HAURIOU E LA PREVISIONE DELLA CRISI, a cura e con la traduzione di Teodoro e Federica Klitsche de la Grange

HAURIOU E LA PREVISIONE DELLA CRISI

già apparso sul nr 52 della rivista Behemoth del 2012 http://www.behemoth.it/index.php?nav=Home.01

Per valutare la consistenza di un pensiero (e di un pensatore) s’adotta al giorno d’oggi il criterio della concordanza con i valori, le convinzioni (e i pregiudizi, più diffusi, i residui (paretiani), le illusioni, gli idola (nel senso di Bacone); ma se, invece, si adoperasse quello di considerare quanto, e quanto prima abbia pre-visto eventi futuri (purtroppo la verifica di ciò è, forzatamente, … demandata ai posteri) ne sarebbe accresciuto il valore di questo, dato essenzialmente dalla capacità – riscontrata – di essere un’affidabile e concordante rappresentazione (e previsione) della realtà, cioè di “andare d’accordo” con la medesima.

Così la statura di pensatori come Tocqueville, che previde sia l’egemonia  russo-americana della seconda metà del XX secolo (e la decadenza dell’Europa), sia la guerra di secessione e, cosa che ne dimostra, del pari, l’acume sociologico e di osservatore, i modi con cui sarebbe stata combattuta; di Donoso Cortes che profetizzò più facile la vittoria del socialismo a S. Pietroburgo che a Londra (contrariamente a Marx); e di altri (pochi) ancora (talvolta misconosciuti), sarebbe ingrandita. Tant’è: la cultura contemporanea, specie italiana, orientata, in gran parte, alla credenza in un illusione come quella marxista-leninista, culminante nella società comunista (che nessuno ha visto neppure da lontano), si industria a tenersi lontana da un siffatto criterio di corroborazione: quello di far verificare – in sostanza – il pensiero dalla storia e non dalle opinioni soggettive, anche se largamente condivise.

Fatta questa – lunga – premessa, il lettore sarà sorpreso dal seguente paragrafo di un libro dell’illustre giurista francese Maurice Hauriou “La Science sociale traditionnelle” pubblicato nel 1896, in cui Hauriou – che non crede che l’umanità vada in una sola direzione (del progresso) ma che periodi di progresso e di decadenza si alternino – indicava come fattori di crisi il denaro e lo spirito critico; come fattori di trasformazione (cioè di crisi, ma anche di rifondazione comunitaria e istituzionale) la migrazione dei popoli e il rinnovamento religioso. Alcune di tali spiegazioni sono note: è almeno dal Sallustio della “Guerra contro Giugurta” che è rilevata (e da sempre ripetuta) la capacità del denaro e dello spirito economicista di corrodere le istituzioni. Ma è meno ripetuto quanto avverti il giurista francese: che alla fine lo spirito economicista finisce per distruggere perfino le proprie creature (come la speculazione finanziaria fa con l’economia reale – è cronaca di questi giorni).

Lo spirito critico – oggi si direbbe relativismo; anche qui, come nelle notazioni sul carattere fondante (le istituzioni) tipico della religione, Hauriou anticipa considerazioni  che avrebbe fatto (anche) Arnold Gehlen. Ma soprattutto demistifica  anticipatamente, e a ben vedere, in una linea di pensiero che va da Vico ai pensatori controrivoluzionari come Maistre e Bonald, l’idea che il relativismo possa legittimare autorità e istituzioni. Non foss’altro perché, come scriveva Vico, queste esistono per dare certezze e non verità.

Infine la migrazione dei popoli e il rinnovamento religioso. Il primo fattore è in azione sotto gli occhi di tutti; del secondo, anche se non chiaro, è comunque percepibile il rafforzamento, almeno nelle comunità come l’islamica.

Va da se che quello che più colpisce di tali pagine è, da un lato, la compresenza, nella crisi contemporanea, di tutti i fattori di crisi individuati e previsti da Hauriou (anche se in misura non paritaria); dall’altro che il giurista francese aveva preceduto altri (sgraditi al pensiero unico) teorici della decadenza e della crisi dell’Occidente, da Spengler a Mosca, da Eisenstedt ad Huntington, da Pareto ad Olson.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

La produzione delle crisi

Come mai  le organizzazioni sociali fondate ed istituite, anche quelle che appaiono più solide, finiscono per  distruggersi? Come sono generate le crisi? A tale proposito si possono osservare due fenomeni. Il primo è dato dal fatto che qualsiasi sistema sociale stabilito dall’uomo tende all’esagerazione, diventa per l’uomo motivo di stanchezza e sofferenza e provoca una reazione dell’opinione a favore del sistema opposto. Il secondo è il fatto che vi sono cause di dissoluzione, il denaro nell’organizzazione della società positiva, lo spirito critico fattori di coesione (tissus)[1] destinati a garantire il fenomeno istituzionale.

  1. Le istituzioni delle epoche organiche finiscono per autosfruttarsi. Ciò deriva in primo luogo dal fatto che ve ne sono di due tipi e che bisogna credere che nessuno dei due risponda completamente ai bisogni dell’uomo, in quanto, per l’appunto , sono due. Ci si stanca del medio evo perché vi è il rinascimento e viceversa. Ma questa stanchezza è accresciuta dagli errori dei regimi stessi  che con il passare del tempo esagerano e tendono a divenire troppo estensivi (totalitari?). Aspirano a far rientrare  a forza nel loro stampo tutta l’attività umana, ma ne rimane sempre una parte che resiste e non si lascia inquadrare  se non nel regime opposto.

Tale esagerazione di ogni regime non è altro che il socialismo, del quale ve ne sono due tipi: quello dei medi evi e quello dei rinascimenti. Il socialismo medievale è quello delle corporazioni;  queste si proponevano di confiscare la libertà di lavoro che è l’insieme dell’iniziativa economica e del diritto di proprietà, il quale al tempo stesso rappresenta il frutto dell’attività e il suo agente trainante. Ci si ricorda perfettamente come nel corso del medioevo  i mestieri ed il corpo degli ufficiali giurati erano diventati odiosi  nel commercio e nell’industria avendo voluto sopprimere il lavoro libero. Ciò che invece non si ricorda a sufficienza è che contemporaneamente il sequestro di beni e proprietà da parte della corporazione feudale era sfrontato. Nel dodicesimo e tredicesimo secolo il sistema feudale non aveva ancora occupato tutto il territorio; sussistevano molti allodii, ed in più i canoni censuari ed i diritti feudali erano minimi. Invece durante il quattordicesimo e quindicesimo secolo, quando il diritto feudale si era logicamente sistemato, ne sono state tirate delle deduzioni sempre più rigorose. Si voleva applicare dappertutto il principio “nessuna terra senza signore” e sopprimere gli allodi. Contemporaneamente  i profitti feudali erano aumentati, si era creata tutta una fiscalità feudale ed i giuresconsulti del XVI esimo secolo si erano dovuti inventare una serie di finzioni giuridiche al fine di affrancare dal pagamento dei diritti determinati atti correnti quali i negozi di diritto di famiglia.  Ancora sotto il regno di Luigi XIV una grande questione si agitava nel paese. Difatti, i signori feudali che nel XII secolo  avevano  lasciato i boschi  alle comunità intendevano riprenderseli: da questo processi ed evizioni. L’ordinanza sulle acque e le foreste prevedeva una transazione sotto il nome di censita, che durò fino alla Rivoluzione[2] . Il Re stesso si era giovato della massima feudale e si comportava come proprietario di tutte le terre del regno.

Il socialismo (dell’epoca) rinascimentale è quello dello Stato. Poco a poco lo Stato esagera sia nei propri servizi amministrativi, sia nella legislazione che nelle imposte. Amministrazione e legislazione finiscono per  paralizzare l’iniziativa privata: attraverso la riscossione dei tributi la fiscalità grava e confisca lentamente la proprietà; in particolare ciò va a detrimento delle piccole proprietà in quanto, diversamente, la grande proprietà riesce a sfuggire all’organizzazione statale e si ricostituisce. Questo tipo di socialismo è stato applicato dall’impero romano alla fine del rinascimento antico. Dobbiamo sperare che ciò ci sarà  risparmiato alla fine del rinascimento moderno.

La stanchezza, la noia, le sofferenze provocate da ciascun tipo di socialismo sono le cause che spingono gli uomini verso tipi di organizzazioni alternative ed opposte. Durante il Medio Evo i borghesi esclusi dalla proprietà si volgono agli investimenti mobiliari; all’epoca della decadenza imperiale i potenti stanchi dello Stato si estraniano dallo stesso ritirandosi nei loro grandi domini.

L’eccesso non si sviluppa solo nelle istituzioni ma anche nelle idee. Lo spirito di fede del medio evo evolve nell’idealismo più intollerante, lo spirito critico si sviluppa in un naturalismo materialista [3]. Si è spinti verso l’uno dal disgusto per l’altro.

Il passaggio dall’uno all’altro è determinato dall’azione dei (fattori) dissolventi.

Le organizzazioni della società positiva sono tutte disorganizzate dal denaro; la virtù dei fattori di coesione (tissus) è distrutta dallo spirito critico. L’apparizione del denaro segna la fine del medio evo; questa ricchezza pratica e mobile, che racchiude in potenza tanti godimenti diversi, stimola la cupidigia e lentamente induce all’abbandono della terra. Le crociate segnarono l’inizio della fine delle baronie feudali in quanto nei ricchi paesi orientali i crociati appresero il gusto del lusso e del denaro. Anche la rapida corruzione dell’ordine dei Templari è da ricondurre all’opera del perfido metallo.

Cosa ancora più sconcertante è che il denaro sta provocando la dissoluzione anche dell’organizzazione capitalista, ovvero dopo aver distrutto il feudalesimo e fondato un mondo nuovo il  denaro, continuando nell’azione distruttiva  manda in rovina perino la propria opera. Ciò è causato dal fatto che la moneta[4] che era soltanto un segno di ricchezza diventa fine a se stessa. Si è creata dunque un classe importante di speculatori e di aggiotatori la cui sola occupazione è quella di fare alzare e abbassare il valore del denaro. Speculando sugli alti e bassi producono pesanti alterazioni sul commercio e l’industria volatilizzandone le riserve.

Lentamente, dunque, i capitali vengono reinvestiti sulla terra. Si è arrivati a tanto anche alla fine della civiltà antica quando gli imperatori romani al fine di arginare le fonti speculative svilupparono a dismisura la macchina amministrativa ed è solo dopo qualche secolo di tale socialismo statale che la grande proprietà si è ricostituita.

L’azione dissolvente dello spirito critico è simile a quella del denaro solo che essa viene esercitata sui fattori di coesione. Alla fine del Medio Evo lo spirito critico  ha affievolito l’influenza della religione privandola in parte della sua virtù istituente[5]. Dal momento in cui l’epoca rinascimentale si organizza su base razionale, in virtù dell’amministrazione e della legislazione dello Stato, esso stesso diviene principio di conservazione e di salvezza, a maggior ragione perché convive pacificamente con la società religiosa. Nondimeno verso la fine del rinascimento si inorgoglisce sempre di più fino a promuovere guerra nei confronti della religione; infine neutralizza completamente la propria influenza volgendo verso se stesso l’arma dell’analisi filosofica degradata a livelli di scetticismo pratico e dilettantismo. Contemporaneamente critica i fondamenti dello Stato di cui lo stesso è fondatore, li perturba a piacimento dei sistemi stessi, sia individualisti , sia collettivisti e infine lo fa traviare. Questo percorso è rapido. Nel corso della rivoluzione francese vi era il culto positivo della ragione e dello Stato. Cento anni dopo, vi sono lo scetticismo universale e le critiche spassionate contro lo Stato.

Lo spirito critico finisce come il denaro nell’aggio (provvigione).                  .[6]

 

LA SUCCESSIONE DELL’ERA PAGANA E DELL’ERA CRISTIANA

In conseguenza delle osservazioni sopra esposte appare chiaro che i medioevi e i rinascimenti devono essere presi in coppia. Un medioevo seguito da un rinascimento produce ciò che si può chiamare un’era. L’era antica è costituita dal medio evo pagano e dal rinascimento pagano mentre l’era moderna dal medio evo cristiano seguito dal rinascimento cristiano.

La crisi che separa le due epoche è delimitata da determinate caratteristiche quali la migrazione dei popoli e le innovazioni religiose. Essa è più violenta e più profonda rispetto a quella che separa le due fasi, medioevo e rinascimentale, all’interno della medesima era.

E’ all’inizio dell’era moderna che avvengono le migrazioni di popoli che hanno rinnovato la società positiva ed è sempre in tale periodo che si è avviata la propagazione del cristianesimo.

All’inizio dell’epoca antica si è avuta una migrazione di popoli poco nota , ma di cui si è conservata la memoria, soprattutto in Grecia. Ed in quello stesso periodo che si sono propagati i culti degli dei pagani. Certamente in un prossimo futuro,  visto che siamo alla fine dell’età moderna, si dovrà avere una migrazione di popoli e un rinnovamento religioso.

Nondimeno, indipendentemente da ciò che sarà nell’avvenire cerchiamo di renderci conto della successione di ere nel passato.

Alla fine del Rinascimento tutto è chiaramente esaurito, la società positiva e i fattori di coesione. La società positiva è usurata perché gli stessi uomini della stessa razza hanno successivamente provato sia l’organizzazione feudale sia l’organizzazione statale talché sono loro rimasti impressi i vizi e i rancori di ambedue i sistemi. Ugualmente sono esauriti anche i fattori di coesione (tissus) redentori, quelli religiosi per via della lotta contro lo spirito critico, quelli metafisici per via del suicidio nello spirito critico e nello scetticismo universale.  La razza ha cessato di esprimersi ed ha eaurito qualsiasi combinazione.

L’unica cosa che potrebbe rinnovare la società attuale sarebbe un apporto di nuove popolazioni. La migrazione dei popoli e le invasioni barbariche si producono con facilità perché la civilizzazione nell’epoca rinascimentale è volentieri cosmopolita; inoltre, non appena attirate nella civiltà tali popolazioni sono stimolate dalle ricchezze accumulate e dal fatto che la loro forza avrà a servizio armamenti perfezionati e invenzioni distruttive.

Il solo evento che potrebbe rigenerare i fattori di coesione sarebbe un risveglio della fede. Cosa assai notevole dato che già per due volte il germoglio di una nuova fede è venuto da fuori o almeno da regioni eccentriche. I culti pagani venivano quasi tutti dall’Asia, il cristianesimo è venuto dalla Giudea. L’oriente sembra avere sulla civilizzazione occidentale un effetto singolare, nel bene come nel male. Esso corrompe ed offre salvezza. In ogni caso interviene nel corso di ogni crisi. Può darsi che nell’avvenire il cristianesimo sarà resuscitato grazie a quelle popolazioni orientali che ancora oggi forniscono dei martiri.

Una volta rinnovato il mondo attraverso l’invasione e la religione è prevedibile che l’età moderna sarà seguita da un medio evo, atteso che l’organizzazione feudale è naturale nella società positiva; e siccome lo spirito critico è sparito insieme ad una parte della cultura intellettuale, solamente la religione potrà istituire le organizzazioni. E’ così che il ciclo ricomincia.

 

Maurice Hauriou

(traduzione di Federica Klitsche de la Grange)

[1] Traduciamo con “Fattori di coesione” il termine tissu (tessuto, ordito) che il giurista impiega in diverse sfumature di significato, prevalentemente riferentesi a rappresentazioni del mondo ordinanti ovvero a elementi/fattori di ordine sociale e organizzazione di e tra le istituzioni.

[2][2] O.1669, art.4 tit.25; L. 15-28 marzo 1970, art.30, titolo II; L.28 agosto 1792; V.Merlin, Répertoire, V triage.

[3] La dissociazione delle idee e dei sentimenti provocata dallo spirito critico si estende sfortunatamente fino alla morale. Quest’ultima non sembra più pertinente a ogni ruolo sociale, ma come ristretta a determinati stati, come ad esempio la professione ecclesiastica. Si sono create delle morali sempre più leggere. Vi è quella del commerciante, quella  del figlio di famiglia, ecc. D’altronde l’arte si dissocia dalla morale;  fa capolino la teoria dell’arte per l’arte, ecc. Ne consegue che dalla penitenza fatale si arriva al materialismo pratico.

[4] Sappiamo bene che il denaro è anche una mercanzia ma se tale bene non servisse che a fare dei gioielli e non fosse il segno di misura per tutti gli altri esso avrebbe ben poco valore.

[5] I veri fondatori del pensiero laico sono  di gran lunga antecedenti a Galileo e Descartes, si tratta dei giuristi del XIV secolo che studiavano il diritto romano come ragione scritta.

[6] Il ruolo dissolvente dello spirito critico è stato perfettamente stigmatizzato da Auguste Comte (46esima lezione, Cours de phil.positive). Vale sottolineare che ad oggi ciò che rende il partito conservatore quasi incapacitato ad opporsi alla disorganizzazione sociale deriva dal fatto che è diviso in due dalla questione del clero; ciò è opera dello spirito critico.

 

GRIDO DI DOLORE E DI VENDETTA, di Piero Visani

Come vive la gente

 

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Ci sono persone che mi sono simpatiche a prima vista, anche se non le ho mai viste e probabilmente mai le vedrò. Una di queste – la più recente, direi – è Jacline Mouraud, la signora francese di 51 anni anima e guida della protesta dei “giubbotti gialli”.
Di lei amo la concretezza, così lontana dalle fumisterie dei politici di professione e dalle cifre snocciolate ad hoc dagli economisti “embedded” (sapete quanti ce ne sono, vero…?). Non ho mai sopportato i discorsi su la società democratico-liberal-capitalistica come “il migliore dei mondi possibili” neppure quando qualche briciola dei suoi cascami me la garantiva. E vivevo discretamente, magari andandomi a cercare il lavoro nei posti e nelle attività più disparate, ma vivevo. Non avevo ambizioni di fare l’intellettuale organico, per cui difendevo la mia personale autonomia di pensiero senza leccare le terga ad alcuno, dunque non ricevendone incarichi, se non molto parziali, ma sbarcavo il mio personale lunario cercando lavoro ovunque fosse possibile trovarlo.
Poi, ovviamente, la caduta: all’emarginazione politica si viene ad aggiungere – con lenta ma inesorabile progressione – l’emarginazione economica: attività un tempo fiorenti svaniscono, altre vengono vietate, altre ancora diventano mercati dove la concorrenza è talmente forte e aspra da azzerare i prezzi delle prestazioni e, in non pochi casi, anche la possibilità di essere pagati. Alla fine, restano solo quelle a convocazione politica e io a quelle non posso davvero ambire.
Nessuno mi ha mai parlato di queste cose, nei suoi discorsi, salvo pochi amici fidati. Ma silenzio assoluto sul versante “borghese” e silenzio ancor più assoluto su quello politico, forse perché toccare certi temi pare di cattivo gusto.
Jacline Mouraud, per contro, traccia un quadro personale realistico: molte attività, nessuna in grado di procurare un introito dignitoso perché tutte molto malpagate; tasse, spese varie, un progressivo impoverimento che porta le persone a vivere come underdog, nel “migliore dei mondi possibili”. Gli apologeti di quest’ultimo ci cantano le lodi di un sistema attento all’ambiente, ai “diversi”, ai migranti, alla salute individuale e collettiva, dimenticandosi solo di sottolineare che, se uno deve lavorare 12-13 ore al giorno per portare a casa – a fatica – un migliaio di euro al mese comincia a fregarsene bellamente del “migliore dei mondi possibile” e dei “massimi sistemi”, semplicemente perché il sistema “minimo” in cui è immerso fa acqua da tutte le parti, fa schifo e non gli consente di vivere non dico in maniere dignitosa, ma men che dignitosa. E visto il numero di poveri assoluti che crea anno dopo anno, non gli consente nemmeno di vivere più.
       
Ho avuto la fortuna di leggere e studiare molto nel corso della mia vita, per cui non ho ansie particolari: so che chi semina povertà, insoddisfazione economica, tristezza, dolore, disagio, non sta facendo qualcosa che potrà giovargli molto. Non dico a titolo personale, ma certo non gioverà al sistema che sta cercando di difendere. Così guardo e aspetto: ogni giorno di dolore e di sofferenza in più è un livello di rabbia, di volontà di riscossa e di vendetta in più. Chi semina vento, raccoglie tempesta, si dice. E chi semina dolore e miseria, cosa raccoglierà?. E, se in Italia questo non incide granché, sebbene noi siamo messi assai peggio di altri popoli, altrove magari non è e non sarà così, grazie a una superiore volontà di reazione.
Vedo i ricchi e i boiardi di sistema che se la godono, sorridenti e autoreferenziali, e so che verrà il giorno che me la godrò io, o chi per me. La diffusione deliberata di miseria e dolore, spacciata per un grande operazione democratica e di correttezza economica è una responsabilità di cui dovranno rispondere in molti. Anche chi ora non ci pensa avrà la sua Norimberga, dunque un tribunale assolutamente democratico ed equilibrato…
 
                                        Piero Visani

ISTITUZIONE TRA SCIENZA POLITICA E DIRITTO, di Teodoro Klitsche de la Grange

ISTITUZIONE TRA SCIENZA POLITICA E DIRITTO

già pubblicato sul periodico Behemoth ( http://www.behemoth.it/index.php?nav=Home.01 ) nel 2012

  1. Nelle “Lezioni di politica – Scienza della politica” Gianfranco Miglio dedica un capitolo dell’opera alla “teoria delle istituzioni” facendo considerazioni acute ma in qualche misura non del tutto conseguenti sia all’opinione dei giuristi cui riconosce di aver elaborato la teoria delle istituzioni (Maurice Hauriou e Santi Romano) sia (in qualche misura) con i presupposti, altrove svolti, delle proprie concezioni.

Sostiene Miglio che la teoria istituzionalista di Hauriou “è l’estremo prodotto di una capacità di elaborazione concettuale che si è avuta, in particolare fra i giuristi di scuola tedesca, durante la seconda metà del XIX e i primi decenni del XX secolo”; e spiega come nasce questa teoria”Abbiamo visto come l’uomo sia interessato a conoscere le regolarità del mondo che lo circonda e del comportamento dei suoi simili, perché operando in questo modo sa anche come regolarsi. Ma proprio per questo, l’uomo tende a costruire queste regolarità: in altri termini, tende ad organizzare il suo avvenire, proprio regolando il suo comportamento e tentando di regolare il comportamento degli altri. Qui abbiamo a che fare con regolarità non meramente ontologiche… siamo in presenza di norme e di regole teleologiche… Hauriou dice: «Ciò che fa un’istituzione è un complesso di norme legate, tenute insieme da un fine». In realtà cerchiamo di organizzare teleologicamente il mondo che ci sta intorno, in relazione ai fini”, pertanto “le istituzioni si presentano come giuochi preordinati” e così “l’istituzione è la manifestazione più concreta della vocazione che ha l’animale uomo a organizzare il futuro”; è lo sviluppo della tendenza peculiare della natura umana “l’istituzione è la manifestazione più tipica dell’uomo. Il passaggio da una regolarità ontologica a una teleologica, cioè preordinata e voluta, non è nient’altro che l’estendersi di questa capacità di organizzare ‘previsionalmente’ il futuro”[1]. Subito dopo Miglio distingue tra istituti-norma e istituti-organo.

Distinzione non nuova; per Miglio “generalmente ogni ‘istituto-organo’ nasce da un ‘istituto-norma’”: all’obiezione per cui esistono istituti-organo che nascono “di fatto”, replica che l’istituto-organo può non essere generato da una norma formale e prosegue “Nessuna legge, nessun regolamento l’ha posto in essere. Ma è proprio vero che non esiste un meccanismo normativo, un complesso di norme a monte di questo processo?… se più persone si ritrovano abitualmente – ad esempio convengono di ritrovarsi ogni settimana, ogni mese – e compiono determinati atti, determinate azioni, secondo precisi rituali, ciò accade perché coloro che così si comportano hanno come convinzione questa regolarità” e conclude “In altri termini, ciò che caratterizza la regolarità indispensabile per poter parlare dell’‘istituto-organo’, è l’esistenza di un certo modello di comportamento, che non è consolidato in nessuna norma formale, ma attiene all’ordine della consuetudine, che è anch’essa un ‘istituto-norma’… La verità è che l’unica entità originaria, che sta a monte, è l’‘istituto-norma’. L’‘istituto-organo’ è una sottospecie dell’‘istituto-norma’. Non può esistere un ‘istituto-organo’ se non c’è a monte un ‘istituto-norma’, un modello dal quale dipende, una consuetudine”. Per cui “Quelli che chiamiamo ‘istituti-organo’ e che crediamo siano cose concrete, legate a fattori materiali, in realtà non sono altro, in quanto istituzioni, che procedure convenute”. Anzi tutto il diritto consiste di procedure: per cui “Allora ecco il sospetto: che tutto il diritto si riduca a procedura convenuta; che le istituzioni siano proprio procedure convenute, comportamenti prefissati e siano tutte soltanto diritto”.

Miglio, quindi, contesta che “Legioni di storici e di giuristi hanno affermato senza dubbi: «Attiene all’ordine del “diritto pubblico” , che è “politico”». Allora come mai all’interno dello Stato si è prodotto il “politico” che è entrato in conflitto distruttivo con lo Stato?”[2]. Politica e diritto pubblico non coincidono: da una parte perché “la politica oggi si svolge  in gran parte contro lo Stato e comunque al di fuori dello Stato, i partiti, le corporazioni e via dicendo. E’ perché l’apparato che definiamo “Stato moderno” è in gran parte “diritto” e quindi struttura del “privato”. Originariamente lo Stato moderno è nato come un’aggregazione politica e come sintesi politica, ma tutto quello che ha fatto il suo “gran corpo” è nell’ordine del privato, perché è nell’ordine del diritto e là dove c’è diritto è inutile parlare di diritto pubblico”, dall’altra “Il “pubblico” o è politico o non è niente, perché se è diritto è privato. Esistono numerose prove, specialmente nella storia del diritto amministrativo, dei rami più recenti del diritto e nella storia del diritto pubblico”; e prosegue “Nel sistema politico che caratterizza la nostra età, lo Stato (moderno), ci sono un’origine e un nucleo politico e c’è un nucleo che attiene all’ordine del “privato” e che “politico” non è, perché appunto è diritto e appartiene all’area del contratto”[3].

  1. Secondo i giuristi istituzionalisti e in particolare i due più noti citati da Miglio, cioè Santi Romano e Maurice Hauriou il problema posto da Miglio (o meglio i problemi, tra loro concatenati), riconducibile al rapporto tra politico e diritto nello Stato moderno, non può risolversi separando, anzi negando, il diritto pubblico, né riconducendo agli strumenti prevalentemente impiegati (contratto o “provvedimento”) la linea di confine, né ritenendo che se entra in campo una regolazione giuridica, esce di scena la politica.

E’ d’uopo ricordare quanto scriveva Santi Romano. Questi nell’“Ordinamento giuridico” contesta che il diritto  sia norma (regola) “Ciò a cui si pensa, dai giuristi e, ancor più, non giuristi, che ignorano quelle definizioni del diritto di cui parliamo, è invece qualche cosa di più vivo e di più animato: è in primo luogo, la complessa e varia organizzazione dello Stato italiano o francese; i numerosi meccanismi o ingranaggi, i collegamenti di autorità e di forza, che producono, modificano, applicano, garantiscono le norme giuridiche, ma non si identificano con esse”[4], e prosegue “In altri termini l’ordinamento giuridico così comprensivamente inteso, è un’entità che si muove in parte secondo le norme, ma, soprattutto, muove, quasi come pedine in uno scacchiere , le norme medesime, che così rappresentano piuttosto l’oggetto e anche il mezzo della sua attività, che non un elemento della sua struttura. Sotto certi punti di vista, si può anzi ben dire che ai tratti essenziali di un ordinamento giuridico le norme conferiscono quasi per riflesso: esse, almeno alcune, possono anche variare senza che quei tratti si mutino”.

Nella concezione di Santi Romano l’istituzione è un’organizzazione dei poteri e, in quella statale (e pubblica) – del rapporto di comando-obbedienza e quindi è questa a essere la realtà del diritto quale collegamento di autorità e forza che produce, modifica, applica, garantisce le norme. Più tardi nel “Diritto costituzionale generale” scrive che lo Stato non ha ma è un ordinamento giuridico[5].

Quindi lo Stato è in primo luogo un’organizzazione di poteri (prima che un insieme di norme).

Il rapporto tra potere e regole trova la propria valvola di sicurezza nella necessità che è fonte del diritto, superiore alla legge[6]: la tensione tra “obbligazione politica” e “contratto-scambio”, il dualismo ricorrente nel pensiero di Miglio, è risolto nell’ordinamento , cioè nel diritto (che non s’identifica, è appena il caso di ricordarlo, con la legalità).

Hauriou distingue “due specie di regole d’origine istituzionale, il diritto disciplinare e il diritto statutario che sono, in una certa misura, la controparte e il correttivo l’uno dell’altro”[7], e così contribuiscono all’equilibrio dell’istituzione e delle forze che la sostengono.

Il diritto disciplinare “rappresenta” (représente) l’interesse del gruppo espresso dalla coercizione del potere di dominio”. Il diritto statutario “rappresenta l’interesse del gruppo espresso dall’adesione individuale dei componenti alle procedure collettive della vita dell’istituzione”.

Il diritto disciplinare è repressivo e organico. E’ organico perché la forza di un’istituzione e il suo peso non si esercitano solo sui “trasgressori” ma su tutti, per forzarli ad accettare le organizzazioni create all’interno dell’istituzione”[8]. Il diritto disciplinare non comporta solo regole generali per l’oggetto (regolato) ma anche ad oggetto particolare, tuttavia opponibili a tutti e sanzionabili nei loro confronti.

Caratteristica ancora più importante è la sanzione. La sanzione del diritto disciplinare è la coercitio pura e semplice, ossia l’esecuzione con la forza a disposizione del funzionario (magistrat)[9]. Il diritto disciplinare va distinto dal diritto pubblico dello Stato, la cui caratteristica è di non ammettere sanzione se non statuita da un Giudice pubblico[10]. Il diritto pubblico ha progressivamente ammesso (e annesso) intere aree del diritto disciplinare, e ciò ne rivela l’origine e l’importanza che ha nella storia del diritto “constituant une des couches profondes du tuf juridique”[11]. Il diritto statutario è anch’esso generato dall’istituzione, Comporta delle regole, ma ancora più interessanti sono gli atti e le procedure che implica. Queste procedure sono legate alla vita dell’istituzione, sono i percorsi che segue nel suo movimento uniforme[12]; costituiscono un diritto che differisce da quello disciplinare perché ammette il punto di vista individualista dei componenti il gruppo combinato con le necessità sociali. Tipico è il procedimento (e le regole) maggioritario[13].

Nel “Précis de droit constitutionnel” la distinzione che Hauriou evidenzia è tra diritto disciplinare e diritto comune. Il primo è disciplinare, interno, gerarchico, dove le parti non sono pari, neanche davanti al Giudice. Già esisteva nelle famiglie patriarcali e nei clan: “les grecs appellaient Thémis cette sorte de justice organique”. Ma accanto a questa, si costituiva un altra giustizia che i Greci chiamavano Diké[14].

La sorgente di Thémis era l’organizzazione sociale, quella di Dikè l’attitudine sociale dell’uomo (sociabilité) “qui ne perd pas ses droits même vis-à-vis des étrangers, même vis-à-vis des ennemis”. All’epoca della formazione dei premiers états, confederazioni di clans, fu necessario dirimere dalle liti tra clan diversi (e i loro membri) con Tribunali arbitrali, accanto alla giustizia (interna) ai clan. Così questo diritto nato prima della polis (cité) fu integrato in questa[15]. Ciò che ha impedito al diritto comune (Diké) di confondersi con lo Stato “sont ses tendances internationales”: come il commerce juridique non conosce frontiere e si applica sia ai rapporti con gli stranieri che a quelli tra nazionali. Per cui “Entre un État, qui est forcément national, et un droit commun à tendances internationales, la fusion est impossible”. Diritto comune e Stato sono due sistemi d’idee che possono rendersi utilità reciproche e un mutuo appoggio, ma cui le tendenze divergenti impediscono di confondersi completamente.

Il diritto comune corrisponde a quello che nei “Principes de droit public” Hauriou chiamava le “commerce juridique”. Questo è un insieme di forme giuridiche generate dal “commerce economique” legato ad una forma di società assai diversa dalla forma politica[16]. Forze politiche e forze economiche, lottando tra loro, generano due forme di società e di diritto[17]. Non bisogna comunque esagerare con la contrapposizione di questi due “tipi” di convivenza sociale: in primo luogo perché ambedue compongono la società e sono inseparabili[18]. In se “le phénomène de l’échange et des relations d’affaires n’est pas dans la donnée logique de l’institution politique. Celle-ci repose sur le pouvoir, l’échange repose sur la valeur, deux notions qui sont hétérogènes l’une à l’autre”[19].

Inoltre il commercio ha una “vocazione” internazionale: ha delle sfere territoriali ma queste non si confondono con le frontiere politiche[20].

Il “commerce juridique” sostiene poi Hauriou, con le sue regole peculiari è penetrato nel diritto amministrativo (quindi pubblico) francese[21]. A tale proposito appartiene – scriveva Hauriou – ai giudici amministrativi “ce que l’on appelle un contentieux de la pleine juridiction qui est originairement le contentieux du commerce juridique[22]. Quindi Thémis e Diké hanno dei “punti” d’incontro, distinguibili concettualmente, ma assai meno sotto il profilo organico e oggettivo: l’accumulo di differenti “tipi” di giurisdizione (per i giudici amministrativi italiani quella generale di legittimità, quella esclusiva e quella di merito) ne è un esempio, così come la tutela da parte dello stesso Giudice di situazioni soggettive diverse (diritti e interessi legittimi).

  1. A questo punto è opportuno evidenziare le differenze. Per Miglio lo Stato moderno è essenzialmente (e prevalentemente) un prodotto del diritto come contratto – scambio; e tutto il diritto è procedura[23]. Il diritto pubblico ha qualcosa di “equivoco”[24]. Adoperando il concetto d’istituzione “arriviamo a una conclusione solo apparentemente paradossale: quello che chiamiamo «Stato (moderno)», essendo un complesso di procedure convenute, di ordinamenti giuridici, non è politica. Si capisce allora perchè lo Stato e la politica tendono ad andare per la loro strada”[25].

Per cui occorre districare “l’intreccio tra politica e diritto e distinguere fra quello che nello Stato è ormai diventato soltanto diritto (e quindi solo “contratto-scambio”) da ciò che invece perennemente sfugge a questa istituzionalizzazione, ossia la politica, generata e legata a un rapporto che non è di “contratto”, che non produce diritto, come quello relativo all’obbligazione politica”; l’analisi del problema delle istituzioni “ci ha condotto non solo a chiarire un problema tecnico molto rilevante, ma anche ad avere ennesima conferma della validità dell’ipotesi dalla quale abbiamo preso le mosse, che distingue radicalmente l’obbligazione politica dall’obbligazione-contratto”. Quindi contrariamente a quello che sosteneva Hauriou del dualismo delle fonti del diritto (e della giustizia), (ossia l’istituzione e “commercio giuridico”), ma che sempre diritto (di tipi e origine diversa) era, il dualismo di Miglio è diverso e radicale: dove c’è obbligazione politica non c’è contratto-scambio: la commistione di queste negli ordinamenti non può confondere le differenze. Si può concordare su questo (cioè sulla distinzione dei concetti) con Miglio, ma comunque la commistione ha generato (e/o conservato), seguendo Hauriou, due tipi di diritto; e il fatto che il diritto “pubblico” sia tale deriva non soltanto dall’ovvio argomento che esiste, ma anche da un’analisi concettuale e storica.

La distinzione tra due diritti risale, com’è noto, al diritto romano ed al frammento di Ulpiano che “apre” il Digesto[26]. Il fundamentum distinctionis più rilevante è condensato da Jellinek – e ripetuto prima e dopo di lui da altri (tanti), che il diritto privato regola i rapporti di coordinazione tra individui, quello pubblico di subordinazione[27] . Anche se si pone il problema della difficoltà del criterio,potendo lo Stato (e gli altri enti pubblici) operare anche come “subietto economico privato”; come, d’altra parte, insegnava la dottrina del Fisco (Fiskuslehre)[28], anche se evolutasi in concezioni più moderne. Per cui “Diritto pubblico è quello che vincola un ente collettivo fornito di potere di signoria nei suoi rapporti con persone ad esso eguali oppure subordinate” e “Un potere di signoria diviene giuridico per il fatto di esser limitato: diritto è forza giuridicamente limitata”. Kelsen rileva, in relazione alla distinzione tra diritto pubblico e privato che “Secondo l’opinione più diffusa, si tratta di una suddivisione dei rapporti giuridici tale che il diritto privato indica un rapporto fra soggetti di ugual ordine e del medesimo valore giuridico, e il diritto pubblico indica un rapporto fra un soggetto sopraordinato e uno sottordinato, un rapporto quindi fra due soggetti dei quali l’uno ha un valore giuridico maggiore dell’altro. … Il maggior valore giuridico che spetta allo stato, e cioè ai suoi organi in rapporto ai sudditi, consiste nel fatto che l’ordinamento giuridico attribuisce alle persone qualificate come organi dello stato, oppure a certuni fra loro, i così detti organi dotati  di potestà d’impero, la capacità di obbligare i sudditi per mezzo di una manifestazione unilaterale di volontà (ordine)”. Ed esemplifica la distinzione facendo gli esempi dell’ordine amministrativo o del negozio giuridico. In quest’ultimo “i soggetti che sono obbligati partecipano alla produzione della norma che obbliga, e in ciò consiste del resto tutta l’essenza della produzione del diritto contrattuale, là, nell’ordine amministrativo di diritto pubblico, il soggetto che deve essere obbligato non ha nessuna parte nella produzione della norma che lo obbliga. Questo è il caso tipico di una produzione autocratica di norme; il contratto di diritto privato rappresenta invece un metodo espressamente democratico di produzione giuridica”. Dopo di che la conclusione è che “… la dottrina pura del diritto, dal suo punto di vista universalistico, sempre rivolto alla totalità dell’ordinamento giuridico, come alla così detta volontà dello stato, scorge anche nel negozio giuridico privato, come nell’ordine amministrativo, un atto dello stato, cioè un fatto produttivo di diritto che deve essere attribuito all’unità dell’ordinamento giuridico. Con ciò la dottrina pura del diritto relativizza il contrasto fra diritto pubblico, e privato che la scienza giuridica tradizionale aveva considerato come assoluto; essa lo trasforma da una distinzione extrasistematica, cioè fra diritto e non diritto, tra diritto e stato, in una distinzione intrasistematica, e con ciò si convalida come scienza appunto perchè supera anche l’ideologia che è unita all’idea di concepire come assoluto questo contrasto”. La distinzione quindi tra diritto pubblico e privato non ha nulla di essenziale e così i corollari e le conseguenze della medesima[29].

Questa, e altri criteri distintivi simili a quello (e/o al frammento di Ulpiano) sono stati ripetuti così sovente che non è il caso di ricordarli[30].

Come sostiene Miglio, anche sulla base (di parte) della dottrina amministrativista italiana del tardo novecento, lo Stato moderno (e soprattutto lo Stato “sociale”) ha acquisito molte più funzioni (e servizi), e li esercita con strumenti e modelli di diritto privato (tipico è il caso degli enti e delle aziende pubbliche economiche), per cui quello che guadagna in estensione lo perde in imperatività; resta il fatto che un nucleo – robusto – delle funzioni dello Stato, minoritarie come costo (e importanza) economica, ma maggioritarie come incidenza e orientamento sulla vita comunitaria, restano gestite con i sistemi “tradizionali”. Il cui connotato comune (relativamente agli atti) è la c.d. “imperatività”, ossia la trasposizione nella terminologia degli amministrativisti del rapporto di comando-obbedienza, uno dei presupposti – come scrive Freund – del politico[31].

Tale rapporto – quasi sempre – si esercita attraverso atti e procedure giuridiche, e il cui connotato è di poter essere controllate (annullate, disapplicate) dal Giudice. Rarissimo – ancorché politicamente decisivo – è il caso di atti sottratti al sindacato giurisdizionale; più frequente invece, quello di atti – e anche di mere azioni (non “formalizzate” in un provvedimento) – che si fondano sul potere di comando e sulla correlativa coercitio[32]. Quanto alla prima classe di atti (i quali) non sono justiciables: e la giurisprudenza francese, con un lavoro più che secolare li ha ricondotti  ad una liste jurisprudentielle, includendovi in particolare quelli relativi ai rapporti internazionali, ai rapporti tra organi costituzionali, poi anche le misure eccezionali di cui all’art. 16 della Costituzione della V Repubblica. Se poi si prova a raggruppare i caratteri comuni peculiari di tali atti consistono nello scopo per cui sono presi: la difesa della società o del governo dai nemici (esterni ed interni), la sicurezza della comunità, la tutela (almeno) dei diritti dei cittadini alla vita e ad un’esistenza ordinata. In altre parole coincidono, in larga parte con quelli che costituiscono il fine dello Stato quale istituzione. Cioè quello “politico” per eccellenza.

Il problema era posto anche in Italia, dato che l’art. 31 T.U. 26/6/1924 nel Consiglio di Stato (sostanzialmente ripetitivo dell’art.24 del precedente T.U. 2/6/1889) prevede l’inammissibilità del ricorso al Consiglio di Stato per impugnare atti “emanati dal Governo  nell’esercizio del potere politico”[33].

Quindi, se è vero che lo sviluppo dello Stato borghese ha da un lato “separato” la società dallo Stato, garantendo i diritti fondamentali, e dall’altro ha sviluppato tutta una serie di controlli e limiti interni ed esterni all’esercizio dell’attività pubblica – amministrativa (che è quella quantitativamente prevalente) – restano comunque degli atti, pertinenti al politico, non controllati né dal Giudice né da altri; così come azioni (di soggetti pubblici) che non si fondano (e non si estrinsecano con) atti e provvedimenti formali, ma sul potere di coercitio spettante al funzionario.

Proprio questi sono i principali indici che il diritto pubblico  è da una parte il rivestimento in forme giuridiche del “presupposto del politico” (Freund) di comando-obbedienza, dall’altra proprio perciò, questo genera un diritto, che, pur essendo tale, presenta connotati differenti e per certi versi opposti a quello privato. Come scrive Hauriou riguardo alla teologia (e alla metafisica) anche qui il diritto non è che l’involucro di un “fond”, nella specie, politico. Che, a seguire le doyen, comincia molto presto con lo Stato moderno, già sotto Luigi XIV: “i grandi ufficiali della corona sono sostituiti da sotto-segretari di Stato come Colbert e Louvois: la monarchia diviene amministrativa e il suo potere politico si riveste (se double) d’un potere amministrativo”[34].

Resta il fatto che, come notato da Carl Schmitt, lo Stato borghese, malgrado la regolamentazione giuridica, ha comunque i suoi poteri eccezionali, per cui c’è un’espansione della regolamentazione giuridica nelle attività pubbliche, ma mai totale. A conclusioni analoghe era giunto Jellinek, partendo dalla distinzione tra attività statale libera e vincolata[35].

Per cui non è condivisibile la concezione di Miglio dell’opposizione irriducibile tra politica e diritto (se non in senso concettuale “puro”). É invece preferibile l’ipotesi che con l’incontrarsi nel concreto (in particolare dello Stato borghese), esigenze politiche da un lato, dall’altro principi del Rechtstaat, (e precedentemente, la razionalizzazione (anche) giuridica perseguita dalla monarchia assoluta), hanno generato un tipo di diritto a se:  il diritto pubblico dello Stato moderno. Categoria che non può essere ricondotta né al diritto privato, per le differenze essenziali, come, prima tra tutte, l’eguaglianza tra le parti del rapporto; né alla politica, per la proceduralizzazione, e la sottoposizione ai controlli, soprattutto a quello giudiziario, della quasi totalità dell’attività pubblica per così dire “quotidiana”.

D’altra parte la distinzione che fa Hauriou tra diritto disciplinare e diritto comune, ricorda da vicino quella di Max Weber tra ordinamento amministrativo e ordinamento regolativo.

Secondo Weber gli ordinamenti statuiti possono sorgere: “a) mediante una libera stipulazione; b) mediante un’imposizione e una corrispondente disposizione ad obbedire. Un’autorità di governo in un gruppo sociale può pretendere la forza legittima per l’imposizione di nuovi ordinamenti” (ovviamente lo Stato moderno è un ordinamento politico, territoriale, imposto). Tra gli ordinamenti è essenziale distinguere amministrativi e regolativi[36]. Definendo cosa sia “l’agire del gruppo” Weber premette che l’ordinamento “può contenere anche norme in base alle quali deve orientarsi in altre cose l’agire dei membri dei gruppo sociale: per esempio, nello stato, l’«economia privata» che serve non all’imposizione coercitiva della validità dell’ordinamento del gruppo, ma a interessi particolari, deve orientarsi in base al diritto «privato»”; ma solo nel caso dell’ “agire dell’apparato amministrativo” si può parlare di “agire riferito al gruppo”[37].

Si può notare come l’ordinamento amministrativo ricordi da vicino il diritto generato dall’istituzione di Hauriou (sia disciplinare – in primo luogo – che statutario) e l’ordinamento regolativo il diritto comune del giurista francese. Le analogie non nascondono tuttavia le differenze. Weber pone l’accento prevalentemente sull’imposizione dei comandi (le statuizioni) riferibili all’istituzione, Hauriou, senza trascurare l’aspetto del comando, sottolinea maggiormente la necessità dell’ “accettazione”, o meglio del consenso perché vi sia un ordinamento stabile, un pouvoir de droit che comandi quale rappresentante dell’istituzione fondamentale, creando e garantendo l’ordine. Ordine che comprende anche il (rispetto del) diritto comune (Diké) non generato dall’istituzione (ma prima e/o fuori). L’eccezione ovvero il gouvernement de fait (il governo rivoluzionario o di fondazione) tende sempre a diventare governo di diritto attraverso il riconoscimento (interno ed esterno) e il ripristino di una situazione normale, segnatamente dal punto di vista istituzionale[38].

Anche Santi Romano scrive, a proposito del riconoscimento popolare di un ordinamento “nuovo” (cioè rivoluzionario) “quando di riconoscimento in tal senso si parla, non s’intende accennare ad un atto, ad un procedimento cosciente di un subbietto che sia fornito di capacità, di volontà suscettibile di produrre effetti dal diritto sanzionati, ma di un procedimento che può anche essere incosciente e che non è dal diritto regolato. In altri termini, non si tratta di un principio, di una norma, di un istituto giuridico, ma di un fenomeno sociale[39].

A prendere il più diffuso criterium differentiae tra diritto pubblico e privato, e cioè il carattere imperativo/impositivo del primo (e la connessa, indispensabile ineguaglianza tra i soggetti del rapporto), opposta a quello pattizio-paritario del secondo, appare evidente che il diritto pubblico è frutto della “giuridificazione”, come cennato, del rapporto di comando-obbedienza, cioè di un presupposto del politico. Ed è quindi essenzialmente politico. Né può inficiare questa considerazione il fatto che il costituzionalismo e tutto lo sviluppo dello Stato borghese abbiano costruito intorno a tale rapporto una rete di limiti, garanzie e controlli. Da un lato perché questi vengono meno – in tutto (o in quasi tutto) – nello stato d’eccezione, dall’altro perché concettualmente, non è razionalmente possibile l’esistenza politica di una comunità senza quello; mentre lo è senza controlli e limiti al potere, come la Storia dimostra, a partire dai Faraoni e per finire (per ora) alle dittature del proletariato; e come tanti da Hegel[40] fino a Santi Romano hanno sostenuto[41]. Quindi il fatto che lo Stato moderno sia il risultato della “fusione” di principi di forma politica e dei principi del Rechtstaat, come sottolineato da Carl Schmitt, non comporta che non sia un regime politico, e non una scorciatoia per “uscire dalla Storia”: piuttosto esso è il modo di esercitare il comando in società frutto dello spirito cristiano e del razionalismo occidentale in cui il tipo di potere prevalente è quello razionale-legale.

  1. Ci sono altri aspetti che occorre ricordare. Il primo è che molte delle funzioni acquisite (esercitate) dagli Stati nel XX secolo (e nella seconda metà del XIX secolo), non attengono all’essenza dello Stato (quale ente politico) ma all’accidentale, cioè non incidono, se non mediatamente, sul nucleo politico; senza le quali questo sarebbe perfettamente in grado di assolvere il proprio ruolo (idée directrice la chiamava Hauriou). Nel passo, sopra citato, di Hegel la distinzione tra essenza dello (Stato) politico e accidentalità dei compiti che assume è delineata con concisione ed efficacia. Ma se lo Stato (il potere pubblico-politico) assume compiti che non sono essenziali alla sua natura, non è neppure necessario, anzi per lo più è inopportuno, che lo faccia con i modelli propri delle funzioni politiche. Come scriveva Engels sia pure argomentando una tesi solo parzialmente assimilabile a quanto qui sostenuto “Ma nè la trasformazione in società anonime, nè la trasformazione in proprietà statale, sopprime il carattere di capitale delle forze produttive…Lo Stato moderno, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale. Quanto più si appropria le forze produttive, tanto più diventa un capitalista collettivo, tanto maggiore è il numero di cittadini che esso sfrutta. Gli operai rimangono dei salariati, dei proletari. il rapporto capitalistico non viene soppresso, viene invece spinto al suo apice”.[42]

Più tali compiti sono servizi del tutto analoghi a quelli che rende un’impresa privata (ad esempio le pensioni, analoghe alle rendite vitalizie; le prestazioni sanitarie, che possono parimenti essere rese da professionisti e società private, e tante altre), più i modelli di gestione e funzionalità si allontanano dal politico per accostarsi al privato. Ma questo non vuol dire che lo Stato non è più politico: ma che si allarga l’area del pubblico annettendo dei servizi e compiti privati[43].  Il politico si espande come appartenenza, ma tende a ridursi quanto ai “modelli” di gestione[44].

Ma non è solo l’ “annessione”  massiccia di compiti per così dire eudemonistici che spiega come lo Stato contemporaneo si sia, sotto tale profilo, “privatizzato”; c’è un altro aspetto, attinente alla stessa struttura, anche politica, dello stesso.

Ossia la partizione/distinzione del potere pubblico, politico e amministrativo; con una serie di status e garanzie diverse a seconda del carattere della funzione, nonchè procedure e requisiti (di nomina) diversi. Dato che però normalmente personale politico esercita (anche) funzioni meramente amministrative (ad es. il Sindaco o gli assessori del Comune) e di converso – anche se con frequenza (forse) minore – funzionari di carriera rivestono cariche a carattere (anche) politico[45], sorge il problema di distinguere, nell’ambito pubblico ciò che è politico da ciò che non lo è (e così il funzionario politico dal burocrate di carriera). Sul punto è stato già sopra scritto (relativamente all’ “atto politico”). A volerne ulteriormente precisare la connotazione occorre ricordare le considerazioni di due giuristi sul punto. Carl Schmitt, dopo aver ricordato il criterio della giurisprudenza francese del mobile politique per distinguere atti politici e no, ne da la definizione seguente “Ciò che costituisce l’atto di governo è il fine che si propone l’autore. L’atto che ha per fine la difesa della società presa in se stessa o personificata nel governo, contro i suoi nemici esterni o interni, palesi o nascosti, presenti o futuri: ecco l’atto di governo”[46]. Costantino Mortati sostiene che occorre distinguere tra ordinamenti giuridici a fini particolari e a fini generali: “gli enti del secondo tipo si costituiscono per il perseguimento di un fine generico, suscettibile cioè di comprendere in sé la soddisfazione di tutti i possibili interessi che possono o potranno essere avvertiti come necessari alla conservazione di un dato gruppo sociale”[47]. Una circostanza ricorrente e significativa è peraltro da ricordare ulteriormente: quando la funzione è (squisitamente) politica, non c’è tutela giudiziaria, nel senso del giudice indipendente e “terzo” (o è molto ridotta) e minori controlli. Non è solo il caso dell’”atto politico” ci sono – ad esempio – quelli dei diritti dei dipendenti di organi costituzionali o del controllo dei loro bilanci.[48]

Ne consegue che nell’ordinamento politico il perseguimento diretto del fine/i generico/i è ciò che connota la natura politica della funzione; diversamente dalla cura del fine specifico dei compiti particolari. Ma, il tutto non chiarisce esaurientemente la questione. Infatti l’altra “faccia” del problema è che alla funzione pubblica sono prescritti dei modi di funzionamento specifici; così come al funzionario-burocrate degli status e delle garanzie istituzionali specifiche. Ambedue aventi (prevalentemente) la propria radice nel rechtstaat.

Riguardo a ciò è particolarmente significativo quanto disposto nelle norme della Costituzione italiana relative alla pubblica amministrazione ed ai funzionari pubblici. Il relatore alla costituente, Ruini, sottolineava a proposito delle norme costituzionali relative che “Brevi sono gli accenni, per la pubblica amministrazione, al buon andamento ed alla sua imparzialità. Un testo di costituzione non poteva dire di più; ma si avverte da tutti il bisogno che il Paese sia ben amministrato, che lo Stato non sia solo un essere politico, ma anche un buon amministratore secondo convenienza e secondo giustizia”: con ciò “politico” era distinto (se non in sostanza contrapposto), dalla buona amministrazione[49]. Così carriere, obblighi, responsabilità, garanzie sono prescritti nella Costituzione e sotto riserva di legge[50].

  1. Miglio individua tra la classe politica e il seguito la categoria dell’ “aiutantato” cioè “quella dei ‘seguaci attivi’, di coloro i quali si dispongono in modo da aiutare la classe politica, i suoi membri”[51]. La tripartizione che fa Miglio (classe politica, aiutantato, seguaci) innova a quella sostanzialmente dualistica di Mosca e Pareto[52]. Nell’analisi dell’aiutantato lo studioso comasco inizia proprio dal criterio del comando (in base alla quantità del comando)[53].

Il primo elemento per quantificarlo è il quantum di discrezionalità[54]. Mano a mano che si scende nella scala di comando (dal vertice alla base dell’ “aiutantato”) la discrezionalità decresce, e aumenta la specializzazione (conseguenza peraltro, in tal senso, della “professionalità” della burocrazia nel tipo di potere razionale-legale di Weber). Per cui sul punto Miglio conclude “disponiamo di un mezzo per classificare i tipi di aiutantato. Gli aiutanti sono capi politici che presentano limiti nella loro discrezionalità, nella loro capacità di decidere”[55]. Dopo di che, e su questa base, Miglio imposta una tipologia dell’aiutantato, basata sul  rapporto tra decisione ed esecuzione (di evidente  ascendenza weberiana).

Al criterio della discrezionalità e della specializzazione – settorialità – se ne può aggiungere un altro, d’importanza (almeno) pari: è quello della subordinazione (controllo) per cui gli atti del funzionario subordinato sono sottoposti al controllo del funzionario gerarchicamente superiore, onde la discrezionalità del primo non ha la possibilità di esercitarsi del tutto “liberamente” nel proprio ambito, ma gli atti che pone in essere possono essere sostituiti, modificati o annullati dal secondo. Tale aspetto, non sempre presente nell’organizzazione dello Stato, è comunque particolarmente evidente nel corpo principale di essa, cioè quello della pubblica amministrazione, data la pluralità dei rimedi contro le decisioni degli organi subordinati (il ricorso gerarchico, connotato dal carattere “generale”, i ricorsi a commissioni speciali), mentre gli atti del potere supremo sono per definizione immodificabili e inappellabili; e più ci si avvicina al vertice, più la possibilità di riforma, riesame, sostituzione, diventa marginale ed eccezionale.

É interessante leggere all’uopo un “classico” dei manuali di diritto amministrativo, come quello  di Guido Zanobini “L’azione di quelle autorità, che fanno parte di uno stesso ramo della pubblica amministrazione, ha bisogno di  essere coordinata e diretta all’attuazione dell’unico fine, secondo criteri unitari. Questa coordinazione e unificazione viene attuata per mezzo di un particolare ordinamento, che prende il nome di gerarchia e che ha per essenziale principio la subordinazione degli organi inferiori a quelli superiori”[56].

Al contrario, come cennato, salendo verso il vertice i controlli, anche quelli di altri poteri (come il giudiziario) scemano, per estinguersi del tutto quando si arriva al potere sovrano. Il quale, per definizione, ha il connotato di non poter essere limitabile (giuridicamente) cioè di essere assoluto: carattere che lo distingue da tutti gli altri poteri pubblici[57]. Ne consegue che oltre essere limitato dall’oggetto (competenza) e nella discrezionalità, la materia affidata all’ “aiutantato” è anche soggetta alla sorveglianza, ai controlli (anche sostitutivi) degli organi e uffici sovraordinati.

Questo è un carattere decisivo, che ha colpito in particolar modo i giuristi, a partire dal passo, sopra citato, di Santi Romano (v. nota 4) per arrivare alle note critiche che Carrè de Malberg rivolgeva alla Stufentheorie di Kelsen, sostenendo che la gradazione delle norme non era data della qualità delle stesse (se legislative, amministrative, contrattuali) ma dal “grado di potere” che gli organi emananti hanno nell’organizzazione dello Stato[58]. O anche al concetto di gerarchia esposto da De Valles[59]. É chiaro che gli “aiutanti” non incardinati nell’organizzazione pubblica (privi cioè sia degli obblighi che dei diritti dei funzionati) non rientrano in tale distinzione.

  1. Occorre riscontrare in che misura il concetto di istituzione e di diritto pubblico dei giuristi sopra ricordati confligga con quello di Miglio: a mio avviso assai meno di quanto pensi quest’ultimo.

In primo luogo per la preminenza che nella concezione d’istituzione ha quello di potere e di organizzazione. Come scrive Schmitt, la distinzione tra le tre forme di pensiero giuridico che distingue non si fonda sull’esclusione del concetto dell’uno o dell’altra dal mondo giuridico, ma sulla prevalenza del concetto centrale di una rispetto a quello delle altre; onde non si nega che il diritto sia composto di istituzioni, norme e decisioni, ma che una lo caratterizza e lo comprende meglio delle altre[60].

I giuristi suddetti rifiutavano che, come scrive Miglio, alla radice degli istituti-organo vi fosse un istituto-norma.

L’istituzione è organizzazione dei poteri pubblici e del rapporto comando/obbedienza, al fine di conservare l’ordine sociale. Hauriou scrive che gli Stati moderni sono delle armate (civili) in marcia, come l’agmen tenuti a conservare l’ordine; i popoli (il “seguito” di Miglio) sono inquadrati “par une forte hiérarchie administrative” la cui rete ricopre il territorio; la prima opera dello Stato è fare di una comunità non organizzata e (quindi) incapace ad agire, “un corps organisé, vivant et puissant”[61].

Essenziale è il ruolo del centro direttivo o fondatore e degli organi (e dell’organizzazione) di governo. Il ruolo delle “norme” non è considerato primario:ad esserlo è il pouvoir che lo fonda; l’ordine sociale è costituito da idee, interessi, poteri di organi e organizzazione; segno evidente del ruolo secondario delle norme. Alle quali peraltro anche Santi Romano assegnava un ruolo per così dire accessorio (e strumentale) rispetto all’organizzazione (v. sopra nota 4). Lo conferma più in particolare sostenendo “storicamente si danno, com’è, del resto, notissimo, esempi di ordinamenti giuridici, in cui non si rinvengono norme scritte o anche non scritte, nel senso proprio della parola. É stato detto più volte che è possibile concepire un ordinamento, che non faccia posto alla figura del legislatore, ma solo a quella del giudice”[62].

Anche per il giurista siciliano è essenziale il potere, e la di esso organizzazione; le norme – generalmente presenti – possono tuttavia non esserlo non essendo necessarie all’organizzazione (e all’azione) dell’istituzione.

Altra differenza è la relazione tra rapporto di comando-obbedienza e “giuridicizzazione”. Nel senso che il rapporto di comando-obbedienza (dal superiore all’inferiore) non è (sempre) mediato dalla norma, ma per così dire (dal “differenziale” di) potere e dal rapporto di subordinazione. Così Hauriou scrive (v. sopra nota 9) che la sanzione del diritto disciplinare si basa sulla coercitio che compete al magistrato, basata sulla forza propria dell’istituzione, che implica necessariamente di potersi fare giustizia da sola[63]. Il diritto, inteso come procedura e come attribuzione di competenza giuridicamente sancita e regolata, c’entra poco (o niente): il rapporto è essenzialmente fattuale e politico o meglio istituzionale. É tale perché altrimenti l’istituzione non esisterebbe: e l’esistente, nel caso di necessità, prevale sul (o non ha bisogno del) normativo; consegue dalla “natura delle cose” non dalla legalità dell’attribuzione.

Appare pertanto chiaro che nella concezione istituzionista la regola disciplina solo una parte – anche se quella quantitativamente (e di gran lunga) prevalente – ma non tutto il rapporto di comando/obbedienza ed il potere che è esercitato dall’istituzione (e dai suoi organi). La ragione è semplice: l’istituzione è diritto, ma non è norma[64]. L’estensione del concetto d’istituzione è maggiore di quella di norma (giuridica), e la concezione d’istituzione di Hauriou e Santi Romano non è quindi coestensiva con quella di Miglio.

  1. Resta ancora da fare delle considerazioni sul diritto pubblico, e approfondendo il rapporto tra questo e la politica. All’uopo è interessante notare cosa scrive Freund a proposito dell’ordine politico: che è gerarchico per natura “Sa nature hiérarchique découle à la fois de son présupposé du commandement et de l’obéissance et de sa fonction qui consiste à sauvegarder l’ordre en général… Politiquement, l’ordre est toujours imposé ou ordonné, parce qu’il n’y a pas de coordination sans subordination. Autrement dit, la coordination est l’oeuvre d’une volonté qui décide de la régle coordinatrice. Aucun ordre ne s’impose de lui-même ; il n’y en a pas non plus sans contrainte”[65].

Il tutto è parzialmente coincidente con l’enumerazione che Hauriou fa delle funzioni essenziali dello Stato[66]: in cui è evidente, come altrove nel pensiero del doyen, il rapporto comando/obbedienza.

In realtà la tesi degli istituzionisti (e non solo la loro) che il diritto è ripartito in “pubblico” e “privato” non si contrappone alla concezione fondamentale di Miglio dell’obbligazione politica distinta da quella giuridica (il “contratto-scambio”), quanto alle conseguenze che lo studioso lariano ne trae (che il diritto è privato o non è tale). E la ragione dell’esistenza di un diritto pubblico che regoli – fino ad un certo punto – la materia politica e, in particolare, il rapporto comando/obbedienza è provata da una serie di elementi.

In primo luogo l’evoluzione del diritto “moderno”, a sua volta tendente alla “giuridificazione” del politico per due “spinte” fondamentali: la prevalenza del “tipo” di potere razionale-legale negli ultimi secoli e la diffusione degli “stati di diritto” cioè di unità politiche fondate, come cennato, oltre che su principi politici su quelli del Rechtstaat (distinzione dei poteri, tutela dei diritti fondamentali “borghesi”, nonché – a seguire Hauriou – funzionalizzazione di ogni potere pubblico, ossia la “de-patrimonializzazione” della funzione pubblica).

Quanto al “tipo” di potere: se è legittimo un potere che, normalmente adotta comandi ordinati secondo lo schema atto generale/atto di applicazione (e via discendendo nella scala gerarchica degli “esecutori”, riflessa in quella dei relativi atti), non vuol dire che quegli atti non siano comandi, né che non vadano obbediti. Anche se la forma di potere razionale-legale valorizza al massimo il ruolo della legge (e dell’organo statuente, come del diritto statuito) sempre potere e comando resta. Il comando è così esercitato (prevalentemente) per (o in base a) atti legislativi invece che per rescripta principis, senza che cambi alcunché dell’essere potere. Essendo un “tipo ideale”, peraltro, in concreto, non si presenta mai in forma “pura”[67].

Il fatto che, anche in uno “Stato di diritto” vi siano dei momenti irriducibili al diritto (come il gouvernement de fait di Hauriou, la necessità di Santi Romano, l’ausnahmezustand di Schmitt)[68] non implica che non vi sia un diritto pubblico. Quanto sopra è confermato non solo dal dato positivo, e cioè l’esistenza di una regolamentazione giuridica (non totale dei) rapporti di comando-obbedienza, ma dall’esistenza di diritti e obblighi, che è il primo criterio dell’esistenza di rapporti giuridici, ai quali è connaturata l’interdipendenza delle azioni di due soggetti[69].

Anche se c’è un rapporto – quello tra il Sovrano e i sudditi – connotato dall’aver il primo solo diritti e nessun dovere (giuridico) verso i secondi, e l’inverso per questi rispetto a quello[70]; è questa, di sicuro, l’unica “eccezione”. Per il resto nei rapporti tra poteri pubblici e tra questi e i cittadini è tutto un pullulare di diritti, obblighi, potestà, interessi legittimi interdipendenti. Anche se (molti) di quei rapporti intercorrono tra soggetti non in situazione di parità (ad esempio interessi legittimi/potestà)[71] ciò non toglie che non siano giuridici e che non vi sia (quasi sempre) un giudice per dirimere le liti e statuire su tali diritti[72].

D’altra parte, anche nelle istituzioni non pubbliche esiste un diritto disciplinare, connotato dal fatto che il giudice non ha vero carattere di “terzietà”, ma è un organo dell’istituzione (sorte de justice organique, la chiamava Hauriou)[73].

In secondo luogo il tutto è una conseguenza dei principi del Rechtstaat che, necessariamente, impongono una “giuridificazione” o “giustizializzazione” anche se non assoluta, al potere politico, e in particolare al rapporto di comando-obbedienza[74].

Miglio distingue l’obbligazione politica dall’obbligazione contratto-scambio rilevandone le differenze quanto all’oggetto, ai soggetti, ai limiti, ai contenuti strutturali, al tempo ed alle strutture del rapporto[75].

Se si vuole seguire Miglio e fare una partizione – di carattere generale – tra diritto pubblico e privato – è necessario partire dal tratto comune, e cioè l’esistenza di un rapporto giuridicamente rilevante, e dalla distinzione tra quelli differenti: i presupposti, che per Hauriou sono l’organizzazione sociale per quello pubblico, l’attitudine sociale (sociabilité) per il privato[76]; per l’oggetto ossia l’istituzione e i rapporti cui da luogo da un lato, i rapporti “interindividuali” (di scambio) dall’altro; la situazione dei soggetti, ineguale per il primo, paritaria per il secondo; la funzione, ossia l’esistenza dell’istituzione e della comunità e il perseguimento dell’interesse generale per il pubblico, la regolazione dei rapporti e degli interessi interindividuali per il privato[77].

Differenze profonde che non possono però eliminare il genere (comune) “diritto”, né le modificazioni dell’istituzione (sia sotto l’aspetto organizzativo che funzionale) che la “giuridificazione” del rapporto comando-obbedienza ha determinato.

Piuttosto la concezione di Miglio è spiegabile se si considera il diritto nella prospettiva (lato sensu) di una teoria  normativistica del diritto (come fa nello specifico lo studioso lariano, contrapponendo istituti-organo e istituti-norma); anche se questa affermazione può apparire imprecisa consegue dal ripetuto uso dei concetti e termini della teoria normativistica (ancorché tra le influenze vanno annoverate delle concezioni  giusnaturaliste, liberali, economiciste, non riducibili alla reine rechtslehre). L’istituto-norma di Miglio basantesi su consuetudini e procedure consuetudinarie non ha un significato uguale (e coestensivo) alla norma di Kelsen. Infatti questa, come notato da Schmitt, non è idonea a dar conto di  aspetti essenziali del diritto, come il momento dell’applicazione, la tematica dell’eccezione (la “necessità”), fino a quella dell’efficacia del diritto. Hauriou e Santi Romano avrebbero rifiutato l’idea di Miglio che dietro (e prima) di ogni istituto-organo vi sia un istituto-norma. Per Hauriou il genitore dell’istituzione è le pouvoir, (definito “una liberta energia della volontà che assume l’impresa (entreprise) di governare un gruppo umano attraverso la creazione dell’ordine e del diritto”) che fonda l’istituzione: istituzione che, da un canto deve proteggere la comunità, e il diritto generato dalla stessa, (Diké), ma, anche a tale scopo, genera un diritto proprio (Thémis), specificamente istituzionale; per Santi Romano il rapporto tra istituzione e norma è quello tra giocatore e pedine (v. sopra), e non occorre aggiungere altro.

La teoria istituzionista riesce a dare la spiegazione unitaria ed esauriente del “fenomeno” giuridico, fatto di organizzazione e regole, di norme ed eccezione, di validità ed efficacia. A quasi due secoli non si può che ricordare, a proposito della concezione istituzionista, l’affermazione di De Maistre quando, criticando realisticamente le teorie rivoluzionarie scriveva “il n’est pas au pouvoir de l’homme de créer une loi qui n’ait besoin d’aucune exceprion”[78].

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Op. cit., pp. 439-444.

[2] Op. cit. p. 452.

[3] Op. cit. p. 453 (il corsivo è nostro).

[4] Op. cit. rist. Firenze 1967 p. 15 (i corsivi sono nostri).

[5] Scrive Romano  “Come ogni istituzione così anche lo Stato non ha , ma è un ordinamento giuridico. Se talvolta si dice che il diritto è l’anima e il principio vitale dei corpi sociali e, quindi, lo Stato, ciò non deve intendersi nel senso che diritto e corpo sociale siano due cose diverse, per quanto unite, e tanto meno che il primo sia un prodotto o una funzione del secondo, ché anzi quell’immagine vuol ribadire il concetto che l’uno non si può disgiungere né materialmente né concettualmente dall’altro, come non si può distinguere, se non per vuota astrazione, la vita dal corpo vivente. Si può anche dire che una istituzione ha un diritto, cioè un ordinamento, se per questo s’intendono soltanto i principi e le norme che ne fanno parte  e ne emanano, così come si dice che un tutto ha questo e quell’elemento fra gli altri che lo compongono; ma più comprensivamente si deve dire che esso è per intero un ordinamento giuridico” (i corsivi sono nostri). Op. cit. Milano 1947, p. 56.

[6] V. op. ult. cit. p. 92

[7] V. Principes de droit public  Paris 1916 (rist. 2010) p. 136.

[8] Op. cit. p. 137 e prosegue “Quand une organisation a été créée à l’intérieur d’une institution et s’est implantée d’une certaine façon, elle est liée à l’existence même de celle-ci, on sent qu’on ne pourrait pas arracher l’une sans détruire l’autre

[9] E così lo spiega “Le pouvoir disciplinaire s’appuie sur la force propre que l’institution a conscience d’avoir pour se faire justice elle-mêmeop. cit., p. 139.

[10] Op. cit, p. 141.

[11] Op. cit., p. 143.

[12] Op. cit., p. 144.

[13] Così lo descrive “cherche à dégager l’assentiment de tous les membres du groupe à une mesure déterminée, par une procédure liée à la vie même de l’institution, mai qui, par la nécessité sociale d’aboutir dans un temp donné, s’arrête à l’assentiment immédiat de la majorité”, op. cit., p. 144.

[14] v. Précis de droit constitutionnel, ed. 1929, pp. 97 ss. e specificando le caratteristiche di Dikè scrive “celle-là, était extérieure aux groupes, intergroupale, interfamiliale, et nous dirions aujourd’hui internationale; elle avait pour organes des tribunaux d’arbitres, devant lesqueles les parties étaient égales l’une à l’autre; elle était néè a l’occasion des guerres privées, des vendettas entre familles, et pour les faire cesser par des arbitrages”.

[15] Mais il ne fut jamais inhérent à l’insititution de l’Etat comme l’avait été, par exemple, le droit pénal public primitif, qui état disciplinaire”.

[16] E lo spiega così: “Tandis que, dans la société politique, les hommes sont tenus en groupe par leur soumission à la discipline d’une même institution, dans la société economique, ils sont tenus en relation les uns avec les autres par leur collaboration à l’oeuvre commune de la satifaction des besoins humains” e per cui  “on doit donc opposer les ‘situations de dépendance’ aux ‘rapports de collaboration”, op. cit., p. 177.

[17] Tendent à engendrer deux formes de société ed deux formes de droit qui se déterminent, l’une en institutions politique, l’autre en rapports ou relations du commerce juridique”.

[18] Scrive “L’institution politique n’est pas une forme sociale qui se suffise, pas plus que les rapports du commerce juridique n’en sont une. La véritable position de la question est de considérer la société complète comme composée des deux éléments de l’institution politique et du commerce juridique, et, quant à la combinaison des deux éléments, elle se présente comme l’équilibre de deux forces avec actions et réactions réciproques, mai avec légère suprématie de l’institution politique affirmée par le seul fait de l’existence des États”, op. cit., p. 180.

[19] Si noti che il valore ha qui un significato esclusivamente economico (i corsivi sono nostri).

[20] Op. cit., p. 181 ss.

[21] Op. ult. cit. p. 192.

[22] Op. ult. cit. p. 192; e prosegue in nota “Le véritable juge procédant de l’institution politique est le juge disciplinaire. Pendant que les nécessités de la discipline politique  engendrent le juge disciplinaire, celles du commerce juridique engendrent l’arbitre pour trancher les différends”.

[23] Scrive “Abbiamo allora ridotto a mal partito il mondo del diritto. Hanno ragione i giuristi a guardare lo scienziato della politica con sospetto. Qui abbiamo ridotto tutto il diritto a contratto e tutti i diritti sostanziali a procedure. Tutto il diritto diventa contratto, procedura pattuita, contrattuale. Le norme si riducono  tutte a procedura. L’ “istituto-norma” e l’ “istituto-organo” non sono che un complesso di procedure convenute”; e prosegue “A questo punto scopriamo le conseguenze del nostro lavoro d’indagine: quelle che probabilmente sono “istituzioni politiche”, in realtà sono espressione del contratto e del diritto”. Op. cit. p. 450.

[24] “Costante è il sospetto che l’interferenza della politica (perfino nei diritti pubblici soggettivi) sia macroscopica. Questo non è altro che la constatazione che area dell’obbligazione politica e area del diritto e quindi del contratto sono aree distinte in continua, conflittuale interferenza”. Op. cit. p. 451.

[25] Op. loc. cit.. Per una interessante riflessione sui rapporti tra politica e diritto (con particolare riguardo a Schmitt) V. R. Cavallo Le categorie politiche del diritto, Catania 2007.

[26] Publicum ius est quod ad statum rei Romanae spectat, privatum quod ad singulorum utilitatem,  D I, De Iustitia et jure, I,

[27] Jellinek scrive “L’antitesi fra i due diritti può essere ricondotta a questo concetto fondamentale: che, nel diritto privato, gli individui si trovano gli uni rispetto agli altri in una situazione essenzialmente di coordinazione, e quindi esso disciplina i rapporti degli individui come tali; mentre il diritto pubblico, invece, regola i rapporti tra subietti diversi dotati di autorità, nonché la organizzazione ed il funzionamento di tali subietti e le relazioni di essi con coloro che sono sottoposti alla loro autorità” v. Allgemeine Staatlehre, trad. it. di M. Petrozziello (con introduzione di V. E. Orlando) Milano 1949 p. 2. Le difficoltà di distinguere tra  pubblico e privato, e, nella specie, tra diritto soggettivo (privato) e diritto soggettivo pubblico era avvertita da Carnelutti. Dopo aver scartato che il fondamentum distinctionis  fosse il carattere del soggetto, dato che a soggetti privati possono competere diritti soggettivi pubblici, e all’inverso ad una persona giuridica pubblica un diritto privato “ad esempio, allo Stato la proprietà”; né che lo fosse la natura dell’oggetto (la cosa): ad esempio una cosa può essere demaniale (pubblica) o di proprietà privata “la demanialità o la patrimonialità deriva alla cosa dal diritto, non al diritto dalla cosa”, Carnelutti concludeva che “il fondamento va ricercato nella natura stessa del rapporto, e precisamente nel collegamento tra la forma e la sostanza e cioè tra il potere e l’interesse”. Teoria generale del diritto Roma, 1946, p. 151. Diversamente dal diritto soggettivo privato, che è “possibilità di comandare per la tutela del proprio interesse”, quello pubblico è la possibilità di comandare in funzione di un interesse collettivo (attribuito a ciascuno degli interessati).

giuridiche La concezione, distinguendo tra pubblico e privato, riguardo alle situazioni soggettive è originale; l’altro aspetto interessante – ai fini di questo scritto – della teoria di Carnelutti sul punto è che l’intera partizione tra diritti, obblighi, potestà e così via si fonda sul criterio del comando (e della soggezione relativa) e dell’interesse.

[28] Jellinek scrive “Questa dottrina del Fisco è della massima importanza per tutta la storia della concezione dei rapporti fra Stato e suddito ….. Nella Germania, pel contrario, il Fisco viene dichiarato come subietto di diritti privati, per cui è riconosciuta allo Stato una doppia personalità – di diritto pubblico e di diritto privato -: la qual cosa ha questa grande importanza pratica, che, fin dove si estende il diritto privato, sono escluse arbitrarie invadenze dello Stato nella sfera giuridica dell’individuo”.

[29] E ne conclude “D’altra parte l’attribuzione del carattere assoluto al contrasto fra diritto pubblico e privato fa sorgere anche l’idea che solo il campo del diritto pubblico, quale è prima di tutto quello del diritto costituzionale e amministrativo, sia il dominio della sovranità da cui sarebbe invece escluso il campo del diritto privato. Già anteriormente si è mostrato che questo contrasto totale fra «politico» e «privato» non sussiste nel dominio del diritto soggettivo perché i diritti privati sono diritti politici nello stesso senso di quelli che si suole designare unicamente in questo modo, perché entrambi, sia pure in senso diverso, garantiscono la partecipazione alla formazione della volontà statale, cioè alla sovranità. Con la distinzione di principio fra una sfera giuridica pubblica, cioè politica, e una privata, cioè non politica, risulta più difficile comprendere che il diritto privato prodotto nel negozio giuridico rappresenta una sfera d’azione della sovranità non minore del diritto pubblico prodotto nella legislazione e nella amministrazione”. Reine Rechtslehre. Einleitung in die rechtswissenschaftliche Problematik. Trad. it. Torino 1967, p. 132 ss.

[30] Vedasi, tra i tanti, O. Ranelletti Istituzioni di diritto pubblico, Milano 1953, pp. 29 ss.

[31] Tra tutti citiamo per la connotazione dell’imperatività quanto scritto da M. S. Giannini “L’imperatività è la produzione unilaterale di effetti giuridici a realizzabilità immediata e diretta. Il provvedimento costituisce modifica ed estingue situazioni giuridiche soggettive altrui non solo senza il concorso o la collaborazione del soggetto a cui si dirige, ma anche contro la di lui volontà”, Istituzioni di diritto amministrativo, Milano 1981, p. 299.

[32] Un esempio ne sono le c.d. “vie di fatto” e il divieto al Giudice ordinario, sancito dall’art. 4, ALL: E, L. 2248/1965 di “revocare o modificare” il provvedimento anche se illegittimo.

[33] É interessante a tale proposito il giudizio di Paolo Barile che l’attività politica non può venir “definita unicamente un’attività libera, ma un’attività libera perché politica” e che gli atti espressione della funzione di governo sono “istituzionalmente sottratti ad ogni sindacato giurisdizionale. Essi sono sottratti per natura, non perché esiste l’art. 31 T.U. sul Consiglio di Stato” v. Atto del governo (e atto politico) in Enc. dir., vol. IV, Milano 1959, p. 220 ss.

[34] Précis de droit constitutionnel cit., p. 156 (i corsivi sono nostri).

[35] G.Jellinek Allgemeine Staatslehre,trad. it., Milano 1949, p.177.Così la definisce  “attività libera è quella determinata soltanto dall’interesse generale, ma da nessuna speciale regola di diritto; vincolata, invece, quella che consiste nell’adempimento di un obbligo giuridico. L’attività libera è la prima per importanza, logicamente originaria; che sta di base a tutta la restante attività. È per essa che lo Stato fissa la sua propria esistenza, giacché la fondazione degli Stati non è mai l’esecuzione di norme giuridiche; è da essa che lo Stato riceve indirizzo e scopo della sua evoluzione storica; è da essa che procede ogni mutamento ed ogni progresso nella sua vita. Uno Stato, di cui tutta l’attività fosse vincolata, è una concezione irrealizzabile. Quest’attività libera si riscontra in tutte le funzioni materiali dello Stato, che si sono venute storicamente distinguendo; nessuna, senza di essa, è possibile. Il suo campo più vasto è nel dominio della legislazione, la quale, in confomità stessa sua natura, deve godere della maggiore libertà. Non meno importante, però, essa si mostra nell’amministrazione, dove questo elemento assume il nome di governo (Regierung)”(il corsivo è nostro).

 

[36] “Un ordinamento che regoli l’agire del gruppo, deve essere detto ordinamento amministrativo. Un ordinamento che regoli un agire sociale di altro genere, garantendo le possibilità degli individui scaturiti da tale regolamentazione, deve essere detto ordinamento regolativo… Evidentemente la maggior parte dei gruppi sociali è insieme dell’uno  e dell’altro tipo; un gruppo esclusivamente regolativo sarebbe un puro ‘stato di diritto’, teoricamente concepibile, in cui regna l’assoluto laissez faire (e ciò presupporrebbe che anche il compito di regolare la moneta fosse  affidato alla pura economia privata)” Wirtschaft und Gesellschaft, vol. 10, trad. it. Milano 1980, p. 50.

[37] La concezione di Weber è più articolata e ne riportiamo il passo essenziale: “Nel primo caso si può parlare di un «agire riferito al gruppo», e nel secondo caso di un agire regolato dal gruppo. Solamente l’agire dello stesso apparato amministrativo, e oltre ad esso ogni agire riferito al gruppo, da esso diretto in maniera sistematica, deve essere chiamato «agire del gruppo». Per esempio, «agire del gruppo» sarebbe per tutti i suoi membri una guerra che uno stato «conduce», o una «richiesta» che il comitato esecutivo dell’unione delibera, o un «contratto» che il capo stipula, imponendone o imputandone la «validità» ai membri del gruppo”, op. cit., p. 47.

[38] v. Hauriou Précis de droit constitutionnel, cit., pp. 17 ss.

[39] L’instaurazione di fatto di un ordinamento costituzionale e sua legittimazione, ora in Scritti minori, Milano 1950, p. 149 (il corsivo è nostro).

[40] v. “Una moltitudine di uomini si può chiamare uno Stato soltanto se è unita per la comune difesa della sua proprietà in generale… L’allestimento di questa effettiva difesa è la potenza dello Stato; esso deve da un lato essere sufficiente a difendere lo Stato contro i nemici interni ed esterni, dall’altro a mantenere se stesso contro l’impeto universale dei singoli… L’unità della potenza statale per lo scopo comune della difesa è l’essenziale di uno Stato. Tutti gli altri scopi ed effetti della riunione possono esistere in un modo sommamente vario e privo di unità” (il corsivo è nostro).  Verfassung Deutschlands, trad. it. Bari 1961, pp. 41 ss. Hegel prosegue distinguendo ciò che considera essenziale da quel che non lo è (unità della legislazione, della giustizia, fiscale, monetaria, ecc. ecc.) v. anche op. cit., pp. 30 ss.

[41] v. per Santi Romano “Ogni Stato è per definizione, come si vedrà meglio in seguito, un ordinamento giuridico, e non si può immaginare, quindi, in nessuna sua forma fuori del diritto. Qualunque sia il suo governo e qualunque sia il giudizio che se ne potrà dare dal punto di vista politico, esso non può non avere una costituzione e questa non può non essere giuridica, perché costituzione significa niente altro che ordinamento costituzionale. Uno Stato ‘non costituito’ in un modo o in un altro, bene o male, non può avere neppure un principio di esistenza, come non esiste un individuo senza almeno le parti principali del suo corpo. Il diritto costituzionale del c.d. Stato assoluto o dispotico sarà poco sviluppato; si concreterà in una sola istituzione fondamentale, quella del suo sovrano; sarà regolato da poche norme che, esagerandone e stilizzandone la figura tipica, si potranno ridurre magari soltanto a quella che dichiarerà l’appartenenza al sovrano di tutti i poteri; ma almeno questa norma non potrà mancare e non essere giuridica, se su di essa si impernia per intero quell’ordinamento giuridico quale è sempre, per sua indeclinabile natura, lo Stato”  Diritto costituzionale generale, Milano 1947, p. 3

[42] Antidühring, trad. it. Roma 1971, p. 297 Alla logica della produzione capitalista, si può asssimilare quella conseguente al carattere privato dell’attività gestita dallo Stato.

[43] Questo non significa che poi l’annessione di servizi, funzioni, aree di azione private al pubblico, non venga utilizzata a fini politici – anche e soprattutto di politica di partito, come l’acquisizione di consenso, l’erogazione di rendite politiche e atro, che Miglio ricorda con acuto realismo.

[44] Così tipici ne sono stati le aziende municipalizzate e gli enti pubblici economici, e il relativo rapporto di lavoro con i dipendenti, indistinguibile da quello del settore privato.

[45] Tipica, tra tante quella di Commissario agli enti locali.

[46] Cfr. Schmitt C. Der Begriff des politischen, trad it. ne Le Categorie del politico, Bologna 1972, 104.

[47] E prosegue: “La necessità del raggiungimento di tale fine, che può, in via di prima approssimazione, ricondursi a quello della pacifica coesistenza e dello sviluppo dei vari soggetti appartenenti al gruppo, induce l’ente ad assumere di volta in volta compiti svariatissimi, anche culturali o religiosi o sportivi, ecc. e in misura e con l’estensione delle più varie… ne segue che ogni mutamento che si verifichi in ordine all’assunzione o all’abbandono di compiti particolari non determina la trasformazione dell’ordinamento, non muta la sua natura di ente ai fini generali, o, come anche e più comunemente si dice, di ente «politico»”, Istituzioni di diritto pubblico, Padova 1972, pp. 19 ss.

[48] A proposito di tutte queste immunità Vittorio Emanuele Orlando scriveva “che fra gli organi onde lo Stato manifesta la sua volontà e la attua, uno ve ne sia che su tutti gli altri sovrasta, superiorem non recognoscens, e che non potendo appunto ammettere un superiore (chè allora la potestà suprema si trasporterebbe in quest’altro) deve essere sottratto ad ogni giurisdizione e diventa, per ciò stesso, inviolabile ed irresponsabile, è noto”; e  Santi Romano nel trattare delle immunità parlamentari sosteneva «Il fondamento di tutte queste immunità dei senatori e dei deputati è da ricercarsi non soltanto nel bisogno di tutelare il potere legislativo da ogni attentato del potere esecutivo e nella convenienza di non distrarre senza gravi motivi i membri del Parlamento dall’esercizio delle loro funzioni, ma nel principio più generale dell’indipendenza  e dell’autonomia delle Camere verso tutti gli altri organi e poteri dello Stato: di tale principio esse costituiscono una delle varie applicazioni o, meglio, una particolare guerentigia» Santi Romano, Corso di diritto costituzionale,  Padova 1928, 222.

[49] Diceva Mortati alla costituente “La necessità di includere nella Costituzione alcune norme riguardanti la pubblica amministrazione sorge per due esigenze. Una prima è quella di assicurare ai funzionari alcune garanzie per sottrarli alle influenze dei partiti politici. Lo sforzo di una costituzione democratica, oggi che al potere si alternano i partiti, deve tendere a garantire una certa indipendenza ai funzionari dello Stato, per avere un’amministrazione obiettiva della cosa pubblica e non un’amministrazione dei partiti. A tale proposito la Costituzione di Weimar stabiliva che i funzionari erano a servizio della collettività e non dei partiti” v. in V. Carullo, La Costituzione della Repubblica italiana, Bologna 1950, p. 396.

[50] v. sulle garanzie istituzionali della burocrazia v. Carl Schmitt Verfassungslehre, trad. it. di A. Caracciolo, Milano 1984, p. 231.

[51] E prosegue: “Ho già utilizzato il termine di aiutanti. Questa definizione generica copre la funzione che svolge questo strato, il quale è molto vicino alla classe politica e sta fra quest’ultima, intesa in senso stretto e il seguito”, op. cit., p. 362.

[52] Ma chiarisce: “Già in Mosca e Pareto tuttavia la definizione di ‘classe dirigente’ denotava questa presenza, come appare anche in altri autori che hanno seguito questa linea di ricerca. Devo però dire che normalmente la politologia moderna privilegia l’interpretazione dicotomica”, op. loc. cit..

[53] “La domanda che ci si pone è: «Come ci si presenta scientificamente il problema della quantificazione del comando?». Posto che in ciascun sistema politico c’è chi comanda di più e chi comanda di meno, si possono fare rilevazioni scientifiche, scoprire le regolarità di questa quantificazione del comando?”, op. cit., p. 364.

[54] “Colui che comanda di meno fa questo perché la sua discrezionalità nel prendere decisioni (abbiamo visto che esercitare l’autorità è decidere, prendere una decisione e il comando è ‘possibilità di decidere’ e di fare accettare queste decisioni), la sua possibilità di decidere, è limitata”, op. cit., p. 365.

[55] Op. cit., p. 370.

[56] Corso di diritto amministrativo, Milano 1954, vol. I, p. 146. E prosegue “L’ordinamento gerarchico è proprio esclusivamente delle pubbliche amministrazioni: gi organi legislativi, dato il numero ristretto e la fondamentale loro parità, non consentono alcuna applicazione del principio; quelli giudiziari, che pure sono ordinati per gradi, non presentano fra i medesimi quei poteri di direzione e di dipendenza, che sono propri del rapporto gerarchico. Nell’ordinamento amministrativo il principio è di applicazione generale” subito dopo specifica “Il rapporto di supremazia gerarchica ha per contenuto una serie di poteri dell’autorità superiore sugli organi dipendenti. Il più importante e fondamentale fra tali poteri è quello di dirigere e regolare l’attività degli inferiori per mezzo di norme generali e di ordini particolari. Le prime, dette norme di servizio, circolari e istruzioni, nonostante la loro generalità, non hanno mai valore di norme giuridiche nel senso stretto della parola” (infatti si basano, per l’appunto, sul rapporto gerarchico stricta sensu) “Il potere dei superiori di comandare, sia con tali atti sia con ordini particolari, implica il dovere degli organi dipendenti di obbedire a tali comandi” e oltre a questo vi sono “altri poteri compresi nel rapporto di supremazia gerarchica, che pel momento ci limitiamo ad enumerare:

  1. a) il potere di risolvere i conflitti di competenza, positivi o negativi, che eventualmente sorgano fra due o più autorità dipendenti;
  2. b) il potere di decidere i ricorsi amministrativi presentati contro gli atti delle autorità inferiori; e di annullare, in caso di accoglimento, i provvedimenti di queste;
  3. c) la facoltà di delega e di avocazione, nei casi eccezionali in cui tali facoltà sono espressamente consentite;
  4. d) il potere di sostituzione dell’azione dell’inferiore, quando questo, avendo l’obbligo di provvedere, non abbia provveduto” (i corsivi sono nostri).

[57] Tra i tanti che l’hanno affermato ricordiamo G.D. Romagnosi, Scienza delle costituzioni, Firenze 1850, p. 190; Max von Seydel in Principi di una dottrina generale dello Stato (trad. it.) Torino 1902, vol.. VIII della Biblioteca di Scienze politiche e amministrative, Torino 1902, pp. 1153-1161.

[58] “La gradazione delle norme, come anche quella delle funzioni e degli atti, non proviene dal grado di qualità inerente ad ogni specie di norma presa in se, ma dal grado di potere degli organi o delle autorità da cui la norma è stata emanata, dalla funzione esercitata o dall’atto compiuto. In altri termini, il percorso graduale e successivo che si osserva nella elaborazione del sistema di norme dello Stato moderno non ha la sua causa primaria nella gradazione, naturale o logica, delle norme stesse considerate nel rapporto che collega le une alle altre, ma per gradazioni di norme bisogna intendere una gradazione che ha la sua causa effettiva nelle considerazioni organiche alle quali è sottomessa, secondo l’ordine giuridico positivo, la formazione del diritto” La teoria gradualistica del diritto (trad. it.) Milano 2003, p. 38. É chiaro che Carrè de Malberg scrive dell’organizzazione generale dello Stato e non (solo) di quella della pubblica amministrazione.

[59] “Essenziale nel concetto di gerarchia è quindi l’idea di potere, sacro o profano, ordinato per gradi, nel governo della cosa pubblica, religiosa o civile; e questa idea centrale si può dire permanga anche nella moderna letteratura giuridica; ma in questa il concetto subisce una specificazione, venendo riferito al governo delle persone giuridiche pubbliche, in contrapposto al concetto di autarchia; ed uno sdoppiamento, essendo passato ad indicare, molto spesso, per metonimia l’ordine per gradi dei pubblici funzionari ed impiegati” Teoria giuridica dell’organizzazione dello Stato, Padova 1931, p. 277.

[60] v. “Ogni pensiero giuridico lavoro tanto con regole, che con decisioni, che con ordinamenti e strutture. Ma la concezione finale – per quanto riguarda la scienza giuridica – dalla quale sono derivate giuridicamente tutte le altre, è sempre e soltanto una: o una norma (nel senso di regola e legge), o una decisione, o un ordinamento concreto… In base alla diversa importanza riconosciuta, nel pensiero giuridico, a ciascuno dei tre concetti specificamente giuridici e in base alla successione per cui l’uno viene dedotto dall’altro oppure ricondotto ad esso, si distinguono i tre tipi di pensiero fondati sulla regola o sulla legge, sulla decisione o sull’ordinamento e la struttura concreta” I tre tipi di pensiero giuridico in Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 247.

[61] Précis de droit constitutionnel, cit., p. 74 ss.

[62] E prosegue poco dopo “Se così è, il momento giuridico, nell’ipotesi accennata, deve ritenersi, non nella norma, che manca, ma nel potere, nel magistrato, che esprime l’obiettiva coscienza sociale, con mezzi diversi da quelli che sono propri di ordinamenti  più complessi e più evoluti” L’ordinamento giuridico, cit., pp. 20-21.

[63] Dall’altro lato “il n’y a pas pour l’individu exposé à l’effet du poivoir disciplinaire obligation préétablie de le subir, du moins il ‘y a pas obligation juridique, il n’y a qu’un devoir moral ou un deovir professionnel ; le pouvoir disciplinaire se présente comme una force à laquelle on obéit ou à laquelle on résiste à ses risques et périlsPrincipes de droit public, p. 139.

[64] D’altra parte, con parole diverse, concezioni simili sono state variamente espresse dalla dottrina. Carrè de Malberg, a proposito degli actes de gouvernement scrive “ciò che caratterizza, di converso, l’atto di governo è proprio d’essere, a differenza degli atti amministrativi, svincolato dalle necessità d’abilitazione legislativa e  deciso dall’autorità amministrativa con un potere d’iniziativa libera in virtù di un potere proprio e che deriva da una fonte diversa dalle leggi; di guisa da poter qualificare (la funzione di) governo, almeno in tal senso, come indipendente dalle leggi e che esiste una determina sfera di attribuzioni, ch’è precisamente quella del governo, all’interno della quale esso occupa una posizione costituzionale analoga a quella del legislatore, nel senso che, proprio come il parlamento, trae i propri poteri relativi a queste attribuzioni direttamente dalla Costituzione” Carrè de Malberg, Contribution à la theorie générale de l’État, tome I, Paris 1920, 526; o P. Barile, scrivendo degli atti politici i cui caratteri dipendono dalla natura delle cose v. Enc. dir. IV, Milano 1959, pp. 220 ss.

[65] L’essence du politique, Paris 1965, p. 270.

[66] v. “1° Protéger la société individualiste par son gouvernement, lui assurer la paix et l’ordre au dedans et au dehors par sa force armée. par sa diplomatie, par sa police, par sa législation, par ses tribunaux ; 2° La contrôler et lui rendre des services par son administration ; 3° Réprimer les écarts de l’individualisme par une organisation répressive et aussi par una oeuvre éducatricePrécis de droit constitutionnel cit., p. 49.

[67] v. Max Weber, op. cit., vol. I, p. 211. Onde la contaminatio con altri tipi non rende inutile l’elaborazione del concetto.

[68] Con la differenza tra i tre concetti che non ne alterano il connotato comune, di essere “al di là” del diritto.

[69] “Rapporto giuridico è, infatti, l’interdipendenza delle azioni di due soggetti (o «persone» in senso giuridico), stabilita da una norma in guisa che uno di essi sia titolare di un diritto verso l’altro e l’altro sia investito di un obbligo verso il primo. Così concepito, il rapporto giuridico è veramente la cellula primitiva e il nucleo irriducibile di ogni realtà sociale” v. Widar Cesarini Sforza, Il diritto dei privati, Milano 1963, p. 11.

[70] É la nota affermazione di I. Kart, il quale specifica che il Sovrano non ha doveri coattivi, v. Metaphisyk der Sitten, trad. it. Bari 1973, p. 149; il principio era stato già enunciato da S. Tommaso Summa Theologica I, II, q. 96, art. V  “Il principe si dice svincolato dalla legge quanto alla forza coattiva della legge stessa; poiché nessuno propriamente può essere costretto da se stesso, e la legge non ha forza coattiva se non per l’autorità del principe. Si dice dunque che il principe è svincolato dalla legge, poiché nessuno può condannarlo se opera contro la legge… Il principe è poi al di sopra della legge in quanto, se è opportuno, può mutarla o dispensare da essa in un certo luogo o in un certo tempo”” v. Antologia politica, Torino, s.d., p. 66.

[71] A tale proposito anche il mero depotenziamento del potere giudiziario rispetto a funzioni (funzionari, situazione, atti) pubblici può essere considerato esatto il profilo della salvaguardia del rapporto di comando-obbedienza, e della “catena di comando”. Già Tocqueville nell’Ancien Régime et la Révolution, in particolare a proposito della giustizia (e della garanzia) amministrativa, ironizzava dicendo che non si avvertivano grandi differenze tra la prassi dell’ancien règime e la legislazione post- rivoluzionaria, ambedue rivolte a salvaguardare il potere politico e amministrativo delle ingerenze giudiziarie (v. op. cit., trad. it., Milano 1981, p.91 ss.). Ma tale chiave di lettura è anche applicabile ai rapporti tra la giustizia (in particolare il Giudice ordinario) e la pubblica amministrazione, dall’unificazione italiana in poi.

In effetti l’all. E alla L. 2248/1865, sia per il dettato, ed ancor più per l’interpretazione prevalente che ne fu data, consente  una cognizione “ridotta” nei confronti della P.A.; in particolare non consente che sia comandato un facere specifico né che l’atto amministrativo venga annullato, ma solo disapplicato, né che fossero presi provvedimenti possessori, ecc. ecc., tutte deroghe che contrastano con la pienezza della tutela giudiziaria accordata tra privati (in situazione di parità) e volte a salvaguardare, per lo più, le situazioni di fatto create dall’attività della P.A..

[72] É interessante notare che uno dei punti di contatto (e di frizione) tra politico e diritto nel Rechtstaat (ma non solo) sia la c.d. giustizia politica, allorquando – specie in materia penale – il Giudice deve decidere su rapporti e soggetti politici. La politicità della materia fa si che questa giustizia abbia carattere derogatorio, sempre più evidente man mano che la posizione del giudicando sale nella scala gerarchica, di guisa da creare una rete di protezione a favore della funzione politica e in particolare del rapporto di comando-obbedienza, necessario al mantenimento e alla conservazione dell’ordine politico della comunità. Affermare che il tutto è in contrasto con il principio d’eguaglianza di fronte alla legge (isonomia) è esatto: ma è anche vero che nessun ordine sarebbe possibile, e ancor meno un ordine democratico, se anche i governanti “supremi” fossero  incarcerabili da magistrati ordinari, secondo le procedure ordinarie. La posizione “gerarchica” si riflette non solo nel potere di comando , ma anche nell’irresponsabilità assoluta (“la persona del Re è sacra e inviolabile” art. 4 dello Statuto Albertino) o relativa, sia sostanziale (come per tipi di reato punibili) o processuale (autorizzazioni a procedere, organi giudicanti speciali e così via).

[73] Scriveva a tale proposito Cesarini Sforza che “gli statuti e i regolamenti dei corpi sociali stabiliscono, di consueto, a quale organo sociale competa l’applicazione delle punizioni disciplinari… il potere disciplinare – cioè la potestà spettante ai capi di un corpo sociale di punire l’associato che sia incorso nella violazione di un obbligo sociale – è la manifestazione più evidente del carattere imperativo degli ordinamenti giuridici privati”, op. cit., p. 80 ss.

[74] É interessante notare che nel pensiero di Montesquieu la “giustizializzazione” del rapporto di comando non era neppure cennata (per l’ovvia considerazione che non esisteva né giustizia amministrativa né quella costituzionale moderna) “Quando Montesquieu nell’Ésprit des lois inizia ad esporre la teoria della distinzione dei poteri scrive: «Esistono, in ogni Stato, tre sorte di poteri: il potere legislativo, il potere esecutivo delle cose che dipendono dal diritto delle genti, e il potere di quelle che dipendono dal diritto civile.

In base al primo di questi poteri, il principe o il magistrato fa delle leggi per sempre o a termine, e corregge o abroga quelle esistenti. In base al secondo, fa la pace o la guerra, invia o riceve delle ambascerie, stabilisce la sicurezza, previene le invasioni. In base al terzo punisce i crimini, o giudica le liti dei privati. Quest’ultimo potere sarà chiamato il potere giudiziario, e l’altro, semplicemente, potere esecutivo dello Stato»”.

[75] Op. cit., p. 153 ss.

[76] Tale distinzione riecheggia in quella di Miglio “Politica e vocazione dell’animale uomo presentano un nesso molto stretto. Ecco perché un filosofo come Aristotele scrisse che l’uomo è uno zoon politikon. É qui il nesso fra politica e uomo: non si tratta affatto del nesso della ‘socialità’, che è qualcosa di completamente diverso e proprio la differenza fra queste due dimensioni potrà essere messa in luce dallo studio dell’oggetto dell’obbligazione ‘contratto-scambio’, in quanto distinto da quello dell’‘obbligazione politica’” op. cit. p. 160

[77] Scriveva V. E. Orlando “Il diritto suppone sempre, come sua essenza, una «norma» regolatrice dei rapporti sociali cui dan luogo così gl’interessi dei singoli (diritto privato) come quelli della collettività considerata in se stessa e nei suoi rapporti coi sudditi (diritto pubblico)” Diritto pubblico generale, Milano 1954, p. 69.

[78] Du Pape, Lib. II, cap. III.

carte buone e carte false del Governo Conte, di Giuseppe Germinario

L’avvento del Governo Conte ha provocato una reazione pressoché immediata generalmente diffidente se non negativa, tranne poche eccezioni, negli ambienti intellettuali e nei centri decisionali del paese. Una diffidenza ed una negatività amplificata in modo abnorme dalla partigianeria e dalla faziosità della quasi totalità del sistema mediatico.

Sul conservatorismo, sulla sciatteria, sulla autoreferenzialità di gran parte dei centri intellettuali, tutti ben posizionati nel sistema, tanto sensibili alle sirene d’oltralpe quanto avulse dalla situazione del paese, il blog si è espresso più volte e continuerà ad esprimersi; in particolare sull’inadeguatezza e il carattere reazionario delle chiavi di interpretazione che continuano ad offrire.

L’oggetto dell’articolo non è questo, bensì gli argomenti e il contesto offerti dalle opposizioni esterne e ormai anche interne al Governo nella loro opera costante di denigrazione.

LO SCENARIO INTERNAZIONALE

L’azione avventurista più eclatante è stata il varo del documento programmatico per il 2019. Una sfida aperta alle regole e soprattutto alle ipocrisie della condotta dell’Unione Europea. Una violazione ostentata degli accordi e dell’itinerario di rientro dal deficit e dal debito che scatenerà contro una nazione fragile ed esposta i Moloch più terribili.

Il Moloch dei mercati, in particolare quello finanziario, sempre pronti a sanzionare con gli interessi i trasgressori del rigore fiscale e a negare il credito ai potenziali insolventi. La spada di Damocle del ’92 e del 2011 è lì che incombe angosciante. Il dio mercato però questa volta appare incerto, anzi diviso; la sentenza appare di conseguenza contraddittoria. Lo spread sale, a volte scende; tarda a decollare. C’è chi vende, chi svende ma anche chi compra in quantità massicce. Il manipolo onnipotente della finanza, attribuito del potere di decisione dei destini del mondo appare percorso da strategie diverse; strategie che sembrano sempre più ricalcare le divisioni e le aggregazioni nel contesto internazionale e le fibrillazioni nell’agone politico americano. La certezza di una mitologia e di una rappresentazione del dominio e delle contrapposizioni globaliste che finalmente si incrina.

Il Moloch della BCE, pronta a inondare o a lesinare di valuta e di acquisti il mercato dei titoli secondo i propri voleri e i dettami del duo franco-tedesco; a premiare o punire quindi i più indisciplinati e riottosi, i reprobi; la Grecia prima e l’Italia dopo in particolare. Peccato che, a dispetto delle dichiarazioni e dei rimbrotti unidirezionali di Mario Draghi, a chiedere la protrazione del “quantitative easing” siano di fatto non soltanto il reprobo italico additato al pubblico ludibrio, ma la gran parte delle banche centrali degli stati europei in una fase di debiti e deficit galoppanti e di stagnazione se non proprio di recessione incipienti.

Il Moloch della Commissione Europea. Gli antichi splendori della Commissione sono ormai un ricordo sempre più lontano. La condizione di relativo equilibrio tra le potenze europee fondatrici, l’allargamento repentino ai paesi dell’Europa Orientale, concomitante a quello della NATO, la supervisione attenta della leadership americana ne garantivano una relativa autonomia operativa nel ruolo di mediatrice. L’ascesa della Germania, la creazione di una sua sfera diretta di influenza in Europa Orientale parallela e sovrapposta a quella strategica degli Stati Uniti, l’assunzione del ruolo di intermediario e gabelliere tra la potenza egemone e il pulviscolo degli stati almeno per le competenze proprie dell’Unione ne hanno sminuito progressivamente il ruolo sino alla parodia della gestione Junker. La conseguente ascesa del Consiglio Europeo e della diarchia Franco-Tedesca hanno reso sempre meno credibile la funzione di arbitro secondo regole per altro affatto squilibrate.

È una questione di tempo!

La Commissione dovrà essere intransigente verso il capro espiatorio che ha ostentato la trasgressione degli accordi capestro e transigere ancora verso le violazioni surrettizie dei sodali del patto. Non dovesse riuscire più in questa schizofrenia con qualche gioco di prestigio o con il sacrificio del governo italiano perderà definitivamente l’autorevolezza residua o il residuo sostegno del sodalizio politico. Il muro frapposto al documento italiano non è il bastione insormontabile, ma l’ultimo argine di una probabile deriva. Lo hanno affermato i leader stessi dei paesi minori più esposti nella intransigenza: se si cede, la volontà di costruzione europea cadrà nei singoli paesi, compresi i più autorevoli. Una dichiarazione di forza che è una prova di debolezza. Una intransigenza manifestata per conto terzi da quei piccoli paesi, tra questi Olanda, Austria e Irlanda, i quali hanno più praticato il dumping fiscale.

La reazione e la replica al documento del Ministro Savona, pervenuto a fatica e solo dietro sollecitazione dell’estensore negli uffici della Commissione Europea, sono state al riguardo eloquenti: il silenzio. Quel documento evidenziava il carattere nefasto delle politiche di austerità, stigmatizzava la scelta improvvida di fondazione della moneta unica precedente una politica di riequilibrio delle economie nazionali, auspicava una politica comunitaria espansiva con un accentramento conseguente di competenze, specie negli investimenti e nella gestione del bilancio; ne riconosceva però nell’immediato del contesto politico europeo l’irrealizzabilità. Rivendicava quindi, conseguentemente, una omogeneizzazione dei regimi fiscali nazionali e un ritorno delle “politiche di fiscalità nazionali”; nella fattispecie politiche di investimenti pubblici anche in deficit. Un europeista come Savona aveva mostrato finalmente il Re Europa nudo con tutti i suoi difetti e le sue storpiature, così come Salvini ha rapidamente messo a nudo quel re sul tema dell’immigrazione.

Una partita, quindi, dall’esito molto più aperto di quanto sia prospettato e auspicato dalla grande informazione. Non si tratta di un duello tra due contendenti; piuttosto di una zuffa con molti attori, pronti a cambiare schieramento e celare gli obbiettivi reali e con molti altri ingombranti osservatori interessati, alcuni in prima linea altri nella penombra; tutti impegnati ad influenzare l’esito del confronto.

IL FRONTE INTERNO

Il fronte interno si sta muovendo secondo dinamiche analoghe. Le apparenze ci mostrano un governo arroccato nella propria cittadella e assediato, asfissiato da forze soverchianti ben attrezzate, ben radicate nei vari apparati statali e nei centri decisionali e di formazione dell’opinione pubblica.

Sono tutti lì a denunciare la scarsità di investimenti rispetto all’entità delle spese assistenziali; a stigmatizzare l’errore cosciente sulla stima di sviluppo al 1,5% quasi a sottendere la responsabilità governativa della prossima probabile recessione, in realtà dalle dinamiche internazionali che vanno al di là degli ambiti domestici; a confidare parossisticamente nelle divisioni insanabili della maggioranza e nella incompetenza e inesperienza della classe dirigente in via di formazione.

Tutti, però, evitano accuratamente di rispondere alla domanda fondamentale che li qualificherebbe o meno come forze, politiche ed istituzionali, nazionali credibili: sono disponibili e sino a che punto a sostenere un confronto e uno scontro serrato almeno nell’agone europeo e nel Mediterraneo?

Eludere questa risposta connota queste forze come assedianti temibili ma privi del sostegno morale e logistico in loco; costrette, al pari delle forze imperiali, nel migliore dei casi a sostenersi grazie a lunghe e precarie catene di rifornimento. Una condizione da truppe di occupazione piuttosto che da forze liberatorie. Una condizione propedeutica ad ulteriori frammentazioni e divisioni.

È la condizione perfetta che potrebbe consentire ancora per qualche tempo alle forze politiche al governo di gestire le proprie evidenti divisioni in modo da raccogliere contemporaneamente le istanze di governo e di opposizione.

La schizofrenia, caratteristica comune anche ai governi immediatamente precedenti, è una peculiarità di questo governo.  Argomento già trattato ampiamente in altri articoli.

Il campo di applicazione è vasto: si passa dalla politica delle grandi infrastrutture, al ruolo della magistratura, alle questioni ambientali.

Il reddito di cittadinanza probabilmente ne è l’emblema. Il provvedimento poggia su due assunti fasulli: che la disoccupazione sia soprattutto un problema di formazione; che la disoccupazione abbia le stesse caratteristiche e le stesse ragioni nella variegata geografia del paese. Sino a quando si continuerà a parlare di disoccupazione e non di “disoccupazioni” la retorica vincerà sul pragmatismo, favorendo la fuga verso l’assistenzialismo e l’incomprensione, tra i tanti, del fenomeno di quella parte consistente di personale qualificato, compreso quello immigrato, che preferisce migrare all’estero. Una retorica nella quale si sono rifugiate tutte le forze politiche; tutte! Un tema, altrimenti, che sarebbe dirimente; che implicherebbe tutta una serie di politiche e di volontà, compresa la creazione di nuove imprese e formazione di imprenditori. Un tema che, trattato con coerenza, rischierebbe di mandare in fibrillazione irreversibile le politiche comunitarie di stampo liberista e il reticolo di norme europee che regolano le attività e gli investimenti.

Il termine schizofrenia sottende la convivenza di propositi opposti e difficilmente conciliabili; di propositi, quindi, anche accettabili e significativi. A spulciare documenti e provvedimenti quesi ultimi non mancano; e l’opera certosina e discreta di settori della pubblica amministrazione sta cercando di dare loro corpo.

Si legge il proposito di difesa delle imprese impegnate nel complesso militare e nell’industria strategica residua, anche se i tagli successivi sembrano poi contraddire in parte le intenzioni. Si inizia a ricostruire un sistema di agenzie e di centri nazionali in grado di fungere da supporto tecnico e indirizzo nell’attuazione dei programmi di investimento specie delle amministrazioni periferiche e locali. Un tentativo molto più strategico di quanto possa apparire. Un modo per indebolire quel legame diretto tra amministrazioni locali e strutture e agenzie comunitarie che contribuisce a logorare la funzione di indirizzo e controllo dello Stato Centrale. Si sta operando per riprendere almeno il controllo pubblico delle reti, in particolare le telecomunicazioni, dopo le sciagurate privatizzazioni. Si sta cercando di riprendere il controllo dell’esposizione del debito pubblico con l’emissione di titoli collocati direttamente tra i risparmiatori al dettaglio.

Sono indirizzi ancora estemporanei, portati avanti sottotraccia e ancora privi di un disegno organico. Un disegno che implicherebbe la ripresa di temi strategici come la ridefinizione delle competenze tra stato centrale e amministrazioni locali; la gestione del rilevante risparmio nazionale; la riconduzione nei ranghi dell’azione giudiziaria. Tutti temi che stridono ancora con le suggestioni della democrazia dal basso del M5S e le concezioni originarie del federalismo della Lega ancora ben presenti nelle due formazioni e connaturate nel M5S.

Limiti che rivelano la durezza di un confronto più interno alle forze di governo che tra queste e le opposizioni. Una ruvidezza cui non corrisponde una chiarezza sufficiente di obbiettivi e di strategie; un sordo contrasto che potrà risolversi probabilmente solo con il completamento della trasformazione surrettizia della Lega in partito nazionale e con la spaccatura di un M5S logorato dove sta però prendendo piede una componente più realista. Vedremo cosa comporterà il prossimo ritorno del Messia pentastellato, di Di Battista anche se le frecce in faretra si stanno rivelando sempre più spuntate. Qualcuno si deciderà finalmente a chiedergli conto delle sue frequentazioni americane, specie in California e dei suoi stage di apprendimento.

IL PARADOSSO INTERNAZIONALE

Paradossalmente gli impulsi migliori e più promettenti sembrano provenire dal contesto internazionale. Questo Governo viene continuamente tacciato di un avventurismo che lo sta sospingendo nell’isolamento più totale. In realtà l’isolamento e l’inconsistenza del peso geopolitico del paese si è compiuto silenziosamente a partire dalla guerra civile nella ex-Jugoslavia e dalla riunificazione tedesca. L’Italia ha perso quasi ogni influenza in Europa Orientale, compresi i Balcani e ha incrinato la sua credibilità e il suo prestigio nel Mediterraneo in questi ultimi trenta anni. Una chiusura a Nord-Est che la sta sospingendo volente o nolente verso il Mediterraneo e il Nord-Africa. La chiusura del cerchio avrebbe potuto completarsi con la guerra e la defenestrazione di Gheddafi in Libia. Da lì, invece, è iniziato fortunatamente il declino di Obama e l’emersione della vanagloria francese. Oggi l’America di Trump, per relegare almeno momentaneamente il multilateralismo, destrutturare il sistema di relazioni fondato su organismi sovranazionali e rifondare un sistema di alleanze più agile ed efficace e soprattutto più sostenibile, ha bisogno di ripristinare i rapporti tra stati nazionali e ridimensionare le potenze regionali che hanno lucrato all’interno della propria sfera di influenza. In Libia, per altro, si è creato una terra di nessuno dove le malefatte clintoniane hanno offerto le possibilità di accordo tra Trump e Putin a scapito di Francia e Turchia. Il terreno ideale per offrire all’Italia la possibilità di ritorno e di azione. Un invito colto con una certa sapienza dal Governo Conte con la gestione della recente conferenza. Più discreto, ma altrettanto efficace, almeno per il momento, la copertura nel contenzioso europeo. Come pure le boccate di ossigeno offerte dal complesso angloamericano a Finmeccanica e Fincantieri. In politica, più che in altri ambiti però, ogni sostegno e ogni collaborazione non sono disinteressati e nemmeno garantiti e stabili nel tempo. Il confine tra la capacità di cogliere le opportunità offerte e la condanna a cadere sotto nuove forme di servitù e subordinazione, simili alle precedenti, è sempre labile e poco definito. Un dilemma che le classi dirigenti nazionali hanno dovuto affrontare più volte a partire dal conseguimento dell’unità. Qualche volta con esito soddisfacente, altre incorrendo in un destino drammatico o poco lusinghiero. L’armistizio estivo tra l’Amministrazione di Trump e la Commissione Europea deve fungere da campanello di allarme. Il rinvio dell’innalzamento delle barriere doganali ai danni della Germania è costata qualche concessione ai tedeschi e il sacrificio molto più significativo su importazioni di prodotti agricoli a scapito dell’Italia.

L’ipotesi di puntare rapidamente ad una condizione di neutralità vigile può essere prematura; richiede ben altre condizioni e una classe dirigente in grado di sostenere un confronto così duro. Tentare almeno un patto con il diavolo che consenta di recuperare il controllo almeno del sistema finanziario, con la riacquisizione di Generali e UNICREDIT e magari la gestione della rete commerciale che apra uno sbocco più garantito dei prodotti agricoli nel mercato nazionale, ambiti economici attualmente in mano ai francesi e in parte ai tedeschi, potrebbe essere un obbiettivo già alla portata dell’attuale Governo, così come quello in atto sulla TIM nel settore delle telecomunicazioni. L’importante è riuscire a resistere alle pressioni di una armata probabilmente più sgangherata di quanto possa apparire ma sempre pronta a trovare nuovi corifei e nuovi tromboni. Il Corriere della Sera, ancora una volta, si è offerto diligentemente nella funzione di benpensanti servili. Giornalisti come Federico Fubini, da capostipiti, hanno decisamente scelto la loro missione: quella di ventriloqui del magnate filantropo Soros. (vedere per credere:  https://2018.festivaleconomia.eu/-/di-quale-europa-abbiamo-bisogn-1  ). La loro credibilità, però, sta crollando fortunatamente assieme alle vendite dei loro fogli. Uno spazio in più del quale approfittare

 

 

L’uccisione di Khashoggi – Al complesso incrocio di tre punti di inflessione. di Alastair Crooke

L’uccisione di Khashoggi – Al complesso incrocio di tre punti di inflessione. di Alastair Crooke

Arabia Saudita , Jamal Khashoggi

 

Fonte: Strategic Culture, Alastair Crooke , 23-10-2018

I realisti sottolineano che lo smembramento ancora in vita e l’assassinio di Khashoggi è ancora solo la morte di un giornalista; che tali eventi non sono eccezionali – e che gli stati raramente cambiano le politiche sulla base della morte, non importa quanto atroce. Tutto questo è vero. Ma è anche vero che un evento isolato si verifica “al momento giusto”; può colpire proprio nel punto di flessione dove è pronto a oscillare; quando solo un ulteriore fiocco di neve indistinto può innescare una enorme colata la cui massa è del tutto sproporzionata rispetto al singolo chicco che la innesca. L’uccisione di Khashoggi l’ha quindi innescata? Sì, è del tutto possibile perché ci sono molti accumuli instabili di implicazioni politiche nella regione, dove anche un piccolo evento potrebbe innescare uno scenario più grande. Queste dinamiche costituiscono un legame complesso di dinamiche mutevoli.

Anche il corpo letteralmente smembrato di Khashoggi è in qualche modo un’allegoria delle più ampie dinamiche regionali che si stanno sgretolando. Khashoggi – uno dei primi membri della Fratellanza Musulmana, e considerato la loro icona – è stato, ci viene detto, letteralmente, orribilmente smembrato. Simbolicamente, la sua fine sarà considerata – almeno nella regione – come il corpo vivente ancora dei MB (Fratelli musulmani), sdraiata sulla scrivania, tagliata da apparatchik sauditi – ricordando quasi fedelmente la campagna del Golfo per schiacciare e “eradicare” La Fratellanza di questa zona.

Il simbolismo è tanto più struggente in quanto Khashoggi simboleggia, anche nella sua figura, questo tentacolo ambiguo che si estende tra Al Qaeda di bin Laden e i Fratelli musulmani – anche se Khashoggi aveva poi voluto qualificare la sua stima per bin Laden. (Khashoggi si unì alla Fratellanza Musulmana all’incirca lo stesso tempo che con Bin Laden, ha viaggiato a lungo con il leader di Al Qaeda in Afghanistan e ha scritto uno dei  primi ritratti a una rivista saudita nel 1988 ( vedi L’Osama bin Laden I Know di Peter Bergen).

Il principale “punto di inflessione” colto giustamente dal mondo, però, è la possibilità che il presidente Trump è con le spalle al muro, costretto a malincuore dal filtraggio lento delle notizie, dal flusso della trasmissione di prove – a un riequilibrio delle relazioni Usa-sauditi, per la prima volta dal 1948. E, in questo contesto, ad ammettere a malincuore che Mohammed bin Salman non è la base affidabile attorno alla quale ruotano tutti gli elementi principali della politica estera USA: Il cambio di regime in Iran, la limitazione del prezzo del petrolio mentre l’Iran è oggetto di nuove sanzioni, la vendita di armi americane e l’omaggio a Israele del suo “accordo del secolo”). Naturalmente, nessuno sa cosa potrebbe accadere in Arabia Saudita se MBS fosse emarginato come presunto erede. Ci sono rumori nella famiglia al-Saud che sono chiaramente udibili.

Trump prenderà davvero una decisione del genere? Farà di tutto per evitarlo. Tuttavia, un l’innalzamento dei toni  critici dell’opinione del Congresso degli Stati Uniti e del Beltway [il linguaggio americano usato per caratterizzare le questioni che sono, o sembrano essere, importanti soprattutto per i funzionari federali statunitensi] hanno intaccato da tempo le relazioni saudite: A poco a poco, dall’11 settembre e dalla catastrofe dello Yemen, si è innalzata questa ondata di malcontento e disagio sul merito della stretta relazione di MBS con gli Stati Uniti.

Poche persone a Washington non credono che l’affermazione di Trump che le vendite delle armi rappresentano un potenziale di 110 miliardi di dollari non siano altro che spacconate: camuffamento di vendita esistenti, già in preparazione dal tempo di Obama oggetto di alcune lettere di intenti (non vincolanti). E gli Stati Uniti non dipendono più da una fornitura sicura di petrolio saudita. Inevitabilmente, il lato negativo della relazione diventa sempre più marcato (e più scuro). E con il pubblico più consapevole degli orrori che sono il jihadismo wahabita brutale (vale a dire in Siria) e della realizzazione lenta di una “riforma” in Arabia Saudita che non corrisponde a ciò che il termine significa altrove. L’uccisione di Khashoggi è l’ultimo grano che scatenerà l’improvvisa caduta? Se il senatore Lindsay Graham può essere considerato il “canarino nella miniera”, allora sì: “Questo ragazzo [MBS], deve andarsene” Graham insiste .

E qui, l’altro simbolismo derivante dall’assassinio di Khashoggi indica un diverso “punto di svolta”: il suo smembramento ha avuto luogo in Turchia, proprio mentre stava per manifestarsi all’Istituzione del AKP (lo zio della sua fidanzata era uno dei fondatori dell’AKP). Khashoggi era anche amico del presidente Erdogan. Questo evento spaventoso ha permesso a Erdogan di massimizzare la posizione della Turchia in modo incommensurabile (specialmente quando si è verificato contemporaneamente alla liberazione del pastore americano Brunson da parte della corte turca). Trump, inchinandosi a Brunson alla Casa Bianca, si è convertito a modo suo a Damasco: ora considera la Turchia molto favorevolmente, ha detto il presidente. Erdogan trarrà pieno vantaggio da questo vantaggio ; separare gli Stati Uniti dai curdi della Siria orientale e rafforzare la propria influenza giocando a Washington contro Mosca.

Erdogan ha ovviamente maggiori ambizioni. Sta usando questa leva di Khashoggi per promuovere la sua leadership nel mondo islamico, sperando di strapparlo all’Arabia Saudita. Dopo la sconfitta dei wahhabiti in Siria, Erdogan ritiene che l’islam sunnita stia per prevalere: usa audacemente il linguaggio e l’immaginario ottomano per affermare questa passata affermazione; gli articoli della stampa turca aggiungono a ciò la richiesta che l’Arabia Saudita abbandoni la sua egemonia “wahhabita” nei luoghi santi della Mecca e Medina.

Questo è un altro importante punto di svolta: la posizione dell’Arabia Saudita sta collassando: è sempre stato uno stato politicamente marginale, ma il regno ha compensato questa situazione con una politica dei libretti degli assegni e con il suo accreditamento come guardiano dei luoghi santi.

Ma con gli eccessi dell’IS che hanno alienato le simpatie degli americani e degli europei, gli stati del Golfo si sono rivolti a una narrazione di “appello alla moderazione” e all’approvazione della “guerra contro la teocrazia” piuttosto che rischiare una condanna diretta della violenza jihadista: una posizione inaccettabile per i loro stessi chierici puritani. (Il fatto è che mentre la “guerra contro la teocrazia” potrebbe essere intesa come un esplicito impegno per combattere l’IS, è più conveniente e retoricamente servito per equiparare Iran, Hezbollah e la Fratellanza Musulmana con EI, considerandoli indistinguibili da questi ultimi). Questa è la storia altamente artificiale a cui Trump si è iscritto senza riserve.

La stessa “moderazione” ha tuttavia innescato un tentativo concertato, anche se confuso, di allontanare le monarchie del Golfo dallo “Stato islamico”. Ma, come ha sottolineato Ahmad Dailami, il nazionalismo monarchico che MBS usava per allontanare il regno dal proprio puritanesimo islamico non è stato sostituito da un altro credo o da un vero secolarismo.

Khashoggi è salutato in Occidente come un riformista pro-liberale e democratico, ma in realtà, è stato un forte sostenitore della monarchia (della quale MBS è il capo effettivo). Sostenne, tuttavia, che tutte queste monarchie fossero “riformabili” . Solo le repubbliche secolari (come Iraq, Siria e Libia) non sono riformabili e devono essere rovesciate, ha detto. Il tema di disaccordo con MBS interessa il passaggio verso la laicità o “liberismo” pro occidentali perché ha favorito una riforma islamizzata della politica araba sul modello dei Fratelli Musulmani – come Erdogan, in realtà.

Ecco il secondo potenziale punto di svolta : lo sfruttamento dell’assassinio di Khashoggi da parte di Erdogan sarà finora in grado di trascinare nella sua scia un cambiamento nel sostegno americano , che si sta allontanando dal Golfo per tornare al modello dei Fratelli musulmani turchi? Nel corso degli anni, gli Stati Uniti hanno oscillato (spesso in modo abbastanza violento) tra il sostegno ai Fratelli Musulmani come catalizzatore del cambiamento in Medio Oriente e il ritorno alle competenze dei servizi segreti sauditi per rendere questi jihadisti “dall’inferno” la migliore ricetta per rapidi cambiamenti di regime.

Trump ha accennato a un tale cambiamento possibile con i suoi commenti favorevoli sulla Turchia quando ha ricevuto il pastore Brunson: “È uno splendido passo per avere un rapporto speciale con la Turchia. I nostri pensieri sulla Turchia di oggi sono molto diversi da quelli di ieri. Immagino che avremo la possibilità di essere molto più vicini alla Turchia, di avere relazioni molto più strette. Stabilire buoni legami con il presidente Erdoğan sta guadagnando importanza. ”

E cosa costituisce la possibilità latente di un terzo punto di inflessione? Israele, ovviamente. L’ex ambasciatore degli Stati Uniti in Israele Dan Shapiro scrive :

“L’assassinio di Khashoggi ha implicazioni che vanno ben oltre il rivelare che il principe ereditario saudita è brutale e spericolato. A Gerusalemme e Washington, DC, stanno piangendo il loro intero concetto strategico per il Medio Oriente – specialmente per contrastare l’Iran … La scioccante brutalità del rapimento e dell’omicidio di Jamal Khashoggi da parte delle forze di sicurezza saudite può essere mimetizzata, indipendentemente dall’incredibile versione che viene fatta, come errore durante un interrogatorio o il lavoro di teppisti.

Ma le sue implicazioni vanno oltre la tragedia che ha colpito la famiglia e la fidanzata di Khashoggi. Ciò solleva interrogativi fondamentali per gli Stati Uniti e Israele sul loro concetto strategico in Medio Oriente … L’assassinio di Khashoggi, al di là dell’eliminazione delle linee rosse dell’immoralità, sottolinea anche l’inaffidabilità fondamentale dell’ l’Arabia Saudita di MBS come partner strategico. Quello che è successo al consolato saudita a Istanbul riecheggia le parole usate in passato per descrivere l’eliminazione di un avversario da parte di Napoleone: “È peggio di un crimine. È un errore Si potrebbe aggiungere che questo è un errore strategico. “

In effetti, apre un potenziale punto di inflessione di grande importanza. Israele potrebbe aver perso la sua superiorità aerea sulla Siria e sull’arco settentrionale del Medio Oriente, o almeno questa superiorità aerea è stata ampiamente circoscritta. Israele ha fatto affidamento su questa superiorità aerea. Ma in seguito alla perdita di un Iliushin Il-20 e dei suoi 15 aviatori sulla Siria il 17 settembre, la Russia ha installato un formidabile ombrello aereo e di difesa elettronica su gran parte dell’area settentrionale del paese del Medio Oriente.

Di conseguenza, l’equilibrio strategico nel Medio Oriente oscilla instabilmente. L’equilibrio dei poteri si è spostato verso nord: “per Israele non sarà facile navigare in queste acque, mentre l’establishment della politica estera di Washington si è rapidamente diviso in campi anti-iraniani e anti-sauditi … Per gli israeliani, [potrebbe essere] il più grande contraccolpo   dell’uccisione di Khashoggi [che] MBS, nel suo tentativo di mettere a tacere i suoi critici, ha in realtà minato la volontà di costruire un consenso internazionale per fare pressione sull’Iran “, ha concluso Shapiro. Israele ora ha un certo numero di alternative: esortare Trump ad intervenire su Putin per “tornare” a schierare la S-300 SAM in Siria; direttamente sfidare le difese aeree russe o accettare un nuovo equilibrio strategico regionale.

Il modo in cui Trump alla fine decide di gestire l’assassinio di Khashoggi – se evitarlo o meno – può ben determinare quale di queste opzioni Israele – e la regione nel suo complesso – alla fine scelga di seguire.

Fonte: Strategic Culture, Alastair Crooke , 23-10-2018

 

Vilfredo Pareto Trasformazione della democrazia, una recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Vilfredo Pareto Trasformazione della democrazia, Editore Il Foglio, pp. 116, € 12,00

È opportuna questa nuova edizione del libretto di Pareto, la prima del quale è del 1921, in cui il grande sociologo riuniva quattro testi pubblicati l’anno precedente sulla “Rivista di Milano”; e quindi nel 1920, anno decisivo per la crisi del regime liberale, l’occupazione delle fabbriche e il decollo del movimento fascista.

Alla prima edizione ne seguivano ben otto e tutte, come scrive Carlo Gambescia nel saggio introdotto, in anni politicamente caldi il cui comune denominatore è “quello di un clima segnato dalla diffidenza verso la democrazia liberale e di sfiducia verso le esangui élite italiane, politiche ed economiche, sempre però pronte al compromesso, anche, con il diavolo, pur di tenersi a galla”.

Nella situazione degli anni ’20, scrive Gambescia, Pareto “scorge, a verifica delle teorie del Trattato, uscito nel 1916, lo sviluppo di un fenomeno che definisce, fin dal titolo, «trasformazione della democrazia», e ne individua e riassume, «spiccatissimi», «almeno tre caratteri principali, cioè: 1) L’affievolirsi della sovranità centrale e l’invigorirsi di fattori anarchici; 2) il veloce progredire nel ciclo della plutocrazia demagogica; 3) la trasformazione dei sentimenti della borghesia e della classe che ancora governa».

Non è un caso che almeno un paio di tali caratteri erano stati avvertiti da due giuristi contemporanei di Pareto: Santi Romano, in specie nel saggio “Lo Stato moderno e la sua crisi” (del 1909) e Maurice Hauriou in diverse opere e saggi (ora raccolte negli “Écrits sociologiques” silloge di più saggi del doyen negli anni a cavallo tra i due secoli).

Il giurista siciliano sottolineava l’emergere di poteri “nuovi” tendenzialmente più che “centripeti”, contestatori dell’ordinamento dello Stato rappresentativo (cioè borghese); il francese il ciclo dei regimi politici e il carattere disgregatore del denaro (la plutocrazia) e del pensiero critico (oggi diremmo del relativismo). Prova (tra le altre) di come, oltre un secolo fa vi fosse consapevolezza della decadenza delle istituzioni realizzate dopo la rivoluzione del 1789 e di come stesse nascendo qualcosa di nuovo (ossia, per chi condivide, con Pareto e i due giuristi, il carattere “ciclico” della storia, qualcosa di antico in forma rinnovata).

Gambescia si chiede quale sia il “succo sociologico” di un’opera come “Trasformazione della democrazia”. E lo trova “In quella che Giovanni Busino ha ridefinito «teoria della spoliazione». Come modalità, tra le tante altre cose, riteniamo, per approcciarsi all’analisi dei processi politici.

Secondo Busino, le sue  «pagine più originali sono quelle sulle relazioni della democrazia colle forze di mercato». Sotto questo aspetto – oltre agli ovvi richiami al Trattato – l’ultimo libro di Pareto, Trasformazione della democrazia, con il suo concetto di plutocrazia demagogica, rinvia, dal punto di vista delle scelte politiche, all’idea dello spreco di risorse: un arraffa, arraffa, se ci si perdona la caduta di stile, condiviso dalla plutocrazia con gli attori sociali, quelli che ovviamente si prestino ai suoi giochi”.

Lo scopo della spoliazione “è di conservare il potere, di restare al centro, in posizione sovra-ordinata, del processo politico … Sottraendo risorse ai nemici per conferirle agli amici. Ma anche con ogni altro mezzo: dalla corruzione alla collusione”.

E, scrive Gambescia citando Belligni: “scrive Belligni, portando alle estreme conseguenze le intuizioni teoriche paretiane e cogliendo il senso profondo del ciclo plutocratico, che «col ridursi dell’ammontare complessivo della torta sociale, il costo relativo delle taglie destinate alle clientele e alla classe politica cresce fino a farsi insostenibile, provocando l’insorgere di questioni morali e addirittura spingendo talvolta i popoli alla rivolta, come avveniva nelle carestie del passato. Se nei periodi di sviluppo “i politicanti prendono per sé grosse fette di torta, altre minori ne prelevano i politici secondari”, nei periodi di crisi ciò non viene più tollerato e sono spesso gli stessi politicanti, dal governo o dall’opposizione, a insorgere farisaicamente contro gli sprechi e le ruberie, agitando istanze e programmi moralizzatori». Abbiamo avuto un esempio di “plutocrazia demagogica” anche con Berlusconi, sostiene Gambescia, ricordando quanto scrive Barbieri in tre casi emblematici: “1) il salvataggio dell’Alitalia; 2) L’estensione innovativa dei compiti della Protezione civile alla gestione dei grandi eventi; 3) Lo scudo fiscale”. Conclude il saggio introduttivo Gambescia che “Purtroppo la libertà, la vera libertà, sembra per molti essere ancora un peso. Si preferisce anche a livello politico, disconoscere il grande valore racchiuso nel ruolo sociale degli uomini creativi, liberi e indipendenti per privilegiare i piagnistei interessati dei parassiti, sempre pronti a tendere la mano e sfruttare gli atri”. Ma gli uomini sono fatti in un certo modo (il “legno storto” di Kant riappare) e “per dirla con Pareto, va sempre scansato «il pericolo di trascorrere anche oltre i campi del possibile e di andare vagando per gli sterminati spazi dell’immaginazione».

Anche perché, purtroppo, sociologicamente parlando, non ci sfugge che sotto il plutocrate demagogo c’è il parassita e viceversa. Il ciclo della spoliazione sembra essere nelle cose sociali stesse della democrazia”.

Scrive Pareto all’inizio del saggio che “Lo studio del complesso sociale è lungo, ed il solo tentativo di compierlo occupa i due volumi della Sociologia”; e in effetti il libro è l’applicazione delle idee più diffusamente (e più in generale) esposte nel Trattato di sociologia generale. Dato che ad una recensione non è possibile dare conto di tanto lavoro, ci limitiamo a un solo aspetto, quello che ha più interessato sia Gambescia che gli studiosi di Pareto citati nel saggio introduttivo: quello della spoliazione politica.

Com’è noto, solo per limitarci al pensiero politico-sociale italiano, il fatto che i governanti prelevino parte delle risorse sociali è noto – e anche, entro certi limiti – logico.

Almeno a partire da Maffeo Pantaleoni per arrivare, in tempi recenti, a Gianfranco Miglio e Cesare Cosciani, l’appropriazione politica (o spoliazione politica o rendita politica) è stata ampiamente analizzata da scienziati politici e economisti italiani, come Fortunato, Puviani, Mosca, Michels, Santangelo Spoto.

Tuttavia è una concezione/constatazione che, per questo ovvia e applicabile ad ogni regime politico (e non solo alla democrazia), è nel           comportamento – universale – dei governanti ossia delle “classi elette”. E per ciò poco frequentata dagli intellettuali di regime (o di Corte).

Se applichiamo, la distinzione, risalente a Pantaleoni, degli assetti finanziari dei rapporti governanti/governati, abbiamo tre “assetti”: predatorio, parassitario e tutoriale. La cui connotazione (preferibile da chi scrive) è che l’ultimo sia di un rapporto equilibrato e “sinallagmatico” tra élite e governati; il parassitario di una condizione di sfruttamento, non tale però da far deperire l’organismo ospite (cioè la comunità); il terzo, predatorio, che la fa deperire, talvolta portandola alla fine (cioè al termine del ciclo politico).

Applicando tale criterio, con la “seconda repubblica” (centrosinistra soprattutto, ma comunque centrodestra compreso, anche se responsabile minore) siamo passati dall’assetto parassitario della “prima repubblica”, caratterizzato da crescente prelievo fiscale, ma addolcito da una crescita economica notevole (le élite, per tale aspetto, migliori dall’Unità d’Italia), a un prelievo fiscale aumentato ulteriormente, malgrado la stagnazione economica più che ventennale nella “seconda repubblica” (la peggiore di sempre dal 1861). Non c’è da meravigliarsi, preoccupati da un tale sfascio storico, che il 4 marzo il popolo italiano abbia dato alle “elette” il benservito.

Teodoro Klitsche de la Grange

PETER NAVARRO E I GLOBALISTI, a cura di Gianfranco Campa

Nei numerosi articoli e podcast sulle vicende politiche e sull’aspro scontro che contrappone una vecchia classe dirigente arroccata ed una nuova in via di formazione negli Stati Uniti ci siamo soffermati soprattutto sulle dinamiche di questo conflitto e sulle forze in campo. Con il commento all’intervento di Peter Navarro si intende sottolineare un degli aspetti alla base di queste dinamiche: la destabilizzazione della formazione sociale statunitense e della sicurezza militare legate al processo di globalizzazione e all’ambizione di dominio unipolare e la conseguente reazione_Giuseppe Germinario

 

 

PETER NAVARRO RIVOLGE UN MONITO AI GLOBALISTI

 

Peter Navarro, il principale consigliere sui trattati internazionali di Donald Trump, ha rivolto un pressante monito diretto ai rappresentanti di Wall Street e ai globalisti mondiali: non interferire nei colloqui in atto fra l’amministrazione Trump e i Cinesi sulla rinegoziazione dei trattati economici e sull’imposizione di nuovi pesanti dazi sui prodotti cinesi.

Le parole di Navarro non devono sorprendere, poiché il Professor Navarro è personalmente coinvolto in una battaglia che ormai conduce da molti anni sui pericoli della globalizzazione, in particolare per l’aspetto relativo al rapporto commerciale tra Stati Uniti e Cina.

La battaglia per il riposizionamento nel rapporto commerciale fra i vari paesi del mondo e gli Stati Uniti è una priorità della Casa Bianca di Trump. Termini come nazionalismo si sovrappongono al globalismo. Peter Navarro è la punta di lancia in questo scontro fra Wall Street, cioè i globalisti, e Main Street, cioè i nazionalisti.

Negli ultimi decenni, Wall Street, con il supporto della Camera di Commercio Americana, ha cannibalizzato Main Street a scapito del profitto, riducendo in cenere l’industria manifatturiera americana. Le politiche economiche di Wall Street sono diametralmente opposte a quelle di Main Street. Questo potere intrinseco di Wall Street è l’epicentro delle cosiddette “fogne di Washington”.

Lo scorso Venerdì, parlando al CSIS (Center for Strategic and International Studies) per oltre un’ora, Navarro ha sottolineato le problematiche degli scambi commerciali con la Cina e soprattutto come i banchieri di Wall Street e i manager di hedge funds stanno ostacolando i tentativi di ricalibrare il rapporto con la Cina da parte dell’amministrazione Trump. Le parole di Navarro indirizzate a queste entità sono state durissime, al limite della minaccia.

Qui sotto trovate la traduzione di un estratto di tre minuti, estrapolato dall intero intervento di Navarro. Intervento che ha suscitato molto scalpore in certi ambienti americani.

 

https://www.c-span.org/video/?c4759972/peter-navarro-billionaire-globalists-pushing-white-house-cut-trade-deal-china

 

https://www.youtube.com/watch?v=k7SkF6bbSkE

 

QUESTO RAPPORTO IDENTIFICA CON LA MASSIMA CHIAREZZA UNA MINACCIA ALLA BASE INDUSTRIALE DELLA DIFESA  USA:  QUESTA E’ LA VISIONE DEL DOD (Dipartimento di Difesa) E DEGLI ALTRI ELEMENTI DI QUESTO GOVERNO, ED E’  MOLTO DIVERSA DA QUELLA DEI BANCHIERI DI WALL STREET E DELLE ÉLITE GLOBALISTE. CONSIDERATE PER ESEMPIO LA DIPLOMAZIA OMBRA TRA U.S. E CINA CHE VIENE ATTUATA DA UN GRUPPO INDIPENDENTE, AUTO PROCLAMATOSI ALTERNATIVO AL GOVERNO AMERICANO, COMPOSTO DAI BANCHIERI DI WALL STREET E DIRIGENTI DI HEDGE FUNDS. NEL QUADRO DI UNA OPERAZIONE DI INFLUENZA DEL GOVERNO CINESE, MILIARDARI GLOBALISTI  ESERCITANO UNA FORTISSIMA PRESSIONE A 360° SULLA LA CASA BIANCA IN PREVISIONE DEL G20 IN ARGENTINA. LA MISSIONE DI QUESTI AGENTI UFFICIOSI DEL GOVERNO CINESE, PERCHÉ  E’ QUESTO CHE SONO, E’  FORZARE IL PRESIDENTE A FIRMARE UN ACCORDO. SU QUESTO, DUE PUNTI DEVONO ESSERE CHIARI: IL PRESIDENTE DONALD TRUMP HA FATTO UN LAVORO INCREDIBILE SUGLI ACCORDI COMMERCIALI, HA AVUTO ANCHE IL CORAGGIO E LA SAGGEZZA DI RESISTERE ALLE ELITE GLOBALISTE, DI RESISTERE AI PAESI CHE SI IMPEGNANO IN PRATICHE COMMERCIALI SLEALI, SCAMBI INEGUALI, ALTI DAZI, USANDO IL MONDO – USANDO IN PARTICOLARE GLI STATI UNITI – COME LA BANCA DEL MONDO. E PRODUCENDO UNO SBILANCIO COMMERCIALE, PERCHÉ’ QUESTO FANNO, OGNI ANNO UNO SBILANCIO COMMERCIALE DI UN TRILIONE DI DOLLARI. QUESTO È UN PURO E SEMPLICE TRASFERIMENTO DI RICCHEZZA ALL’ESTERO: POSTI DI LAVORO, FATTORI PRODUTTIVI E SOLDI. DONALD TRUMP HA FATTO UN LAVORO INCREDIBILE, AFFRONTANDO QUESTA REALTA’, E SE IN PASSATO NON HA AVUTO BISOGNO DELL’AIUTO DI WALL STREET; NON HA AVUTO BISOGNO DELL’AIUTO DI GOLDMAN SACHS, ANCOR MENO NE HA BISOGNO OGGI. QUANDO QUESTI PSEUDOAGENTI STRANIERI SENZA TESSERA SI DANNO A QUESTO TIPO DI DIPLOMAZIA – COSIDDETTA DIPLOMAZIA, – NE VIENE PREGIUDICATA LA FORZA DEL PRESIDENTE E LA SUA POSIZIONE NEGOZIALE. NIENTE DI BUONO PUO’  VENIRE DA QUESTO. SE E QUANDO CI SARA’ UN ACCORDO, SARÀ ALLE CONDIZIONI DEL PRESIDENTE DONALD TRUMP, NON A QUELLE DI WALL STREET. SE  WS E’ COINVOLTA E CONTINUA AD INTROMETTERSI IN QUESTO NEGOZIATO, SE NE SENTIRA’ IL CATTIVO ODORE INTORNO A QUALSIASI ACCORDO VENGA PATTUITO. AVRA’ LA FIRMA DI  WALL STREET. RIVOLGO UN PRESSANTE INVITO A QUESTI PSEUDOAGENTI A DESISTERE. NON NE PUÒ ‘VENIRE NIENTE DI BUONO. SE VOGLIONO FARE DEL BENE, SPENDANO I LORO MILIARDI A DAYTON, OHIO, NELLE CITTA’ INDUSTRIALI D’AMERICA, DOVE ABBIAMO BISOGNO DI FAR RINASCERE LA NOSTRA MANIFATTURA DI BASE  E RISOLVERE L’EPIDEMIA DI DIPENDENZE DA OPPIOIDI CHE HANNO CREATO DELOCALIZZANDO LA NOSTRA PRODUZIONE.”

IDENTIFIED THREAT TO AMERICA’S DEFENSE INDUSTRIAL BASE. NOTHING CAN BE CLEARER IN THIS REPORT. THIS IS A VERY DIFFERENT VIEW THAT DOD AND OTHER ELEMENTS OF THIS GOVERNMENT HAVE BEEN THE WALL STREET BANKERS AND GLOBALIST ELITES. CONSIDER THE SHADOW DIPLOMACY THAT IS NOW GOING ON BY A SELF-APPOINTED GROUP OF WALL STREET BANKERS AND HEDGE FUND MANAGERS BETWEEN U.S. AND CHINA. AS PART OF A CHINESE GOVERNMENT INFLUENCE OPERATION, GLOBALIST BILLIONAIRES ARE PUTTING THE FULL COURT PRESS ON THE WHITE HOUSE IN ADVANCE OF THE G20 IN ARGENTINA. THE MISSION OF THESE UNREGISTERED FOREIGN AGENTS, THAT’S WHAT THEY ARE, UNREGISTERED AGENTS TO PRESSURE THIS PRESIDENT INTO SOME KIND OF A DEAL. TWO POINTS HAVE TO BE MADE CLEAR ABOUT THIS. PRESIDENT DONALD TRUMP HAS DONE AN INCREDIBLE JOB — INCREDIBLE JOB ON TRADE. HE HAS HAD THE COURAGE AND WISDOM TO STAND UP TO THE GLOBALIST ELITES, TO STAND UP TO THE COUNTRIES OF THE WORLD THAT ARE ENGAGING IN UNFAIR TRADE PRACTICES, NONRECIPROCAL TRADE, HIGH TARIFFS, USING THE WORLD — USING THE UNITED STATES AS THE BANK OF THE WORLD. RUNNING UP A TRADE DEFICIT EVERY YEAR BECAUSE THEY DO THAT OF OVER A HALF $1 TRILLION. THAT IS A PURE TRANSFER OF WEALTH ABROAD. JOBS, FACTOR, AND MONEY. DONALD TRUMP HAS DONE AN AMAZING JOB OF ADDRESSING THAT ISSUE AND HE DIDN’T NEED THE HELP OF WALL STREET, HE DIDN’T NEED THE HELP OF GOLDMAN SACHS AND HE DOESN’T NEED IT NOW. WHEN THESE UNPAID FOREIGN AGENTS ENGAGE IN THIS KIND OF DIPLOMACY, SO CALLED DIPLOMACY, ALL THEY DO IS WEAKEN THIS PRESIDENT AND HIS NEGOTIATING POSITION. NO GOOD CAN COME OF THIS. IF AND WHEN THERE IS A DEAL, IT WILL BE ON PRESIDENT DONALD TRUMP’S TERMS NOT WALL STREET’S TERMS. IF WALL STREET IS INVOLVED AND CONTINUES TO INSINUATE ITSELF INTO THESE NEGOTIATION THERE WILL BE A STENCH AROUND ANY DEAL THAT IS CONSUMMATED. IT WILL HAVE THE FACTS OF WALL STREET. I WOULD URGE THESE AGENTS TO STAND DOWN ON THIS ISSUE. NO GOOD CAN COME OF IT. IF THEY WANT TO DO GOOD, SPEND THEIR BILLIONS IN DAYTON, OHIO, IN THE FACTORY TOWNS OF AMERICA, WHERE WE NEED A REBIRTH OF OUR MANUFACTURING BASE  AND TO THE OPIOID CRISIS WHICH I HAVE TO CREATE BY OFF SHORING OUR PRODUCTION.

Trump dovrebbe incontrare il presidente cinese Xi Jinping a Buenos Aires, in Argentina, alla fine di novembre a margine di un summit dei leader del G20 per discutere di una possibile via d’uscita dalla loro sempre più intensa guerra commerciale.

 

 

QUALE IDEA DI EUROPA? PROSIEGUO_BOTTA E RISPOSTA gambescia/buffagni_1a PUNTATA

Una replica all’ interessante articolo di Roberto Buffagni

http://italiaeilmondo.com/2018/11/08/elezioni-europee-2019-quale-idea-deuropa-di-roberto-buffagni/

Da Tiglatpileser a Hitler, di Carlo Gambescia

fonte originaria

Partendo da una serrata  critica alle  riflessioni pseudo-teologiche di  Massimo  Cacciari,  Roberto Buffagni  spiega perché questa Europa, quella dell’UE per intendersi, non gli piace (*) .

Il suo ragionamento  ruota intorno a due  principi:  quello politico dell’amico-nemico e quello religioso di un cattolicesimo controrivoluzionario, più o meno fermo alla condanna del 1789. Buffagni combatte, ideologicamente, l’UE, puntando su due cavalli di razza:  Carl Schmitt e  Joseph de Maistre.  Ovviamente, cito, andando oltre l’articolo,  solo due nomi  presi  “a caso”, ma  idealmente emblematici,   dalle sue  sterminate  letture.

In buona sostanza, sfrondando il pur agguerrito  esercito di argomentazioni  filosofico-teologiche schierato da Buffagni,  l’UE è da lui considerata l’ultima reincarnazione di uno spirito moderno, molle e decadente che  sta portando alla rovina l’Europa  ( e ovviamente l’Occidente).

A dire il vero,  la posizione di Buffagni  è più  intellettualmente onesta  di quella di Cacciari,  che invece usa  il cristianesimo contro il cristianesimo, come Lenin usava la democrazia contro la democrazia. Evidentemente,  comunisti si  muore, ci si chiami Lenin o Cacciari. Ma questa è un’altra storia.

Scorgo però nel  discorso di Buffagni  una contraddizione cognitiva. Egli sostiene,  sulla scia di Carl  Schmitt, che in politica, senza un nemico, non si può fare politica. Il che è vero, solo però se si  intende  quest’ultima, come pura e semplice  continuazione della guerra con altri mezzi. Ciò, ovviamente,   è coerente con la  visione antimoderna di Buffagni  –  e qui spunta Joseph de Maistre –  che respinge il contratto  in quanto  prolungamento della modernità.   Ma non è coerente, dispiace dirlo, con la  visione scientifica della politica ( o meglio metapolitica)  che è sì, fondata sulla relazione amico-nemico, quindi  sullo status, dettato dalla spada,  ma che  include anche il contratto, ossia  le procedure, per evitare la spada puntando sulla civilizzazione del nemico,  attraverso una proceduralizzazione (il contratto),  capace di trasformare il nemico  in  avversario. Ovviamente, il contratto non esclude la spada, e viceversa:  i sociologi, sulla scia di Simmel (e prima ancora di Kant, ma si potrebbe andare ancora più indietro), parlano di  socialità insociale. Senza l’una (la spada) non c’è l’altro( il contratto).

In realtà, e qui storia e scienza si congiungono,  la storia  della Chiesa, o se si preferisce del cristianesimo o cattolicesimo  sociologicamente applicato,   è   la storia del sapiente e secolare  uso di status e contratto,  come del resto prova  la storia degli  imperi più longevi.  Dal momento che gli imperi  che sono durati di meno –  parlo della pratica,  non dell’idea  – sono proprio gli imperi, o comunque le macro-forme politiche,  fondate solo sulla spada: dai feroci Assiri,  agli imperi romano-barbarici (con vari pendant narrativo-evocativi medievali); da Tamerlano a  Napoleone e Hitler, che aspirava addirittura a fondare un Reich millenario.

 

Di più: Roma, la Chiesa cattolica e le moderne, e ancora giovani, democrazie liberal-parlamentari sono un buon esempio, anche prescindendo dalla forma di regime politico, di come fare saggio uso dello status e del contratto. E le prime due lo sono anche di vecchiaia.

Il  gracile  Occidente liberale ha  battuto la Germania di   Hitler sul campo di battaglia e l’Unione sovietica su quello economico.  Come dire?  Ha sconfitto due muscolosi colossi  politici, sul terreno dello  status e su quello del  contratto. Perché sottovalutare tutto ciò, privilegiando una visione univoca  della dicotomia amico-nemico? Asserendo – parliamo del succo del discorso di Buffagni,  esposto anche altrove –  che  sul piano cognitivo esiste solo il nemico, incarnato, su quello filosofico-politico – quando si dice il caso – dalla cattiva modernità?

Probabilmente perché, come appena accennato, nel pensiero di Buffagni,  condanna del mondo moderno e visione univoca del politico   sono la stessa cosa. Sicché l’UE, essendo il portato di un mondo impolitico e corrotto,  non può non incorrere nella  sua  “scomunica”, che, forse proprio perché tale, si regge argomentativamente, come per i suoi due  maestri ideali, sul solo  concetto di status. Altrimenti detto, solo sulla spada.   Di qui, il peccato cognitivo di unilateralità.

Di conseguenza, secondo Buffagni, questa Europa, per salvarsi, dovrebbe rinnegare il contratto e puntare sullo status.  Insomma, sulla spada.  Ma per andare dove?  A  fare compagnia a Tiglatpileser, fondatore del caduco impero Assiro?

Carlo Gambescia

L’Europa e la questione del costruttivismo, di Roberto Buffagni

Caro Carlo,

Rispondo con piacere alla tua  acuta critica [1] al mio recente commento a un discorso di Massimo Cacciari sull’idea di Europa[2]. La tua critica   è brevissima e chiarissima, e dunque non la riassumo, pregandovi di leggerla con attenzione prima della mia replica.

Cerco d’essere altrettanto breve e chiaro. Concordo volentieri con te sulla sua obiezione principale, e cioè che  “la politica…è sì, fondata sulla relazione amico-nemico, quindi  sullo status, dettato dalla spada,  ma…anche [sul] contratto, ossia  le procedure, per evitare la spada puntando sulla civilizzazione del nemico,  attraverso una proceduralizzazione (il contratto),  capace di trasformare il nemico  in  avversario.” Verissimo. Il problema dell’attuale situazione europea e occidentale, però, è che il “contratto” capace di trasformare il nemico in avversario non è un’obbligazione sinallagmatica privata, per la quale bastano legge positiva e amministrazione capace di applicarne il comando. Il contratto capace di trasformare il nemico in avversario è il contratto, o meglio patto politico, il foedus (lo auspica anche M. Cacciari nell’intervento che ho commentato).

Un foedus presenta due aspetti: uno, analogo al contratto privato, e cioè la composizione degli interessi in un compromesso accettabile e vitale; e un altro, che dal contratto privato lo differenzia qualificandolo, e cioè la condivisione un progetto politico-culturale e di un’etica. Ora, a mio avviso questo secondo aspetto, che differenzia il foedus  politico dal contratto privato, nell’Europa e nell’Occidente odierno non si dà e non si può dare.

Non si dà né si può dare condivisione di un progetto politico-culturale e di un’etica, perché l’Unione Europea, la forma che l’odierna Europa tenta di darsi, ha ripreso in toto la pretesa illuministico-liberale di innalzare la ragione umana individuale a legislatrice assoluta, a unica determinante della condotta personale e collettiva. La società stessa, in questa prospettiva, diviene il teatro in cui le singole volontà individuali vengono a incontrarsi, ciascuna col proprio insieme di insindacabili preferenze e atteggiamenti. Risultato: il  mondo diventa “l’arena dove combattere per il raggiungimento dei propri scopi personali”, per dirla con Alasdair MacIntyre[3]. Di conseguenza, all’interrogazione riguardante i fini, personali e sociali, si sostituisce la razionalità burocratica, che weberianamente consiste nell’adeguare i mezzi agli scopi in maniera economica ed efficace.

Il dibattito intorno ai fini, infatti, è sempre anche dibattito intorno ai valori. E non appena si dibatte intorno ai valori, la razionalità weberianamente intesa non può far altro che tacere. Non solo. Quando la razionalità weberianamente intesa  si insedia al posto di comando politico, non appena si apre il dibattito intorno ai valori essa non può far altro che far tacere le voci che dissentono dal suo presupposto: essere i valori frutto di decisioni soggettive; così rovesciandosi in dispotismo, conforme l’eterogenesi dei fini vichiana. Secondo il presupposto della razionalità weberiana, infatti, ogni scelta individuale è buona: sciolte da ogni vincolo oggettivo nella comunità, nella struttura metafisica del reale o nella trascendenza, tutte le fedi e le valutazioni sono ugualmente irrazionali, perché puramente soggettive. Detto per inciso, è per questo che la coscienza moderna è soggettivista, relativista ed emotivista: nella formulazione teologica di Amerio, in breve illustrata nel mio precedente scritto, la coscienza moderna mette l’amore al posto del Logos, la volontà prima dell’intelletto, la libertà in luogo della legge, il sentimento sopra la ragione.

Questa, a mio avviso, l’origine ideale del conflitto di crescente asprezza tra legittimazione popolare e legittimazione razional-burocratica dell’Unione Europea. Conflitto insolubile, perché la crisalide di Stato europeo difetta della forza sufficiente a imporre dispoticamente il principio ordinatore razional-burocratico: ci prova, ma invano, perché non può revocare la democrazia rappresentativa a suffragio universale, che resta la “formula politica” [4] (Mosca) degli Stati che la compongono, anche se non conviene all’entità politica in fieri dell’UE; mentre la legittimazione popolare, rispecchiando i divergenti interessi, culture, persuasioni etiche di popoli, nazioni e ceti europei, affermandosi non può far altro che disarticolare il progetto razionalista di (ri)costruzione della Torre di Babele 2.0 europea, che si profila destinata a far la fine della Torre biblica 1.0.

Sul piano ideale, sarebbe possibile uscire da questo vicolo cieco, riconducendo la costruzione europea alle sue “radici cristiane”. Sottolineo “radici” piuttosto che “cristiane”, perché nelle radici cristiane c’è anche la filosofia classica greca, anzitutto platonica e aristotelica, che afferma con vigore e perspicuità il concetto di “natura umana” e della sua intrinseca socialità; e la rappresenta in una forma altamente differenziata che consentirebbe di conservare insieme sia la legittimazione dell’universalismo spirituale perenne (eguale dignità di tutti gli esseri umani) sia la legittimazione delle comunità particolari transeunti (eguale dignità nella differenza di culture, nazioni, popoli europei). Sempre sul piano ideale, su queste basi sarebbe possibile quella condivisione di un progetto politico-culturale e di un’etica che costituisce la condizione necessaria, benché non sufficiente, per il foedus politico europeo (scrivo “non sufficiente”, perché a questa condivisione di valori dovrebbe congiungersi il difficile compromesso tra gli interessi e il precipitato delle vicende storiche di nazioni, popoli e ceti europei).

Il cristianesimo che potrebbe farsi promotore di questo “ritorno alle radici europee”, dunque, non sarebbe il  cattolicesimo reazionario, “maistriano” e seccamente negatore della modernità e dell’illuminismo, ma un cattolicesimo che in mancanza di altro termine definirò “tradizionista”, piuttosto che “tradizionalista”; perché non pretenderebbe il ritorno all’endiadi Trono/Altare, né l’adesione confessionale degli Stati e dei cittadini: non vivo su Marte né sono coetaneo di S. Tommaso, e mi ci troverei molto a disagio io stesso; ma il ritorno, o meglio il ritrovamento, di quel modo di intendere l’uomo e le sue comunità politiche e sociali con il quale il cristianesimo si confrontò al suo affermarsi, e poi riprese e parzialmente integrò ispirando e costruendo la civiltà europea. E’ questa, la base etica e filosofica che costituisce la “legge naturale” che, se per i cristiani coincide con i “preambula fidei”, per tutti gli europei potrebbe (sottolineo potrebbe) coincidere con la tavola dei valori comune: comune perché fondativa della civiltà europea.

Probabilmente, è  con questa speranza che papa Benedetto XV incentrò la sua riflessione teologica intorno a una ripresa e a un aggiornamento della filosofia aristotelica, come base di dialogo con i non credenti e con le istituzioni politiche occidentali. E’ senz’altro in questa prospettiva che un gruppo di studiosi conservatori di chiara fama, tra i quali d’altronde alcuni amici personali di papa Ratzinger, ha elaborato la “Dichiarazione di Parigi”[5], che per quel che vale la mia adesione (poco) volentieri sottoscrivo nella sostanza.

L’11 febbraio 2013[6] s’è visto quali concrete possibilità di affermazione ha questo progetto (per ora non tante, diciamo).

E’ un serio problema, e non perché io, papa Ratzinger o i firmatari della Dichiarazione di Parigi ne siamo delusi.

E’ un serio problema perché osservando la logica del conflitto in corso, in Europa e in Occidente, è probabile avvenga quanto segue. Radicalizzazione e polarizzazione crescenti tra un campo che ha per minimo comun denominatore universalismo politico, mondialismo, razionalismo, scientismo, soggettività individuale dei valori; e un campo che ha per minimo comun denominatore identitarismo, nazionalismo, nei casi peggiori anche tribalismo e/o razzismo; e che con il campo nemico condivide il peggio, cioè razionalismo, scientismo e soggettività dei valori: perché sostituisce, come fonte della scelta volontaristica e arbitraria dei valori, all’individuo liberale-illuminista la comunità nazionale, o addirittura tribale e/o razziale; motiva la preferenza per il noi identitario rispetto all’ io illuminista-liberale con l’identico scientismo (superiorità genetica di una razza sull’altra, leggi etologiche del comportamento animale, etc.); e come il campo avverso persegue il suo fine – inevitabilmente, di potenza e supremazia – con il criterio della razionalità weberiana. In buona sostanza, due campi così configurati sarebbero l’uno il positivo, l’altro il negativo fotografico dell’impasse culturale e politico non dell’Unione Europea, ma dell’Europa e dell’ intera civiltà occidentale; che confliggendo al calor bianco la sprofonderebbero nel cimitero della storia, lasciandone per giunta un pessimo ricordo che magari ci meriteremmo noi, ma certo non i nostri padri.

Deus avertat. Per fortuna, probabile non vuol dire certo. L’uomo resta libero, e dunque tutto resta possibile. Meglio darsi da fare, però: aiutati che il Ciel t’aiuta.

Un abbraccio,

Roberto Buffagni

 

Caro Roberto,

Io ti ho inviato una cartolina, tu mi hai risposto con una enciclica. Quindi mi perdonerai, se  rispondo, come mio stile,  con un’altra cartolina.

Non entro nel merito della  tua  argomentazione,  che comunque conferma il rigetto della modernità, quanto meno così com’è.  E qui però vengo al punto che  mi interessa: il tuo costruttivismo.

Vedi Roberto, dal punto vista storico – della storia come flusso di eventi – nessuno ha costruito a tavolino i concetti di impero romano,  feudalesimo,  mercato,  liberalismo, modernità, solo per fare alcuni esempi.

Prima, si è avuta la realizzazione dei fenomeni storici ricordati, poi la loro teorizzazione: realizzazione che è frutto –   mai dimenticarlo –  di meccanismi sociali selettivi che sono il  portato di una  mano invisibile, che condensa le scelte  di milioni e milioni di uomini, che, perseguendo individualmente i propri interessi, non sanno, nel preciso momento in cui agiscono, che cosa stiano realizzando collettivamente.

Per contro, un  classico esempio di costruttivismo, cioè di teoria che precede la realtà, e pretende di piegarla,  è rappresentato proprio dal comunismo.   E i tristi  risultati  sono ancora  sotto gli occhi di tutti. Come vedi non sei in buona compagnia…  Lo stesso concetto si può estendere al nazionalsocialismo e al  fascismo,  frutto di un comune humus teorico, se vuoi culturale, che si proponeva, sempre   a tavolino,  la costruzione di  forme alternative di postmodernità o antimodernità, ottenendo, in quest’ultimo caso,  il beneplacito, come per il  fascismo italiano, delle gerarchie cattoliche  più retrive ed estranee o nemiche della modernità.

Sicché  quando tu dici, appellandoti all’autorità di questo o quel dotto pensatore, potremmo fare questo, potremmo fare quello, ti comporti da perfetto costruttivista.  Vuoi cambiare una realtà  che non ti piace, costruendone un’altra a tavolino.  E mettendo dentro di essa,  quel che più ti aggrada o conforta la tua tesi.   Anch’io potrei fare la stessa cosa,  ma, a differenza di te, so, da sociologo,  che la mano invisibile,  che regola i fenomeni sociali, finisce sempre per vendicarsi degli ingegneri delle anime. Pertanto, in qualche misura, se mi perdoni l’inciso,  tra noi due,  l’individualista accanito sei tu, pur professando l’esatto contrario.
Certo   –  sarebbe inutile  negarlo –    anche l’unificazione europea è un fenomeno costruttivista, con una differenza  – direi, fondamentale –   rispetto al comunismo e alle altre  forme di costruttivismo totalitario.  Quale?  Non prevede l’uso della violenza, ma si appella al contratto.  Qui la sua forza e al tempo stesso la sua debolezza.  In questo senso, però,  siamo davanti, e per la prima volta nella storia, a una “formula politica”,  o per meglio dire a un esperimento politico e sociale, che si propone di unificare l’Europa in modo pacifico, dove altri invece  hanno fallito, usando la pura forza, se non la violenza  più atroce.

Cosa c’è di male in  tutto questo?

Ricambio l’abbraccio,

Carlo Gambescia

https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2018/11/una-replica-all-interessante-articolo.html?spref=fb&fbclid=IwAR2pXredeFLtvbnTzIO-Qx94OxMztLk_JqNA4DU8HRZXp-8PiBTwEHtK-E0

[1] https://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.com/2018/11/una-replica-all-interessante-articolo.html?spref=fb&fbclid=IwAR2pXredeFLtvbnTzIO-Qx94OxMztLk_JqNA4DU8HRZXp-8PiBTwEHtK-E0

[2] http://italiaeilmondo.com/2018/11/08/elezioni-europee-2019-quale-idea-deuropa-di-roberto-buffagni/#disqus_thread

[3] In: After virtue: a Study in Moral Theory (1981).

[4] http://www.treccani.it/enciclopedia/gaetano-mosca_%28Dizionario-Biografico%29/

[5] https://thetrueeurope.eu/uneuropa-in-cui-possiamo-credere/

 

[6] https://youtu.be/tuuUcIrd2AU

 

13 novembre 2018

Telegramma a Carlo Gambescia

Caro Carlo,

tu mi hai mandato due cartoline, io un’enciclica. Per pareggiare ti invio un telegramma:

SE LA UE E’ UN CONTRATTO E’ UN PESSIMO CONTRATTO, RIVEDERE STOP

ANTICA PERO’ QUESTA MODERNITA’ CHE VA RATIFICATA IN BLOCCO MI RICORDA IL SALTO DELLA FEDE STOP

INDIVIDUALISTA LO SONO ECCOME INFATTI SOPPORTO LE IMPOSIZIONI “PER IL MIO BENE” [SIC] SOLO SE AUTORIZZATE DA UN DIO IN CUI CREDO ANCHE IO STOP

Riabbraccio affettuoso, Tuo Roberto

Al quale rispondo con  un mio telegramma :

Telegramma a Roberto Buffagni 

CONCORDO SUL RIVEDERE CONTRATTO STOP
SENZA PISTOLE ALLA MANO STOP
TRATTASI DI ESPERIMENTO STOP
ASTENERSI FIDEISTI  STOP
Un abbraccio di cuore, Tuo Carlo

Perché siamo privi di una cultura strategica?, di Piero Visani

Qui sotto un saggio di Piero Visani, già pubblicato nel 2013. L’interesse, ovviamente, scaturisce dall’analisi dell’approccio di fondo che ha mosso le scelte di politica estera e di intervento militare delle classi dirigenti del nostro paese piuttosto che dall’approvazione o meno delle specifiche azioni nelle particolari contingenze politiche_Giuseppe Germinario

Perché siamo privi di una cultura strategica?

https://derteufel50.blogspot.com/2013/11/perche-siamo-privi-di-una-cultura.html?fbclid=IwAR3gPdagjKsfdP0q18-25135cqqH9I3TizVy-2-p_SL2m52DW78P5jxmCEQ
Peter Pace, Edmund Giambastiani, addirittura Marilyn Quagliotti: se si guarda al vertice militare delle Forze Armate statunitensi, vale a dire al braccio armato della maggiore potenza mondiale, i cognomi di origine italiana non mancano certo e occupano posizioni di assoluto prestigio. Peter Pace è un marine, addirittura il primo che sia riuscito a raggiungere l’ambita carica di Chairman of the Joint Chiefs of Staff, l’equivalente del nostro Capo di Stato Maggiore della Difesa; Edmund Giambastiani è oggi al vertice militare della NATO, dopo essere stato ai massimi livelli dell’U. S. Navy. Marilyn Quagliotti è un generale a due stelle dell’Esercito con il prestigioso incarico di vicedirettore della DISA (Defense Information Systems Agency) e anche lei – come i suoi due più titolati colleghi e forse in misura ancora maggiore, visto che si tratta di una donna – smentisce quelli che potremmo definire i luoghi comuni sulla “ridotta attitudine militare” degli italiani. Quello che si vuole dire, in sostanza, è che non si arriva ai vertici dell’apparato militare statunitense se non si hanno qualità di un certo tipo e, tra queste, la “ridotta attitudine militare” non è certamente un requisito necessario, anzi.

Malgrado ciò, malgrado il fatto che sia possibilissimo per elementi di chiara origine italiana farsi strada fino ai massimi gradi della più importante organizzazione militare del mondo, lo stereotipo di “mandolinai e pizzaioli”, di gente inaffidabile, che non sa battersi e tanto meno lo ama, ci perseguita da tempo. A quando risale la genesi di questo dato storico negativo? Tralasciando i repentini capovolgimenti di fronte che hanno fatto la storia di casa Savoia, cioè della casata che ha svolto un ruolo determinante nella storia d’Italia, e che tuttavia si riferiscono molto più alle sue vicende preunitarie che a quelle successive, è possibile trovare parecchie tracce di inaffidabilità e di scarsa propensione al combattimento nella storia italiana. Un esempio classico di inaffidabilità politica è rappresentato dai “giri di valzer” che caratterizzarono l’Italia giolittiana, con l’appartenenza formale alla Triplice Alleanza con gli Imperi centrali e le scelte politiche successive, esattamente antitetiche, che portarono l’Italia ad entrare nella Grande Guerra dalla parte dell’Intesa. A sua volta, un esempio classico di scarsa propensione al combattimento è rappresentato dalla rotta di Caporetto[i] e dai fenomeni che si verificarono durante ed a seguito della medesima, con i ben noti casi di “sciopero militare” mai troppo indagati da un lato e strumentalmente utilizzati per coprire le macroscopiche deficienze professionali degli alti comandi e del corpo ufficiali dall’altro.

Certo è che già al momento dell’ingresso dell’Italia nel primo conflitto mondiale la tesi che gli italiani “non sapessero” o “non amassero battersi” era una voce piuttosto diffusa e radicata, se tutti gli interventisti, compresi quelli della Sinistra nazionale[ii], reclamarono con forza la scelta della via delle armi proprio per smentire, anche e soprattutto con il loro personale esempio, tale fama disonorevole. Il loro sacrificio non fu vano, non solo perché portò alla vittoria del 1918, ma anche perché consentì il lievitare nel nostro Paese di un fenomeno come quello dell’arditismo, autentica smentita vivente, con la sua valentia delle armi e la sua estetica della morte, dei troppi luoghi comuni che circolavano a carico delle qualità militari degli italiani.

Sfortunatamente per i nostri destini di Nazione, la contrapposizione tra “i soliti quattro gatti” capaci di fare miracoli con l’ardimento e l’inventiva, e un’istituzione militare burocratica, misoneista, professionalmente discutibile e tecnicamente inetta, corrosa dal carrierismo e da clientelismi di tutti i generi, è una “sottile linea rossa” che percorre la storia nazionale dal 1918 in avanti, intinta (ci si perdoni la retorica, ma è necessaria) nel sangue dei suoi figli migliori: dalle intuizioni di Giulio Dohuet sul bombardamento strategico a quelle di Teseo Tesei sulla possibilità di usare mezzi navali modestissimi come moltiplicatore di forza di un Paese povero e scarsamente industrializzato, dalle imprese grandi e piccole degli eroi, noti e meno noti, della seconda guerra mondiale a fenomeni di “estetica della guerra” come la carica del “Savoia Cavalleria” ad Isbuschenskij (estate 1942), è tutta una storia di occasioni perdute, di opportunità vanificate, di sacrifici utili solo come prove testimoniali (e solo per chi fosse in grado di apprezzarli), affondati in un sistema di colossale inefficienza, di ritardo tecnologico, di compiaciuta autoesaltazione della propria ignoranza.

Il dramma vero, tuttavia, avviene dopo ed è quell’8 settembre 1943 che, a tutti gli effetti, segna la “morte della Patria”[iii], che getta deliberatamente una “Nazione allo sbando”[iv], che invia “tutti a casa” (almeno quelli che vorranno e riusciranno a tornarci) non soltanto in senso stretto, ma in senso lato, inducendoli a confondere il loro focolare, il loro piccolo Heimat, con la loro casa unica e vera – l’Italia -, privandoli di un senso di comunità, di Nazione, di destino che non fosse riservato alla loro dimensione personalissima e privatissima, inducendo gli uni a vergognarsi del passato e gli altri a vergognarsi del futuro, creando una dimensione di guerra civile permanente che ancora non si è ricomposta – e difficilmente appare in grado di ricomporsi – in una memoria condivisa, in cui non ci sia più da vergognarsi di alcunché.

Fatto oggetto di una pesante rimozione storica, ovviamente tutt’altro che disinteressata, in quanto intorno ad esso ruota tutta la legittimità di ciò che è venuto dopo, l’8 settembre è scarsamente compreso dagli italiani non solo nei suoi effetti sul piano interno, ma anche e soprattutto su quello internazionale. Un esercito che cessa di battersi e si sfascia in preda a varie forme di dissoluzione, dall’ammutinamento[v] alla fuga di massa; una flotta che si consegna al nemico, sono tutti fenomeni che non potevano certo rafforzare la stima del mondo nei confronti delle capacità belliche degli italiani, che peraltro già durante il secondo conflitto mondiale non erano certo rifulse per colpa di una classe militare di livello professionale decisamente basso[vi] e talvolta pure di dubbia lealtà.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, si apre una nuova fase storica, ma l’8 settembre è lì e non si può toglierlo facilmente di mezzo. E’ una presenza ingombrante, ma in realtà è molto più ingombrante – per le forze politiche emerse vittoriose dagli sconvolgimenti della guerra – la presenza di forze militari nazionali in quanto tali, perché nessuno le vuole: non le vogliono i comunisti, che le considerano l’unico ostacolo vero all’auspicato passaggio dell’Italia dal blocco occidentale a quello sovietico, ma non le vogliono e si limitano a tollerarle anche i moderati raccolti intorno alla Democrazia cristiana che, come cattolici, nutrono una più o meno spiccata diffidenza (a seconda del loro livello di riferimento agli orientamenti dottrinali delle origini) nei riguardi di tutto ciò che è militare.

Su questo sfondo, l’Italia repubblicana nasce afflitta da un’anomalia che è al tempo stesso una gravissima debolezza strategica: dispone di forze militari, perché non esiste Paese al mondo degno di questo nome che non ne disponga e perché la sua posizione al confine tra due blocchi in conflitto non è tale da consentire alle sue classi dirigenti di esserne priva, ma tali forze risultano totalmente delegittimate. Delegittimate sul piano politico, perché nessuno dei grandi partiti di massa le ritiene degne di rispetto, in quanto retaggio di un passato deprecabile (quello del militarismo fascista[vii]), e delegittimate sul piano culturale non solo perché la Costituzione repubblicana “ripudia la guerra”, ma soprattutto perché nessuno, all’interno del Paese, ragiona più in termini di sovranità nazionale (di cui le Forze Armate costituiscono ovviamente la massima espressione), ma solo di appartenenza a blocchi politici, ideologici ed economici contrapposti.

L’Italia del secondo dopoguerra è dunque una Nazione priva di una cultura militare e di una cultura strategica, e, conseguentemente, di una cultura nazionale. Non riesce dunque ad immaginarsi come Nazione, il che può anche essere comprensibile, considerato l’esito avuto da oltre due decenni di retorica ultranazionalista del fascismo, ma è terribilmente problematico. Cerca nuove forme di vita e di identità, nella forse comprensibile ma certo assurda speranza di definire nuovi percorsi, di trovare nuove strade, di inventare nuovi modelli di identità nazionale.

Questo potente complesso di illusioni trova facile alimento negli anni della “Guerra fredda”, quando il blocco moderato riunito intorno alla Democrazia cristiana non ha e deve avere altra preoccupazione se non quella di consumare la sicurezza prodotta da altri, in primo luogo dagli americani. Il contributo che le è richiesto è di tipo soprattutto formale: una struttura militare per certi versi piuttosto grande, in grado di articolarsi su divisioni e brigate da schierare al confine orientale, a difesa da un potenziale attacco del Patto di Varsavia. Su quale poi sia la reale consistenza operativa di tale struttura, non è il caso di soffermarsi troppo: chiunque abbia prestato il servizio militare obbligatorio in quegli anni ricorderà la modesta efficienza dei reparti e l’assai carente (usiamo un eufemismo) livello di tensione morale che li pervadeva. Non mancavano le eccezioni in positivo, sia chiaro, ma si perdevano nel mare magnum di un’istituzione che dava palesemente prova di non credere in se stessa (e lo si vedeva benissimo).

Questa situazione di privilegio, questa possibilità di consumare a basso costo la sicurezza prodotta da altri, è venuta progressivamente a mancare nel momento in cui, con la fine della “Guerra fredda” e il collasso dell’URSS e del blocco sovietico, l’Italia, come molti altri Paesi europei, si è trovata nella necessità di trasformarsi da consumatrice a produttrice di sicurezza, di definire un interesse nazionale e delle priorità strategiche atte a tutelarlo. Per noi, infatti, si è trattato di un autentico trauma e non eravamo in alcun modo attrezzati ad affrontarlo.

Fino a quel momento, l’appartenenza ad un blocco militare come la NATO ci aveva consentito di nascondere dietro un profilo internazionale le nostre carenze puramente nazionali. Nella nuova realtà, però, quel gioco delle parti non era più riproducibile. Occorreva assumersi responsabilità in proprio e, per farlo, eravamo totalmente privi degli strumenti adatti.

Lo strumento per eccellenza, cioè le Forze Armate in quanto tali, era ancora il problema più facile da risolvere: era sufficiente riconfigurarlo sulla base delle nuove realtà del mutato quadro strategico internazionale. Malgrado ciò, c’è voluto un quindicennio prima che il nostro corpo ufficiali si piegasse all’esigenza di dotare il Paese di uno strumento militare professionale su base volontaria. C’era tutto da guadagnare, in un passaggio del genere, in termini di legittimazione funzionale, visto che sarebbe profondamente mutata in senso professionale la natura dell’organizzazione militare, ma al contrario è stato fatto ogni sforzo per evitare questo approdo, peraltro inevitabile, nella difesa di uno status quo ispirata a considerazioni le più diverse, ma certo non professionali.

I veri problemi, tuttavia, erano altri e consistevano essenzialmente nel dotare il Paese di una cultura strategica e di una cultura militare. Ma – e qui sta il punto – le due forze politicamente dominanti nel Paese, quella cattolica e quella comunista, erano impossibilitate a farlo dalla loro natura sostanzialmente a-nazionale, dal loro riferirsi ad ideologie internazionaliste profondamente diverse, ma certo prive di qualsiasi ispirazione nazionale. Occorreva trovare una soluzione che consentisse all’Italia di continuare a sviluppare una delle sue peculiarità storiche più negative, vale a dire fingere di fare quello che facevano gli altri, quando in realtà faceva qualcosa di profondamente diverso o, più probabilmente, non faceva nulla. Non c’era alcuna possibilità di sviluppare un concetto di interesse nazionale e tanto meno una cultura strategica nazionale, poiché la cosa fuoriusciva completamente dall’orizzonte culturale e si sarebbe tentati di dire anche antropologico di una classe dirigente che, per basse ragioni di bottega, aveva commesso il grave errore di identificare fascismo e Nazione, con la conseguenza che, invece di fare particolari danni al primo, ormai sconfitto, erano state inferte ferite irreparabili alla seconda, con esiti catastrofici per il futuro del Paese e della sua stessa percezione di sé. Ci sarebbe da interrogarsi a lungo se ciò sia avvenuto a caso o per una scelta politica precisa, ma non è questa la sede. Quel che conta davvero è che, nel momento in cui i mutamenti della politica internazionale richiedevano all’Italia un maggiore protagonismo in termini di produzione di sicurezza, il nostro Paese non disponeva di una cultura che gli consentisse di farlo. Semmai, era da tempo in preda ad una subcultura fatta di stereotipi negativi, di lassismo, di menefreghismo palesemente intesa a far pascere gli italiani, per di più con soddisfatto autocompiacimento, nei loro peggiori difetti, contenti di autorappresentarsi (non necessariamente di essere) nel modo peggiore possibile. E’ sufficiente pensare a certo cinema od a certa letteratura, in cui l’italiano o è cialtrone o non è, nel senso che la cialtroneria viene deliberatamente promossa come dato consustanziale, e ovviamente irrinunciabile, dell’identità nazionale[viii].

Poiché era inammissibile sottrarsi ad obblighi che scaturivano dalla nostra posizione internazionale ed anche da vincoli di alleanza e solidarietà con il mondo occidentale, la via che all’inizio degli anni Ottanta venne scelta per giustificare una sempre maggiore presenza italiana in campo internazionale, presenza affidata essenzialmente alle sue forze militari, fu quella delle “missioni di pace” che, a cominciare dal Libano (1982-1984), presero a diventare la stucchevole litania di accompagnamento di qualsiasi impegno italiano all’estero.

Come è fin troppo noto, c’era e c’è ben poco di realmente pacifico nelle missioni che hanno accompagnato il crescente impegno militare italiano all’estero degli ultimi due decenni. Nella maggior parte dei casi, erano interventi di stabilizzazione e – quel che è davvero importante rilevare e che tutti tendevano (e tendono) invece a sottorappresentare -, se la finalità di fondo era innegabilmente pacifica, non altrettanto lo erano (e non avrebbero potuto esserlo) le modalità di intervento, che, per evidenti motivi tecnici, erano invece di stampo militare tradizionale. Questo secondo aspetto è sempre stato deliberatamente nascosto, persino in occasione di eventi come la battaglia al check point “Pasta” a Mogadiscio (2 luglio 1993), mentre avrebbe dovuto essere rappresentato, anzi sovrarappresentato, anche per rispetto nei confronti dei nostri militari, dal momento che i giusti obiettivi di stabilizzazione di fondo dovevano essere talvolta ottenuti con il ricorso alle armi.

Anche se la nostra classe dirigente – politica e non – tende a negarlo (con pochissime eccezioni di rilievo, ad esempio il generale Carlo Jean), il vero problema di credibilità strategica internazionale dell’Italia dopo la seconda guerra mondiale e l’8 settembre 1943 consiste nel ricostituirsi una credibilità militare. Una grande opportunità in questo senso sarebbe stata offerta dalla partecipazione di una brigata terrestre alla Guerra del Golfo del 1990-91, dato che quel conflitto, che si svolgeva all’interno di una precisa deliberazione dell’ONU, godeva di una legittimazione politica assoluta, che nessuno avrebbe potuto scalfire. Per contro, si è preferito optare ancora una volta sull’impegno aereo e su quello navale, rinunciando a quello terrestre, molto più visibile e impegnativo. O, peggio, si è preferito arrivare con una presenza terrestre in forze a cose fatte, come nel caso del secondo conflitto iracheno, svoltosi peraltro in un quadro di legittimità internazionale assai più fragile, ciò che comunque è servito, in negativo, a consolidare a nostro carico una robusta fama di profittatori. Così come lo sono serviti, sempre in negativo, i milioni di dollari pagati ai rapitori in tentativi più o meno riusciti di recupero di ostaggi, esperiti pure quando un blitz di forze speciali, condotto anche non da soli ma in stretta collaborazione con gli americani, avrebbe enormemente giovato alla nostra immagine internazionale e alla nostra stessa autostima[ix].

La motivazione che viene addotta costantemente a scusante di comportamenti così timidi, rinunciatari o addirittura sgradevoli, da parte della dirigenza politica e militare, è che il Paese, nella sua intima essenza, non avrebbe la fibra per resistere ai drammi ed alle sofferenze di un conflitto. Gli eventi di Mogadiscio e quelli ben più gravi e recenti di Nassiriya (12 novembre 2003) hanno dimostrato invece esattamente il contrario, vale a dire che l’opinione pubblica italiana non è formata da “mammoni” o da vili, ma da cittadini consapevoli che qualunque tipo di impegno internazionale impone i suoi costi, anche in termini di vite umane. In tali occasioni, quindi, non ci sono state manifestazioni di piazza contro il governo, ma un dolore sentito, commosso, composto e partecipe, che spesso ha dato luogo a partecipazioni di folla assolutamente inattese a cerimonie, ufficiali e non, di omaggio ai caduti.

Il problema della mancanza di una cultura strategica non è dunque un problema di base, ma di vertice e, in particolare, di quella che è l’autorappresentazione degli italiani da parte della cultura dominante. Quello italiano è un popolo come gli altri, con pregi e difetti. Quella che è assolutamente peculiare, al punto da costituire un’autentica anomalia, è l’incultura strategica che viene diffusa dal vertice, un vertice che a nessun livello – politico, militare o culturale – riesce ad immaginare l’Italia come Nazione e i suoi cittadini come popolo, come comunità nazionale.

Questa non è purtroppo una novità: se guardiamo alla storia unitaria, i peggiori insuccessi militari italiani, da Adua[x] a Caporetto, dalle tante sconfitte della seconda guerra mondiale all’8 settembre, non sono frutto della codardia popolare, ma della gigantesca insipienza di una classe dirigente, politica e non, che di dirigente aveva soltanto il nome ed i relativi privilegi, non certamente la capacità di acquisire competenze di vertice e tanto meno quella di assumersi le proprie responsabilità. Spesso, nella storia nazionale, le masse si trovano in situazioni difficili e disperate e, salvo pochissime eccezioni, fuggono. Ma chi le ha messe in quelle condizioni, chi le ha gettate irresponsabilmente allo sbaraglio? Chi ha commesso errori politici e tecnici macroscopici? Chi, al momento buono, non si è fatto trovare con i propri soldati a condividere la sconfitta, ma già pronto a ricostruirsi una verginità, a rifarsi una carriera, a far dimenticare le proprie colpe?

Questa irresponsabilità di vertice si è sposata, nel secondo dopoguerra, con una assoluta estraneità delle culture dominanti – cattolica e comunista – alla dimensione nazionale. E quando, nel corso degli anni Novanta, la Prima Repubblica è stata travolta dagli scandali e si è profilata per un attimo la possibilità di un cambiamento, ci si è ben presto resi conto che nessun cambiamento era possibile, dal momento che, se la dimensione politica era in crisi (poi in larga misura rientrata) non lo era per niente la dimensione metapolitica. Non a caso – e crediamo si tratti di affermazione assolutamente incontestabile – il quadro di riferimento culturale in cui si sono svolte le “missioni di pace” all’estero condotte dal governo Berlusconi è il medesimo di quelli in cui si sono svolte le missioni precedenti: lagnosa insistenza sull’ossimoro “soldati di pace”, sovrarappresentazione della “via italiana al peacekeeping” (la tesi che vuole che gli italiani – in quanto “brava gente” – siano molto più capaci di altri popoli ad entrare in relazione con le popolazioni locali: un wishful thinking che cerca di recuperare “in positivo” gli stereotipi che ci portiamo addosso in ambito internazionale – simpatici, allegroni, maniaci del calcio e delle donne, e soprattutto gente “con il cuore in mano” (che all’estero suona in realtà come “inutilmente chiassosi ed emotivi”) – per farne un punto di forza, prescindendo proprio da alcuni fattori fondamentali in certi contesti, come l’impiego della forza stessa, la credibilità e l’effettivo controllo sul territorio, e lasciando comprensibilmente cadere un velo di silenzio su pratiche non propriamente esaltanti, come l’elargizione massiccia di grandi quantità di denaro ad amici e soprattutto a nemici, potenziali e non, a fini di stabilizzazione in nostro favore delle aree affidate al nostro controllo); nessun tentativo di rilegittimazione – ovviamente graduale e progressiva – della funzione militare come funzione “guerriera”.

Sotto quest’ultimo profilo, occorre riconoscere che il governo Berlusconi, ammesso e non concesso che l’abbia cercata, non ha trovato alcuna sponda, sotto il profilo metapolitico, in ambito militare, e non solo perché, restringendo i bilanci della Difesa più ancora di quanto avessero fatto i precedenti esecutivi di centrosinistra, se ne è comprensibilmente alienato le simpatie, ma anche e soprattutto perché – e, tra tutte le anomalie fin qui riscontrate, questa è forse la maggiore – i militari italiani, a parte le solite ristrettissime eccezioni, sembrano i più contenti, da parecchio tempo a questa parte di essere ossimori viventi, di “essere non essendo”, di rinunciare consapevolmente alla loro funzione primaria (quella guerriera) per andare alla ricerca di funzioni altre che restituiscano loro una parvenza di legittimità in un contesto dove, in questo caso del tutto a ragione, percepiscono di non averne alcuna[xi]. Non è un caso che, nel nostro Paese, la più instancabile promotrice della figura risibile dei “soldati di pace” sia proprio l’istituzione militare, con qualche correttivo parziale dovuto ad una residua forma di ritegno, ma con un’insistenza degna di miglior causa. Se, infatti, una modestissima legittimazione su questo versante è stata con il tempo (forse) trovata, il problema (che, sia detto per inciso, sembra sfuggire del tutto ai militari) è che si tratta di una legittimazione a-funzionale, nel senso che sono riusciti a legittimarsi ad essere ciò che non dovrebbero essere. Non ci sembra un gran risultato.

Se si guarda a tutto questo, non è difficile approdare alla conclusione che siamo privi di una cultura strategica per il semplice fatto che siamo impossibilitati ad averne una. La cultura che in questo campo si è consolidata nel nostro Paese negli ultimi decenni è talmente solida da essere diventata – con i meccanismi tipici dei totalitarismi più raffinati, quelli “dolci” – un obbligo a cui nessuna persona di retto sentire è in grado di sottrarsi, per un automatismo di pensiero tipico delle “democrazie guidate”, che è quello per cui si è liberi di pensare ciò che ci viene chiesto di pensare. Se poi per caso questa persona fosse dotata di tanto coraggio o di tanta incoscienza, ci penserebbe il sistema di valori edificato dalla cultura dominante a sottolinearne la “diversità” (quella che si combatte a parole, quando non fa comodo evidenziarla per delegittimare l’avversario), l’estraneità, la stramberia, l’appartenenza a quella che il mondo anglossassone (che la sa lunga in materia, in quanto è l’inventore di tale sistema) è solito definire una lunatic fringe, cioè una frangia di emarginati che non è il caso di prendere troppo sul serio, in quanto lunatici, simpatico eufemismo per non dire pazzi. E’ sufficiente partecipare ad un dibattito pubblico, anche a livelli molto modesti, per constatare di persona, prima ancora di essere contrastati dal moderatore (cosa che, se si sostengono certe tesi, avviene quasi regolarmente, dovunque si sia invitati a parlare), che il problema non è ovviamente quello di esprimere liberamente le proprie idee (questo si può benissimo farlo, tanto nessuno ascolta), ma semmai essere chiamati a farlo in un contesto culturale talmente condizionato da fare apparire provenienti da un altro pianeta (ed essere trattati, per quanto cortesemente, di conseguenza).

Con questo, il cerchio si chiude, ma all’interno del cerchio non rimangono soltanto pochi malcapitati, ma un intero Paese che oggi è costretto dalla sua cultura dominante a “pensare cooperativo”, a fare continue attestazioni di becero pacifismo in una realtà che è sempre più competitiva e che potrebbe presto diventare anche conflittuale. La logica sequenziale non è uno dei punti di forza né della cultura né del carattere nazionale, ma, se venisse usata almeno una volta, potrebbe forse indurre qualche mente di funzionalità anche non superiore alla media a chiedersi quali vantaggi abbia prodotto, per l’Italia come comunità nazionale, ispirare le proprie logiche ad un “buonismo” di facciata (ché la realtà sottostante – come sappiamo – è alquanto diversa e lascia spazio a fenomeni dove il “cattivismo” malavitoso è, a tutti i livelli, assai diffuso) e ad una concezione irenica del mondo: non granché, si potrebbe dire, vista la nostra caduta a picco in tutte le più importanti classifiche internazionali, a favore di Paesi che molti italiani continuano a considerare (anche se magari, in nome del “politicamente corretto”, si astengono dal dirlo) un’accozzaglia di selvaggi.

Il fatto è che, per “pensare strategico” e per avere una cultura conseguente, occorre immaginarsi come popolo, come Nazione, come comunità di destino, non come un insieme malamente coeso di individui e interessi permanentemente in conflitto tra loro. Occorre avere un’etica della responsabilità e degli obiettivi condivisi. Occorre, in una parola, “fare sistema”, come si dice oggi, con un neologismo che può piacere o meno, ma che comunque rende bene l’idea. Sfortunatamente, poco o nulla di tutto questo sta avvenendo e la cosa non è casuale, ma frutto di crescenti ritardi culturali. Accade infatti che coloro che si ritengono all’avanguardia e che continuano a ripetere – a trent’anni di distanza – slogan che andavano bene (forse) a metà degli anni Settanta, sono ovviamente scivolati in retroguardia, anche se non se ne sono accorti. Se continuano ad avere successo, è perché detengono importanti posizioni di potere e perché i loro slogan di amore e fratellanza universali sono quelli che si sposano meglio con quell’”etica dell’irresponsabilità” che pare esercitare un’attrazione irresistibile su una significativa componente dei nostri connazionali. I fautori dell’”impegno” politico nei roaring Seventies sono diventati oggi fautori di un irenismo e di un “buonismo” che si sposa nel migliore dei modi con la paura di affrontare il mondo (e il mercato) che è tipica di chi sa che da un confronto globale ha tutto da perdere e poco o nulla da guadagnare, da chi non ha voglia di impegnarsi, di lottare, di sforzarsi, e preferisce le piccole certezze di un’esistenza garantita (che avrò per me, mio figlio – ormai è chiaro – non ne avrà alcuna: ecco uno splendido esempio di senso della comunità e della continuità…), di un anonimato, di un rifugiarsi nel cantuccio che sarebbe anche allettante, almeno per qualcuno, se potesse durare in eterno, ma che invece è frutto di un capitale faticosamente accumulato in passato ed ora in via di dissoluzione per eccesso di consumo irresponsabile.

L’”assenza dalla Storia” – il sogno neanche tanto proibito di una parte non trascurabile di italiani – è però un sogno impossibile, perché non ci si può assentare dalla dinamica storica, anche se molti provano seriamente a farlo. Su questo sfondo, la speranza che l’Italia possa cominciare a “pensare strategico” è più di un sogno, è probabilmente un’autentica utopia. Che però, come tutte le utopie, ha quanto meno il merito di indicare obiettivi, di porre traguardi. E ci si può muovere nella sua direzione per piccoli passi, senza traumi particolari, alla sola condizione di voler sottrarsi al nullismo odierno, alle parole d’ordine sbagliate, alle false verità ripetute stancamente come slogan di regimi totalitari. In caso contrario, perdurerà e ovviamente si aggraverà una condizione di vuoto culturale che è soprattutto una condizione di vuoto strategico. Quel che è certo è che, in futuro, o acquisiremo una dimensione internazionale competitiva, e tutti gli strumenti utili a farlo, tra cui una cultura strategica e una militare, o cesseremo letteralmente di esistere e ritorneremo ad essere quell’”espressione geografica” di cui parlava con disprezzo il Metternich. Il vero problema è che questa è probabilmente una prospettiva assai allettante per molti italiani.

Piero Visani

 

NOTE

 

[i] Su Caporetto, si leggano le illuminanti considerazioni di M. SILVESTRI, Caporetto. Una battaglia e un enigma, Mondadori, Milano 1984, in particolare per quanto concerne il “filo rosso” che lega l’”Italia caporetta” a quella dell’8 settembre 1943 e, per molti versi, a quella di sempre.

[ii] In proposito chi scrive, giovane laureando in Storia all’Università di Torino con una tesi di storia militare, all’inizio degli anni Settanta ebbe il privilegio di raccogliere in tal senso la testimonianza diretta di uno dei massimi storici militari italiani, Piero Pieri, ormai molto anziano ma ancora lucidissimo nel riaffermare la propria volontà, quale interventista di Sinistra, di “dimostrare al mondo che gli italiani sapevano battersi”.

[iii] Sul tema, resta fondamentale il saggio di E. GALLI DELLA LOGGIA, La morte della patria, Laterza, Roma-Bari 1996.

[iv] Sul tema si legga l’interessantissimo saggio di E. AGA ROSSI, Una nazione allo sbando. L’armistizio italiano del settembre 1943, nuova edizione, Il Mulino, Bologna 1998.

[v] Sono note, ad esempio, le polemiche sulla reale natura dei fatti di Cefalonia del settembre 1943.

[vi] Si leggano, sul tema, le impietose ma in larga misura condivisibili valutazioni di G. ROCHAT, Le guerre italiane 1935-1943. Dall’impero d’Etiopia alla disfatta, Einaudi, Torino 2005.

[vii] La questione meriterebbe un’indagine a parte. Quello che si può dire in questa sede è che, se il fascismo fosse stato realmente militarista, al di là di qualche modesta esibizione di facciata, avrebbe fatto ogni sforzo per ammodernare le forze armate e, soprattutto, per sottrarle al controllo di un corpo ufficiali ottusamente conservatore, misoneista e, in non pochi casi, professionalmente incompetente.

[viii] Per fare un esempio molto chiaro, si pensi all’interpretazione di uno sport molto popolare come il calcio in due film diversi, ma entrambi piuttosto noti (il secondo addirittura premiato con l’Oscar per il migliore film straniero nel 1992): Fuga per la vittoria (Escape to Victory) di John Huston (1981) e Mediterraneo di Gabriele Salvatores (1991). Nel primo, il calcio è uno strumento con il quale dei combattenti, per quanto in misura largamente prevalente civili in uniforme e non soldati di professione, cercano di ridicolizzare il nemico e al tempo stesso di farne uno strumento per sottrarsi alla prigionia; dunque è un mezzo, non un fine. Nel secondo, il calcio è la rivendicazione dell’identità nazionale: nel mezzo di una bufera planetaria, la partitella (neppure una partita regolare in uno stadio vero, come nel film precedente) in un campetto di fortuna di un’isola greca è il modo per riconoscersi, per affermare (sic) un sé, per trasmettere al mondo il messaggio: “gli altri facciano pure le guerre, noi ci facciamo la partita” e – quel che è peggio – ci riconosciamo come tali solo quando la facciamo. Qui dunque il calcio è un fine, non un mezzo; è il punto di convergenza di un’identità fragile, è l’esteriorizzazione dell’irresponsabilità più totale.

[ix] Su questo sfondo, la vicenda di Fabrizio Quattrocchi e della sua nobilissima rivendicazione a “far vedere come muore un italiano” si pone a livelli di altezza tali da risultare gravemente stridente con il resto. Il che ne accresce ovviamente la portata.

[x] Su Adua e la mancanza di preparazione e di professionalità che già in quella circostanza (ma c’erano illustri precedenti come Custoza e Lissa nel 1866) venne palesata dalla classe militare italiana, si veda D. QUIRICO, Adua. La battaglia che cambiò la storia d’Italia, Mondadori, Milano 2004.

[xi] Il tema in questione è sostanzialmente tabù nel nostro Paese, per cui, essendo chi scrive uno dei pochi che ha cercato di svilupparlo, per altro in semiclandestinità, è purtroppo costretto a ricorrere all’autocitazione: cfr. P. VISANI, Forze Armate, mass media ed opinione pubblica nell’Italia attuale. Cause e problemi di un difficile rapporto, Roma 1994

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