 

APPENDICE

Dovendo scegliere

A – C’è un partito apprezzabile verso il quale dovrei, naturaliter, propendere: il Popolo della famiglia. Ma è un partito destinato all’insignificanza: anche se apparentemente destinato a grandi consensi per la sua trasversalità, un movimento con obiettivi limitati è destinato a squagliarsi, proprio come Aborto? No, grazie di Giuliano Ferrara, fondato al solo scopo di opporsi all’aborto. Fine lodevolissimo e inevitabile flop: un partito deve dare risposte alla globalità dei problemi. Gli obiettivi del programma di Adinolfi sono sacrosanti, li condivido interamente: reddito di maternità, aumento degli assegni familiari, incremento fondi per disabili e, ovviamente, abrogazione del divorzio breve, unioni civili e biotestamento oltre che lotta al gender e all’aborto. Ma come si propone di reperire le risorse per il suo ottimo programma? Con le solite favole belle: lotta all’evasione fiscale, alla corruzione e agli sprechi; dulcis in fundo confische alla mafia e ricorso ai sussidi europei. O non ha capito niente o non ha il coraggio di opporsi seriamente.

B – Esistono almeno due partiti dal programma davvero sovranista: il 90% del loro programma è identico benché i fronti siano fieramente opposti. Li definirebbero opposti estremismi. A me paiono ragionevoli convergenze.

 

CONSIDERAZIONI A MARGINE DI “Lettura sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni”_ DI MASSIMO MORIGI

 Francesco Hayez, La Meditazione, 1850, olio su tela, 90 x 70 cm, Galleria d’Arte moderna Achille Forti, Verona.
La figura femminile malinconica fu un tema caro a Francesco Hayez, che ne realizzò diverse versioni. Il tema era tradizionalmente legato alla rappresentazione delle sofferenze amorose, ma dopo l’insuccesso della Prima guerra d’indipendenza, questa iconografia si caricò di nuovi significati. La figura della Malinconia (o Meditazione) diventò la personificazione allegorica dell’Italia che riflette sul fallimento degli eventi del 1848, come confermano la scritta sul
dorso del libro (Storia d‘Italia) e le date in rosso delle Cinque Giornate di Milano sulla croce (simbolo del martirio patriottico)

 

Considerazioni dal punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico a margine a “Lettura sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni” di Alessandro Visalli (originariamente pubblicata all’URL https://tempofertile.blogspot.it/2018/02/letture-sul-dramma-di-macerata-lo.html    e ora all’URL http://italiaeilmondo.com/2018/02/20/letture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli/  –  WebCite: http://www.webcitation.org/6xPpiXVOA e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F02%2F20%2Fletture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli%2F&date=2018-02-22)

 

 

Di Massimo Morigi

 

Nell’anno in cui si iscrisse al PCI, il 1948, Delio Cantimori pubblicò sulla “Nuova Rivista di diritto Commerciale, Diritto dell’Economia, Diritto sociale”, anno I, fasc. 9-12, 1948, “Idee di riforma sociale in Italia”, il cui testo era l’elaborazione a scopo di pubblicazione di  due lezioni che lo storico romagnolo aveva tenuto nell’estate del  1946 per l’Istituto per la Riforma Sociale di Pisa. Queste “Lezioni”, oltre a costituire una impeccabile ricostruzione storica delle idee e dell’agire dei riformatori sociali che si confrontarono e scontrarono nel Risorgimento italiano, sottintendeva, attraverso questa ricostruzione, la direzione verso la quale un’Italia uscita a pezzi dal secondo conflitto mondiale avrebbe dovuto imboccare e questo nuovo inizio, per Cantimori, avrebbe dovuto evidentemente prendere le mosse ispirandosi alla figura di Giuseppe Mazzini, al quale è dedicata la parte più significativa e pregnante delle “Lezioni”. Ed è anche altrettanto evidente che nelle “Lezioni”  Mazzini, o meglio il movimento storico che egli seppe creare, non è per Cantimori solo il momento imprescindibile e fondante nella costruzione dell’unità ed identità italiana, ma costituiva anche la proposta politico-culturale avanzata dallo storico romagnolo al  Partito comunista –  nel quale Cantimori intendeva svolgere il suo operato di intellettuale –  di un personaggio che aveva presieduto alla sua personale Bildung politico-culturale, il quale partendo da un ambiente romagnolo e da una famiglia profondamente intrisi di mazzinianesimo, aveva cercato, senza successo, di far vivere questa formazione prima nel PNF e ora nel PCI di Togliatti. Molto è stato scritto riguardo alla fuoruscita di Cantimori dal PCI avvenuta nel ’56, fuoruscita generalmente attribuita ad una forma di protesta per l’invasione da parte dell’Unione Sovietica dell’Ungheria e alla denuncia  di Chruščëv al XX congresso del PCUS, tramite il cosiddetto rapporto segreto intitolato “Sul culto della personalità e le sue conseguenze”, del culto della personalità di Stalin, con i conseguenti terribili eccessi che ne erano derivati. Molto più verosimilmente, invece, Cantimori uscì dal PCI non perché questo partito non si fosse schierato contro l’Unione sovietica e perché all’interno di questo partito sarebbero sempre stati all’ordine del giorno sistemi “staliniani”, seppur in sedicesimo, e che avrebbero denotato, tramite il rapporto segreto, una specie di male diffuso anche negli altri partiti comunisti, ma perché già allora era evidente che sia sul versante culturale che su quello politico il PCI non era in grado di implementare quella rivoluzione sociale di tipo mazziniano che aveva costituito il “perno psicologico” dell’attività scientifica di Cantimori (i principali studi di Cantimori, pur non occupandosi mai direttamente di Mazzini, furono sempre incentrati dallo sforzo di far affiorare il contributo italiano al processo di modernizzazione politica europea: vedi per tutti i suoi “Eretici italiani del Cinquecento”) e della vita pubblica di Cantimori (il Cantimori fascista apparteneva all’ala sinistra del PNF, quella parte del partito, per dirla in due parole, che vedeva la gerarchia in funzione della missione sociale del fascismo e non viceversa, come invece i fascisti di destra e reazionari). Citiamo allora la parte di questo articolo di Cantimori riguardante Mazzini, non tanto per rievocare un tentativo fallito di far germinare all’interno del PCI guidato da Palmiro Togliatti la tradizione sociale mazziniana, ma perché queste parole di Cantimori su Mazzini possono essere considerate la migliore risposta al pur pregevole articolo di Alessandro Visalli “Letture sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni”, eccellente sì per sincerità di sforzo di analisi (ed anche per il risultato della stessa, specialmente quando afferma che i flussi migratori sono funzionali alla costituzione di un esercito industriale di riserva) ma  che anche deve però pagare pesanti pedaggi al politically correct ed ad una visione ancora ideologica e insufficientemente strategica del problema dell’immigrazione. Facciamo quindi parlare Cantimori: «Su questo sfondo di dottrinari risalta il profondo realismo rivoluzionario di Giuseppe Mazzini.   Egli non concilia o unisce (o sovrappone astrattamente, come meglio si dovrebbe dire) le nuove dottrine, i nuovi principî, il  «verbo della nuova età» all’istanza politica nazionale unitaria, ma tiene sempre fermo ad essa, non tanto subordinando le dottrine all’azione, anzi facendo sorgere le dottrine (o la polemica contro le dottrine) dall’azione stessa, dalle situazioni, dalle possibilità stesse dell’azione. Non che manovri la bandiera della riforma sociale come il Cavour manovrava elegantemente lo spauracchio della rivoluzione socialista: non si tratta di abilità politica, nel senso tecnico della parola; Mazzini coglie genialmente e spontaneamente lo stato degli animi, coglie i sentimenti, le aspirazioni, le vaghe idee, i bisogni, i timori, le speranze, e li convoglia, li rielabora in funzione della rigenerazione della patria attraverso l’unità e l’indipendenza. Perciò non si può né si deve considerare Mazzini – neanche il Mazzini scrittore – coi metodi della storia delle dottrine e delle ideologie: le sue posizioni dottrinali e ideali sono in funzione diretta dell’azione politica a lunga scadenza e di grande portata, e perciò non si esauriscono in semplici programmi e progetti o in pure considerazioni teoriche, anche quando l’azione non è coronata da successo immediato. Il Salvemini e il Mondolfo hanno già rilevato come negli scritti di Mazzini si trovino pagine di tipo socialista, e di tipo socialista moderno, tanto polemiche e critiche,  da poter giustificare a loro giudizio l’avvicinamento (puramente teorico) a Marx, al di là delle cattive relazioni personali che fanno la delizia di coloro i quali, nel migliore dei casi, non sanno fare distinzione fra giudizio politico e giudizio storico; e hanno rilevato però anche le infinite pagine di polemica antisocialista e anticomunista che si trovano negli stessi scritti, tali da annullare quasi, l’interesse che presentano le altre. Questi due studiosi hanno anche osservato che le prime si trovano soprattutto negli scritti precedenti il 1852, le seconde nel periodo posteriore, dopo il consolidamento della reazione in Francia e in Europa, quando sembrò  al Mazzini che le dottrine socialiste avrebbero allontanato, col solo nome, e anche se moderate assai come quelle del Montanelli, la borghesia italiana dal programma unitario e repubblicano. O. Vossler ha anche notato acutamente come Mazzini, oltre la polemica contro i caratteri edonistici e materialistici dei «sistemi socialisti», rifiuti sempre di accettare in astratto la negazione della proprietà privata e combatta anche l’idea che il socialismo sia il principio o il «verbo» della nuova età, informatore di ogni altra idea e di ogni altra azione. Non è dunque il caso di specificare con citazioni, perché non c’è molto da aggiungere a quanto hanno detto questi studiosi, soprattutto il Salvemini e il Mondolfo, per lo meno dal punto di vista della storia dottrinale e ideologica. Va rilevato invece che l’azione del Mazzini, proprio sul terreno sociale, va molto al di là delle teorie (anche arditissime come quelle del suo omonimo, ma pure e astratte teorie) proposte dai «socialisti» italiani suoi contemporanei; e, in un certo senso, in quanto azione lungimirante, organizzata, almeno tendenzialmente, su largo piano, va molto al di là anche dell’azione diretta di Pisacane. Intendo riferirmi al fatto che Mazzini e i suoi seguaci hanno dato vita, si può ben dire, a tutto o a quasi tutto quanto è  esistito di movimento operaio (artigiano) fra gli italiani, in esilio o in patria, durante il Risorgimento. Anche dopo la venuta del Bakunin e durante i primi anni di attività dell’Internazionale in Italia si può ben dire che il movimento operaio (artigiano) italiano è prevalentemente, quasi unicamente mazziniano. Aveva ben ragione Mazzini, in sostanza, quando nel 1871 affermava: «Dal primo impianto della Giovine Italia fino alle nostre ultime manifestazioni la causa degli operai fu nostra e la immedesimammo col moto nazionale italiano… Aiutammo come era in noi… l’impianto delle società di Mutuo soccorso, … preludio a quelle di cooperazione… Tentammo di far intendere alle classi medie che il moto operaio non era sommossa sterile e passeggera…» Questa azione del Mazzini è più importante fra noi in quel periodo delle dottrine anche più ardite, ed è anche più importante delle varie insurrezioni di tipo «guerra ai palazzi, pace alle capanne», di cui abbiamo notizia qua e là prima, dopo, e durante il 1848-49, come sono state studiate, per esempio, per la Toscana, dall’Andriani, seguendo le indicazioni del Salvemini.» (citato da Delio Cantimori, “Studi di storia”, Torino, Einuadi, 1969, pp. 596-598). Cosa  ci dice quindi a chiarissime lettere Cantimori su Mazzini (e, di riflesso, su quello che avrebbe dovuto essere e l’azione del PCI nella società italiana e la sua stessa azione all’interno del PCI, e sia detto per inciso ma anche fondamentale per comprendere l’assoluta originalità, ed anche temerarietà, dell’azione che Cantimori voleva svolgere all’interno del PCI: è solarmente evidente dal passo citato che il Mazzini di Cantimori è un Mazzini in cui è determinante la griglia interpretativa dell’attualismo di Giovanni Gentile). In poche parole Cantimori ci dice che Mazzini non fu quell’acchiappanuvole idealista, e persino intimamente reazionario, sempre votato al fallimento, tramandatoci da una superficiale storiografia e stereotipo assorbito anche a livello popolare, ma, al contrario, afferma con vigore che Mazzini è il perfetto compendio del politico realista, un politico che, proprio per l’intrinseca serietà del suo agire, rifiuta di farsi ingabbiare in facili e rigidi schemi ideologici che privilegiano o le riforme sociali o l’irrobustimento (o creazione) di un’identità nazionale ma sviluppa il suo operato a seconda delle necessità reali o percepite tali dal popolo (che di volta in volta possono essere identitarie o di maggiore giustizia sociale, e ancor più sovente inestricabilmente legate assieme) ma questo non può essere definita demagogia   per ottenere facili successi immediati (l’azione di Mazzini fu sempre mirata ad ottenere il massimo risultato ma proiettato nel lungo periodo: per Mazzini l’insuccesso di un’insurrezione innescava un eroico processo di emulazione attraverso il quale, alla fine di un lungo e doloroso percorso di fallimenti e di schiere di  martiri, avrebbe trionfato la rivoluzione italiana) ma aveva il nobilissimo e strategico  scopo di ottenere nel popolo un armonioso sviluppo fra istanze culturali ed identitarie e le istanze di giustizia sociale, che per il Mazzini sono inscindibili e che solo per ragioni tattiche possono essere momentaneamente disgiunte. Per Mazzini la sintesi finale fra questi due momenti era l’istituzione della Repubblica ma quello che qui preme sottolineare, al di là del tristo santino repubblicano che di lui ci ha consegnato una tradizione politica assolutamente non degna della grandezza del personaggio, è  che per Mazzini la Repubblica era, insomma, l’obiettivo finale ed anche il momento simbolico di un grandioso sforzo strategico che il rivoluzionario di Genova intendeva svolgere sul (e a favore del) popolo italiano. Il popolo italiano era quindi per Mazzini e il centro strategico della sua azione e il precipitato finale di questa azione, e questo non perché disdegnasse le impostazioni socialistiche della rivoluzione ma perché aveva assolutamente chiaro che una rivoluzione su base unicamente economicista o, peggio, astrattamente universalistica era un autentico non senso. Mazzini, insomma, non era un astratto ed esaltato acchiappanuvole ma lo potremo definire il Lenin italiano – o, ancor meglio, il Lenin degli italiani o dell’Italia –  che se anche non disse mai “analisi concreta della situazione concreta” costantemente ispirò la sua azione a questa massima. Vengo rapidamente alla conclusione. Ottimo l’articolo di Vissalli, fatta però una fondamentale osservazione. In “Lettura sul dramma di Macerata: lo scontro delle secolarizzazioni” (risposta all’articolo di Roberto Buffagni “Intorno ai fatti di Macerata – Non c’è più religione? Dipende”, all’URL http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/ – WebCite: http://www.webcitation.org/6xJAwBIIo), il momento strategico  è concentrato e limitato sull’analisi del fenomeno migratorio come funzionale alla costituzione di un esercito industriale di riserva; del tutto però insufficiente riguardo le problematiche identitarie del popolo italiano; problematiche fatte emergere violentemente dai fenomeni migratori ma in cui questi fenomeni sono solo una parte del problema, iniziando questa crisi identitaria dalla sconfitta nel secondo conflitto mondiale (e massima e tragica espressione politica di questa crisi identitaria è l’ideologia antifascista – cioè non l’antifascismo sorto come logica, naturale e legittima reazione al regime fascista ma l’antifascismo foglia di fico per qualificarsi come democratici verso le potenze vincitrici del secondo conflitto mondiale e braghettone ideologico per nascondere la guerra civile latente fra i partiti che erano subentrati alla apparente guida dell’Italia dopo il 25 aprile ma in cui il vero comando era riservato alle potenze angloamericane che avevano conquistato l’Italia –,  vero e proprio virus, questo antifascismo a regime fascista morto, geneticamente modificato e creato per  parassitare e alla fine a distruggere il DNA della tradizione storico-culturale italiana) e rincrudita ed accelerata dallo sviluppo economico capitalista del secondo dopoguerra. Cantimori uscì dal PCI per l’indifferenza che suscitò nel partito la sua linea culturale, e nella quale il mazzinianesimo (l’autentico mazzinianesimo – quel mazzinianesimo che ebbe il suo migliore studioso in Giovanni Gentile –, il mazzinianesimo fedele alle idee e all’operato del grande genovese, e che noi oggi definiamo ‘mazzinianesimo strategico’, non certo l’odierno caricaturale e deformato mazzinianesimo dei suoi indegni epigoni) costituiva la spina dorsale,  ma l’impostazione che voleva dare alla soluzione  del problema italiano (se soluzione si può parlare per i fatti storico-sociali) era, come è tuttora, quella corretta: una chiara visione strategica di pretto stampo mazziniano che partendo dai problemi sociali e culturali del nostro popolo sappia (ri)costruire e rafforzare una identità nazionale che permetta al nostro paese di rimandare al mittente tutte le spinte disgregative (di cui l’immigrazione è una di questa) che ci giungono da questa disgraziata modernità di un mondo sempre più multipolare. Per Mazzini il nemico storico da dissolvere ed annientare era l’Impero Austroungarico. Oggi il nemico da dissolvere ed annientare non è un impero ma un’impostazione mentale “politically correct” che vorrebbe privilegiare l’impero turbo-capitalistico della globalizzazione e le cui povere truppe d’assalto, al posto dei croati Austroungarici, sono le disgregate, vaganti e disperate popolazioni del sud del mondo. E come i nostri padri del Risorgimento, prima fra tutti Mazzini, non odiavano i croati (che costituivano il grosso delle truppe di occupazione dell’impero Austroungarico) ma anzi provavano per loro compassione  ma, nonostante questa compassione li volevano cacciare (Vedi poesia “Sant’Ambrogio” di Giuseppe Giusti: «Entro, e ti trovo un pieno di soldati,/Di que’ soldati settentrïonali,/Come sarebbe Boemi e Croati,/Messi qui nella vigna a far da pali:/  Difatto, se ne stavano impalati,/ Come sogliono in faccia a’ Generali,/Co’ baffi di capecchio e con que’ musi,/Davanti a Dio diritti come fusi.//Mi tenni indietro; chè piovuto in mezzo/ Di quella maramaglia, io non lo nego/ D’aver provato un senso di ribrezzo/Che lei non prova in grazia dell’impiego./Sentiva un’afa, un alito di lezzo;/Scusi, Eccellenza, mi parean di sego,/ In quella bella casa del Signore,/Fin le candele dell’altar maggiore […] Povera gente! lontana da’ suoi,/In un paese qui che le vuol male,/Chi sa che in fondo all’anima po’ poi/Non mandi a quel paese il principale!/ Gioco che l’hanno in tasca come noi. —/Qui, se non fuggo, abbraccio un Caporale,/  Colla su’ brava mazza di nocciolo,/Duro e piantato lì come un piolo.»), così anche noi ci dobbiamo atteggiare e comportare verso i flussi immigratori incontrollati. E questa risoluzione non viene da qualche lunatico sparacchiatore ma dalla più pura tradizione strategica del nostro Risorgimento. Anche se in forme veramente inedite ed inaspettate, alla fine veramente tutto torna, e questo è veramente una grande lezione strategica che evidenziata nel nostro Risorgimento, è anche alla base della nascita, sempre italiana, del pensiero storicista che si sviluppa attorno al vichiano ‘Verum et factum convertuntur’ del “De antiquissima italorum sapientiae” (e che si pone in antitesi al pensiero illuministico ed astrattamente razionalistico ed antistorico, da cui trae origine la mistica dei diritti umani, grande responsabile  e giustificatrice sul piano ideologico degli incontrollati flussi migratori). Machiavelli, Vico, Mazzini, Giovanni Gentile, Gramsci, Cantimori (cioè la grande tradizione del realismo e dello storicismo italiani, che non si traduce,  però, nella  esaltazione di una tetra ed amorale realpolitik o Machtpolitik calata dall’alto ma, mazzinianamente, nella  creazione di una politica espressiva dei più profondi ed intimi bisogni del popolo, insomma un progetto teso nella sua più ultima e rivoluzionaria espressione – che, partendo da Giovanni Gentile per arrivare ad Antonio Gramsci,  va sotto il nome di filosofia della prassi – alla definizione di quella gramsciana cultura nazionalpopolare, il cui mancato conseguimento fu anche, come ben si vede oggi sia nella società che nel partito che pretende essere l’erede di quello fondato da Antonio Gramsci, anche il grande fallimento del PCI togliattiano), pensati attentamente i quali paiono  veramente bizzarre la considerazioni, riguardo i fatti di Macerata,  che «L’unica cosa certa di questa vicenda è che una ragazza è morta, alcuni immigrati hanno tentato di occultare il cadavere, dissezionandolo, e un italiano in preda ad esaltazione ha tentato di fare giustizia sommaria su altri innocenti scelti a caso» o  che «Ci sono associazioni, tra cui la ALCR […], attiva in Gabon, che denunciano coraggiosamente gli omicidi rituali, spesso condotti per banali ragioni di successo economico in un contesto di elevata frammentazione etnica (circa 40 gruppi) e di religioni animiste (20% della popolazione) o sincretiche come il Bwiti, anche se il 75% della popolazione è identificata come cristiana. Si tratta comunque di poche centinaia di casi, [sic!] spesso ricondotti a non meglio precisati “cultisti” […], ma sono spia del disagio di una troppo rapida, e subalterna, trasformazione.» Mazzini, intriso di spirito umanitario ma anche (o proprio per questo) pensatore ed uomo d’azione profondamente strategico non inneggiò mai all’odio contro nessuno ma non si sognò mai neppure di dire: «L’unica cosa certa è che i soldati croati sono dei semplici fantocci in mano all’impero austroungarico e per questo non devono essere combattuti ma accompagnati, piuttosto, gentilmente alla porta.» Le cose non andarono così e, se si vuole dare una speranza a questo paese, non dovranno andare così neppure per gli immigrati irregolari. E questo con buona pace – pur dandogli credito delle migliori intenzioni – delle pur generose esortazioni (ed anche in parte penetranti analisi) di Alessandro Visalli, il cui difetto di fondo è l’essere impregnate di quello spirito universalistico di matrice illuministica che Mazzini – e sulla sua scia il Repubblicanesimo Geopolitico –  sempre e con tutte le sue energie avversò, e questo non perché fosse un reazionario ma perché aveva capito benissimo che se si vuole essere veramente universali la prima cosa che necessita è possedere una visione strategica il cui centro focale è la creazione di una propria distinta ed unica identità, lasciando agli ideologi la discussione in merito all’universalità di questo o quell’altro sacro principio (che, come Mazzini aveva ben compreso, sempre nasconde l’interesse di qualcuno che con questi giochi di parole – ai tempi di Mazzini la Francia col suo monopolio  e volontà di imposizione dei sacri principi dell’ ’89, oggi la liberale e liberistica globalizzazione turbocapitalistica col mito del diritto e dell’inevitabilità all’immigrazione incontrollata –  intende perseguire nascostamente e con l’appoggio di masse ignoranti, vaganti, disperate e senza identità i propri inconfessabili interessi di annichilimento culturale dei popoli  e di  disgregazione ed atomizzazione delle società che questi popoli, attraverso lacrime, sangue,  battaglie e guerre si sono costruite nel corso della storia ).

Massimo Morigi – 22 febbraio 2018

 

 

 

 

 

 

 

OLTRE MACERATA. SEI DOMANDE, SEI TRACCE DI LAVORO, di Luigi Longo

LE DOMANDE DI MACERATA

di Luigi Longo

 

Lo scritto di Pino Germinario su La particolare gestione politica dei fatti di Macerata, apparso sul blog Italiaeilmondo del 18 febbraio 2018, stimola delle domande per capire quei fatti oltre ciò che appare. Una piccola premessa a mò di riflessione.

 

Una piccola premessa

 

La riflessione che propongo riguarda la questione dello Stato e quello della criminalità organizzata che si fa soggetto politico.

Le problematiche da affrontare sarebbero molte [ dalla conoscenza dei luoghi di potere e dominio allo svelamento dell’interesse generale e di un astratto luogo di potere dei dominanti, dalle relazioni geo-politiche, geo-economiche, geo-territoriali al ruolo delle potenze mondiali con le aree di influenza (regioni, poli), eccetera], qui interessa evidenziare l’attenzione sullo Stato, con le sue articolazioni di funzionamento (parlamento, governo, eccetera) e le sue articolazioni territoriali (enti locali, enti intermedi, eccetera), come luogo e strumento di potere e di dominio per la realizzazione degli obiettivi degli agenti strategici dominanti nel conflitto per l’egemonia della società data.

Il potere vero, quello che produce dominio, è sempre ben nascosto, non appare. Tant’è che lo respiriamo e non ce ne accorgiamo. Gli strumenti statali, con le loro articolazioni territoriali, diventano sempre più macchine complesse per gestire e organizzare il dominio dell’intera società. Il dominio per realizzarsi ha bisogno di emergere attraverso processi istituzionali e produrre ordine simbolico della società data: è un processo di lunga durata, vedasi i vari modelli egemonici mondiali espressi dalle potenze predominanti nelle diverse fasi della storia mondiale. A questo proposito diventa fondamentale capire quali sono gli agenti strategici dominanti. Mi permetto una precisazione: non faccio distinzione tra agenti strategici dominanti nella sfera privata e quelli nella sfera pubblica, tra quelli che delinquono legalmente e quelli che delinquono illegalmente perché l’intreccio è tale che non ha senso la distinzione (gli esempi sono infiniti).

 

Le domande

 

Il problema non è quello dell’uso esclusivo della forza dello Stato ( quella c’è eccome!), quanto piuttosto riflettere su cosa è lo Stato e perchè non interviene a contrastare le forme di violenza organizzata della cosiddetta criminalità nostrana e mondiale. L’intreccio tra il potere legale e quello criminale è molto forte. Per capirlo dobbiamo considerare l’innervamento tra il soggetto politico legittimato dalle regole sociali per svolgere le sue strategie e il potere criminale che così si fa soggetto politico. Esempi sono infiniti in tutte le sfere sociali, in tutti i luoghi istituzionali, in tutte le città, in tutti i territori.

La prima domanda: a partire dai fatti di Macerata ( lascio perdere l’antifascismo che è roba da basagliati) perché i sub-agenti dominanti nostrani non sono in grado di contrastare il potere della criminalità organizzata in generale e in particolare quella nigeriana che si sta consolidando sul territorio nazionale? (rilevo che i Servizi Segreti creano allarmi sull’attività jihadista del Daesh e non si accorgono dei villaggi abusivi gestiti dalla mafia nigeriana vicino ai CARA).

La seconda domanda: perché i nostri sub-decisori intervengono malamente solo a livello di omicidi, cioè solo a livello di repressione militare per ristabilire il cosiddetto ordine pubblico?

La terza domanda: perché la criminalità organizzata si combatte sopratutto con la sfera militare, che è fondamentale ma non è incisiva perché l’accumulo di potere del soggetto politico criminale passa attraverso altre sfere sociali (politiche, economico-finanziarie, culturali, istituzionali, eccetera) che valorizzano il capitale accumulato con strategie criminali, tramite la violenza delle armi, investendolo nei settori legali? (un grande pensatore ha spiegato molto bene che se il capitale accumulato non viene valorizzato non produce potere e dominio).

La quarta domanda: Qual è il ruolo che la criminalità organizzata svolge nel gestire i flussi migratori che si coordina con quello assegnato dalla UE all’Italia? (ricordo che l’Unione Europea (sic) ha chiuso i suoi confini e ha lasciato aperto solo quello italiano).

La quinta domanda: la gestione dei flussi migratori hanno a che fare con le strategie statunitense nel Nord Africa e nel Vicino Oriente? (rammento che gli USA sono maestri nelle relazioni con la criminalità organizzata, orientano la loro creatura, il Daesh, e ri-posizionano gli jihadisti dopo la sconfitta del Califfato e la dispersione degli jihadisti di Daesh così come fecero per il ri-collocamento delle SS dopo la fine del secondo conflitto mondiale).

La sesta domanda: parafrasando William Shachespeare posso chiedermi/vi che ammasso di immondizie, pattume e rifiuti è l’Italia, se serve da vile materia per illuminare una cosa indegna quale sono i nostri agenti sub-decisori? E perché il popolo italiano dovrebbe partecipare alla farsa delle elezioni politiche per eleggere una cosa tanto indegna?

IL DESTINO DEGLI EUROPEI. (2/2), di Pierluigi Fagan

IL DESTINO DEGLI EUROPEI. (2/2)

[Prima puntata, qui] Vediamo allora meglio quali possibili eccezioni si possono avanzare alla correlazione massima sovranità = grande Stato. Innanzitutto si possono comparare solo entità che abbiamo qualche forma di analogia, ad esempio, uno stesso livello di sviluppo. Se il Vietnam (che ha comunque 90 milioni di abitanti) cresce impetuosamente è anche perché proviene da una recente conversione all’economia produttivo-scambista nata in occidente. Questa dinamica di “lancio” che si ottiene all’inizio dei processi di sviluppo, non è ripetibile nei paesi molto maturi come quelli europei soprattutto dell’ovest. La seconda discriminazione taglia gli Stati che fungono da snodo banco-finanziario, i depositi o mercati della ricchezza con opacità fiscale e benevolenza giuridica. Lussemburgo, Lichtenstein, Cipro, Malta, Singapore, Svizzera et simili, sono come piccoli vascelli pirata che fanno categoria ma solo a certe condizioni che non sono raggiungibili da chi ha milioni di individui in popolazione. I casi misti come Irlanda od Olanda non cambiano il giudizio finale. La terza è il contesto, trovarsi come la Corea del sud tra Giappone e Cina e stante che anche la Corea ha iniziato il suo sviluppo solo da qualche decennio, non è come trovarsi al centro dell’Africa, tra Tanzania, Angola e Sudan. Così per i Paesi in target dello sviluppo delle Vie della seta cinesi o per la centralità che la Turchia ha sia verso l’Oriente che verso il Mediterraneo. Vale per le opportunità ma vale anche per i problemi, l’Italia ad esempio, ha volente o nolente, il problema del rapporto con Francia e Germania. Se come tutti ritengono, l’Asia sarà il fuoco del futuro sviluppo planetario (già oggi 60% della popolazione mondiale) essere stato in Asia avrà problemi ed opportunità diverse dall’essere stato in Europa, in un caso le condizioni di possibilità vanno ad aprirsi, nell’altro -tendenzialmente- a chiudersi. La quarta sono gli stati con materia-prima che poi sembrano portarsi appresso anche la relativa “maledizione”, è chiaro che fanno categoria a sé e che nessuno stato europeo si trova in questa condizione, anzi siamo tutti dipendenti da materie prime ed energie ampiamente esterne. La quinta è il momento e l’arco storico. Stiamo cioè parlando di un problema che si presenta nel recente e che si imporrà ancor più decisivamente nel futuro, riferirsi al passato per reperire casi di successo economico nello spazio piccolo, fosse anche il neo-keynesismo post bellico e ricostruttivo degli stati europei anni ’60, non ha alcuna utilità.  Questa discussione fatta qualche anno fa con un amico, vedeva come contro-caso la Finlandia ed il suo gioiello Nokia. Oggi, la finlandese Nokia è stata venduta all’americana Microsoft ed è stata venduta perché forte di esser stata un primum movens, non poteva poi reggere la concorrenza asiatica, a prescindere da quanto fosse appoggiata dal suo stato di riferimento. Competere su certe produzioni avanzate con chi, come la Cina, sfornerà assieme all’India il 63% dei laureati in materie scientifiche entro il 2030 (OECD-OCSE), sarà dunque molto difficile. Altresì, è certo che i grandi stati saranno in grado di mobilitare grandi capitali per R&S, si veda il caso americano DARPA o per sviluppo infrastrutturale come fa la Cina e si apprestano a fare gli USA. Il caso Finlandia dice anche che i casi da porre in dibattito vanno valutati in un corso storico decennale altrimenti si finisce come Ricardo a credere che anche il Portogallo con le sue bottiglie di vino porto, aveva “solide” opportunità di vantaggio comparato con cui partecipare alla danza del libero mercato mondiale. Era proprio List a contraddire questo assunto molto generico, una economia-Stato dovrebbe avere una buona parte delle sue produzioni fondamentali interne, se non vuole essere maltrattata dalla potenza produttiva di qualche “fabbrica del mondo” esterna, magari coadiuvata dalla cannoniere come la patria di Ricardo ci ha insegnato. I piani di re-industrializzazione in Francia ed USA, dicono che la favola bella della mano invisibile che mette ordine nel mondo del mercato, è stata illusione che ieri c’illuse e dalla quale oggi dovremmo risvegliarci in fretta. Vale anche per le valute, dipendere dalla valuta di un altro Stato sottrae ovviamente sovranità. Ma naturalmente la valuta deve essere poi di un peso che venga riconosciuto dal mercato, non basta avere carta e tipografia di proprietà.  La sesta discriminazione deve poi escludere quei paesi che di madre o seconda lingua inglese, hanno davanti a loro nel mercato globalizzato una più ampia prospettiva per l’economia dei servizi che oggi rappresenta dal 70% in su del totale contributo al Pil degli stati ad economia matura. La settima è la verifica oltre economica. Definire sovrana la Corea del sud, vista la dipendenza che ha dalla protezione militare americana, pecca di manica molto larga. Purtroppo è proprio il fatto militare, tanto il suo piano produttivo che di  effettiva potenza, a condizionare grandemente l’autonomia dei paesi e s’illude chi legge solo come geopolitica la dipendenza militare poiché gli stati sono sistemi integrati. E’ difficile ospitare una base NATO e mettersi ad amoreggiare con l’economia cinese accettando yuan contro valuta nazionale, perché prima parte una telefonatina, poi qualche tentativo di destabilizzazione per rischio di disallineamento. Di contro, pensare di avere autonomia militare partendo da un singolo stato europeo è ovviamente fuori di senso. Infine, è chiaro che i rapporti tra Paesi dotati di maggior massa e potenza, militare ed economica, quindi politica, determineranno i regolamenti dei giochi planetari, influiranno su gli standard, sulle policy delle istituzioni globali, su i lineamenti giuridici del sistema mondo a cui tutti, volenti o nolenti, dovranno partecipare in vario modo ed intensità. A gli altri, rimarrà l’opzione tra il come ed il quanto integrarsi in un gioco in cui si troveranno gettati senza alcuna voce in capitolo, sapendo che il protettore che si sceglieranno sarà inevitabilmente anche il proprietario del sistema che darà loro i limiti di possibilità. Il soggetto UE che compare nelle classifiche per Pil è un mero ente statistico, non è un soggetto intenzionato, non fa investimenti di alcun tipo, non sviluppa ricerca propria, non è autonomo militarmente (e si fa imporre ad esempio l’ostracismo commerciale alla Russia che gli sarebbe partner naturale), non partecipa al consesso internazionale con voce in capitolo.

Tornando alle premesse  iniziali è chiaro che nulla di tutto ciò impone leggi ferree di dimensioni, si potranno avere casi particolari di buona tenuta in qualche nicchia economica sebbene precaria nel tempo ed assai assediata muovendosi nei limiti dati dall’allineamento geopolitico a qualche superpotenza, la dinamica però della distribuzione dei pesi e delle egemonie, ci sembra tendenzialmente orientata. Hobsbawm scriveva che ai tempi ottocenteschi del dibattito sulla taglia dei nuovi stati, se non proprio legge, faceva chiara tendenza la sequenza dal locale al regionale e dal regionale al nazionale, su fino al mondiale perché sebbene a molti intelletti metafisici sfugga, nel frattempo la popolazione aumenta ed è ovvio che un macrosistema sempre più denso si ripartisce in sottosistemi per avere un ordine per quanto dinamico. La destinazione finale di questa sequenza non è l’impero-mondo, di nuovo incurabile metafisica politica, ma una tavola rotonda di quasi pari che cooperano ed in parte competono tenendosi in reciproco equilibrio e non accettando la prevaricazione di alcuno.  Sembra meno stabile di un impero-mondo ma in realtà è così che si organizza la complessità in natura, ovunque la si osservi distribuisce peso in molteplici, complessi ed interrelati.

Come detto queste considerazioni sono variamente presenti già nel dibattito ottocentesco, addirittura Alexis de Tocqueville prevedeva un futuro bipolare in cui l’Europa sarebbe stata espropriata di significato e potenza da i due giganti americano e russo. Kalergi nel 1923, prevede non solo America e Russia (la suo tempo già URSS) ma anche Giappone e Cina. Schmitt vede britannici come al solito impegnati a spezzettare l’Europa per evitare si venga a formare un soggetto per loro minaccioso, americani, russi e di nuovo l’Asia mentre il destino della noce schiacciata nella morsa Stati Uniti – Russia/Asia angustia anche Spinelli e Rossi. Nel frattempo, i meno di venti Stati europei nella cartina politica europea del 1914, sono diventati cinquanta[1]. La scomparsa dell’impero austro-ungarico, la riduzione di quello germanico, l’implosione sovietica che ha liberato quindici nuovi Stati (non solo europei) e quella jugoslava altri sei, i riconoscimenti di sovranità dopo la seconda guerra mondiale che seguivano anche la logica di interposizione tra fronte occidental-americano ed Unione sovietica, la compiacenza con gli stati-banche in cui dare asilo politico ai capitali in cerca di libertà dal giogo fiscale, furono processi tutti interni alla logica sub-continentale che è andata dalla parte opposta al discorso che qui sviluppiamo. Logica sì interna ma anche molto manipolata dai due giganti URSS ed USA, la sovranità in Europa è un concetto al tramonto dalla fine delle seconda guerra mondiale. Le questioni scozzese, basca, catalana, corsa, fiamminga e vallone e via di questo passo in un  elenco sempre più lungo, promettono altre eventuali invaginazioni. Di contro. Il processo unionista dalla CECA del ’51 a Maastricht – Lisbona – euro, ha dato l’impressione di compensare questa coriandolizzazione delle sovranità europee, operando sintesi a più alti livelli. Ma le ha operate davvero?

Troppo vasto e complesso il sistema europeo allo stato attuale dell’opera per addentrarci al suo interno, rimaniamo all’esterno considerandolo “un” sistema (UE+euro). Allo stato attuale sia dell’opera che delle intenzioni (sia dei fatti che dei discorsi), il sistema unionista europeo è una confederazione, una alleanza su base di trattati, alcuni pensano, vorrebbero, sognano possa poi diventare una federazione, cioè uno Stato ma che una confederazione diventi una federazione non è affatto detto e tra gli assai pochi esempi storici, èsignificativa solo la Svizzera, confederazione per circa sei secoli e poi federazione dal 1848. Proprio la Germania e la sua formazione unificata in Impero nel 1871, ci dice non fu certo lo Zollverein fatto inizialmente con l’Austria a portare all’unificazione. Ci fu una guerra contro l’Austria (tra “tedeschi”) e poi la creazione di  un problema tale da farsi dichiarare guerra dalla Francia di Napoleone III, per spingere i riottosi principi tedeschi a farsi inglobare dai prussiani sulla spinta unificatrice del comune nemico.  Si ricordi poi sempre che la nostra tendenza alla modellistica astratta (confederazioni, federazioni, Stati, unioni, leghe etc.) occulta le particolarità decisiva di dimensione e contesto. Se ad esempio, gli Stati Uniti d’America nascono fondendo colonie oltremare di una unica sovranità, che si sono ribellate con una guerra d’indipendenza, in un continente praticamente vuoto, abitato da 2,6 milioni di anglosassoni con la stessa lingua, cultura e religione e nel disinteresse geopolitico dell’epoca, questo “esempio” non è di nessuna utilità per il caso europeo. E se le confederazioni si sono create storicamente soprattutto come alleanze militari, cosa comporta una confederazione economica che ha poi chiamato una moneta unica per evitare i potenziali conflitti sulle parità di cambio, che sta ora chiamando leggi commerciali, standard, leggi fiscali e di bilancio che arrivano fino al cuore della sovranità economico-politica degli Stati nazionali? Soprattutto, è quella del sistema economico una logica che può supplire alla mancanza di un più nitido processo di unificazione dichiaratamente politico? Decisamente, no. Una confederazione economico-monetaria con qualche forme giuridica di omogeneizzazione rimane un sistema vago, non è un soggetto multipolare intenzionato, è una gerarchia di sovranità comandata dal o dai più forti. Una confederazione economico-monetaria ordinata dai principi imposti dal soggetto più massivo (la Germania), contrattati e scambiati con contro-concessioni esclusive al junior partner francese,  non ha alcuna possibilità di diventare una federazione in cui gli stati entrino col desiderio sincero di sciogliersi in un totale maggiore della somma delle parti poiché non siamo in regime cooperativo ma competitivo, non è una fusione, è un’annessione.

Il sistema economico nel suo pensiero, nasce già in uno stato e non tratta minimamente di stati, anzi, nella sua versione ideologica neo-liberale che ne è ideologia ortodossa tanto de definire le altre ideologie economiche “eterodosse” (!), spinge verso il “meno Stato e più mercato” come se le comunità umane territoriali fossero riducibili al loro mercato, una credenza la cui assurdità lascia esterrefatti soprattutto volgendoci a coloro che sembrano pure prenderla sul serio.  Il sistema economico europeo assomiglia strutturalmente al sistema della credenza cristiana del medioevo. Ogni società piccola o grande, medioevale o moderna, è attraversata da fatti economici quanto religiosi ma  quello che Schmitt chiamava il “nomos” della terra, chiama la partizione politica e giuridica, non quella economica, né quella religiosa. L’islam ha provato alle sue origini a comprendere in un unico Stato (califfato-sultanato) tutte le terre dei credenti ma si è ogni volta frantumato perché per quanto comune sia la credenza spirituale e financo parte della legge (sharia), questo è solo un di cui delle società territorializzate. Gli ebrei hanno in effetti fatto nazione senza vincolarsi ad uno stato territoriale (almeno fino alla nascita di Israele), ma sono l’unico esempio storico in merito ed hanno anche pagato alti prezzi per questa atipicità sgradita -in genere- alla gran parte delle popolazioni territorializzate. Quando le popolazioni crebbero in Europa e le nuove partizioni politico-territoriali statali andarono in urto con l’ecumene cristiano, prima si ruppe l’unità cattolica con Lutero, poi ci fu uno sciame di conflitti che con Augusta – Westfalia sancì definitivamente il “cuis regius, eius religio”, la sottomissione del religioso al politico. Anche Enrico VIII inventò la chiesa anglicana per non aver intromissioni di sovranità da parte del continente (papato romano) così come i britannici hanno poi ribadito con la Brexit nei confronti del’UE. Per quanto si voglia complicare la faccenda, arriva sempre un punto di decisione (la fatidica domanda “chi decide?”) in cui o si segue una logica eteronoma (sistema della credenza, sistema economico e soprattutto finanziario che tendono a superare i confini, sistemi che tendono all’universale) o una logica autonoma e l’unica logica autonoma che esiste è quella politica, la sovranità che la comunità esercita su un territorio. Io non posso vivere accanto ad un vicino che risponde alla sovranità di un micro-stato fondato su una ex-piattaforma petrolifera che rilascia passaporti on line e dire che effettivamente facciamo “società”. Io faccio società coi miei simili, lui è straniero, ognuno risponde a sistemi con logica diverse, non c’è “in comune”, abbiamo firmato due diversi contratti sociali.

In effetti il sistema europeo attuale, è una sistema di Stati-nazionali dominato da i due più forti, la Germania e la Francia, ed è un sistema economico, in parte monetario e poi parzialmente giuridico che non ha nulla a che fare con un processo di unificazione politica. Lamentarne la scarsa democraticità ha poco senso perché è una libera alleanza economica contratta da soggetti sovrani, non direttamente dai popoli sottostanti. I popoli sottostanti semmai dovrebbero lamentarsi della scarsa democrazia dei loro Stati ma una volta che i parlamenti-governi hanno deliberato questo o quello ed avranno regolato i loro pesi nei rapporti di forza tra stati nel loro Consiglio dell’Unione (cioè della confederazione), nel sistema confederale si farà questo o quello com’è ovvio che sia. Questo sistema non ci pensa nemmeno un po’ a diventare un sistema federale, cioè un futuro stato anche perché il fine dovrebbe ordinarne il processo, cosa che non avviene osservando il processo “unionista” in atto. Se si volesse fare uno Stato comune è tutt’altro il processo di pur lenta sintesi progressiva che occorrerebbe fare. Se economicamente ci piace fare sistema con l’Ungheria e perché no con la Turchia piuttosto che con Israele come ad un certo punto qualcuno proponeva,  solo un pazzo scriteriato può pensare di fare uno stato federale europeo con i britannici e i turchi, i polacchi ed i tedeschi, gli scandinavi ed i greci. Per quanto sia difficile liberarsi dall’impianto mentale che ci hanno mineralizzato in testa, un impianto che parla di economia come nel medioevo si parlava di Dio, della mano invisibile come si parlava della Provvidenza,  del debito pubblico come si parlava del peccato,  invito i lettori e lettrici a recuperare un minimo di autonomia mentale e fare l’elenco dei punti che connotano una sovranità e domandarsi quale principi culturali, educativi, stili di vita, interessi geopolitici, forme economiche, lingue che aiutano a pensare oltreché comunicare, tradizioni storiche e politiche, odi reciproci, avrebbero in comune i candidati europei a fare uno Stato assieme?  Forse -appunto-, solo gli odi reciproci.

Si dirà “be’ certo non è facile ma dobbiamo provarci proprio per quanto hai sin qui sostenuto con il principio di taglia minima”. Ma il punto è che, a parte il fatto che non ci stiamo affatto provando perché se ci stessimo provando davvero dovremmo fare tutt’altre cose per fare uno Stato comune, se il “principio di taglia minima” ci dà il pavimento della casa comune da costruire, c’è un altro principio da osservare e che ci dà il tetto: il principio di omogeneità relativa.  Non stare da soli ed unirsi a qualcuno non porta ad unirsi a tutti, se non altro perché agisce il principio naturale di progressività che dal semplice si arrampica lungo la scala della complessità, scala che ha pioli, che non è un collasso spazio-temporale per il quale si va da 0 a 100. Sebbene con la meccanica quantistica abbiamo scoperto che contrariamente a quanto ritenuto nel medioevo la natura fa salti, li fa per passare da un sistema ad un altro sistema, non per passare direttamente dall’elettrone all’Universo, gli elettroni guidano solo il salto che dall’atomo porta alla molecola.  Quali sarebbero le molecole da creare per salire lungo processo di sintesi dell’estrema eterogeneità europea? Quali sarebbero cioè le fusioni politiche, costituzionali ed a quel punto certo “democratiche” e sovrane di maggior taglia, possibili? Quali sarebbero le forme della prima semplificazione della complessità europea che s’illude (o fa finta di illudersi dandoci vaghi sogni come gli inconcepibili “Stati Uniti d’Europa”) di passare dai molti all’uno perché abbiamo la stessa moneta? Quelle che ci indica il principio di omogeneità relativa.

Se riuscissimo a liberare la mente dagli impianti mentali che utilizziamo per pensare le cose, impianti che tra liberali globalisti, neo-liberisti con tendenze anarco-capitaliste, marxisti praticamente senza una teoria dello Stato, sovranisti semplificati, post-moderni confusi e confondenti,  non sembrano centrati sulla natura intrinseca del problema che abbiamo, se riuscissimo a sostituire gli ordini del pensiero economico che di loro natura sono del tutto inidonei per pensare a Stati e sovranità, con ad esempio quelli del pensiero geo-storico che oltretutto parla di cose realmente esistite e successe e non di interessi materiali travestiti da metafisica, penso sarebbe intuitivamente compreso cosa s’intende con “principio di omogeneità relativa”. In breve, come italiani o francesi o spagnoli o inglesi o germani (che sono un sistema storico ben meno preciso dei primi quattro), si formarono in nazione partendo da gruppi diversi non proprio uguali ma con “qualcosa” in comune, così stati di maggior taglia semmai si volessero seguire le conseguenze principali del principio di taglia minima, saranno possibili solo tra coloro che hanno avuto e quindi hanno “qualcosa in comune”, per seguire quello di omogeneità relativa.

Con ciò concludiamo tornando all’apertura di questo scritto, lì dove si indicavano le quattro-cinque famiglie storico culturali europee che si pongono a metà tra la partizione stato-nazionale attuale e l’idea astratta di popolo europeo magari ammassato nei quanto mai improbabili Stati Uniti d’Europa. Come i britannici hanno un loro istinto formatosi nella geo-storia di lungo periodo in quella che è di per sé un’isola, come gli iberici, gli italici ed i greci (ma anche i danesi e gli scandinavi) sono popoli di penisole, così i germano scandinavi o i latino-mediterranei e gli slavi almeno quelli del nord, hanno una loro geo-storia comune o quantomeno fortemente intrecciata. Questo “in comune” culturale, linguistico, geopolitico, storico, istituzionale, sociale, di stile di vita, di valori, di religioni è l’unico presupposto per tentare la scalata alla complessità per fare nuovi macro-Stati. Il punto è tutto nell’impianto mentale che usiamo per fare analisi e sintesi, per fare descrizioni e darci norme. Usando un impianto economicista appaiono possibili edopportune alcune cose, usando un impianto geo-storico, altre, il primo ragiona per mercati il secondo per Stati, il primo è astrattamente cosmopolita il secondo s’impegna al più concreto livello di far convivere diverse nazioni tra loro perché ne riconosce la storica esistenza sistemica, il primo si basa sul diritto del più forte e non potrà mai esser democratico, il secondo è politico, quindi costituzionale, sovrano ed idoneo alla pretesa di democrazia. Il primo si basa su una “fede”, il secondo sulla ragione.

Se pensate sia opportuno far fronte ai tanti e svariati problemi che abbiamo velocemente elencato  in termini di adattamento tra le nostre popolazioni al mondo complesso e multipolare, denso e competitivo, con un impianto economicista e non geo-storico,  continuate a costruire il vostro mercato comune dominato dalla potenza condominiale franco-tedesca, uniti dalla ritrovata pace reciproca fatta pagare a tutti quelli che gli stanno attorno. Potrete anche andare in giro a raccontarvi che la fine della storia saranno gli Stati Uniti d’Europa, tanto quanto il papa ed i suoi grassi e laidi cardinali e preti andavano in giro nel medioevo a raccontare che con loro si realizzava l’ecumene del regno di Dio in terra mentre rubavano terre e ricchezze al popolo ignaro, sottomesso e pregante. Oppure se seguite un impianto sovranista elementare potrete concentrarvi con soddisfazione a dire l’esatto contrario di quello che dicono i neo-liberali. Non costruirete nulla che sia possibile nel mondo nuovo ma vi toglierete la soddisfazione di non esservi omologati a parole. Nei fatti lo sarete comunque dato che o soverchiati dai dominanti “europeisti” o semmai beneficiati di qualche rimbalzo d’opinione messi davvero nelle condizioni di tornare allo Stato-nazione di taglia europea, sarete comunque soggetti a più poteri eteronomi, quelli dei sempre più potenti sistemi vaghi e quelli dei sistemi non vaghi come gli Stati Uniti e la Cina.

Se invece siete davvero convinti che Stato e sovranità se non proprio degli universali siano almeno quanto di più logico la storia ci mostra in termini di auto-organizzazione ed auto-nomia delle umane forme di vita associata, se non riuscite a trovare il perché non applicare i due principi connessi della taglia minima e dell’omogeneità relativa, allora dovrete staccare lo Stato e la nazione  e concluderne che solo una grande Stato federale, costituzionale e democratico tra popolazioni relativamente omogenee, nel nostro caso i  popoli latino-mediterranei, ci può dare le migliori condizioni di possibilità di avere un futuro degno del nostro passato[2]. Incrociando i principi di taglia minima e di omogeneità relativa, restando nel limite di ciò che è geo-storicamente suggerito, occorre cominciare a pensare a Stati in grado di essere un polo nel gioco multipolare[3], altrimenti la sovranità sarà da parziale a nulla.

Il destino degli europei, quindi,  è tutto nel sistema col quale lo pensiamo.

[Fine. 2/2, qui la prima puntata]

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[I libri usati per accompagnare il testo sono altrettanti contributi utilizzati dall’Autore per sviluppare il ragionamento]

[1] Poco meno di cinquanta stati su circa 200 in cui si compone il mondo fa il circa 25%, ma rispetto alle terre emerse, Europa è solo il 3,5%. Così, se lo stato medio statistico mondiale è su i 37,5 milioni di abitanti, solo 7 stati europei pareggiano o superano questa media. E’ evidente che il frazionismo europeo ha uno standard tutto suo, figlio della peculiare geo-storia di tempi che non sono più.

[2] Ne abbiamo parlato ed argomentato più volte nei nostri scritti. Il riferimento teorico è ad A. Kojéve, L’impero latino, (in Il silenzio della tirannide), Adelphi, 2004. Più di recente, era una linea indagata anche dall’economista, oggi scomparso, Bruno Amoroso. Ricordiamo ancora una volta che una Unione federale tra Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Grecia e Cipro (da vedere Malta), sarebbe composta da duecento milioni di individui che manterrebbero ampie autonomia nei precedenti confini nazionali, ma con devoluzione anche a livelli macro-regionali e provinciali, stante che “democrazia” è una forma politica inversamente proporzionale alla quantità di persone che debbono giungere alla decisione politica. Questo soggetto varrebbe la terza economia del mondo e sarebbe senz’altro un soggetto di peso per i giochi multipolari, a partire da tutti quelli che americani, russi, israeliani e monarchie del Golfo stanno già giocando nel mare davanti casa: il Mediterraneo. Per non parlare dell’Africa o dei possibili rapporti di amicizia col Centro – Sud America ispano-portoghese.

[3] Il nostro ragionamento prende quindi a contesto principale il mondo, non le vicissitudini europeiste o il sistema dell’euro che tanto -giustamente- condizionano l’attuale analisi politica. Va però segnalato che non pochi economisti di buonsenso, tra cui l’ultimo J. Stiglitz, L’euro, Einaudi, 2017, da tempo hanno conseguito che ragionando per aree monetarie ottimali (Mundell 1961), l’area latino mediterranea ha una sua omogeneità parziale interna così ce l’ha quella dei paesi nord europei, ma le due non ce l’hanno tra  loro. Stante che l’idea di avviarci ad una discussione su un possibile nuovo macro-Stato latino-mediterraneo non ha obiettivi politici concreti immediati, già coordinarsi tra questi stati all’interno del sistema UE e promuovere una secessione dell’euro-sud, andrebbe nella direzione auspicata. Se non altro per trattare con qualche minaccia di poter “rovesciare il tavolo”, evenienza la cui necessità hanno scoperto i greci quando si sono trovati a dover dar seguito alle loro promesse elettorali con Syriza. Soprattutto le malconce sinistre di questi paesi stritolati dalla morsa infernale del sistema bruxellese, ne gioverebbero visto che sono immobilizzate dal doppio legame tra “superamento delle nazioni e dei nazionalismi” da una parte e “rifiuto degli impianto neo-ordo-liberisti” che connotano l’attuale costruzione dall’altra. La sinistra occidentale, alimentata ad overdosi di idealismo, dovrebbe recuperare presto una qualche attitudine pragmatico-realista se non vuole scomparire definitivamente. Fare un progetto latino-mediterraneo ci sembra una possibile alternativa ai vaneggiamenti su un’Europa democratica (idea promossa da un economista, non a caso),  e della democrazia impotente del ritorno all’impossibile autonomia nazionale.

 

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