ISTITUZIONE, NORME, VALORI E NUOVE FORME DI OSTILITA’ , di Teodoro Klitsche de la Grange

ISTITUZIONE, NORME, VALORI E NUOVE FORME DI OSTILITA’ *

A Paul Piccone In memoriam

 

Nella Theorie des partisanen Schmitt collega i nuovi tipi d’inimicizia all’aspirazione a valori più alti: “l’inimicizia…. non si rivolge più contro un nemico ma serve ormai solo una presunta imposizione oggettiva di valori più alti per i quali, notoriamente, nessun prezzo è troppo alto. Il disconoscimento della inimicizia reale apre la strada all’opera di annientamento di quella  assoluta”. Qualche anno dopo, nel saggio Die Tyrannei der Werte ritornava sull’argomento “la teoria dei valori celebra i suoi trionfi, come abbiamo visto, nel dibattito sulla questione della guerra giusta. Ciò appartiene alla natura della cosa. Ogni riguardo al nemico viene meno anzi si trasforma in un non valore, quando la battaglia contro questo nemico è una battaglia per i valori supremi. Il non valore non ha nessun diritto di fronte al valore, e nessun prezzo è troppo alto per l’imposizione del valore supremo”[1]. Tale affermazione può destare una certa sorpresa, perché le relative modificazioni nel diritto internazionale possono altrettanto, e più direttamente, ricondursi alle grandi rivoluzioni del XVIII (e XX secolo), in particolare a quelle francese e russa (come, d’altra parte sostenuto da Schmitt).

Proprio, ad esempio, nella prima, si teorizzò prima, e praticò subito dopo che la guerra, e il suo esito, non dovevano essere indifferenti (e senza effetti) sull’ordinamento “interno” del vinto. Con la votazione del decreto             La Révellière – Lépeaux e della proposta di Cambon alla Convenzione la guerra rivoluzionaria era qualificata come guerre aux chateaux, paix aux chaumières, per cui il nuovo ordine doveva essere esportato sulla  punta delle baionette, e le relative spese coperte dall’espropriazione dei patrimoni delle classi privilegiate, diversamente dalle guerre dell’ancien régime che lasciavano inalterato l’ordinamento politico e sociale dei vinti. Tuttavia l’approccio di Schmitt, più generale  e meno diretto,  alla teoria dei valori quale motore delle nuove – e più intense- forme d’inimicizia può essere correlato alla costante – almeno dagli anni ‘30- contrapposizione che il grande giurista sviluppa tra istituzione e norma e da quella tra soggettività ed oggettività nel diritto.

II

Nel saggio Űber die drei Arten des rechtwissenschatflichen Denkens Schmitt rende omaggio ai grandi giuristi (istituzionalisti) Maurice Hauriou e Santi Romano. In particolare osserva che malgrado la concezione istituzionista  del diritto risalga ad Aristotele e S. Tommaso “la distinzione qui accennata fra pensiero fondato sulle norme e pensiero fondato sull’ordinamento è sorta ed è divenuta pienamente consapevole solo nel corso degli ultimi decenni. Negli autori precedenti, non è possibile rintracciare un’antitesi come quella contenuta nel passo appena citato di Santi Romano. Le antitesi precedenti non riguardano la contrapposizione di norme e ordinamento, ma piuttosto quella di norma e decisione oppure di norma e comando” [2]. Sia in Hauriou che in Santi Romano, pur ritenendo entrambi  che il diritto consista tanto di norme che di istituzioni, il presupposto ( e la condizione d’esistenza ) ne è l’istituzione, e non le norme. Sono quelle – scrive Hauriou- “a fare le regole di diritto, non sono le regole a fare le istituzioni”[3]; e Santi Romano: “l’ordinamento giuridico, così comprensivamente inteso, è un’entità che si muove in parte secondo le norme , ma, soprattutto, muove, quasi come pedine in uno scacchiere, le norme medesime, che così rappresentano piuttosto l’oggetto e anche il mezzo della sua attività, che non un elemento della sua struttura”[4]. La stessa tesi è ripetuta da Schmitt [5], secondo il quale, per il pensiero fondato sull’ordinamento “la norma o regola non fonda l’ordinamento, essa svolge soltanto, sulla base o nell’ambito  di un ordinamento dato, una certa funzione dotata solo in misura modesta di validità autonoma, indipendente dalla situazione oggettiva”. Ed è proprio la necessaria oggettività del diritto a rendere preferibile un tipo di pensiero giuridico fondato sull’istituzione a quello normativistico. Hauriou, in polemica con Duguit sostiene: “il vero elemento oggettivo del sistema giuridico è l’istituzione; è vero che contiene un germe di soggettività che si sviluppa col fenomeno della personificazione, ma l’elemento oggettivo sussiste nel corpus della istituzione, e questo solo corpus, con la sua idea direttiva e il suo potere organizzato, è molto superiore per forza giuridica alla regola di diritto”[6]; Santi Romano afferma che “diritto non è e non è soltanto la norma che così si pone, ma l’entità stessa che pone tale norma. Il processo di obbiettivazione, che dà luogo al fenomeno giuridico, non si inizia con l’emanazione di una regola, ma in un momento anteriore: le norme non ne sono che una manifestazione” e prosegue “obbiettiva non si dice la norma giuridica solo perché scritta o altrimenti formulata con esattezza: se così fosse, essa non si distinguerebbe da molte altre norme, che sono capaci di quest’estrinseca formulazione”; invece  “il carattere dell’obiettività è quello che si ricollega all’impersonalità del potere che elabora e fissa la regola, al fatto che questo potere è qualche cosa che trascende e s’innalza sugli individui, che è esso medesimo diritto. Se si prescinde da questo concetto, il c. d. carattere dell’obiettività o non dice più nulla o. peggio, implica degli errori” [7]. Considerazioni simili svolge Schmitt, secondo il quale l’ “oggettività delle norme” è solo il riflesso dell’oggettività e della stabilità dell’ordine che le stesse concorrono a creare; la stessa aspirazione “borghese” alla sicurezza, normalità, prevedibilità, alla base del positivismo giuridico, è la conseguenza della sicurezza, normalità, prevedibilità  dell’ordine assicurato dai grandi Stati europei – in particolare Germania e Francia- nel XIX secolo; questi avevano creato una situazione di pace e sicurezza in cui le norme erano concretamente (e generalmente) applicabili.

In tutti e tre i giuristi la preoccupazione (e la critica) principale al normativismo era di ridurre il diritto a qualcosa di astratto, avulso dalla sua (principale) funzione: regolare effettivamente  ed efficacemente la vita sociale. L’obbiettivizzazione si realizza non – o non solo- in un corretto ragionamento logico,  con il quale un determinato fatto o azione è sussunta alle norme che la disciplinano; ma piuttosto nel fatto che la normativa vigente sia generalmente applicata e osservata sia dai cittadini che dai pubblici funzionari. Far rispettare la legge, creare e mantenere a tal fine una situazione normale, richiede autorità e consenso, potenza ed efficacia, comando e obbedienza, più che sillogismi ed implicazioni. Espungendo, come fa il normativismo, il problema ( in sé distinto) dell’applicazione delle norme e della loro effettiva vigenza nell’ambito sociale, (perché “sociologico” e non riconducibile alla Reine rechtslehre), e separandolo da quello dello jus dicere, la purezza e l’astrattezza del medesimo risultano tali solo perché sottraggono al diritto gran parte del suo ambito (e delle sue problematiche).

Così l’oggettività di una corretta applicazione delle norme si riduce alla validità e correttezza di una operazione logica e intellettuale (verificabile in base a Barbara e Darii, cioè a parametri di rigore logico), mentre l’oggettività, per giuristi come  Hauriou, Schmitt e Romano, consiste nell’incidenza reale del diritto vigente sui comportamenti sociali. Se questa è consistente il diritto ( e l’istituzione) è oggettivizzata; se scarsa e  episodica, non lo è.

III

Ed è proprio questo il criterio con cui è stato costruito uno dei più importanti istituti dello jus publicum europaeum; ovvero il riconoscimento.

Questo prescinde dalla legalità della costituzione del nuovo Stato che è riconosciuto. Requisito che sarebbe assai difficile da avere, perché nella totalità ( o quasi) dei casi un nuovo Stato si costituisce con il distacco di parte del territorio e della popolazione da un altro Stato, che difficilmente  vi acconsente; e un nuovo governo – intendendo con ciò un governo rivoluzionario – per definizione nega di derivare legalità e legittimità da quello che ha rovesciato. Il caso più problematico è il riconoscimento di uno Stato ribelle, in pendenza di una guerra civile: come capitato agli Stati Uniti nella guerra di Secessione, quando la Confederazione fu riconosciuta dalla Gran Bretagna e dalla Francia, cioè dalle più grandi potenze dell’epoca, appena pochi mesi dopo l’inizio delle ostilità. Come scrive Schmitt, il riconoscimento, in tal caso, si può configurare come un’ingerenza negli affari interni, contraria al diritto internazionale e comunque un grave torto al governo legale [8]. È da notare che in quella occasione il ministro degli esteri inglesi Lord Russel, del tutto in linea con la prassi del diritto internazionale, dichiarò che solo le dimensioni e la forza delle fazioni in lotta e non la bontà della loro causa dava loro diritto al carattere di belligeranti[9].

A prescindere dal significato politico (contingente)  del riconoscimento è consuetudine che si riconosca solo chi esercita un potere su territorio e popolazione determinati con un comando responsabile e un’organizzazione (relativamente) stabile, e non colui che può vantare un titolo, valido e regolare in base a norme, all’esercizio di quel potere (tantomeno quindi a chi sostiene valori positivi). Comando, organizzazione, territorio, popolazione sono gli elementi dell’istituzione statale; la loro presenza, anche se in forma fluttuante ed imperfetta in un movimento o partito rivoluzionario fa si, come scriveva Santi Romano, che lo stesso sia già un ordinamento giuridico[10] ; e ordinamento giuridico, secondo il giurista siciliano, è sinonimo d’istituzione. Per cui  nello jus publicum europaeum è l’effettività di un comando responsabile in uno spazio e su una popolazione determinata il presupposto per essere istituzione – Stato, quindi soggetto di diritto internazionale, ed esser riconosciuti come tale. In questo contesto la conformità o meno di quell’ordinamento a norme interne –ed anche internazionali- è di nullo (o scarso) rilievo rispetto al dato concreto di un comando effettivo. Solo chi lo esercita ha carattere rappresentativo, nel senso di potestà non solo di agire ed esercitare dei diritti, ma anche di obbligarsi ed eseguire le obbligazioni per la comunità: ch’è la condizione minima ed essenziale perché possa esistere un diritto internazionale. L’oggettività è qui intesa, pertanto, nel senso –realistico- dei giuristi ricordati.

IV

Se passiamo a considerare cosa s’intende per “valore”, questo è stato solitamente associato alla sfera economica. Hobbes definisce “il valore di un uomo” sulla base del “ prezzo che si pagherebbe per l’uso del suo potere”. Il problema di come si potesse legare a parametri oggettivi il “valore” di una cosa o di una prestazione è stato uno dei problemi più dibattuti nella scienza economica: ma per lo più le prospettazioni “oggettiviste” ( ovvero che prescindono da una scelta o valutazione soggettiva) hanno avuto minor successo[11]. Max Weber nel saggio Il senso dell’ “avalutatività” delle scienze sociologiche ed economiche rifiuta la trascendenza metafisica dei valori; piuttosto indica il “riconoscimento di un politeismo assoluto come la sola forma di metafisica ad essi corrispondente”. E il punto cruciale della questione è che “tra i valori, cioè, si tratta in ultima analisi, ovunque e sempre, non già di semplici alternative, ma di una lotta mortale senza possibilità di conciliazione, come tra <<dio>> e il <<demonio>>. Tra di loro non è possibile nessuna relativizzazione e nessun compromesso”[12]. Anche Schmitt si chiede se “il passaggio alle teorie oggettive dei valori, ha gettato nel frattempo un ponte sull’abisso, che divide la scientificità libera dai valori dalla libertà di decisione degli uomini? I nuovi valori oggettivi hanno rimosso l’incubo, che ha provocato in noi la descrizione della lotta delle valutazioni di Max Weber?”, per rispondere “non lo hanno fatto, e non lo potrebbero neanche fare. Senza aumentare neanche  minimamente l’evidenza oggettiva per coloro che la pensano diversamente, essi, mediante la loro asserzione del carattere oggettivo dei valori da essi posti, non hanno fatto altro che introdurre un nuovo momento dell’autocorazzarsi nella lotta delle valutazioni, un nuovo veicolo della pretesa di avere sempre ragione, il quale aizza e intensifica soltanto la lotta” perché “la teoria soggettiva dei valori non è superata, ed i valori oggettivi non sono già guadagnati,  nascondendo i soggetti e i portatori dei valori, i cui interessi forniscono i punti di osservazione, i punti di vista e i punti di attacco della valutazione. Nessuno può valutare senza svalutare, innalzare il valore, e valorizzare. Chi pone i valori, si è messo con ciò contro i non valori. La tolleranza e la neutralità sconfinate dei punti di osservazione e dei punti di vista scambiabili  a piacere si rovescia nel contrario, nell’inimicizia, non appena si impongono e si fanno valere seriamente i valori”[13].

Né  la logica dei valori evita i presupposti del politico, sia quello dell’amico-nemico, sia del comando-obbedienza[14]; scrive Schmitt “chi dice valore, vuol far valere e imporre. Le virtù vengono praticate; le norme vengono applicate; i comandi vengono eseguiti; ma i valori vengono posti e imposti. Chi sostiene la loro validità, li deve far valere. Chi dice che essi valgono, senza che qualcuno li faccia valere, vuole ingannare[15].

La spiegazione che ne dà il giurista di Plettenberg è: “la filosofia dei valori è sorta in una situazione storico-filosofica molto pregnante, come risposta ad una domanda minacciosa, che si era posta come crisi nihilistica del XIX secolo”; a tale proposito, condivide la considerazione di Heidegger che nel XIX secolo parlare e pensare per valori divenne usuale, e dopo Nietzsche addirittura popolare “si parla di valori vitali, di valori culturali, di valori eterni , di gerarchia dei valori, di valori spirituali, che si credeva per esempio di trovare nell’antichità. Attraverso l’esercizio erudito della filosofia e la rielaborazione del neokantismo, si arriva alla filosofia dei valori. Si costruiscono sistemi di valori, e si perseguono nell’etica le stratificazioni dei valori. Perfino nella teologia cristiana si qualifica Dio, il summum ens summum bonum, come il valore supremo. Si considera la scienza come libera dai valori e si gettano le valutazioni dalla parte delle concezioni del mondo. Il valore e ciò in cui esso appare diviene il surrogato positivistico del metafisico[16].

In realtà, i valori non sfuggono, come cennato, alle   costanti del politico (e della politica), in particolare al rapporto tra metafisica e organizzazione dello Stato[17] cioè alla teologia politica. In tal senso la teologia cristiana fondata su un Dio (unico e) onnipotente, trova l’analogia nella struttura sistematica del concetto del sovrano che ha il diritto di fare tutto quanto è nella propria potenza (Spinoza); che è soggetto solo attivo – e mai passivo- di rapporti giuridici (Kant); o nella Nazione sovrana che “è tutto ciò che può essere per il solo fatto di esistere” (Sieyès).

L’istituzione-Stato del diritto pubblico moderno si basa sul concetto della Sovranità: senza cui non c’è né un diritto costituzionale né un diritto internazionale moderno. Ed il Sovrano è come il Dio delle religioni monoteiste: ma se, riprendendo la metafora di Max Weber, nella realtà sociale c’è (è diffuso) un politeismo dei valori, una metafisica (o un suo surrogato)  che si fondi su un tale politeismo, difficilmente può supportare un diritto statale (interno) ed internazionale basato su istituzioni monoteiste.

D’altro canto la trasformazione in valore non è altro che “un trasferimento in un sistema di gradi nella scala dei valori. Essa rende possibili continui capovolgimenti sia dei sistemi di valori, sia anche dei singoli valori nell’ambito di un sistema di valori, mediante continui spostamenti nella scala dei valori”[18], che è quanto di più lontano dalla stabilità – sia pur relativa – intrinseca (al termine e) al concetto di Stato. Nella teoria istituzionalista lo Stato è in effetti un sistema sociale in movimento “lento e uniforme”, analogo a un organismo vivente, in cui la materia (gli uomini) muta di continuo, mentre la forma è stabile. E questa forma è costituita da un “governo e dagli equilibri essenziali della materia stessa”[19]. Ma se alle relazioni sociali istituzionalizzate sostituiamo scale di valori soggettivamente apprezzate la stabilità diventa una chimera. D’altro canto, secondo lo jus publicum europaeum un mutamento, anche della costituzione (e perfino del potere costituente) non modifica, nei rapporti internazionali, l’istituzione-Stato. Questa permane, anche se l’intero sistema normativo (ed a maggior ragione i valori di riferimento) venga cambiato. L’esigenza di stabilità ed oggettività è così salvaguardata dall’istituzione che dura anche in presenza di mutamenti rivoluzionari. La funzione oggettivante e stabilizzante di quella ne è confermata.

V

Vale cioè per i valori – anche se parzialmente – una delle critiche che i giuristi istituzionalisti rivolgono al normativismo: d’essere cioè da un canto estremamente statico, e dall’altro di sostituire il potere di dominazione dello Stato con quello di un “imperativo categorico, che equivale ad un ordine sociale essenzialmente coattivo”[20].  Hauriou con questo, in sostanza, contrapponeva la stabilità dell’istituzione (cioè il mutare pur conservando forma ed elementi fondamentali), alla staticità di un sistema normativo impersonale. Nella prima l’essenziale  dura, mentre l’elemento secondario (le norme) mutano; se si è, di converso, conseguenti alla seconda ne risulta o un ordinamento statico – e perciò poco adatto alla vita – o, al limite, di dover applicare le norme anche al prezzo della fine dell’istituzione. Adeguandosi così al detto fiat justitia, pereat mundus, ch’è proprio quanto rifiutato da tanti giuristi e filosofi, da Jhering ad Hegel, da Machiavelli a Santi Romano. Ciò che s’intende per “ordinamento giuridico” varia poi a seconda del tipo di pensiero (normativista o istituzionalista): per esempio con riguardo alla “completezza”. Mentre per completezza un normativista intende che ogni fatto può essere qualificato (sussunto) in base ad una norma, (e quindi, in tal caso, l’ordinamento è completo); per un istituzionista coerente l’ordinamento è completo quando l’organizzazione sociale rende possibile la decisione e risoluzione di ogni conflitto d’interessi[21].

Riguardo ad un altro (ed essenziale) aspetto Schmitt ritiene che il normativismo non riesca a risolvere il problema dell’unità dell’ordinamento giuridico: “Come può accadere che una quantità di disposizioni positive possa essere ricondotta con il medesimo punto di riferimento ad una unità, se si tratta non dell’unità di un sistema di diritto naturale o di una teoria giuridica generale, ma dell’unità di un ordinamento avente efficacia positiva?” e prosegue “Per Kelsen, l’unità sistematica è una «libera azione (Tat) della conoscenza giuridica». Prescindiamo per un momento dall’interessante mitologia matematica, secondo la quale un punto deve essere un ordinamento e un sistema e deve identificarsi con una norma, e chiediamoci invece su che cosa riposa la necessità ed obiettività concettuale dei differenti riferimenti ai diversi punti di riferimento, se non su una disposizione positiva, cioè su un comando. Come se fosse la cosa più naturale di questo mondo, si parla continuamente di una progressiva unità di ordinamento; come se sussistesse un’armonia prestabilita fra il risultato di una libera conoscenza giuridica ed un complesso legato in unità solo nella realtà politica”, per cui “La scienza normativa alla quale Kelsen vuole elevare, in tutta purezza, la giurisprudenza non può essere normativa nel senso che il giurista valuta in base ad una propria azione libera: egli può riferirsi solo a valori che gli vengono dati (positivamente). In tal modo sembra essere possibile un’obiettività, ma senza un nesso necessario con una positività. I valori ai quali si riferisce il giurista gli vengono dati, ma egli si comporta nei loro confronti con una superiorità relativistica”[22].

In realtà il problema dell’unità, partendo dal punto di vista normativistico, appare irrisolubile: come scrive Schmitt “chiunque potrebbe appellarsi alla giustezza del contenuto, se non ci fosse un’ultima istanza”[23], cioè il comando e la decisione sovrana. Per cui l’uno e l’altra, espunti dalla concezione normativista, rientrano per garantire l’unità dell’ordinamento. In effetti un appello al (contenuto di una) norma, se non c’è una decisione in ultima istanza, genera, anche in uno Stato moderno (pluralista), un soggettivismo e un pluralismo interpretativo contrastante con l’esigenza di unità dell’ordinamento (e con l’eguaglianza di fronte alla legge). Per il conflitto sui valori, a maggior ragione che per quello sulle norme o sulla giustizia, vale – nel caso estremo – quanto scriveva Locke, che non c’è giudice su questa terra che possa giudicarlo, ma comunque è dato l’appello al cielo. E ciò significa la guerra.

VI

Negli ordinamenti interni, il richiamo ai valori fatto da alcune Corti di giustizia ha per lo più il medesimo (o assai simile) significato, anche se enfatizzato, di principio o di norma-principio[24].

I costituenti, enunciando dei principi fondamentali, compiono in effetti delle valorizzazioni, connotate dall’essere tali valori tutelati con norme “rafforzate” come quelle costituzionali. Non si può negare che, garantendo degli interessi con norme costituzionali e anche ordinarie, il legislatore compie (anche) delle scelte di valore[25].

In questo senso, è chiaro che ogni comunità politica ha dei valori di riferimento, per lo più tutelati nella Carta costituzionale. Il che non significa che tali valori abbiano una validità (giuridica) ex se. Quello che conferisce loro validità è, per l’appunto,  il fatto di essere tutelati dall’ordinamento (e, per così dire incorporati). Ad oggettivizzarli è, in altri termini, il consenso formatosi  – e istituzionalizzato – sui medesimi da parte dei consociati: chi ritiene, invece, i valori validi ed evidenti ex se, mette il carro davanti ai buoi. Sono il consenso ed il comando ad avere funzione preponderante nell’ “oggettivizzare” i valori e non la pretesa qualità intrinseca: è cioè l’istituzione a valorizzare, molto più di quanto i valori possano istituzionalizzare[26]. Smend, che riteneva fondamentale per la vita dello Stato il processo d’integrazione, ne distingueva i tipi in tre classi: personale, funzionale, materiale. Con quest’ultimo, cioè “l’integrazione tramite partecipazione a contenuti di valori materiali”[27] compaiono nella concezione di Smend i valori. Questi costituiscono una delle componenti del sistema di integrazione, non esclusiva e prevalente più nelle unità politiche pre-moderne che nello Stato (moderno)[28]. Nello Stato moderno è, di converso, particolarmente importante sia la co-operazione dei tre tipi sia il coinvolgimento dei cittadini attraverso le procedure d’integrazione funzionale. Con la conseguenza che cambiare i “valori di riferimento” non implica una nuova istituzione o una nuova forma.

Un altro esempio di non-identificazione tra l’idea d’istituzione-Stato e compiti (scopi) dello stesso offre Hauriou, secondo il quale l’elemento più importante di ogni istituzione corporativa consiste nell’idea dell’opera da realizzare “non si deve confondere l’idea dell’opera da realizzare, che merita il nome di «idea direttiva dell’impresa», né con la nozione di scopo né con quella di funzione. L’idea dello Stato, per esempio, è cosa ben diversa dallo scopo dello Stato o della sua funzione”. E quanto scrive su scopo e funzione vale, a ratione maius, per il valore, che non rientra nella “formula” della direttiva dello Stato (come non vi rientrano scopo, funzione e norma[29].

Ma il problema si presenta più interessante nel diritto internazionale, che, come cennato, presuppone una pluralità di Stati sovrani. L’evoluzione della dottrina dello jus belli e dello justum bellum, dalla seconda Scolastica (Vitoria, Suarez, Bellarmino) ha visto, almeno fino al secolo scorso, il deperimento del requisito della justa causa belli e il ruolo preponderante dello justus hostis. Tale “deperimento” è attribuito al dubbio sui diritti e le ragioni degli Stati belligeranti: per cui la guerra è ritenuta legittima per ambedue le parti, purché titolari dello jus belli. Scrive Vattel “dans une cause douteuse, il est encore incertain de quel côté se trouve le droit. Puis donc que les Nations sont égales et indépendantes, et ne peuvent s’ériger en juges les unes des autres, il s’ensuit que dans toute cause susceptible de doute, les armes des deux parties qui se font la guerre doivent passer également pour légitimes”[30].

Tale evoluzione (poi invertitasi nel secolo scorso) può essere letta, in parte, come conseguenza del prevalere del carattere (giuridico) “istituzione” rispetto a quello “norma”. Anche se la justa causa di Suarez o Bellarmino non può identificarsi sbrigativamente con le nozioni di “violazione di norma”, o di “presupposto per l’applicazione della sanzione bellica”, dato anche il carattere istituzionalista del pensiero          giuridico cristiano e tomista in particolare (semmai sarebbe più esatto parlare di “violazione del diritto”)[31], tuttavia il concetto di justa causa è denotato principalmente dagli iniurarium genera, cioè dai torti, dalle violazioni del diritto. Ciò non esclude l’esattezza della considerazione di Schmitt che il concetto di justa causa introduce nella dottrina dello justum bellum degli elementi normativistici e contenutistici dubbi (se non assai difficili) da applicare in concreto, anche tenuto conto degli arcana imperii[32]; per cui, come scrive: “il carattere giuridico di una guerra viene trasferito da considerazioni contenutistiche di giustizia nel senso della justa causa alle qualità formali di una guerra interstatale di diritto pubblico, condotta da sovrani portatori della summa potestas[33] e il concetto di guerra giusta “è formalizzato in quello di nemico giusto. A sua volta il concetto di nemico viene orientato completamente, nello justus hostis, attorno alla qualità di Stato sovrano, per cui – senza alcun riferimento alla justa o injusta causa – viene stabilità la parità e l’eguaglianza tra le potenze belligeranti e raggiunto un concetto non discriminante di guerra, poiché anche lo Stato sovrano belligerante senza justa causa rimane, in quanto Stato, uno justus hostis”[34].

L’insistenza con cui Schmitt insiste sia sugli elementi tipici e necessari dello Stato (che permettono di relativizzare la guerra) e in particolare sulla “forma”, è conseguenza, per l’appunto, della possibilità di applicazione più sicura e meno foriera di danni di un diritto basato su istituzioni statali, con rappresentanti, organi, confini e responsabilità, rispetto ad un “sistema” di norme, e, ancor più, di valori.

Nel senso che gli da Schmitt il concetto (politico e giuridico) di forma  appare strettamente connesso a quello di ordine. Ciò che è in forma è ordinato per definizione; una guerra in forma tra due contendenti in forma permette anche in una situazione dinamica e tendenzialmente dis-ordinata come il conflitto bellico, di ridurre danni e identificare responsabilità. Ciò è permesso dall’ordinamento “gerarchico” dell’istituzione statale e, in particolare, dalla sovranità. Vale, in tal senso, ancora la definizione di S. Agostino che “l’ordine è la disposizione degli esseri uguali e disuguali che assegna a ciascuno il posto che gli conviene”[35].

È vero che avere una forma, significa anche avere delle norme (e delle relazioni). Ma che sia prevalente l’aspetto della forma nel senso, cennato, di autorità certa e responsabile, capace di comando efficace, cioè della prevalenza, ai fini del mantenimento di una situazione ordinata, di ciò che risponde alla domanda: chi decide? rispetto a quello della giustezza della decisione, lo dimostra proprio immaginare l’inverso. Se non vi fosse chi decide, e tutto il problema consistesse nella giustizia (contenutistica) delle decisioni, ognuno, come sopra cennato, potrebbe appellarsi contro (o invocare) la pretesa ingiustizia: e il disordine, causato da discussioni, lotte e querele interminabili non avrebbe fine. La limitazione dello jus belli a soggetti  in forma consente, peraltro, di ridurre i contendenti legittimi e gli effetti dei conflitti. E parlare di forma, a seguire Schmitt e Hauriou, significa parlare di istituzione. In effetti il problema del quis judicabit era posto proprio dai tardo-scolastici, per cui lo justum bellum era l’unico rimedio possibile dato che tra i contendenti non c’è un “terzo” superiore, provvisto dell’autorità di decidere[36]. E soprattutto quel “terzo superiore” deve necessariamente essere (incorporato in) un’istituzione. Anche se nel pensiero occidentale da Suarez a Locke, da Vattel ad Hegel, si ricorre all’immagine del Giudice come “terzo superiore”, onde la mancanza di quello, legittima (in certi casi) il ricorso alla guerra, tale richiamo è, in effetti, da intendere come quello della mancanza di un’istituzione “terzo superiore”. Non è l’esistenza di Tribunali, come sia le vicende del Medioevo e gli istituti del Sacro Romano Impero sia i processi ai vinti e i Tribunali internazionali diffusisi nel XX secolo dimostrano, a evitare la guerra e, soprattutto, a applicare efficacemente il diritto, ma l’istituzione-Stato, in grado di esercitare un comando effettivo ed eseguito[37].

VII

La sovranità e la rigorosa limitazione tra interno ed esterno (all’unità politica) hanno fatto si che, salvo eccezioni, la lotta tra valori, come i conflitti su norme e forme istituzionali, fossero confinati all’interno dell’unità politica. Tuttavia l’evoluzione del secolo scorso manifesta l’inversione di tale tendenza: la forma, le norme e i valori di una comunità organizzata in Stato non sono più indifferenti agli altri; d’altro canto la semi-legittimazione dei movimenti di resistenza ha moltiplicato i soggetti dello jus belli.

Il richiamo poi a diritti e valori, come l’istituzione di Tribunali internazionali deputati a tutelarli non serve a cambiare la realtà, ma semmai a occultarla.

La politica, e quella estera non meno dell’interna, ha la propria realtà nella volontà e nel comando. Hegel, esponendo il diritto internazionale classico, riteneva che “gli Stati sono l’uno verso l’altro nello stato di natura, e i loro diritti hanno la loro realtà non in una volontà universale costituita a potere sopra di essi, bensì soltanto nella loro volontà particolare” per cui “non c’è nessun Pretore tra gli Stati” e criticava la concezione Kantiana della pace perpetua[38]: “La volontà particolare del tutto, è…, in generale il benessere del tutto. Di conseguenza, questo benessere è la legge suprema nel comportamento di uno Stato verso altri Stati”[39]. E proseguiva che il benessere sostanziale è quello di uno Stato particolare, nei suoi interessi e situazioni concrete; per cui “il principio per la giustizia delle guerre e dei trattati, non è un pensiero universale (filantropico), ma è il benessere realmente offeso o minacciato nella sua particolarità determinata[40]. Il criterio di giustizia della guerra, coincide così, in Hegel, con quello della protezione dell’esistenza e della potenza dello Stato; quanto all’obiezione del conflitto tra morale e politica aggiunge: “la sostanza etica, lo Stato, si dà immediatamente – cioè, ha il suo diritto – non in un’esistenza astratta, bensì concreta: solo questa esistenza concreta, e non uno dei molti pensieri universali reputati come precetti morali, può essere principio delle sue azioni e dei suoi comportamenti”. D’altra parte, dato che una comunità organizzata in Stato, parafrasando Sieyès “è tutto ciò che può essere per il solo fatto di esistere”, ciò significa in primo luogo che non ha nessuna necessità di legittimazione etica o giuridica, ossia di corrispondere ad un modello ideale di valori o di procedimento. Per cui i “valori” cui si ispira sono un fatto interno all’unità politica, ne è possibile giudicare dalla conformità etica o giuridica il diritto – o meno – ad un’esistenza indipendente.

In questo contesto il richiamo ai valori, ancor più di quello al diritto, appare un potente moltiplicatore della conflittualità ed un promotore d’irregolarità, perché la ripresa della justa causa e l’affievolirsi dello justus hostis è la duplice ragione della de-istituzionalizzazione (de-statalizzazione) del diritto internazionale; e l’istituzione, più che la norma, è ciò che assicura normalità e regolarità effettive. Già Montesquieu sottolineava che “le droit de la guerre dérive donc de la nécessité et du juste rigide”. Ma se, di converso, lo si fonda su “principes arbitraires” di gloria, etichetta, (o attualmente su valori o diritti umani), “des flots de sang inonderont la terre[41]. La lotta per l’esistenza è sempre legittima: quella per dei valori non altrettanto.

Se la causa belli è costituita dalla volontà di diffondere (od imporre) diritti, istituti, valori che appaiono naturali (perché condivisi) da alcuni Stati, ma estranei ad altri – o assai meno condivisi – i “valori” (come le altre causae belli) sono, da un lato, la ragione per aggirare e superare i limiti (confini), attraverso un “diritto d’ingerenza” dell’istituzione – Stato, e, nel caso estremo, distruggerla: il tutto senza che un’imposizione dall’ “esterno” dei valori abbia un sicuro (e necessario) consenso, e, peraltro, senza che questo possa, in ogni caso, supplire, come strumento integrativo esclusivo, la pluralità dei “tipi” d’integrazione (cioè, in sintesi, quelli dell’istituzione – Stato debellanda).

Dall’altro una lotta per dei valori, diviene, in ogni caso, per necessità logica e storica, una lotta per l’affermazione (e il dominio) di una istituzione rispetto a un’altra. In particolare il tentativo di esportare l’ideologia occidentale – con mezzi bellici – appare il primo passo per costituire un nuovo assetto (istituzionale) di potere. Un impero che sostituisca il concerto pluralistico degli Stati[42].

Peraltro, come cennato, l’agire per dei “valori” non sfugge affatto alla logica del  politico: in realtà chi sostiene di rappresentare un valore più alto, rivendica per ciò di avere titolo per comandare chi preferisce quello più basso. La logica “gerarchica” dei valori si trasforma perciò in una dinamica di potere, particolarmente apprezzata in un periodo della storia umana in cui il potere deve render conto ad un’opinione pubblica, spesso de-politicizzata, ed ornarsi all’uopo di buone e commendevoli intenzioni. Sotto le quali nascondere o edulcorare la realtà della potenza e del comando, che non è un rapporto tra valori ma tra volontà, una delle quali prevale sulle altre. A confronto di ciò, il (notissimo) discorso degli ambasciatori ateniesi agli abitanti dell’isola di Melo, con la sua realistica e, a tratti, spudorata franchezza, è quanto di più onesto si possa immaginare[43].

Teodoro Klitsche de la Grange

 

* Questo articolo è stato scritto su sollecitazione di Paul Piccone, nell’ultimo colloquio che abbiamo avuto nel giugno 2004. E’ dedicato quindi, essendo anche suo, alla memoria dell’amico scomparso. E’ il “seguito” della Teoria del partigiano, oggi pubblicato su Telos n. 27 (Spring 2004), Ciudad de los Césares n. 69 (junio 2004) e su Imperi (n. 3 del 2004).

[1] V. Die Tyrannei der Werte,trad. it., Roma 1987 p.71(i corsivi sono nostri).

[2] Trad. it. ne Le categorie del politico. Bologna 1972 p. 260.

[3] La thèorie de l’institution et de la fondation (Essai de vitalisme social) , Paris, 1925, trad. it. Milano 1967 p. 45.

[4] L’ordinamento giuridico 1918, 2ª ed. Sansoni Firenze 1947 p. 130 e proseguiva: “sotto certi punti di vista , si può anzi ben dire che ai tratti essenziali di un ordinamento giuridico le norme conferiscono quasi per riflesso: esse, almeno alcune, possono anche variare senza che quei tratti si mutino, e, molto spesso, la sostituzione di certe norme con altre è piuttosto l’effetto anziché la causa di una modificazione sostanziale dell’ordinamento”.

[5] Op. ult. cit.

[6] op.cit. (trad. it.), Milano 1967, p.45 (i corsivi sono nostri).

[7] op-cit. pp 16-17 (i corsivi sono nostri).

[8] V. Der Nomos der erde, trad. it. Milano 1991, pp400-403.

[9] V. Schmitt op. ult. cit. p.400. Cioè, in sostanza, l’effettività del comando (e del consenso). Si noti, che, nel caso, fu riconosciuta la Confederazione degli Stati schiavisti, malgrado il “valore” della libertà personale fosse da secoli patrimonio degli Stati europei e del pensiero occidentale.

[10] v. Santi Romano Frammenti di un dizionario giuridico, Milano 1947, p.224.

[11] Per una sintesi del concetto e delle teorie del valore, si rimanda alla voce “Valore” redatta da Ugo Spirito in Enciclopedia Italiana vol. XXXIV, p. 944, Roma 1937.

[12] V. trad. it. di P. Rossi ne “Il metodo delle scienze storico-sociali” Milano 1980, p. 332.

[13] Die Tyrannei der Werte, tra. it. cit., pp. 65-66

[14] v. J. Freund, L’essence du  politique, Paris 1965

[15] op. ult. cit.p.61 (i corsivi sono nostri).

[16] op.ult. cit. pp.57-58 (il corsivo è nostro).

[17] v. C. Schmitt Politische Theologie trad it. P. Schiera ne “Le categorie del politico”, Bologna 1972

[18] Schmitt, Die Tiranney der Werte, p. 36.

[19] v. M. Hauriou Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, p. 71

[20] M. Hauriou op. ult. cit. p. 11; e prosegue: Le primat de la liberté est remplacé par celui  de l’ordre et de l’autorité. La maxime fondamentale n’est plus: “Tout ce qui n’est pas défendu est permis jusqu’à la limite” elle est: “Tout ce qui n’est pas conforme à la constitution hypothétique est sans valeur juridique”.

[21] Santi Romano ne “L’ordinamento giuridico”, scrive, facendo l’esempio del giudice, che è possibile concepire un ordinamento “che non faccia posto alla figura del legislatore, ma solo a quella del giudice”. Da tale affermazione consegue che per essere completo, non gli occorrono norme che regolino ogni possibile caso, ma autorità che lo decidano. Ed è la risposta più conseguente al problema  del quis judicabit? v. op. cit. p. 20

[22] Politische Theologie trad. it. ne Le categorie del politico, Bologna 1972 pp. 46-47 (il corsivo è nostro).

[23] op. ult. cit. p. 57

[24] V. per la Corte Costituzionale italiana tra le più recenti 18 ottobre 2002 n. 422; idem 9 luglio 2002 n. 333; idem 7 febbraio 2000 n. 39.

[25] Il che non significa che tali scelte possano essere tranquillamente fatte anche dal giudice. Un giudice che invece di essere bouche de la loi, come nello Stato di diritto, diventi bouche de la valeur, con ciò giudicando di comportamenti (e anche di norme) in base a valori e non ad altre norme, sconta il fatto di divenire, nel migliore dei casi, assai impreciso. Nel peggiore, di surrogare il legislatore, o di sostituirlo. Ma ambedue gli esiti sono in aperto ed espresso contrasto con i principi dello Stato di diritto.

[26] Il pensiero (politico e) gius-pubblicistico “classico” ha come canone fondamentale quello dell’esistenza e non della normatività. È orientato dal dasein e non dal sollen.

Il problema (e l’imperativo) della politica e del costituzionalismo “classico” è come far esistere, vivere (e prosperare) la comunità politica, e solo in secondo luogo, secondo quali norme e valori.

L’aspetto “tecnico” del pensiero di Machiavelli, notato da Schmitt, come la secolarizzazione (cioè la separazione tra potere temporale e spirituale) ne sono i segni (e i fenomeni) più antichi. E il tutto era sviluppato nella concezione della ragion di Stato e nel diritto pubblico “classico”, partendo dal presupposto razionale che ciò che non esiste (o non è in grado di esistere) non può neanche darsi delle norme o dei valori (comunitari): ancora Croce scriveva “non vita normale, se prima non sia posta la vita economica e politica: prima il “vivere” (dicevano gli antichi) e poi il “ben vivere” (v. Etica e politica, Bari 1945, p. 228). A chi non è in grado di esistere politicamente, i valori secondo i quali vivere sono dettati da altri: è così sollevato dal peso della decisione di sceglierli.

[27] V. R. Smend Verfassung und verfassungrecht München-Leipzig 1928, Duncker and Humblot, trad. it., Milano 1988, p. 102.

[28]Se la realtà della vita dello Stato si presenta come la produzione continua della sua realtà in quanto unione sovrana di volontà, la sua realtà consisterà nel suo sistema di integrazione. E questo, cioè la realtà dello Stato in generale è compreso correttamente solo se concepito come l’effetto unitario di tutti i fattori di integrazione che, conformemente alla legislatività dello spirito rispetto al valore, si congiungono sempre di nuovo e automaticamente in un effetto d’insieme unitario”. Op. cit. p. 111; e poco dopo “La dissoluzione del sistema di valori medioevale significa nel contempo la dissoluzione della comunità di valori organica, naturale, non problematica, della “comunità” anche nel senso di Tönnies, cioè la fine dell’epoca in cui l’integrazione è prevalentemente materiale. L’uomo moderno spiritualmente atomizzato, desostanzializzato e funzionalizzato non è l’uomo senza valori e sostanza, ma l’uomo privo di valori costitutivi di comunità, soprattutto di quelli tradizionali, che sono ad un tempo valori necessari di un ordine culturale e sociale di tipo statico. Nei suoi confronti, perciò, il processo di formazione della comunità ricorre più di prima a tecniche di integrazione funzionale”op. cit. p. 112 (i corsivi sono nostri).

[29] La Théorie…, trad. it. cit., p. 15.

[30] Droit des gens, Liv. II, cap. III, § 40; altrove ritorna sull’argomento “La première règle de ce droit, dans la matière dont nous traitons, est que la guerre en forme, quant à ses effets, droit être regardée comme juste de part et d’autre. Cela est absolument nécessaire, comme nous venons de le fair voir, si l’on veut apporter quelque ordre, quelque règle, dans un moyen aussi violent que celui des armes, mettre des bornes aux calamités qu’il produit, et laisser une porte toujours ouverte au retour de la paix. Il est même impraticable d’agir autrement de Nation à Nation, puisqu’elles ne reconnaissent point de juge. Ainsi les droits fondés sur l’état de guerre, la légitimité de ses effets, la validité des acquisitions faites par les hommes, ne dèpendent point, extérieurement et parmi les hommes, de la justice de la cause, mais de la légitimité des moyens en eux-mêmes; c’est-à-dire de tout ce qui est requis pour constituer une guerre en forme” (i corsivi sono nostri), (liv. III, cap. XII, § 190).

[31] Tuttavia era ritenuto che anche se sussisteva la justa causa muovere guerra senza averne autorità, la rendeva ingiusta v. Suarez De charitate disp. 13 De bello: bellum quod…sine legitima auctoritate indicitur, non solum est contra charitatem, sed etiam contra iustitiam, etiamsi adsit legitima causa. Poco dopo ribadisce “nullum potest esse justum bellum sin subsit causa legitima et necessaria. Est conclusio certa et evidens..”

[32] C. Schmitt Der nomos der erde trad. it. Milano 1991 pp. 182 e ss.

[33] op. ult. cit. p. 182

[34] op. loc. cit. (il corsivo è nostro).

[35] De Civitate Dei, lib. XIX, 13

[36] V. Suarez op. cit. “Sicut supremus princeps potest punire sibi subditos quando aliis nocent, ita potest se vindicare de alio principe, vel republica, quae ratione delicti ei subditur; haec autem vindicta non potest peti ab alio iudice, quia princeps, de quo loquimur, non habet superiorem in temporalibus”; all’obiezione che è contro lo jus naturae che in questo modo nella stessa controversia la parte sia attore e giudice replicava “non posse negari, quin in hoc negotio eadem persona quodammondo subeat munus actoris et iudicis, sicut etiam in Deo conspicimus, cui potestas publica similis est; causa vero alia non est, quam quia actus hic iustitiae vendicativae fuit necessarius humano generi, et naturaliter atque humano modo non potuit via ulla dari convenientior”.

[37] Che il problema sia, per l’appunto, quello dell’esecuzione, e non – o non tanto – dello jus dicere è evidente. Hegel, criticando Kant scrive che il tutto presuppone la concordia tra gli Stati. Il problema vero si pone, tuttavia, quando c’è la discordia. (v. nota 37). In realtà l’antitesi tra diritto senza forza e forza senza diritto è verbale, dato che, in concreto, entrambe portano a situazioni di anarchia e conflittualità diffusa. L’antitesi reale all’anarchia è l’istituzione, che non nega né l’esigenza del diritto né la necessità della forza, ma regolarizza la seconda attraverso il primo, istituzionalizzandoli.

[38] “La rappresentazione kantiana di una pace perpetua, da attuare mediante una lega di Stati che appiani ogni controversia e che, in quanto potere riconosciuto da ogni singolo Stato, componga ogni discordia rendendo quindi impossibile la decisione per via bellica, presuppone la concordia tra gli Stati. Tale concordia, però, si baserebbe su fondamenti e aspetti morali, religiosi o quali che siano: in generale, avrebbe pur sempre per base delle volontà sovrane particolari, e perciò rimarrebbe affetta da accidentalità”. V. Lineamenti di filosofia del diritto, § 333, trad. it. di V. Cicero, Milano, 1995.

[39] Op. cit. § 336.

[40] Op. cit. 337.

[41] Esprit des lois, lib. X, Cap. II.

[42] V. sul tema il saggio di J. C. Paye Lotta antiterrorista, un atto costituente (Behemoth n. 36).

[43] La guerra del Peloponneso V, 84-113: il punto decisivo delle argomentazioni ateniesi è allorchè esprimono la “costante” politica del dominio: “ la nostra opinione sugli Dei, la nostra sicura scienza degli uomini ci insegnano che da sempre, per invincibile impulso naturale, ove essi, uomini o Dei, sono più forti, dominano. Non siamo noi ad aver stabilito questa legge, non siamo noi che questa legge imposta abbiamo applicata per primi. Era in vigore quando ce l’hanno trasmessa, e per sempre valida la lasceremo noi che la osserviamo con la coscienza che anche voi, come altri, ci imitereste se vi trovaste al nostro grado di potenza”; e l’inutilità del ricorso ad argomenti di giustizia: “ gli uni e gli altri sappiamo che nel linguaggio della vita reale le ragioni della giustizia vengono prese in considerazione solo quando la necessità preme ugualmente sull’una o sull’altra parte; se no, ci si adatta: i più forti agendo e i deboli cedendo”.

NELLE OMBRE DEL DOMANI (SECONDA RECENSIONE CUMULATIVA A TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE), di Massimo Morigi

NELLE OMBRE DEL DOMANI: REALISMO POLITICO FRA KATARGĒSIS MESSIANICA DELLA LEGGE E CRISI DI CIVILTÀ (SECONDA RECENSIONE CUMULATIVA A TEODORO KLITSCHE DE LA GRANGE)

 

Di Massimo Morigi

 

 

Per le pagine dell Italia e il mondo questa è la seconda volta che intervengo sui contributi dati su questo sito di geopolitica e cultura politica da Teodoro Klitsche de la Grange e nella prima Recensione cumulativa su questo acutissimo esploratore del poliltico” (presso l’URL http://italiaeilmondo.com/2018/04/07/da-massimo-morigi-a-teodoro-klitsche-de-la-grange_a-proposito-del-realismo-politico-di-massimo-morigi/; WebCite http://www.webcitation.org/6yWOwnGz7 e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F04%2F07%2Fda-massimo-morigi-a-teodoro-klitsche-de-la-grange_a-proposito-del-realismo-politico-di-massimo-morigi%2F&date=2018-04-08), avevo individuato nel pensiero del La Grange un “punto di caduta” che non solo sintetizzava il nucleo generatore dei contributi che questo pensatore aveva precedentemente offerto ai lettori dell’ “Italia e il mondo” ma che, soprattutto, dava la misura della profondità del suo pensiero. Tale “punto di caduta” lo si poteva ben estrapolare dal suo contributo per “L’Italia e il mondo” che reca il titolo  Nota su dipendenza degli stati e globalizzazione (URL: (http://italiaeilmondo.com/?s=NOTE+SU+DIPENDENZA+DEGLI+STATI e  http://www.webcitation.org/6yPGjFeLj) e quindi per proseguire nel nostro discorso cito direttamente quanto avevo scritto su questo contributo nella prima Recensione cumulativa al nostro: «Se consideriamo le vicende umane (politiche, economiche, culturali ma anche semplicemente esistenziali sul piano privato) da un punto di vista realista e quindi teologico, per tutte queste vicende esiste un “punto di caduta”, un momento di risoluzione sia simbolico che di indicazione delle linee di azione e di comprensione della azione e/o della situazione, che ci permette non solo di definire queste vicende ma anche di indicarci la direzione per un nostro attivo intervento sulle stesse. Ora, a mio giudizio il “punto di caduta” dei quattro articoli che  Teodoro Klitsche de la Grange ha gentilmente concesso ai lettori dell’ “Italia e il mondo” ed anche la prova della dimensione autenticamente rinnovatrice e creatrice del suo realismo, può essere colto a pieno dalle seguenti parole che cito dalla chiusa di Nota su dipendenza degli stati e globalizzazione: «Che «forza» e «legge» siano modi di combattere, come scrive Machiavelli, ossia d’imporre la propria volontà, è spesso dimenticato; così del pari, è – anche se in misura minore – trascurato che forza e legge sono anche modi di governare, non (totalmente) alternativi, ma piuttosto complementari. La «legge» senza forza è inutile: la forza senza legge è arbitrio violento. Nella realtà occorrono entrambi. Se la combinazione di forza e regola è la normalità del governo dei gruppi umani, così come il potere responsabile è l’ordinatore ideale, quello che si profila nel mondo globalizzato appare tra i meno preferibili. Perché si risolve nell’affidare prevalentemente alla forza e all’astuzia (del potere esistente) il massimo della potenza disponibile senza la prospettiva che possa riuscire a creare un ordine che sia veramente tale.»»

Ora i nuovi e successivi contributi di Teodoro Klitsche de la Grange per LItalia e il mondo, Parassitario o predatorio, Miti giuridici e regolarità politiche, Presentazione a dallo Stato di diritto al neocostituzionalismo, Virtù e stato moderno (agli URL: http://italiaeilmondo.com/2018/04/11/parassitario-o-predatorio-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/http://www.webcitation.org/6yitCilDz;http://italiaeilmondo.com/2018/04/17/miti-giuridici-e-regolarita-politiche-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/ e http://www.webcitation.org/6ynTQVKMO;http://italiaeilmondo.com/2018/04/23/presentazione-a-dallo-stato-di-diritto-al-neo-costituzionalismo-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/ e http://www.webcitation.org/6ywEcDbMi;http://italiaeilmondo.com/2018/05/01/virtu-e-stato-moderno-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/ e http://www.webcitation.org/6z8QWvcz5), oltre a confermare che il nucleo generatore del pensiero di La Grange è la dialettica fra la forza e la legge, segnalano anche che per La Grange allo stato attuale, allo stato cioè che è giunta la nostra civiltà giuridica occidentale, questa dialettica fra forza e legge non sta assolutamente trovando un superiore momento di composizione in una nuova moderna Polis in cui, pur con tutte le mediazioni ed attenuazioni che inevitabilmente si trascina con sé la prassi politica ed economica, sia l’aristotelico Zoon politikon il protagonista (detto nei termini dell’odierna vulgata liberal-liberista democraticistica: in una forma politica dove sia la partecipazione democratica il motore della vita pubblica, vulgata, cioè volgarizzazione dell’originario discorso dello stagirita, che ha trovato in Italia la sua massima espressione nella canzoncina di un noto e da non moltissimo scomparso italico chansonnier che recitava: “La libertà è partecipazione”: sul tema della libertà vista sì come “partecipazione” ma una partecipazione che non si risolva nelle prendere parte ad un gioco infantile e in cui i ruoli siano assegnati dal maestro d’asilo ma sia un’autentica partecipazione che si sostanzi in una condivisione per tutti i soggetti politici, persone fisiche o persone sociali che siano, degli spazi di potere, in un concetto di libertà del Repubblicanesimo Geopolitico per il quale libertà, in ultima analisi, si risolve nella dialettica permanenza ed evoluzione di autonomi e distinti spazi di  potere e in una interpretazione del Repubblicanesimo Geopolitico della libertà in ottica realista machiavelliana e che giudica come flebili ipostasi il concetto di libertà del liberalismo come assenza di costrizione e quella dell’odierno  neorepubblicanesimo  come assenza di dominio, cfr. gli URL: https://corrieredellacollera.com/2013/11/23/alla-ricerca-dellidentita-italiana-di-massimo-morigi/https://corrieredellacollera.com/2013/11/28/alla-ricerca-della-identita-italiana-dialogo-tra-morigi-e-stefanini/ e relativi “congelamenti” di questi stessi URL: http://www.webcitation.org/6aNTUJQ82, http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2013%2F11%2F23%2Falla-ricerca-dellidentita-italiana-di-massimo-morigi%2F&date=2015-07-29, http://www.webcitation.org/6aNSrbd66    e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fcorrieredellacollera.com%2F2013%2F11%2F28%2Falla-ricerca-della-identita-italiana-dialogo-tra-morigi-e-stefanini%2F&date=2015-07-29 ; e il tema del degrado semantico dei termini politici, tipico esempio sopracitato la libertà come assenza di costrizione o come assenza di dominio, si potrebbe dire costituire l’altro tema di fondo dei ragionamenti del La Grange, problema che in questo nostro odierno contributo solo accenniamo ma che affronteremo meglio in un  successivo intervento –  per il quale La Grange ci offre già numerosi spunti in Miti giuridici e regolarità politiche –  e nel quale, a nostro giudizio, la via di fuga da questo  degrado semantico – mitologie politiche, religiose e/o parareligiose con conseguente collegato degrado semantico nel lessico della politica che è problema comunque da noi già affrontato in La democrazia che sognò le fate. Stato di Eccezione, Teoria dell’Alieno e del Terrorista e Repubblicanesimo Geopolitico, agli URL https://archive.org/details/LaDemocraziaCheSognLeFatestatoDiEccezioneTeoriaDellalienoE_913 e https://ia801601.us.archive.org/28/items/LaDemocraziaCheSognLeFatestatoDiEccezioneTeoriaDellalienoE_913/LaDemocraziaCheSognLeFate.StatoDiEccezioneTeoriaDellalienoEDelTerroristaERepubblicanesimoGeopolitico.pdf  – è costituito dal mito-non mito dell’epifania strategica di cui abbiamo già detto parlando del Repubblicanesimo Geopolitico e sul quale il realismo politico di La Grange ci offre una interessantissima sponda dialogante), ma protagonista è la forza di chi, detenendo le leve del potere politico, economico e culturale, riesce a camuffare una dittatura di fatto che non ammette deroghe o dissidenze rispetto ai principi universalistici dirittoumanistici in politica e, a livello giuridico, al progetto (totalmente ideologico nelle illusioni che suscita ma terribilmente concreto per i suoi effetti liberticidi) di una giurisdizione mondiale il cui potere sia sovraordinato al potere degli stati nazionali.

Ma se si trattasse “solamente” di questo, se si trattasse cioè “solamente” del fatto che nella nuova situazione dello sviluppo di uno pseudopotere giudiziario mondiale gli spazi di azione dello Zoon polikon vengono ridotti a tal punto da trovarci di fronte più che un animale politico ad una sorta di uomo ridotto in schiavitù (ovviamente in schiavitù strictu sensu solo politicamente parlando, perché dal punto di vista dell’ attuale imperante fraudolenta narrazione economicista, anche sotto questo inedito regime tirannico continua a  perpetuarsi l’ideologia dell’individualismo metodologico e del libero mercato), cinicamente parlando e sulla scorta di un ritorno alla lettera del pensiero elitista si potrebbe in fondo affermare che nihil sub sole novi e che con la nuova situazione prodotta dall’ideologia di una giurisdizione mondiale sovraordinata agli Stati non è successo nulla di nuovo tranne il fatto, indubbiamente importante ma, in fondo,  riconosciuto  e da sempre risaputo da coloro che professionalmente si occupano delle reali ed effettuali dinamiche politiche (cioè coloro,  sociologi, storici, filosofi o politologi che siano. che interpretano queste dinamiche alla luce del pensiero realista) che la democrazia ha così oggi rivelato la sua natura di narrazione puramente ideologica e volta al dominio delle masse da parte di ristrette élite.

Ma La Grange va ben oltre questo livello di semplice (anche se essenziale) lettura e a questo punto ci fornisce con sfolgorante chiarezza due ulteriori elementi che integrandosi con la presa di coscienza della natura sempre più evanescente ed ideologica delle attuali forme politiche democratiche (noi affermiamo anche delle passate …) rendono il quadro generale ancora più cupo. Il primo elemento ci viene magistralmente restituito dal suo contributo Parassitario o predatorio, nel quale, attraverso l’elementare ed euristicamente assai efficace classificazione che il rapporto fra dominatore e dominato deve necessariamente rientrare in una delle tre classificazioni di ‘tutoriale’. ‘parassitario’ e ‘predatorio’, mostra, dati economici alla mano, che particolarmente in Italia (ma il discorso per La Grange vale anche se in forma più attenuta – e noi ovviamente concordiamo – per tutte le altre moderne democrazie industriali) negli ultimi due decenni tale rapporto non può essere non essere qualificato che di tipo prevalentemente predatorio, con la sottolineatura, chiara consapevolezza che permea anche  tutti gli altri nuovi contributi forniti dal La Grange, che questa predazione va di pari passo con l’affermarsi dell’ideologia di una giurisdizione mondiale sovraordinata agli stati nazionali (e, come potrebbe essere diversamente, ci dice in questi suoi contributi La Grange, se ai cittadini era prima difficile far sentire la propria voce anche di fronte al semplice e vecchio Stato nazionale?, come è possibile ora farsi ascoltare di fronte ad uno Stato sempre più assente che, col pretesto di un diritto universale ed universalistico, sta delegando sempre più il suo potere ad impersonali e spietati poteri sovranazionali?).

Su questa particolare classificazione tripartita delle forme di dominio valgano due veloci considerazioni. La prima è che la classificazione del dominio in ‘tutoriale’, ‘parissatario’ e ‘predatorio’ è un decisivo passo in avanti per superare il ‘paradosso Carl Schmitt’, paradosso che emerge dalla evidente constatazione che  se polarizzazione amico/nemico del Kronjurist del Terzo Reich  riesce a rappresentarci l’anatomia del conflitto non riesce parimenti a restituircene la fisiologia (come abbiamo più volte ripetuto, a fianco – ed in stretto dialettico contatto e rapporto con –  del conflitto e/o del rapporto amicale, in politica come in natura si hanno rapporti di collaborazione e/o simbiotici che come escludono l’inimicizia nulla hanno a che fare con l’amicizia, e Carl Schmitt era tanto consapevole di questo paradosso che una volta andato al potere il nazismo, una volta cioè che strumentalmente non era più necessaria questa rigida polarizzazione molto utile anche a fine mobilitatori contro la Repubblica di Weimar, cercò di edulcorare questa pur fondamentale acquisizione del suo pensiero spostando l’accento sul koncrete Ordnungsdenken ), e la tripartizione presentatici dal La Grange è una fondamentale precisazione soprattutto per quanto accade dentro il ‘perimetro dell’ amico’, amico sì ma, per dirla volgarmente, per fotterlo meglio e senza che questo possa formalmente appellarsi a nessuna ragione etica o politica per ribellarsi, come invece accade quando si è di fronte di fronte ad un dichiarato e palese nemico.

La seconda considerazione in merito alla tripartizione delle forme di dominio presentate dal La Grange ci viene dalla seguente osservazione che possiamo leggere sempre in Parassitario o predatorio: «Anche se, nell’assetto predatorio l’uso della violenza è sistematico, ciò che lo rende qualitativamente diverso è l’assenza di limiti giuridici (nel tipo ideale) e (almeno) la loro minimizzazione (nelle situazioni concrete)». Questo passaggio rende fortissima l’assonanza della tripartizione delle forme di dominio presentataci dal La Grange con la ‘Teoria della distruzione del valore’ (Teoria della distruzione del valore. Teoria fondativa del Repubblicanesimo Geopolitico e per il superamento/conservazione del marxismo. Agli URL https://archive.org/details/TeoriaDellaDistruzioneDelValore_792 e https://ia800306.us.archive.org/24/items/TeoriaDellaDistruzioneDelValore_792/TeoriaDellaDistruzioneDelValore.pdf), la quale partendo dalla teoria  dell’appropriazione del plusvalore, rovescia questa lettura marxiana dell’avvento del capitalismo industriale  affermando che il trionfo sul proscenio della storia  della  classi capitalistico-industriali non è connotata dall’esproprio del valore del lavoro prodotto dal dipendente operaio nella misura in cui non si può andare oltre per la sopravvivenza dell’operaio stesso ma, al contrario, è basata sul metodico annientamento del valore di questo lavoro al fine di potersene appropriare a basso costo senza che questo processo possa essere ostacolato da vincoli giuridici e/o politici, del tutto inutili a tutelare il lavoratore operaio vista la disparità di forze fra i capitalisti industriali  e il proletariato operaio di fabbrica che ha assistito – ed è stato indebolito dalla –  alla distruzione del valore del lavoro dell’originaria classe artigianale e/o di piccolo proprietario (e, al di là del processo  delle ‘distruzioni del valore’ avvenute in epoca moderna dell’annientamento da parte delle classi capitaliste del valore sociale e direttamente derivante dal lavoro delle originarie classi artigiane, uno degli eventi che più si presta ad assumere il ruolo di idealtipo per questa dinamica illustrata dalla suddetta teoria è, per quanto riguarda la storia antica, la distruzione ad opera di Roma di Cartagine – per la storia contemporanea il tentativo del nazismo di distruggere la presenza ebraica in Europa e la volontà di sterminio anche delle popolazioni slave sempre del nazismo: in entrambi i casi, al di là dei vari pretesti ideologici, il tentativo di insediarsi tramite genocidio in nuove nicchie strategiche di potere –, dove accadde che  Roma, alla fine, non volle neppure instaurare con Cartagine un rapporto predatorio ma letteralmente la distrusse ab imis fundamentis: la differenza con quanto avvenuto con l’affermazione del capitalismo industriale è che in questo caso si trattò di una distruzione manu militari e non alterando i rapporti di forza fra le classi sociali; l’analogia, molto più significativa della differenza, è che nell’uno come nell’altro caso si liberarono delle nicchie ecologiche di potere – Mar mediterraneo per i romani, creazione di una “libera” economia di mercato svincolata da limiti giuridici nel caso della rivoluzione industriale – , che aprirono nuovi spazi di manovra strategici a quegli agenti che seppure prevalere – e distruggere –  su coloro che dovettero subire questo processo: agenti omega-strategici, Cartagine e i piccoli artigiani e proprietari costretti a riconvertirsi in proletariato di fabbrica; agenti alfa-strategici, Roma e i capitalisti industriali. Per meglio approfondire questa terminologia afferente alla ‘Teoria della distruzione del valore’ si rinvia ancora all’URL appena citato).

Comunque, in attesa di una proficua integrazione fra la tripartizione presentataci dal La Grange e la ‘Teoria della distruzione del valore’, in Teodoro Klitsche de la Grange siamo veramente in presenza di un  attentissimo e fondamentale lavoro intorno a quelle categorie dello strategicoche Carl Schmitt non ebbe la forza (ma sarebbe meglio dire: il coraggio) di enunciare e sviluppare fino in fondo, poggiando le sue categorie del politicoprincipalmente sulla dicotomia amico/nemico e qui fermandosi ed anzi retrocedendo nel koncrete Ordnungsdenken,  sia perché da cattolico conservatore questa enunciazione così dicotomica confliggeva con la visione gerarchizzata della società della Chiesa cattolica sia perché era divenuta scomoda ed impraticabile una volta arrivato al potere il nazismo, il quale era sì basato sulla creazione di un nemico ma si trattava di un nemico da espellere dalla società e quindi da distruggere e certamente non ritenuto dal punto di vista logico un elemento costitutivo del politico (il nemico era, ovviamente, la rivoluzione comunista – questo sia per la Chiesa cattolica e per il nazismo –  e lebreo – questo solo per il nazismo –  e una volta affermatosi il nazismo non era più conveniente per nessuno dare mostra di una visione così profondamente realista ma, proprio in ragione del suo superiore realismo, anche, in ultima analisi, con una impostazione così terribilmente  machiavellianamente dinamica della società che confliggeva sia con la conservatrice, anche se antirazzista – e religiosamente universalistica –   dottrina sociale della Chiesa  sia con ledificazione del – follemente particolaristico – totalitarismo razzista del nazionalsocialismo).

Veniamo ora al secondo elemento di riflessione che ci restituisce la lettura di questi ultimi interventi del La Grange e si tratta della seguente considerazione: se le  forme di dominio  Ancien Régime che precedettero la Rivoluzione francese  cercarono di approssimarsi ad una forma di potere assoluto, cioè detto più tecnicamente,  attorno ad un sovrano legibus solutus (libero dal dominio della legge: in realtà il Re Sole era svincolato dallobbedire alla legge positiva ma non alla legge morale e il vero ed integrale sovrano legibus solutus ha fatto la sua comparsa solo con i totalitarismi del XX secolo, i cui sovrani portati alla ribalta dalla parossistica esaltazione del politicofurono, de facto quando non de iure, totalmente  e manifestamente svincolati anche dalla morale), oggi la forma di potere politico ed economico che utilizza come manto per coprire le sue forme di dominio le dottrine neocostituzionaliste (e quindi, a livello di loro volgarizzazione popolare, le mitologie politiche universalistiche e dirittoumanistiche di cui abbiamo già detto), si configura come  potere che sempre più si vuole  svincolare dal politico(ovviamente dal  politicoaristotelicamente inteso che ha per protagonista lo Zoon Politikon), si configura cioè come un potere sempre di natura totalitaria,  ma non più  come un totalitarismo legibus solutus ma Res publica solutus (rispetto ai totalitarismi vecchi e nuovi del Novecento, discorso comunque a parte deve essere fatto per lassolutismo dell Ancien Régime che, nonostante il monopolio del politico, riconosceva formalmente unautonomia della società, anche se – de facto –  sorvegliatissima, pesantissimamente eterodiretta e sovente palesemente negata e conculcata, vedi, a seguito della revoca voluta da Luigi XIV delleditto di Nantes originariamente emanato  da Enrico IV nel 1598, la persecuzione dei protestanti francesi tramite le dragonnades, fino a giungere allespulsione degli ugonotti dal suolo francese ).

 Ed è ancora in  Miti giuridici e regolarità politiche che viene chiaramente individuata la natura mitologica (e profondamente regressiva) di questa distopia di quello che abbiamo appena definito un potere Res publica solutus, a sua volta frutto maturo e terminale del neocostituzionalismo giuridico e delle conseguenti mitologie politiche universalistiche per le quali il nemico da abbattere è la decisione politica: «Il primo [di questi miti politici] è il mito tecnocratico, cioè quello espresso nel modo più conseguenziale e deciso da Saint-Simon, ovvero della società in cui l’amministrazione delle cose sostituirà il governo degli uomini. In realtà nessuno l’ha visto realizzarsi, se non nel coro adulatorio di qualche governo sedicente tale  (e di corta durata). Ciò perché la natura (e l’inconveniente) del potere è tale che  oscilla tra i due abissi dell’oppressione e dell’anarchia, come sosteneva de Maistre. Un governo forte è tentato di opprimere: ma se debole è impotente a tutelare. Per cui il pensatore controrivoluzionario sosteneva che la società umana è in mezzo a questi abissi (cioè non basta che un governo sia tecnocratico perché non abbia necessità di comandare). Nella realtà certi governi (tecnici) finiscono per risolvere  a modo loro tale alternativa: sono insieme deboli nel proteggere, ma forti nell’opprimere (finiscono col realizzare l’inverso della situazione ottimale). […] Quanto al mito tecnocratico, si fonda sull’illusione che gli uomini possono non essere governati, ossia che non sia necessario il rapporto di comando/obbedienza: peraltro pone l’accento sulla capacità tecnica dei governanti (che, a dirla tutta, non guasta) ma è comunque subordinata al consenso politico, al rapporto governati-governanti.»

Sorvoliamo,  per carità di patria, di utilizzare queste sfolgoranti ed illuminanti parole  di La Grange sul mito tecnocratico e sulle sue terribili conseguenze contro la natura intimamente strategica dell’uomo (natura dialettico-strategica dell’uomo da noi già discussa alla luce della filosofia della prassi dei Quaderni del carcere di Antonio Gramsci e di Storia e coscienza di Classe di György Lukács in Dialecticvs Nvncivs. Il punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico attraverso i Quaderni del Carcere e Storia e Coscienza di Classe per il rovesciamento della gerarchia della spiegazione meccanicistico-causale e dialettico-conflittuale, per il rinnovamento degli studi marxiani e marxisti e per l’ Aufhebung della gramsciana e lukacsiana Filosofia della Praxis, agli URL https://archive.org/details/DialecticvsNvncivs.IlPuntoDiVistaDelRepubblicanesimoGeopolitico_866 e https://ia801603.us.archive.org/7/items/DialecticvsNvncivs.IlPuntoDiVistaDelRepubblicanesimoGeopolitico_866/DialecticvsNvncivs.IlPuntoDiVistaDelRepubblicanesimoGeopoliticoAttraversoIQuaderniDelCarcereEStoriaECoscienzaDiClasse.pdf, tema della strategicità dialettica dell’uomo  che verrà poi ripreso anche in  Flectere Si Nequeo Superos Acheronta Movebo (Nelle Ombre del Domani): Delio Cantimori, Carl Schmitt e il Romanticismo Politico del Repubblicanesimo Geopolitico, di prossima pubblicazione, e in Glosse al Repubblicanesimo Geopolitico, anch’esso di non lontana pubblicazione), natura dell’uomo da noi individuata nella sua dialettica strategicità condivisa  col resto del mondo fisico-naturale-culturale-storico (vedi sempre i lavori appena citati) e che geneticamente  si costituisce in una incessante scontro strategico fra il momento del comando/obbedienza e quello di una libera dinamica conflittuale all’interno della Res publica-Polis (mito tecnocratico, quindi, come il mito e progetto antiumanistico per eccellenza perché nega alla radice la natura dialettico-espressiva-conflittuale dell’uomo); per commentare le ultime misere vicende della politica nazionale (per chi voglia con masochistica acribia   raffrontarle con il momento della cronaca politica in cui il sottoscritto sta componendo questa comunicazione, basti dire che questo testo è stato esteso in data 8 maggio 2018), è preferibile piuttosto, in conclusione di questo ulteriore commento alle ultime riflessioni di La Grange pubblicate sull’ “Italia e il mondo”, soffermarci su un particolare aspetto del nostro, che ci restituisce tutta la sua grandezza, anche se in una dimensione prevalentemente tragica e non certamente ottimista.

Si tratta di questo: come già sottolineato nel mio primo commento cumulativo, Teodoro Klitsche de la Grange è un giurista, e giurista talmente profondo che questa sua unica conoscenza della materia gli consente di addentrarsi con grande successo nella teoresi politologica, ma si tratta di una teoresi politologica dalla quale espressamente emerge una grande sfiducia verso il momento giuridico. Detto in altre parole, lavere superato in Teodoro Klitsche de la Grange il paradosso Carl Schmittse non gli permette di concedere  (giustamente) alcuna simpatia etica alla Machtpolitik – ma, soprattutto, dà in La Grange luogo ad una totale avversione sul piano teorico, prima ancora che sulle sue pratiche applicazioni totalitarie novecentesche –,  al contempo non gli permette neppure di nutrire nemmeno alcuna speranza su una giuridicizzazione del problema politico così come voluta dal neocostituzionalismo.

In realtà, pensiamo che il desiderio profondo di La Grange sia quello di operare una sorta di paolina Katargēsis della legge (sulla Katargēsis messianica della legge cfr. come fonte primaria, lettera di S. Paolo ai Romani  in Rm 3, vv. 19-31 e come fonti secondarie Giorgio Agamben, Homo sacer. Sovereign Power and Bare Life, Stanford, Calif., Stanford University Press, 1998  e Id., Il tempo che resta. Un commento alla Lettera ai Romani,Torino, Bollati Boringhieri, 2000), Teodoro Klitsche de la Grange vorrebbe  cioè abolire le potenzialità totalitarie (così come espresse al loro massimo grado e compiuta telelologia dal neocostituzionalismo) della politica (o meglio postpolitica) legate alla mitologizzazione della  legge ma al tempo stesso vorrebbe conservare i principi ordinatori per la polis-Res publica della legge stessa.

Si tratta della stessa dialettica contraddizione in cui si dibatte il Repubblicanesimo Geopolitico (Cfr. Repubblicanesimo Geopolitico e Katargēsis Messianica, URL: https://archive.org/details/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica_637 e https://ia800809.us.archive.org/25/items/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica_637/RepubblicanesimoGeopoliticoEKatargsisMessianica.pdf) che, in questo simile ad ogni momento autenticamente rivoluzionario, se non vuole abolire la legge positiva la vuole almeno superare nel processo rivoluzionario ma, al tempo stesso, attraverso questa Aufhebung, ne vorrebbe conservare le capacità ordinatrici.

Ora non vogliamo (e non ci permettiamo di) attribuire alcuna volontà politica rivoluzionaria a La Grange; anzi, dal suo modo di argomentare si evince piuttosto una certa sana nostalgia per un ordine politico che come tale, a nostro giudizio, non è mai esistito ma che non sarebbe male che, almeno come obiettivo limite, tenere sempre presente: ricitiamo, sottolineandole,  le seguenti parole da Nota su dipendenza degli stati e globalizzazione: «La «legge» senza forza è inutile: la forza senza legge è arbitrio violento. Nella realtà occorrono entrambi. Se la combinazione di forza e regola è la normalità del governo dei gruppi umani, così come il potere responsabile è l’ordinatore ideale, quello che si profila nel mondo globalizzato appare tra i meno preferibili. Perché si risolve nell’affidare prevalentemente alla forza e all’astuzia (del potere esistente) il massimo della potenza disponibile senza la prospettiva che possa riuscire a creare un ordine che sia veramente tale».

Quello che a però noi pare veramente significativo della teoresi di Teodoro Klitsche de la Grange è che il suo è veramente un procedere nelle ombre del domani, un andare alla ricerca, come fece Huizinga con il suo In de schaduwen van morgen, fra i chiaroscuri della storia e della nostra civiltà occidentale contemporanea perennemente in crisi ed evoluzione (più spesso: in involuzione) di quei momenti significativi che nella loro positività e, nel contempo, negatività ci possano illuminare per il domani. Siamo, in altre parole, di fronte alla poesia (inteso anche, se non soprattutto, nel significato etimologico di poíēsis) del metodo dialettico. E di questi tempi, questa è già una rivoluzione che per il momento basta e avanza.

Massimo Morigi – 8 maggio 2018

 

 

 

 

Contenziosi in terra straniera, di Antonio de Martini

Trump era stato avvertito che rompere unilateralmente l’accordo JCPOA avrebbe avuto conseguenze sul piano militare.

Ieri l’Iran e Israele si sono scambiati una ventina di missili per parte avendo cura di non mirare a zone abitate.
Gli obbiettivi di entrambi sono in territorio siriano beninteso.

Gli iraniani hanno portato la guerra al confine di Israele colpendo la provincia di Quneitra ( alture di Golan), dopo che tutti gli sforzi occidentali miravano a perpetuare la guerra alla frontiera turca.

Il gioco è chiaro: se Trump colpirà l’Iran, questo colpirà Israele, il quale a sua volta colpirà la Siria.

L’Europa – rappresentata da Francia,Germania e Inghilterra, assente l’Italia, hanno preso per la prima volta ufficialmente, le distanze dalla politica USA.

Presto dovremo anche noi decidere se correre il rischio di perdere il cliente americano che ci compra le mozzarelle e l’olio di oliva, oppure il cliente iraniano che compra da noi tecnologia.

Unica ragione di ottimismo è la presenza in questi giorni a Mosca – per la celebrazione della vittoria su Hitler- di Netanyahu che sta trattando con Putin.

Il mezzo milione di russi ortodossi,spacciatisi per ebrei che lasciarono l’URSS e adesso costituisce ormai una colonia russa in Israele ( e ha creato un partito) assume valenza determinante nel mosaico del Levante.

Ha offerto un argomento negoziale comune alla Russia e a Israele e costituisce motivo per Netanyahu per non trascurare la mediazione di Putin e per Putin di voler salvaguardare anche Israele.

La Russia, celebrando più che la vittoria i suoi 20 milioni di morti che hanno salvato l’Europa dal nazismo, dice all’Occidente che non teme di perdere altri venti milioni di soldati.

Ricevendo l’ospite israeliano a Mosca durante questa crisi, Putin mostra che la via del compromesso di pace passa dal Cremlino mentre Trump non è riuscito a far chiudere la bocca nemmeno a una puttana.

In questo momento di grandi scelte, un governo Di Maio Salvini , con Mattarella al Quirinale, mi fa venire la pelle d’oca.

Su Hegel e la virtù, di Teodoro Klitsche de la Grange

POST – FAZIONE su Hegel e la virtù

Nello scrivere il suesteso articolo sulla virtù e lo Stato moderno http://italiaeilmondo.com/2018/05/01/virtu-e-stato-moderno-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/ , avevo omesso di considerare ciò che Hegel sosteneva, in particolare nella “Fenomenologia dello spirito” sulla virtù e su come diversamente considerata dagli antichi e dai moderni.

In effetti il filosofo nota due cose, spesso ripetute nei secoli successivi; la prima che la virtù esternata dai moderni è per lo più “Pomposo discorrere del sacrificio per il bene e dell’abuso delle doti; simili essenze e fini ideali si accasciano come parole vuote che rendono elevato il cuore e vuota la ragione; simili elevate essenze edificano, ma non costruiscono, sono declamazioni che con qualche determinatezza esprimono soltanto questo contenuto: che l’individuo il quale dà ad intendere d’agire per tali nobili fini e ha sulla bocca tali frasi eccellenti, vale di fronte a se stesso come un’eccellente essenza, ma è invece una forzatura che fa grossa la testa propria e quella degli altri, la fa grossa di vento…Ma la virtù da noi considerata è fuori della sostanza, è priva di essenza, è una virtù soltanto della rappresentazione, virtù di parole prive di qualunque contenuto…La nullità di quella chiacchiera sembra essere divenuta certa anche per la cultura del nostro tempo, sebbene in modo inconsapevole; giacchè dall’intera massa di quelle frasi e dal vezzo di farsene belli è dileguato ogni interesse, il che trova la sua espressione nel fatto ch’esse producono soltanto noia”.

Il secondo è che, di converso “La virtù antica aveva il suo significato preciso e sicuro, perché possedeva un suo fondamento pieno di contenuto nella sostanza del popolo e si proponeva come fine un bene effettuale già esistente; e perciò non era rivolta contro l’effettualità (intesa) come una universale inversione, nè contro un corso del mondo”[1].

Nel Grundilinien das philosophie des recht Hegel confermava che « Il discorso su la virtù, però, sconfina facilmente nella vuota declamazione, perché se ne parla solo come di un’entità astratta e indeterminata, e, analogamente, un tale discorrere, con le sue ragioni ed esposizioni, si rivolge all’individuo come a un arbitrio e capriccio soggettivo”[2], l’etico è unità di sostanzialità e soggettività “La vigenza di questo diritto consiste nel fatto che, nella sostanzialità etica, sono dileguate ogni caparbietà e ogni Coscienza singolare che, in quanto essente-per-sé, si opporrebbe appunto alla sostanzialità”[3].

La concretezza della virtù degli antichi, indirizzato alla “sostanza del popolo” e al “bene effettuale già esistente” è particolarmente evidente nel racconto di Plutarco sul discorso di Volumnia, la madre di Coriolano, al figlio per persuaderlo a non combattere contro Roma. Volumnia parla come madre (fisica), ma le sue parole sono anche (e soprattutto) quelle della madre politica: infatti è consapevole che se Coriolano ne seguirà l’esortazione, sarà ucciso. Ma nella decisione tra la patria e la vita del figlio (ossia tra pubblico e privato) non ha esitazioni né dubbi: sacrifica i sentimenti privati alla salvezza di Roma: ed esorta il figlio a fare altrettanto: “Perché taci o figlio? Forse che è nobile abbandonarsi completamente all’ira e al rancore mentre è disonorevole cedere alla madre che ti rivolge una così grave preghiera?… E a nessuno come te si converrebbe di osservare i doveri della riconoscenza, a te che così duramente ti vendichi dell’ingratitudine. Eppure, benché ti sia ampiamente vendicato della patria, a tua madre non hai mostrato alcun segno di riconoscenza”[4]. Coriolano così compì la scelta perorata dalla madre: salvò Roma e venne ucciso dai Volsci.

L’opposto di Coriolano era Polinice, il figlio di Edipo morto combattendo contro la propria patria per affermare il proprio diritto alla successione al trono del padre e al rispetto del relativo patto con il fratello Eteocle: ovvero per un diritto (soggettivo) appartenente a se medesimo.

Se l’aspetto soggettivo è comune a Polinice ed ai pomposi banditori “del bene supremo dell’umanità e dell’oppressione di questa” diverso ne è il bene protetto. Nell’eroe antico è la concreta spettanza di un diritto; nei moderni è, come scriveva Hegel, privo di sostanza, pura rappresentazione ideale: “virtù di parole prive di qualunque contenuto”. Ossia buone intenzioni (e, spesso, derivazioni paretiane).

Hegel torna ancora sulla virtù dei moderni nelle “Lezioni sulla filosofia della storia” in particolare sulla concezione della virtù da parte dei rivoluzionari giacobini “Dominano ormai i principi astratti della libertà e della sua manifestazione nella volontà soggettiva, la virtù. La virtù deve ancora governare i molti che, con la loro corruzione e con i loro vecchi interessi, o anche per gli eccessi della libertà e delle passioni, le sono infedeli. Il principio della virtù fu posto come principio supremo da Robespierre, e si può dire che quest’uomo la prese veramente sul serio. La virtù è qui un principio semplice, e distingue solo quelli che hanno un convincimento da quelli che non l’hanno. Ma il convincimento non può essere conosciuto e giudicato che dal convincimento. Domina perciò il sospetto: ma la virtù, appena diviene sospetta, è già condannata”. La virtù astratta governa col sospetto e col terrore: “Dominano così, ora, la virtù e il terrore: infatti questa virtù soggettiva, che governa solo in base al convincimento, porta con sé la più terribile tirannia. Essa esercita il suo potere senza forme legali, e la pena che infligge è egualmente semplice: la morte”. I principi rivoluzionari, sosteneva Hegel, trovavano terreno fecondo nelle nazioni cattoliche[5]. Il liberalismo ha dominato tutte le nazioni romaniche, “cioè tutto il mondo cattolico-romano, la Francia, l’Italia, la Spagna, il Portogallo. Ma dappertutto ha fatto bancarotta … In tutte queste rivoluzioni va messo in rilievo il fatto che esse sono esclusivamente politiche, senza mutamento di religione. In questa specie della libertà dello spirito, la religione non prosperò né decadde. Ma senza mutamento religioso non può avvenire una rivoluzione politica. La libertà dello spirito, come è stata espressa nella nazioni romaniche, i principi stessi di questa libertà, sono solamente principi astratti”[6].

In sostanza la virtù, in senso politico, è questione pubblica ed essenzialmente comunitaria che nella difesa della comunità e del suo modo d’esistenza ha la propria funzione e la propria oggettività. La lezione del grande filosofo è tuttora attuale.

[1] V. Fenomenologia dello spirito, trad. it. di E. De Negri, Firenze 1973 pp. 323-324.

[2] V. Op. cit. ult. prgrf.150 trad. It. Di V. Cicero, Milano; “L’Etico, in quanto è il modo d’agire universale degli individui stessi appare come ethos, costume. L’Etico è qui la consuetudine dell’ethos, è come una seconda natura messa al posto della prima volontà meramente naturale”

[3] Op. ult. cit. prgrf. 152 e prosegue Colui che ha un carattere etico, infatti, ma come proprio fine motore l’universale immobile, il quale però nelle sue determinazioni, si è dischiuso a razionalità reale. Chi ha un carattere etico conosce la propria dignità e ogni sussistenza dei fini particolari come fondate in questo universale, e qui le ha realmente”; riporta questo aneddoto per illustrare il connotato peculiare dell’eticità antica “Alla domanda di un padre sulla maniera migliore di educare il proprio figlio, un pitagorico diede la seguente risposta (che viene messa anche in bocca ad altri) fallo cittadino di uno Stato con buone leggiop. ult. cit. prgrf. 153, la sostanza etica è ”lo Spirito reale  di una famiglia e di un popolo” op. ult. cit. prgrf. 156.

[4] V. Plutarco, Vite parallele. Coriolano, trad. it. di L. M. Raffaelli, Milano 1992 p. 241.

[5] Tuttavia è bene ricordare che nelle nazioni cattoliche trovarono le più determinate opposizioni che presero forma nelle guerre partigiane: dal cardinale Ruffo a Empecinado ad Hofer.

[6] V. LFS Firenze 1963, vol. IV, p. 209 ss.

Diplomazie parallele, di Giuseppe Germinario

Un articolo del Boston Globe del 4 maggio scorso  narra di un incontro tra John Kerry, l’ex segretario di stato americano in carica durante l’amministrazione Obama e il ministro degli esteri iraniano Javad Zarif avvenuto circa due settimane prima nella sede dell’ONU. https://www.bostonglobe.com/news/nation/2018/05/04/kerry-quietly-seeking-salvage-iran-deal-helped-craft/2fTkGON7xvaNbO0YbHECUL/story.html

(qui invece la traduzione automatica del testo) https://translate.google.com/translate?depth=1&hl=it&rurl=translate.google.com&sl=auto&tl=it&u=https://www.bostonglobe.com/news/nation/2018/05/04/kerry-quietly-seeking-salvage-iran-deal-helped-craft/2fTkGON7xvaNbO0YbHECUL/story.html  

L’autore in realtà sostiene che l’incontro rappresenta solo l’ultimo atto conosciuto di una intensa attività intrapresa discretamente dall’ex-diplomatico in questi mesi mettendo in piedi uno staff di decine di personaggi più o meno influenti, denominato “diplomacy work” e tessendo una fitta trama di iniziative e relazioni che arriva a coinvolgere anche i più alti esponenti politici europei, tra di essi Mogherini, Merkel e Macron nonchè a influenzare l’azione politica dei detrattori dell’accordo con l’Iran. Tra queste ultime, assieme alla diffusione di centinaia di articoli e servizi, la pubblicazione di un appello di ventisei ex alti ufficiali israeliani favorevoli al mantenimento dell’accordo.

Una iniziativa certamente importante per il merito. Su questo le analisi politiche non difettano di informazioni e di punti di vista diversi pur con la solita deprimente eccezione nostrana.

Molto più significativa e dirompente è l’iniziativa in se stessa.

Nelle relazioni internazionali i vari centri decisionali dispongono sempre di canali paralleli e dei più disparati livelli di azione, più o meno ortodossi, attraverso i quali mettere in atto le proprie strategie. Accade anche che in caso di conflitto o di disaccordo tra centri decisionali interni ad un paese la tenzone non si risolva con un regolamento diretto e l’accettazione del verdetto ma attraverso l’azione che coinvolge l’intero sistema di relazioni internazionali. Con il rispetto, solitamente, di una regola aurea: la assoluta discrezione. L’iniziativa di J. Kerry infrange ancora una volta, negli ultimi tempi e soprattutto nel campo fondamentale della politica estera, questo tabù. Lo stesso per il quale venne infangato e detronizzato, a pochi giorni dal suo incarico, un anno fa il suo omologo Flynn in una condizione decisamente più dubitevole e pretestuosa. E infatti lo ha immediatamente rimarcato Devin Nunes, presidente del comitato di vigilanza sui servizi segreti del Congresso Americano https://www.alternet.org/devin-nunes-calls-john-kerry-be-arrested-fbi-send-g-men

Una situazione inconsueta di aperto osteggiamento di una azione politica, tipica di una condizione di guerra civile o di colpo di stato strisciante piuttosto che di ordinario confronto politico

Rappresenta l’ulteriore indizio dell’incomponibilità e della virulenza dello scontro in atto tra centri decisionali negli Stati Uniti. Un conflitto che non lascia spazi a mediazioni durature e che si risolverà con l’annichilimento sempre più probabile di uno dei contendenti in scena. La stessa radicalizzazione e contraddittorietà del confronto geopolitico oltre che la causa ormai può essere considerata anche la conseguenza di questo conflitto interno in corso. Con una importante novità. Due anni fa poteva apparire un conflitto estemporaneo tra un establishment tetragono e una élite estemporanea e avulsa; oggi questa élite, a costo di pesanti compromessi che hanno snaturato gran parte dei propositi originari, è riuscita a mettere radici negli apparati di potere e decisionali e a consolidare un proprio sistema di relazioni internazionali sia conclamato che più discreto entro il quale trovano spazi e mediazioni alcuni centri decisionali di potenze minori come la Francia, la Turchia e la Corea.

In questo quadro possono trovare posto eventi apparentemente incomprensibili e contraddittori come la sospensione e l’eventuale taglio dei finanziamenti americani agli “Elmetti Bianchi” in Siria, una formazione assistenziale collaterale ai gruppi ribelli sostenuti e finanziati dal campo occidentale. https://www.cbsnews.com/news/u-s-freezes-funding-for-syrias-white-helmets/

Potrebbe essere un segnale lanciato ai russi di un loro riconoscimento come attori principali di una trattativa sulla Siria ancora tutta da definire ma con un ruolo dell’Iran da ridimensionare drasticamente; potrebbe essere altresì un avvertimento alla Gran Bretagna di May, principale finanziatrice e sostenitrice di quella organizzazione, ad astenersi da iniziative autonome di pressione e provocazione, come la messa in scena dell’attacco chimico a Goutha del 7 aprile; un invito a concordare le mosse con l’attore geopolitico principale, per meglio dire con la fazione attualmente al governo se non proprio al potere.

L’una ipotesi non esclude necessariamente l’altra. Si vedrà nelle prossime puntate. Con un consiglio però: leggete attentamente gli articoli postati nei link. Raffigurano la rappresentazione plastica della complessità della trama e delle dinamiche che stanno sconvolgendo le formazioni sociali. https://www.scribd.com/document/378289155/U-S-Special-Counsel-Mueller-Vs-Paul-Manafort-Judge-TS-Ellis-III-Presiding-May-4-2017

 

Sergey Lavrov alla BBC, il 19 aprile 2018_ a cura di Giuseppe Germinario

Qui sotto la trascrizione dell’intervista del Ministro degli Esteri di Russia, Sergey Lavrov, concessa durante il programma HardTalk della BBC britannica. Nel suo stile asciutto e duro Lavrov ci offre ancora una volta il punto di vista russo sui due più recenti punti di crisi internazionale nei quali è coinvolta la Russia. Giuseppe Germinario https://www.youtube.com/watch?time_continue=12&v=-zJ41whNgR0

 

Intervista di Sergei Lavrov della BBC

Russia , Sergey Lavrov

 

Intervista del Ministro degli Esteri russo – per prendere una visione critica …

Fonte: S. Hasan, 19-04-2018

trascrizione:

Reporter: Sergey Lavrov, benvenuto in Hard Talk . La scorsa settimana, il mondo era profondamente preoccupato per la possibilità di un conflitto armato diretto tra Stati Uniti e Russia. Secondo lei, quanto siamo stati vicini a questo scenario?

Sergey Lavrov: Non penso che siamo stati molto vicini. Penso che questa situazione sia stata creata dai nostri colleghi occidentali che si sono comportati in modo molto irresponsabile. Hanno accusato le autorità siriane di usare armi chimiche contro la popolazione civile e allo stesso tempo ci hanno accusato di alleati del governo siriano. Sapendo che lo hanno fatto senza aspettare che gli ispettori dell’OPCW visitino i locali. In effetti, è stato proprio nel momento in cui i rappresentanti dell’OPCW erano pronti a viaggiare dal Libano alla Siria per realizzare questi scioperi. Come ha spiegato il nostro esercito, il canale di collegamento per prevenire incidenti non pianificati (i cosiddetti “deconflicing”) funziona continuamente.

Reporter: Quindi per essere chiari ed evitare il gergo, ho capito bene che gli Stati Uniti e i loro alleati ti hanno precedentemente informato degli attacchi in preparazione, e tu, dalla tua parte, ti sei assicurato che la Russia non reagirà?

Sergey Lavrov: Preferirei non entrare nei dettagli di questi contatti di lavoro tra i nostri militari. I militari russi e americani hanno un canale di collegamento tra le due capitali e anche in Siria stessa, ei nostri soldati discutono queste questioni in modo molto professionale tra loro. Si capiscono molto bene. Probabilmente capiscono meglio di chiunque altro il rischio di simili avventure.

Reporter: Mr. Lavrov, questa crisi non è finita, vero?

Sergey Lavrov: Dipende da chi ha organizzato questa intera crisi.

Reporter: guardando le dichiarazioni dei tuoi diplomatici, la conclusione si autoinvita. Ad esempio, il tuo ambasciatore negli Stati Uniti ha detto che questi attacchi aerei non sarebbero senza conseguenze. Vladimir Putin l’ha definito un atto illegale di aggressione. Il mondo vuole sapere cosa intende fare la Russia?

Sergey Lavrov: È una dichiarazione di fatto. E ci sono inevitabilmente conseguenze. Direi che abbiamo perso i resti di fiducia per i nostri amici occidentali che preferiscono basare le loro azioni su una logica molto strana – “non c’è punizione senza colpa”. Ad esempio, ci puniscono prima per Salisbury e poi aspettiamo Scotland Yard per finire l’inchiesta. Prima puniscono per Duma in Siria e poi aspettano che gli esperti dell’OPCW vengano a esaminare i luoghi. In altre parole, questa ‘troika’ dei paesi occidentali agisce secondo il principio ‘se sei punito, sei colpevole’.

Giornalista: Riguardo agli incidenti che hai citato – Duma e il caso Skripal – ne parleremo in dettaglio con te. Ma prima vorrei ancora parlarti dello stato delle nostre relazioni diplomatiche. Nikki Haley, rappresentante permanente degli Stati Uniti presso l’ONU, ha dichiarato che gli Stati Uniti rimangono “in ordine di lavoro”. Come puoi rispondere a tali affermazioni?

Sergey Lavrov: Mi sembra che prima avrebbero dovuto sistemare la casa a Washington. Crediamo che affermazioni di questo tipo possano essere fatte solo dal capo dell’esercito o dai vertici militari. Come ho detto, i militari russi e statunitensi hanno un canale di collegamento per prevenire incidenti non pianificati, ma sono informazioni riservate.

Reporter: stai parlando del deficit di fiducia, stai parlando di una totale mancanza di fiducia tra la Russia e gli Stati Uniti.

Sergey Lavrov: Ho detto che stiamo perdendo la fiducia rimanente, non siamo ancora a 0.

Reporter: Non ancora 0. Mi chiedo, al livello più elementare, quando tu, ministro degli Esteri russo, ti alzi la mattina e leggi su Twitter che il Presidente e Capo delle forze armate degli Stati Uniti ti sta minacciando di fatto e ti disse: “Russia, sii pronto! Nuovi e intelligenti nuovi missili stanno arrivando! ‘. Cosa ne pensi di questo?

Sergey Lavrov: Beh, mi dico che il presidente degli Stati Uniti ha pubblicato un tweet.

Reporter: E come reagisci ai suoi Tweet?

Sergey Lavrov: Come si suol dire, dobbiamo giudicare a pezzi. Abbiamo deciso di vedere come questi missili “belli, nuovi e intelligenti” verranno mostrati durante gli attacchi e abbiamo calcolato che due terzi dei missili non hanno colpito il bersaglio perché sono stati intercettati.

Reporter: Ma non hai prove, vero?

Sergey Lavrov: il Ministero della Difesa russo ha presentato la sua valutazione ed è pronto per una discussione professionale su questo argomento.

Giornalista: Torneremo alla verità delle informazioni fornite da tutti gli attori in questo conflitto, ma ora parliamo di diplomazia. Il primo ministro britannico Theresa May e il presidente francese Emmanuel Macron hanno reso molto chiaro nelle loro dichiarazioni che l’unico scopo dell’operazione era quello di ridurre e impedire l’uso dell’arma chimica da parte delle autorità siriane. L’operazione non aveva lo scopo di influenzare il corso del conflitto siriano e certamente non mirava a rovesciare il regime siriano a Damasco.

Sergey Lavrov: Questo è quello che dicono.

Reporter: E non sei d’accordo?

Sergey Lavrov: No, non siamo d’accordo. Il tuo spettacolo si chiama ‘Hard talk’, ma abbiamo bisogno di ‘fatti concreti’. E tutte queste affermazioni molto probabilmente sono semplicemente ridicole.

Reporter: Mi scusi, quando dici “molto probabilmente”, ti riferisci all’analisi che le forze governative di Assad hanno usato l’arma chimica in Duma?

Sergey Lavrov: No, quando parlo della frase “altamente probabile”, intendo dire che è una nuova invenzione della diplomazia britannica dietro la quale il Regno Unito si nasconde quando punisce le persone. Dichiara che queste persone sono “molto probabili” colpevoli. Sai, nell’Alice in Wonderland di Lewis Carroll c’è la scena del processo, e quando il re chiede: “Devi prima ascoltare i giurati?”, La regina grida: “No! In primo luogo, la condanna e il verdetto dei giurati in seguito! Questa è la logica del “più probabile”.

Reporter: Ok, questa è la tua opinione. Parliamo di quello che è successo a Duma. Lasciatemi iniziare prima con una domanda molto semplice. La Russia si oppone all’uso dell’arma chimica e pensa che chi usa l’arma chimica debba essere punito, non è vero?

Sergey Lavrov: questa è una domanda? Pensavo che fossi molto meglio informato sulla posizione russa in merito. Fai una domanda con una risposta ovvia.

Reporter: è ovvio, sei d’accordo. Poiché hai firmato accordi appropriati, condividi la determinazione della comunità internazionale a vietare e eliminare completamente le armi chimiche.

Sergey Lavrov: Sì, e molto altro; nel 2017 abbiamo completato il programma di distruzione di armi chimiche in Russia, e questo è stato confermato ufficialmente dall’OPCW. L’intero Comitato esecutivo dell’OPCW ha accolto con favore questo passo. Mentre gli Stati Uniti, purtroppo, non hanno ancora mantenuto le promesse e preferiscono invece respingerlo per sempre.

Giornalista: Ma se ho appena affermato e l’impegno della Russia in questo senso è chiaro, allora certamente vorrete che i colpevoli dell’uso di armi chimiche in Duma (e il loro uso è confermato da prove travolgente) siano puniti?

Sergey Lavrov: Aspetta, aspetta. Stai andando troppo veloce con i “fatti”, di nuovo.

Reporter: non la penso così

Sergey Lavrov: Il 7 aprile non ci sono prove dell’uso di armi chimiche a Duma, e tu hai già …

Reporter: Ma ci sono prove

Sergey Lavrov: Puoi … Puoi [smettere di interrompermi]?

Giornalista: Emmanuel Macron e i francesi hanno dichiarato chiaramente di avere informazioni sui voli dell’elicottero del governo siriano su Douma. Hanno foto di bombole di gas trovate sulla scena dell’attacco. Hanno anche registrato tutti gli usi delle armi chimiche da parte del governo siriano negli ultimi anni. Se combini tutti questi elementi, nella misura in cui i francesi, gli americani, gli inglesi …

Sergey Lavrov: Non posso permettermi di essere scortese con gli altri capi di stato (né con il capo del mio stato, ovviamente), ma hai citato leader da Francia, Regno Unito e Stati Uniti. STATI. Ma francamente, tutte le prove cui si riferiscono sono tratte dai media e dai social network. Ad esempio, bombole di gas. Ho visto questa foto – una bottiglia di gas su un letto, mentre il letto è intatto, il vetro della finestra non è rotto. Ascolta, devi essere un po ‘più serio. Puoi spiegarmi perché colpire (Siria) se il giorno seguente, gli ispettori dell’OPCW andranno sul posto per esaminare quello che affermano sia successo?

Giornalista: Il rappresentante degli Stati Uniti dell’OPCW dice che ci sono seri motivi per temere che la Russia stia cercando di distruggere le prove a Duma. Puoi dire dalla tua parte che la Russia non stava facendo nulla del genere?

Sergey Lavrov: Sì, posso garantirlo, ma sai, è assolutamente la stessa logica di Theresa May su Salisbury. Quando abbiamo chiesto a dozzine di domande, quando abbiamo chiesto di organizzare un sondaggio congiunto, quando abbiamo chiesto l’accesso al processo di raccolta dei campioni, lei ha risposto di no, non risponderanno a nessuna domanda finché La Russia non risponderà alle loro. Ma l’unica domanda che ci è stata posta è stata questa: “Spiegaci come hai fatto. E’ Vladimir Putin che ha ordinato di avvelenare questi due sfortunati? O è dovuto al fatto che hai perso il controllo delle tue scorte di armi chimiche? “Per qualsiasi persona ragionevole, questa è una situazione particolarmente strana … Ma torniamo a Duma.

Giornalista: Sì, tornerò allo Skripal, ma intanto tornerò a Duma e alla questione della credibilità. Prima hai dichiarato che l’incidente (chimico) a Duma non si era verificato. Poi la Russia ha cambiato la sua posizione e ha detto che è successo qualcosa, ma è stato messo in scena dai paesi russofobi.

Sergey Lavrov: In effetti, non ci sono stati incidenti (chimici). Quello che c’era è una messa in scena. Non sono state usate armi chimiche.

Reporter: Lei pensa che il Regno Unito sia coinvolto in questo finto attacco di armi chimiche a Duma, vero?

Sergei Lavrov: la storia ha avuto molti precedenti simili negli ultimi decenni. Ciò che effettivamente pensiamo e le nostre informazioni potrebbero condividere le informazioni necessarie con i loro colleghi britannici, è …

Giornalista: Ma tu dici di avere prove inconfutabili che si tratta di un falso, una messa in scena. Tu dici che i volontari dei White Helmets sono coinvolti. Dove sono le tue prove inconfutabili?

Sergey Lavrov: Per avere prove inconfutabili devi andare sulla scena, e il …

Reporter: Dove è la prova concreta che questo è stato messo in scena dai caschi bianchi, con il sostegno del governo britannico? Stiamo parlando di credibilità. Dov’è la tua credibilità?

Sergey Lavrov: Quello che ho detto è che i White Helmets, come sappiamo, funzionano solo nel territorio controllato dall’opposizione, incluso il gruppo Front al-Nusra. Sappiamo che i White Helmets suonano regolarmente l’allarme su presunti incidenti chimici, come un anno fa a Khan Cheikhoun, che si è rivelato un falso dall’inizio alla fine. Tutti sanno che i White Helmets sono finanziati da diversi paesi, tra cui il Regno Unito.

Reporter: Ma queste non sono prove inconfutabili.

Sergey Lavrov: Un secondo. Prova inconfutabile di cosa?

Reporter: hai detto che hai prove inconfutabili che un paese russofobico, e tu intendevi il Regno Unito, stava lavorando con i White Helmets per mettere in scena l’incidente.

Sergey Lavrov: Un secondo. Perché dici che ho designato il Regno Unito? Non devo dire quello che non ho detto. Ho detto “uno stato che cerca di essere il primo tra i ranghi della campagna russofoba”. Quindi prova a citarmi senza distorcere, altrimenti non è molto professionale.

Quindi, parlando di prove inconfutabili, gli ispettori dell’OPCW hanno accettato di condurre un’indagine per scoprire cosa è successo a Duma. Sono venuti in Libano. Le autorità siriane hanno detto loro che avrebbero ottenuto i loro visti immediatamente all’arrivo al confine. Sette ore dopo, la Siria fu colpita. Perché farlo alla vigilia dell’arrivo degli ispettori?

Reporter: se risultasse che i governi di Francia, Regno Unito e USA avevano ragione e torto, e se il presidente siriano Bashar al-Assad ha continuato a usare l’arma chimica, lo ha fatto nel 2013 nella Ghouta facendo fino a mille morti, come ha fatto un anno fa a Khan Sheikhoun o come ha appena fatto a Douma, secondo gli americani e i loro alleati. Se si scopre che hanno ragione e hai torto, riconoscerai che il presidente Bashar al-Assad deve essere punito?

Sergey Lavrov: Sai, non mi senti. Più esattamente non mi ascolti. Ho appena detto che l’atto di aggressione è stato commesso meno di un giorno prima dell’inizio del presunto attacco chimico da parte di ispettori internazionali, compresi i cittadini statunitensi, a quanto ho capito.

Ora, riguardo a quello che è successo un anno fa a Khan Sheikhoun. Era il 4 aprile. Il giorno successivo, il segretario di stato americano Rex Tillerson mi ha telefonato e ha chiesto un accordo dalle autorità siriane per consentire agli ispettori internazionali di esaminare la base aerea da cui l’aereo è decollato, presumibilmente con a bordo questa bomba chimica. . La mattina dopo abbiamo detto agli americani che l’accordo è stato raggiunto. Hanno risposto, ‘no, grazie’ e hanno colpito il giorno successivo. Abbiamo chiesto che gli ispettori dell’OPCW entrassero in scena, ma ci è stato detto che era molto pericoloso e che in ogni caso non era necessario perché gli inglesi e i francesi avevano già tutti i campioni necessari Abbiamo quindi chiesto agli inglesi e ai francesi di spiegarci come sono riusciti a ottenere i campioni in un posto così pericoloso. Forse hanno contatti con i caschi bianchi che controllano questo territorio. Hanno risposto che questa informazione era confidenziale.

Ci sono molti altri fatti che vorremmo chiarire e molte altre domande legittime in risposta all’unica domanda che sentiamo dai leader e dai media occidentali: “Perché l’hai fatto?” Perché hai usato l’arma chimica nel Regno Unito? Perché stai coprendo Bashar al-Assad? E ora fai affidamento su queste affermazioni per dire: “E se si scopre che hai sbagliato, allora?” È molto interessante come …

Reporter: tu sei il capo della diplomazia russa. Se si sono verificati altri incidenti chimici e gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia e altri paesi hanno ritenuto che fosse opera di Bashar al-Assad, è certo che ci sarebbero stati nuovi attacchi ancora più massicci. Quale potrebbe essere il risultato? La Russia prenderà le contromisure?

Sergey Lavrov: Prima di parlare di “nuovi incidenti”, bisogna prima dimostrare che Bashar al-Assad ha effettivamente usato l’arma chimica. Posso darti un breve …

Reporter: ho solo fatto una domanda molto semplice perché il mondo vuole saperlo. Secondo Nikki Haley, gli Stati Uniti sono “carichi e pronti a sparare” e se credono – non importa cosa pensate dalla vostra parte – che Bashar al-Assad abbia usato di nuovo armi chimiche, è chiaro che ci sarebbe stata una risposta militare da loro ancora più massiccia. Come reagirebbe la Russia a questo?

Sergey Lavrov:Sai, non lavoro in chiaroveggenza. Quello che so è che qualche tempo fa, tre paesi occidentali, che stanno attualmente conducendo questa campagna isterica, hanno avvertito che se Bashar al-Assad avesse usato armi chimiche, avrebbero usato il forza. Lo considero un segnale per i “cattivi”, specialmente i White Helmets, per organizzare le provocazioni. Ora, dopo l’attacco aereo del 14 aprile, dicono di nuovo che in caso di un nuovo incidente, riutilizzeranno la forza. E questo è un altro segnale per i combattenti e gli estremisti per rilanciare le attività militari, che hanno già fatto. Subito dopo l’attacco aereo, tentarono di lanciare un’offensiva contro Damasco. Cosa intendo, è che quando alcuni dicono che la Russia è responsabile per (adempimento degli impegni) di Bashar al-Assad nel contesto della Convenzione sulla proibizione delle armi chimiche, è semplicemente disgustosa. Abbiamo condotto questo lavoro insieme agli Stati Uniti.

Reporter: un’ultima domanda sulla diplomazia prima di affrontare altri argomenti. Oggi gli Stati Uniti proporranno al Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite di prendere in considerazione una nuova risoluzione che ritengono sia necessaria per avvertire Bashar al-Assad a nome della comunità internazionale che non può più ricorrere alle armi chimiche. Sei pronto a collaborare con gli Stati Uniti all’ONU? Smetterete di porre il veto su tutte le risoluzioni proposte dagli Stati Uniti e dai suoi alleati?

Sergey Lavrov: non tutte le risoluzioni. Se stiamo parlando della ripresa del meccanismo investigativo, che non è trasparente o indipendente e che emette la sentenza senza attendere il verdetto del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, ovviamente non saremo in grado di accettarlo. . A proposito, …

Reporter: non accetti.

Sergey Lavrov: Sai cosa penso? Steve, per favore, lasciami parlare. Penso che l’unico scopo di questa risoluzione è dare l’impressione se la Russia e la Siria accettino di cooperare, il che è impossibile a causa del contenuto; ma se accettiamo, vorrebbero presentarlo in modo che siano le bombe a costringerci a negoziare. Ecco perché la risoluzione richiede che le autorità siriane accettino i negoziati. Ignorando il fatto che il principale gruppo di opposizione che sostengono, il cosiddetto gruppo Riyadh nella persona del suo presidente Nasser al-Hariri, che ha recentemente invitato gli Stati Uniti a utilizzare le armi non solo quando viene usata l’arma chimica, ma ovunque l’opposizione stia combattendo contro le forze governative.

Reporter: alcune brevi domande. Primo, pensi che Bashar al-Assad sia uscito vittorioso da questa interminabile guerra siriana?

Sergey Lavrov: Non pensare ai vincitori e ai vinti, o di Bashar al-Assad o dei suoi avversari. Soprattutto, dobbiamo pensare al popolo siriano che ha bisogno di una pausa dagli orrori di 8 anni di conflitto.

Reporter: qual è l’obiettivo finale della Russia in Siria? Negli ultimi tempi, Mosca ha inviato sempre più materiale e risorse umane. Questo significa che intendi aiutare Bashar al-Assad finché non controlla ogni centimetro del territorio siriano?

Sergey Lavrov: Il nostro obiettivo è proteggere la Siria dall’aggressione iniziata il 14 aprile e che questi tre paesi, come si suol dire, intendono continuare.

Reporter: Intendi consegnare al presidente siriano Bashar al-Assad il tuo nuovissimo sistema anti-aereo S-300? Se è così, questo potrebbe essere di grave preoccupazione per Israele.

Sergey Lavrov: il presidente russo Vladimir Putin ha già risposto a questa domanda. Ha ricordato che alcuni anni fa, su richiesta dei nostri partner, abbiamo deciso di non consegnare l’S-300 in Siria. Ora, dopo un disgustoso atto di aggressione da parte di Stati Uniti, Francia e Regno Unito, studieremo le opzioni per garantire la sicurezza dello stato siriano.

Reporter: se ho capito bene, gli eventi degli ultimi giorni ti hanno spinto a riconsiderare la tua posizione e ora sei incline a fornire questi moderni sistemi di difesa aerea in Siria?

Sergey Lavrov: Questo ci convince che dobbiamo fornire alla Siria tutto il necessario per aiutare l’esercito siriano a prevenire l’aggressione.

Giornalista: almeno 500.000 persone sono state uccise in sette anni di guerra in Siria. Almeno 12 milioni di persone hanno dovuto lasciare le loro case. Almeno 5 milioni di loro finiscono fuori dalla Siria. Pensi seriamente che Bashar al-Assad sia davvero in grado di unire il paese, sanare le ferite e guidare la Siria?

Sergey Lavrov: Non abbiamo mai detto niente del genere. Il nostro approccio si riflette nella risoluzione 2254 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite: sono gli stessi siriani che devono decidere il destino della Siria. Abbiamo bisogno di una nuova Costituzione, elezioni, e che i siriani decidano da soli. I tentativi incessanti di frantumare la Siria vanno contro ciò che viene detto pubblicamente e ufficialmente. Inoltre, la Siria non è la sola a subire le terribili conseguenze della guerra civile. Guarda Iraq e Libia. E ora quelli che mettono questi paesi in questo stato vogliono la stessa cosa fatta in Siria.

Giornalista: Ora parliamo del caso di Sergei Skripal e di sua figlia Yulia che sono stati avvelenati nella città di Salisbury, nel sud dell’Inghilterra. Oggi, in questa intervista, hai detto che la fiducia era importante. Lei, ministro degli Esteri russo, sostiene che i servizi britannici noti per la loro “autorizzazione ad uccidere” sono coinvolti in questo incidente. Forse queste ultime osservazioni erano uno scherzo da parte tua. Dimmi, pensi davvero che la tua versione verrà presa sul serio?

Sergey Lavrov: Ci è stato detto che “molto probabilmente” gli Skripal sono stati avvelenati dai russi perché non c’è altra spiegazione plausibile. Ecco perché abbiamo detto che c’erano altre versioni plausibili.

Reporter: ma la tua versione non è credibile.

Sergey Lavrov: E perché?

Reporter: hai qualche prova che i servizi britannici abbiano cercato di uccidere Sergei Skripal?

Sergey Lavrov: I romani avevano già un criterio: “Cerca chi trae vantaggio dal crimine”. Penso che la provocazione in Siria e nel territorio britannico sia stata estremamente vantaggiosa per il Regno Unito. Oggi il Regno Unito si trova in prima linea nella politica mondiale con un modo così molto negativo, aggressivo e strano.

Reporter: permettimi di sottolineare l’inconsistenza della tua posizione. Durante l’intervista, lei ha sottolineato con forza l’impegno della Russia nei confronti di tutte le convenzioni e gli accordi internazionali sul divieto delle armi chimiche, incluso il sostegno al lavoro dell’OPCW.

Sergey Lavrov: È vero.

Reporter: E supporti in particolare l’attività dell’OPCW

Sergey Lavrov: È vero

Reporter: Sai meglio di me che l’OPCW ha inviato i campioni della sostanza neuro-paralitica utilizzata a Salisbury in quattro diversi laboratori, e tutti hanno confermato che si trattava di ‘Novitchok’ (come ha detto il governo britannico ) di alto livello di purezza.

Sergey Lavrov: E questo è precisamente il problema. La presenza stessa della sostanza A-234 ad alto livello di purezza e concentrazione molto elevata è sospetta perché …

Reporter: è chiaro che viene dalla Russia, l’ex Unione Sovietica. Tutti sanno che hai inventato questo gas neuro-paralitico.

Sergey Lavrov: atteniamoci ai fatti. Potresti essere un asso per fare domande difficili, ma devi anche sapere come ascoltare! In effetti, questa sostanza è stata sviluppata nell’Unione Sovietica, ma poi uno dei suoi inventori è fuggito negli Stati Uniti e ha pubblicato la formula di accesso aperto. Dovresti controllare tu stesso queste informazioni per sollevare il problema. Gli Stati Uniti hanno persino brevettato questa formula e questa sostanza è ufficialmente in servizio nell’intelligence americana o nell’esercito, non lo so. A-234 è una sostanza che uccide rapidamente e quindi evapora rapidamente. Questo è il motivo per cui i nostri ricercatori affermano che i campioni prelevati due settimane dopo non possono in ogni caso contenere una “concentrazione molto alta” di questa sostanza.

Giornalista: Torniamo alla domanda su chi crediamo o no. Forse quello che stai dicendo è credibile in Russia, ma non nel resto del mondo. Più di 100 diplomatici russi sono stati espulsi da oltre 20 paesi occidentali perché credono che la Russia sia colpevole.

Sergey Lavrov: Se vuoi ancora parlare di sostanza, lasciami aggiungere questo. Sabato abbiamo presentato un documento con le conclusioni del Centro Spiez per chimica spaziale e chimica (uno dei laboratori che hai citato) che in realtà ha scoperto una “concentrazione elevata” di A-234, ma a parte che …

Reporter: ti sto chiedendo: ti fidi dell’OPCW o no? La domanda è molto semplice. Sembra che non ti fidi di loro.

Sergey Lavrov: Mince! Per un inglese hai modi orribili. Il rapporto del laboratorio svizzero afferma anche che per prima cosa hanno scoperto la sostanza BZ, inventata, se non sbaglio, nel 1955 negli Stati Uniti, e messa in servizio negli eserciti americano e britannico. Abbiamo inviato all’OPCW, di cui ci fidiamo, una richiesta per confermare o smentire che oltre all’A-234, il laboratorio svizzero avrebbe scoperto dei campioni BZ. Ora stiamo aspettando una risposta dall’OPCW, di cui ci fidiamo, ovviamente. Ma come diciamo, fidatevi ma controllate comunque.

Reporter: non abbiamo quasi più tempo e devo ancora farti una domanda sulle sanzioni. Il Dipartimento delle finanze degli Stati Uniti si sta preparando ad annunciare nuove sanzioni contro i russi e le compagnie che si ritiene siano legate all’esercito siriano. Il mercato azionario russo si era gravemente indebolito a causa delle precedenti sanzioni imposte dal governo degli Stati Uniti. La Russia è ai piedi del muro.

Sergey Lavrov: Grazie per la tua compassione. Ma non ti preoccupare, staremo bene. E non è …

Reporter: il mercato azionario è crollato del 10%, il rublo è sceso contro il dollaro.

Sergey Lavrov: Non hai vissuto momenti difficili in passato? Ti ricordi, George Soros aveva giocato contro il tuo mercato azionario e aveva collassato la Sterlina? Ma queste non sono solo minacce per punire coloro che hanno contatti con il governo siriano. In realtà, vogliono punire tutti i russi per aver fatto la scelta “sbagliata” nelle elezioni presidenziali. Dicono che non faranno mai del male ai russi del giorno, ma solo agli oligarchi, ai politici e ai militari che presumibilmente destabilizzeranno il mondo, ma mentono. Il loro vero desiderio è di creare problemi a centinaia di migliaia di russi, a coloro che sono stati impiegati a …

Reporter: E questo è il tuo punto debole.

Sergey Lavrov: Sì, sì.

Reporter: E questo è il tuo punto debole. Potresti avere il più potente arsenale nucleare del mondo, come ha affermato il presidente russo Vladimir Putin, ma la tua economia è debole e vulnerabile.

Sergey Lavrov: Sì, lo è, e lo sappiamo. Ma la nostra economia ha attraversato molte difficoltà dalla seconda guerra mondiale. Posso assicurarvi che il governo e il presidente sono attenti a mettere in atto le necessarie riforme, e questo era il tema principale della prima parte del discorso del presidente russo all’Assemblea federale. Nella seconda parte, quando ha parlato di nuovi armamenti, ha concluso con l’idea che siamo sempre pronti al dialogo sulla base del rispetto reciproco e dell’equilibrio degli interessi.

Reporter: e ultima domanda. Il Segretario Generale della Nazioni Unite Antonio Guterres ha recentemente affermato che il mondo era di nuovo immerso in una guerra fredda, ma se in precedenza c’erano meccanismi che hanno avvertito la possibilità di escalation tra gli USA e l’URSS, oggi questi meccanismi sembrano essere assenti. Questa conclusione è terrificante. Hai lavorato al tuo posto per 13 anni. Possiamo descrivere il periodo attuale come il più terribile nella tua memoria?

Sergey Lavrov: Uno dei meccanismi è quello di avere normali canali di comunicazione. I canali di comunicazione tra Mosca e Londra sono stati chiusi all’iniziativa britannica. I contatti tra le forze armate e tutte le agenzie responsabili della lotta contro il terrorismo sono stati interrotti molto tempo fa, sempre per iniziativa di Londra. Il Consiglio NATO-Russia, che era un meccanismo molto utile per promuovere la fiducia e la trasparenza nelle relazioni, è stato de facto chiuso dalla NATO. Ora la NATO vuole solo parlare dell’Ucraina su questa piattaforma. L’UE ha inoltre chiuso tutti i canali di cooperazione con la Russia e comunica con noi solo sulla Siria e altri …

Giornalista: Ma pensi che sia iniziata una nuova guerra fredda?

Sergey Lavrov: Secondo me, la situazione attuale è peggiore rispetto alla Guerra Fredda perché all’epoca c’erano almeno canali di comunicazione, e non c’era una tale russofobia isterica, che assomiglia a tipo di genocidio per le sanzioni.

Reporter: pensi che oggi la situazione sia peggiore rispetto ai tempi della Guerra Fredda?

Sergey Lavrov: Sì, proprio per la mancanza di canali di comunicazione. Almeno non ce n’è quasi più.

Reporter: questo rende la situazione molto pericolosa.

Sergey Lavrov: Spero che non sarai l’unico tra i tuoi compatrioti a rendertene conto, e che il tuo governo in particolare lo riconoscerà.

Giornalista: È difficile immaginare o ricordare un periodo storico in cui la Russia assomigliava più ad un paria ed era isolata come lo è oggi. Hai la Coppa del Mondo di calcio quest’estate, e il ministro degli Esteri britannico Boris Johnson l’ha già paragonato all’organizzazione di Adolf Hitler nel 1936 dei Giochi olimpici di Berlino.

Sergey Lavrov: Nel 1938, dopo questa Olimpiade, fu disputata la partita tra Regno Unito e Germania. Puoi trovare su internet l’immagine di questa partita dove prima della partita i giocatori tedeschi e britannici fanno il saluto nazista.

Reporter: cosa intendi?

Sergey Lavrov: Non intendo parlare di Boris Johnson. Abbiamo già parlato con lui durante la sua recente visita a Mosca. Lascialo intrattenere.

Reporter: il nostro tempo è scaduto. Sergei Lavrov, grazie per aver partecipato a “Hard Talk”.

Fonte: S. Hasan, 19-04-2018

 

le virtù di Soros e la solerzia dei Torquemada, di Giuseppe Germinario

Di Soros si raccontano le peggiori nefandezze. Non gli si possono negare, però, due qualità fondamentali: la capacità di operare su grande scala, per lo più quella planetaria; il rispetto della parola data nonché la determinazione nel perseguirla. Mesi fa il paladino, a Davos, http://italiaeilmondo.com/2018/01/26/george-soros-la-parabola-di-un-filantropo_-di-gianfranco-campa-e-giuseppe-germinario/aveva sentenziato sulla necessità di regolamentare l’attività dei social network e ripristinare la verità con un tono però, a dire il vero, inquietante, tra il profetico e il minatorio. 

Detto, fatto!

Da allora la campagna sulle fake news ha conosciuto toni sempre più virulenti e azioni sempre più insidiose. Zuckerberg ha aperto il corteo dei penitenti della comunicazione, osannati sino al giorno prima; ha conosciuto la gogna della inquisizione del Congresso americano. Ha dovuto con fare contrito sottostare ad un pubblico processo conclusosi con un solenne impegno a ripulire Facebook degli spiriti bollenti e delle anime impenitenti troppo esposte nella critica ai benpensanti e al politicamente corretto. Da allora si sono intensificate, specie negli Stati Uniti, censure e chiusure di siti, anche con accessi milionari, ma sempre più caratterizzabili per la loro collocazione politica piuttosto che per la loro eccessiva irruenza. Il prodromo alla istituzione di veri e propri tribunali della verità i giudici dei quali avranno poco da invidiare a Torquemada. http://italiaeilmondo.com/2018/03/01/1517/

La Commissione Europea, come al solito solerte, approfittando, a dispetto del suo liberalismo conclamato, del legame tuttora tenue ed evanescente con una cittadinanza europea di là da materializzarsi e di quello più che solido e perverso, connaturato con le varie lobby presenti in pianta stabile a Bruxelles, sta precorrendo i tempi. Sta affidando ad associazioni di “provata fede democratica” il compito di identificare, segnalare e proscrivere i “mestatori” della notizia. Tra queste non potevano mancare associazioni di diretta emanazione ed affiliazione alla Open Society del noto filantropo naturalizzato americano. Ce lo rivela Breibart http://www.breitbart.com/london/2018/04/28/european-union-advocates-independent-fact-checkers-combat-fake-news/  (in basso la traduzione effettuata con un traduttore) Per quanto prodigo, ed i recenti 18.000.000.000,00 (diciottomiliardi) di $ (dollari) messi a disposizione dell’umanità sono tutti lì ad attestarlo, George Soros non può rimuovere del tutto la sua propensione all’affare e l’indole da realizzo propria di un finanziere predatore.http://italiaeilmondo.com/2017/10/22/un-torrido-inverno-di-giuseppe-germinario/ Ci pensa quindi il buon Junker, il Presidente della C.E., tra una bottiglia e l’altra, a rimpinguarlo con i contributi europei, quindi a spese nostre, di una opera tanto meritoria e ricompensarlo di tanto afflato. Dall’Europa, al Nord-Africa, all’Ucraina al Medio Oriente, per parlare delle ultime prodezze, ad ogni angolo sperduto del mondo il benefattore si è speso e prodigato per la libera umanità a spese degli uomini. Le fregature e le nefandezze in corso d’opera sono solo eventi collaterali, probabilmente il giusto obolo da offrire al BENE. Merita quindi laute ricompense.

Soros, si badi bene, non è un eroe, un cavaliere solitario. E’ parte integrante, forse l’anima più appariscente, ma non più importante di centri decisori e di potere ai quali ultimamente deve essere sfuggito il pieno controllo delle redini, o presunto tale.

La fretta e la sicumera nel ripristinare le condizioni precedenti può essere fatale; c’è un solco di profonda diffidenza che divide ormai i facitori di opinioni e i loro consumatori.

Il tentativo di ripristino, sempre che sia coronato da un pieno successo, comporterà comunque un fìo da pagare particolarmente pesante ai restauratori. Le reti dei social network, a causa di queste pressioni e inbragature, sono destinate sempre più a perdere il loro carattere universalistico, luogo comune di confronto e palestre dei punti di vista più disparati. Rischieranno di diventare dei recinti riservati a gruppi chiusi e conformisti sempre meno comunicanti tra di loro. Una vera e propria ghettizzazione dei luoghi di comunicazione. I paesi che ambiscono a mantenere e accrescere la propria condizione di sovranità ed autonomia politica e decisionale, in particolare la Cina e la Russia stato già provvedendo alla costruzione di proprie reti sociali. I paesi europei sono desolatamente estranei a queste tentazioni; con essi la Commissione Europea. Eppure le reti arrivano ormai a gestire non solo le comunicazioni degli individui, ma sempre più anche i flussi decisionali e le stesse attività produttive. Non basta. E’ probabile che si inneschi anche la segmentazione delle reti secondo le affinità ideologiche e culturali dei gruppi promotori all’interno dei singoli paesi. Una tendenza e una reazione alla censura strisciante già emersa negli Stati Uniti. Una possibilità di mantenere sotto altre forme alcuni spazi di libertà. Il prodromo però a quella ulteriore incomunicabilità e frammentazione tra gruppi sociali che sta caratterizzando la formazione sociale statunitense già da diverso tempo.

Certamente un altro prossimo eclatante successo dei paladini dell’europeismo e dell’armonia tra i popoli ospiti della ormai appendice occidentale dell’Asia.

Di certo una soluzione non risolutiva. A quel punto i tentativi di controllo si sposteranno ulteriormente verso i detentori dei server materni attraverso i quali passano i flussi informatici. Una ulteriore sfida che i paesi e i centri competitori dovranno affrontare per mantenere la propria autonomia di giudizio e decisionale e un ulteriore divario da quelle ambizioni delle attuali classi dirigenti europee.

VIVA LA LIBERTà, quindi, purché ben utilizzata e soprattutto conforme alle direttive e al sentimento dei predicatori del bene comune.

Ci aspettano, quindi, nuove forme surrettizie ed esplicite di censura tanto più efficaci quanto più si potranno ricomporre o mettere sotto traccia i contrasti tra gruppi decisori.

Contrariamente alla rappresentazione corrente, però, i poteri forti detentori di tale capacità non sono a Bruxelles. Lì trovano posto semplici funzionari dotati di potere riflesso e con scarse prerogative sovrane. Dovremo cercarli piuttosto oltreatlantico e di risulta nelle due/tre principali capitali europee. Da quelle parti sarà possibile individuare i veri artefici. Si potranno controllare le chiavi di casa propria e negare gli ingressi e l’agibilità ai filantropi mestatori di turno. L’Ungheria e l’Austria ci hanno indicato la strada. Si dovrebbe cogliere il loro esempio. Giuseppe Germinario

L’Unione europea appoggia i “controllori di fatti indipendenti” finanziati da Soros per combattere “false notizie”

La Commissione europea ha proposto nuove misure per contrastare la disinformazione e le cosiddette “false notizie” online, compreso un codice di condotta a livello UE sulla disinformazione e il sostegno a una “rete indipendente per il controllo dei fatti”.

La Commissione europea ha annunciato la nuova proposta all’inizio di questa settimana, sostenendo che le nuove misure “stimoleranno il giornalismo di qualità e promuoveranno l’alfabetizzazione mediatica”, secondo un comunicato stampa pubblicato sul sito web della Commissione.

“L’armamento di notizie false online e disinformazione rappresenta una seria minaccia alla sicurezza per le nostre società. La sovversione dei canali fidati per diffondere contenuti perniciosi e divisivi richiede una risposta chiara basata su maggiore trasparenza, tracciabilità e responsabilità “, ha  dichiarato il commissario per l’Unione di sicurezza Sir Julian King .

“Le piattaforme Internet hanno un ruolo vitale da svolgere nel contrastare l’abuso delle loro infrastrutture da parte di attori ostili e nel mantenere i loro utenti e la società al sicuro”, ha aggiunto.

Le nuove pratiche intendono rendere più trasparenti le pubblicità politiche sui social media e creare una rete indipendente di controllo dei fatti a cui prenderanno parte alcuni membri della Rete internazionale di controllo dei fatti (IFCN).

Breitbart London@BreitbartLondon

Sweden’s government will be giving funds to the mainstream media to fight “fake news” http://www.breitbart.com/london/2017/10/30/sweden-media-million-fight-fake-news-election/ 

Sweden to Give Mainstream Media £1.2 Million to Fight Fake News in Run-up to National Election

The Swedish government will be granting four mainstream media outlets £1.2 million to combat “fake news” ahead of next year’s election.

breitbart.com

L’IFCN è stato fondato dal Poynter Institute, con sede negli Stati Uniti, che,  secondo il suo sito web, è in gran parte finanziato da varie fondazioni – tra cui l’Open Society Foundations del miliardario di sinistra George Soros.

Diversi altri servizi di “fact-checking”, incluso il Correctiv tedesco, sono stati anche collegati a Soros e alle Open Society Foundations.

L’UE, così come i vari singoli paesi all’interno del blocco come la Germania e la Svezia, ha esercitato un’enorme pressione sui giganti dei social media come Google e Facebook per affrontare “false notizie” e “incitamento all’odio” sulle loro piattaforme.

Il governo svedese è stato uno dei più rumorosi sostenitori della lotta alle “false notizie” in vista delle elezioni nazionali del paese entro la fine dell’anno. Il governo ha tenuto incontri di alto profilo  con aziende tecnologiche nelle ultime settimane, e Facebook ha persino concesso al governo un permesso speciale per eliminare “account falsi”.

VIRTU’ E STATO MODERNO. di Teodoro Klitsche de la Grange

VIRTU’ E STATO MODERNO

 

  1. Scriveva un giurista di valore come Ernst Forsthoff[1] che la dottrina dello Stato occidentale ha avuto inizio da Platone ed Aristotele con una concezione dello Stato come istituzione volta alla realizzazione della virtù, e, finché il pensiero classico e cristiano accompagnarono “sulla sua strada lo spirito occidentale, anche la virtù ebbe assicurato il suo posto nella dottrina dello Stato”. Solo nel periodo più recente, successivo alla rivoluzione francese “la dottrina dello Stato ha preso una via che l’allontanò dalle qualità umane e per conseguenza anche dalla virtù”[2]. Cosi, ricorda Forsthoff, nelle opere di Jellinek non se ne parla più. Tantomeno in quelle di Kelsen e di quasi tutti i giuristi del XX secolo: se comunque alcuni di essi non sottovalutavano le qualità umane (e presupposti e condizionamenti concreti e “fattuali”) nessuno, a quanto risulta, ha considerato la virtù alla maniera di Montesquieu come principio di (una) forma di governo.

Il che è, in qualche misura, comprensibile: in un periodo storico, connotato, per il diritto, dalla prevalenza del positivismo, per cui la legge è il dato che l’operatore giuridico deve interpretare ed applicare, attraverso idonei strumenti  logici ed ermeneutici, chiedersi quale sia nel “sillogismo giudiziario” il posto che compete alla virtù, può provocare, e correttamente, solo una risposta: nulla. O tutt’al più, si può rispondere, il ruolo del disturbatore: perché se in un elegante ragionamento fatto di deduzioni, valutazioni, presunzioni, s’inserisce il parametro della virtù, l’esito può essere uno solo: una gran confusione. Ciò non toglie, che, da altra prospettiva, come quella della dottrina dello Stato “classica”, la tematica della virtù abbia un ruolo tutt’altro che secondario. Peraltro le vicende politiche italiane dell’ultimo decennio sono state connotate da un continuo richiamo alla morale, alla bontà, alla necessità di governi e governanti irreprensibili sotto il profilo etico: cose che con la virtù hanno una certa affinità. Ma, nel contempo, generano equivoci se non scompiglio: perché al di là dell’uso strumentale che può farsi della morale in politica, non pare proprio che la virtù, come intesa da Aristotele o Machiavelli, da Montesquieu o da Saint-Just abbia tanto in comune con la morale e la bontà di politici e rotocalchi nostri contemporanei.

Pertanto, è il caso di chiedersi in primo luogo se, (e quanto) la virtù abbia in comune con la dirittura morale, quali ne siano le differenze, e cosa si possa intendere per virtù. Secondariamente se la virtù sia necessaria allo Stato e in che modo ci si può assicurare che non manchi.

  1. Quanto al primo problema, già Aristotele se lo pone nella Politica[3] in relazione al buon cittadino ritenendo che “si può essere buoni cittadini senza possedere la virtù per la quale l’uomo è buono…non è assolutamente la stessa la virtù dell’uomo buono e del buon cittadino” e, interrogandosi su cosa sia la virtù (del cittadino), sostiene “c’è una forma di comando col quale l’uomo regge persone della stessa stirpe e libere. Questa forma di comando noi diciamo politico…la virtù di chi comanda e di chi obbedisce è diversa, ma il bravo cittadino deve sapere e potere obbedire e comandare ed è proprio questa la virtù del cittadino…” Aristotele con ciò non solo distingue nettamente tra privato (bontà dell’uomo) e pubblico (virtù del cittadino) ma fa consistere la virtù nella conoscenza (e pratica) di un altro dei “presupposti del politico”, come denominati da Freund; il rapporto tra comando ed obbedienza. Rapporto particolarmente importante, giacché assicura coesione e capacità d’agire alla comunità, e con ciò l’esistenza della medesima: senza una catena “gerarchica” di comando ed obbedienza che organizzi l’unità politica dal vertice alla base, questa infatti non si tiene in piedi (e non agisce).

Non molto diverso è quanto pensava Machiavelli: nel pensiero del quale è fin troppo evidente che la morale non deve essere confusa in alcun modo con la politica, perché è il fine e la necessità politica l’imperativo primario, e se osservare regole religiose e morali può metterlo in pericolo, è bene violarle: “è necessario a un principe, volendosi mantenere, imparare a poter essere non buono e usarlo o non l’usare secondo la necessità”[4]; perché la patria “è bene difesa in qualunque modo la si difende, o con ignominia o con gloria”.

Quanto alla virtù, tante volte ricorrente negli scritti del Segretario Fiorentino, a volerne intendere il significato, è quello della prudenza nel (costituire e) reggere lo Stato: cioè essenzialmente legata al ruolo pubblico.

A Montesquieu si devono le più penetranti osservazioni del rapporto tra virtù e (assetto dello) Stato. Com’è noto distingue tra natura del governo (cioè della forma di Stato)  e principio del medesimo “Fra la natura del governo e il suo principio esiste questa differenza: che è la sua natura a farlo tale, ed il suo principio a farlo agire. L’una è la sua struttura particolare, l’altro le passioni umane che lo fanno muovere. Ora, le leggi non debbono essere meno relative al principio di ciascun governo”[5]; e relativamente alla democrazia: “Ad un governo monarchico o ad uno dispotico non occorre molta probità per mantenersi o sostenersi. La forza delle leggi nell’uno, il braccio del principe ognora levato nell’altro, regolano o reggono ogni cosa. Ma in uno Stato popolare occorre una molla in più, la quale non è altri che la virtù[6], mentre queste “molle” sono diverse per le altre forme di governo (moderazione, onore e timore), per cui conclude “Questi sono i principi dei tre governi; il che non vuole affatto dire che in una particolare repubblica si sia virtuosi, ma che si dovrebbe esserlo. E nemmeno prova che, in una data monarchia, regni l’onore, in un certo Stato dispotico la paura, ma bensì che essi vi dovrebbero regnare, altrimenti il governo sarebbe imperfetto” (il corsivo è nostro); quanto all’essenza della virtù, già nell’Avertissement all’Esprit des lois, chiarisce che, quando parla della virtù, parla di quella politica, non di quella religiosa o morale, tanto ne temeva la confusione. Sempre nell’ “avertissement” aggiunge che “ciò che chiamo virtù in una repubblica è l’amore di patria ossia l’amore dell’eguaglianza”[7]

Saint-Just pone la questione nel solco del pensiero di Montesquieu (con una variante essenziale) “un governo repubblicano ha per principio la virtù; altrimenti il terrore” e insiste nel concetto, con riguardo alla rivoluzione “In ogni rivoluzione occorre o un dittatore per salvare lo Stato con la forza o censori per salvarlo con la virtù”[8]. Per cui se la virtù non c’è, o se non ve n’è a sufficienza, occorre far ricorso alla forza e incutere paura: è escluso che senza questi “principi” (o “sentimenti”) uno Stato possa reggersi.

Ma non era questo il solo “filone” di pensiero che determinava la dottrina  dello Stato nell’epoca delle rivoluzioni americana e francese. L’altro, e principale, si può sintetizzare nel giudizio di Sieyés che “sarebbe un cattivo conoscitore degli uomini chi legasse il destino della società agli sforzi della virtù”; occorrono infatti accorgimenti idonei a far si che gli interessi particolari cospirino a realizzare quello generale. Il principio del costituzionalismo liberal-democratico non è solo di salvaguardare la libertà e il rispetto della volontà popolare, ma anche quello di modellare le istituzioni in modo da conseguire l’interesse di tutti  attraverso quelli particolari, gli equilibri e le sanzioni (afflittive e premiali) relative. E’ questa la principale preoccupazione dei costituzionalisti. Tuttavia l’altra tesi non è dimenticata: Benjamin Constant scrive infatti che “Occorre agli uomini perché associno reciprocamente i loro destini ben altra cosa che l’interesse”[9]; per cui, pur essendo primaria l’esigenza di “governare” gli interessi, non era l’unica, né la (sola) sufficiente .

  1. Non stupisce che, al riguardo, il collegamento più stretto tra virtù e assetto statale l’abbia formulato proprio Montesquieu, perché l’esprit des loi consiste nelle varie relazioni che le leggi possono avere con diverse cose[10], cioè con condizioni, situazioni, dati reali. La razionalità (o la non razionalità) delle norme è verificata in base alle circostanze e alle determinanti concrete e “fattuali”. Il che significa che il normativo vola basso sul fattuale; o con altre parole che l’esistente (il reale) condiziona le norme assai più di quanto queste possano su quello. Tale impostazione non era dimenticata neanche dai teorici politici del ‘700. Lo stesso Rousseau ricorda che se il legislatore “se trompant dans son objet, prend un principe different de celui qui naît de la nature des choses… l’État ne cessera d’être agité jusq’a ce qu’il soi détruit ou changé, et que l’invincible nature ait repris son empire[11].

D’altra parte Montesquieu chiarisce molto bene, nell’Avertissement a l’ “Esprit des lois” in che senso la virtù per la democrazia, l’onore per la monarchia (e così via) sono principi di quei regimi politici, e lo fa paragonando lo Stato ad un orologio, e la virtù (o l’onore, la moderazione o il timore) alla molla, che contrappone a rotelle e pignoni: questi, che non danno impulso, quella che da ed assicura il movimento dell’insieme. Onde il “peso” e il connotato specifico del principio rispetto alle altre qualità, è di costituire il motore dell’istituzione statale: quello che la fa funzionare, mobilitando sentimenti ed energie dei cittadini.

Nella dottrina del diritto e dello Stato successiva, a partire dalla seconda metà del XX secolo la virtù non è, come scrive Forsthoff, affatto considerata: come, d’altra parte, anche gli altri principi di Montesquieu; nulla anche in molti autori e assai ridotta in altri è poi la valutazione, nella costituzione dello Stato, di tutti gli altri fattori concreti e “fattuali”. Se ancora Hegel e Tocqueville spiegavano la Costituzione federale degli Stati Uniti con l’assenza, nel continente americano, di nemici credibili ai confini, di ragionamenti simili v’è punta o poca traccia nei giuristi[12].

In effetti a ciò contribuiscono almeno tre ragioni. Da un canto la specializzazione scientifica ed accademica tendeva a separare lo studio del diritto (e dello Stato inteso restrittivamente  come ordinamento normativo) come legge (positiva) da quella dei fattori determinanti quelle norme come tali. Per cui tale indagine è ritenuta di competenza di altre discipline scientifiche, come sociologia, scienza politica e così via.

Dall’altro che, da un punto di vista normativistico, l’angolo visuale tipico dell’interprete – applicatore del diritto, il “peso” che nell’esegesi possono avere i fattori condizionanti le norme, è, rispetto a queste, praticamente nullo.

Infine anche le teorie del diritto o dello Stato più attente alle determinanti “fattuali” dell’ordinamento si sono per lo più indirizzate verso lo studio e la valutazione degli interessi in qualche misura sviluppando quelle teorie precedenti (e contemporanee) alla Rivoluzione francese ed americana; Jhering costruisce il diritto come meccanica sociale, cui sono essenziali scopo e molle (ricompensa e coercizione) per ottenere una società regolata e ordinata. E’ l’interesse la categoria cui è , in ultima istanza, ricondotto il diritto – e lo Stato[13].

Peraltro anche la teoria marxista del diritto e dello Stato, considerando l’uno e l’altro come riflesso dei rapporti reali di produzione – e conseguentemente di potere – non prendeva affatto in considerazione la virtù (o l’onore e così via): certi rapporti di produzione determinano un assetto sovrastrutturale corrispondente: cambiando quelli muterà anche questo. Non c’è spazio per altro che non sia una relazione economica.

La conseguenza di queste teorie e ideologie, così diverse, è che tutte tendono a ricondurre o a espungere quei moventi dell’agire umano non riconducibili al meccanismo  premio/afflizione. Il quale ne spiega molto (e forse la maggior parte) ma non è idoneo a spiegare tutto. Il meccanismo di premio/afflizione facente leva sull’interesse non può dar conto del perché, in guerra, i soldati sacrificano la vita, giacchè nessuna afflizione le è superiore e nessun premio può essere goduto da chi muore, come notava Schmitt. Anche se può argomentarsi che in tal caso è l’interesse generale a determinare il comportamento inducendo al sacrificio di quello individuale, è chiaro che, in tali espressioni, a fare la differenza  – e di sostanza – è l’aggettivo non il sostantivo.

Parimenti a una costituzione giuridicamente perfetta, con i rapporti tra poteri ed organi, freni e contrappesi ben studiati, non si capisce chi dovrebbe dare il movimento, giacché questo non è indotto, se non in parte minima, e non può quindi essere assicurato, dall’ammirazione per la sapiente opera del legislatore. Se fosse vero l’inverso, le migliori costituzioni sarebbero quelle redatte a tavolino, e sarebbe sufficiente per organizzare uno Stato comprarne il testo in libreria; mentre è noto che le migliori sono quelle modellate dal tempo, dall’esperienza e dalla lotta. Perché nella realtà lo Stato non è paragonabile – malgrado la radice del termine che richiama la staticità – a qualcosa d’immobile come un affresco, una fotografia, uno scritto: ma è vita e movimento, non foss’altro perché elemento determinante e costitutivo ne sono i milioni di persone che formano la popolazione. Dalle cui volontà, scelte, sentimenti ed anche credenze e pregiudizi non si può prescindere .

Se a un assetto (astrattamente) perfetto nessuno di coloro ha volontà di partecipare, lo Stato nascerà morto, come un corpo senz’anima, o una macchina senza motore[14]. Cioè proprio quello che sosteneva Montesquieu, quando in mancanza – all’epoca – di motori termici, doveva ricorrere alla metafora della molla (che da movimento) e delle rotelle, per spiegare la differenza tra principio e natura del regime politico.

E che il problema sussista è dimostrato dal fatto che indurre a cooperare, obbedire, comandare ed agire gli uomini e i gruppi sociali richiamandosi all’ “imputazione” o alla “competenza” appare altrettanto irreale del pretendere di avviare un’automobile declamando le leggi della termodinamica. Per cui la struttura ed il motore sono ambedue necessari all’esistenza – ed all’azione – dell’istituzione.

Neppure le teorie marxiste del diritto, pur così ancorate a un dato reale, come i rapporti di produzione, arrivano a spiegare la necessità del “principio”: e ciò non solo perché l’introduzione del concetto d’interesse non egoistico (cioè non economicistico) ne falsifica il presupposto, ma anche perché la teoria montequieuviana del “principio” rende irriducibile il rapporto politico alla sola relazione comando-obbedienza. In buona sostanza perché chiarisce una delle ragioni per cui si presta obbedienza al comando.

  1. A questo punto occorre chiedersi cosa sia la virtù. La prima determinazione ovvia è che la stessa non è la bontà dell’onest’uomo (privato) né quella del credente. Ciò comunque non appare sufficiente a determinare il concetto per cui occorre cercare, oltre a ciò che non è, ciò che è.

In tal senso la virtù consiste in un sentimento “pubblico”, cioè attinente all’esistenza ed all’agire dell’unità politica; per cui la virtù è l’amore (e l’azione a favore) dell’unità politica. Sono virtuose qualità ed atti che si risolvono a favore di quella, in particolare ove costituenti condizioni necessarie  e sufficienti alla stessa.

Criterio che vale a distinguere le qualità positive dell’onest’uomo, del bonus paterfamilias caro ai manuali di diritto civile, da quelle del cittadino. Sulle prime si può costruire(e fino ad un certo punto) una società ben regolata, ma non una comunità politica, come aveva compreso Aristotele. Lavorare onestamente, pagare i creditori, non arrecar torto ad altri non sono condizioni sufficienti a costituire e mantenere la comunità politica (anzi talvolta possono essere controproducenti). Questa richiede la disponibilità dei componenti al sacrificio dei propri interessi a quello generale: in certi casi al sacrificio della vita per garantire l’esistenza della comunità. Quando Montesquieu (e gli scrittori che di tale tema si sono occupati) parlavano di virtù non pensavano a quella di S. Genoveffa o di S. Sebastiano, ma alla qualità e all’esempio di Leonida, di Attilio Regolo o di Catone l’uticense. Al valore generale – in senso hegeliano – di azioni finalizzate all’interesse generale per cui gli uomini “zugleich in und für das Allgemeine wollen und eine dieses Zwecks bewuβte Wirksamkeit haben”[15]

Del pari le qualità del bonus paterfamilias non sono neppure necessarie: orde barbariche, carenti di quelle, hanno saputo espandersi, vincere e costituire nuovi Stati. Anzi talvolta la bontà è controindicata come sostenevano, tra gli altri, Machiavelli e Hobbes. Proprio il Segretario fiorentino elogia come esempi di virtù (politica) i costruttori di nuovi Principati, personaggi tra i quali, di solito, la bontà (privata) non costituiva una primaria regola di condotta, perché di sicuro impedimento. La stessa carenza si presenta in una teoria dello Stato (e del diritto pubblico) che voglia spiegarlo col solo interesse individuale. Tale via è percorribile per il diritto privato, che presuppone individui tesi a realizzare e garantire il proprio interesse e che nulla può legittimamente costringere a sacrificare. Una società in cui tutti  scambiano tutto e non rinunciano a nulla: questa è l’essenza (il “tipo ideale”) della bürgerliche gesellshaft. Ma nello Stato, in cui la disponibilità (in concreto) a rinunce e sacrifici è essenziale, una impostazione simile appare non tanto erronea, ma sicuramente insufficiente[16].

Comunque l’evoluzione delle idee nel XIX e XX secolo è stata tale da espungere  la virtù, anche se poi questa è stata praticata, senza che tuttavia se ne avesse, a livello di massa, grande consapevolezza e se ne traessero le conseguenze. Rilevabili anche dalla desuetudine del termine. Se per Machiavelli o Montesquieu sarebbe stato ovvio qualificare virtuosi De Gaulle o Bismarck, Cavour o De Gasperi, non consta che a quegli  statisti sia stata riconosciuta tale qualità, anche se la possedevano. Forse perché nell’epoca della tecnica – e della tecnocrazia – la virtù appare qualcosa di desueto, da relegare nei libri di storia o nelle declamazioni dei poeti d’altri tempi. Se a determinare i successi politici – ivi compresi quelli bellici – è l’abbondanza dei mezzi materiali e il progresso tecnico-scientifico, i protagonisti ne diventano capitani d’impresa e tecnocrati, per cui la virtù diviene un elemento decorativo, tutt’altro che indispensabile.

Ma, a prescindere  che la storia del XX secolo – e l’inizio della cronaca del XXI – danno copiosi esempi del contrario, di successi politici riportati da uomini e gruppi sociali enormemente inferiori per mezzi e cultura tecnica rispetto ai loro avversari (da ultimo l’11 settembre) altro è il problema sul tappeto. Ovvero di capire perché, in piena era della tecnica (e della tecnocrazia) si sia riproposto, prepotentemente, in Italia, nel corso degli anni ’90, il problema della “virtù”, in modo così acuto da cancellare una classe dirigente. E, in particolare, perché sotto un aspetto così diverso, difficilmente riconoscibile da Machiavelli o da Montesquieu, al punto da assumere altri nomi, peraltro più congeniali alle “nuove” connotazioni. In effetti il profilo più interessante è che, mentre la virtù ha un carattere essenzialmente pubblico la, “bontà” o la “legalità”, lo hanno, in altrettanta misura, privato. Si potrebbe indicarne la ragione nelle necessità di propaganda, di utilizzo politico dell’accusa di immoralità: ma, pur consentendo a questo, il tutto risolve il problema a metà: perché resta da spiegare perché tale mutamento corrisponda a convinzioni e credenze diffuse.

Proprio quelle credenze e teorie che in crescendo dalla metà del XIX secolo, predicano e prevedono la fine della politica, la sua sostituzione con l’economia, il venir meno del governo degli uomini sostituito dall’amministrazione delle cose. Ma in un mondo senza politica, non servirebbero né istituzioni politiche (come lo Stato) né capacità e sentimenti politici (come quelli riassunti nella virtù).

La lunga pax americana nella metà del mondo di cui fa parte l’Italia, ha, nel nostro Paese, rafforzato ed accresciuto, in misura maggiore che in altre nazioni occidentali, quella tendenza, peraltro comune a tutti: non aveva tutti i torti Lelio Basso quando diceva che finchè l’Italia era nella NATO, il Ministero degli Esteri era inutile, perché bastava quello delle Poste per ricevere i telegrammi da Washington. Ma una sovranità dimezzata, una politica estera imposta su “binari” e con limiti (esogeni) invalicabili, non porta ad altro che ad identificare la politica con l’amministrazione, o, al massimo, con l’attività di polizia (interna) in senso lato[17].

E’ la figura del tecnico, e soprattutto del funzionario che, in questo frangente, appare insostituibile e necessaria. L’etica “professionale” del funzionario non è quella – o meglio, è solo in parte – quella del politico, come sosteneva Max Weber, non foss’altro perché           questi è sopratutto un efficiente ed intelligente esecutore di ordini, mentre il politico gli ordini li deve dare, e suscitare consenso tale da garantirne l’esecuzione e in un certo senso l’interiorizzazione e l’identificazione dei governanti con il progetto e l’impresa politica (l’integrazione). Sotto altro angolo visuale, quello della responsabilità e del rischio, è più vicino al politico virtuoso il “tipo ideale” dell’imprenditore di successo: ma la direzione dello scopo e degli interessi tra (l’impresa e) l’imprenditore politico  e quello economico, e l’irriducibilità del politico all’economico, è tale da costituire differenze essenziali tra le due figure.

  1. Ciò stante siamo ritornati al problema che Montesquieu aveva risolto, se cioè sia necessario allo Stato, specificamente a quello liberaldemocratico (ma non solo), un certo tasso di virtù. Il fatto che questa non sia più presente negli scritti degli addetti ai lavori ,“non implica naturalmente che anche la virtù sia assente dagli ordinamenti degli Stati”, come scriveva Forsthoff. Perché ogni unità politica “si basa sulla qualità degli uomini che la sorreggono e che esercitano le sue funzioni”: altrimenti, nella prima metà del secolo scorso, non si capirebbe come milioni di europei (e non solo) si siano sacrificati combattendo in guerra se non avessero posseduto qualità virtuose.

Ma, anche in società e situazioni politiche in cui la possibilità reale della guerra sia ritenuta (e di fatto è stata) lontana, o tutt’al più circoscritta ed episodica, come quella europea occidentale nella seconda metà del XX secolo, la necessità di una certa dose di virtù non appare ridondante ma, all’inverso, necessaria. Concorrono a ciò sia l’espansione  delle funzioni e attività dello Stato, cioè l’innestarsi dello “Stato sociale” o del “benessere” sul corpo dello Stato legislativo, nato con le rivoluzioni borghesi, sia l’esigenze proprie allo Stato legislativo medesimo.

Il principio di legalità – ovvero la “sottomissione” del potere giudiziario e amministrativo (burocratico) alla legge – richiede, per non ridursi ad un’applicazione soggettiva – quindi variabile e imprevedibile – ed episodica, una certa dose di virtù, indipendentemente dai diversi rimedi modellati, con maggiore o minore efficacia, dal legislatore per reprimere abusi ed omissioni dei funzionari (spesso risolventisi in autoassoluzioni reciproche e collettive). Anche perché le garanzie istituzionali del personale burocratico finalizzate a garantirne un certo grado d’indipendenza (massime quelle riconosciute alla magistratura) limitano o escludono che l’operato e le persone dei medesimi possono essere valutate e riesaminate da un potere in certa misura personale (contrariamente alla legge, per natura impersonale), come quello del Sovrano o del ministro, segnatamente di uno Stato assoluto[18]. Per cui il corretto uso di poteri e funzioni è, in misura maggiore che in altri ordinamenti, rimesso alla capacità ed all’inclinazione “virtuosa” del burocrate.

La querelle tra indipendenza ed imparzialità della magistratura che da tempo contrappone diverse visioni del ruolo del Giudice deriva da una situazione concreta, per cui, di fatto, l’uso improprio di atti e della funzione giudiziaria – sospetta in tali casi di parzialità – non può essere sanzionata. Specie quando alle garanzie stabilite dal legislatore se ne aggiungono altre, di origine politica, sindacale o anche, genericamente sociale. Indubbiamente l’esigenza di garantire una certa dose di virtù è condivisa assai largamente: ma c’è disparità – altrettanto ampia – di vedute su come fare. Ciò dipende, per lo più, da un equivoco e da un’illusione. L’equivoco è quello paventato da Montesquieu, del confondere virtù (pubblica) con quella privata, e, più in generale, diritti (e doveri) inerenti alla funzione pubblica con diritti del cittadino. Per cui, ad esempio, il funzionario che esterna e concede interviste, contravvenendo al dovere di riservatezza e anche al segreto d’ufficio, si appella alla libertà di parola; quando, di converso, è chiaro che lo status di funzionario (con gli obblighi e i diritti connessi) prevale su quello di cittadino.

La seconda è l’illusione di poter garantire ciò attraverso una (idonea) normativa: il che è, da un canto, condivisibile, ove non pretenda di essere la soluzione esclusiva, né prevalente.

Perché se di converso, si volesse cercare di imporre un sufficiente tasso di virtù con leggi, decreti, sentenze e Carabinieri la delusione sarebbe pari all’inutilità dell’apparato che si mobilita, in particolare non appena si manifestasse un’emergenza: frangente in cui dosi di virtù sono l’elemento decisivo per uscirne. In realtà della virtù si può dire ciò che don Abbondio sosteneva del coraggio: che se uno non ce l’ha non se lo può dare. E tutto l’armamentario di coazione e sanzioni può servire a incentivare, consolidare azioni virtuose, e reprimere le non virtuose, ma presuppone necessariamente di “operare” su una certa dose di virtù. E’ vero che per tutte le azioni umane può valere il giudizio espresso da due eccellenti professionisti della guerra, come il Maresciallo sovietico Zukov e il feldmaresciallo tedesco Schörner; i quali richiesti di come avevano fatto l’uno a superare le munite difese tedesche, l’altro a contenere gli impetuosi attacchi sovietici, rispondevano, in termini uguali, che i soldati da loro comandati avevano più timore di quanto poteva capitare loro volgendo le spalle al nemico che ad affrontarlo. Le pattuglie e le Corti volanti dell’NKVD da una parte, delle SS e della feldgendarmerie dall’altra erano efficienti corroboratori e moltiplicatori di virtù. Comunque presente nei soldati: infatti i generali zaristi, i cui modi non erano molto più soavi di quelli di Zukov, non riuscirono ad evitare il collasso – e la rivolta –  dell’esercito sfiduciato ed esaurito; né le fucilazioni alla schiena, praticate con tanta larghezza sull’Isonzo, a scongiurare Caporetto. Quanto vale per la guerra, cioè per una situazione per definizione eccezionale,  vale – anche se con misura minore – per una situazione normale. Vero è che frangente, difficoltà (e urgenza) sono assai diverse: ma lo è pure quanto concesso a un governo che lotti per l’esistenza di una nazione, non riconosciuto se quella non è in dubbio; se gli uomini tollerano lo stato d’assedio, non si può governare in permanenza con quello e, in genere, con misure eccezionali. Le quali, per essere accettate presuppongono uno stato di fatto proporzionato alla gravità delle stesse: per l’appunto uno stato d’eccezione. Fucilare alla schiena, o anche condannare a molti anni di reclusione un ladro di polli o un impiegato corrotto sarebbe meno idoneo a incentivare comportamenti virtuosi che a convincere i cittadini a sbarazzarsi di un governo repressivo, incompatibile col principio della repubblica, quanto vicino a quello del dispotismo. Montesquieu con l’assegnare un principio proprio (ed esclusivo) ad ogni forma di governo aveva ben capito come armonizzare situazioni concrete, spirito pubblico ed assetto istituzionale: perché come in una democrazia, connotata dal ruolo attivo di tutti i cittadini nella gestione delle funzioni pubbliche occorre una dose di virtù diffusa, così a un governo dispotico che non ha quel presupposto, occorre, di converso, ispirare altrettanto generalizzato timore. Governare con la paura una repubblica, è, alla lunga, altrettanto illusorio che, per un governo dispotico, presupporre la virtù dei cittadini

Addossare l’onere del tutto al “diritto” (intendendo con tale termine, in modo un po’ improprio, leggi, pene, polizia e Tribunali) è assai più che sottovalutare la virtù è, principalmente, pretendere di governare un gruppo umano prescindendo da qualità, inclinazioni, aspirazioni umane; voler costruire una “meccanica” sociale senza motore. Ma dato che il problema da risolvere è in sostanza, far agire la comunità, dargli movimento, e per far questo occorre il motore, la soluzione offerta è peggio che errata: è, a dir poco, bizzarra. Anche perché coniugata ad una visione normativistica del diritto: il che accanto all’eliminazione del “principio” dal regime politico, lasciando solo la nature cioè la forma, aggiunge l’ulteriore riduzione  dell’ordinamento alle norme. Con ciò se ne estromette un’altra componente necessaria ed insopprimibile, che Montesquieu intravedeva con chiarezza assai prima che la querelle tra concezioni normativistiche ed istituzioniste la portasse a generale consapevolezza. In effetti quando parla di leggi e in particolare nel delineare la distinzione dei poteri, da rilievo, per l’appunto, ai poteri e ai rapporti tra gli organi che li esercitano cioè alle choses non alle regole.

Proprio nell’XI libro dell’Esprit des lois, nel sostenere l’opportunità della distinzione dei poteri sostiene “perché non si possa abusare del potere, bisogna che per la disposizione delle cose, il potere freni il potere” (il corsivo è nostro). E concetti ed asserzioni simili sono continuamente ripetuti nell’Esprit des lois; Montesquieu sostiene che è la conformazione dei rapporti tra organi statali e “corpi” politici a determinare l’assetto complessivo dello Stato e non (solo) le regole enunciate e (formalmente) vigenti, le quali senza istituti, organi, poteri e “forze sociali”, rimarrebbero largamente inapplicate, e presto, per lo più, desuete. L’attenzione che dava a tutti i dati reali, all’esistente, lo vaccinava dal pensare che le gazzette ufficiali o anche un législateur onnipotente, quali quelli immaginati dai suoi posteri, potesse realmente e stabilmente rimodellare le comunità politiche. Opinione che, invece sarebbe stata alla base delle esperienze successive delle “dittature sovrane”, segnatamente quella giacobina e bolscevica, incisive ma, in sostanza, transeunti .

Nel pensiero di Montesquieu sono le condizioni oggettive (e “pre-giuridiche”) sia materiali che spirituali a condizionare l’assetto istituzionale; è questo, ovvero l’ordinamento, a determinare le norme[19], in modo simile a come avrebbe, con il paragone della scacchiera, sostenuto Santi Romano; per cui quelle, per il pensatore francese, sono l’ultimo risultato di una serie di “cause” e ragioni concrete che, di giuridico, prima delle norme, hanno solo l’istituzione.

Il positivismo giuridico, che Schmitt connota come un misto di decisionismo e normativismo, ha comportato conseguenze – e convinzioni – opposte.

A livello – e nei momenti – politicamente “alti” prevale il profilo decisionista del législateur come ordinatore della comunità. Nei casi estremi, quello, sintetizzato da Saint-Just, di salvare la repubblica con dittatori o censori. Ma la durata di  tali assetti è stata generalmente assai breve; per cui, anche se occorre dar atto alla Convenzione di aver salvato la Francia (e la rivoluzione) nel 1793, occorre tuttavia ascrivere gran parte del merito (di cui di cui beneficiavano assai più che i giacobini, i termidoriani) all’entusiasmo (alla “virtù”) dei francesi.

Il suscitatore (e fomentatore) del quale furono assai meno le ghigliottine ed i processi, che la nuova era (e il nuovo “progetto” di società) che si schiudeva: vedeva bene Marx quando, nelle armate rivoluzionarie e napoleoniche riconosceva il “codice civile in marcia”.

Se invece si scende a livelli e momenti più bassi – tra i quali sono da considerare i contemporanei – la prospettiva cambia, e la pretesa di suscitare qualcosa di simile alla virtù con gli sbirri e gli avvisi di garanzia si manifesta ancora più irreale. In primo luogo perché l’angolo visuale da cui parte è l’opposto: se nel primo il rapporto prevalente tra decisione e norma è nel senso che la prima precede e crea la seconda, nell’altro, attento quasi esclusivamente al momento applicativo, è, ovviamente, la norma a determinare la decisione di chi la esegue. All’onnipotente législateur si sostituisce così il fonctionnaire, il quale infatti è la figura centrale di questo positivismo dimezzato, che al circuito coerente decisione/norma/decisione ha sostituito quello, limitato e claudicante, norma/decisione[20]. Nel primo caso il rapporto era visto complessivamente e dall’alto; nel secondo parzialmente e dal basso. Come se le norme fossero create dal nulla, e non volute, prodotte e, quanto meno, accettate dagli uomini. D’altro canto questo positivismo dimezzato non elimina il problema della virtù, dato che sono sempre uomini a decidere, anche se in base a norme. Perché siano concretamente attuate le quali, e realizzato il carattere impersonale del comando occorre la conformità “fotografica” delle decisioni irrimediabilmente personali dei funzionari al contenuto astratto delle norme applicate. Il che sposta solo la collocazione nello Stato della virtù, non la sua necessità. Se, per un illuminista, a esser virtuoso doveva essere soprattutto(ma non solo) il législateur – secondo la nota espressione di Rousseau il faudrait des dieux pour donner des lois aux hommes -, ora, deve esserlo (almeno) l’interprete – applicatore, la cui virtù specifica deve porlo al riparo da soggettivismi, condizionamenti ideologici, interessi mondani, ipertrofia dell’ego e così via. E senza la quale, l’aspirazione ad un governo di leggi, non di uomini, rimane confinata nei manuali giuridici o nei fondi domenicali dei quotidiani. Credere di poter cancellare (sempre) e deprecare (spesso) la personalità della decisione della norma, non significa comunque eliminarla dalla decisione in base alla norma. Il fatto che quest’ultima sia impersonale  ed oggettiva ex se si rivela un puro atto di fede.

Secondariamente una tale credenza presta il fianco a un obiezione (principale) e a un’altra (derivata). La prima che, come prima ricordato, il diritto “vola basso” sul concreto, sul sociale. Onde pensare che una società carente di virtù possa essere resa virtuosa con gli sbirri è quanto meno azzardato, non foss’altro perché se i comportamenti poco “virtuosi” hanno una tale prevalenza, ciò vuol dire che sono largamente condivisi, e pretendere di cambiarli con i carabinieri va contro il common sense. La seconda è che una società così corrotta dovrebbe aver prodotto, comunque, dei “censori” virtuosi. Ma anche tale presupposto appare poco probabile. Che le funzioni esercitate possono produrre uomini di una tempra etica così diversa è assai difficile. Sarebbe in altri termini, la tesi su cui ironizzavano gli autori  del Federalista sostenendo che i governi non sono composti da angeli. E gli uffici neppure. D’altra parte, approfondendo tale punto, un tale sistema è in grado di funzionare (più o meno bene) se la dose di virtù dei funzionari è sufficiente e congrua rispetto ai compiti. Uno Stato legislativo dove la legge sia poco applicata, domini il soggettivismo interpretativo e il corporativismo burocratico, dove, in altre parole, ci sia poco di quella virtù che connota i buoni funzionari, le istituzioni saranno – anche perciò – tendenzialmente deboli e poco confortate dal consenso popolare. Correttamente Forsthoff rilevava, a tale proposito, che il successo del positivismo giuridico nel periodo bismarckiano e guglielmino era merito, più che del rapporto “idealizzato” tra legge e applicazione concreta della stessa, delle doti professionali della burocrazia tedesca, ovvero della virtù della medesima.

Ma, quel che più rileva, in una democrazia le sorti della comunità sono nelle mani dei cittadini, ai quali competono le decisioni più importanti. Se il popolo è sovrano, e il popolo non è virtuoso, ciò significa che il sovrano non è virtuoso; ma non che qualcuno può (ha il diritto di) castigare il sovrano per la sua scarsa virtù[21]. Che è, di converso, proprio ciò che certe concezioni sottendono.

La ragione di Montesquieu sul porre come principio della repubblica democratica la virtù è proprio il fatto che ivi i cittadini hanno il potere di determinare il proprio destino, qualunque esso sia: perciò ove non possiedano la virtù tale regime ha scarse possibilità di durare; di converso ne avrebbero maggiori altre forme di governo cui la virtù (diffusa) non sia così essenziale.

  1. Montesquieu è stato uno degli interpreti e teorici del costituzionalismo moderno (forse il principale): con la teoria della distinzione dei poteri e della “disposition des choses” ha mostrato come possibile un organizzazione statale razionalmente concepita per la tutela delle libertà politiche e civili (di cui era fautore). Cioè proprio quella teoria che, col tempo, si è radicalmente modificata nel modo qui sottoposto a critica. Curioso sviluppo di una concezione assai equilibrata, in cui la progettualità umana era ancorata a presupposti e condizioni “fattuali” e così tenuta con i piedi per terra. Ma gli esiti successivi, con la sottovalutazione di quei presupposti e condizioni, l’esaltazione del législateur (e poi quella, meno esplicita, del fonctionnaire) la riduzione del diritto da istituzione a norma hanno completamente stravolto la concezione, in se equilibrata e ragionevole, del pensatore francese. Un ritorno alla quale (e al pensiero politico “classico”) può apportare un contributo di chiarimento e consapevolezza, essenziale in tempi in cui la politica, ridotta spesso alla propria caricatura, perde il proprio carattere di regolazione dell’ordine sociale e protezione della comunità. Carattere che forse può recuperare (ed è essenziale che recuperi) nello spirito pubblico, ove riportata alle sue corrette dimensioni ed ai suoi realistici presupposti.

Ciò avveniva contemporaneamente al processo di democratizzazione, quando, avendo i popoli preso in mano il loro destino e il timone degli Stati, c’era, e c’è, maggior bisogno di virtù diffusa. Alla cui mancanza non c’è rimedio “giudiziario”; ma semmai il cambiamento della forma di Stato, con l’adeguamento di questo a un altro “principio” dominante, o più, verosimilmente, la rinuncia alla politica e/o ad un’esistenza indipendente. Senza volontà di esistere politicamente e il peso delle decisioni che ciò comporta, basta veramente la bontà di Jacques le bonhomme.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

[1] Lo Stato moderno e la virtù, trad. it. ne Stato di diritto in trasformazione, Milano, 1973, p. 11 ss.

[2] Op. cit. p. 12.

[3] Politica, 3,4, 1276b-1277b

[4] Principe, XV.

[5] Esprit des lois, lib. 3, cap. II°.

[6] Op. cit., Lib. III°, cap. 3 (il corsivo è nostro).

[7] Lo stesso concetto è ripetuto in Esprit des lois, lib. V°, cap. 3. occorre ricordare che nell’ Avertissement scrive anche  «Enfin l’homme de bien dont il est question dans le livre III, chapitre V, n’est pas l’homme de bien chrétien, mais l’homme de bien politique, qui a la vertu politique dont j’ai parlé ».

[8] Frammenti sulle istituzioni repubblicane, trad. it., Torino 1975, p. 197 e 239.

[9] De l’esprit de conquête.

[10] Riportiamo il testo originale più esteso …les lois politiques et civiles de chaque nation…Il faut qu’elles se rapportent à la nature et au principe du gouvernement qui est établi ou qu’on veut établir; soit qu’elles le forment, comme font les lois politiques; soit qu’elles le maintiennent, comme font les lois civiles. Elles doivent êtrerelatives au phisique du pays ; au climat glacé, brûlant ou tempéré ; à la qualité du terrain, à sa situation, à sa grandeur ; au genre de vie des peuples, laboureurs, chasseurs ou pasteurs : elles doivent se rapporter au degré de liberté que la constitution peut souffrir, à la religion des habitants, à leurs inclinations, à leurs richesses, à leur nombre, à leur commerce, à leurs mœurs, à leurs manières. J’examinerai tous ces rapports : ils forment tous ensemble ce que l’on appelle l’esprit des lois. Je n’ai point séparé les lois politiques des civiles : car, comme je ne traite point des lois, mais de l’esprit des lois, et que cet esprit consiste dans les divers rapports que les lois peuvent avoir avec diverses choses, j’ai dû moins suivre l’ordre naturel des lois que celui de ces rapports et de ces choses.

[11] Du contrat social, Lib II, cap. XI.

[12] V. per Tocqueville La démocratie en Amérique, Lib. I°, p. I, cap. VII; per Hegel Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, trad. it., Firenze 1941, p. 231.

[13] In realtà Jhering riconosce che il comportamento umano può essere indotto anche da “molle” dell’agire umano diverse dall’egoismo, ricorrendo all’abnegazione che non nega l’interesse “ma si tratta di un interesse totalmente diverso da quello proprio dell’egoismo” Der Zweck in Recht, trad. it., Torino 1972, p. 52 (e seguenti).

[14] La teoria Kelseniana, così precisa nel distinguere tra casualità e imputazione, tra sein  e sollen, tra scienze empiriche e normative, non offre – nè intende offrire – una soluzione a tale problema (e a quelli analoghi), ritenuti estranei alla dottrina del diritto. Ma che il problema pur estraneo alla Reine Rechtslhere, sussista in concreto, ossia che per far funzionare la “gran macchina” occorre un motore, e che il centro d’ “imputazione” debba agire di fatto, è altrettanto innegabile.

[15] “Vogliono a un tempo e in vista dell’universale, e hanno un’attività consapevolmente rivolta a questo” G.G.F. Hegel Lineamenti di filosofia del diritto prgrf. 260.

[16] Oltre a non spiegare – ed è più importante – come una società del genere possa esistere e durare in un pluriverso politico, dove l’esistenza del nemico e la possibilità della guerra costituiscono dati concreti e reali. Vale, a maggior ragione in questo caso, il giudizio di Mably su Cartagine “ci sarà sempre in questo mondo qualche popolo sempre pronto a fare la guerra alle nazioni ricche, perché fino ad oggi le ricchezze che corrompono i costumi sono sempre il bottino del coraggio e della disciplina”. Destino comune generalmente a quei popoli, ricchi o non ricchi, cui la virtù – in senso precipuamente machiavellico – abbia fatto difetto.

[17] È sicuro comunque che anche in una dimensione ridotta, una politica (quasi esclusivamente) interna richiede comunque dati e sensibilità apposite, non riducibili alla dirittura morale o alle capacità imprenditoriali.

[18] Un esempio letterario ne è la conclusione del Tartuffe di Moliére, in cui il Re Sole “cassa” motu proprio l’ingiusta sentenza nei confronti di Orgon.

[19] È chiaro che nella concezione di Montesquieu c’è anche (ma assai di più) quella dell’ordinamento di Santi Romano, che è comunque un’idea squisitamente giuridica.

[20] Proprio Saint-Just, in parecchi passi, testimonia la considerazione di un pensiero borghese “forte” e in ascesa per gli “esecutori” della volontà nazionale espressa nella loi: “Quiconque est magistrat, n’est plus du peuple… Les autorités ne peuvent affecter ancun rang dans le peuple. Elles n’ont de rang que par rapport aux coupables et aux lois… Lorsqu’on parle à un fonctionnaire, on ne doit pas dire citoyen ; ce titre est au-dessus de lui » Fragments sur les Institutions républicaines, III, 4.

[21] Mentre è possibile punire il cittadino (o i cittadini) che trasgrediscono, non lo è, di fatto, quando costituiscono la larga maggioranza, e quando i comportamenti non “virtuosi” sono altrettanto  diffusi. Vale in tal caso comunque la regola Kantiana che il Sovrano non ha doveri suscettibili di coazione (cioè giuridici). Il che non esclude quelli non-giuridici e l’uso di strumenti non coattivi.

guerra e diplomazia in Siria, di Antonio de Martini

Sergueï Lavrov, Mevlüt Cavusoglu e Mohammad Javad Zarif, i tre ministri degli esteri di Russia, Turchia e Iran si riuniscono oggi a Mosca per l’ennesima volta con l’intento di allargare le quattro zone di de-escalation create da gennaio ad oggi.

A Ginevra continuano a riunirsi, sotto l’egida ONU il governo legittimo siriano e i rappresentanti dei gruppi ribelli.
A parte una certa convergenza sul numero delle vittime (350.000 invece dei 600000 di fonte occidentale), non si fanno passi avanti.

Assenti gli USA, a parte lo scoppio di un ordigno MOAB – una sorta di super bomba di dimensioni e peso mega già usata in Vietnam di cui un esemplare è esposto a Hanoi- che adesso cercano di attribuire a Israele.

Non si giunge a conclusioni di pace a causa delle divergenze di interessi tra i diplomatici e il bombardamento americano ” ufficiale” e questo ultimo ” ufficioso” hanno lo scopo di incrinare i rapporti tra Russi e Iraniani.

Gli uni vogliono la pace per potersene andare, gli altri, per restare. I turchi, intanto continuano a minacciare da Efrin il contingente USA di Manbij perché ci sono le elezioni, ma non attaccano perché , evidentemente non vogliono rompere definitivamente con lo zio Sam.

Restano irremovibili sulla rimozione di Assad che i russi considerano inamovibile. Da Gennaio a oggi gli incontri tripartiti sono stati quattro, ma a parte l’accordo sulle modalità e calendari degli incontri, non si riesce a raggiungere un accordo su un cessate il fuoco permanente.

LA SINISTRA ALLE PRESE CON LA NAZIONE, L’EUROPA ED IL MONDO, di Pierluigi Fagan

Qui sotto un interessante saggio di Pierluigi Fagan (PF), con relativo link al sito originario di pubblicazione. L’argomento (la sinistra, la nazione e la geopolitica) prosegue sulla falsariga di saggi già pubblicati su questo sito e ovviamente sul blog dell’autore. Per accedervi è sufficiente digitare sulla voce dossier del menu in alto e sul nome dell’autore. Il tema è ricco di spunti; la finalità dell’autore è di contribuire a far uscire il dibattito e l’azione politica dei critici della Unione Europea dallo stallo abbarbicato com’è alle mere enunciazioni di principio e ad un approccio meramente negativo della proposta politica, specie della componente sinistrorsa. La chiosa non intende essere una critica al testo, quanto piuttosto un tentativo di focalizzare schematicamente alcuni punti sui quali sviluppare un dibattito proficuo.

Fagan in particolare, nella fase di multipolarismo complesso in via di affermazione:

  • ritiene imprescindibile il problema della dimensione degli stati nazionali. Una posizione nient’affatto scontata; sono numerosi i fautori della tesi che attribuisce anche agli stati più piccoli, purché attrezzati con una adeguata classe dirigente, significative condizioni di agibilità
  • le dinamiche geopolitiche sono altrettanto importanti delle dinamiche tra le classi sociali; anzi, una condizione ottimale nelle prime consente una migliore gestione delle formazioni sociali. In questo ambito il dibattito generale spazia tra la priorità attribuita alle dinamiche sociali e i rapporti tra stati, tema tipico della sinistra e della estrema destra e l’esclusività attribuita ai rapporti geopolitici tra stati e istituzioni, tipica degli analisti geopolitici. Nel mezzo, a dar man forte all’approccio “complesso” offerto da Fagan, trova posto a pieno titolo, come promettente chiave di interpretazione delle dinamiche politiche, la teoria lagrassiana del conflitto strategico tra centri decisori
  • affronta la questione fondamentale riguardante l’approccio al rapporto con l’Unione Europea con una importante delimitazione. Il suo discrimine riguarda non solo i sostenitori duri e puri della UE, ma anche i cosiddetti riformatori. Le possibili posizioni dipendono in pratica dalle combinazioni possibili delle relazioni tra gli stati europei eventualmente aggregati in aree omogenee
  • vede nella Francia il baricentro della costruzione europea. Una posizione originale rispetto alle tesi prevalenti che attribuiscono alla Germania il primato politico oppure agli Stati Uniti l’assoluta predeterminazione della costruzione e degli indirizzi politici comunitari.Una ricostruzione storica delle vicende comunitarie può sembrare un puro esercizio accademico; serve in realtà a determinare le dinamiche e il peso dei vari decisori. La letteratura, al netto dell’agiografia, offre diversi punti di vista. Uno di questi, ben presente nella ricerca francese e statunitense, attribuisce alla classe dirigente “sovranista” francese la volontà di sostegno al progetto comunitario nella misura in cui fosse stata la Francia, con inizialmente la Gran Bretagna, a determinare gli indirizzi. In soldoni, nella misura e nei momenti in cui sarebbe apparsa sempre più chiara l’assoluta influenza americana e la sua volontà di sostenere la Germania in funzione antifrancese e antibritannica e come importante risorsa antisovietica, l’afflato comunitario della Francia sarebbe a sua volta venuto meno. Con due eccezioni importanti tra le quali l’azione dell’oestpolitik tedesca negli anni ’70 che indusse i francesi a sostenere l’ingresso della Gran Bretagna
  • consiglia di prendere atto della progressiva formazione di più aree europee politicamente autonome per individuare in quella latino-mediterranea, il possibile coagulo di forze capace di sostenere il confronto.    

Si attendono sviluppi e contributi_Buona lettura_Giuseppe Germinario 

 

LA SINISTRA ALLE PRESE CON LA NAZIONE, L’EUROPA ED IL MONDO.

Tra un anno si va a votare per l’Europa. Su Micromega, G. Russo Spena (qui), sintetizza le posizioni in cui si divide la sinistra europea.

La prima posizione è sostenuta da Linke (Germania) e Syriza (Grecia), dove però la posizione greca rispetto ai diktat della Troika, non ha mostrato apprezzabili pratiche politiche  alternative. Cambiare l’UE dal di dentro con intenti progressisti, la difficile linea.

C’è poi Varoufakis ed il suo Diem25 sostenuto dai sindaci Luigi de Magistris e Ada Colau, oltre a Benoit Hamon,  fuoriuscito dal partito socialista francese ha creato il movimento Génération-s – e da altre piccole forze provenienti da Germania (Budnis25), Polonia (Razem), Danimarca (Alternativet), Grecia (MeRA25) e Portogallo (LIVRE). Sinistra transnazionale che vuole democratizzare l’Europa.

Infine, ci sono Bloco de Esquerda portoghese, Podemos spagnolo e France Insoumise francese che hanno firmato assieme la Dichiarazione di Lisbona a cui ha successivamente aderito anche l’italiano Potere al Popolo. Anche qui si vuole costruire un contropotere democratico all’Europa neo-ordo-liberale.

Tutti e tre gli schieramenti mostrano un nuovo interessante fenomeno che è quello del dialogo e del coordinamento tra forze politiche di più paesi. Da tempo lo facevano le forze conservatrici, liberali e socialdemocratiche ovvero le forze di governo, quelle che governano nei rispettivi paesi e quel poco che si decide al parlamento europeo. Interessante che ora anche la sinistra quasi sempre di opposizione (Bloco de Esquerda è l’unica forza al governo oltre a Syriza) faccia i conti con il formato inter-nazionale.

Tutti e tre gli schieramenti, si ripromettono sia la democratizzazione delle istituzioni europee, sia l’inversione delle politiche neoliberali che le hanno contraddistinte. Il secondo schieramento, quello di Varoufakis, più che inter-nazionale, è trans-nazionale nel senso che a quanto par di intuire, si ripromette di costruire una unica forza politica contemporaneamente presente in più paesi, posizione molto in auge negli ambienti federalisti.

Il terzo schieramento invece, si è trovato subito diviso, una divisione però sopita e rimandata, tra il famoso “Piano B” di France Insoumise e Podemos. I francesi si sono presentati alle ultime presidenziali con un programma corposo “L’avvenire in comune”, nel quale hanno declinato 83 tesi in 7 sezioni. Nella tesi 52, presentavano l’ipotesi subordinata “Piano B”. Si trattativa dell’alternativa all’eventuale (certo) fallimento dei tentativi di correzione della politica europea, l’ultima ratio era la rescissione unilaterale francese dei trattati. Come molti avevano notato ai tempi del referendum greco, le trattative politiche si basano su i rapporti di forza e chi aspira a contrastare il potere dominante deve poter -ad un certo punto- mettere sul piatto l’opzione alternativa, quella che rovescia il tavolo. Senza questa minaccia o concreata alternativa, inutile sedersi a far qualsivoglia trattativa, trattasi di verità negoziale a priori.

Il Piano B francese era “o cambiamo l’UE-euro o usciamo”, rimaneva aperta una successiva  possibilità in cui la Francia sovrana avrebbe poi  stretto patti cooperativi e di collaborazione in ambito educativo, scientifico, culturale. Questa era la tesi 52, la 53 invece, iniziava con un “Proporre un’alleanza dei paesi dell’Europa meridionale per superare l’austerità e lanciare politiche concertate per il recupero ecologico e sociale delle attività” che è appunto ciò che hanno fatto a Lisbona. Con ciò terminava la quarta sezione e si passava alla quinta. La quinta sezione si apriva col titolo “Per l’indipendenza della Francia” e quindi dava outline di ciò che la Francia avrebbe potuto e dovuto fare sia nel mentre rimaneva nelle istituzioni europee, sia a maggior ragione e con più convinzione dopo l’eventuale applicazione dell’opzione nucleare che portava al Piano B, l’uscita unilaterale. La tesi 63, metteva in campo idee concrete di cose ed iniziative  da promuovere  nel bacino Mediterraneo, un Mediterraneo braudeliano quindi considerato sia per la sponda europea (Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Grecia), che per quella nord-africana (Marocco, Tunisia, Algeria, Libia). Il senso dell’intera questione manteneva una certa ambiguità tra questi tre livelli: Francia sovrana, Francia cooperante con i paesi latino-mediterranei nella lotta contro ma dentro l’UE, Francia perno di un nuovo sistema mediterraneo come già Sarkozy ma anche molti altri francesi avevano pensato in passato, ancora dentro l’UE ma a maggior ragione se fuori.  L’ editoriale del numero in edicola di Limes, rimarca pari ambiguità in Macron quando questo sembra superare di slancio il principio di non contraddizione nel sostenere al contempo la Francia sovrana ed uno stadio superiore di Europa federale.

Podemos, pur avendo firmato la Dichiarazione di Lisbona, pare stia ancor tentennando suDiem25 ma più che altro è interessante sottolineare come Iglesias abbia del tutto escluso la condivisione del Piano B di France Insoumise. Al di là delle opinioni specifiche di Podemos sull’euro, Iglesias ha specificato che in Spagna c’è un forte per quanto vago ultramaggioritario sentimento europeista, lo stesso che posso testimoniare personalmente vivendo lì una parte dell’anno, hanno i greci.  Sentimento europeista non vuole affatto dire adesione a questa UE o a questo euro, si tratta di una intuizione più culturale che politica.

Molta parte dell’opinione pubblica europea, è come se avvertisse che i tempi impongono il fare una qualche forma di fronte comune. Il sentimento è forte nel suo radicamento ed al contempo debole nella sua razionalizzazione, unisce i convinti supporter dell’attuale stato di cose, quanto i suoi più convinti critici oltre che ovviamente gli indecisi ed i confusi che sono la maggioranza. Vedi Trump, vedi Putin, vedi Xi Jinping, i britannici che si mettono in proprio, senti di bombe atomiche coreane, terroristi arabi, migranti africani o asiatici, la incombente matassa intricata della “globalizzazione”, l’incubo delle nuove tecnologie, il temuto collasso ambientale e ti viene facile pensare che davanti a tanta minacciosa complessità, l’unione fa la forza e da soli non si va da nessuna parte. Il passaggio da “unione” come spirito vago ad “Unione” come istituzione precisa è garantito dal meccanismo di analogia che abbiamo nel cervello, “sembra” proprio che l’uno risponda all’altro. Vale per le élite, per i medio informati ma anche per coloro che usano più neuroni della pancia che quelli della scatola cranica. Chi si muove politicamente in forma critica sulla questione europea dovrebbe tener conto di questo diffuso sentimento se non altro perché chi fa politica deve aver per interlocutore pezzi di popolazione prima che l’avversario ideologico. Si fanno discussioni con gli amici ed i nemici ideologici davanti a pezzi di popolazione perché il fine politico è conquistare cuori e menti di questi secondi. Dai temi che tratta al linguaggio che usa, questa avvertenza di parlare sempre alla generica popolazione, è del tutto ignorata dalla sinistra che oggi si interroga su dove mai sia finito il suo “popolo”.

Sembra quindi che France Insoumise abbia costruito una posizione a cerchi concentrici di definizione. Il cuore a fuoco è la battaglia contro questa UE ed euro, la corona interna meno a fuoco è la ricerca di alleanze organiche con forze politiche latino-mediterranee da cui la Dichiarazione di Lisbona, la corona esterna ancora meno a fuoco un po’ sciovinista e molto “francese”, è l’idea in fondo guida di una Francia sovrana al centro di cerchi concentrici di cooperazione asimmetrica che arriva fino a pezzi della Françafrique. Questa ultima posizione occhieggia a più vasti settori dell’opinione pubblica francese, inclusi pezzi di classe dirigente ed è forse merito di questa ampia vaghezza se France Insomise ha preso quasi il 20% al primo turno delle presidenziali. Se Mélenchon declina questo target a fasce concentriche che sembrano volersi distaccare dall’UE, Macron declina la stessa geometria egemonica  rivolta verso più UE[1].  Come mai, pur da sponde opposte, i due francesi si agitano tanto occupando più posizioni al contempo e lasciando intendere tutto ed il suo contrario?

Svegliatici, occorre dircelo, tutti un po’ tardi rispetto a ciò che si era stabilito a suo tempo nel trattato di Maastricht (che ricordiamolo è del 1992), l’analisi critica si è soffermata su gli aspetti economici e monetari, tra neo-ordo-liberismo e posizione dominante tedesca. Ma se andiamo a ritroso del registro storico, si vedrà come tutto ciò che precede Maastricht e l’euro  (ed inclusi questi) a partire dall’immediato dopoguerra, ha il suo baricentro non in Germania ma in Francia. E’ la Francia a promuovere la CECA, è la Francia a non approvare la riforma decisiva che avrebbe potuto dare un futuro politico all’Europa ovvero la CED (approvata già dai Benelux e dalla stessa Germania), è la Francia e non far entrare la Gran Bretagna in UE per poi ripensarci ed è lei stessa a sospendersi dalla NATO per diventare potenza atomica per poi ritornarci, è De Gaulle ad invitare Adenauer a Parigi per sancire il trattato dell’Eliseo (1963) quindi fissare formalmente la diarchia regnante l’europeismo, e così via fino allo stesso Maastricht e l’euro che nascono come  contropartita richiesta alla Germania per il via libera dato alla sua preoccupante riunificazione. I tedeschi, si sono limitati ad imporre la struttura economico-monetaria ai trattati, struttura che per altro avevano già nella loro Costituzione dal 1949 e dalla quale non avevano la minima intenzione di derogare perché fonda la loro nazionale narrativa post-bellica, soprattutto come spiegazione dell’irrazionalità da cui sorse il nazismo. Secondo questa narrativa, il nazismo venne dall’eccesso di inflazione.

Questo ci ha portato altrove a definire il progetto europeista, primariamente un trattato di pace tra Francia e Germania, stante che nei due secoli precedenti, questi campioni della potenza europea, si erano già combattuti e reciprocamente invasi più volte. Il  problema del confine tra Francia e Germania con tutto il portato di carbone, acciaio, metallurgia e siderurgia (quindi armi), è una costante geopolitica ovvero basata sulla politica (gli Stati, la volontà di potenza) e la geografia (confine in comune, passato indistinto, assenza di chiari segni geografici di separazione). Se Mélenchon si agita verso più autonomia e Macron verso più integrazione, l’uno pensa che la relazione con la Germania sarà sempre subalterna, l’altro pensa di poterla dominare o quantomeno contrattare secondo la tradizione del dopoguerra, il punto in comune è la Francia, la sua posizione nei prossimi decenni. Si noti come in tutta la questione europeista si incrocino sempre due assi, quello degli interessi delle classi sociali e quello degli interessi delle nazioni. Ogni governante sa che maggiore è il vantaggio portato alla propria nazione, più relativamente agevole sarà gestire i rapporti tra le classi sociali.

Tutta la faccenda europeista, se da una parte discende dal problema dei confini e dalla turbolenta convivenza dei due potenti vicini, non meno certo che da considerazioni ed interessi dell’ economia di mercato e della élite che ne beneficiano, discende anche da alcune non sbagliate considerazioni che si trovano nel Manifesto di Ventotene non meno che in Carl Schmitt, in Alexander Kojève non meno che nel primo scritto europeista del poi diventato leggenda nera principe Coudenhove Kalergi, la PanEuropa. Questi e molti altri, che data l’estrema eterogeneità non possono dirsi discendenti di una unica ideologia (ci sono accenni di Stati Uniti d’Europa addirittura in Lenin), evincono sin dai primi del Novecento che oggettivamente Europa non è più un campo di gioco unico in cui si riflettono le sorti del mondo. Gli Stati Uniti, il Giappone, la Cina, la Russia, il mondo arabo su fino all’India, segnano il prepotente allargamento del rettangolo di ogni gioco, politico, geopolitico, culturale, militare ed ovviamente economico. Lo spettro largo di queste riflessioni dura un secolo ed è la versione più colta del sentimento “unionista” di senso comune di cui abbiamo parlato prima.  Improbabile che Europa, dove a fronte di un 7% delle terre emerse si concentrano ben il 25% degli Stati mondiali, possa continuare a pensarsi come una macedonia conflittuale di stati e staterelli di più o meno antico pedigrèe. La doppia tenaglia anglosassone e sovietica per più di quattro decenni, ha reso presente a tutti come la divisione fa imperare altri soggetti, la sovranità prima ancora che monetaria, fiscale e giuridica, la si è perduta militarmente, quella politica ne è solo la conseguenza. Questo ci dice che se prima abbiamo individuato due assi ora ne dobbiamo mettere un terzo, oltre alla lotta tra le classi di una nazione e quella tra le nazioni europee tra loro, c’è anche da considerare che il quadrante di gioco non è più solo quello sub continentale ma quello mondiale.

Torniamo così al nostro discorso principale. Chi si propone di democratizzare l’UE temo stia perdendo altro tempo. Mi domando se “più democrazia” sia una invocazione infantile che serve ad acchiappare voti agitando il nobile drappo dell’autogoverno dei popoli o un preciso piano. In questo secondo -improbabile- caso, mi domando come pensano questi neo-democratici di risolvere il problema dell’oggettiva differenza che corre tra popoli latini e mediterranei e popoli germani e scandinavi, tra gli euro-occidentali e gli euro-orientali. Se domattina Mago Merlino con la bacchetta magica ci donasse il parlamento dell’euro a cui sottomettere la politica della banca centrale, i mediterranei  avrebbero la maggioranza dei 2/3, se ben convinti (e ci sono oggettivi interessi materiali nazionali a largo spettro a supporto) potrebbero far passare la riforma dell’euro facile-facile. Un millisecondo dopo la Germania, l’Olanda, la Finlandia, Lussemburgo ed i tre baltici uscirebbero.  Lo stesso varrebbe per la maggioranza italo-francese nell’eventuale parlamento della piccola federazione dei sei paesi fondatori la CEE-UE.  Così per lo statuto dell’euro ma anche per le altre necessarie riforme economiche e sempre evitando la politica estera che con la sua radice geografica, pone i mediterranei e quelli del Mare del Nord su sponde opposte, interessi diversi, prospezioni ed alleanze altrettanto diverse. Per avere democrazia ci vuole -al minimo- una Costituzione un parlamento, un governo, l’unione dei tre poteri di Montesquieu ed in definitiva niente di meno di uno Stato. Questo Stato che è l’unico sistema conosciuto in cui applicare la democrazia, a 6 se a base storica (?), 19 se su base euro o a 27 se su base UE, non è materialmente possibile per motivi auto-evidenti che i “democratici” non capisco perché si ostinino a non voler vedere. Se per fare un mercato si può essere 19 o 27 e pure eterogenei, per fare uno Stato sono richieste omogeneità giuridiche, culturali, religiose, linguistiche, storiche, politiche. Ogni volta che il sistema di mercato (UE) tenta di fare lo Stato si spacca, ma non lungo le linee ideologiche, lungo le linee geo-storiche. Ancora di recente, Macron si è speso per l’intensione (più governante quasi-federale) e Juncker ha invece ribadito l’estensione (ci sono molti paesi nel sistema, sarebbe più utile allargare il sistema ad altri paesi ad esempio i balcanici), perché le logiche per fare Stati o quelle per fare mercati sono intrinsecamente diverse.

Nessuno vuole in Europa uno Stato federale (anche perché materialmente irrealizzabile), quindi nessuno è in grado di sottomettersi a volontà generali che diventerebbero potere di popoli su altri popoli. Tra il disprezzo nei confronti dei mediterranei ed il ricambiato odio per i tedeschi o l’ironia svagata su quanto si sentono furbi i francesi senza esserlo davvero, mai come oggi stanno tornando in auge sentimenti nazionalistici che categorizzano molto sommariamente l’Altro. Far finta che non esistono i popoli o gli Stati o la storia o la geografia non aiuta, non appena si spinge troppo sull’inflazione retorica unionista, ecco spuntare subito il rimbalzo sovranista. Ma il peggio è che unionisti e sovranisti si disputano il gran premio della chiacchiera perché tanto né sembra si possa andare a più unione, né tornare alla nazione e ciò che impera, alla fine della fiera, è sempre e solo la Commissione, la BCE, i “Nien!” tedeschi. Tra il grande ed il piccolo Stato, alla fine vince sempre il Mercato.

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Siamo nel doppio vincolo, da una parte vorremmo esser più forti ed unirci ma la nostra estrema eterogeneità lo rende impossibile, dall’altra vorremmo ripristinare una accettabile democrazia e tornare a decidere noi sul “che fare?” il che però ci riporta in teoria ai nostri singoli stati che già oggi ma viepiù fra trenta anni, varranno quanto il due di coppe a briscola quando regna bastoni. Strappare più sovranità oggi, significa perderla senza speranza nell’immediato domani del commercio internazionale, della circolazione dei capitali, della dittatura dei mercati, delle nostre fragilità economiche, dei diktat anglosassoni sulla NATO, delle crescente minorità politica di nazioni piccole, sempre più anziane, sempre meno competitive e significative nello scenario mondo.

In questo dilemma che a volte si presenta come trilemma (dentro la nazione, tra le nazioni europee, nazioni europee vs resto del mondo) la sinistra ha forse una opportunità per quanto la confusione mentale ed ideologica oggi occulti proprio ciò che ha davanti a gli occhi.

Se gli otto paesi firmatari del distinguo rispetto ai sogni devolutivi macroniani sono tutti del nord Europa (inclusa la Germania dietro le quinte), se il gruppo di Visegrad unisce stati orientali confinanti ed eterogenei uniti però nel distinguersi rispetto ai dettami occidentali franco-tedeschi, se la Dichiarazione di Lisbona è firmata dai meridionali portoghesi, spagnoli, francesi ed una particella di italiani è perché l’Europa è fatta di popoli ed i popoli di culture, di storie sovrapposte su un piano geografico costante che unisce alcuni e separa altri. Sono le culture l’ordinatore che consente e non consente le eventuali fusioni tra Stati-nazione in Europa. Nessun paese latino mediterraneo avrebbe grossi problemi ad avere una banca centrale che fa quello che ogni banca centrale al mondo fa (espansione economica, controllo del cambio, aiuto nella gestione del debito pubblico oltre al fatidico controllo dell’inflazione), non così i tedeschi e la loro area egemonica nord europea. E lo stesso gruppo dei latini certo che ha interessi geopolitici comuni verso il Mediterraneo, il Nord Africa ed anche il resto del continente che s’affaccia sul nostro stesso mare (per non parlare delle opportunità di sistema con il Centro-Sud America), quindi interesse ad unire le forze in qualche modo. Interessi diversi da quelli germano-scandinavi o dei confinanti con la Russia.

Tra paesi latino mediterranei si possono fare alleanze senza speranze che si battano per una diversa UE, si possono promuovere  maggior livelli di integrazione e cooperazione fattiva mentre si rimane nell’UE, ci si può dar man forte per coordinare una simultanea uscita dall’euro tornando a chi ci crede alle rispettive valute o per uscire tutti dall’euro tedesco e confluire  in un altro euro mediterraneo espansivo, svalutabile, di aiuto alle gestione dei debiti pubblici (soprattutto quelli collocati all’estero, estero che a quel punto avendo nel nuovo sistema sei diversi paesi, diminuirebbe come impegno nel caso lo si volesse ricomprare per immunizzarsi dagli spread, come è in Giappone), sottomesso non ad un trattato ma ad un parlamento democraticamente rappresentativo.

Nel rompicapo europeo non ci sono soluzioni facili e questa invocazione di un insieme latino-mediterraneo non è esente da problemi. Si tratta però di scegliere la via meno problematica e sopratutto quella che apre a maggiori condizioni di possibilità. La comune cultura latino-mediterranea è l’unica solida base per cominciare a sviluppare progetti politici inter-nazionali per tempi che stanno velocemente scalando indici di complessità sempre meno rassicuranti. Ci conviene oltremodo svegliare tutti dal sonno dogmatico che vuole unioni a 27 o a 19 senza che sussistano gli indispensabili pre-requisiti per farlo, così come ci conviene essere realisti e responsabili e cominciare a pensare  che nel mondo nuovo paesi solitari da 60, 40, 10 milioni di abitanti avranno sovranità men che formali. Coordinarsi tra simili per criticare, provare a cambiare o abbandonare l’euro non meno che la NATO, è condizione necessaria, il fine preciso lo valuteremo assieme, intanto fissiamo il mezzo.

Non esiste una sinistra senza una Idea ed in tempi così complicati, far base su un substrato comune di origine geo-storico, quindi culturale, quindi popolare e reale, a noi sembra il modo migliore per far si che la sinistra torni a pensare e ad agire politicamente. Se le opinioni specifiche su UE, euro e vari tipi di progetti avanzati da più parti fanno perno su quel sentimento istintivo che pensa necessario unire le forze tra alcuni di noi, dare a quel sentimento la prospettiva più limitata e perciò più concreta dell’alleanza progressiva tra noi mediterranei europei (per i paesi-popoli musulmani mediterranei il discorso verrà fatto dopo, non si possono fare progetti di unione federale con paesi del nord Africa, ora), può aiutare a darci identità, egemonia nel dibattito pubblico, spinta creativa a disegnare il mondo che verrà, voglia di tornare a fare politica. Se la sinistra nasce nel conflitto sociale interno, oggi deve anche misurarsi con il formato Stato-nazionale, coi rapporti interni all’Europa che sono tra nazioni prima che tra classi e col problema di ciò che è fuori dal nostro antico mondo. L’Idea deve orizzontarsi su tutte e tre le variabili altrimenti rimane idealismo, inutile sequenza di petizioni di principio e non progetto.

La sinistra uscirà dalla sua crisi quando dimostrerà di avere un progetto positivo sulla realtà, alla funzione critica si può aderire scrivendo e comprando libri (una delle principali attività della sinistra), ma non si costruisce realtà con la “potenza del negativo”. La sinistra nata dal conflitto di classe deve sapersi riattualizzare davanti ai tre scenari sistemici mai davvero trattati in profondo dalla sua pur voluminosa produzione teorica: nazione, Europa, mondo. Niente progetto, niente sinistra.

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[1] Il Piano Macron è stato presentato a settembre 2017 alla Sorbona. Le “corone” del piano Macron erano sicurezza, difesa e politica estera, tre argomenti che si fondono come interesse francese ad agire negli “esteri” identificando l’interesse francese con quello europeo. La partecipazione francese, almeno “ideale”, al bombardamento in Siria e l’orgogliosa rivendicazione valoriale che ne ha fatto Macron il 17 aprile a Bruxelles, confermano di questa vocazione del francese ad intestarsi la funzione esteri. (Sullo sviluppo del business della difesa, si veda questo contributo di B. Montesano su Sbilanciamoci: http://sbilanciamoci.info/difesa-europea-business-della-sicurezza/ a rimarcare la costante ambiguità per la quale non si parla di esercito comune ma di business comune). Oltre ai tre argomenti “estero”, il piano Macron ha ambiente e ricerca tecnologica dove quest’ultima segna una delle croniche debolezze europee. Nessuno stato europeo è effettivamente in grado di mobilitare investimenti significativi in grado di competere con quelli americani e cinesi, mancanza che poi si riflette nelle minori condizioni di possibilità economiche e mancanza di indipendenza in un settore strategico. Infine, l’euro che Macron vorrebbe riformare con un comune bilancio e conseguente allineamento fiscale e con unico ministro delle Finanze.  Difficile che anche volendo (e sull’esistenza di questa volontà è lecito nutrire parecchi dubbi), la Germania in cui le due forze politiche in ascesa e che controllano già oggi un quarto dell’elettorato sono i Liberali euroscettici ed AfD apertamente xenofoba, aderisca al progetto se non rendendolo ancora più ambiguo tra la sua forma narrativa e la sostanza ben meno palpitante. Chissà quindi se ci sono proprio i tedeschi dietro la presa di posizione del 6 marzo, in cui otto paesi euro (Finlandia, Irlanda, Olanda, i tre baltici, Svezia e Danimarca ultimi due non in Eurozona e si tenga conto che fuori Eurozona c’è poi su posizioni simili anche il Gruppo di Visegrad) hanno pensato necessario dichiarare assieme l’assoluta contrarietà ad ulteriori devoluzioni dei poteri nazionali, bocciando in sostanza il piano Macron. A sentire le dichiarazioni di Merkel in preparazione del vertice con Macron sembrerebbe proprio di sì, i settentrionali  non vogliono alcun sistema politico comune coi meridionali, non si capisce perché i meridionali non ne prendano atto e ne traggano conclusioni.

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