Il nuovo concetto di impiego delle forze britanniche, una rivoluzione strategica Raphael Chauvancy, Di Raphaël Chauvancy

Il Canale della Manica e la Royal Navy hanno storicamente dato al Regno Unito una profondità strategica unica per l’Europa occidentale. Ha quindi sviluppato una cultura del combattimento più strategica che tattica. Sebbene abbia perso battaglie, è stato spesso in grado di vincere guerre mobilitando i suoi mercanti e banchieri mentre controllava le informazioni e le comunicazioni. La presentazione del nuovo concetto di lavoro per le forze armate britanniche ha presentato il 1 ° ottobre 2020 dal generale Carter, Capo di Stato Maggiore della Difesa del regno, dà orgoglio per questa storia, mentre l’apertura di modi nuovi ed entusiasmanti.

Gli inglesi preferiscono tradizionalmente la manovra sul fronte. Invece di affrontare direttamente eserciti troppo potenti, li aggirano e attaccano le forze dei loro avversari. La loro cultura dell’efficienza è soprattutto un’arte di studiare gli equilibri di potere e le condizioni del loro rovesciamento. Albion combatte solo con un’alta probabilità di vincere, o scivola via. Più diretta, la cultura francese, contrassegnata dal codice d’onore per le battaglie, l’ha definita a lungo perfidia. Si potrebbe parlare più accuratamente di una visione strategica globale che vada oltre gli aspetti strettamente militari. Le reti finanziarie della città, i flussi commerciali e la gestione delle informazioni hanno probabilmente un impatto maggiore lì della spada e del cannone. Ma l’arte della strategia non è combattere;[1]  “.

L’arte storica degli approcci indiretti

L’Inghilterra quindi evita l’incertezza della battaglia quando può evitarla. Durante le guerre francesi [2] , guidò prima la guerra nelle periferie marittime, poi sulla terraferma nella penisola spagnola. Contemporaneamente ha attaccato informalmente con la propaganda incentrata sulla leggenda nera dell ‘”orco corso” mentre lottava economicamente. Stava attenta a non affrontare la guardia brontolona prima di Waterloo . Se Wellington fosse stata sconfitta quel giorno, inoltre, nulla sarebbe stato risolto e Londra avrebbe continuato a esercitare pressioni indirette fino a quando la potenza francese alla fine cedette alle pressioni. Mentre Napoleonevinse brillanti vittorie, ma senza futuro, l’Inghilterra si era impossessata di Cape Town, Mauritius e Ceylon, i pioli dell’asse strategico che avrebbe assicurato per un secolo il controllo marittimo della rotta verso l’India e il ‘Asia. Londra potrebbe permettersi il rischio di una sconfitta una tantum. Le condizioni strutturali per un’eventuale vittoria furono soddisfatte: risorse e credito sicuri, una rete economica globale, un forte sistema di alleanze europee, il santuario del territorio di Trafalgar . Il genio tattico dell’imperatore ha solo ritardato l’inevitabile, la minima sconfitta che ha portato alla rovina di un edificio squilibrato.

Alla piccola Inghilterra mancano da tempo gli uomini. Non poteva sopportare le perdite di queste grandi battaglie di cui abbonda la storia continentale. La sua cultura periferica consisteva quindi nel toccare i centri nervosi nemici e nel tessere pazientemente la rete in cui impigliarlo. Strategia trasversale, viene implementata in reti basate sulla combinazione di risorse. Non cerca di sferrare il colpo a prima vista, ma agisce alla maniera del picador il cui colpo non è fatale, ma, rompendo i suoi legamenti, riduce la libertà di movimento del toro e lo indebolisce perdendo sangue. Attribuisce grande importanza all’intelligence e alle informazioni strategiche da cui trae la sua libertà di movimento mentre ostacola quella dei suoi avversari.

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Un adattamento contemporaneo

Durante la Grande Guerra , i suoi primi successi furono ottenuti in Egitto e nella penisola arabica. Fu ancora lei a insistere per aprire un fronte ad Est a Gallipoli. Durante la seconda guerra mondiale infine, fu attenta a non ripetere l’errore del 1914 ea mandare il fiore della sua giovinezza in Francia, preferendo affidarsi alla Home Fleet e alla Royal Air Force. Mentre gli americani erano ansiosi di combattere nel cuore dell’Europa dal 1943, Londra impose la sua strategia periferica di piccoli morsi (Nord Africa, isole del Mediterraneo, Italia) prima di inghiottire il pezzo in Normandia dopo un intenso lavoro di avvelenamento destinato a ingannare il nemico. Contro un nemico più potente del Kaiser, l’Impero Britannico perse così la metà degli uomini che nelle trincee [3]  !

Liddell Hart , il campione britannico dell’approccio indiretto [4] , sebbene purtroppo lo abbia affrontato su un piano più tattico che strategico, ha così proposto di sostituire il principio di dislocazione al principio di distruzione [5] .

L’approccio britannico si concentra sulla coerenza del nemico piuttosto che sulle sue forze. Per fare questo, ha sviluppato modalità di azione non convenzionali che sono scivolate dal mondo militare a quello economico e politico, il cui principio è di fuorviare il nemico manipolando le sue percezioni in modo che giudichi ciò che è vero. che è falso e falso che è vero. La volontà degli inglesi è tornare al livello politico: plasmare la psicologia dei decisori […] ” [6] .

Così hanno sviluppato l’arte di plasmare l’ambiente a loro favore. Sul fronte egiziano, nel 1917, il generale Allenby aveva ingannato i turchi creando dal nulla un falso campo nel deserto e un falso traffico radio. Prima di attaccare, inoltre, aveva sganciato 120.000 pacchetti di sigarette contenenti oppio dall’aria sulle linee turche a Beersheba nel 1917. L’offensiva sorprese il comando turco, che era in attesa altrove, e le sue truppe. soldati, troppo drogati per reagire …

Le operazioni di influenza, disinformazione e intossicazione messe in atto dai servizi britannici durante la seconda guerra mondiale sono modelli nel suo genere, raggiungendo un livello di complessità mai raggiunto prima il cui archetipo è l’operazione Mincemeat [7] . Completamente surclassati in termini di guerra dell’informazione, i nazisti non sospettavano che non solo le loro trasmissioni fossero decifrate e ascoltate dagli inglesi, ma anche che molte delle loro principali decisioni fossero indirettamente ispirate da loro provenienti da Londra, la cui arte della manipolazione risparmiava il vita di molti soldati.

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Rispondi alla concorrenza sistemica

È alla luce di questa storia che viene illuminato il nuovo concetto di impiego delle forze armate britanniche. Sebbene faccia parte della lunga tradizione britannica di guerra ibrida e indiretta, segna nondimeno una vera rivoluzione integrando dottrinalmente quello che fino ad allora era stato un approccio culturale e pragmatico e annunciando il passaggio delle conflittualità. “Dall’era industriale all’era dell’informazione [8]  “.

La cosmologia strategica europea è caratterizzata dalla distinzione tra stati di guerra e di pace corrispondenti a rotture evidenti e determinati stati legali. Questo approccio è obsoleto. Dal periodo tra le due guerre, la Russia sovietica ha rifiutato questa distinzione. Negli anni ’90, due alti ufficiali cinesi pubblicarono War Out of Limits [9] , che riconosceva l’estensione del campo di guerra a tutti i settori di attività tangibili e intangibili in un confronto globale e permanente.

Impegnati in un conflitto di natura politica piuttosto che cinetica, i concorrenti delle nazioni democratiche ora conducono operazioni di guerra non militari intese a “minare la loro coesione, a erodere le loro capacità di resilienza economica, politica e sociale” mentre cercano di garantire “Vantaggi strategici nelle principali regioni del mondo [10]  “. Così cercano di “rompere la loro volontà [11]  ” rimanendo sotto le linee rosse che potrebbero portare a una risposta militare.

Le democrazie sono a disagio in questa zona grigia. I loro avversari non si sentono vincolati dagli standard e dai principi etici con cui inquadrano la loro azione ed eccellono nel rivoltarli contro di loro. I valori di apertura sono tanti obiettivi e le regole di uno stato di diritto sono tante opportunità per i regimi autoritari. La società dell’informazione aumenta i rischi di manipolazione, difficili da individuare e difficili da rintracciare. Inoltre “il nostro quadro legale, etico e morale richiede un aggiornamento per negare al nemico l’opportunità di minare i nostri valori. [12]  ”La difficoltà consiste nel fornire risposte forti senza rinnegare se stessi.

Il nuovo concetto britannico risponde a questa sfida integrando la nozione di concorrenza. “Più di quello che abbiamo non basterebbe [13]  ” afferma il generale Carter, invocando un cambiamento fondamentale nel modo di vedere le cose. Invitando a una maggiore reversibilità, sottolinea la necessità di combattere nell’ambito dello spettro dell’incendio.

Questo approccio significa che l’obiettivo non è più solo il nemico, ma l’ambiente. Solo una visione a medio e lungo termine consentirà di plasmarla favorevolmente riprendendo il controllo del ritmo strategico. Le note e sfruttate inibizioni dei poteri democratici di fronte agli attacchi nella zona grigia mettono ora in discussione la loro sostenibilità. Si tratta anche di reinvestire la bolla cognitiva e ricreare un contesto di imprevedibilità a scapito degli stati ostili. L’infosfera deve essere oggetto di risposte e attacchi che esercitano un ruolo dissuasivo, ma anche una pressione attiva a favore dei valori democratici e della prosperità globale.

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Una guerra dell’informazione

Questo nuovo quadro mette in prima linea quello che l’ammiraglio Castex chiamava il morale strategico della nazione. La profondità strategica non è più tanto geografica quanto sociale, economica e intangibile. Norme, immagini, idee sono armi che agiscono sul comportamento delle masse e dei decisori. Le battaglie non si limitano più a un ipotetico fronte, ma si svolgono all’interno di una società i cui elementi centrifughi vengono sfruttati e accentuati sotto le coperte. Dalle fake news destabilizzanti alle interferenze informative coperte durante un periodo elettorale, le operazioni di destabilizzazione si sono moltiplicate.

A questi continui attacchi deve rispondere un approccio che “amplifichi l’uso dello strumento militare come parte di un’impresa nazionale” totale “che coinvolge l’industria, il mondo accademico e la società civile [14]  “. L’obiettivo da raggiungere sarà d’ora in poi “modellare il comportamento di un avversario attraverso azioni coperte e aperte [15]  “. L’era delle masse e dell’informazione è anche quella delle guerre comportamentali il cui bersaglio è la mente umana più che il suo corpo e le sue estensioni materiali.

Tuttavia, le sfide militari non vengono trascurate. Le tecnologie russe o l’effetto di massa cinese segnano la fine del dominio incontrastato della NATO dalla fine della Guerra Fredda. La debole resilienza dell’opinione pubblica alla perdita di vite umane nelle società libere è un incoraggiamento a sfidarle, poiché le perdite, anche poche, ma ben pubblicizzate, potrebbero costringere una democrazia a ritirarsi prima che sia stata in grado di entrare. l’equilibrio il suo patrimonio qualitativo. Le nuove sfide si estendono anche a tecnologia, spazio, cyber, ecc.

Il nuovo concetto britannico, non tutti gli aspetti di cui abbiamo trattato qui, mette le capacità letali e non letali su un piano di parità e invita la nazione a dispiegare continuamente “l’energia deliberata precedentemente riservata al” tempo di guerra “. ” [16] . Più che una semplice avventura dottrinale del mondo militare, incarna la consapevolezza dell’ingresso in un’era di conflitto sistemico totale. La capacità di interrogazione strategica dimostrata dal Regno Unito dovrebbe rinfrescare e irrigidire vantaggiosamente le riflessioni o gli approcci dei suoi alleati.

[1] BLIN Arnaud, I grandi capitani di Alessandro Magno a Giap , Perrin, Parigi, 2018, p. 27.

[2] Le guerre della Rivoluzione e dell’Impero secondo la terminologia britannica.

[3] 1.000.000 di uomini nel 1914-1918 contro i 500.000 nel 1939-1945.

[4] Con poche esagerazioni, qualsiasi manovra è necessariamente indiretta, il che distorce il suo approccio concettuale.

[5] HOLEINDRE Jean-Vincent, La ruse et la force , Perrin, Parigi, 2017, p. 316.

[6] HOLEINDRE Jean-Vincent, La ruse et la force , Perrin, Parigi, 2017, p. 328.

[7] Un cadavere travestito da ufficiale inglese fu lasciato cadere al largo delle coste della Spagna dove si incagliò con una borsa contenente falsi documenti segreti. Il corpo e la borsa sono stati trovati dagli spagnoli che gli inglesi sapevano si erano infiltrati da agenti tedeschi che hanno colto la fortuna. Furono così trasmesse a Berlino le informazioni secondo le quali gli Alleati si preparavano ad attaccare in Sardegna o nei Balcani le cui guarnigioni furono rinforzate a scapito della Sicilia, che fu presa quasi senza sparare un colpo. Vedi CAVE BROWN Anthony, The Secret War , Volume 1, Origins of Special Means and First Allied Victories , Tempus, Parigi, 2012.

[8] https://www.gov.uk/government/publications/the-integrated-operating-concept-2025

[9] LIANG Quia e XIANGSUI Wang, La guerra oltre i limiti , Rivages pocket, Parigi, 2006.

[10] https://www.gov.uk/government/speeches/chief-of-the-defence-staff-general-sir-nick-carter-launches-the-integrated-operating-concept

[11] https://www.gov.uk/government/publications/the-integrated-operating-concept-2025

[12] https://www.gov.uk/government/publications/the-integrated-operating-concept-2025

[13] https://www.gov.uk/government/speeches/chief-of-the-defence-staff-general-sir-nick-carter-launches-the-integrated-operating-concept

[14] https://www.gov.uk/government/publications/the-integrated-operating-concept-2025

[15] https://www.gov.uk/government/publications/the-integrated-operating-concept-2025

[16] https://www.gov.uk/government/publications/the-integrated-operating-concept-2025

https://www.revueconflits.com/raphael-chauvancy-general-carter-armee-angleterre/

Ecco da chi e perché l’Italia è ricattata in Libia, di Giuseppe Gagliano

L’Italia è giunta in uno dei momenti più bassi di credibilità ed autorevolezza. Purtroppo non sono solo momenti e non abbiamo ancora raggiunto il fondo. Il nulla vestito di buone maniere_Giuseppe Germinario

Ecco da chi e perché l’Italia è ricattata in Libia

di

libia

Il caso dei diciotto membri dei motopescherecci “Antartide” e “Medinea” di Mazara del Vallo prigionieri nel porto di Bengasi dietro mandato del generale Khalifa Haftar. Il commento di Giuseppe Gagliano

Partiamo come di consueto dai recenti fatti di cronaca. Diciotto membri dei motopescherecci “Antartide” e “Medinea” di Mazara del Vallo sono prigionieri nel porto di Bengasi dietro mandato del generale Khalifa Haftar.

Quali valutazioni, di natura squisitamente politica, si possono fare di una vicenda così drammatica e insieme così umiliante per il nostro paese?

In prima battuta questa azione da parte delle milizie potrebbe essere letta come una ritorsione del viaggio compiuto dal nostro ministro degli esteri prima a Tripoli e poi a Tobruk per incontrare il presidente del parlamento Aguila Saleh che allo stato attuale sembra aver soppiantato la figura di Haftar. Un chiaro segnale insomma della perdita di qualunque credibilità del nostro paese sullo scacchiere libico come abbiamo avuto modo più volte di sottolineare su queste pagine.

Il fatto che la Farnesina abbia infatti cercato di fare pressione su Haftar per la liberazione degli ostaggi rivolgendosi alla Russia, all’Egitto e agli EAU dimostra in modo evidente la mancanza di peso politico del nostro paese.

Difficile credere che un tale evento si sarebbe verificato ai tempi di Andreotti e di Craxi.

Fra l’altro nel 2019 un cittadino sudcoreano e 3 filippini erano stati liberati proprio grazie all’intervento degli EAU.

Tuttavia dobbiamo tenere conto che la situazione politica in Libia è cambiata e il generale Haftar non è più l’uomo forte della Libia e di conseguenza la rilevanza di questa mediazione è quanto meno di dubbia efficacia.

In secondo luogo l’azione compiuta dalle milizie libiche si inserisce in una logica di rivendicazione illegittima sul piano del diritto internazionale marittimo da parte della Libia che vorrebbe estendere la sua sovranità fino alle 72 miglia dalla costa. Rivendicazioni che furono fatte molto spesso da Gheddafi.

In terzo luogo non si può notare l’enorme disparità tra l’attuale situazione dei 18 ostaggi e la presenza delle nostre forze navali e armate sia nel Golfo di Guinea sia presso la diga di Mosul. Anche se è scontato che l’Aise stia operando nella direzione di liberare gli ostaggi è evidente che il problema rimane strettamente legato alla credibilità ed autorevolezza dell’esecutivo e della Farnesina.

Infine, avventurandoci a formulare una semplice ipotesi, se una tale operazione da parte libica fosse stata posta in essere nei confronti di cittadini francesi è presumibile che l’esecutivo francese avrebbe già attivato le forze speciali coniugando tale intervento con una capillare rappresaglia. A tale proposito basti ricordare l’operazione francese in Mali che fu condotta nel 2015 sotto la direzione del Commandement des Opérations Spéciales e che fu portata a termine con successo dai Tier-1 del 1er régiment de parachutistes d’infanterie de marine con la liberazione dell’ostaggio olandese Sjaak Rijke di 54 anni catturato dai jihadisti di al-Qaeda.

https://www.startmag.it/mondo/italia-libia/

UNIONE EUROPEA E STATO DI DIRITTO II, di Teodoro Klitsche de la Grange

UNIONE EUROPEA E STATO DI DIRITTO II

1. Lo stesso giorno in cui in rete appariva il mio articolo sullo stesso tema http://italiaeilmondo.com/2020/09/30/lunione-europea-e-lo-stato-di-diritto-di-teodoro-klitsche-de-la-grange/ e con uguale titolo, la Commissione Europea pubblicava la “relazione sullo Stato di diritto 2020”, che conferma da un lato e chiarisce dall’altro, alcune e opinioni (anche) da me evidenziate.

In primo luogo: tra i tanti caratteri dello Stato di diritto, che ricordavo nell’articolo precedente, la Commissione, per formulare i propri giudizi sulla “conformità” al Rechtstaat dei 27 Stati dell’Unione ne prende in esame quattro: il sistema giudiziario nazionale, il contrasto alla corruzione, il pluralismo e la libertà dei mezzi di comunicazione, ed altre questioni – di carattere istituzionale – di bilanciamento di poteri. Un’attenzione a parte poi è dedicata alla pandemia e alle situazioni e normative emergenziali indotte (v. ad esempio i DPCM del Governo italiano). La presidente Von der Leyen ha detto che “lo Stato di diritto e i nostri valori condivisi sono alla base delle nostre società. Fanno parte della nostra identità comune di europei. Lo Stato di diritto difende i cittadini dalla legge del più forte. Pur avendo standard molto elevati in materia di Stato di diritto nell’U.E., abbiamo anche diversi problemi da affrontare” (sul che si può concordare).

La vice Presidente Jourovà ha aggiunto “La nuova relazione esamina per la prima volta tutti gli Stati membri allo stesso modo per individuare le tendenze in materia di Stato di diritto e contribuire a prevenire l’insorgere di gravi problemi”.

Il rapporto, dopo una premessa generale, si articola su 27 capitoli, relativi a ciascuno degli Stati membri. La valutazione si basa (anche) sulle decisioni delle Corti europee e sulle raccomandazioni del Consiglio d’Europa.

La prima conferma di quanto emergeva da precedenti documenti dell’Unione è che i quattro pilastri di valutazione della Commissione sono pochi. Il concetto di “Stato di diritto” comprende altri pilastri, anche se, a leggere i documenti, in qualche misura la stessa relazione, in alcuni passi, deborda dal limite dei quattro esaminati. Come, tra i quattro considerati, ve ne sono un paio non proprio tipici del Rechtstaat.

Così vi sono pilastri, in particolare quello sulla lotta alla corruzione che non costituiscono un “fundamentum distincionis” dello Stato di diritto, non solo perché non lo si trova negli scritti di quei pensatori che hanno formulato la/e concezione/i dello “Stato di diritto”, ma perché molti Stati, tranquillamente non riconducibili allo Stato di diritto, perseguono la corruzione, talvolta in misura più energica degli Stati di diritto. Lo Stato di diritto non trasforma i governanti in angeli, come quello non di diritto in demoni; tale giudizio lo si ricava – nella premessa – già dal Federalista.

2. Un capitolo della relazione è dedicato all’Italia.

Sul primo pilastro (cioè sul sistema giudiziario) la Commissione scrive “È in vigore un solido quadro legislativo a salvaguardia dell’indipendenza della magistratura, sia per i giudici che per i pubblici ministeri. Il potere giudiziario è pienamente separato dagli altri poteri costituzionali”; tuttavia i cittadini non la pensano come la Commissione “Il livello di indipendenza della magistratura percepito in Italia è basso. È considerato buono o molto buono soltanto dal 31% dei cittadini e dal 36% delle imprese, percentuali diminuite tra il 2019 e il 2020. Le ragioni principali per cui i cittadini e le imprese avvertono una mancanza di indipendenza sono le interferenze o le pressioni esercitate dal Governo, dai politici e dai rappresentanti di interessi economici o di altri interessi….”. E perché c’è questo divario tra il lusinghiero giudizio della Commissione e quello – assai meno confortante – degli italiani? Qua la Commissione trascura l’aspetto principale: non è che i cittadini sono preoccupati solo delle “interferenze e pressioni” di Governo e prestiti, ma sono parimenti – e forse di più – preoccupati per i processi, per lo più risoltisi in bolle di sapone – contro leaders e politici del centrodestra (e non solo), asseritamente dovuti alla contiguità di certi settori – maggioritari – della magistratura al centrosinistra. Oltretutto tali processi sono stati caratterizzati da una scarsa rilevanza pubblica delle questioni (come le notti di Arcore a casa Berlusconi), fino al “sequestro di persona” a carico del Ministro degli Interni consistito nel fermo in porto (per quattro giorni) di una nave di migranti. In tal caso, peraltro, pare che i sondaggi diano una significativa maggioranza di consensi popolari all’azione del Ministro imputato.

Inoltre, questa “percezione di bassa indipendenza” è stata rafforzata dallo scandalo delle intercettazioni sul cellulare di Palamara, comprovanti sia la contiguità tra magistrati e politici del centrosinistra, sia la “lottizzazione” degli incarichi dirigenziali in Procure e Tribunali.

Sul perché avviene ciò, malgrado le rilevanti garanzie d’indipendenza della magistratura, tra le più tutelate della U.E., dipende anche dal fatto che, se il potere politico non ha il potere di perseguire i magistrati, ha tuttavia quello di premiarli. A parte gli incarichi amministrativi (numerosi) e in qualche caso, anche giudiziari, spesso magistrati in servizio sono presentati alle elezioni nazionali ed amministrative. Se non eletti (raro) o non rieletti (più facile) ritornano a fare i giudici.

Questa permeabilità tra poteri e carriere non pare conforme ai principi dello Stato di diritto. Montesquieu già sosteneva che la distinzione dei poteri esige d’essere non solo oggettiva, ma anche soggettiva. E conseguentemente negava che le repubbliche italiane, dove spesso i poteri erano distinti, ma erano composti e designati dallo stesso “corpo” di magistrati, la libertà fosse garantita; anzi lo era, a suo giudizio, meno che nelle monarchie assolute1. Anche se l’elettorato passivo è un diritto, per evitare ingressi ed uscite dai poteri a “porte girevoli”, occorrerebbe un regime d’incompatibilità più restrittivo di quello vigente.

Ciò che è omesso, tuttavia, in tema di giustizia, è più interessante di quello che la Commissione prende in esame. Se ricorda, come problema, la lentezza della giustizia italiana, omette di ricordare che anche in forza di disposizioni emanate nell’ultimo trentennio, in Italia eseguire una sentenza contro la PA è sempre più difficile, al punto da richiedere spesso 4-5 anni; una durata superiore a quella – media – del processo di cognizione definito con la decisione giudiziaria da eseguire.

Il tutto è stato oggetto dell’attenzione ripetuta della Corte EDU, con arresti non considerati dalla Commissione.

Non si valuta, poi, quel che risulta dalle stesse contestazioni fatte (qualche anno orsono) dalla Commissione U.E. all’Italia sulla disciplina della legge sulla responsabilità dei magistrati (e di riflesso, dello Stato). Nella sentenza2 della Corte di Giustizia UE del 24/11/2011; si accoglieva il ricorso della Commissione condannando l’Italia3 per la relativa legislazione. Questo perché (citiamo da un’altra sentenza della Corte di giustizia) “Considerazioni (…) connesse alla necessità di garantire ai singoli una protezione giurisdizionale effettiva dei diritti che il diritto comunitario conferisce loro, ostano (…) a che la responsabilità dello Stato non possa sorgere per il solo motivo che una violazione del diritto comunitario imputabile ad un organo giurisdizionale nazionale di ultimo grado risulti dall’interpretazione delle norme di diritto effettuata da tale organo giurisdizionale”: qui era valutata dal giudice europeo l’idoneità della normativa nazionale a garantire i diritti fondamentali dei cittadini. Invece è evidente che tale preoccupazione nella relazione della Commissione passa in secondo piano rispetto alla tutela (peraltro neppure esaustiva) delle garanzie istituzionali del potere giudiziario (a quelli – strumentalmente – connessa).

Concludendo su tale pilastro: la valutazione è parziale e peraltro non tiene conto della giurisprudenza delle Corti europee (non la contraddice, ma la dimentica). Più in generale omette di considerare che, perché uno Stato (anche non di diritto), ma a maggior ragione se tale, esista e garantisca una protezione effettiva, è necessario che il diritto sia applicato efficacemente. Il che in Italia, relativamente all’amministrazione pubblica soprattutto, avviene spesso male e sempre in ritardo. Nel paragrafo dedicato nella relazione UE all’efficienza del sistema giuridico manca così l’esame dei dati più sconfortanti.

3. La parte sulla lotta alla corruzione si apre con dati sulla percezione della stessa dai quali si evince che i cittadini italiani ritengono, con percentuali assai superiori alla media UE, che la corruzione sia molto diffusa. Prosegue poi con l’esame delle iniziative anti-corruzione, valutate positivamente. Il dato, comunque, andrebbe “associato” con quello dell’efficienza della giustizia, che incide sull’efficacia di queste misure.

Resta poi da capire quanto l’attenzione dedicati alla “grande” corruzione (con relative autorità, procure, uffici di polizia specializzati) possa incidere sulla “corruzione quotidiana” delle licenze, concezioni, permessi, autorizzazioni: che poi è quella che probabilmente influenza di più la percezione che, della corruzione, hanno gli italiani. Per questo, sarebbe utile più che un’autorità apposita, un miglioramento della tutela giudiziaria, in particolare amministrativa, l’aggravio delle pene (o l’istituzione) per comportamenti elusivi della P.A.; nonché una normativa generale d’applicazione dell’art. 28 della Costituzione sulla responsabilità dei funzionari.

Resta comunque da capire come la lotta anti-corruzione sia un pilastro dello Stato di diritto (un proprium) e non pilastro di ogni Stato. Inoltre realisticamente occorre tener conto della considerazione di Max Weber – relativa alla corruzione politica, che chi fa politica, vive in genere (anche) di politica.

4. Il pilastro del pluralismo dei media offre un quadro sostanzialmente positivo; a giudizio della Commissione; tuttavia “l’indipendenza politica dei media italiani continua a destare preoccupazione, anche a causa delle “relazioni indirette” tra gli interessi degli editori e il Governo (nazionale e non locale). Sul che si può concordare.

5. Il quarto pilastro su cui si è appuntata l’attenzione della Commissione sono le “questioni istituzionali relative al bilanciamento dei poteri”. Sostanzialmente la Commissione approva l’ordinamento italiano. Tuttavia registra le preoccupazioni di organizzazioni internazionali in relazione alla campagna denigratoria contro le ONG attive nel settore della migrazione e dell’asilo. Anche in tal caso non è chiara la relazione tra denigrazione delle ONG e Stato di diritto.

6. In conclusione la concezione dello Stato di diritto della Commissione U.E. è una delle tante letture che se ne possono avere.

Quel che più colpisce nella relazione è l’assenza dell’esame dei caratteri non meno influenti di quelli valutati. Nell’articolo precedente ne avevo individuati sei, dei quali, al massimo tre rientrano – almeno parzialmente – nei quattro pilastri della Commissione. Ancor più, degli aspetti assai importanti, non sono per nulla presi in esame, malgrado riconducibili ai pilastri. Per l’Italia, ad esempio, la posizione di parità processuale nei processi contro soggetti pubblici, e ancor più l’eguaglianza di trattamento nell’esecuzione dei provvedimenti giudiziari, così ridotta negli ultimi trent’anni, è stata completamente obliterata.

Il tutto è contrario al principio di “parità delle armi” più volte statuito dalla Corte EDU, perché non solo incide sull’esecuzione delle decisioni (cioè sull’effettività e completezza della tutela giudiziaria), ma anche sulla parità processuale più spesso in fatto che in diritto4.

Al contrario poi di quanto si possa leggere sui media (per lo più) si avverte comunque che, anche se omissiva, la relazione delinea come l’insieme degli Stati dell’U.E. sia sostanzialmente di diritto, pur con qualche menda.

Anche gli Stati come l’Ungheria e la Polonia. Se infatti la UE non ha impostato la relazione su punti qualificanti, anche più di quelli presi in esame, lo si deve probabilmente attribuire al fatto che violazioni gravi, ad esempio alla garanzia dei diritti fondamentali, al principio di legalità, al pluralismo non ve ne sono – o almeno ve ne sono di non gravi.

Il che se da una parte potrebbe essere rassicurante (al netto della necessaria diplomazia e delle emergenze della lotta politica) dall’altro, per le violazioni comunque in essere, difficilmente si troverà un difensore a Bruxelles.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 v. Esprit de lois, Lib. XI, cap. 6.

2 v. sentenza punto 6 “In data 10 febbraio 2009 la Commissione inviava una lettera alla Repubblica italiana in cui dichiarava che, escludendo qualsiasi responsabilità dello Stato italiano per i danni arrecati ai singoli a seguito di una violazione del diritto dell’Unione imputabile a un organo giurisdizionale nazione di ultimo grado… e limitando tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave, ai sensi dell’art. 2, commi 1 e 2, della legge n. 117/88, la Repubblica italiana era venuta meno agli obblighi fa essa incombenti”

3 Peraltro molto simile è il dictum della sentenza 13 giugno 2006, causa C. 173/03.

4 Per esempio con l’esclusione di prove in giudizio, che in fatto limitano la parte privata assai più di quella pubblica, come nel processo tributario.

Nel Karabakh, Baku disotterra l’ascia di guerra_ John mackenzie Di John Mackenzie 28 settembre 2020

Domenica, 27 settembre, nelle prime ore dell’alba, gli armeni si sono svegliati alla notizia di una vasta offensiva aerea (missili e bombardamenti di droni) guidata dall’Azerbaigian lungo tutta la linea di contatto che lo separa di Artsakh (ex Karabakh), questa repubblica autoproclamata nel 1991 e non riconosciuta dalla comunità internazionale.

Per la prima volta dalla guerra ad alta intensità del 1988-1994, Stepanakert, la capitale dell’Artsakh, fu bombardata mentre i civili si rifugiarono in rifugi.

Armenia e Karabakh in allerta generale

Nell’arco di dieci ore si sono svolti combattimenti di rara violenza in molti punti del fronte con un focus nelle regioni di Fizouli e Djebraïl che hanno causato perdite significative: 16 soldati e civili uccisi dal lato armeno. e 200 nei ranghi militari azerbaigiani. Da parte sua, la parte armena ha affermato di aver perso alcune posizioni e ha abbattuto 4 elicotteri azeri, 15 droni da combattimento, 10 carri armati e diverse batterie missilistiche. Mentre Baku ha accolto con favore la riconquista di diverse posizioni e villaggi.

Araïk AroutiounianIl presidente dell’autoproclamata piccola repubblica, sostenuta dall’Armenia, ha decretato “la mobilitazione generale degli over 18” in risposta a una grande offensiva da parte dell’Azerbaigian domenica, mentre nella vicina Armenia, volontari accorse, chi arruolare, chi donare il sangue. Dopo l’annuncio dei primi scontri domenica mattina, il premier armeno Nikol Pachinian ha decretato la “mobilitazione generale” e l’istituzione della “legge marziale”, oltre a far eco alla decisione presa dalle autorità del Karabakh . “Vinceremo. Lunga vita al glorioso esercito armeno! Il signor Pachinian ha scritto su Facebook. Il presidente azero Ilham Aliev, da parte sua, ha convocato una riunione del suo Consiglio di sicurezza durante la quale ha denunciato una “aggressione” da parte dell’Armenia.

Leggi anche: Il disastro armeno come precursore dell’esperienza europea

Appena un’ora dopo lo scoppio delle ostilità, i media azeri e turchi hanno pubblicato rapporti online sullo sviluppo delle operazioni lungo la linea di contatto, suggerendo che questa offensiva turco-azera era premeditata e pianificata per anni. settimane se non mesi.

Turchia in azione

Ci stiamo muovendo verso un conflitto regionale ad alta intensità? Ankara avrebbe pianificato questa operazione volta a stravolgere uno status quo ritenuto troppo favorevole alla parte armena e spingere la Russia ai suoi limiti?

Appena 24 ore prima dello scoppio delle ostilità, informazioni particolarmente inquietanti sono state trasmesse dalla stampa dei due paesi di lingua turca. È il caso in particolare del quotidiano Yeni Şafak , quotidiano turco filogovernativo che, il giorno prima del lancio dell’offensiva, ha denunciato in prima pagina la “collaborazione del PKK e dell’Armenia in Nagorno-Karabakh”. Il quotidiano ritiene di sapere che “dozzine di terroristi curdi del PKK addestrati nei campi di addestramento in Iraq e Siria sono stati trasferiti in Nagorno-Karabakh per occuparsi dell’addestramento delle milizie armene”. Sebbene parallelamente a queste informazioni difficili da verificare, abbiamo appreso che le forze turche che occupano la regione di Afrin nel nord-ovest della Siria, hanno aperto la scorsa settimana dueCentri di reclutamento mercenario per l’Azerbaigian .

Un vantaggio per il regime di Aliyev che, nonostante la propaganda anti-armena, lotta per mobilitare i volontari. A questo si aggiunge che la situazione socioeconomica in Azerbaigian è più che preoccupante. Le battute d’arresto militari degli azeri contro l’Armenia lo scorso luglio nella regione di Tavush hanno gonfiato la frustrazione di una popolazione riscaldata al bianco dalle arringhe di una potenza visibilmente all’erta e fortemente scossa dalle disastrose conseguenze della caduta del domanda di idrocarburi in questi tempi di pandemia.

Vedendo la sua capitale di legittimità sciogliersi al sole con il crollo dei prezzi del petrolio greggio, il regime di Aliyev ha messo il timone a drittaverso il fratello maggiore turco, anche se significa sacrificare tutta una parte della sua sovranità alla volontà degli orientamenti strategici del presidente Erdogan. Vista da Mosca, questa escalation è vista come un tentativo della Turchia di interferire in una regione precedentemente considerata come sua riserva. Non avere alcun interesse a vedere il suo cortile caucasico destabilizzato dalla Turchia, alla ricerca di nuovi fronti nel grande gioco che sta emergendo dalla Libia all’Iraq passando per Cipro, il Mar Egeo, la Russia che vende armi ai due belligeranti, vuole fare da fattore di dissuasione e limitarsi a un ruolo di mediatore. Ma questo compito sembra sempre più difficile. Ricordalo dopo la guerra dello scorso luglioche si è concluso con il collasso militare per Baku, il ministro degli Esteri azero Elmar Mamediarov, che era a capo della diplomazia azera dal 2004, reputato vicino a Mosca, era stato sostituito dall’ex ministro dell’Istruzione Jeyhun Bayramov, acquisito all’ideologia ultranazionalista del pan-turkmeno. Pochi giorni dopo, nell’enclave di Nakhitchevan, a meno di quaranta chilometri da Yerevan, capitale dell’Armenia, hanno avuto luogo importanti manovre militari tra l’esercito turco e quello azero.

Da leggere anche: l’ Armenia attraverso i secoli; Storia della resilienza

A livello regionale, Baku gode di una solidarietà sfrenata da parte del fratello maggiore e partner strategico turco in nome del pan-Turkismo. L’Armenia, da parte sua, ha integrato l’organizzazione del Trattato di sicurezza collettiva (CSTO) senza però godere dell’effettivo appoggio dei suoi membri, divisi sulla questione del Karabakh. Con la presenza di una base e guardie di frontiera russe sul suo suolo. Yerevan lo vede come il pegno dell’assicurazione sulla vita, dell’ultima generazione di armi, in cambio di un rapporto sempre più asimmetrico.

Ma l’apparizione di una Turchia irregolare sulla scacchiera del Caucaso, la comprovata presenza di consiglieri militari, membri dei servizi segreti del MIT o persino droni turchi su un campo di gioco finora considerato sotto l’influenza russa, è nel processo di sconvolgere equilibri molto fragili.

Da leggere anche: Charalambos Petinos: dove sta andando la Turchia?

Addendum

Un dispaccio di Asia News informa che i mercenari che hanno combattuto in Siria sono stati inviati dall’esercito turco attraverso l’Azerbaigian per combattere in Artsakh. Sono pagati $ 1800 al mese e hanno un contratto di tre mesi.

Ciò conferma l’impegno della Turchia nel conflitto e il ruolo svolto dai mercenari jihadisti.

https://www.revueconflits.com/artsakh-karabakh-armenie-attaque/

La Cina può ancora esportare la sua guerra popolare?_Di: Phillip Orchard

Le dinamiche geopolitiche sono sempre più complesse e articolate. Non è più tempo di analisi che partono e tornano su un unico centro focale_Giuseppe Germinario

La Cina può ancora esportare la sua guerra popolare?

Rispolverare il playbook della Guerra Fredda di Mao non aiuterà Pechino.

Di: Phillip Orchard

All’inizio di questa estate, mentre il governo indiano si è affrettato a sostenere il sostegno

sia in patria che all’estero per la sua situazione di stallo a mani nude contro la Cina sull’Himalaya ,

ha iniziato a ravvivare un altro contenzioso di lunga data non correlato con Pechino: il presunto

sostegno segreto della Cina ai ribelli maoisti nelle parti irrequiete India nordorientale. Tra gli altri

incidenti recenti, secondo New Delhi, la Cina meritava la responsabilità per un attacco mortale

alle forze di sicurezza a giugno da parte di gruppi separatisti di estrema sinistra nello stato di

Manipur, al confine con il Myanmar. A luglio, in vista

dell’ultimo tentativo a lungo termine del governo birmano di mediare la pace con la zuppa alfabetica

di gruppi etnici separatisti che circonda il paese, il potente capo dell’esercito birmano ha chiamato la

Cina per aver armato alcuni dei più potenti gruppi ribelli. Due settimane fa, i media indiani, citando

fonti sia del governo indiano che di quello birmano, hanno riferito che la Cina ha contrabbandato armi

a vari gruppi di ribelli nella regione attraverso una rete di militanti lungo il confine tra Myanmar e

Bangladesh. Tra gli altri obiettivi, secondo le fonti, Pechino stava cercando di far deragliare i progetti

infrastrutturali sostenuti dall’India in Myanmar che apparentemente sarebbero in concorrenza con la

Belt and Road Initiative cinese.

Questo tipo di sviluppi – combinati con gli avvertimenti degli Stati Uniti e di alcuni dei suoi amici

(inclusa l’India) che Pechino sta usando app cinesi come TikTok e gruppi di studenti universitari per

diffondere l’ideologia comunista in Occidente – fa sicuramente sembrare che la Guerra Fredda stia

crescendo. dalla tomba. E la Cina potrebbe davvero avere un motivo crescente per rispolverare i suoi

manuali dell’era Mao per aver intrapreso guerre per procura e alimentato la lotta ideologica all’estero

. Il paese, dopotutto, si trova in una situazione piuttosto strategica poiché le

potenze esterne diventano sempre più diffidenti nei confronti della sua ascesa e delle sue ambizioni .

Avrà bisogno di ogni strumento disponibile per mantenere i suoi avversari divisi, preoccupati e diffidenti

nei confronti del confronto. La geografia frammentata del sud e del sud-est asiatico gli conferisce numerose

spaccature interne in stati strategicamente importanti alla sua periferia da cercare di sfruttare.

In verità, però, al di fuori di un paio di aree della sua periferia dove le sue operazioni di influenza segreta

non si sono mai interrotte, Pechino non è né capace né particolarmente interessata a giocare a un gioco di

destabilizzazione nascosto in stile sovietico e globale. Né realisticamente avrebbe alcuna speranza che

l’ideologia del moderno Partito Comunista possa coltivare una base sostanziale di sostenitori, tanto meno

ispirare le masse di altri paesi a rifare i loro governi a immagine di Pechino. Ma le sue nuove armi di influenza

sono probabilmente molto più potenti e più adatte all’ambiente ostile che sta affrontando oggi di quanto lo sia

mai stato il maoismo.

Piccoli libri rossi per tutti

Sotto Mao, esportare la rivoluzione era una parte fondamentale della strategia cinese. Con il paese dilaniato

dalla guerra, preoccupato di reclamare i suoi stati cuscinetto e di affrontare continuamente

le crisi interne di sua iniziativa , non poteva permettersi di fare molto per fornire un sostanziale sostegno

materiale a gruppi che la pensavano allo stesso modo in lontani conflitti per procura su la scala dei sovietici

e degli americani. Nella misura in cui si sporcava le mani, si trovava tipicamente in luoghi in cui si temeva la

propagazione oltre il confine o l’occupazione da parte di una potenza militare straniera – ad esempio, Indocina

e Corea. Occasionalmente forniva anche quantità limitate di armi, assistenza finanziaria e addestramento a

movimenti militanti simpatizzanti all’estero, ma mai su una scala necessaria per far pendere veramente

l’equilibrio del potere.

Per lo più, però, la Cina si è appoggiata all’ideologia maoista come un modo per coltivare il sostegno straniero.

Ed era davvero uno strumento potente. La bellezza del maoismo è la sua capacità di significare qualunque cosa

qualsiasi movimento politico basato sulla lotta di classe abbia bisogno che significhi. Non è una dottrina o un

progetto particolarmente rigida o coerente per prendere e esercitare il potere, quanto piuttosto una raccolta libera,

a volte contraddittoria di detti, idee e diagnosi di mali sociali. Ma ciò che questo sacrifica nel rigore intellettuale è

più che compensato dalla mutevolezza. Fornisce un quadro preciso per comprendere le strutture di potere e il

malcontento sociale, oltre a organizzare principi che possono essere facilmente incorporati in altre ideologie.

Elementi di maoismo, ad esempio, possono essere visti in una gamma improbabile di movimenti sociali, compresi

quelli nominalmente religiosi come i talebani, lo Stato islamico e le guardie rivoluzionarie iraniane.

Tuttavia, la portata ideologica di Mao raramente ha avuto molto effetto sulla posizione strategica della Cina.

Ad esempio, non si è dimostrato in grado di sradicare tensioni geostrategiche più profonde con Mosca, Hanoi o

persino Pyongyang. Pechino non è mai stata in grado di strappare il controllo del movimento comunista globale

a Mosca durante la scissione sino-sovietica negli anni ’50 e ’60, e di conseguenza la maggior parte dei paesi

comunisti cadde fermamente nella sfera sovietica, compresi quelli nel cortile di casa della Cina. I successi maoisti

in posti come la Cambogia sotto i Khmer rossi e, in misura molto minore, l’Indonesia furono relativamente di breve

durata, inaugurando infine governi ostili e una diffidenza di lunga data nei confronti dell’interferenza cinese.

Così, quasi non appena Mao se ne fu andato, Deng Xiaoping iniziò ad attuare un drammatico riorientamento della

Cina attorno a principi che avrebbero risuonato in quasi tutte le capitali: arricchirsi e tenere a bada i nemici attraverso

le tradizionali manovre strategiche realiste. E questo significava facilitare un riavvicinamento con l’Occidente,

in particolare gli Stati Uniti, il che significava che la Cina non poteva essere vista come un aiuto agli obiettivi

sovietici esportando la rivoluzione. Il maoismo era ancora enfatizzato a casa, naturalmente – o almeno i principi

che Deng pensava avrebbero cementato il governo del partito erano stati enfatizzati. Ma Pechino ha in gran parte

interrotto gli sforzi dell’era Mao per fomentare la lotta di classe e sostenere gruppi militanti che la pensano

allo stesso modo all’estero.

Il gioco è lo stesso, solo meno feroce

Da allora la Cina è rimasta fedele a questo approccio, anche se con poche eccezioni degne di nota, nessuna

delle quali guidata da affinità ideologiche. Ha continuato a sostenere i Khmer rossi anche dopo che è stato

cacciato dalla capitale, ad esempio, ma questa è stata una mossa strategica in coordinamento con gli Stati Uniti

mirata principalmente a contrastare il Vietnam sostenuto dai sovietici. Dal momento che la Cina si sentiva ancora

obbligata nel 1979 a invadere il Vietnam, dove le forze cinesi si sono comportate male, e poiché ha cementato

l’influenza vietnamita a Phnom Penh per una generazione, si potrebbe sostenere che ciò sia fallito. Sostenere

un regime spodestato che ha ucciso il 20% della sua popolazione in soli quattro anni non è esattamente

un ottimo modo per generare buona volontà pubblica o posizionarsi come amico a lungo termine dei governi regionali.

Un’altra eccezione è in Myanmar, dove gruppi ribelli ben armati nel nord e nel nord-est del paese hanno a lungo

approfittato dei confini con la Cina (e, in misura minore, la Thailandia) per raccogliere fondi, vendere contrabbando,

procurarsi armi, fuggire dagli attacchi e così via. via. Il più forte di questi gruppi, lo United Wa State Army, è

cresciuto dall’ala armata del Partito Comunista della Birmania, che aveva ricevuto un sostanziale sostegno cinese

negli anni ’50 quando Mao cercava di soffocare una neonata insurrezione organizzata da resti sostenuti dagli Stati Uniti.

del Kuomintang nello stato Shan. Da allora, l’UWSA è diventata una delle organizzazioni di traffico di droga più potenti

al mondo. Mentre si ritiene che abbia iniziato a procurarsi la maggior parte delle sue armi dalla Cina circa due decenni fa,

il rapporto di Pechino con il gruppo è inquieto, nella migliore delle ipotesi. La Cina non è particolarmente entusiasta di

avere un tale gruppo che corrompe funzionari e sposta narcotici attraverso il suo confine, in particolare uno che si è

dimostrato abbastanza forte e di mentalità indipendente da frustrare occasionalmente le mosse di Pechino per usarlo

per ottenere influenza su Naypyitaw. Ed è una questione aperta quanto delle armi e del sostegno finanziario che riceve

dalla Cina sia effettivamente sanzionato da Pechino. Tuttavia, per impedire al Myanmar di avvicinarsi troppo all’India o

all’Occidente, Pechino ha voluto posizionarsi come un intermediario di potere indispensabile nell’interminabile processo

di pace tra Naypyitaw ei gruppi ribelli. Dal momento che quasi tutti i principali eserciti etnici del Myanmar si affidano in

una certa misura al sostegno dell’UWSA (l’UWSA è stato nominato nei suddetti rapporti indiani sulle reti di contrabbando

di armi sostenute dalla Cina), la Cina non può permettersi di evitare il gruppo.

 

Infine, c’è l’India, che accusa credibilmente la Cina di fornire un rifugio sicuro a importanti leader naxaliti e di aver dato

loro libero sfogo per aumentare il sostegno e facilitare i flussi di armi in India attraverso spazi in gran parte non governati

in Myanmar, Bangladesh e nord-est dell’India. I leader cinesi hanno tacitamente ammesso questo affermando che, dal

momento che l’India ospita il Dalai Lama e altri esuli tibetani – anche incorporando i tibetani nelle forze indiane

sull’Himalaya – equo è giusto. Ad ogni modo, i vari gruppi separatisti (alcuni dei quali maoisti) che avrebbero ricevuto

il sostegno cinese sono tutt’al più una perenne irritazione per Nuova Delhi e un modesto drenaggio di risorse militari

che potrebbero apparentemente essere reindirizzate a qualcosa di più importante, come lo sviluppo navale .

Rischiano poco di destabilizzare fondamentalmente il nucleo indiano o di

minare il controllo indiano sul territorio in cui si teme effettivamente l’incursione cinese , come il corridoio Siliguri.

La Cina guadagnerà relativamente poca influenza dal sostenerli, soprattutto rispetto al suo investimento molto più

redditizio nella principale fonte di preoccupazione dell’India: il Pakistan .

Non la guerra fredda di tuo padre

Altrimenti, ci sono poche prove di un grande sostegno cinese ai movimenti politici di opposizione nella regione, in particolare quelli violenti. Non che Pechino sarebbe a corto di opportunità per sostenere tali movimenti, se lo volesse. La geografia frammentata del sud e del sud-est asiatico, insieme ai livelli estremi di sconvolgimento sociale e disuguaglianza che sono venuti con il boom della globalizzazione, rende la regione inondata di linee di frattura etniche e demografiche.

Considera le Filippine. Il paese arcipelagico, che funge da custode di importanti rotte marittime verso il Pacifico occidentale, rappresenta forse il principale problema strategico per la Cina. Naturalmente, la Cina ha un disperato bisogno di trascinare l’alleato del trattato degli Stati Uniti nel suo campo , o almeno impedirle di consentire agli Stati Uniti o ad un’altra potenza ostile di istituire basi navali o missilistiche che potrebbero essere utilizzate per imporre un blocco alla Cina. Le Filippine sono anche la sede di una serie vertiginosa di gruppi ribelli, tra cui il New People’s Army, orgogliosi facilitatori dell’insurrezione comunista più longeva del mondo. Tuttavia, tali gruppi non sembrano aver svolto alcun ruolo negli sforzi in corso della Cina per mettere sotto pressione Manila.

Il suo approccio alle Filippine illustra bene ciò di cui la Cina ha effettivamente bisogno da tali stati e quali strumenti ritiene possano essere effettivamente efficaci. Per prima cosa, ci dice che Pechino non pensa che ci sarebbe molto ritorno sugli investimenti sostenendo tali gruppi. Questo, in parte, perché pochi hanno realisticamente il potenziale per essere molto più che un irritante per i loro governi. In altre parole, la minaccia posta a Naypyitaw dall’esercito dello Stato americano Wa e dagli altri gruppi ribelli in Myanmar è rara. Il New People’s Army, ad esempio, è considerato una forza esaurita, essendosi effettivamente devoluta in una raccolta decentralizzata di sindacati criminali locali piuttosto che in qualcosa in grado di mobilitare le masse filippine contro Manila . Inoltre, i gruppi militanti più forti nelle Filippine , come in gran parte del sud e sud-est asiatico, sono islamisti. Pechino teme qualsiasi cosa che possa rafforzare tali gruppi al punto da poter incanalare il sostegno ai militanti di etnia uigura nello Xinjiang e lungo i confini occidentali della Cina.

Dall’altro, la gestione delle Filippine da parte di Pechino ci dice che la Cina si rende conto che la sua ideologia non ha più un fascino di massa. A dire il vero, con la disuguaglianza e la disgregazione sociale in aumento in tutto il mondo, l’ambiente è più ricettivo che mai a un’ideologia incentrata sulla lotta di classe. Ma il Partito Comunista Cinese non può più approfittarne, perché non può davvero nascondere il fatto che sta trasformando la Cina in un’autocrazia imperialista ossessionata dalla ricchezza, trattando i suoi vicini come poco più che depositi di merci. Anche l’organizzazione politica madre del New People’s Army, il Movimento per la Democrazia Nazionale, è stata duramente critica nei confronti dell’abbraccio dell’amministrazione Duterte al neocolonialismo di Pechino. Nella misura in cui le operazioni di messaggistica e disinformazione cinesi possono avere almeno un modesto successo, osserva un paio di tattiche in particolare: una prende di mira le comunità etniche cinesi d’oltremare con narrative nazionaliste. Un altro sta usando il suo crescente controllo sulle tecnologie dell’informazione per censurare notizie poco lusinghiere sulla Cina, pubblicizzare gli obiettivi cinesi come benevoli e progetti come la Belt and Road Initiative come reciprocamente vantaggiosi e seminare malcontento con gli avversari cinesi. (Si consideri, ad esempio, il modo in cui Pechino ha inondato i canali dei social media all’estero con teorie del complotto sugli Stati Uniti e sul COVID-19.)

Infine, ci dice che la Cina ritiene che i rischi di tentare apertamente di fomentare la ribellione nella sua periferia superino di gran lunga le potenziali ricompense. Economicamente, ciò di cui la Cina ha bisogno sono mercati aperti per i suoi prodotti manifatturieri e le tecnologie emergenti, forniture costanti di materie prime e ricettività agli investimenti cinesi. Militarmente, la Cina ha bisogno di alleati, che attualmente sono pochissimi. Ma come minimo, ha bisogno di mantenere gli stati regionali ai margini delle sue controversie con le principali potenze esterne. Diplomaticamente, ha bisogno di respingere i sospetti regionali radicati che l’ascesa della Cina sarà intrinsecamente incompatibile con la pace e la stabilità e persuadere i suoi vicini che la scommessa migliore per un futuro prospero è un ordine regionale incentrato sulla Cina . Tentare di destabilizzare i suoi vicini, nella maggior parte dei casi, molto probabilmente minerebbe solo questi obiettivi, spingendoli a cercare supporto militare esterno, generando sospetti sulle tecnologie e investimenti cinesi e aumentando i rischi politici per i leader regionali di avvicinarsi a Pechino . I pochi tentativi che ha fatto negli ultimi anni per mettere il pollice sulla scala del panorama politico di un altro paese si sono ritorti contro , sottolineando la realtà che fissare la propria strategia geopolitica su un particolare regime rende una strategia fragile.

Per Pechino, quindi, è probabile che la strada migliore continui a fare affidamento sugli strumenti più tradizionali di governo che ha già esercitato con una certa efficacia. Ciò significa coltivare le dipendenze economiche attraverso gli investimenti e l’accesso al mercato. Significa approfondire i legami finanziari tra le élite per garantire simpatie pro-Cina attraverso gli spettri politici dei paesi – qualcosa che porta frutti abbondanti nelle Filippine e altrove. Significa inclinare sempre più a suo favore l’equilibrio militare con gli stati regionali, dichiarare che potrebbe fare giustizia nelle controversie territoriali ed esporre i limiti dell’interesse americano a venire in loro difesa. Significa fornire ai regimi di mentalità autoritaria nella regione gli strumenti tecnologici e le risorse finanziarie per cementare il loro controllo e proteggersi dal malcontento pubblico. In verità, significa rendersi un partner indispensabile per aiutare i governi a reprimere le ribellioni – come fece in Nepal a metà degli anni 2000, quando aiutò ad armare il governo nella sua lotta contro i ribelli maoisti.

In definitiva, questi sforzi potrebbero non essere sufficienti per conquistare amici a lungo termine nella misura necessaria per stabilire il nuovo ordine regionale che desidera ardentemente. Ma Pechino è già riuscita a rendere gli stati regionali, anche alcuni potenti , estremamente riluttanti al carrozzone contro la Cina in modi significativi. Nessuno nella regione vuole una nuova guerra fredda , ma meno di tutti la Cina. Perché se la Cina si troverà a dover combattere nel modo in cui è stata combattuta l’ultima, molto probabilmente avrà già perso.

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L’UNIONE EUROPEA E LO STATO DI DIRITTO, di Teodoro Klitsche de la Grange

L’UNIONE EUROPEA E LO STATO DI DIRITTO

1. Dopo essere stato messo (politicamente) in naftalina, lo “Stato di diritto”, grazie, soprattutto, all’Unione Europea, è tornato alla ribalta, non solo nelle procedure d’infrazione attivate (v. Polonia ed Ungheria); ma è celebrato quale “valore fondante” dell’Europa nei discorsi dei politici (e così via). Date le mie convinzioni politiche, di tale revival non posso che essere lieto; ma, tenuto conto a) del concetto e b) della normativa europea, occorre segnalarne l’ampia possibilità di un uso improprio e strumentale.

Cominciamo col dire che dello “stato di diritto” (per non dire di concetti prossimi) i giuristi – e non solo – hanno dato tanti significati, quasi pari al numero di quelli che se ne sono occupati.

Il termine comincia ad essere usato nella dottrina (e nella politica) tedesca dalla prima metà dell’800, per connotare il nuovo tipo di organizzazione statale e di rapporti tra società civile e poteri politici. Il Rechtstaat era contrapposto al Machtstaat (e al Polizeistaat) in quanto (al minimo) limitato dal diritto (e dai diritti).

I caratteri fondamentali di tale nozione erano: la libertà degli individui, titolari di diritti insopprimibili, anche dallo Stato; la certezza (calcolabilità) del diritto; il vincolo dell’attività amministrativa alla legge; il controllo di quella da parte di uffici giurisdizionali indipendenti.

Accanto a ciò si configurava – anche se concettualmente separata – la partecipazione dei cittadini alla gestione statale e in particoilare alla legislazione. Già un coerente liberale come Constant faceva dell’esercizio solerte dei diritti di partecipazione alla formazione della volontà pubblica – la “libertà degli antichi” – il complemento e la garanzia dei diritti di libertà dell’oppressione (anche) dello Stato1. Nello stesso tempo il collegamento tra prevalenza della legge sull’atto amministrativo e partecipazione della rappresentanza nazionale (cioè dei cittadini-elettori) alla formazione della legge, faceva sì che questa fosse “trattata con indulgenza” nel senso che, a differenza degli atti del potere giudiziario ed amministrativo (sentenze e provvedimenti) non fosse assoggettata ad alcun controllo né esterno, ma neppure interno.

Non mancavano comunque concetti, in parte coestensivi, con quello di Stato di diritto. V. E. Orlando, dopo aver distinti tra forme dispotiche, semilibere e libere di governo2, a seconda dei diritti di partecipazione alla cosa pubblica riconosciuti (e non riconosciuti) ai governati, includeva tra i fondamenti della forma di “governo rappresentativo”, la distinzione dei poteri “il governo rappresentativo si fonda principalmente sulla giuridica distinzione dei poteri e sull’appropriazione ad essi di organi determinati” e la tutela giuridica “il governo rappresentativo attua scrupolosamente e pienamente la tutela giuridica fra i consociati (obietto del Diritto amministrativo)”.

Accanto ai quali il giurista siciliano aggiungeva due caratteri: “Il governo rappresentativo moderno si propone di curare ed attuare l’armonia esterna e costante fra i due elementi essenziali, cioè la coscienza popolare e la tradizione, non solo nel fatto, come in ogni forma di governo, ma altresì nel diritto positivo, per mezzo di istituti determinati”; ed anche la “pubblicità è finalizzata al controllo da parte dell’opinione pubblica”. La quale, secondo Schmitt era conseguenza del carattere democratico della Repubblica di Weimar3.

Carré de Malberg, proprio come derivante dell’illimitatezza della legge, negava che, per la Francia, potesse parlarsi di Stato di diritto, ma piuttosto di État legal4. Tra le differenze dell’État legal rispetto all’État de droit, il giurista francese sottolineava l’impossibilità di ricorrere avversi gli atti legislativi violativi di diritti, che nell’Ésprit dello Stato di diritto avrebbero dovuto essere garantiti dalla Costituzione anche nei confronti del potere legislativo5.

Anche M. Hauriou pensava che il controllo giurisdizionale in un paese di diritto amministrativo come la Francia si sarebbe fatta strada, e che Le règime administratif avrebbe evitato che degradasse in un governo di giudici6.-

2. L’introduzione del controllo giudiziario di costituzionalità e delle costituzioni rigide del ‘900 ha attuato l’auspicio/previsione dei giuristi francesi testé citati, ampliando l’ambito dello Stato di diritto. Peraltro, a prescindere dalla tutela giudiziaria, anche sul piano sostanziale con l’includere tra i diritti fondamentali non solo libertà e proprietà, ma anche quelli a carattere sociale. Il Rechstaat diveniva così anche un Sozialstaat.

Con ciò il nuovo stato di diritto assumeva una connotazione (anche) di contenimento (se non di contrapposizione) del capitalismo.

Peraltro i diritti “sociali” aventi un carattere (prevalente) d’obbligo e richiedenti un’apposita organizzazione – pubblica o, almeno, regolata e controllata pubblicamente – determinavano l’espansione della presenza dello Stato; e data la “contraddittorietà” tra i diritti garantiti, la composizione del tutto richiedeva tecniche interpretative che ne conciliassero le antinomie (come il “bilanciamento”) e valorizzassero i principi costituzionali. Dallo Stato di diritto si passava così allo “Stato costituzionale di diritto”. Come scrive un acuto giurista argentino, Luis Bandieri, analizzando la dottrina costituzionalista italiana più recente, riconducibile a quella concezione, si è passati così da un positivismo di norme (kelseniano) a un positivismo di valori.

Inoltre, a seguito delle dichiarazioni internazionali sui diritti dell’uomo (v. La dichiarazione ONU dei diritti dell’uomo del 1948; Convenzione europea dei diritti dell’uomo – tra le più importanti) alcuni dei fondamenti dello Stato di diritto sono stati internazionalizzati (dandone luogo ad una “globalizzazione”). Lo Stato di diritto inotre è stato esplicitamente richiamato nel TUE (art. 2 e 21), tra i principi e i valori fondamentali dell’Unione; si legge all’art. 2 “L’Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti a minoranze. Questi valori sono comuni agli Stati membri in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia, dalla solidarietà e dalla parità tra donne e uomini” e all’art. 21 “L’azione dell’Unione sulla scena internazionale si fonda sui principi che ne hanno informato la creazione, lo sviluppo e l’allargamento e che essa si prefigge di promuovere nel resto del mondo: democrazia, Stato di diritto, universalità e indivisibilità dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, rispetto della dignità umana, principi di uguaglianza e di solidarietà e rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale” (I comma); al comma II “L’unione definisce e attua politiche comuni e azioni e opera per assicurare un elevato livello di cooperazione in tutti i settori delle relazioni internazionali al fine di….b) consolidare e sostenere la democrazia, lo Stato di diritto, i diritti dell’uomo e i principi del diritto internazionale”. Con ciò lo Stato di diritto si trova in sovrabbondante compagnia (talvolta anche ridondante).

3. Da tale necessariamente breve – e limitata – esposizione consegue che a denotare il concetto di Stato di diritto (e delimitarne così l’estensione) e ricondurre al di esso schema ideale un ordinameno statale concreto sono:

a) la garanzia dei diritti fondamentali, sia quelli “borghesi” che quelli “sociali” (almeno in parte)

b) la distinzione dei poteri. Si noti che la distinzione è attuata dalle costituzioni in modi e forme assai diverse

c) in particolare, tra le garanzie, vi sono quelle giurisdizionali, che Salandra già distingueva in dirette e indirette

d) in tale contesto rientrano anche le institutionnellegarantien, come quelle sull’indipendenza del potere giudiziario e del giudice

e) le garanzie giudiziarie (v. punto c) sono complete. Ossia nel XXI secolo, anche sugli atti legislativi, col controllo di costituzionalità; esse, per quanto possibile, devono svolgersi in condizioni di parità7.

f) l’osservanza di condizioni eque nella formazione di organi di governo e dell’opinione pubblica.

Anche si potrebbe osservare che non rientrano in un concetto “stretto” dello Stato di diritto, ma piuttosto in quello di democrazia, appare corretta l’impostazione condivisa, tra gli altri, da Constant e Orlando (ma anche da Gneist) che la corretta partecipazione dei cittadini alla funzione pubblica è carattere determinante dello Stato di diritto.

Tralasciamo altri aspetti, di minimo rilievo.

4. È noto che lo Stato di diritto è stato declinato in tanti modi quante sono le costituzioni che ne hanno adottato il modello o, almeno, alcuni caratteri fondamentali; ne deriva che a seconda dell’importanza che si da all’uno o all’altro profilo si rischia di escludere che un ordinamento costituzionale concreto sia uno Stato di diritto. Ad esempio nella procedura U.E. d’infrazione alla Polonia è stata contestata le limitazioni all’indipendenza dei giudici polacchi dopo le innovazioni degli ultimi anni8. Nella risoluzione del Parlamento europeo del 17/09/2020 si stigmatizzano varie violazioni allo Stato di diritto per lo più per l’invadenza del potere governativo sul giudiziario, che compromette l’indipendenza di quest’ultimo, soprattutto per la nomina (politica) di quasi tutto il CSM polacco. Tuttavia negli USA tutti i giudici della Corte Suprema, e molti di quelle “inferiori” sono di nomina (o elezione) politica, ma pare assai difficile sostenere che gli USA non sono uno Stato di diritto, ma anche che quel modo di nominare comprometta gravemente lo Stato di diritto (come scritto – per le meno influenti innovazioni polacche – nell’epigrafe della risoluzione del Parlamento europeo per la procedura d’infrazione alla Polonia).

Oltretutto, come cennato, alcuni di quei fondamenti del Rechtstaat non sono complementari o sovrapponibili senza problemi, ma potenzialmente confliggenti, in specie quando riguardano la democrazia e l’uguaglianza, le quali, oltretutto, oltre a essere parzialmente coincidenti con il concetto di Stato di diritto, sono anche esse indicate tra i “valori fondanti” dell’UE (v. art. 2 T. U.E.).

La contrapposizione tra Stati di diritto, o meglio Stati di democrazia liberali e Stati di non democrazia liberale, come i defunti Stati del socialismo reale era – per altri ordinamenti – facile, perché le differenze erano plurime.

L’assenza, in quest’ultimi, di distinzione di poteri, la garanzia di solo alcuni dei diritti fondamentali (in genere a rimetterci erano la libertà e, in larga misura, la proprietà); la dipendenza della magistratura dal potere politico, la selezione ed elezione della rappresentanza parlamentare; il ruolo di questa, e quello dirigente del Partito comunista; l’imperfetto – o totalmente carente, pluralismo politico; la mancanza di istituzioni giudiziarie di garanzia contro gli atti del potere politico-amministrativo (giustizia amministrativa e costituzionale) rendevano di inconfutabile evidenza che si trattava di forme di stato e di governo radicalmente diverse. Giudizio corroborato dalle dichiarazioni e preamboli a alle di essi costituzioni che – di solito – contrapponevano esplicitamente il loro ordinamento a quello liberal-democatico.

Il che non ricorre affatto nella procedura d’infrazione a carico di Polonia ed, ancor più, Ungheria. Qua la stessa UE scrive non di Stati non di diritto, ma di gravi violazioni dello Stato di diritto (a intenderla in un senso, sono ordinamenti in complesso accettabili ma con dei vulnera). Diversamente da quel che si legge sulla stampa antipopulista in s.p.e. ed eurolirica dalla quale si potrebbe credere che i suddetti Stati siano sintesi politiche per nulla liberali e anche non del tutto democratiche. Mentre invece, tenuto conto dell’elasticità del concetto di Stato di diritto, occorre dare un giudizio complessivo e avere la prudenza consigliata da Machiavelli che, in politica, occorre prendere “il men tristo per buono”. In effetti se pure – ad esempio – alcune innovazioni al rapporto governo/giurisdizione incidono negativamente sull’indipendenza dei giudici polacchi, e possono essere considerate violazioni gravi, oltre, come quelle elencate nei punti 54-63 della citata risoluzione del Parlamento UE sulla libertà e l’educazione sessuale, sull’intolleranza verso minoranze (soprattutto LGBT) non appaiono gravemente compromettenti lo Stato di diritto.

Piuttosto provano che l’Unione Europea, sotto l’involucro “Stato di diritto” cela una propria concezione della società e dei rapporti sociali e politici che dello Stato di diritto può essere considerata una specie (in parte); in altra estranea. D’altronde ciò emerge esplicitamente dalla risoluzione del 17 settembre 2020 sulla Polonia, laddove il Parlamento (v. punto 66) “invita il Consiglio e la Commissione ad astenersi da un’interpretazione restrittiva dello Stato di diritto…”, cioè da quella (meglio da quelle) interpretazione che non soddisfano la maggioranza parlamentare che l’ha votata.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 v. B. Constant, La libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni, Liberilibri, Macerata 2020, pp. 26 ss.

2 v. Principi di diritto costituzionale, Barbera, 1904, pp. 63 ss.

3 v. Verfassungslehre, trad. it., di A. Caracciolo, Milano 1984, pp. 319 ss. Infatti Schmitt afferma “Il popolo appare solo nella pubblicità: esso produce anzi la pubblicità. Popolo e pubblicità coesistono; nessun popolo senza pubblicità e nessuna pubblicità senza popolo”.

4 Scrive infatti “Tandis que la législation est libre, l’administration est constitutionnellement liée ; elle ne peut s’exercer que sous l’empire des lois, qui la dominent et la limitent juridiquement ; elle est donc tenue d’obeir aux lois et de s’y conformer. C’est là une consequénce de la supériorité, en particulier de la superiorité statutaire, de la loi” Contribution à la théorie général de l’État, Tome 1, Paris 1924, p. 486 e ss; nel diritto francese la subordinazione dell’amministrazione alla legge arriva a un punto che non può esercitarsi che secundum legem (la legge è non solo il limite, ma anche la condizione di esercizio del potere amministrativo). Lo Stato di diritto è quello che “assure aux administrés, comme sanction de ces règles, un pouvoir juridique d’agir devant une autorité juridictionnelle à l’effet d’obtenir l’annullation, la réformation ou en tout cas la non-application des actes administratifs qui les auraient enfreintes” (oltre s’intende alla regolamentazione legislativa dell’amministrazione). Ma “Toute autre est le système établi par la mConstitution française en ce qui concerne la subordination de la puissance administrative à la législation » per cui compete alla repubblica francese essere denominata État legal, ossia « un État dans lequel tout acte de puissance administrative présuppose une loi à laquelle il se rattache et dont il soit destiné à assurer l’exécution”.

5 Op. cit., p. 492.

6 v. Précis de droit constitutionnel, Paris 1929, pp. 266 ss. e pp. 279 ss.

7 Com’è noto non è sempre del tutto possibile. V. sul punto rimando al mio scritto Temi e dike nel tramonto della Repubblica in Rivoluzione liberale 17/07/2018.

8 v. La risoluzione del Parlamento europeo del 17/09/2020 sulla proposta di decisione del Consiglio sulla constatazione dell’esistenza di un evidente rischio di violazione grave dello Stato di diritto da parte della Repubblica di Polonia (COM(“2017)0835-2017/0360R(NLE)); in particolare i punti da 16 a 37, sul potere giudiziario.

LE ELEZIONI DEL CAOS, di Gianfranco Campa

Con questo articolo di Gianfranco Campa inauguriamo la rubrica dedicata alle elezioni presidenziali americane di novembre 2020. Ci ripromettiamo di aggiornarla con informazioni ed analisi a costo di enormi sforzi condizionati dalle dimensioni del sito e dalla scarsa disponibilità di tempo degli estensori. Quella di novembre rappresenta una scadenza cruciale per il futuro degli Stati Uniti, per le dinamiche geopolitiche e purtroppo per il decorso preagonico della nostra stessa nazione. Qualunque sia l’esito Trump ha comunque lasciato un segno profondo dal quale l’eventuale successore non potrà completamente prescindere, né tanto meno rimuovere. A chi volesse ripercorrere il clima e le dinamiche convulse di quel paese non resta che ripercorrere le decine di podcast ed articoli pubblicati da questo sito con un piglio originale ed anticipatore. Non ostante l’apparente distacco con il quale si sta vivendo l’evento in Italia quella scadenza sarà fondamentale nello svelare definitivamente il carattere, l’indole, la collocazione e la direzione della gran parte del nostro ceto politico, per altro già facilmente percettibile. Una volta spente le luci della ribalta, a novembre oppure nel 2024, Trump meriterà sicuramente da parte degli storici un giudizio molto più attento ed obbiettivo che ne rivaluti nel bene e nel male il ruolo svolto. Molto più problematica la collocazione della quasi totalità del nostro pavoneggiante ceto politico. Il “sommo poeta”, fosse ancora qui tra noi, faticherebbe non poco ad assegnare loro uno dei tre luoghi di residenza ultraterrena e maggior ragione il girone. Ne dovrebbe creare probabilmente uno apposito: quello forse  degli insulsi_Giuseppe Germinario

 

Forse molti di voi non sanno che le elezioni presidenziali Americane del 2020 sono già ufficialmente iniziate. L’esercizio di voto anticipato e già in corso in Minnesota, Virginia, South Dakota e Wyoming. In questi Stati è già consentito votare di persona in specifici seggi designati. Negli Stati del Vermont, Virginia, Pennsylvania, New Jersey, Minnesota, Sud Dakota, Alabama, Arkansas, Georgia, Idaho, Illinois, Indiana, Kentucky, Louisiana, Michigan, Mississippi, Missouri, Nord Carolina, Nord Dakota, Oklahoma, Rhode Island, Tennessee, Virginia, West Virginia, Wisconsin e Wyoming è già possibile votare per posta. Altri Stati si aggiungeranno nei prossimi giorni alla lista del voto per posta.

A proposito del voto per posta: Con l’avvento del Coronavirus, il numero di votanti per posta è aumentato esponenzialmente; stati che non adottavano un tale sistema di voto si sono affrettati a mettere in piedi l’organizzazione e la struttura  necessaria per consentirne l’esercizio. Per la prima volta nella storia della politica a stelle e strisce il numero dei votanti per posta si quantifica approssimativamente in circa il 40% degli aventi diritto al voto; stiamo parlando di circa 80 milioni di schede elettorali, un record storico.

Se il buon giorno si vede dal mattino queste saranno le elezioni più importanti ma più contestate  della storia americana. Le file di persone che attendono direttamente ai seggi negli stati dove sono ora aperte le operazioni sono imponenti. Nelle ultime presidenziali, quelle del 2016, il 55.5% degli aventi diritto al voto si sono presentati ai seggi. Su oltre 250 milioni di aventi diritto, quasi 140 milioni si sono recati allora ai seggi. Cento milioni sono quindi rimasti a casa; un numero abbastanza consistente. Se anche una piccola percentuale degli assenti cronici dovesse presentarsi ai seggi, potrebbe fare la differenza  in queste presidenziali del 2020. I dati fino da ora, in base a chi ha già votato e a chi ha richiesto la scheda per posta, indica che il numero dei votanti, nonostante il Coronavirus, nel 2020 dovrebbe essere più alto rispetto alle elezioni del 2016.

Fare una previsione in base ai sondaggi su chi vincerà le elezioni è praticamente impossibile;  specialmente su queste presidenziali del 2020. E allora, invece di cercare di interpretare i sondaggi vogliamo concentrarci sui singoli stati per cercare di interpretare l’esito del collegio elettorale ed arrivare a fare una previsione più attendibile rispetto ai sondaggi, su chi tra Biden e Trump ha più possibilità di essere nominato prossimo presidente. Ricordo che non è il voto popolare a decidere le presidenziali bensì la quantità di collegi elettorali conseguiti. Ogni singolo stato contribuisce con un numero specifico di collegi elettorali; la somma di essi determina il vincitore delle presidenziali. Per vincere le elezioni sono necessari 270 seggi elettorali.

Partiamo prima dagli stati dove è assolutamente certo che i seggi elettorali sono al sicuro per un partito o per un altro. In altre parole  sono stati tradizionalmente e storicamente parlando appannaggio di uno specifico partito. Grazie ad una mappa interattiva offerta dalla ABC abbiamo fatto il nostro calcolo sulla ipotesi più plausibile del conto finale dei seggi elettorali. Al momento secondo le nostre previsioni Biden dovrebbe vincere con 308 seggi elettorali; Trump riuscirebbe a conquistare solamente 230 seggi. Comunque sia la forbice elettorale  si è accorciata fra i due candidati. Trump ha recuperato molti punti di percentuale su Biden, ma non ancora a sufficienza per chiudere il gap. Comunque sia il trend per Trump è positivo. Continuando così non si esclude la possibilta che Trump riesca a raggiungere Biden nelle preferenze elettorali

Gli stati in rosso rappresentano quelli che dovrebbero andare a favore di Trump, quelli in Blu rappresentano quelli che dovrebbero andare a favore di Biden. L’azzurro rappresenta il colore degli stati che pendono verso i democratici ma senza certezze. Le nostre proiezioni sono state modificate a nostro piacimento secondo una analisi basata sul voto storico, sui sondaggi, sulle testimonianze di persone direttamente coinvolte nelle due campagne elettorali, sulle notizie locali che riflettono il sentimento dei cittadini del posto, testimonianze sul “campo” di comuni cittadini e sulle reazioni sui social media alle politiche e alle performance di entrambi i candidati. Sotto troverete la mappa del collegio elettorale con le nostre previsioni. Sotto i nomi degli stati si trova il numero dei collegi elettorali a disposizione generato da quel particolare stato. Cercheremo di aggiornare la mappa ogni settimana, applicando la nostra griglia di analisi menzionata prima.

https://abcnews.go.com/Politics/2020-Electoral-Interactive-Map?mapId=MjAyMDA0MTAyNjEwMTYwMTA3NDI3NDE2MTAwqUORTBgmSUhKSSNSTBiRSRKSUUgmCQ

Comunque vada i risultati delle elezioni non saranno disponibile la notte del 3 di Novembre. I numeri dei votati tramite posta fa si che il conteggio si estende passata la soglia del 3 di Novembre. Probabilmente durerà per giorni se non per settimane e sarà un conteggio costellato da battaglie a colpi di proteste di strada e battaglie legali nelle corti locali e federali. Si potrebbe addirittura ipotizzare uno scenario dave Trump sembra vincere le elezioni la notte del 3 di Novembre per poi gradualmente perderle via via che vengono contati i voti per posta. Questo perché alcuni sondaggi ci dicono che il 60% degli aventi diritto al voto iscritti al partito democratico sostengono che voteranno per posta (paura del Covid19) mentre l’opposto e` per gli iscritti al partito repubblicano dove il 60% dichiara, che non fidandosi del voto per posta, si presenterà direttamente ai seggi votando di persona. Comunque sia è ormai certo che la battaglia su i risultati delle presidenziali si prolunghera molto più in là del 3 Novembre. Tenete presente fra l’altro che tra il 2012 e il 2018, secondo i dati della Commissione federale di assistenza elettorale, sono andate perse 28,3 milioni di schede per corrispondenza. Le schede mancanti ammontano a quasi uno su cinque di tutte le schede inviate per posta agli elettori residenti negli Stati che partecipano  alle elezioni esclusivamente per posta. Tenendo presente questo dato, in queste presidenziali del 2020, dove si prevede che 80 milioni di schede per posta verranno spedite agli americani e facile immaginarsi una elezione a dir poco caotica, da repubblica delle banane

I contenziosi delle elezioni apriranno scenari da guerra civile, non escludo che lo scontro si trasformi da politico ad armato. D’altronde Hillary Clinton a categoricamente ordinato a zio Joe di non concedere vittoria a Trump qualunque sia il risultato delle elezioni la notte del 3 Novembre. Quando apre bocca Hillary Clinton non ne esce niente di buono se non morte, disordine e caos…

 

 

Christian Harbulot – Siamo in guerra economica

Intervista a Christian Harbulot – Siamo in guerra economica

Uno dei pionieri dell’intelligence economica, Christian Harbulot è a capo della School of Economic Warfare di Parigi dal 1997 ed è il direttore di Spin Partners. Ha coordinato la stesura del manuale di Intelligence Economica presso i PUF.

 

Conflitti: perché ti sei interessato alla guerra economica?

Christian Harbulot: Può sembrare paradossale. Da adolescente ero un attivista di estrema sinistra. Eppure sono sempre rimasto un patriota. Nato a Verdun, ho immerso tutta la mia infanzia in un’atmosfera patriottica. Non potevo essere insensibile alla parola “Francia”, alla massa di morti e drammi che mi circondavano. Ho persino sognato di diventare un paracadutista. Ma gli eventi in Algeria mi hanno deluso, non mi vedevo entrare nell’esercito del generale Ailleret. Questo spiega il mio passaggio all’estrema sinistra. Ma non tra i trotskisti, tra i maoisti, insisto, la realtà patriottica non mi ha mai abbandonato. I primi sono internazionalisti, i maoisti insistono sul rapporto tra una popolazione e un territorio. Mao Zedong vince con tutti contro di lui, Washington e Mosca, ma sa come mobilitare la sua gente intorno a lui.

In effetti, ciò che è stato decisivo è stato il mio tempo a Sciences-Po dal 1973 al 1975. Non da quello che ho imparato lì, ma da quello che non ho imparato lì. Nessuno si è dato da pensare al futuro della Francia, al potere della Francia. Non ho trovato nessun mentore che stimolasse la mia mente sul futuro del mio paese, su cosa lo potesse sconvolgere, su come una nazione come la nostra potesse non solo preservare i suoi successi ma svilupparli. Nessuno che mi dia griglie di lettura. E questo in un contesto in cui il gioco dell’opposizione tra i blocchi ha portato a nascondere le divergenze che potevano esistere all’interno di ogni blocco. Sciences-Po aveva scelto il suo campo, combatteva il comunismo, era quasi totalmente sotto l’influenza americana.

Questa legge del silenzio che prevaleva a Sciences-Po non poteva soddisfarmi. Una vera omertà .

 

Conflitti: è così che hai creato la School of Economic Warfare.

Christian Harbulot: Tutto è iniziato con discussioni con i militari. Il generale Pichon-Duclos, soprattutto che ho conosciuto nel 1993 dopo aver letto i suoi articoli. Poi i generali Courmont e Merment, un gruppo che lavorava all’interno di un think tank chiamato Stratos. La nascita è stata lunga, quasi cinque anni. Pensavamo di sviluppare le nostre attività in un’università o in una grande scuola, ma si è rivelato difficile. Affrontare il problema della guerra economica, svelandone la realtà, che rischiava di essere poco apprezzata al di là dell’Atlantico. Tuttavia, i professori della Superiora temevano di dispiacere e di essere banditi dalla pubblicazione sulle riviste americane. Quindi hanno frenato quattro ferri. Un pioniere come Le Bihan, che voleva introdurre questo insegnamento all’HEC, fu costretto ad arrendersi.

Alla fine ho trovato il supporto di ESCA e EGE iniziato nel 1998.

 

Conflitti: è qui che inizia a emergere il tema della guerra economica. Perché in questo momento?

Christian Harbulot: Il fenomeno essenziale è proprio la fine della Guerra Fredda e la fine dei blocchi, e quindi dell’omertà che proibiva la pubblicità delle rivalità tra i paesi occidentali e metteva in discussione la solidarietà atlantica. Ciò che una volta era nascosto lo è sempre di meno. Allo stesso tempo, vengono rilasciate nuove forze e emergono nuovi paesi. Ma la fine della guerra fredda non pone fine alla minaccia nucleare. La bomba atomica rende impossibile pensare a grandi conflitti tra grandi potenze in termini di guerra militare, almeno se restiamo razionali. Ciò spiega in parte la trasformazione della guerra sulla base di scontri economici.

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Un evento significativo mostra quanto è cambiato. Nel 1967, il generale de Gaulle chiese la conversione dei dollari detenuti dalla Banque de France in oro. Questo fatto è spesso trascurato, nella migliore delle ipotesi è considerato molto meno importante della costruzione della forza d’attacco nucleare. Eppure de Gaulle ha osato attaccare le fondamenta del potere americano. È stata una sfida incredibile e questa politica verrà abbandonata dai suoi successori. Oggi i BRICSContestando apertamente la supremazia del biglietto verde, V. Poutine chiede di porre fine al suo ruolo predominante e Pechino, più discretamente, sta mettendo in atto tutta una serie di misure per poterne, domani, farne a meno. Tuttavia, gli Stati Uniti non possono tirarsi indietro su questo argomento, è la chiave del loro potere, ma ancor di più del loro sistema. Quella che una volta era considerata la sfida folle di un uomo sta diventando la sfida di tutte le nazioni emergenti.

Quindi quello che potremmo nascondere o minimizzare in passato non può più essere oggi.

 

Conflitti: come definisci la guerra economica?

Christian Harbulot: È l’espressione estrema delle lotte di potere non militari. Se proviamo a dare la priorità all’equilibrio di potere, i due che mi sembrano i più importanti nella storia dell’umanità riguardano la guerra e l’economia. Questo non significa che non ce ne siano altri – culturali, religiosi, diplomatici… Ma sono questi due che contano di più se guardiamo alla lunga storia, gli altri passano in secondo piano. , le loro conseguenze sono meno gravi.

 

Conflitti: questa guerra è l’azione degli stati?

Christian Harbulot: Sì, certo, sono loro che hanno le risorse materiali e la visione a lungo termine necessaria.

 

Conflitti: che dire delle imprese?

Christian Harbulot: Hanno un ruolo, ma subordinato. Il loro posto è limitato da un fattore essenziale, il fattore tempo. Gli azionisti favoriscono l’utile a breve termine; i manager generalmente rimangono a capo della loro azienda per un breve periodo. Fernand Braudel ha dimostrato che a lungo termine lo Stato vince sul mercato. Perché costruire un territorio richiede investimenti pesanti che richiedono uno sforzo a lungo termine. La sostenibilità del potere non è un business, per quanto potente possa essere, ma una costruzione territoriale la cui durata sarà molto più lunga.

L’azienda può disporre di mezzi finanziari considerevoli, superiori a quelli di alcuni Stati. Ma dipende dal mercato, dai suoi rapidi cambiamenti. Nessuna azienda può dire: “Sono qui, resto lì. La vastità dell’Impero russo è stata inscritta nel tempo per secoli; nessuna impresa privata può pretendere di ottenere questo risultato.

 

Conflitti: la guerra economica sta spingendo le aziende a rivolgersi agli Stati?

Christian Harbulot: Sì, naturalmente. L’abbiamo visto con il subprime crisi . I movimenti di capitali che seguirono hanno dimostrato una cosa, che è stata mappata: il capitale è andato dove si sentiva protetto, spesso il suo paese di origine. Le nazionalità, descritte da alcuni economisti come sciocchezze, riacquistarono importanza.

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Conflitti: visto che stiamo parlando di guerra, ci sono aziende che “tradiscono”?

Christian Harbulot:È un dibattito completamente oscurato nel nostro Paese. Questo mi ricorda un caso che mi sembra essenziale nella storia del nostro paese, il piano informatico del generale de Gaulle per l’IT. Pensava in termini di sovranità, facendoci sfuggire agli Stati Uniti dalla dipendenza dalla tecnologia informatica, ma ancor più in termini di potere, in termini di conquista dei mercati. Peyrefitte lo mostra chiaramente quando riporta una discussione con lui sulla concorrenza tra i sistemi PAL e SECAM; per de Gaulle si tratta di prendere quote di mercato. Cosa ha fatto fallire questo piano? Molte cose, ovviamente, ma soprattutto l’azione di Ambroise Roux. Pensava solo agli interessi della General Electricity Company che dirigeva. Non parlerò di tradimento,

 

Conflitti: come si può dire che la visione dello Stato sia superiore a quella delle aziende? Affermano anche di servire il bene comune, producendo dove costa meno e fornendo al consumatore prodotti economici e vari? In che modo lo Stato impedirebbe loro di farlo?

Christian Harbulot: Prima di tutto, ricordiamoci che non siamo solo consumatori, ma anche produttori. Quello che ognuno di noi guadagna da una parte, rischiamo di perdere dall’altra.

Ma non è questa la radice del problema, non sto entrando nel dibattito sulle virtù e sui limiti del liberalismo economico. Economia e politica non sono proprio sullo stesso piano. Ciò che conta sono i rapporti di potenza. È un’idea che mi sta a cuore; per avere un divenire, dobbiamo pensare al potere. Questa è la ragion d’essere degli stati, non delle imprese.

Vedere. Negli anni ’20 e all’inizio degli anni ’30 le aziende americane investirono massicciamente in Germania; questo non ha impedito agli Stati Uniti di entrare in guerra contro di essa – anche se notiamo che i bombardamenti americani hanno sorprendentemente aggirato le fabbriche di questi gruppi …

Gli interessi economici privati ​​non dettano sistematicamente gli interessi del potere. Un caso attuale è rivelatore: le società energetiche americane hanno davvero interesse a sfruttare il gas di scisto che compete con il “loro” petrolio e contribuisce all’attuale caduta del prezzo del barile? E domani, cosa succederà se inizieranno ad esportare in Europa? Lo venderanno a un prezzo elevato, che è nel loro interesse? O a un prezzo basso per rendere l’Europa meno dipendente dal gas russo e più dipendente dagli Stati Uniti? Nel primo caso prevarrebbero gli interessi delle società; nel secondo, la logica del potere dello Stato americano. In ogni caso, sarà un ottimo test, se queste esportazioni avranno luogo, per verificare chi sta imponendo il suo punto di vista (tra interesse privato e interesse di potere).

La questione di chi detiene le chiavi del potere è al centro della trama della famosa serie americana House of Cards. In questa finzione un po ‘simbolica, un uomo d’affari americano è alla disperata ricerca di una raffineria in Cina, senza prestare il minimo interesse alle tensioni geopolitiche sino-americane. Interessi privati ​​a breve termine da un lato, interessi collettivi incarnati dallo Stato dall’altro. Alcuni dicono che lo sviluppo del commercio è il modo migliore per rendere difficile uno scontro tra Stati Uniti e Cina. Ma di questo dovrebbe essere convinto anche lo Stato cinese! E che non prenda iniziative che possano minare il potere, ma anche la competitività degli Stati Uniti. Torna al dollaro. Se i paesi emergenti riescono a ridurne l’utilizzo, tutti gli americani ne risentiranno e tutte le imprese di questo paese.

Le aziende che non giocano il gioco collettivo si comportano come clandestini. Approfittano del sistema, beneficiano di tutti i beni che lo Stato americano dà loro, e soprattutto delle facilitazioni che il dollaro porta loro, ma rafforzano i potenziali avversari del loro Paese. Ecco perché un giorno o l’altro sono chiamati all’ordine dal potere statale che fischia la fine del gioco.

 

Conflitti: il problema è che le aziende non sono dalla parte del potere.

Christian Harbulot: Sì, su questi argomenti non hanno alcun controllo. Non sono le aziende che possono mantenere il dollaro come strumento duraturo del potere economico americano. L’equilibrio economico del potere non è il risultato dell’aggiunta dell’avviamento delle aziende.

 

Conflitti: che rapporto instauri tra guerra economica e guerra?

Christian Harbulot: Questo è un argomento molto importante. Alcune guerre sono spiegate da motivazioni economiche, soprattutto quando si tratta di impossessarsi di risorse vitali. Lo vediamo oggi in Africa. Ma questo è il modo più semplicistico per farlo.

L’esperienza insegna che la guerra non è il modo migliore per garantire la sostenibilità del potere e della ricchezza di un paese – sottolineo la parola sostenibilità. L’esempio più convincente è il Regno Unito che esce incruento dalla seconda guerra mondiale.

Lo scopo della guerra economica è aumentare la ricchezza e quindi aumentare il potere. La guerra in sé non è il modo migliore per ottenere questo risultato, è spesso il modo migliore per perderlo.

 

Conflitti: ma ci sono gli Stati Uniti che non hanno chiuso le porte della guerra dal 1941.

Christian Harbulot: Sì, gli Stati Uniti. È vero. Hanno riconciliato la guerra con la ricchezza e il potere. Per il momento. E trovano sempre più difficile mobilitare pesanti risorse per questi conflitti. Stanno entrando in un periodo in cui fare la guerra sarà sempre più difficile per loro.

 

Conflitti: tutti i paesi sono consapevoli della realtà della guerra economica?

Christian Harbulot: distinguo tre tipi di paese. Coloro che hanno una logica per aumentare il loro potere e la loro ricchezza: Stati Uniti, Cina, Germania, la maggior parte dei paesi emergenti. Coloro che sono sulla difensiva come la Francia e molti altri paesi europei. E quelli che sono solo posta in gioco.

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Conflitti: in guerra come in politica, è prima necessario sapere chi è il nemico. Se ti dessi la possibilità di scegliere tra tre paesi, Stati Uniti, Germania, Cina, quale definiresti il ​​nostro principale nemico economico?

Christian Harbulot: Tutti e tre, da diverse angolazioni. Il principale potrebbe essere la Germania che ha una vera strategia di potere che ci manca. Quello che ci impedisce di pensare al potere sono gli Stati Uniti. Quello che mina le basi del nostro potere è la Cina.

 

Conflitti: non è possibile un’alleanza con la Germania?

Christian Harbulot: È desiderabile. L’aggiunta delle due culture strategiche, così diverse, gioverebbe a entrambe. La Germania dovrebbe comunque accettare di vedere in noi qualcosa di diverso dai potenziali collaboratori.

Ricordo che un originale, tedesco, che insegnava in organizzazioni prestigiose come Sciences-Po o INSEAD, venne a trovarmi per offrirmi un testo il cui titolo era: “Il ripristino della nozione di collaborazione”. La sua ingenuità mi ha incantato, ma l’ho rimandato a casa.

Se ci atteniamo all’idea della supremazia di una cultura su un’altra, non accadrà nulla.

 

Conflitti: sembra che tu stia pianificando i tuoi colpi più duri negli Stati Uniti. Di cosa li biasimi? I valori liberali di cui si vantano o i metodi che li rendono i principali protagonisti della guerra economica?

Christian Harbulot: Entrambi, o meglio il divario tra i due. Si basano su un discorso che non è verificato nella pratica, perché scollegato dalla realtà, e improvvisamente agiscono al contrario dei valori che pretendono di incarnare.

Espandiamoci alla geopolitica. Il generale de Gaulle una volta ha definito gli Stati Uniti una “potenza pericolosa”. Penso che si riferisse alla guerra d’Indocina dove inizialmente sostenevano il Vietminh per “scoprire” nel 1950, quando scoppiò la guerra di Corea, che erano comunisti e che lui Bisognava combatterli prima dai francesi interposti, poi direttamente intervenendo in Vietnam. Sono molto bravi a creare mostri che si rivoltano contro di loro, i talebani in Afghanistan, gli islamisti dell’ISIS contro Assad… È una forma di schizofrenia. E all’improvviso non possono rivendicare il ruolo di potere che rassicura e protegge. Le basi della loro legittimità sono scosse.

 

Conflitti: quale sarebbe per te la recente battaglia economica più significativa?

Christian Harbulot: la politica del gas di Putin. Questa lezione è la dimostrazione più illuminante di come possiamo giocare su un equilibrio economico di potere e mettere i paesi europei in uno stato di dipendenza. Nel caso della Russia, il gas è un’arma economica al servizio del potere.

 

Conflitti: questo non ha impedito all’Unione Europea di votare sanzioni contro la Russia durante la crisi ucraina?

Christian Harbulot: Ma possiamo vedere chiaramente l’imbarazzo della Germania su questo argomento. Gli accordi economici bilaterali che ha firmato con Putin, in particolare sull’energia, riflettono una visione etnocentrica sui suoi interessi immediati e non il desiderio di giocare la coesione europea su una questione vitale a lungo termine al fine di limitare la dipendenza nel campo energetico. Anche altri paesi hanno i propri interessi da difendere in questo caso. È il caso della Francia con l’esportazione di due navi della classe Mistral. Queste contraddizioni spiegano perché le sanzioni europee sono rimaste limitate.

 

Conflitti: in conclusione, quale valutazione trae da questi diciassette anni alla guida dell’EGE?

Christian Harbulot: Molte ragioni di orgoglio quando vedo il successo dei miei ex studenti e la qualità della formazione che ho fornito loro. Ma la cosa più importante è che, ora, possiamo parlare di guerra economica in questo paese. Non è solo o anche principalmente grazie a me, ovviamente, ma alla fine ho portato la mia pietra nell’edificio, o se preferite le mie macerie al muro.

https://www.revueconflits.com/entretien-christian-harbulot-guerre-economique-analyse-theorie/

le buone intenzioni, di Pierluigi Fagan

DALLA POLEMICA ALLA POLITICA.
La politica è anche polemos, indubbiamente, ma prima occorrerebbe passare dai contenuti. Io promuovo dei contenuti, tu altri, si discute e si combatte (polemos). Mi sembra invece che, troppo spesso, si saltino i contenuti e si vada direttamente alla polemica.
Ora, ci troviamo in questa situazione: col voto di ieri abbiamo una certezza, per 30 mesi (due anni e mezzo), abbiamo un governo inamovibile. Il risultato del referendum impone tutta una serie di adempimenti (dal ridisegnare i collegi ad una nuova legge elettorale) senza i quali non si può votare. Inoltre, come molti notano, andandosi a restringere i seggi, gli attuali parlamentari tutto faranno tranne che correre ansiosi verso il vaglio elettorale. Viepiù, non sembra voglia andare ad elezioni il popolo italiano visto che ha per lo più confermato giunte uscenti, tranne in un caso, con percentuali bielorusse, seguendo per due terzi, anche l’indicazione di voto per il SI data, con maggior o minor convinzione, da tutti i partiti. La gente (in tutti gli strati in cui si compone la popolazione), da una parte è alle prese con i problemi psichici e pratici dell’epidemia, dall’altra con quelli socio-economici financo più gravi. I vertici dell’Unione europea, faranno di tutto per non destabilizzare l’Italia favorendo spinte ad essi contrarie.
Nell’opposizione, Forza Italia non ha ancora capito se avrà un futuro post-berlusconiano, forse si aspetta l’ora fatale. Fratelli d’Italia sembra voler seguire una crescita cauta poiché -storia insegna che- partiti che passano dal 6% al 16% in pochi anni, altrettanto poco impiegano a sgonfiarsi se non costruiscono con attenzione la propria classe dirigente e relativo e concreto progetto politico. La Lega è in un dilemma tra il ritorno alla dimensione nordico autonomista e quella nazional-populista-antieuropeista. Quest’ultima, è un po’ contro lo spirito dei tempi poiché i tempi sono difficili, le gente ha preoccupazioni e timori concreti, l’agitazione polemica e chiacchierona alza semmai l’ansia, non favorisce certo soluzioni ponderate e concrete.
Ad inizio 2022 ci sarà l’elezione del Presidente della Repubblica.
Quanto al fronte di governo, Italia Viva dovrà meditare sulla consistenza del suo progetto politico (ammesso ne abbia uno oltre a quello egoico del suo leader) ed i suoi parlamentari, più di altri, sanno che rischiano in toto di perdere il seggio consigliando moderazione. Il M5S ha perso almeno la metà della sua consistenza dalle ultime elezioni, cambiando anche posizionamento politico, dovrà quindi rivedere progetto politico e declinazione concreta, nonché forme della sua organizzazione interna. Il PD procede lento ma costante nel recupero di peso politico, eleggerà probabilmente un Presidente più o meno d’area, ha due anni a mezzo per chiarirsi idee, programmi e persone, ma sembra avviato al recupero della posizione di primo partito nazionale.
Financo in Confindustria si segnalano malumori per la recente gestione molto ideologica e poco pragmatica.
Sul piano pratico, ci sono da destinare e gestire circa 80 mld di sussidi e 120 mld di prestiti europei (più o meno). Macron ha già presentato il suo piano basato su tre pilastri: transizione green (edifici, trasporti, agricoltura, de-carbonizzazione) – competitività ed innovazione delle imprese – occupazione giovanile, enti locali, servizio sanitario. Sul “servizio sanitario”, in Italia, grava anche l’ipoteca del MES. A riguardo, segnalo che il segretario della CGIL ha aperto all’utilizzo del MES, forse il centro studi e l’ufficio legale della CGIL che mi risultano ben seri e preparati, ignorano la trappola neo-liberista-troikista che molti sostengono esser collegata all’utilizzo del fondo?
Insomma, ci sono tempi e condizioni obbligate (ovvero prive di alternativa) nonché fattive urgenze, per tornare a parlare di politica, di strategie-Paese, di idee e progetti. Abbiamo un servizio sanitario sottodimensionato alla esigenze standard di un paese sempre più anziano, viepiù alle prese con la fastidiosa epidemia che ricovera tra il 15% ed il 20% dei contagiati con sintomi e che fino ad oggi sono stati molto, ma molto meno del ritenuto da alcuni. Ciononstante, ad aprile, abbiamo sfiorato e in alcuni casi subito, il collasso sanitario in alcuni ospedali del pur ricco e ben organizzato “nord”. Abbiamo indici di disoccupazione giovanile insopportabili. Abbiamo il più bel Paese del mondo per natura e cultura (almeno quella ereditata) da curare. Siamo in una difficile congiuntura economica generale e particolare. Abbiamo da recuperare standard sulle nuove tecnologie. Da sanare indici di diseguaglianza molto peggiori di altri paesi europei. C’è un articolato problema fiscale. Abbiamo pezzi di Paese corrotti da forme di delinquenza organizzata che per il nostro benessere generale sono peggio di un virus. C’è da ripensare il lavoro e la produzione. C’è da fare un nuovo contratto sociale. C’è da rilanciare cultura media perché gli ultimi mesi ci hanno reso evidente lo stato pietoso delle mentalità diffusa. Per non parlare dei capitoli scuola, informazione, cultura adatta ai tempi sia a livello istituzionale, sia a livello popolare E molto, molto altro.
La politica chiama, direi di fare una moratoria sulla polemica fino a quando non si svilupperà un dibattito sul concreto da farsi. E’ ora di tornare seri, se si è in grado.

Oceano e spazio, la terza dimensione della geopolitica, di Pierre Royer

Oceano e spazio, la terza dimensione della geopolitica

Per millenni, la geopolitica ha fatto parte delle due dimensioni che determinano la superficie terrestre. Le battaglie navali avvenivano nelle immediate vicinanze delle coste, assimilate così al prolungarsi dei conflitti il ​​cui esito si svolgeva spesso sulla terraferma. A partire dal XVII ° secolo, la navigazione oceano permette un’azione in profondità e rivela una certa sorpresa strategica da iniziative ai teatri lontani, almeno difesi. Ma queste azioni sono raramente provano decisivo e non è stato fino al XX ° secolo per il controllo di 3 edimensione diventa capitale. Gli spazi pionieri per eccellenza, l’oceano e lo spazio sono soprattutto aree di controllo, il che giustifica l’interesse delle grandi potenze.

  1. Limiti tecnici e umani

Il primo limite che gli uomini incontrano nel conquistare questi spazi è ovviamente tecnico, di fronte alla sfida dell’immensità. Ampiezza relativa degli spazi oceanici, con navi la cui velocità e capacità di trasportare cibo è limitata. Nel 1492, Colombo navigò per trentasei giorni senza toccare terra per andare dalle Canarie alle Bahamas, Magellan quasi cento giorni nel 1521 per attraversare il Pacifico. Ancora oggi, ci vuole più di un mese di navigazione (non-stop) per collegare l’Europa e l’Asia orientale o attraversare il Pacifico. Immensità assoluta, e persino infinità dello spazio esterno: anche la Luna, la stella a noi più vicina, si trova a una distanza equivalente a nove o dieci volte la circonferenza della Terra – le missioni Apollo impiegavano settanta ore per raggiungerla e un aereo di linea impiegava dai sedici ai diciotto giorni – e Marte, il nostro “vicino”, il unico pianeta che sembra ragionevolmente alla portata dell’uomo, è circa 200 volte più lontano! Un viaggio con equipaggio su Marte riprodurrebbe le condizioni delle esplorazioni marittime dei tempi moderni, aggravando il vincolo dell’esiguità, e quindi la pressione psicologica, che pone qualsiasi esperienza di questo tipo sul filo del rasoio, come marinai dell’era atomica.

 

Questi limiti spiegano perché la progressiva esplorazione di questi spazi può ancora essere considerata imperfetta: meno di vent’anni fa abbiamo un record del primo calamaro gigante vivente e abbiamo esplorato appena il 5% delle profondità oceaniche, come non sappiamo. 96% dell’universo (se questa stima ha senso per una nozione “infinita”) perché, nell’abisso come nello spazio, l’intervento umano diretto è difficile e molto puntuale, addirittura impossibile, sia per ragioni simili (mancanza di ossigeno) o opposte (assenza di gravità in un caso, pressione estrema nell’altro). Per scoprire questi spazi, senza nemmeno parlare di farli propri, è quindi necessario padroneggiare tecnologie complesse: cantieristica navale, cartografia, navigazione astronomica di ieri, costruzioni aerospaziali, automazione e digitalizzazione, la rete satellitare oggi. Si tratta di tecnologie d’élite, non solo perché richiedono un’incredibile quantità di competenze, intellettuali oltre che manuali, per implementarle, ma perché richiedono anche notevoli mezzi finanziari e molto tempo: l’ANS[1] Suffren , consegnato alla Marina francese nel 2020, è il risultato del programma Barracuda lanciato nel 2006, l’ultima unità del quale (la Duquesne ) dovrebbe entrare in servizio nel 2029 e rimanere nella flotta fino al 2060 circa.

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Queste tecnologie sono tanto meno accessibili a tutti in quanto sono generalmente oggetto di sorveglianza, di una politica di segretezza per mantenere un vantaggio essenziale da una prospettiva di potere o semplicemente commerciale. Carte nautiche, i trattati di navigazione sono stati tenuti segreti e nel XVI ° secolo, che gli algoritmi di oggi. Fu solo con l’esplorazione dell’Atlantico di Halley nel 1698-1699 che la conoscenza divenne un fattore di prestigio e da quel momento in poi fu mostrata (almeno in Europa) piuttosto che nascosta. Le imprese tecnologiche o le esplorazioni avventurose verranno ora pubblicizzate, anche se i dettagli delle tecniche per realizzarle rimangono sotto sorveglianza.

L’inaugurazione della SNA Suffren.

Dal mare allo spazio

La logica ultima di questa copertura mediatica era la conquista dello spazio, oggetto di una rivalità tra le due superpotenze del dopoguerra. Nel mondo bipolarizzato della Guerra Fredda, il progresso tecnologico è stato sia una vetrina del suo know-how, e quindi del suo avanzamento sull’altro modello, sia un sostituto di un conflitto diretto che non poteva aver luogo a causa di deterrenza nucleare. La corsa allo spazio aveva inoltre a che fare con il progresso dell’arma atomica, perché la tecnologia del razzo (motorizzazione, potenza, guida, controllo automatizzato) era la stessa, su scala più ampia, di quella usata per il missili intercontinentali, vettori invulnerabili della bomba.

È quindi comprensibile che gli americani fossero preoccupati per l’avanzata presa dai sovietici nelle prime fasi di questa corsa: primo satellite artificiale (Sputnik, 1957), prima essere vivente poi primo uomo nello spazio ( Gagarin, 1961). Il candidato democratico nel 1960, John F. Kennedy, ha utilizzato il tema del “gap missilistico” durante la sua campagna per screditare il suo avversario Richard Nixon, vicepresidente uscente. Sotto Johnson (1963-1968), la tendenza sarà invertita e Nixon, ora presidente, avrà la soddisfazione di assistere al primo sbarco sulla luna per il suo primo anno in carica (1969). E lo spazio testimonierà anche il cambiamento nelle relazioni tra i due grandi quando la logica del confronto succederà a quella della distensione: nel luglio 1975, nel mezzo della conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa a Helsinki (CSCE), il lo stivaggio di una cabina Apollo e di una navicella Soyuz ha dimostrato la capacità dei due grandi di cooperare in uno spazio da cui partono una serie di accordi internazionali, conclusi da un decennio,

  1. Spazi di controllo

Ciò è comunque vero per il dispiegamento permanente di sistemi d’arma o per uso militare (trattato del 1967, trattato ABM [2] del 1972). Eppure le prime mete della ” dimensione 3 E ” erano bene, e rimangono, militari: è l’osservazione e la conoscenza delle forze e dei movimenti del nemico. Aeroplani o dirigibili furono incorporati negli eserciti per questo scopo, prima di sviluppare capacità decisive di attacco al suolo alla fine della prima guerra mondiale; Dal 1916 e dalla battaglia di Verdun, la prima battaglia per la superiorità aerea, la padronanza dello spazio aereo “sovrastante” è una condizione sine qua non vittoria, a terra come in mare, come i satelliti, sono diventati la principale fonte di questo bene essenziale per i leader: l’informazione, nel suo doppio aspetto di raccolta (osservazione) e trasmissione (comunicazioni).

Uno spazio essenziale per la capacità di azione

In modo che il 3 °dimensione è la chiave per la libertà di intraprendere azioni su larga scala in geopolitica: è grazie alla sua maestria che un potere può avere informazioni sufficientemente precise, statiche e dinamiche (satelliti di osservazione e geolocalizzazione) , per decidere e condurre un’azione su qualsiasi scala. Dall’azione furtiva (squadre di commando) o addirittura invisibile, nel cyberspazio, come la contaminazione da parte di Stuxnet che probabilmente ha preso di mira il programma nucleare iraniano, all’azione senza risposta basata su missili tele o homing e / o droni lanciati da aerei o forze navali operanti in aree internazionali, inclusa la semplice esibizione di forza dissuasiva che costituisce il dispiegamento di una significativa forza aerea navale in prossimità di aree critiche.

La libertà di attuare tali mezzi e la loro efficacia sono tanto più sottolineate dalle difficoltà che le truppe di terra incontrano oggi, in particolare nei conflitti asimmetrici: per ottenere risultati, devono dispiegare in massa, che richiede logistiche disabilitanti e aumenta il rischio di tensioni con le popolazioni locali, senza una reale garanzia di efficacia contro un nemico che sfrutta anche le possibilità offerte dalla 3a dimensione in termini di comunicazione criptata, capacità tracciamento, ecc.

 

La questione dell’autonomia, quindi la sovranità è quindi molto direttamente correlata ai mezzi per agire in questa 3 e dimensione strategica, se non altro per avere un’indipendenza nell’informazione – ecco cosa che ha spinto Russia, Cina, ma anche Giappone o Unione Europea, a sviluppare ad esempio un proprio sistema di geolocalizzazione. L’affermazione del potere oggi passa attraverso le tecnologie balistiche – lo vediamo con la Corea del Nord – e attraverso programmi spaziali autonomi o in collaborazione limitata – come l’Agenzia spaziale europea, creata nel 1975, o la cooperazione israeliana. -indiano dagli anni 2000.

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Ma non dobbiamo dimenticare l’aspetto marittimo di questa terza dimensione, vale a dire la profondità. Il 99% delle comunicazioni istantanee di cui godono i nostri computer e telefoni passa attraverso cavi che si trovano sul fondo dell’oceano e la rete in continua espansione ora include più di 300 cavi che si avvicinano a un milione di miglia. E i sottomarini, in particolare a propulsione atomica che beneficiano di una totale autonomia [3], sono anche gli strumenti ideali per la raccolta di informazioni, siano esse tattiche (illuminazione di una forza navale) o strategiche e, naturalmente, per gli attacchi: con missili, sia da crociera che balistici , testata nucleare o meno, il 95% delle aree abitate del globo sono vulnerabili a un attacco innescato dal mare, in particolare le più grandi metropoli, la maggior parte delle quali si trova entro 200 km dalla costa. Viceversa, a causa della loro furtività e della loro mobilità, i sottomarini atomici sono piattaforme quasi impercettibili, e quindi quasi invulnerabili, salvo un incidente o un incredibile colpo di fortuna da parte del “cacciatore”. Questo è ciò che rende gli SSBN (sottomarini missilistici nucleari) i vettori essenziali della deterrenza nucleare,

  1. La tentazione della territorializzazione

Grazie alle profondità, il mare ha mantenuto il ruolo di spazio di sorpresa che ha sempre avuto, dalle incursioni vichinghe agli sbarchi alleati della seconda guerra mondiale e persino in Corea. Oggi, il rilevamento aereo, e ancor di più via satellite, impedisce a una flotta di superficie di nascondersi, ma i sottomarini mantengono questa capacità. Anche se la precisione dei satelliti è raffinata, il che consente loro di contribuire, ad esempio, a comprendere gli effetti del riscaldamento globale sugli oceani (temperatura, livello, correnti, ecc.), Non rilevano ancora i sottomarini oltre poche decine di metri di profondità.

Logicamente, la capacità di osservazione ha portato a un maggiore desiderio di controllo e regolazione. Questo è il XVII ° secolo, che l’idea di proprietà, o per lo meno il controllo legale delle aree marittime prendendo forma, con la prima estensione della sovranità di uno Stato per le acque costiere (1604) e con il dibattito avviato dal gli olandesi sulla libertà dei mari, difesi dal giurista Grotius (1583-1645) nel suo Mare liberum (1609). Questo lavoro, bandito in Inghilterra, ha suscitato una risposta da John Selden (1584-1654) attraverso il suo Mare clausum, completato già nel 1618, ma pubblicato una ventina di anni dopo. I principi ei metodi poi conservati per definire e tracciare le Camere del Re, la prima forma di acque territoriali, sono abbastanza vicini a quelli approvati quasi quattro secoli dopo a Montego Bay per la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, in particolare nozioni di linee di base o passaggi innocui.

 

Questo perché il diritto marittimo è soprattutto consuetudinario. La progressiva estensione delle acque sotto la giurisdizione nazionale avviene casualmente da casi pratici, ma accompagna anche le capacità di sorveglianza degli Stati: il limite di 3 miglia nautiche (circa 5 km) delle acque territoriali è stato per lungo tempo la norma perché corrispondeva al capacità pratiche di azione di uno Stato, e sono gli Stati Uniti che la estenderanno fino a 12 miglia nautiche per combattere contro le “barche del peccato”, queste navi casinò ancorate al limite di 3 miglia nautiche, quindi in vista della costa, al tempo del divieto di alcol (1917-1933) – questo diventerà il nuovo standard del mare territoriale alla conferenza di Ginevra nel 1958. La creazione della Zona Economica Esclusiva (ZEE) da parte di la convenzione del 1982, portando fino a 200 miglia (370 km) i diritti e le responsabilità dei residenti nella regolazione di determinate attività, corrispondeva a un compromesso tra gli Stati “poveri”, desiderosi di un’estensione del loro mare territoriale fino a questo limite, e le competenze navi marittime che desiderano mantenere la massima libertà di navigazione e di azione possibile. Si noti che lo spazio aereo riproduce fedelmente lo stato delle terre o dei mari sottostanti: lo spazio aereo nazionale si estende quindi anche al di sopra del mare territoriale.

ZEE e piattaforma continentale

La ZEE può anche essere estesa dalla piattaforma continentale fino a un massimo di 350 miglia (650 km) se questa estensione è giustificata da argomenti geologici e convalidata da una commissione specializzata delle Nazioni Unite. Questo è ciò che consente alla Francia, che ha la seconda ZEE più grande al mondo dietro gli Stati Uniti, di avere il primo dominio sub-marittimo dalla convalida delle estensioni nel 2015, con 11,6 milioni di km², in in attesa di ulteriori decisioni. Le aree che non rientrano nella ZEE o nelle piattaforme continentali (circa il 60% degli oceani) costituiscono l’alto mare, dove prevale il principio di libertà. Tuttavia, ciò non significa che sia una zona illegale, perché sono state concluse convenzioni specifiche per la regolamentazione della pesca, regionale (tonno, merluzzo) o globale (caccia alle balene,

Fino ad oggi, oltre alle risorse ittiche, sono principalmente le riserve di idrocarburi ad essere sfruttate, a profondità sempre maggiori – dell’ordine di 3.000 m di colonna d’acqua, a cui si aggiunge la profondità di foratura. La maggior parte delle nuove riserve scoperte, a parte il gas di scisto e il petrolio, sono ora in mare e lo sfruttamento offshore fornisce circa un terzo della produzione mondiale, grazie a giacimenti che si trovano in ZEE generalmente riconosciute, anche se la scoperta di tali ricchezze a volte riattiva controversie dormienti finché non c’erano quasi poste in gioco, ad esempio i giacimenti di gas nel Mediterraneo orientale.

Sfruttare le risorse del mare

Lo sfruttamento delle risorse minerarie in mare, solitamente situate a profondità molto elevate, è solo all’inizio: la società australiana Nautilus Minerals ha lanciato nel 2019 il progetto Solwara 1 al largo della Nuova Guinea per la produzione di rame e oro – ma l’enorme dimensione dei depositi suggerisce che la corsa arriverà presto. Un rapporto congiunto CNRS e Ifremer pubblicato nel 2014 ha stimato che la zona di Clarion-Clipperton (15% dell’Oceano Pacifico), grazie al suo “campo” di noduli polimetallici, conteneva 6.000 volte più tallio, 3 volte più cobalto e più manganese e nichel di tutte le risorse individuate al di fuori degli oceani. Anche le risorse genetiche marine (codici del DNA degli organismi marini) sono oggetto di molte fantasie – e semplificazioni,

Piattaforma di perforazione petrolifera offshore.

Il problema però non è cambiato: si tratta ancora di garantire la più ampia libertà di accesso possibile a queste risorse, ma bisogna scegliere tra una libertà incantatoria, l’apertura all’accesso al saccheggio, secondo una concezione simile a quella di pirati di tutti i tempi, e non solo in mare, e libertà reale, che presuppone regole eque e autorità per farle rispettare. L’ONU ha anche avviato nel 2018 negoziati per completare la Convenzione sull’alto mare del 1982. Il senso della storia cresce in effetti con l’aumento della presenza dell’uomo nel 3 ° dimensione, che sia una presenza legale o una presenza fisica, con il proliferare di installazioni sostenibili in alto mare: piattaforme petrolifere, parchi eolici … Il problema sorgerà senza dubbio presto nello spazio esterno, che è indistinguibile non per il momento di un’estensione infinita dello spazio aereo.

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Realisticamente, con un interesse strategico ed economico del 3 e rafforzato per dimensioni e capacità di intervento umano aumentato, il gioco del potere è sicuro di dispiegarlo, a volte a discapito della legge. L’appropriazione da parte della Cina di isolotti o scogliere nel Mar Cinese Meridionale per aumentare il suo mare territoriale e la sua ZEE, a dispetto delle rivendicazioni concorrenti e di un parere della Corte internazionale di giustizia dell’agosto 2016, annuncia conflitti a venire. E la possibilità di attraccare satelliti già in orbita apre anche la strada a una “guerra spaziale” che non ucciderà le persone, ma giocherà comunque un ruolo decisivo nella difesa della sua sovranità.

Cronologia: padronanza del mare e dello spazio in 21 date

  • 1405-1433: le 7 spedizioni di Zheng He
  • 1519-1522: prima circumnavigazione (Magellano – Elcano)
  • 1604: istituzione delle Camere dal re Giacomo I ° d’Inghilterra
  • 1843: prima nave in acciaio azionata da un’elica ( Gran Bretagna )
  • 1851: primo cavo sottomarino (Calais-Douvres)
  • 1869: apertura del Canale di Suez
  • 1905: primi voli controllati dei fratelli Wright
  • 1911: primo esempio di bombardamento aereo (Tripolitania)
  • 1914: siluramento di 3 incrociatori britannici da parte del sottomarino U9
  • 1929: definizione universale di miglio nautico
  • 1939: primo volo di un aereo a turbogetto autonomo
  • 1954: lancio del Nautilus , il primo sottomarino atomico della storia
  • 1957: lancio del primo satellite artificiale, Sputnik I.
  • 1960: il Bathyscaphe Trieste raggiunge il fondo della Fossa delle Marianne (- 11.000 m)
  • 1967: trattato sull’uso pacifico dello spazio cosmico
  • 1969: sbarco sulla luna della missione Apollo XI (21 luglio)
  • 1970: risoluzione 2749 dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite
  • 1975: Apollo – Missione Soyuz
  • 1982: Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (Montego Bay)
  • 2010: rilevamento del worm Stuxnet, il primo caso identificato di attacco informatico
  • 2020: primo ormeggio dei satelliti in orbita geostazionaria

[1] SNA: sottomarino da attacco nucleare. Sottomarino a propulsione atomica dedicato ad attaccare forze navali o obiettivi terrestri con armi non nucleari (missili, siluri).

[2] Missili antibalistici: armi destinate all’intercettazione di missili intercontinentali.

[3] Non hanno infatti bisogno di fare rifornimento e riciclano l’aria e l’acqua, potendo rimanere in immersione totale finché dura la loro scorta di cibo e l’equipaggio resiste al confinamento.

https://www.revueconflits.com/ocean-espace-geopolitique-pierre-royer/

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