di Michelangelo Severgnini
Dal precipitare degli eventi in Siria a oggi ho meticolosamente scandagliato la stampa turca e curda, presente e passata, per ricostruire perlomeno un pezzo della verità, perlomeno fonti alla mano, ricostruendo come il crollo di Assad sia percepito da questo lato della faccenda.
Questione quanto più sotto i riflettori dal momento che moltissimi analisti hanno da subito messo la Turchia sul banco degli imputati, riconoscendola mandante di questo improvviso epilogo del governo siriano.
Tuttavia tutto ciò non trova riscontri oggettivi ed è piuttosto la facile suggestione per colmare quell’inevitabile vuoto di comprensione che si crea in ciascuno di noi. Insomma, se qualcosa non torna, è colpa dei Turchi.
Questo mio intervento è motivato dall’unico obiettivo di vederci meglio e di diradare qualche fumo. Ho vissuto anni in Turchia, paese al quale sono legato, e leggo il turco. Faccio questa premessa per scoraggiare chi voglia leggere queste righe come quelle di un difensore della politica turca, che in passato (vedi con l’Urlo a Tripoli) non ho avuto problemi a denunciare.
Piuttosto credo che un processo sommario alla posizione turca, per altro non suffragato quanto piuttosto frutto di suggestione, in questo momento favorisca quegli obiettivi secondari del conflitto in corso, ma non meno importanti, quali la rottura diplomatica tra i soggetti firmatari gli accordi di Astana (Turchia, Russia e Iran) e l’allontanamento della Turchia dai Brics.
E non voglio favorire senza motivo il raggiungimento di questo obiettivo.
QUEL FILO DIRETTO TRA GLI ATTENTATI DI ANKARA E LA CADUTA DI ASSAD
Lo scorso 23 ottobre, come sappiamo, una cellula del PKK ha compiuto un attentato ad Ankara contro la sede delle Industrie Aerospaziali Turche, facendo 5 vittime.
Non tutti sanno che quella stessa mattina sui quotidiani turchi, a 9 anni di distanza dalla volta precedente, comparivano le parole di Abdullah Öcalan, leader del PKK curdo e condannato all’ergastolo e dal 1999 imprigionato in un carcere di massima sicurezza.
Strana coincidenza che coincidenza non è. In quegli stessi giorni il presidente Erdogan si trovava a Kazan al vertice dei Brics, segnando il punto di massima distanza della Turchia dall’Occidente.
Il motivo per cui il governo turco aveva deciso finalmente di ridare la parola a Öcalan, incontrato in carcere da una delegazione che ha raccolto le sue parole, era quanto il leader curdo aveva da dire e che poi ha detto: “Se ci sono le giuste condizioni, ho il potere teorico e pratico per spostare questo processo dal terreno del conflitto e della violenza al terreno legale e politico”.
Questo stesso concetto era stato espresso da Öcalan già nel 2015 e gli è costato allora 9 anni di isolamento e di silenzio, perché al tempo Erdogan aveva bisogno di montare una guerra nell’area curda che gli consentisse di rimanere in sella e aveva bisogno del PKK per farla.
Ma quei tempi sono passati. Non sono più i tempi in cui Erdogan minacciava i rivali naturali della Turchia in Siria “che se la sarebbero dovuta vedere con la Nato”. Nel frattempo c’è stato il tentato golpe del 2016, partito dalla base americana di Incirlik. Da quel tentato golpe in poi la Nato per la Turchia, da essere un dispositivo di deterrenza contro i propri nemici naturali, è diventata una diretta minaccia per il partito AKP e per la tenuta democratica del paese.
Tutto ha il suo tempo. Ma il lento scivolamento della Turchia è stato quello.
Dagli accordi di Astana in poi la Turchia ha un solo problema in Siria: il PKK mascherato da SDF. E aveva un altro problema: fare in fretta.
Ecco perché mentre Erdogan era a Kazan, il governo turco ha tirato Öcalan fuori dal cassetto ed ecco perché il PKK ha subito battuto un colpo.
Quella è stata la prima scossa di terremoto. Quella che ha annunciato la grande botta.
“NON C’E’ UN MINUTO DA PERDERE”
Lo scorso 11 giugno Erdogan afferma: ”Siamo pronti per la normalizzazione”. Il 7 luglio cerca di essere più esplicito: “Siamo arrivati a un punto tale che non appena Bashar Assad farà un passo verso il miglioramento delle relazioni con la Turchia, noi mostreremo lo stesso approccio nei suoi confronti. Perché ieri non eravamo nemici della Siria, non eravamo nemici di Assad. Ci siamo incontrati come una famiglia. Speriamo che con questo invito vogliamo riportare le relazioni Turchia-Siria allo stesso punto del passato”.
Il 25 luglio Bashar Assad afferma in Parlamento che, nonostante i tentativi dei mediatori, non vi sono stati progressi significativi nelle relazioni con Ankara: ”Nonostante la serietà e la sincerità dei mediatori, gli sforzi non hanno portato finora alcun risultato degno di nota”.
I mediatori non fanno pregressi perché la Siria chiede come condizione alla Turchia di ritirare le proprie truppe e il proprio sostegno all’SNA filo-turco che occupa il nord della Siria. La Turchia dichiara di essere disposta a parlarne, ma al tavolo. Perché a quel tavolo dovrà chiedere in contropartita la fine dell’esperienza delle SDF nell’area curda, lo smantellamento delle brigate curde e l’espulsione dalla Siria del PKK. Da qui le due posizioni non si muoveranno. Perché?
Il 22 settembre Erdogan invia un messaggio alle Nazioni Unite prima del suo viaggio negli Stati Uniti: “Diremo chiaramente che la tensione in Siria deve finire e che l’instabilità è causata dal terrorismo di Stato, in particolare dalle organizzazioni terroristiche, e ovviamente da Israele. Questo non è più un semplice terrorismo ordinario, è terrorismo di stato. Lo abbiamo ripetuto e detto tante volte, ma alcuni, soprattutto i Paesi occidentali, continuano a non capirlo. (…) La Turchia e la Siria possono intraprendere insieme i passi per porre fine a questa tensione e garantire la pace e la stabilità nell’intero territorio siriano. Vediamo che l’amministrazione di Damasco e l’opposizione hanno assicurato che non ci fosse conflitto in Siria per un po’. Questa situazione fornisce un ambiente favorevole per aprire una porta efficace verso una soluzione permanente. Milioni di persone fuori dalla Siria aspettano di tornare in patria. Abbiamo lanciato il nostro appello su questo tema. Abbiamo anche dimostrato la nostra volontà di incontrare Bashar Assad per normalizzare le relazioni tra Turchia e Siria. Ora aspettiamo una risposta dall’altra parte. Siamo pronti per questo”.
In Turchia i titoli sono: “Siria, non c’è un minuto da perdere!”.
Il 23 ottobre ci sono gli attentati di Ankara, mentre l’appello di Öcalan per il disarmo del PKK compare al mattino sui quotidiani turchi.
L’11 novembre a Riyadh, durante un incontro della Lega Araba, Erdo?an e Assad appaiono all’interno della stessa foto di rito per la prima volta dal 2011. Ma l’incontro ufficiale non avviene. In seguito Erdogan dichiara: “Sono ancora fiducioso riguardo ad Assad. Ho ancora la speranza che possiamo unirci e, si spera, rimettere in carreggiata le relazioni tra Siria e Turchia”.
Il 30 novembre i gruppi armati guidati da Hayat Tahrir al Sham lanciano l’offensiva su Aleppo.
Il 6 dicembre, intervenendo dopo la preghiera del venerdì, Erdogan afferma: “Mentre continuava la resistenza con le organizzazioni terroristiche, abbiamo lanciato un appello ad Assad. Abbiamo detto, determiniamo insieme il futuro della Siria. Tuttavia, non abbiamo ricevuto una risposta positiva. Per ora, dopo Idlib, anche Hama e Homs sono nelle mani dell’opposizione. l’obiettivo è naturalmente Damasco. La marcia dell’opposizione continua”.
Queste frasi inequivocabili vengono manipolate in occidente e presentate come se Erdogan rivendicasse la marcia di avanzamento di HTS (qui definita “opposizione” per concetto esteso), dando a intendere che l’obiettivo della Turchia fosse arrivare a Damasco. I più inoltre omettono di riportare la parte finale di quel discorso: “Queste marce travagliate che continuano nell’intera regione non sono ciò che desideriamo, i nostri cuori non le vogliono”.
Un giorno più tardi, il 7 dicembre, alla vigilia della caduta di Assad, Erdogan afferma: “Non desideriamo nemmeno un sassolino di nessun Paese. Speriamo che la nostra vicina Siria raggiunga la pace e la tranquillità che desidera da 13 anni. (…)
Possono esserci confini tra di noi, ma il nostro destino e il nostro dolore sono comuni in questa geografia. Continueremo a essere per l’unità e la solidarietà per molti secoli.
C’è una nuova realtà politica e diplomatica in Siria. La Siria appartiene ai Siriani con tutti i suoi elementi etnici, settari e religiosi. Saranno i Siriani a decidere il futuro del loro Paese.
Siamo consapevoli che l’organizzazione terroristica separatista sta agendo con l’ansia di afferrare un tronco dalla piena. Non permetteremo alcuna mossa che metta a rischio la nostra sicurezza nazionale.
Gli eventi degli ultimi 13 anni dovrebbero dimostrare che non si ottiene nulla spargendo sangue, prendendo vite e sganciando bombe sui civili. Le terre siriane sono sature di guerra, sangue e lacrime. I nostri fratelli e sorelle siriani meritano libertà, sicurezza e una vita pacifica nella loro patria.
Il regime di Damasco non ha capito il valore della mano tesa dalla Turchia e non è riuscito a comprenderne il significato. La Turchia è dalla parte giusta della storia, come lo era ieri. Vogliamo vedere una Siria in cui nessuno sia escluso o perseguitato e in cui le diverse identità convivano in pace”.
“ABBIAMO VISTO CHE IL REGIME SIRIANO STAVA LENTAMENTE CROLLANDO E VOLEVAMO IMPEDIRLO”
Il 7 e 8 dicembre scorsi, a cavallo della caduta di Assad, i ministri degli esteri di Turchia, Russia e Iran si sono ritrovati a Doha per un incontro all’intero dell’Astana format, appunto quel processo che ha portato al congelamento per anni del conflitto in Siria.
Le dichiarazioni del ministro degli esteri turco ribadiscono il concetto già espresso da Erdogan: “Purtroppo, negli ultimi mesi, il nostro Presidente ha cercato di contattare Assad, ma non abbiamo ricevuto risposta a questa chiamata. Abbiamo visto che il regime stava lentamente crollando e volevamo impedirlo. In breve, non abbiamo avuto contatti con il regime.
Negli ultimi 13 anni, la Siria è stato in subbuglio. Tuttavia, dal 2016, attraverso il processo di Astana, abbiamo smorzato la situazione e sostanzialmente congelato la guerra.
Questo tempo prezioso avrebbe dovuto essere utilizzato dal regime per riconciliarsi con il proprio popolo, ma il regime non ha sfruttato questa opportunità.
Quando tutti i tentativi sono falliti, lo stesso presidente Erdogan ha teso la mano al regime per aprire una strada verso l’unità nazionale e la pace in Siria. Anche questo è stato negato. (…)
Le potenze regionali e globali devono agire con prudenza e calma e astenersi dall’infiammare le tensioni in Siria”.
Di quali fiamme ha timore la Turchia? “Ci sono tre partiti curdi legittimi che lavorano insieme nel nord della Siria e fanno parte dell’opposizione siriana più ampia da molto tempo. Tuttavia, qualsiasi estensione del PKK in Siria non può essere considerata una parte legittima da coinvolgere in qualsiasi trattativa in Siria. In breve, no, non c’è nessuna possibilità, a meno che non cambino loro stessi”. E l’SDF, le forze armate curde in Siria sono esattamente un estensione del PKK.
Non sfugga che sin dalle prime ore dell’attacco di HTS su Aleppo, l’SNA sostenuto dai Turchi ha da subito cominciato una propria guerra parallela. Non in direzione di Damasco, ma sulle roccaforti curde nel nord della Siria.
Questo in risposta a una pronta reazione dell’SFD, molto mobile sin dalle prime ore del 30 novembre, quando era riuscito in un primo momento a ricongiungere l’enclave di Tel Rifat con il resto delle zone controllate dai curdi.
Risultato: Tel Rifat, dopo 8 anni, è stata strappata ai Curdi e persino Manbij in questi giorni è caduta. Se i Curdi hanno dimostrato di essere pronti a cogliere l’occasione per espandere il proprio controllo sul nord della Siria, la Turchia non si è fatta trovare impreparata.
LAVROV E IL PARADOSSO DI DOHA
Ma non era sola la Turchia ad accorgersi dei fragorosi scricchiolii che il regime siriano produceva ormai da tempo. Sia fonti russe che fonti iraniane hanno ribadito lo stesso concetto.
Tuttavia, di fronte alle grossolane accuse alla Turchia, il ministro degli esteri russo Sergey Lavrov nei giorni di Doha è stato esplicito. A precisa domanda del giornalista di Al Jazeera se pensasse che la Turchia stesse cavalcando la situazione (eufemismo per non dire che l’avesse provocata) Lavrov risponde: “Sono attori molto influenti in Siria, penso che voi lo sappiate. Sono preoccupati per la sicurezza dei loro confini con la Siria. Ne abbiamo discusso all’interno dell’Astana Format e all’interno dell’Astana Format + Syria, in vista della normalizzazione dei rapporti tra la Turchia e Damasco. Ci sono diverse idee che vorremmo mettere in pratica per mantenere il territorio siriano integro ed unito, garantendo la sicurezza di un confine che è poroso, che è stato poroso, per i terroristi che hanno colpito nel territorio turco (cfr l’ultimo attentato ad Ankara). Gli accordi di Adana (del 1998) sono un esempio di come si potrebbe affrontare la questione. Non ho il più piccolo dubbio che le relazioni tra la Siria e la Turchia vadano normalizzate e noi faremo di tutto per essere d’aiuto>>.
Ma il ministro degli Esteri russo era stato ancora più esplicito solo qualche ora prima di fronte al giornalista americano Tucker Carlson che gli aveva chiesto: “Ma i gruppi di terroristi che hai descritto, chi li sostiene?”. Risposta di Lavrov: “Abbiamo alcune informazioni e vorremmo discutere con tutti i nostri partner in questo processo il modo per tagliare ogni canale di finanziamento ed equipaggiamento militare (a questi gruppi). Le informazioni di dominio pubblico che stanno girando, fanno riferimento agli Americani, ai Britannici e qualcuno dice che Israele è interessato ad aggravare la situazione in modo che Gaza non sia più sotto l’occhio di osservazione. È una faccenda complicata, molti attori sono coinvolti e spero che l’incontro programmato per questa settimana (con gli omologhi turco e iraniano) aiuti a stabilizzare la situazione”.
Purtroppo l’incontro a Doha non è servito a stabilizzare l’occasione. Ma i colpevoli, o i mandanti, sono individuati e messi sul tavolo. Tra questi, non a caso, la Turchia non compare. Ma, per paradosso, gli analisti internazionali continuano a ritenerla responsabile. Il Financial Times addirittura proclama Erdogan il vincitore di questa operazione. Ma al dio degli Inglesi non credere mai.
O QUANTE BELLE FIGLIE MADAMA DORE’
In questi giorni uno dei fenomeni più interessanti ed influenti del conflitto è stata la comunicazione, terreno di scontro non meno che il campo di battaglia. Si è assistito tra gli altri al comparire di post, rilanciati in forma di screeshot, che sarebbero scritti da figlie illustri quanto incolpevoli: Esra la figlia di Erdogan, Sara la figlia di Hanieyh e altre figlie di altri leader musulmani vivi o scomparsi sono intervenute per felicitarsi con la Siria per la caduta di Assad. Ovviamente la figlia di Erdogan non poteva esimersi dal proclamare suo padre il vincitore della vicenda. Tutte queste belle figlie di leader musulmani, tutte arruolate nelle celebrazioni per la caduta di Assad, hanno però una cosa in comune: sono tutti troll israeliani.
Le dichiarazioni volano, fanno il giro di canali e pagine di giornalisti e analisti. E contribuiscono ad inquinare la ricerca della verità.
La macchina della disinformazione israeliana si muove tuttavia all’interno di un quadro d’azione più ampio che evidentemente coinvolge gli Stati Uniti. Il portavoce del Dipartimento di Stato americano Matthew Miller ha affermato il 10 dicembre che l’ingresso dell’esercito israeliano nel territorio siriano oltre le alture di Golan è una “situazione temporanea” a causa della lacuna di sicurezza. La caduta di Assad “ha creato un vuoto che potrebbe essere riempito da organizzazioni terroristiche, minacciando potenzialmente Israele e i suoi cittadini”.
Tuttavia riguardo all’avanzata delle forze militari di opposizione filo-turche dell’SNA impegnate contro le SDF curde a Manbij, il portavoce Miller ha dichiarato: “Non vogliamo che nessuno approfitti di questo periodo di instabilità e cerchi di avanzare le proprie posizioni in Siria”. Insomma, Israele può muoversi e fare progressi sul territorio siriano, la Turchia no, si deve astenere. Persino il principio della “lacuna di sicurezza” vale per Israele, ma non per la Turchia.
IL PEGGIOR SCENARIO POSSIBILE
La politica coltivata in questi ultimi 4 anni dalla Turchia in Siria prevedeva la piena attuazione degli accordi di Astana, al tavolo dei quali stava seduta pure l’opposizione siriana. Sulla base di questa linea la Turchia ha chiesto invano per mesi ad Assad di avviare un processo di “normalizzazione” delle relazioni, che in poche parole prevedeva lo smantellamento delle forze armate curde delle SDF in concomitanza, ma non successivamente allo smantellamento dell’SNA filo-turco. Infine, non da ultimo, il ritorno dei profughi e l’ingresso dell’opposizione siriana all’interno delle dinamiche politiche del Paese. Arrivati a questo punto, per quell’enclave ad Idlib dove covava l’HTS, ribattezzata sulla stampa turca “piccolo Afghanistan”, non ci sarebbe stata più ragione di esistere né speranza di sopravvivere.
Assad avrà avuto tutti i suoi motivi per tirarsi indietro. Ma questi erano gli accordi.
A questo scenario si era preparata la Turchia.
Ma come poi riferito da più fonti, né Russia né Iran erano impreparate del tutto agli eventi. Sia Russia che Iran conoscevano bene la debolezza del SAA, dell’esercito di Assad, reticente verso gli “aiuti” russi e iraniani, adagiato sul ritorno della Siria nella Lega Araba, confuso dalle lusinghe del Golfo, riformato di recente su base nepotistica ed esposto alla fragilità degli eventi. Pertanto, tantomeno la Turchia era del tutto impreparata a questi eventi.
Nei primi giorni dell’attacco dell’HTS, l’SNA filo-turco entra in azione in risposta all’avanzare delle SDF curde, non punta verso Damasco. E ancora lì sono impegnate. I vertici del PKK hanno nel frattempo incontrato emissari di Israele, e presto i territori di influenza israeliana in Siria potrebbero unirsi a quelli controllati dalle forze curde. A questo punto per la Turchia si verrebbe a creare il peggior scenario possibile.
Per questo la Turchia oggi è costretta a rimanere aggrappata all’Astana Format. E’ costretta a far di tutto per sostenere quella che era l‘opposizione siriana che si era presentata ad Astana, perché non lasci l’egemonia in mano all’HTS. Solo così ha la possibilità di contrastare diplomaticamente il PKK in Siria, mentre nelle prossime settimane vedremo cosa dirà il campo di battaglia. La Turchia sa bene, come ricordato dal presidente Erdogan in questi giorni, che se salta la Siria, la prossima può essere la Turchia. Se salta Erdogan, saltano tutti gli accordi firmati sulla via della seta, a cominciare dal Road Development Project che avrebbe unito Bassora ad Hatay, provincia meridionale turca affacciata sul Mediterraneo, che avrebbe dovuto portare il petrolio iracheno nel mediterraneo e il cui percorso sarebbe dovuto transitare proprio per il confine turco-siriano ormai pacificato.
E’ alla luce di queste considerazioni che vanno lette le dichiarazioni rilasciate questo martedì da Erdogan: “Si spera che le organizzazioni terroristiche come Daesh e PKK/PYD in altre parti del paese vengano schiacciate il prima possibile. (…) Trovo utile ricordarlo a tutti coloro che mettono gli occhi sulle terre siriane. Come Turchia abbiamo fatto grandi sacrifici per portare la Siria a questo livello. Lo abbiamo fatto con soddisfazione, senza lamentarci. Non possiamo permettere che il territorio siriano venga nuovamente diviso. (…) Non resteremo a guardare mentre alcune persone incendiano la regione con il coraggio che ricevono dalle forze su cui fanno affidamento”.
Se non è una dichiarazione di guerra, manca ancora poco.
Il destinatario della dichiarazione che non tarderà ad arrivare sono le forze turche dell’SDF. Alle loro spalle l’ombra di Israele, già sporca del sangue di Gaza. A quel punto il peggior scenario possibile per la Turchia si sarà materializzato. In questi giorni la stampa anglosassone tratta Erdogan come nella favola del corvo e la volpe. Tutti lo dipingono come vincitore, come grande stratega. In realtà è il prossimo nel mirino.
































Trigger Warning: Segue materiale eccezionalmente cupo, tetro &; disperante… Comunque, siete stati avvertiti, cari lettori &; ascoltatori! 






















Kim R. Holmes, Ph.D.
@kimsmithholmes
Ex vicepresidente esecutivo
A prima vista, il nuovo nazionalismo dei conservatori sembrerà benigno e persino incontestabile. Nel suo libro “The Case for Nationalism”, Rich Lowry definisce il nazionalismo come il risultato della “naturale devozione di un popolo verso la propria casa e il proprio Paese”. Anche Yoram Hazony, nel suo libro “La virtù del nazionalismo”, dà una definizione piuttosto anodina di nazionalismo. Significa “che il mondo è governato al meglio quando le nazioni accettano di coltivare le proprie tradizioni, senza interferenze da parte di altre nazioni”.
Non c’è nulla di particolarmente controverso in queste affermazioni. Definito in questi termini, sembra poco più che una semplice difesa della nazionalità o della sovranità nazionale, motivo per cui Lowry, Hazony e altri insistono sul fatto che la loro definizione di nazionalismo non ha nulla a che fare con le forme più virulente che coinvolgono l’etnia, la razza, il militarismo o il fascismo;
Ecco il problema. Suppongo che ognuno di noi possa prendere qualsiasi tradizione che abbia una storia definita e semplicemente ridefinirla a proprio piacimento. Potremmo quindi darci il permesso di incolpare chiunque non sia d’accordo con noi di averci “frainteso” o addirittura diffamato.
Ma chi è il vero responsabile del fraintendimento? Le persone che cercano di ridefinire il termine o quelle che ci ricordano la vera storia del nazionalismo e ciò che il nazionalismo è stato nella storia? Il che solleva una domanda ancora più grande: Perché seguire questa strada?
Se dovete passare metà del vostro tempo a spiegare “Oh, non intendo quel tipo di nazionalismo”, perché volete associare una venerabile tradizione di patriottismo civico americano, di orgoglio nazionale e di eccezionalismo americano ai vari nazionalismi che si sono verificati nel mondo? Dopo tutto, i conservatori americani hanno sostenuto che una delle grandi cose dell’America era che era diversa da tutti gli altri Paesi. Diverso da tutti gli altri nazionalismi;
Ecco il mio punto di vista. Il nazionalismo non è la stessa cosa dell’identità nazionale. Non è la stessa cosa del rispetto della sovranità nazionale. Non è nemmeno la stessa cosa dell’orgoglio nazionale. È qualcosa di storicamente e filosoficamente diverso, e queste differenze non sono semplicemente semantiche, tecniche o preoccupazioni degli storici accademici. In realtà, riguardano l’essenza stessa di ciò che significa essere americani.
Credo di capire perché alcune persone siano attratte dal concetto di nazionalismo. Il Presidente Trump ha usato il termine nazionalismo. I nazionalconservatori pensano che il Presidente Trump abbia attinto a un nuovo populismo per il conservatorismo e vogliono approfittarne. Pensano che il conservatorismo fusionista tradizionale e l’idea dell’eccezionalismo americano non siano abbastanza forti. Queste idee non sono sufficientemente muscolari. Vogliono qualcosa di più forte per opporsi alle pretese universali del globalismo e del progressismo, che ritengono antiamericane. Vogliono anche qualcosa di più forte per respingere le frontiere aperte e l’immigrazione senza limiti.
Lo capisco. Capisco molto bene il desiderio di avere una reazione muscolare alla tracotanza della governance internazionale e del globalismo, e non ho alcun problema a sostenere che un sistema internazionale basato sugli Stati nazionali e sulla sovranità nazionale sia di gran lunga superiore, soprattutto per gli Stati Uniti, a uno gestito da un organo di governo globale democraticamente distante dai cittadini.
Qual è allora il problema? Perché non possiamo essere tutti d’accordo sul fatto che il nazionalismo definito in questo modo è ciò che noi conservatori americani siamo stati e abbiamo sempre creduto – che è solo una nuova bottiglia più alla moda per un vino molto vecchio? Beh, perché la nuova bottiglia cambia il modo in cui il vino sarà visto. Perché abbiamo bisogno di una nuova bottiglia? Sarebbe come mettere un ottimo cabernet californiano in una bottiglia etichettata dalla Germania o dalla Francia o dalla Russia o dalla Cina;
Il problema sta in quel piccolo suffisso, “ismo”. Indica che la parola nazionalismo indica una pratica, un sistema, una filosofia o un’ideologia generale che vale per tutti. Esiste una tradizione di nazionalismo di cui noi americani facciamo parte. Tutti i Paesi hanno “nazionalismi”. Tutte le nazioni e tutti i popoli si distinguono per ciò che li rende diversi. Il loro patrimonio comune di nazionalisti è in realtà la loro differenza. Le loro diverse lingue, le loro diverse etnie, le loro diverse culture.
Allo stesso tempo, tutte le nazioni dovrebbero condividere la stessa sovranità e gli stessi diritti dello Stato nazionale, indipendentemente dalla loro forma di governo. Uno Stato nazionale sovrano e democratico non è, da questo punto di vista, diverso da uno Stato nazionale sovrano e autoritario. A prescindere dai diversi tipi di governo, ciò che conta è la comunanza dello Stato-nazione. Pertanto, la sovranità dell’Iran o della Corea del Nord, secondo questo modo di pensare, non è moralmente e giuridicamente diversa dalla sovranità degli Stati Uniti o di qualsiasi altra nazione democratica.
Sono fermamente convinto che non tutti gli Stati nazionali siano uguali. Nella storia ci sono stati momenti in cui le nazioni sono state associate al razzismo, alla supremazia etnica, al militarismo, al comunismo e al fascismo. Questo significa che tutti gli Stati nazionali sono così? Certo che no, ma c’è un’enorme differenza tra il fenomeno storico del nazionalismo e il rispetto della sovranità di uno Stato nazionale democratico. Il nazionalismo celebra le differenze culturali e persino etniche di un popolo, indipendentemente dalla forma di governo. Lo Stato nazionale democratico, invece, fonda la sua legittimità e la sua sovranità sulla governance democratica.
Il problema principale che causa questo fraintendimento è il non riconoscere la vera storia del nazionalismo. Si tratta, come ho già detto, di confondere l’identità nazionale, la coscienza nazionale e la sovranità nazionale con il Nazionalismo con la N maiuscola.
Il nazionalismo come lo conosciamo storicamente non è nato in America, ma in Europa. Il nostro movimento per l’indipendenza fu una rivolta del popolo contro il tipo di governo che avevamo sotto gli inglesi. All’inizio i fondatori si consideravano inglesi, ai quali il Parlamento e la corona negavano i loro diritti. Sì, gli americani avevano certamente un’identità, ma non era basata solo sull’etnia, sulla lingua o sulla religione. Avevano già sviluppato una concezione molto distinta dell’autogoverno, e questa fu la chiave della Rivoluzione.
A quel tempo, gli americani avevano già un senso di identità abbastanza forte, ma questa identità non era il nazionalismo. Perché? Perché il nazionalismo non era ancora stato inventato. Non esisteva all’epoca della Rivoluzione americana;
Il nazionalismo moderno è nato in Francia, con la Rivoluzione francese. La rivoluzione fu una chiamata alle armi del popolo francese. La nazione francese è nata con la Rivoluzione francese. Il Terrore e l’imperialismo napoleonico furono la massima espressione del neonato nazionalismo francese;
L’imperialismo nazionalista di Napoleone, a sua volta, scatenò l’ascesa di un nazionalismo contro-reazionario in Germania e in tutta Europa. Tedeschi, russi, austriaci e altre nazioni scoprirono la propria coscienza nazionale e l’importanza della propria cultura nell’odio verso gli invasori francesi.
In seguito, il nazionalismo ha imperversato nei secoli XIX e XX come celebrazione di nazioni basate su una cultura nazionale comune, una lingua comune e un’esperienza storica comune. Il nazionalismo era, in questo senso, particolaristico. Era populistico. Era esclusivo. Era a somma zero. Celebrava le differenze, non la comune umanità del cristianesimo come era stata conosciuta nel Sacro Romano Impero o nella Chiesa cattolica o anche nell’Illuminismo.
La chiave del nazionalismo era lo Stato-nazione. Tecnicamente, non era il popolo stesso a essere libero o sovrano in quanto popolo, ma il popolo rappresentato da e in nome dello Stato-nazione. In altre parole, i loro governi. La sovranità risiedeva in ultima analisi nello Stato, non nel popolo. Lo Stato era al di sopra del popolo, non del, dal e per il popolo come nell’esperienza americana. Ancora oggi, questa idea vive, ad esempio, nella monarchia britannica, dove la Regina è il sovrano ultimo, non il popolo o il Parlamento.
Purtroppo è un errore storico comune quello di equiparare il nazionalismo all’ascesa storica dello Stato nazionale in Europa e al sistema statale internazionale sorto dopo la Pace di Westfalia del 1648. La Pace di Westfalia ha riconosciuto la sovranità dei principi, al di là delle pretese universali del Sacro Romano Impero e della Chiesa, ed è vero che la Riforma protestante ha consolidato la sovranità dei principi e dei principati come precursori dello Stato nazionale.
Ma si trattava di principi. Erano monarchie. Erano dinastie. Solo molto più tardi è sorto nella storia il moderno Stato-nazione e soprattutto il sentimento popolare del nazionalismo. Qualunque sia stato questo sistema statale, non è il nazionalismo. Il nazionalismo è un fenomeno storico che non è emerso per altri 150 anni dopo il 1648. Affermare il contrario è solo cattiva storia, pura e semplice.
Questo mi porta all’idea dell’eccezionalismo americano, che è, a mio avviso, la risposta alla domanda sull’identità nazionale dell’America e su cosa dovrebbe essere;
È un concetto bellissimo che cattura sia la realtà che l’ambiguità dell’esperienza americana. Si basa su un credo universale. Si basa sui principi fondanti dell’America: la legge naturale, la libertà, il governo limitato, i diritti individuali, i controlli e gli equilibri del governo, la sovranità popolare e non la sovranità dello Stato-nazione, il ruolo civilizzatore della religione nella società civile e non una religione stabilita associata a una classe o a un credo, e il ruolo cruciale della società civile e delle istituzioni civili nel fondare e mediare la nostra democrazia e la nostra libertà”;
Noi americani crediamo che questi principi siano giusti e veri per tutti i popoli e non solo per noi. Questo era il modo in cui li intendevano Washington e Jefferson, e certamente lo intendeva Lincoln. È questo che li rende universali. In altre parole, il credo americano ci fonda su principi universali.
Ma allora cosa ci rende così eccezionali? Se è universale, cosa ci rende eccezionali? È, infatti, il credo.
Crediamo che gli americani siano diversi perché il nostro credo è universale ed eccezionale allo stesso tempo. Siamo eccezionali per il modo unico in cui applichiamo i nostri principi universali. Non significa necessariamente che siamo migliori di altri popoli, anche se credo che probabilmente la maggior parte degli americani creda di esserlo. Non si tratta di vantarsi. Piuttosto, è una dichiarazione di fatto storico che c’è qualcosa di veramente diverso e unico negli Stati Uniti, che si perde quando si parla in termini di nazionalismo.
Un nazionalista non può dire questo, perché non c’è nulla di universale nel nazionalismo se non il fatto che tutti i nazionalismi sono, beh, diversi e particolaristici. Il nazionalismo è privo di un’idea o di un principio di governo comune, tranne che per il fatto che un popolo o uno Stato nazionale può essere quasi tutto. Può essere fascista, autoritario, totalitario o democratico.
Alcuni dei nuovi nazionalisti dubitano esplicitamente dell’importanza del credo americano. Sostengono che il credo non è così importante come pensavamo per la nostra identità nazionale;
Cosa significa dire che il credo non è poi così importante? Se il credo non è importante, cosa c’è di così speciale nell’America?
È la nostra lingua? Beh, no. Lo condividiamo con la Gran Bretagna e ora con gran parte del mondo.
È la nostra etnia? Beh, neanche questo funziona, perché non esiste un’etnia americana comune;
È una religione specifica? Siamo effettivamente un Paese religioso, ma no, abbiamo la libertà di religione, non una religione specifica.
È per i nostri bellissimi fiumi e montagne? No. Abbiamo alcuni bellissimi fiumi e montagne, ma anche altri Paesi.
È la nostra cultura? Sì, credo di sì, ma come si fa a capire la cultura americana senza il credo americano e i principi fondanti?
Lincoln definì l’America “l’ultima migliore speranza del mondo”, perché era un luogo dove tutte le persone possono e devono essere libere. Prima di Lincoln, Jefferson la definì un impero di libertà;
Gli immigrati sono arrivati qui e sono diventati veri americani vivendo il credo e il sogno americano. Si può diventare cittadini francesi, ma per la maggior parte dei francesi, se si è stranieri, non è la stessa cosa che essere francesi. Qui è diverso. Si può essere veri americani adottando il nostro credo e il nostro stile di vita.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, la via americana e la nostra devozione alla democrazia sono diventate un faro di libertà per il mondo intero. Questo è stato il fondamento della nostra pretesa di leadership mondiale durante la Guerra Fredda, e non è diverso oggi. Se diventiamo una nazione come tutte le altre, francamente non mi aspetterei che altre nazioni ci concedano una fiducia o un sostegno particolari.
Un altro vantaggio dell’eccezionalismo americano è che si autocorregge. Quando non riusciamo ad essere all’altezza dei nostri ideali, come nel caso della schiavitù prima della Guerra Civile, possiamo appellarci, come fece Lincoln, alla nostra “natura migliore” per correggere i nostri difetti. È qui che entra in gioco l’importanza centrale del credo. Applicare correttamente i principi della Dichiarazione di Indipendenza ci ha permesso di riscattare noi stessi e la nostra storia quando ci siamo smarriti;
Non c’è identità americana senza il credo americano. Tuttavia, i nazionalisti hanno ragione su una cosa, nel suggerire che l’identità americana non è solo un insieme di idee. Queste idee sono vissute nella nostra cultura – questo è vero. È anche vero, come disse Lincoln a proposito dei suoi famosi “accordi mistici della memoria”, che la nostra esperienza comune e la nostra storia comune formano una storia unica. È una storia che incarna le vite e le relazioni molto reali delle persone e un’esperienza culturale condivisa in uno spazio e in un tempo condivisi nella storia che chiamiamo Stati Uniti.
La condivisione dell’esperienza nello spazio e nel tempo – e di per sé – non è diversa da quella che vive qualsiasi altra nazione. Al livello più elementare, sì, direi che tutte le nazioni sono simili sotto questo aspetto. Ma ciò che lo rendeva diverso per Lincoln era che egli credeva e sperava che i “migliori angeli della nostra natura”, che erano fondati nel credo americano, avrebbero toccato le corde mistiche della memoria che compongono quella storia – ed era quel “tocco” che ci distingueva dalle altre nazioni.
Concludo con due osservazioni;
Uno: il grado di plausibilità del conservatorismo nazionale si basa su un profondo equivoco storico. Le affermazioni che di per sé suonano vere e persino attraenti devono essere sospese in uno stato di amnesia storica per avere senso;
Quando Hazony dice: “La coesione nazionale è l’ingrediente segreto che permette alle istituzioni libere di esistere”, fa un’affermazione quasi ovvia e banale, almeno per i paesi che sono già liberi. Il problema inizia quando lo associa alla tradizione generale delle virtù del nazionalismo come concetto. Allora il discorso si fa davvero complicato;
La coesione nazionale è l’ingrediente segreto per liberare le istituzioni dai nazionalisti in Russia? In Cina? O in Iran? Difficilmente. In realtà, il nazionalismo in questi Paesi è l’acerrimo nemico delle istituzioni libere. Se la risposta è: “Beh, non intendo quel tipo di nazionalismo”, allora la domanda si fa davvero difficile: Perché fare affermazioni generali sul nazionalismo se le eccezioni sono così grandi? Se in effetti le eccezioni finiscono per essere la regola?
Il mio secondo punto è questo. Se questo fosse solo un dibattito accademico sull’idea di nazionalismo, suppongo che non sarebbe poi così importante. Si potrebbe lasciare che gli intellettuali spacchino il capello in quattro e gli storici facciano le loro considerazioni sulla storia del nazionalismo, e si potrebbe andare a vedere se il concetto di nazionalismo ci aiuta davvero politicamente – se è vero o no.
Temo che il problema sia più grande per i conservatori. Il movimento conservatore si trova oggi ad affrontare enormi minacce ai nostri principi fondamentali. Da sinistra, ci troviamo di fronte a progressisti che hanno sempre detto che il nostro credo e le nostre pretese di eccezionalità americana erano una frode. Hanno sempre sostenuto che siamo una nazione come le altre. Anzi, i più radicali sostengono che in realtà siamo peggiori di altre nazioni proprio perché i nostri principi fondanti erano presumibilmente basati sulla menzogna.
Ora ci troviamo di fronte a una nuova sfida alla santità del credo americano, proveniente da un’altra direzione. Questa volta, da destra. Il primo passo è quello di confondere le distinzioni tra il nazionalismo praticato e l’unicità dell’eccezionalismo americano. Poi, si passa a sollevare lo spettro dello Stato-nazione come un’idea – se non l’idea centrale – del conservatorismo americano. Non è diverso da quello che probabilmente direbbe un conservatore dell’Europa continentale sulle proprie tradizioni;
Francamente, non lo capisco affatto. I conservatori americani sono scettici nei confronti del governo. Sono scettici nei confronti dello Stato-nazione. È questo che ci rende conservatori. Allora perché elevare il concetto di Stato-nazione che è così estraneo alla tradizione conservatrice americana?
Temo che la risposta possa avere a che fare con la più profonda trasformazione filosofica che sta avvenendo all’interno di alcuni circoli politici conservatori. Per alcuni conservatori sta diventando di moda criticare il capitalismo e il libero mercato. Alcuni sostengono addirittura che non ci sono più principi limitanti a ciò che lo Stato e il governo possono o devono fare in nome della loro agenda politica;
Una volta si chiamava conservatorismo “big government”. All’epoca era visto come una proposta liberale e, a mio avviso, lo è ancora. Condivide un principio preoccupante con il progressismo moderno. In fondo, far sì che sia il governo a prendere le decisioni importanti per la vita dei cittadini non è diverso, in linea di principio, da un progressista che sostiene la necessità di un governo per porre fine alla povertà ed eliminare le disuguaglianze.
A quanto pare l’idea è che, con i conservatori a capo del governo, questa volta sarà diverso. Questa volta ci assicureremo che il governo che controlliamo guidi gli investimenti nella giusta direzione e prenderemo le giuste decisioni su quali siano i compromessi;
Vi suona familiare? I difensori del grande governo non sostengono sempre che questa volta sarà diverso?
Mettiamo da parte per un momento il fatto che noi conservatori potremmo mai controllare un governo del genere per fare sufficientemente le cose che vogliamo che faccia. Vogliamo dare ancora più potere a un governo che, nell’ambito della politica industriale e di altri tipi di politica economica e sociale, userà sicuramente questo maggiore potere per distruggere ciò che amiamo e crediamo di questo Paese?
Il modo migliore, a mio avviso, per proteggere la grandezza dell’America, le sue rivendicazioni speciali, la sua identità se volete, è credere in ciò che ci ha reso grandi in primo luogo. Non è stata la nostra lingua. Non era la nostra razza. Non è stata la nostra etnia. Non è stata la nostra politica industriale. Non è stato il potere del governo a decidere quali siano i compromessi. Non si trattava di un governo che decide quale tipo di lavoro è dignitoso e quale no. E certamente non si trattava di una fede nello Stato-nazione o nella grandezza del nazionalismo.
Sono stati il nostro credo e il sistema di credenze personificato e vissuto in una cultura, le nostre istituzioni di società civile e il nostro modo democratico di governare a fare dell’America la più grande nazione nella storia di tutte le nazioni. In una parola, è stata la nostra convinzione di essere un popolo buono e libero. È questo che ha reso l’America eccezionale. È questo che ci ha reso un Paese libero. E continua a farlo anche oggi.
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