RIFORMA CARTABIA, PER PICCINA CHE TU SIA…, di Teodoro Klitsche de la Grange

RIFORMA CARTABIA, PER PICCINA CHE TU SIA…

Scusate se insisto; ma la discussione sulla “riforma” Cartabia ha ridestato gran parte dei luoghi comuni sulla giustizia. Uno dei quali è che, sanzionando comportamenti di amministratori e funzionari si sarebbero indotti gli stessi a non decidere; col risultato di rendere (ancora) più inefficienti le P.P.A.A. italiane. Vero è che l’attenzione si è focalizzata su un reato specifico cioè l’abuso di potere (art. 323 c.p.) la cui formulazione è così vaga da prestarsi ad interpretazioni plurime (e contrastanti).

Se è certo che detto reato si presta a strumentalizzazioni (anche) politiche, lo è altrettanto che escludere, ridurre o rendere inefficaci le sanzioni non può che incentivare a commetterlo. Funzione della sanzione è, come scriveva Carnelutti “Sancire, significa fondamentalmente, in latino, rendere inviolabile e perciò avvalorare qualche cosa; ciò che viene avvalorato, in quanto si cerca di impedirne la violazione, è il precetto, in cui l’ordine etico si risolve… in quanto la sanzione garantisce l’osservanza dell’ordine etico, converte il mos in ius perché meglio congiunge, così tiene uniti, gli uomini nella società”; ma aggiunge “non v’è alcun motivo per riservare al castigo il carattere della sanzione: serve a garantire l’osservanza dell’ordine etico il premio al pari del castigo; praticamente e, per ciò, storicamente, il premio ha però una importanza assai minore”.

Per cui a seguire il ragionamento di Carnelutti non sanzionare vuol dire non avvalorare (almeno) la norma. Resta il fatto che senza sanzione il precetto è zoppo: ma non è detto che a sanzionarlo debba essere la prescritta irrogazione di una pena dal giudice penale. In effetti, come scriveva il giurista, la sanzione può essere la più varia: al punto che può consistere in un premio per chi osserva (e fa osservare) il diritto.

Nella specie l’inconveniente della prescrizione di pena è stato aumentato dalla legge Severino, che ha previsto sanzioni “politiche” a carico di amministratori di enti pubblici, anche in caso di sentenze non definitive (compresa la sospensione e decadenza dall’ufficio) come l’impossibilità di ricoprire la carica per la quale erano stati scelti dal corpo elettorale. Per cui rende più appetibile per togliere di mezzo un amministratore scomodo, di ottenere una sentenza penale di condanna dalla quale consegue la sospensione o la decadenza dalla carica.

Circostanza la quale unitamente al fatto che si tratta di sentenze non definitive (ma politicamente efficaci) ha indotto molti a ritenerla incostituzionale. Un primo passo per evitare ciò sarebbe l’abolizione della legge Severino, fatta, come tutti hanno capito, non per amore di giustizia, ma per il fine di parte di mandare a casa Berlusconi, a dispetto del popolo italiano che s’intestardiva a volerlo come proprio governante. Che è, per l’appunto, uno dei quesiti dei referendum Lega-radicali.

Ma, oltre a ridurre l’appetibilità e le conseguenze politiche, togliendo la suddetta normativa, la sanzione può essere utilmente ricondotta alla conseguenza di una condanna civile e amministrativa.

Non nel senso, però, di togliere l’amministratore dall’incarico, ma utilizzando la vasta gamma di sanzioni previste dall’ordinamento. All’uopo rinforzandole e rendendone meno saltuaria l’applicazione. Prendiamo ad esempio la c.d. astreinte, cioè la sanzione pecuniaria a carico dell’amministrazione che non adempie una sentenza (!!!), malgrado l’obbligo relativo risalga (almeno) alla Destra storica (v. all. E, L. 2248/1865). In Italia è stata prescritta dall’art. 114 (lett. E) del c.p.a. (D.Lgs. 02/07/2010 n. 104), la quale è una delle poche disposizioni (forse l’unica) che nella seconda Repubblica, ha previsto un rimedio a favore dei creditori delle P.P.A.A., tra una miriade di precetti volti a tutelare le amministrazioni dalle pretese altrui, derogando al diritto comune.

Ebbene (ingenuamente?) il precetto è stato formulato premettendo l’eccezione “salvo che ciò sia manifestamente iniquo”: è bastato questo per allargare a dismisura il perimetro dell’iniquità (??), oibò, di chiedere alle P.P.A.A. di adempiere a sentenze e giudicati nei modi stabiliti dai giudici e dalla legge. C’è una sterminata messe di decisioni giudiziarie limitanti l’applicazione dell’astreinte perché sarebbe “manifestamente iniquo” sanzionare uno Stato “in bolletta” come la Repubblica italiana. Ovviamente tale giurisprudenza burofila ha dimenticato quanto scriveva Jhering del diritto romano “classico” che “La pena pecuniaria era il mezzo civile di pressione, onde il giudice usava, per procacciare ed assicurare l’osservanza agli ordinamenti suoi. Un convenuto, che si rifiutasse a fare ciò che il giudice gl’imponeva, non se la cavava col semplice pagamento del valore della cosa dovuta” (il corsivo è mio). Basterebbe eliminare quell’inciso per ottenere un ridimensionamento del garantismo burofilo. Ancora meglio associarlo, ex art. 28 della Costituzione, ad una sanzione pecuniaria – anche modesta – a carico del funzionario inadempiente. E di esempi così ne potrei fare diversi, a costo di annoiare il lettore, più di quanto abbia già fatto.

Piuttosto tornando a Jehring, il giurista tedesco sosteneva che il tardo diritto romano aveva debilitato il senso del diritto attraverso mitezza e umanitarismo. Da quello “robusto ed energico” repubblicano si era passati a una fiacchezza contrassegnata dal miglioramento delle “condizioni del debitore alle spalle del creditore”. Ai nostri giorni il maggior debitore è lo Stato: per cambiare andazzo, come si chiede l’Europa, basta non eccedere in mollezza, peraltro neppure generale, ma burofila. Come sosteneva Jhering “credo che si può stabilire questa massima generale; le simpatie verso i debitori sono segno di un periodo di fiacchezza. Il titolo di umanitario è esso stesso che se lo eroga”; il contrario, praticato nei regimi decadenti consiste ne “l’umanità di san Crispino, che rubava cuoio ai ricchi per farne stivali ai poveri”. E chissà che, ai giorni nostri, i pagamenti ai grandi creditori sono stati ritardati quanto quelli ai quisque de populo? Non mi risulta d’averlo letto.

Speriamo che i giudizi di Jhering possano ispirare anche la (di esso collega) Cartabia.

Teodoro Klitsche de la Grange

PIU’ STRATEGIA MENO STRAWMEN, di Andrea Zhok

Parole sagge, da soppesare senza senza fretta_Giuseppe Germinario
PIU’ STRATEGIA MENO STRAWMEN
Cercar di ragionare in un contesto che si percepisce oramai come sempre in guerra contro qualcuno (sarà per la nostalgia di guerre vere?) è come parlare al vento, e tuttavia non ci sono molte alternative all’ottimismo della volontà.
La situazione attuale è quella in cui, invece di discutere nei dettagli della strategia di sviluppo del paese (di cui il confronto con la pandemia è parte), si è preferito creare bersagli fantoccio (il mitico No Vax neofascista, che di fatto copre circa il 5% della popolazione), su cui far sfogare un’opinione pubblica sempre più frustrata (e destinata ad esserlo sempre di più).
Ciò che ci si dovrebbe sforzare di fare, invece, è dimenticare i No Vax, che sono un falso problema, e riflettere seriamente sulle strategie che stiamo adottando.
Proviamo perciò a ripercorrere un breve ragionamento.
1) Tutte le forze e le attenzioni del paese (Italia) sembrano concentrate nella lotta al Covid (tanto che non c’è neanche il tempo di commentare le condizionalità del PNRR, il cui impatto sulle condizioni di vita future sarà enorme, con vincenti e perdenti).
2) Nell’ambito dello sforzo anti-Covid il fuoco è concentrato integralmente, totalmente e senza resti sulla sola Campagna Vaccinale, con i ricatti, le pressioni moralistiche e le demonizzazioni che sono sotto gli occhi di tutti.
3) Così, tutti si riempiono la bocca di scuola, ma niente di strutturale è stato fatto per la scuola, salvo premere sulla campagna vaccinale (ci sono già comunicazioni che contemplano una continuazione della didattica mista, con insegnanti che continueranno a fare lezione con la mascherina). Stessa cosa vale in altri campi decisivi come i trasporti.
4) Sul piano strettamente sanitario abbiamo ancora, dopo quasi due anni, protocolli sanitari anti-Covid che consigliano vigile attesa, tachipirina e un santino di padre Pio. Cure territoriali non pervenute, terapie sintomatiche lasciate alle iniziative del singolo medico (NB: NON è così nella maggior parte degli altri paesi europei).
5) L’intero ‘sforzo bellico’, che ha chiamato a proprio supporto ogni risorsa, dalle istituzioni alla stampa, punta sull’idea della “vaccinazione totale” come meta ideale e come promessa della nuova normalità. L’idea è che la vaccinazione totale bloccherà la trasmissione del virus, arresterà le varianti, metterà al sicuro anche i più fragili.
6) Quanto è plausibile il successo di questo obiettivo? Da tutto ciò che sappiamo si tratta di un obiettivo strutturalmente del tutto irraggiungibile.
Quello che sappiamo infatti è che:
6.1) Il vaccino protegge efficacemente contro le conseguenze patologiche sul corpo del vaccinato, ma il virus continua a contagiare e ad essere trasmesso dai soggetti vaccinati.
In che misura ciò avvenga è oggetto di studio: alcuni studi recenti parlano di un livello di trasmissione indistinguibile da quello dei non vaccinati, altri studi dicono invece che la trasmissione è molto minore. Tutti però ammettono che la trasmissione avviene.
6.2) Trasmissione dei vaccinati a parte, tre quarti del pianeta non ha ancora avuto accesso se non in maniera trascurabile al vaccino (in Africa si viaggia tra il 2 e il 6% della popolazione vaccinata, e, parlando di pesi massimi: in India è vaccinato il 7% della popolazione, in Indonesia il 6,9%, il Australia il 13,6%, in Brasile il 18,4%).
Questo significa, visto che nessuno prende in considerazione un nuovo lockdown con blocco delle frontiere, che il virus continuerà a circolare anche nel nostro paese, anche se avessimo il 100% di vaccinati e anche se i vaccinati non trasmettessero il virus.
6.3) Il vaccino contro il coronavirus NON è come il vaccino contro la poliomielite o contro il vaiolo (per citare esempi peregrini piovuti in questi giorni) per la semplice ragione che gli effetti di quei vaccini sono perenni, mentre questi hanno una scadenza.
Notizie appena arrivate dicono che il vaccino finora rivelatosi più efficace e più usato (Pfizer) inizia a declinare i suoi effetti già dopo 6 mesi (contro i 9 precedentemente previsti).
Allo stato attuale delle conoscenze, invece, l’immunità prodotta dall’infezione si estende oltre i nove mesi (per analogia con affezioni simili si parla di 1-2 anni).
Ora, posto che questo quadro è quello che, allo stato attuale delle conoscenze, abbiamo di fronte, com’è che non si capisce che la strategia della vaccinazione a tappeto (anche a chi ha ancora gli anticorpi per aver superato l’infezione, anche ai giovani e giovanissimi) è una strategia votata alla sconfitta?
Com’è possibile che non salti agli occhi che già a settembre, quando, anche se venisse deciso domani l’obbligo vaccinale assoluto saremo ben lontani dal 100% dei vaccinati, inizieremo ad essere alle prese con la nuova vaccinazione per i primi gruppi di vaccinati, cui si sovrapporrà probabilmente il richiamo della terza dose causata dall’apparente inferiore durata della copertura?
Com’è possibile che non si veda che l’obiettivo ufficialmente dichiarato (blocco della trasmissione del virus, stop alle varianti, messa in sicurezza dei più fragili), per come è stato immaginato. è nato per fallire?
Com’è possibile che non si capisca che una strategia tutta concentrata su una generica vaccinazione a tappeto (tutto molto militare, non c’è che dire), mentre l’intero sistema sanitario resta in difficoltà per l’ordinaria amministrazione, è una strategia votata al fallimento? Una strategia che ci condurrà ad un circolo vizioso di perenni emergenze senza soluzione né costrutto?
O forse lo si capisce benissimo, ed è per questo che si armano le spingarde morali creando il capro espiatorio dei No Vax, cui si imputerà poi un fallimento concepito come inevitabile?
L’unica direzione in cui avrebbe senso muoversi è quella dell’accettazione della realtà, una realtà in cui il virus SARS-CoV-2 rimarrà endemico nella popolazione mondiale, come è avvenuto in passato per l’influenza, e dunque una realtà in cui dobbiamo cercare di proteggere i più fragili (e qui il vaccino è decisivo), di attutire gli effetti del virus in chi si ammala, e di consentire agli organismi sani di elaborare le proprie difese.
Solo così ne usciremo.
La strada che abbiamo preso conduce ad un percorso dove ci dobbiamo attendere di passare da emergenza in emergenza, consegnando agli esecutivi poteri da stato di guerra, e distraendo l’opinione pubblica da tutto ciò che forgerà davvero il nostro futuro.
Vogliamo questo?
Chi lo vuole?
SULLA LETTERA DI CACCIARI E AGAMBEN
La lettera aperta congiunta di Massimo Cacciari e Giorgio Agamben sul Green Pass (vedi testo nei commenti) ha ricevuto, come prevedibile, un’accoglienza esplosiva. Uno dopo l’altro si sono attivate sulla stampa una serie di firme, più o meno note, per spiegare:
che “le discriminazioni sono ben altre” (Di Cesare, Repubblica),
che “la vita non viene forse prima della democrazia, non viene forse prima di tutto?” (D’Alessandro, Huffingtonpost),
che “il green pass è come la patente o il porto d’armi, che nessuno contesta” (Flores D’Arcais, MicroMega),
che “Cacciari e Agamben non hanno le competenze, lascino fare a chi le ha” (Gramellini, Corriere), ecc. ecc.
Ora, personalmente non credo di essere stato una volta in vita mia d’accordo con Agamben, e dunque ero restio finanche a leggere la lettera, però a fronte di tale qualificata batteria di fucilieri non ho potuto esimermi.
Ciò che ho trovato, e che nel mio piccolo voglio brevemente commentare, è un testo con molti difetti, ma certamente non liquidabile con gli argomenti che ho visto in giro.
Il testo, comparso sul sito dell’Istituto italiano per gli studi filosofici, presenta un’argomentazione molto breve, con un difetto strutturale: essa parte come un argomento “di principio” e “di valore simbolico” circa la minaccia alla vita democratica, prosegue con considerazioni di ordine pragmatico sullo stato della sicurezza dei vaccini e sulla mancanza di una prospettiva (“Dovremo dunque stare col pass fino a quando?), e chiude di nuovo su note di principio.
Per finalità di impatto giornalistico questa forma argomentativa è forse ottimale, proprio perché tocca vari tasti dolenti in poche righe, però in termini filosofici è abbastanza insoddisfacente, per la poca chiarezza dei nessi tra le parti.
Se ci si vuole concentrare sui dettagli si possono trovare diversi punti emendabili, ma credo che in generale sia meglio operare la critica, se critica dev’essere, dopo aver tentato una lettura ‘caritatevole’, che si sforzi di capire la sostanza.
(In ogni caso, trovo insopportabile quel tipo di critica che si limita alle battute benpensanti condite di sufficienza, alle alzate di sopracciglia complici, come se si fosse di fronte a giudizi già pacifici “tra noi alfieri del bene”.)
Quanto all’incipit “di principio” della lettera, diffido sempre di quella tipologia di argomenti, di cui Agamben è un esimio rappresentante, che volano alti, iperborei, su questioni di principio, pensando di poter applicare principi generalissimi alla realtà concreta senza incardinarli nella realtà. Questo tipo di argomenti ha un’elevata tendenza a creare una “isteria simbolica” (i cui esiti troviamo ben rappresentati nelle odierne istanze del ‘politicamente corretto’).
Non credo che nessun argomento in generale che ipostatizzi “la libertà”, “la democrazia”, “i diritti umani”, ecc. sia credibile se non si preoccupa dei dettagli dell’applicazione in contesto. Non esiste da nessuna parte, per dire, la “libertà” in sé e per sé, disincarnata, da preservare da ogni offesa.
Nella lettera questo passaggio applicativo, questa discesa nel concreto non è particolarmente chiara. Essa si intravede solo nel passaggio in cui i due osservano il rischio che “il vaccino si trasformi in una sorta di simbolo politico-religioso.”
Qui credo si sia nei pressi di un punto cruciale, la cui spiegazione nella lettera mi pare oscura, e che provo perciò a spiegare a mia volta come segue.
Il Green Pass non rappresenta un problema per la sua natura intrinseca di limitazione sanitaria ad alcuni gruppi.
Di principio questo tipo di soluzioni possono essere accettabili, se la situazione lo richiede, nella misura in cui lo richiede.
Il problema è qui rappresentato invece da un dissidio tra una situazione reale che non mostra particolari criticità, nonostante la comparsa della variante delta, e una pressione propagandistica e moralistica terrificante da parte dell’intero establishment, che si lancia in una predica battente sulla doverosità di vaccinarsi-e-far-vaccinare chiunque e comunque.
Questa “moralistic suasion”, proprio perché alimentata dal 100% dei media e dal 90% della classe politica di governo, ha un impatto spaventoso sull’opinione pubblica.
Dopo aver costruito una categoria di soggetti non vaccinati (o magari vaccinati, ma dubbiosi) come No Vax subumani, dopo averli dipinti come traditori della patria nello sforzo bellico contro il virus, dopo aver etichettato i dubbiosi come portatori di morte, i frutti nell’opinione pubblica non tardano ad essere raccolti.
Questi toni di moralismo apocalittico sono alla base di una scarica di odio virulento che si percepisce sui social media ogni giorno, dove trovi l’infermiera che minaccia di farla pagare ai pazienti non vaccinati, il virologo che parla dei non vaccinati come sorci da cacciare, gli auguri del medico agli stessi di avere un lutto in famiglia, e poi l’infinita serie scomposta di figuri che augurano malattia e morte.
Ecco, se vediamo la questione del Green Pass non nel suo generale ‘significato simbolico’, ma nella concretezza del modo in cui lo si sta applicando qui ed ora, c’è davvero da preoccuparsi.
Quando il potere costituito scatena le sue forze in campagne moralistiche ed aggressive contro una parte della popolazione che sta agendo nel rispetto della legge, e che sta esercitando la propria legittima libertà (e magari anche con buone ragioni), qui siamo arrivati ad una soglia davvero pericolosa.
Il fatto stesso che il Green Pass sia stato concepito dall’inizio come un modo di ottenere in modo obliquo una sorta di obbligo vaccinale, senza assumersene la responsabilità, ha spinto a premere sul tasto morale, e così facendo ha creato una classe di cittadini che pur legalmente tollerati sono giudicati come ‘impuri’, e su cui è legittimo, anzi consigliato, esercitare il proprio disprezzo. Qui, proprio qui, gli esempi storici delle peggiori autocrazie del ventesimo secolo dovrebbero averci insegnato qualcosa.
La strada che sarebbe stata da prendere, ma che il governo si è dimostrato incapace di prendere, è quella di una valutazione calibrata dei mezzi e dei fini, senza ergersi a giudice morale.
In una valutazione mirata della proporzionalità dei mezzi ai fini ogni immagine bellica di “distruzione del virus”, ed ogni suggestione irenica di “salvare ogni vita” dovevano essere lasciate da parte. Non saremo mai – allo stato delle conoscenze – nelle condizioni di eradicare il virus a colpi di vaccinazione, e non saremo mai nelle condizioni di salvare ogni vita, di ogni individuo.
Porsi obiettivi impossibili è pericoloso perché legittima la richiesta di uno sforzo infinito (e questa è sì un’istanza autoritaria), e crea le condizioni per una frustrazione infinita (con conseguente rabbia crescente).
Esigere il Green Pass da teenager per andare in palestra, o dallo spettatore di un concerto all’aperto, o dall’elettorato passivo per candidarsi, ecc. sono tecnicamente degli abusi, perché iniziative prive di motivazioni sanitarie credibili.
Sono prive di motivazioni sanitarie credibili perché ci sono già tutte le condizioni perché quegli atti non inneschino alcuna crisi sanitaria.
D’altro canto il carattere di abuso arbitrario è ribadito dal fatto che simultaneamente un anziano frequentatore di una chiesa o del parlamento ne sono esentati.
Tutto ciò serve solo a creare una situazione che invece di giocare con le carte democratiche dell’argomento, del pluralismo, della buona informazione, sceglie la scorciatoia autoritaria della propaganda, della distorsione, della demonizzazione.
Post Scriptum.
Siccome non sono mancati tra i critici della lettera alcuni che hanno sollevato obiezioni a un punto che anch’io sostengo da tempo, e che ha un rilievo nella valutazione costi-benefici, ovvero il fatto che gli attuali vaccini anti-Covid hanno ancora un carattere sperimentale, credo sia opportuno riportare per intero in coda un passaggio di un contratto di fornitura Pfizer (l’unico contratto che finora abbia rotto il muro della pubblica secretazione).
<<5.5 Purchaser Acknowledgement.
Purchaser acknowledges that the Vaccine and materials related to the Vaccine, and their components and constituent materials are being rapidly developed due to the emergency circumstances of the COVID-19 pandemic and will continue to be studied after provision of the Vaccine to Purchaser under this Agreement. Purchaser further acknowledges that the long-term effects and efficacy of the Vaccine are not currently known and that there may be adverse effects of the Vaccine that are not currently known.>>
(<<L’acquirente riconosce che il vaccino e i materiali relativi al vaccino e i loro componenti e materiali costitutivi vengono sviluppati rapidamente a causa delle circostanze di emergenza della pandemia di COVID-19 e continueranno a essere studiati dopo la fornitura del vaccino all’acquirente ai sensi del presente accordo. L’acquirente riconosce inoltre che gli effetti a lungo termine e l’efficacia del vaccino non sono attualmente noti e che potrebbero esserci effetti negativi del vaccino che non sono attualmente noti.>>)
DALLA DEMOCRAZIA ALLA TECNOCRAZIA IN DUE PASSAGGI
In un thread avente per oggetto la definizione di No Vax, un mio contatto, giornalista di sinistra – che non nomino, ma che può ovviamente intervenire se lo desidera – ad un certo punto arriva a replicare in questo modo:
“fammi capire, tu filosofo, possiedi dati, li leggi e presumi dall’alto di tutto ciò di decidere in contrasto con quanto stabilito dalla scienza medica e virologica. Tu. Filosofo. Capisci che siamo sull’orlo del baratro, no…”
Ecco, credo che questa breve frase compendi in sé tutta l’involuzione avvenuta nell’intellighentsia di sinistra nell’ultimo mezzo secolo, e meriti una riflessione dedicata.
(Disclaimer: me la prendo con l’intellighentsia di sinistra mica perché quella di destra sia meglio; è solo per la necessità di distanziarsi dalle origini).
In quella frasetta sono all’opera due meccanismi argomentativi sovrapposti.
1) Il primo è una manovra nota di sottrazione del discorso pubblico alla ragione comune.
La sua forma è “chi sei tu per…?”
Di solito viene usata per un’operazione di frammentazione progressiva del discorso pubblico, ridotto ad opinioni su base individuale.
Questo soggettivismo individualistico è stato al centro della prima fase, ‘anarchica’ della ‘nuova sinistra’ post ’68.
2) Ma subito dopo emerge il secondo passo.
Siccome la scomposizione individualistica del discorso pubblico conduce ad esiti realmente anarchici (esiti auspicati da quella generazione politica, salvo poi ritrarsi spaventati dagli effetti), allora si presenta la necessità di una nuova operazione di contenimento del disordine.
Si ricrea perciò una nuova dimensione dell’autorità della ragione, ma non più su base collettiva, come discorso pubblico, ma come “specializzazione dei competenti”.
(“Democrazia è fidarsi di chi sa” diceva qualche giorno fa un ineffabile intellettuale progressista sulle pagine del Corriere.)
Con la seconda mossa non basta più nessun livello di formazione o cultura per occuparsi della cosa pubblica, per quanto alto.
Tu puoi anche studiare per professione e dedicarvi tutta la vita, ma non basta, non può mai bastare.
Devi affidarti a quanto stabilito dalla “scienza” nello specifico campo di pertinenza.
E naturalmente, non vale qualunque fonte scientifica, perché questo sarebbe di nuovo un ritorno all'”interpretazione autonoma delle fonti”, che non hai titolo a fare.
No, si tratta di affidarsi alla voce della scienza in quanto selezionata a monte da “chi sa” (tipo i conduttori dei Talk Show).
E a giudicare se “sa” e cosa “sa” il selezionatore saranno altri che “sanno”. E più non dimandare.
(E’ buffo come tutto ciò ricordi la Controriforma tridentina, quando l’interpretazione autonoma dei Testi Sacri promossa dal protestantesimo venne vietata, conferendo l’autorità della sola vera interpretazione alle gerarchie ecclesiastiche. Ma almeno quella volta si sapeva dove stava il vertice della piramide, ora invisibile.)
Ed è così che si arriva a soluzioni come il governo dei Monti o dei Draghi.
Già, perché esattamente come non hai titolo a ragionare della politica vaccinale se non hai una laurea in medicina, così chi sei tu per giudicare una politica economica?
Sei forse un economista bollinato?
No? E allora taci e fidati di chi sa, per Dio!
Ecco.
Questa in breve è la parabola della democrazia come prodotta dai liberali di sinistra nell’ultimo mezzo secolo.
Prima si è frammentata la società in individui privi di parametri in comune (“La razionalità come violenza” – ricordo ancora queste scemenze brandite senza pudore nei miei anni di università).
Secondo, per contenere il caos della frammentazione si sostituisce la democrazia con una tecnocrazia di nominati, giustificati a imporre qualunque cosa al gregge anarchico degli individui, nel nome del Sapere.
NB_ Tratti da Facebook

Stati Uniti/Cina: chi ha l’esercito più potente?_ da Conflits

Mentre la Cina ha il vantaggio dei numeri, gli Stati Uniti hanno vari vantaggi tecnologici e finanziari. L’esercito cinese intende diventare una moderna forza di combattimento entro i prossimi sei anni, ma dovrà superare le sfide dell’addestramento e dell’equipaggiamento.

Un articolo di Ziyu Zhang nel South China Morning Post , 12 luglio 2021. Traduzione di conflitti.

Con l’escalation delle tensioni con gli Stati Uniti, la Cina continua i suoi sforzi per rendere l’Esercito di Liberazione Popolare ( PLA ) una moderna forza di combattimento entro il 2027, il centenario della sua creazione.

Un alto comandante degli Stati Uniti ha definito la Cina una “minaccia prioritaria per il prossimo decennio”. Allo stesso tempo, Washington sta intensificando il suo sostegno a Taiwan, poiché l’isola è sottoposta a crescenti pressioni politiche e militari da Pechino. Gli analisti avvertono che il Mar Cinese Meridionale potrebbe essere il punto focale di un possibile conflitto armato tra le due potenze. Chi dell’Esercito degli Stati Uniti o dell’Esercito di Liberazione Popolare è il più forte, in termini di personale totale, spese militari e capacità terrestri, marittime e aeree?

Leggi anche:  Cina, unico rivale globale degli Stati Uniti?

Spese militari: Stati Uniti

Con un budget stimato di 778 miliardi di dollari lo scorso anno, ovvero il 39% della spesa militare globale totale secondo i dati diffusi dallo Stockholm International Peace Research Institute, gli Stati Uniti sono di gran lunga i maggiori spendaccioni al mondo in materia.

La Cina, seconda in questa classifica, è molto indietro in termini assoluti, con una spesa stimata in 252 miliardi di dollari.

Tuttavia, alcuni analisti americani hanno avvertito che Washington deve tenere il passo con Pechino. La Cina ha infatti annunciato quest’anno un aumento del 6,8% dei fondi per la difesa, dopo che la spesa era rimasta costante per oltre due decenni.

Forza lavoro: Cina

Con 2 milioni di personale attivo nel 2019 secondo l’ultimo white paper sulla difesa, la Cina ha di gran lunga l’esercito più grande del mondo.

Il piano di bilancio del Pentagono per il prossimo anno distrettuale pone l’esercito americano attivo a 1,35 milioni e i riservisti a 800.000.

Nella guerra moderna, tuttavia, i numeri contano meno della tecnologia e delle attrezzature, ed entrambi i paesi pongono sempre meno enfasi sul loro numero.

Leggi anche:  Cina / Stati Uniti: sii il primo

Nel 2015, il presidente Xi Jinping si è impegnato a ridurre la forza del PLA di 300.000. Allo stesso modo, il piano di bilancio di Joe Biden per il prossimo anno fiscale prevede riduzioni del personale di circa 5.400 uomini.

Esercito: Stati Uniti

L’esercito cinese è la più grande forza terrestre permanente al mondo, con 915.000 soldati in servizio attivo, quasi il doppio dei 486.000 militari statunitensi, secondo il rapporto 2020 del Pentagono sulla potenza militare cinese.

Tuttavia, le forze di terra del PLA dispongono di attrezzature obsolete e sarebbero in grado di utilizzare efficacemente le armi moderne solo adottando attrezzature migliori o sottoponendosi a un addestramento migliore.

Sebbene la Cina abbia adottato armi automatizzate più leggere e potenti per le sue forze di terra, spostando così gran parte del carico operativo dal lavoro fisico delle truppe alla tecnologia digitale, gli esperti militari affermano tuttavia che l’addestramento non è stato seguito.

Washington ha, con i suoi 6.333 carri armati, la più grande flotta corazzata del mondo dopo la Russia. La Cina completa il podio con 5.800 carri armati, secondo Forbes .

Potenza aerea: Stati Uniti

Gli Stati Uniti d’America mantengono il loro primato con oltre 13.000 velivoli militari, di cui 5.163 operati dalla US Air Force. Tra i loro punti di forza ci sono l’F-35 Lightning e l’F-22 Raptor, che sono tra i jet più avanzati al mondo, secondo il Global Air Force Report 2021 pubblicato da Flight Global.

Allo stesso tempo, l’aeronautica cinese, composta dall’aeronautica militare e dall’esercito navale del PLA, è la terza più grande al mondo con oltre 2.500 velivoli, di cui circa 2.000 utilizzati in combattimento, secondo il China Air Power Report 2020.

Da leggere anche:  Cina/Stati Uniti: la trappola di Tucidide

L’aereo da caccia stealth più avanzato disponibile per la Cina è il J-20, che è stato sviluppato in modo indipendente come Mighty Dragon . Progettati per competere con gli F-22 americani, questi velivoli utilizzano motori provvisori che ne limitano la velocità e le capacità di combattimento. Ma sono in corso i lavori su un motore turbogetto ad alta spinta in grado di accelerare la produzione di massa di aerei.

I due paesi stanno anche lavorando a nuovi bombardieri. La Cina sta sviluppando il suo bombardiere strategico H-20 e la US Air Force ha rilasciato nuove immagini e informazioni sul suo bombardiere stealth B-21 Raider di prossima generazione.

Potenza navale: Stati Uniti

Secondo un rapporto del Congresso degli Stati Uniti, la Cina ha ora la marina più grande del mondo, con circa 360 navi, rispetto alle 297 della flotta statunitense.

Ma questo vantaggio numerico cinese è valido solo per le piccole imbarcazioni, come le motovedette costiere. Quando si tratta di navi da guerra più grandi, gli Stati Uniti vincono in termini di numeri, tecnologia ed esperienza.

Ad esempio, gli Stati Uniti hanno 11 portaerei a propulsione nucleare che possono volare su distanze maggiori rispetto agli aerei a propulsione convenzionale. Ognuna di queste portaerei può ospitare almeno sessanta aerei.

In confronto, la Cina ha solo due portaerei, Liaoning e Shandong . Entrambi sono modellati sulla portaerei di classe Kuznetsov , progettata negli anni ’80 in URSS. Sono alimentati da tradizionali caldaie a petrolio e trasportano da 24 a 36 caccia J-15.

Tuttavia, la Cina ha un piano ambizioso per eguagliare la potenza degli Stati Uniti nella regione del Pacifico, lanciando due dozzine di grandi navi da guerra, da corvette e cacciatorpediniere a enormi banchine di atterraggio anfibi, tutto solo nel 2019. Prevede di lanciare una terza portaerei dotata delle più avanzate catapulte di lancio elettromagnetiche note, e per iniziare quest’anno i lavori su un quarto velivolo di questo tipo.

Testate nucleari: Stati Uniti

 Gli Stati Uniti hanno il secondo arsenale nucleare più grande al mondo dopo la Russia. Dietro la Francia, la Cina occupa la quarta posizione nel mondo in questo settore, secondo il sito americano World Population Review .

Quante testate ha la Cina? Il Paese non lo ha reso noto, ma l’ultimo rapporto del Dipartimento Usa del Pentagono sull’esercito cinese indica che la Cina ha una scorta di testate “attualmente stimate intorno a 200”, dove l’International Institute of Stockholm Peace Research lo stima a 350 quest’anno.

A gennaio, una fonte vicina all’esercito cinese ha dichiarato al South China Morning Post che la sua scorta di testate nucleari è cresciuta fino a 1.000 negli ultimi anni, ma ne sono attive meno di 100.

Tutte queste stime impallidiscono rispetto all’inventario totale degli Stati Uniti, che ha non meno di 5.800 testate nucleari, di cui 3.000 pronte per il dispiegamento e circa 1.400 già posizionate su dispositivi di allerta.

Leggi anche:  Cina/Stati Uniti: quali guerre economiche?

La Cina potrebbe approfittare dell’estensione fino al 2026 del nuovo trattato di riduzione delle armi strategiche tra Stati Uniti e Russia per colmare il divario nucleare. Questo trattato limita sia Washington che Mosca a un tetto di 1.550 testate strategiche schierate.

Missili: Cina

Mentre gli Stati Uniti hanno molte più testate nucleari, la Cina gode di un quasi monopolio in un’area: missili balistici terrestri, che possono eseguire attacchi sia nucleari che convenzionali.

Fino all’agosto 2019, agli Stati Uniti era vietato dispiegare missili balistici e da crociera a raggio intermedio a terra ai sensi del Trattato sulle forze nucleari a raggio intermedio concluso con l’URSS nel 1987.

Due settimane dopo il suo ritiro dal suddetto patto, gli Stati Uniti hanno lanciato una variante terrestre di un missile da crociera lanciato in mare, seguita quattro mesi dopo dai suoi primi missili balistici a medio raggio (IRBM) negli anni 1980. Ma, per al momento, la Cina ha ancora il vantaggio su questo tipo di missili.

Leggi anche:  Stati Uniti/Cina: dominare gli oceani

L’unico IRBM cinese è il Dong Feng 26 , la cui capacità di effettuare attacchi convenzionali sulla principale base dell’aeronautica statunitense sull’isola di Guam, come attestato dal Center for Strategic and International Studies, gli è valso il soprannome di “Guam Killer” .

Secondo l’International Institute for Strategic Studies, il numero di lanciatori IRBM nell’arsenale cinese è sceso da zero nel 2015 a 72 nel 2020.

https://www.revueconflits.com/chine-etats-unis-armees-ziyu-zhang-south-china-morning-post/

Le grandi bugie dietro il green pass, di Max Bonelli e Gilles Gallizzi

Qui sotto un interessante articolo che puntualizza alcuni aspetti critici e opachi della gestione della crisi pandemica. Preme sottolineare che alcuni dati segnalati nel testo rappresentano campioni o universo di dati talmente ridotti, aspetto per altro segnalato dagli autori, da essere probabilmente soggetti a variabili non considerate o non considerabili; trattati quindi con una qualche sospensione di giudizio. L’approssimazione e l’utilizzo poco accurato dei dati, per altro, sono parte integrante di una gestione approssimativa, disastrosa e manipolatoria, a volte anche omissiva (vedi la cancellazione dell’elenco degli effetti collaterali dei vaccini da parte dell’AIFA) di questa crisi ormai sempre più asservita strumentalmente ad altre finalità delle varie parti. Su questo anche il “supercompetente” Governo Draghi sta sempre più confermando di adagiarsi progressivamente sul trend quotidiano emerso chiaramente in questi due anni ma ormai in corso da decenni. Un politico, tanto più uno statista, non può esentarsi dall’assumere responsabilità e chiarezza di motivazione dei provvedimenti https://www.governo.it/it/articolo/conferenza-stampa-draghi-cartabia-speranza/17509_Giuseppe Germinario

Le grandi bugie dietro il green pass

In questo articolo scritto a due mani vi sveliamo tutte le falsità propinate al pubblico come verità indiscutibili dai media e dal governo Draghi che vengono usate come giustificazioni all’imposizione di fatto dell’obbligo vaccinale tramite green pass.

La prima menzogna:

i vaccini (in realtà terapia antigeniche in quanto non inoculano il virus covid19) proteggono dal contagio del virus e dalle conseguenze”.

Affermazione falsa andando a guardare i dati forniti dai due paesi con più alto tasso di vaccinazione a doppia dose, Inghilterra ed Israele ci si accorge che almeno per quanto riguarda la letalità i dati clinici dicono che i vaccinati corrono un pericolo di morte da coronavirus sei volte maggiore dei non vaccinati. In particolare dati che vengono dagli ospedali inglesi ci dicono che su 4087 persone vaccinate a doppia dose, e risultate positive nonostante questo alla variante delta, sono stati registrati 26 casi di decessi con una letalità 6 volte maggiore dei 35521 casi positivi tra i non vaccinati e che hanno registrato 34 morti.(1)

Sia ben chiaro parliamo di una letalità molto bassa ma d’altronde la variante delta pur essendo molto contagiosa non è altrettanto pericolosa.

La seconda menzogna:

i vaccini darebbero luogo ad una produzione di anticorpi maggiore e più duratura rispetto agli anticorpi prodotti dopo una infezione da coronavirus in soggetti non vaccinati”

Guardiamo i dati israeliani, paese con la più alta percentuale al mondo di vaccinati;  osservando i dati da maggio in poi su 7700 casi di infettati da Covid 19 solo 72 avevano già avuto il coronavirus ed avevano sviluppato anticorpi naturali quindi parliamo di meno dell’1 % mentre circa 3000 casi (quasi il 40% ) erano vaccinati a doppia dose.

Gli autori del rapporto affermano che chi era vaccinato correva 6,7 volte il rischio di contrarre l’infezione rispetto a chi aveva contratto il coronavirus senza essere vaccinato.

Quindi emerge chiaramente che tutte le categorie non a rischio elevato (sotto i 60 anni) sarebbero più tutelate da un incontro naturale con il virus che da un incontro post vaccino.

Dopo questi dati le autorità israeliane hanno abbassato l’efficacia del vaccino Pfizer dall’ottimistico 98% al 67%.(2)

La terza falsità:

vaccinarsi impedisce la proliferazione delle varianti”.

Grandi virologi come il Prof. Tarro hanno sempre detto il contrario. Vaccinarsi in piena pandemia e con un virus mutevole per definizione essendo virus a RNA messaggero, significa implementare le variazioni del virus stesso. Guarda caso, la variante Delta si è diffuso soprattutto in due paesi ad alto tasso di vaccinazione Israele e Inghilterra.

Quando in autunno si diffonderà la variante epsilon già presente in Sud America e che sembra resistente ai vaccini cosa racconterà il governo Draghi?

Che la colpa è dei non vaccinati? Quando è l’esatto contrario.

Dare all’untore di manzoniana memoria a chi rifiuta una terapia sperimentale di cui il produttore non si assume la responsabilità non aiuterà a tenere sotto controllo la pandemia.

Infine quarta falsitài vaccini sono ben tollerati”.

Volevo rispondere con la pagina dell’AIFA che elencava il numero di segnalazioni avverse….

Vi allego il link sull’argomento che era presente sul sito dell’AIFA ora rimosso per ovvi motivi di opportunità politica….(3)

Si parlava di oltre 66.000 casi di effetti indesiderati tra gravi e non.

Chiudo questa piccola carrellata con una nota di colore; 100 marinai dell’ammiraglia della flotta inglese la portaerei HMS Queen Elisabeth sono risultati positivi al covid….erano tutti vaccinati a due dosi.(4) e adesso passiamo ad una visione più strategica e d’insieme della emergenza Covid

Stiamo dunque seguendo un’agenda di interventi che si è resa inefficace sin dalla sua entrata in vigore.

Se è vero che la prima ondata di contagi colse di sorpresa il mondo intero e soprattutto l’Italia a causa non solo dell’avvento su larga scala di una nuova e forte manifestazione di un patogeno conosciuto e studiato, ma di una insufficiente catena di informazioni, quando non proprio deficitaria per omissioni e la cui responsabilità verrà acclarata nelle sedi opportune, le successive due ondate hanno visto una gestione inidonea alla salvaguardia della salute pubblica e dell’interesse nazionale. Con la diffusione delle variante delta ci troviamo alle soglie di quella che viene già riconosciuta come la quarta ondata.

Ad oggi gli strumenti messi in campo dal governo e dai consulenti cui esso si rifà, si sviluppano secondo due filoni coercitivi: quello dei confinamenti a zone colorate e quello della campagna vaccinale e quindi della sua recente declinazione amministrativa: il lasciapassare verde. Queste, a distanza di diciassette mesi dall’inizio della crisi del Sars-CoV-2, sono le uniche due soluzioni individuate dal governo per la gestione della Nazione. Vi è di più: tali due strumenti coercitivi se dapprima venivano proposti come uniche due strade alternative a mutua esclusione, oggi si integrano laddove anche il conseguimento del lasciapassare verde non scongiura la possibilità di nuovi confinamenti dinnanzi ad una risalita dei contagi. Infatti la conclusione del ciclo vaccinale, mono o bidose, non è, come già esposto, garanzia di assenza di nuovi contagi tanto nella popolazione normale quanto in quella vaccinata che pertanto, di fronte a varianti sempre più infettive e sempre meno virulente, incrementeranno nuovamente con le stagioni autunnale ed invernale, come per ogni malattia infettiva respiratoria.

Il lasciapassare verde diviene inoltre strumento di esclusione di liberi cittadini da attività civili e dalla vita sociale sulla base di una presunta ed ipotetica infezione, peraltro sempre da dimostrare ma aprioristicamente attribuita. Viene invertito e sovvertito il principio di soggetto sano fino a prova contraria dacché la verginità dall’infezione è la condizione naturale e basilare, e non il contrario. Il lasciapassare verde si configura quindi quale strumento discriminatorio basato sull’attribuzione amministrativa, e non medica, di libertà di movimento e di partecipazione alla vita sociale e pubblica già costituzionalmente sancite. Tale strumento ha inoltre ampie e nefaste declinazioni, come quella paventata da Confindustria di utilizzarlo come autorizzazione ad una sospensione di stipendio sino al licenziamento per il dipendente che non lo avesse conseguito. Inoltre, questi lasciapassare contengono informazioni di carattere sanitario che in alcun modo dovrebbero giungere in mano ai datori di lavoro per l’utilizzo discriminatorio degli stessi, in piena violazione della propria intimità.

In considerazione della prevedibile risalita dei contagi, i più avveduti hanno proposto una rimodulazione dell’attribuzione delle zone a libertà limitata non più in base al numero dei nuovi positivi o della percentuale degli stessi all’esecuzione dei tamponi, quanto ad un più saggio numero di ospedalizzazioni. Anche questa soluzione, seppur migliore della precedente, condanna regioni come la Valle d’Aosta ad una perenne zona gialla anche con due ricoveri per covid.

La crisi sanitaria ha messo in evidenza soprattutto l’insufficienza in cui versa il Sistema Sanitario Nazionale vittima dei drastici tagli di cui è stato oggetto negli ultimi 20 anni. Infatti, secondo un’inchiesta di Uninmpresa, partendo dai documenti della Corte dei Conti, dal 1998 al 2017 sono stati chiusi 381 ospedali, con una media di 20 all’anno. In associazione a tale dato va inoltre evidenziato come la distribuzione tra comparto pubblico e privato abbia subito un’inversione di rappresentanza dal 1998 in cui il Sistema Sanitario Nazionale deteneva il 61,3% delle strutture ospedaliere al 2017 in cui la presenza pubblica si è contratta sino al 48,2%. Il personale sanitario ha visto una riduzione di ben 45783 posti di lavoro negli ultimi dieci anni (5).

Cosa fare dunque?

La gestione dell’emergenza non può affidarsi univocamente alla vaccinazione come panacea del male corrente. La vaccinazione, è un’arma fondamentale a disposizione dello Stato il quale si deve prendere carico non solo degli oneri di somministrazione ma anche essere investito e rispondere direttamente quale responsabile delle conseguenze inerenti allo stesso. La macchina commerciale internazionale ha messo in evidenza come la cooperazione e la correttezza è venuta meno quando si è trattato di accaparrarsi le mascherine ed i vaccini sul mercato globale.

Quanto su esposto pone in evidenza la necessità di una nuova fase per la nazione italiana che deve vedere investimenti statali senza precedenti per adeguare la proposta e la garanzia sanitaria alle sfide del nuovo millennio, incrementando quindi le strutture ospedaliere, il personale sanitario, i posti di terapia intensiva ma anche investendo in ricerca ed innovazione nello sviluppo di tecnologia, di vaccini e strumentazione medica che permetteranno all’Italia non solo di essere meno soggetta ai ricatti del mercato globale ma di fungere da formidabile volano economico per la Nazione arrestando, inoltre l’emorragia di ricercatori e lavoratori che a migliaia ogni anno lasciano il Paese.

Max Bonelli

Gilles Gallizzi

(1)

https://www.lifesitenews.com/news/death-rate-

from-variant-covid-virus-six-times-higher-for-

vaccinated-than-unvaccinated-uk-health-data-

show

(2)

https://www.youtube.com/watch?v=4yFUFFi43Hg&t=521s

(3)

https://www.aifa.gov.it/content/segnalazionireazio

ni-avverse

(4)

https://www.bbc.com/news/uk-57830617

(5)

https://www.unimpresa.it/sanita-unimpresa-da-2007-chiusi-200-ospedali-e-tagliati-45-000-sanitari/35576

Il valore della vita (e non solo il costo), di Anne-Sophie Chazaud

OPINIONE . Dove sta andando Macronie? Sullo sfondo dell’annuncio della 4a ondata e dei dibattiti parlamentari sull’estensione della tessera sanitaria, la saggista Anne-Sophie Chazaud ritiene, in un post su Facebook (qui riprodotto), che stiamo entrando in una società del controllo digitale altamente discutibile.

 

Le autorità pubbliche hanno trasformato in caos la nostra irrinunciabile (e meritata) tregua estiva sullo sfondo di una strategia di paura e shock, dividendo ancora una volta – secondo il loro ormai consueto modus operandi – il popolo francese, riducendo volutamente i margini della dialettica e del dibattito con i soli limiti di un “pensiero” che vuole essere scientificamente sostenuto, ma che in realtà ne è l’esatto contrario: manicheo, violento, ideologico, settario, che presenta presupposti come tante certezze e così via. (e da questo punto di vista, del tutto ascientifica nonostante la fatica che si mette a dargli l’apparenza).

È difficile, se non impossibile (e forse un po’ colpevole) non parlare pubblicamente nel periodo che stiamo attraversando perché l’ora è tanto seria e va ben oltre la semplice gestione di un virus. È importante comprendere diversi punti per analizzare la reale natura di ciò che stiamo vivendo attualmente e la sua insopportabile brutalità e non sarò qui esaustivo, ma ci tornerò più avanti:

Come avevo detto nel marzo 2020 in vari articoli e interviste radiofoniche, il (sì, continuo a dire “il”) covid è apparso in Francia in un Paese che era già profondamente fratturato dalla brutale politica portata avanti sotto la sinistra squadra. .

L’opposizione sociale e politica, consapevolmente fuorviata dall’azione delle piccole SA del sistema che sono la feccia e i gruppi di estrema sinistra infiltrati nelle rivendicazioni iniziali dei gilet gialli, ha incontrato una repressione di incredibile violenza, che ha messo tutta una parte il popolo francese in un “campo” odiato, squalificato, caricaturale (facendo all’occorrenza entusiasmando i pochi – tra i veri manifestanti – che c’erano veramente), accusati di tutti i mali…

Ho poi detto, quando è arrivato il covid, che non dovevamo immaginare per un solo secondo che l’esecutivo avrebbe abbandonato la sua opera di distruzione del popolo francese, dei suoi valori, delle sue faticose conquiste, della sua unità, a causa della crisi sanitaria, ma che, al contrario, il movente sanitario sarebbe la sua fallace giustificazione e legittimazione a posteriori.

Siamo in questo momento.

In questo momento in cui le peggiori misure distopiche vengono prese in parodia di un processo democratico (che di fatto è diventato quasi inesistente, e difficilmente si può contare sulla sottomissione zelante del Consiglio di Stato o anche solo o solo ai margini dell’ordine costituzionale del Consiglio per chiamare all’ordine l’esecutivo e i suoi esecutori di lavori legislativi di basso livello), da un esecutivo in gran parte minoritario nel paese (che è stato ancora una volta con forza dimostrato dalle ultime elezioni amministrative), misure che rappresentano un cambiamento antropologico e sociale importante nella nostra storia. Cito a caso: rifiuto del ricovero di un non vaccinato, dimissione di un non vaccinato, vaccinazione senza il consenso dei genitori, ecc., il tutto in un contesto di passione burocratica per l’ammenda procedurale del popolo francese.

Come sempre in questi grandi momenti di frattura, una parte della popolazione avalla il peggio (quello che Jérôme Sainte-Marie descrive, dal punto di vista socio-economico, come un “blocco d’élite”), cauta, spaventata, odiosa, trattando tutti che non la pensano come lei di “fascista” (perché, per queste persone, è chiaramente autorizzato il ricorso costante al punto Godwin) o di “rimasta”, di ignorante, pronta a tutti i compromessi e a tutte le rinunce pur di’ ‘ per assicurare il suo comfort consumistico piuttosto che far prevalere l’umano, la libertà, la vita in tutto il suo valore e non solo nel suo costo.

Sì, il modello di società proposto dalla macronia è proprio segregazionista, opera in modalità deliberata di apartheid, e alcuni, molto attivi sulle reti, onnipresenti nei media, lo trovano perfettamente normale.

Poiché alcuni deficienti hanno scandalosamente sfoggiato una stella gialla, i sostenitori di questo insopportabile sistema sociale possono ora svolgere il consueto ragionamento: ridurre l’opposizione al pass sanitario a un movimento di oscurantisti anti-ascia, il che è ovviamente conveniente e del tutto falso (l’autore di queste linee è vaccinato eppure radicalmente ostile al libretto sanitario), trattarli come antisemiti (ribellandosi alla retorica dei giubbotti antigialli può ricomparire dormire serenamente in frigo, funziona sempre), squalificarli come necessariamente stupidi (basta vedere l’arroganza disonorevole mostrata dal ministro Véran in varie occasioni e dichiarazioni per capirlo), ostile alla scienza, sottosviluppato e così via.

Richiamo l’attenzione sul fatto che tali provvedimenti sono inammissibili in quanto stabiliscono in modo duraturo e irreversibile (le rinunce in tema di libertà non vengono mai successivamente riviste al ribasso) un modo di vivere che ci fa ricadere in un mondo che molti di respingiamo, perché ci sono persone lucide che non si accontentano di vedere tutta questa faccenda attraverso il mignolo dell’occhiale covidista. È stato addirittura respinto un emendamento che chiedeva la fine del passaggio della vergogna quando l’epidemia sarà finita, il che dovrebbe essere sufficiente per gettare milioni di combattenti della resistenza nelle strade. Perché il problema non è la vaccinazione ma proprio questa modalità di sorveglianza di lunga durata ora in atto.

Questo spostamento antropologico (perfettamente denunciato da una magnifica tribuna di François-Xavier Bellamy che qui salva l’anima di una destra classica troppo spesso cauta e compromessa) ci fa entrare a pieno titolo in tutto l’orrore della digitalizzazione delle nostre vite. questa volta in tutti gli atti e in tutti i momenti di questo, anche nei nostri corpi, nell’intimità dei nostri corpi e della nostra salute, ed è in questo che occorre sia comprendere la dimensione grave sia combatterla.

Questa gestione costante delle nostre vite, insieme strumento e obiettivo del capitalismo più amorale (a cui non riduco tutto il liberalismo che ci si chiede di sfuggita dove sia attualmente scomparso) trova, con questa segregazione e questo tracciamento digitale di ogni , la chiave ultima di una politica dura, disumana, divisiva, che cerca soprattutto di estendere su ogni permanente il controllo dei corpi, il controllo delle masse produttrici e consumatrici, quelle che il filosofo Peter Sloterdijk chiama le regole per la gestione del “parco umano”.

Un esempio: ora favoriremo il licenziamento dei non vaccinati piuttosto che la pista del telelavoro (dato che questo progresso digitale ha permesso di allentare, horresco referens , la morsa sui corpi dei dipendenti). La tecnologia digitale consente al biopotere di dispiegarsi in tutta la sua orribilità. Per comprendere la portata della pericolosità di questo cambiamento, è opportuno fare riferimento alla relazione senatoriale del giugno 2021 dal titolo perversamente “Crisi sanitarie e strumenti digitali: rispondere efficacemente per riconquistare le nostre libertà” : le misure proposte sono davvero strabilianti e agghiacciante follia e ad essa rimandiamo fortemente il lettore. Contrariamente alla vulgata media-sociale concordata, parlare di dittatura per evocare un tale sistema non è un eccesso semantico.

Il fatto che questo tentativo di tagliare le nostre vite completamente regolamentate coincida con l’affare Pegasus lo dimostra su un altro livello: le nostre libertà, ovunque, sono minacciate dall’intrusione digitale.

Comprendiamo che in questa gigantesca logica di sottomissione dei popoli (stile cinese), l’attuale esecutivo francese è particolarmente zelante poiché trova qui attraverso l’opportunismo e l’effetto inerte sufficiente per alimentare i suoi obiettivi antisociali e realizzare la sua tabella di marcia iniziale.

Dobbiamo resistere con tutte le nostre forze al mondo che verrà, perché noi siamo i veri progressisti che mettono l’umano e il suo valore (e non il suo costo) al centro di tutto.

https://frontpopulaire.fr/o/Content/co585427/la-valeur-de-la-vie-et-pas-seulement-son-cout?utm_source=frontpopulaire&utm_medium=newsletter&utm_campaign=nl2207fp&utm_content=chazaud+pass+sanitaire&utm_medium=email&utm_source=frontpop&utm_term=NL2207FP&utm_content=Aujourd%27hui+dans+Front+Populaire

Oltre lo stato-nazione, di Claire Vergerio

Qui sotto un interessante articolo grazie al quale l’autrice Claire Vergerio si pone e ci pone alcuni quesiti riguardo la genesi e il futuro degli stati-nazione. Nel saggio l’accademica ha acquisito un merito particolare nel sottolineare due aspetti spesso trattati nella saggistica, ma altrettanto spesso rimossi sia nella ricerca scientifica che ancor di più nello strumentario ideologico degli attori politici:

  • il carattere storico dello stato-nazione, la collocazione cronologica precisa, nonché recente, della sua origine e quello ancora più recente del raggiungimento della piena maturità
  • il carattere coabitativo dell’esercizio delle prerogative statuali con altre forme istituzionali e con altri conglomerati di potere di diversa natura

Una istituzione, quindi, destinata a decadere, come parrebbe in questa fase storica e a morire in un qualche tempo futuro.

Il merito della saggista, tuttavia, si esaurisce rapidamente in questo.

Il suo atteggiamento “aperto” ed attendista riguardo alla probabile e databile fine storica dello stato-nazione prescinde da troppi dati di natura empirica e di analisi qualitativa che fanno propendere invece per una trasformazione delle modalità di esercizio ed un allargamento spaziale ed intensivo delle prerogative statali piuttosto che per una sua paralisi ed estinzione in tempi storici verosimili.

Lo stato-nazione è l’unica istituzione che a tutt’oggi riesce a concentrare, delimitare territorialmente ed estendere l’esercizio del potere politico nei vari ambiti dell’attività sociale umana, da quello duro dell’esercizio della forza e dell’ordine pubblico, a quello culturale ed identitario necessario alla rappresentazione di una realtà credibile e motivante, a quello infine economico sia per vie normative che per intervento diretto. Le altre forme di esercizio del potere, connaturato per altro alla società, assumono un carattere derivato (le organizzazioni internazionali), un ambito particolare di intervento (le ONG, le Multinazionali, ect), una modalità di esercizio meno sofisticata ed adattabile nella sua efficacia (sistemi tribali, imperiali, ect.); caratteristiche peculiari per ciascuna di esse o combinate parzialmente.

In meno di un secolo gli stati, in particolare gli stati-nazione, hanno infatti proliferato a dismisura a seguito della caduta degli imperi, del processo di decolonizzazione con classi dirigenti locali formatesi per lo più in qualche maniera su modelli occidentali, dell’implosione del sistema sovietico.

In questo processo non mancano certo situazioni di crisi, di collasso e di riconfigurazione degli stati.

In esso agiscono tendenze pervasive e di lungo periodo, come l’evoluzione demografica, gli sviluppi tecnologici, la capacità di adattamento culturale le quali rendono sempre più complessi la gestione amministrativa e l’esercizio del potere su vasti territori. In controtendenza sono però proprio la ricerca di potenza e di efficacia, lo sviluppo tecnologico ad essa connessa con il corollario delle risorse necessarie, a richiedere maggiori dimensioni territoriali e demografiche degli stati, tanto più che l’azione geopolitica di questi, di offesa e di difesa, si può risolvere sempre meno a ridosso dei propri confini territoriali.

All’interno di esse agiscono le contingenze politiche e geopolitiche; di fatto la particolare conformazione territoriale degli stati seguita ai processi di decolonizzazione e di dissoluzione degli imperi, la risoluzione contingente dei rapporti di forza geopolitici, la capacità di azione e coesione delle classi dirigenti locali, il dogmatismo ideologico (ad esempio l’applicazione pedissequa dei principi democratici occidentali a società claniche e tribali).

La Vergerio non è la sola a smarrirsi su questa strada; perché non è la sola a dibattersi in un equivoco ricorrente. Al contrario si trova in buona compagnia di una folta schiera di studiosi ed attori politici anche ben più affermati.

Non è lo Stato, al pari di altre istituzioni e strutture quali le multinazionali, le ONG a muovere e sfruttare le dinamiche politiche. Sono i centri decisionali che operano all’interno di esse ad operare in cooperazione e in conflitto tra di loro; più questi centri sono ramificati e riescono ad agire nei vari ambiti e apparati dell’attività socio-politica, più hanno probabilità di essere incisivi ed efficaci; sempre che dispongano dell’intuito e dell’intelligenza necessari a cogliere, orientare e cavalcare l’onda. Coloro che riescono ad agire e muovere gli apparati statali o parti essenziali di essi godono di un particolare vantaggio difficilmente scalfibile se non in una situazione di disgregazione e di declino se non di collasso vero e proprio.

Ogni istituzione, siano esse imprese o stati o clan, per reggersi ha bisogno che i centri decisionali coltivino i necessari processi identitari tesi a garantire coesione e motivazione. Lo stato nazionale, per la sua complessità, ancora più degli altri anche se spesso in maniera più sofisticata ed indiretta. Non si tratta quindi di privilegiare ed individuare in assoluto una forma stato rispetto ad un’altra, quanto di adottare quelle particolarità necessarie a garantire coesione ed efficacia rispetto al campo di azione e all’agone nel quale si vuole o si è costretti ad agire. Su questo ha ragione la Vergerio. Ma è lo Stato Nazionale ad essere ancora, in tempi storici ragionevoli, lo strumento e il luogo di elezione della contesa politica. Più riuscirà a preservare questo carattere, più i centri potranno agire con l’incisività e la tempestività richieste da una competizione sempre più accesa e conflittuale. In questo quadro vanno considerati i temi legati al conflitto sociale, all’eguaglianza, al dinamismo e alla coesione propri ormai non solo di specifici settori politici; con quel parametro devono misurarsi le forze politiche e le élites che fanno degli interessi popolari la ragione della loro azione per avere qualche probabilità di successo.

Con ritardo e con parecchie armi ed argomenti ormai spuntati sembrano essersi accorti di questo anche in Occidente, annaspando qua e là e senza offrire qualcosa di coerente e propositivo e soprattutto incapaci di propinare quella medicina o placebo rassicuranti rappresentati dal successo garantito. I più convinti assertori del buon governo mondiale, tra di essi Habermas, lo hanno sempre affermato: il fondamento sul quale può basarsi un governo mondiale sono pochi principi rarefatti interpretati da pochi saggi. Di fatto il vuoto inquietante così distante da quella democrazia dei quali si ergono a paladini. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Oltre lo Stato-nazione

La mitologia della Westfalia, che ha fatto dello stato sovrano il fondamento naturale dell’ordine politico, ha danneggiato la governance globale. Per evitare che i nazionalisti si impadroniscano di questa rappresentazione carente, dobbiamo tornare alla storia per capire quanto sia recente questo paradigma; questa divagazione offre strade per pensare oltre e riscoprire una capacità di immaginazione.

Una delle affermazioni più ripetute sulla politica internazionale riguarda il passaggio da un’era “westfaliana” a un’altra “post-westfaliana”. Molti autori, ricercatori o giornalisti, utilizzano questo quadro teorico per interrogarsi sugli aspetti essenziali di ciò che ci aspetta: quali responsabilità dovrebbero avere le multinazionali nei confronti dei diritti umani1 ? Come si svilupperà la guerra nel ventunesimo secolo?2 Le organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite o l’Unione Europea diventeranno sempre più autoritarie? 

L’ordine della Westfalia vede la politica mondiale come un sistema di stati sovrani indipendenti, tutti uguali davanti alla legge. Il resoconto più popolare di questo sistema politico mostra come trasse le sue origini dalla pace di Westfalia nel 1648, si rafforzò in Europa, si diffuse gradualmente nel resto del mondo, per mostrare infine, al termine del XX secolo e all’inizio di questo, segni di imminente declino. Per coloro che condividono questa prospettiva, gran parte del potere che gli Stati un tempo possedevano è stato ridistribuito a varie istituzioni e organizzazioni non statali – che si pensi a organizzazioni internazionali ben note come l’ONU, l’UE o l’Unione Africana, a organizzazioni violente di attori non statali come ISIS, Boko Haram o i talebani, o ad aziende che beneficiano dell’influenza economica globale come Facebook, Google o Amazon. Questa situazione, si sostiene generalmente, si tradurrà in un ordine politico internazionale che assomiglierà all’Europa medievale più che al sistema politico mondiale del ventesimo secolo.3.

Ci sono disaccordi su cosa significhi questo ordine “post-westfaliano”. La questione se sia auspicabile o meno che le organizzazioni internazionali possano intervenire negli affari di Stato è una fonte inesauribile di dibattito. Eppure c’è un vasto consenso sugli eventi della narrazione che ci hanno portato alla situazione attuale. In breve, l’idea westfaliana offre alle analisi dominanti le basi su cui costruire la loro descrizione della politica internazionale.

Il problema con questa rappresentazione è che molto di ciò che racconta è profondamente imperfetto. Negli ultimi due decenni, gli studiosi che lavorano sulla storia dell’ordine internazionale hanno mostrato meticolosamente la disconnessione tra la narrativa della Westfalia e le prove storiche. Lo stato-nazione non è così antico e il suo emergere non è così naturale come spesso si afferma. Comprendere correttamente questa storia significa che abbiamo bisogno di creare un’altra narrazione delle origini del nostro ordine politico internazionale, che ci porti anche a presentare un altro possibile futuro.

Negli ultimi due decenni, gli studiosi che lavorano sulla storia dell’ordine internazionale hanno mostrato meticolosamente la disconnessione tra la narrativa della Westfalia e le prove storiche. Lo stato-nazione non è così antico e il suo emergere non è così naturale come spesso si afferma.

CLAIRE VERGERIO

Queste domande sono cruciali oggi. Mentre il periodo successivo alla Guerra Fredda ha effettivamente consentito l’ascesa di organizzazioni non statali, negli ultimi anni vari leader politici di destra hanno rafforzato la tesi dell’influenza dello stato-nazione. A causa dello spettacolare ritorno del nazionalismo – dalla Brexit a Donald Trump, passando per l’ascesa al potere di Narendra Modi, Jair Bolsonaro o Viktor Orbán – alcuni hanno persino ipotizzato che, dopotutto, l’ultima ora dell’ordine della Westfalia potrebbe non essere arrivata , mentre altri sostengono categoricamente che questo fenomeno sia stato solo l’ultimo spasmo di un sistema morente. Comprendere la storia del sistema internazionale ha implicazioni cruciali per entrambe le posizioni.

A generazioni di studenti di relazioni internazionali è stato ripetutamente detto che fu la Carta paneuropea della pace di Westfalia nel 1648 a creare la struttura politica che ora si trova in tutto il mondo: un sistema statale con sovrani uguali, se non materialmente, almeno in legge. Con questa struttura politica, continua la narrazione, sono emerse altre caratteristiche essenziali, come la dottrina del non intervento, il rispetto dell’integrità territoriale, la tolleranza religiosa, o la consacrazione degli equilibri di potere e l’emergere di una diplomazia europea multilaterale. Pertanto, la pace di Westfalia non è solo una pietra miliare cronologica ma, per così dire, un’ancora per il nostro mondo moderno. Con Westfalia l’Europa entra rumorosamente nella modernità politica e offre il suo modello al resto del mondo.

Negli ultimi decenni, studiosi che lavorano sulla storia dell’ordine internazionale – in una varietà di discipline, tra cui la storia globale, le relazioni internazionali e il diritto internazionale – hanno dimostrato che questa narrativa tradizionale non è solo falsa, ma anche diametralmente opposta alla realtà storica. L’articolo di Andreas Osiander, “Sovranità, relazioni internazionali e mito della Westfalia”, probabilmente l’esempio più ampiamente riconosciuto di questo sforzo di lottare con idee preconcette, è stato pubblicato ormai vent’anni fa.4. Come hanno sottolineato questi studiosi, i Trattati di pace di Westfalia, che posero fine alla Guerra dei Trent’anni (1618-1648) che devastò l’Europa, non menzionano né la sovranità statale né il principio di non intervento, né tanto meno la volontà di riorganizzare il sistema politico europeo. Lungi dal sancire il principio di tolleranza religiosa, più spesso conosciuto sotto i termini di cuius regio eius religio (“a tale principe, tale religione”), che fu messo in atto dal Trattato di Augusta nel 1555, questi trattati lo misero in discussione, giudicando che fosse stato una fonte di instabilità. Inoltre, i trattati non menzionano mai il concetto di equilibrio di potere. In realtà, la pace di Westfalia rafforza un sistema di relazioni che, appunto, non erafondato sul concetto di Stato sovrano, ma al contrario sulla riaffermazione del complesso sistema giuridico ( Landeshoheit ) di cui godeva il Sacro Romano Impero e che autorizzava unità politiche autonome a formare un conglomerato più ampio (“l’Impero”) senza avere un vero governo centrale. 

Parte dell’attuale confusione è che tutti i principali trattati di pace firmati nel 1648 sono stati riuniti sotto un unico nome. Quello che spesso chiamiamo Trattato di Westfalia si riferisce in realtà a due trattati: firmati tra maggio e ottobre 1648; si trattava di accordi tra il Sacro Romano Impero e i suoi due principali avversari, ovvero la Francia (Trattato di Münster) e la Svezia (Trattato di Osnabrück). Ciascun trattato riguardava principalmente gli affari interni del Sacro Romano Impero e gli scambi territoriali bilaterali minori con la Francia e la Svezia. Oltre a questi due accordi, c’era anche un altro Trattato di Münster tra Spagna e Paesi Bassi, firmato nel gennaio dello stesso anno e che poneva fine alla guerra degli ottant’anni; ma questo precedente accordo non ha quasi alcun legame con i trattati del Sacro Romano Impero.

Al di là di questa confusione, come ha potuto questa narrazione fuorviante diventare così popolare? La mitologia di questi trattati non prese piede completamente fino all’inizio del XIX secolo, poiché gli storici europei guardavano ai tempi moderni per fabbricare resoconti che sostenessero la loro visione del mondo. Come hanno spiegato i ricercatori Richard Devetak5 e Edward Keene6, gli storici conservatori di questo periodo (in particolare quelli della scuola storica tedesca di Göttingen) volevano dipingere il periodo pre-1789 del continente europeo come un sistema ordinato di stati, caratterizzato da moderazione e rispetto reciproco, e che era stato minacciato dall’imperialismo espansionista di Napoleone. Questa reinvenzione della moderna storia europea faceva parte di un progetto più ampio e ora ben studiato per presentare l’ascesa di un sistema internazionale e di una potenza europea globale in modo tale da sembrare il risultato di un processo lineare, inevitabile e prezioso.7. Gli europei, continua questa storia, furono gli unici ad essere moderni nella loro organizzazione politica, e la donarono al resto del mondo.

Al di là di questa confusione, come ha potuto questa narrativa fuorviante diventare così popolare? La mitologia di questi trattati non prese piede completamente fino all’inizio del XIX secolo, poiché gli storici europei guardavano ai tempi moderni per fabbricare resoconti che sostenessero la loro visione del mondo.

CLAIRE VERGERIO

Come spiega Osiander, è riciclando la propaganda del diciassettesimo secolo che la pace di Westfalia ha avuto un posto d’onore in questa nuova narrativa storica. Nella ricerca sulla storia degli stati che lottano per la sovranità contro il dominio imperiale, gli storici del diciannovesimo secolo hanno trovato esattamente ciò di cui avevano bisogno nei discorsi anti-asburgici che erano stati diffusi dalle corone francese e svedese durante la Guerra dei Trent’anni.

Gli storici del ventesimo secolo hanno ulteriormente approfondito questo resoconto. Come spesso accade con i miti fondatori, un articolo sembra essere stato particolarmente influente, soprattutto nel campo delle relazioni internazionali e del diritto internazionale: il saggio di Leo Gross “The Peace of Westphalia: 1648-1948”, pubblicato nel 1948 nella Rivista americana di diritto internazionale8. Dichiarato “senza tempo” e “precursore” all’epoca, l’articolo celebrava l’emergere dell’ordine del secondo dopoguerra stabilendo una prestigiosa genealogia. Confrontando la Carta delle Nazioni Unite del 1945 con il Trattato di Westfalia, Gross ha ripreso la narrativa dei trattati che reinventano la sovranità nazionale e quindi consentono libertà, uguaglianza, non intervento e tutte le altre presunte virtù. Ha notato, tuttavia, che il testo dei trattati difficilmente rifletteva queste idee, ma ha fatto appello ai principi generali che secondo lui dovrebbero essere alla base di questi accordi. Coloro che, dopo di lui, citarono la sua opera, continuarono la costruzione del mito: nella migliore delle ipotesi, scelsero alcune clausole sugli affari interni del Sacro Romano Impero e le brandirono come le basi di un nuovo ordine paneuropeo.

Sono giunto alla seguente conclusione: il mito è sopravvissuto principalmente perché gli sforzi per confutarlo non sono riusciti a fornire una narrativa alternativa chiara e avvincente. La soluzione alla debacle della Westfalia sarebbe quindi quella di presentare una narrazione alternativa con più accuratezza storica, che riflettesse il processo molto più complesso che ha portato al moderno ordine internazionale.

Ecco, ad esempio, una storia che, sebbene incompleta, è più accurata. Fino alla fine del XIX secolo, l’ordine internazionale era basato su un mosaico di diverse entità politiche. Sebbene si faccia spesso una distinzione tra il continente europeo e il resto del mondo, lavori recenti ci ricordano che anche le entità politiche europee erano relativamente eterogenee fino alla fine del XIX secolo. Mentre alcune di queste comunità politiche erano stati sovrani, altre includevano formazioni composite come il Sacro Romano Impero e la Repubblica delle Due Nazioni (che includevano la Polonia e il Granducato di Lituania), all’interno delle quali i diritti sovrani erano divisi in modi complessi.

In effetti, molto di ciò che diamo per scontato sulla normale organizzazione del sistema internazionale è relativamente recente. Fu solo nel diciannovesimo secolo che lo stato sovrano divenne la norma, poiché entità come il Sacro Romano Impero lasciarono gradualmente il posto a stati sovrani come la Germania. È spesso dimenticato, ma anche l’America Latina ha vissuto durante il periodo una transizione verso un sistema di stati sovrani, in seguito alle sue successive rivoluzioni anticoloniali. Questo sistema divenne in seguito l’ordine di default internazionale attraverso la decolonizzazione negli anni ’50 e ’70, quando gli stati sovrani sostituirono gli imperi in tutto il mondo. Durante questa transizione, sono state prese in considerazione varie possibilità alternative, in particolare – fino agli anni Cinquanta – forme di federazioni e confederazioni che da allora sono in gran parte scomparse. Negli ultimi decenni, lo Stato non solo ha trionfato come unica parte legittima del sistema internazionale, ma ha anche plasmato il nostro immaginario collettivo in modo tale che siamo convinti che questa sia stata la norma dal 1648.

Negli ultimi decenni, lo Stato non solo ha trionfato come unica parte legittima del sistema internazionale, ma ha anche plasmato il nostro immaginario collettivo in modo tale che siamo convinti che questa sia stata la norma dal 1648.

Fino al 1800, tutta l’Europa a est del confine francese non assomigliava per niente a quella che è ora. Come descrive lo storico Peter H. Wilson nel suo recente libro Heart of Europe (2020), il Sacro Romano Impero, a lungo snobbato dagli storici degli stati-nazione, aveva allora mille anni.9. Al suo apice, rappresentava un terzo dell’Europa continentale. Continuerà ad esistere per altri sei anni prima della sua dissoluzione sotto la pressione delle invasioni napoleoniche e la sua temporanea sostituzione con la Confederazione del Reno (1806-1813), sotto la dominazione francese, poi dalla Confederazione germanica (1815-1866).

Quest’ultima era per molti versi simile al Sacro Romano Impero e difficilmente somigliava a uno stato-nazione. Gran parte del suo territorio si sovrapponeva – in modo cosiddetto “premoderno” – al territorio della monarchia asburgica, altro “stato composito” che iniziò il suo processo di accentramento prima del Sacro Romano Impero ma che, fino alla fine dello stesso diciannovesimo secolo somigliava poco a uno stato-nazione. Si consolidò e terminò nell’impero austriaco (1804-1867), poi nell’impero austro-ungarico (1867-1918); ma l’accordo del 1867 concesse all’Ungheria una notevole autonomia e di fatto la autorizzò a governare il proprio piccolo impero. Intanto, più a sud, quella che chiamiamo Italia era ancora un insieme di regni (Sardegna, Due Sicilie, Lombardo-Veneto sotto l’autorità della corona austriaca), ducati (in particolare Parma, Modena e Toscana) e stati pontifici, mentre i territori più a est erano governati dall’Impero ottomano. Fu solo verso la metà del XIX secolo che la mappa dell’Europa iniziò ad assomigliare a un gruppo di stati-nazione: Belgio e Grecia apparvero nel 1830, mentre l’unificazione italiana e tedesca non furono completate che solo nel 1871. 

Siamo abituati a pensare all’Europa come al primo esempio storico di un sistema di veri Stati sovrani, ma in realtà l’America Latina è arrivata a questa forma di organizzazione politica nello stesso periodo. . Dopo tre secoli di dominazione imperiale, la regione ha visto una ridistribuzione della sua geografia politica a causa delle rivoluzioni atlantiche della fine del XVIII secolo e dell’inizio del XIX secolo. Seguendo le orme degli Stati Uniti (1776) e di Haiti (1804), conobbe una serie di guerre di indipendenza, tanto che nel 1826, con poche eccezioni, gli spagnoli e i portoghesi furono completamente espulsi. Ovviamente, La Gran Bretagna ottenne rapidamente il controllo del commercio nella regione attraverso una combinazione aggressiva di misure economiche e diplomatiche, spesso definita “impero informale”. Tuttavia, ora interagiva con stati formalmente sovrani.

Durante il resto del secolo, le strutture di sovranità federale emerse a seguito dell’indipendenza, la Grande Colombia (1819-1831), la Repubblica Federale dell’America Centrale (1823-1841) e le Province Unite del Rio de la Plata (1810-1831) – affondarono in sanguinose guerre civili che durarono per decenni, mettendo le regioni contro i governi centralizzati e portando a numerosi tentativi di ricostruire conglomerati politici più grandi. Così, come nell’Europa occidentale, non è stato fino alla fine del diciannovesimo secolo che la regione si è stabilizzata in un sistema di stati-nazione simile a quello che è oggi. Sembra ora possibile offrire una narrazione simile per il Nord America, come propone la storica Rachel St John nel suo progetto attuale,Gli Stati immaginati d’America: la storia non manifesta del Nord America del XIX secolo .

Gli imperi, ovviamente, continuarono a prosperare nonostante la crescente popolarità degli stati nazionali. Fino alla seconda guerra mondiale, il mondo era dominato dagli imperi e dalle strutture eterogenee di autorità politica che creavano. Quando la decolonizzazione iniziò dopo il 1945, lo stato-nazione non era l’unica possibilità. In Worldmaking after Empire (2019), Adom Getachew descrive il “momento federale” dell’Africa anglofona, quando i leader dei vari movimenti indipendentisti del continente hanno discusso della possibilità di organizzare un’Unione degli Stati africani nella regione e una Federazione delle Indie Occidentali nei Caraibi10. Modellandosi sugli Stati Uniti, che offrivano l’esempio di una florida federazione post-imperiale, giocarono poi con l’idea di uno Stato federale centralizzato, ma non riuscirono a mettersi d’accordo con chi preferiva una federazione meno restrittiva, che avrebbe lasciato più potere decisionale e sovranità nelle mani di ciascuno Stato.

Fino alla seconda guerra mondiale, il mondo era dominato dagli imperi e dalle strutture eterogenee di autorità politica che creavano. Quando la decolonizzazione iniziò dopo il 1945, lo stato-nazione non era l’unica possibilità.

Per quanto riguarda le colonie africane francofone, la deviazione dal modello dello stato-nazione è stata ancora più notevole. Come ha descritto Frederick Cooper in Cittadinanza tra impero e nazione (2014), il trionfo finale dello stato-nazione qui è il risultato dei disaccordi tra il governo francese nella Francia metropolitana e i leader e pensatori africani che hanno guidato il processo di decolonizzazione.- da Mamadou Dia , il Primo Ministro del Senegal, a Léopold Sédar Senghor, uno dei teorici della negritudine11. Inizialmente, la conversazione si è concentrata su formazioni politiche che non erano né imperi né stati-nazione, ma federazioni e confederazioni che vedevano la cittadinanza come un insieme di diritti che non si sovrapponevano necessariamente allo status di nazione. L’idea prevedeva una federazione di nazioni, non una federazione come nazione, come gli Stati Uniti. Ogni comunità avrebbe il proprio governo e la propria identità, ma le varie comunità agirebbero insieme e offriranno una forma condivisa di cittadinanza all’interno di uno stato multinazionale. 

Questa forma di “anticolonialismo antinazionalista” si trovò infine di fronte al rifiuto del governo francese di distribuire le risorse della metropoli all’interno di una rete estesa di cittadini. Eppure dovremmo soffermarci un attimo sul fatto che se ne sia discusso seriamente. Naturalmente, nel contesto della decolonizzazione, il trionfo dello stato-nazione ha rappresentato una vittoria definitiva per i popoli colonizzati contro i loro oppressori di lunga data. Ma ha anche reciso il legame tra regioni e storie condivise e ha creato le proprie dinamiche di oppressione, principalmente per coloro a cui è stata negata l’opportunità di stabilire il proprio stato: popoli indigeni, nazioni senza stato, minoranze12. Lo strapotere di queste costruzioni statali, che hanno quasi completamente spazzato via le popolazioni indigene in insediamenti come gli Stati Uniti e l’Australia, è stato avvertito anche in situazioni in cui la costruzione dello stato era un’arma contro l’impero. Se è vero che i deboli hanno prevalso, e giustamente, a volte è stato a scapito di quelli ancora più deboli. 

Poteva andare diversamente? Le analisi controfattuali sono un gioco pericoloso nel pensiero storico. Ciò che è chiaro, tuttavia, è che appena settant’anni prima, quello che oggi vediamo come un modo ovvio di organizzare le comunità politiche era solo uno dei tanti disponibili nel nostro immaginario collettivo.

Quest’altro resoconto di come siamo arrivati ​​all’ordine internazionale moderno ha importanti implicazioni sul modo in cui vediamo il passato. Ha anche gravi conseguenze per il modo in cui pensiamo al presente. 

Innanzitutto, ci costringe a ripensare alle cause della stabilità internazionale. La narrativa usuale associa l’ordine internazionale all’esistenza di un sistema di stati sovrani, ma la storia alternativa suggerisce che il periodo successivo al 1648 fu caratterizzato dalla sopravvivenza di varie comunità politiche. Per quanto riguarda il continente europeo, il Sacro Romano Impero è l’esempio più eclatante di tale comunità politica, che continuò a sperimentare diverse forme di aggregazione dei diritti sovrani fino al suo crollo nel 1806. Pertanto, la relativa stabilità del periodo seguente al 1648 può essere dovuto più alla diversità delle comunità politiche nel continente che alla presunta comparsa di un sistema omogeneo di stati-nazione. Ordine internazionale nella diversità (2015)13. Questo periodo suggerisce quindi che un sistema internazionale in cui il potere è condiviso tra diversi tipi di attori potrebbe rivelarsi relativamente stabile.

La consueta narrativa associa l’ordine internazionale all’esistenza di un sistema di stati sovrani, ma la storia alternativa suggerisce che il periodo successivo al 1648 fu caratterizzato dalla sopravvivenza di varie comunità politiche.

D’altra parte, prendere sul serio questa narrativa alternativa ci costringe a ripensare a come vediamo oggi l’influenza degli attori non statali. Se si dovesse citare solo un esempio, anche le più potenti multinazionali contemporanee – Facebook, Google, Amazon, Apple e le altre – sono molto più limitate nei loro poteri formali rispetto alle famose compagnie mercantili, che furono attori centrali nel panorama internazionale ordinato fino alla metà del XIX secolo. Le due più importanti, le Compagnie delle Indie Orientali britannica e olandese, fondate rispettivamente nel 1600 e nel 1602, accumularono uno straordinario potere nei loro due secoli di esistenza, divenendo le prime promotrici dell’espansione imperialista europea.14. Quando queste società hanno iniziato come imprese mercantili che cercavano di unirsi alla redditizia rete commerciale asiatica, hanno gradualmente formato piani più ambiziosi e, dai loro avamposti in India e Indonesia, sono diventate vere comunità politiche autonome. Erano, come ora sostengono vari studiosi, “azienda-stati”, attori ibridi sia privati ​​che pubblici, che erano legalmente autorizzati a governare su sudditi, coniare denaro e fare guerre. Da questo punto di vista, gli attori non statali contemporanei sono ancora relativamente deboli rispetto agli stati che monopolizzano ancora il potere formale più di qualsiasi altro attore del sistema internazionale.

La stratificazione della sovranità all’interno di comunità politiche come l’Unione Europea, l’emergere del potere delle multinazionali, l’importanza di gruppi violenti che non sono considerati “Stati”, nessuno di questi sviluppi è fondamentalmente in atto. hanno lavorato negli ultimi 373 anni.

L’intervista che il ricercatore di scienze politiche Francis Fukuyama ha rilasciato a Noema è rivelatrice al riguardo.15. Quando gli è stato chiesto se trovasse lo stato-nazione ora inadeguato di fronte alle questioni più urgenti del mondo, Fukuyama ha riconosciuto che tali “sfide non possono essere affrontate dai singoli stati”. Ma, ha continuato, “quante di queste sfide potrebbero essere affrontate se gli stati esistenti lavorassero insieme meglio?” “. La rivista riassume così questa prospettiva: “Di fronte alle sfide globali, lo stato-nazione è sia il problema che la soluzione”. Persino i pensatori che desiderano limitare lo stato-nazione non riescono a liberarsi dalla camicia di forza dello stato che limita l’immaginazione politica contemporanea. I dibattiti sulle istituzioni sovranazionali soffrono di un’analoga ristrettezza: dovrebbe essere concesso più potere agli Stati o alle organizzazioni internazionali, che,in definitiva , sono fondamentalmente basati su questi stessi stati? Nel bel mezzo di una crisi globale, che si pensi al COVID-19 o all’emergenza climatica, è necessario trovare possibilità alternative alle nostre visioni logore.

Quindi c’è molto di più in gioco nelle nostre discussioni sull’ordine internazionale che imbrogli sulla periodizzazione storica. La rappresentazione sbagliata della storia del sistema internazionale avvantaggia gli uomini forti del nazionalismo, che si vedono come salvare il mondo dal crollo nell’anarchia che deriverebbe dall’assenza di Stati, e dal controllo delle multinazionali che se ne fregano delle alleanze nazionali. Più in generale, comprendere bene questa storia significa impostare il quadro giusto per le nostre discussioni. Concedere il potere ad attori diversi dagli Stati non è sempre una buona idea, ma bisogna respingere il falso dilemma tra il ritorno del nazionalismo da una parte e il trionfo delle entità non democratiche dall’altra. 

Quindi ora è il momento di sfruttare una comprensione più accurata del nostro passato per immaginare un futuro meno distruttivo. Avere un resoconto alternativo della nostra traiettoria in questo modo non ci offre alcuna soluzione preconfezionata, ma apre la strada a considerare un ordine internazionale che lasci spazio a una maggiore diversità delle comunità politiche e che ristabilisca l’equilibrio tra i diritti degli Stati e diritti di altre comunità. La norma oggi è che gli stati hanno molti più diritti di qualsiasi altra comunità – dai popoli indigeni ai movimenti sociali transnazionali – semplicemente perché sono stati. Ma perché questo dovrebbe essere l’unico quadro teorico per il nostro immaginario collettivo non è affatto ovvio, e tanto meno se la sua legittimità si fonda su una storia del sistema internazionale a lungo confutata. Il mito della Westfalia ha infine gravemente ostacolato la nostra capacità di immaginare in modo creativo risposte alle sfide globali che trascendono sia i confini che i livelli di organizzazione del governo, risposte che possono essere date a diverse scale, quartiere, villaggio o dalla città alle istituzioni internazionali. 

Poiché il tempo che abbiamo a disposizione per immaginare modi più sostenibili di organizzare il nostro mondo sta ovviamente iniziando a esaurirsi, mettiamo fine a questo mito una volta per tutte. 

FONTI
  1. Santoro, M., “Post-Westfalia e il suo malcontento: affari, globalizzazione e diritti umani nella prospettiva politica e morale”,  trimestrale di etica aziendale,  volume 20, n ° 2, 2010, p. 285-297.
  2. Sean McFate, Le nuove regole della guerra. Come l’americano può vincere – Contro Russia, Cina e altre minacce , William Morrow, 2020.
  3. Philip G. Cerny, “Neomedievalismo, guerra civile e il nuovo dilemma della sicurezza: la globalizzazione come disordine durevole”,  Civil Wars , Volume 1, n° 1, 1998, p. 36-64.
  4. Andreas Osiander, “Sovranità, relazioni internazionali e mito della Westfalia”, Organizzazione internazionale , Volume 55, n° 2, 2001, p. 251-287.
  5. Richard Devetak, “Fondamenti storiografici del pensiero internazionale moderno: Storie del sistema degli Stati europei da Firenze a Göttingen”,  Storia delle idee europee , Volume 41, n° 1, 2015, p. 62-77.
  6. Edward Keene, Al di là della società anarchica. Grozio, Colonialismo e ordine nella politica mondiale , Cambridge University Press, 2002.
  7. Jürgen Osterhammel, Unfabling the East:  L’incontro dell’Illuminismo con l’Asia , Princeton University Press, 2018.
  8. Gross, L., “The Peace of Westfalia, 1648–1948”,  American Journal of International Law,  Volume 42, No. 1, 1948, p. 20-41.
  9. Peter H. Wilson, Cuore d’Europa. Una storia del Sacro Romano Impero , Belknap Press, 2020.
  10. Adom Getachew, “La  creazione del mondo dopo l’impero: l’ascesa e la caduta dell’autodeterminazione “, Princeton University Press, 2019.
  11. Frederick Cooper, Cittadinanza tra impero e nazione: rifare la Francia e l’Africa francese, 1945-1960 , Princeton University Press, 2014.
  12. Epicentro, Chi merita l’indipendenza?, Blog dell’Università di Harvard.
  13. Phillips, A. e Sharman, J.,  International Order in Diversity: War, Trade and Rule in the Indian Ocean , Cambridge, Cambridge University Press, 2015.
  14. JC Sharman e Andrew Phillips, Outsourcing Empire:  How Company-States Made the Modern World , Princeton University Press, 2020.
  15. Noéma, Francis Fukuyama: Andremo mai oltre lo Stato-nazione?, 29 aprile 2021.
TITOLI DI CODA

La versione originale di questo articolo è apparsa sulla Boston Review .

https://legrandcontinent.eu/fr/2021/07/19/au-dela-de-letat-nation/?mc_cid=a803fe3340&mc_eid=4c8205a2e9

Sudafrica: dietro il caos, la rivolta degli Zulu_di Bernard Lugan

La retorica dell’emancipazione e la realtà della costruzione di una formazione sociale_Giuseppe Germinario

Il gravissimo saccheggio-sommossa che dall’8 luglio scuote il Sudafrica è stato innescato dalla fazione pro-Zuma dell’ANC (Zulu), con l’obiettivo di destabilizzare la presidenza di Cyril Ramaphosa (Venda), al quale lei rimprovera di averla estromessa leader nel 2018. Anche la presidenza sudafricana è stata molto chiara su questo argomento parlando di una “cospirazione etnica” e incriminando dodici alti funzionari zulu dell’ANC che, secondo lei, sono coinvolti nell’organizzazione di queste rivolte. Dudane Zuma, uno dei figli di Jacob Zuma, da parte sua, ha chiaramente invitato gli Zulu a mobilitarsi.

Tutto il resto sono solo angoscianti analisi giornalistiche di mediocrità e superficialità, soprattutto quando presentano questi eventi come se fossero una semplice rivolta sociale a causa di una crisi economica aggravata dal Covid…

Il ritorno alla realtà comporta l’evidenziazione di due fasi distinte, che permette di non confondere le cause con le loro conseguenze:

1) Tutto è partito dal paese zulu, Kwazulu-Natal, con le città zulu di Durban e Pietermaritzburg come epicentri, e questo dal momento in cui Jacob Zuma è stato imprigionato. Nell’area di Johannesburg sono state colpite solo le township Zulu. È notevole che le aree non Zulu non abbiano seguito l’esempio.

Le ragioni di questa rivolta sono chiare: gli Zulu non accettano il colpo di Stato del 2018 che ha portato alla cacciata di Jacob Zuma da parte del suo vicepresidente Cyril Ramaphosa. Lo accettano tanto meno poiché questo colpo di stato è stato seguito da procedimenti legali contro Jacob Zuma, considerato da loro come una vendetta dei suoi avversari etnici all’interno dell’ANC. Tanto più che giustamente accusano l’attuale presidente, l’ex sindacalista Cyril Ramaphosa, di aver costruito la sua colossale fortuna sul tradimento dei suoi elettori. Nominato nei consigli di amministrazione delle società minerarie bianche, vi fu infatti cooptato per la sua “perizia” sindacale, vale a dire in cambio del suo aiuto contro le richieste dei minatori neri, di cui prima era rappresentante 1994. !!!

Considerando che attraverso Jacob Zuma è la loro gente che viene attaccata, agli Zulu non importa sapere che erano davvero totalmente corrotti. Bloccato in diversi casi di corruzione, è stato addirittura catturato nella borsa di una gigantesca società di patronato statale a beneficio della famiglia Gupta [1] ed è stata nominata una commissione giudiziaria per indagare sulla gravissima accusa di “Cattura di Stato”. Questi gangster d’affari di origine indiana erano infatti riusciti a imporre il loro diritto di controllo sulle nomine ufficiali, che aveva permesso loro di collocare i loro agenti in tutti gli ingranaggi decisionali dello Stato e delle imprese pubbliche.

Credendo che lo Stato-ANC sia contro di loro, i sostenitori di Jacob Zuma pensavano quindi di avere solo la violenza per esprimersi. Di qui i primi eventi di inizio luglio, subito seguiti, come sempre in questo caso, da un saccheggio di opportunità associato a una potente e sanguinosa vendetta contro questi mercanti-usurai indiani che, come sanguisughe, vivono a spese dei contadini zulu . E fu allora che si verificò la seconda fase del movimento.

2) Conseguenza di un movimento politico, questi saccheggi sono la rivelazione del fallimento economico e sociale [2] della “nazione arcobaleno” così liricamente cantata dagli ingenui dopo la fine dell'”apartheid”. Il record economico di quasi tre decenni di potenza dell’ANC è infatti disastroso con un PIL che continua a diminuire (3,5% nel 2011, 2,6% nel 2012, 1,9% nel 2013, 1,8% nel 2014, 1% nel 2015, 0,6% nel 2016 , un’entrata in recessione nel 2017 seguita da un lievissimo rimbalzo allo 0,2% e allo 0,1% nel 2019 e nel 2020). Le miniere, principale datore di lavoro del Paese, hanno perso quasi 300.000 posti di lavoro dal 1994. Per quanto riguarda le perdite di produzione e di reddito, si sommano a costi operativi in ​​costante aumento, mentre i drammatici blackout hanno avuto le loro conseguenze. la chiusura di pozzi secondari e il licenziamento di decine di migliaia di minatori.

Dal 1994, infatti, il Sudafrica vive dell’immensa eredità lasciata in eredità dal regime bianco. I suoi nuovi padroni dell’ANC non fecero gli investimenti necessari e colossali che era tuttavia urgente fare per mantenere semplicemente le capacità produttive. Oltre a ciò, il clima sociale ha scoraggiato i potenziali investitori che hanno preferito “trascinare” le proprie attività in paesi più affidabili.

L’agricoltura aveva anche perso diverse centinaia di migliaia di posti di lavoro prima del colpo mortale agli agricoltori martedì 27 febbraio 2018, quando il parlamento sudafricano ha votato per avviare un processo di nazionalizzazione-esproprio senza indennizzo dei 35.000 agricoltori bianchi.

Di conseguenza, invece di essere colmate, come promesso dall’ANC nel 1994, le disuguaglianze si sono anzi ampliate ulteriormente. Oggi il 75% delle famiglie nere vive al di sotto della soglia di povertà. Quanto alla disoccupazione, è ufficialmente il 30% della popolazione attiva mentre le agenzie indipendenti parlano di oltre il 50% con punte dell’80% in alcune regioni.

Infine, una cifra terribile per tutti coloro che credevano nel futuro della società “post-razziale” sudafricana, oggi il reddito del segmento più povero della popolazione nera è quasi il 50% inferiore a quello che era sotto il regime bianco prima del 1994 !!! Cosa ha fatto dire ad un famoso cronista nero che al ritmo con cui il Paese si sta decomponendo, bisognerà presto decidere di “restituire la direzione ai boeri”!!!

Un’osservazione di grande profondità perché la cosiddetta eredità “negativa” dell'”apartheid” è servita per anni come scusa ai leader sudafricani. Tuttavia, oggi, nessuno può negare che nel 1994, quando il presidente De Klerk innalzò al potere un Nelson Mandela incapace di prenderlo con la forza [3], lasciò in eredità all’ANC la più grande economia del continente, un paese con infrastrutture di comunicazione e di trasporto su pari ai paesi sviluppati, un settore finanziario moderno e prospero, ampia indipendenza energetica, un’industria diversificata, capacità tecniche di alto livello e il primo esercito africano. È anche chiaro che, liberato dall'”oppressione razzista”, il “nuovo Sudafrica” ​​cadde subito preda del predatore partito dell’ANC i cui quadri, tanto incapaci quanto corrotti, avevano come obiettivo principale il proprio arricchimento.

Oggi l’ANC non è altro che un guscio vuoto che ha perso ogni forma ideologica e politica. Frammentata da un’infinità di fattori, sopravvive solo come macchina elettorale destinata a distribuire i seggi dei deputati ai suoi membri. Quanto alle messe nere totalmente impoverite, esse costituiscono un potenziale blocco esplosivo la cui rabbia un giorno o l’altro si rivolgerà contro i bianchi che avranno solo la scelta tra emigrazione o ritiro nell’ex provincia di Cape Town.

Decerebrati dal senso di colpa, dai guaiti dei “decoloniali” e dall’AIDS mentale introdotto dalla “cultura del risveglio” (vedi a questo proposito il mio libro Per rispondere ai decoloniali), i grassi capponi occidentali continueranno comunque a svenire davanti a loro la figura tutelare di Nelson Mandela, pur continuando ad avere “gli occhi di Chimene” per la fantasia della “nazione arcobaleno”. Non vedendo che quanto sta accadendo attualmente in Sudafrica annuncia il futuro apocalittico dell’Europa “multirazziale” preparata dai globalisti, dalla Commissione di Bruxelles e da questo papa terzomondista che non smette mai di invocare l’accoglienza degli “Altri”…

[1] A questo proposito si veda il dossier dedicato a questa domanda pubblicato nel numero di luglio 2017 di Afrique Réelle (n° 91) con il titolo “Can Jacob Zuma sopravvivere alla porta Gupta?” “.

[2] Questa domanda sarà sviluppata nel numero di agosto di Real Africa, che gli abbonati riceveranno il 1° agosto.

[3] Si veda a questo proposito il mio libro “Storia del Sudafrica dalle origini ai giorni nostri”. Edizioni Ellipses, 2010. Disponibile in libreria.

Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan .

L’AFFIORAMENTO DEL RIMOSSO, di Pierluigi Fagan

L’AFFIORAMENTO DEL RIMOSSO. In psicologia, la rimozione è il confinamento nelle segrete della psiche di qualcosa che disturba. Il “qualcosa” disturba probabilmente la coerenza della nostra immagine di mondo dello stato cosciente dove per “immagine di mondo” intendiamo l’insieme delle logiche e dei pensieri (convinzioni, giudizi, verità etc.) che animano la nostra mente, quindi noi, almeno nello stato di veglia ossia di coscienza. Ma laggiù nelle segrete della psiche, i guardiani non sono poi molto efficienti, i chiavistelli non sono ben fissati.
Così, sebbene il rimosso sia confinato e spinto nel fondo buio, a volte si ripropone, come avviene con ciò che non si digerisce ovvero ciò che disintegriamo per esser assorbito e così cessare di esistere. Il “rimosso”, non potendo esser digerito, rimane vivo anche se ostracizzato e quindi può sempre tornare a disturbare. Questo è detto “affioramento”, ritorno in superficie di ciò che si tentava di affondare per sempre. Il rimosso di cui vorrei occuparmi è il concetto di “culture”.
Le “culture” sono modi di pensare e di fare comuni ai gruppi umani che condividono una medesima immagine di mondo. A grana grossa, questi “gruppi umani” sono popoli, umani che vivono da tempo assieme in un certo territorio. Prima che esistessero le città stato e poi i regni e gli imperi alla nascita delle società complesse cinquemila anni fa, esistevano proprio le “culture”. Lo sappiamo perché scavando, in archeologia, abbiamo trovato segni di comune cultura materiale non potendo avere reperti di quella immateriale. Le “culture”, in antichità profonda, emergono in certi territori dove l’interrelazione umana, a livello di individui e gruppi, era maggiore (più intensa, più frequente) di quanto individui e gruppi avessero con l’area esterna. Dovendo avere a che fare gli uni con gli altri, sistematicamente, si venne a condensare una cultura condivisa poiché per avere a che fare gli uni con gli altri, ci vuole appunto una condivisione di alcuni elementi di quadro generale, una comune immagine di mondo.
Le “culture”, nell’era moderna che qui definiamo storicamente quindi quale quella europea successiva al medioevo, all’incirca da dopo il XVI secolo (ma essendo una lunga transizione c’è chi ne segna l’esistenza prima o dopo), sono state a lungo un problema. O meglio. Da settanta anni pensiamo siano un problema avendo diagnosticato che il conflitto endemico intra-europeo che per secoli operò incessantemente culminando nel suicidio in due puntate del doppio conflitto mondiale, era mosso appunto dal fatto che i popoli tali definiti per relativa diversità culturale, erano mossi alla reciproca aggressione e tentativo di preminenza, proprio dal fatto che avevano diversa cultura, diversa immagine di mondo. Abbiamo quindi tentato di rimuovere l’esistenza delle “culture”, sperando che in loro assenza manifesta, ci si potesse divincolare dalla coazione a ripetere del conflitto. Ma l’operazione è insensata.
Le “culture” sono epifenomeno dell’esistenza dei popoli, occorrerebbe quindi eliminare i popoli (ovvero le loro distinzioni relative), non è che i popoli spariscono perché si tacitano le loro espressioni culturali. Oppure, si sarebbe dovuto prender il toro per le corna e cercar meglio di capire come i popoli, pur diversi tra loro, possano convivere senza far delle loro obiettiva differenza, motivo di conflitto. Certo non si risolve il problema rimuovendo la loro espressione culturale. Infatti, puntualmente, ecco che le diversità culturali affiorano dalle segrete in cui le si erano confinate pensando che lontane dagli occhi, lontane dal cuore (e dalla mente).
Ciò che rompe i tentativi di contenimento del rimosso è una forte emozione. La rimozione è logico-razionale sebbene spinta da ragioni -in fondo- emotive e le catene logico-razionali sono assai fragili quando sono investite da forti onde emotive. Infatti, coi recenti campionati europei di calcio, ecco riproporsi le forti onde emotive, la rottura dei confinamenti logico-razionali che tentavano di cancellare l’esistenza delle culture, l’affioramento del rimosso, con scandalo. Scandalo per l’eterno ritorno del tribalismo nazionale che pare prerogativa della mentalità maschile. Infatti, tra i vari tentativi di rimozione, c’è anche il fatto che evolutivamente erano gli uomini i guardiani del bordo esterno, molto più propensi a ragionare per codici del “noi” vs “voi”.
Diffusa ignoranza pensa che queste faccende “culturali” siano immateriali quindi facilmente cancellabili per gesto di volontà, quando invece il “culturale” emerge dal “neuronale” ovvero da precise strutture fisiche (bio-chimiche). Cambiare comportamento, smettere di fumare, dimagrire, emanciparsi dalle tossicodipendenze, cambiare idea o peggio “sistemi di idee” per non parlare di “sistemi di pensiero” che presiedono l’azione, è così difficile proprio perché le strutture fisiche (mentali e corporali) non si spostano o cancellano facilmente. Più o meno il tempo che hanno impiegato per formarsi è il tempo che sarà necessario per s-formarle o ri-formarle anche se in questo secondo caso c’è sempre il pericolo dell’affioramento del rimosso.
Così, gli Antichi Greci avevano scoperto utile sospendere il loro eterno conflitto tra città-Stato indicendo periodicamente le Olimpiadi, la guerra sublimata nell’agone sportivo con grandi risparmi di sangue umano e distruzione materiale. Ogni atleta diventava il “nostro miglior cittadino”, noi stessi ma nella versione potenziata, tant’è che gli si erigevano statue in caso di vittoria, tributandogli anche molti altri onori materiali per tutta la durata della loro vita. Così oggi ci sentiamo tutti un po’ Berrettini ed un po’ Chiellini o Bonucci, anche se chi come me è interista, su questa ultima coppia ha processi di identificazione contrastati. Siamo certo della stessa cultura italiana, ma di due tribù fondamentalmente rivali. Ma buonsenso vuole che il senso di tribù maggiore (italiani) subordini quello minore (questa o quella squadra) e così sia, almeno per una settimana.
Divertente quindi notare come il Regno Unito, come tutti i Paesi che ostentano questa “unità” nel nome (Stati Uniti, Unione Sovietica, Emirati Arabi Uniti, a suo tempo Province Unite etc.), non lo siano affatto. Una gioiosa “schadenfreude” (piacere procurato dalle sfortune altrui) ha prima animato scozzesi ed irlandesi del Nord, poi anche gallesi che pure dovrebbero ritenersi assimilati almeno dal Cinquecento in quanto i primi sono popoli indigeni dell’isola addirittura pre-indoeuropei, mentre i secondi e terzi sono di derivazione celtica. Gli angli ed i sassoni invece, sono gli uni di origine danese, gli altri di origine germanica, migrati a forza in quel della Britannia lasciata a sé stessa dal ritiro dei Romani. Popoli barbari ed assai pugnaci, non civili, che divennero le élite dei successivi inglesi, quindi l’aristocrazia, i famosi “baroni” di cui si occupa un buon terzo del Levitano di Hobbes.
Tutte le aristocrazie europee sono per lo più derivate dai barbari invasori. Ancora oggi, la Gran Bretagna, ha una camera “alta” “House of Lords”, derivata dai conflitti tra baroni e monarca del 1215 (Magna Charta), con 680 pari a vita nominati dalla Corona, 84 addirittura con diritto ereditario e 26 vescovi. Dalla riforma del 1999 discutono come eliminare questa anomalia che confligge con il senso moderno, ma invano. Non legiferano ma hanno molti modi per influire sui destini politici britannici (tra cui la Brexit dal punto di vista della riottenuta autonomia a fini di nuovo globalismo ex Commonwealth), quella Gran Bretagna che è per alcuni patria di quello che molti chiamano “capitalismo” e che altri pensano addirittura esser patria della moderna “democrazia” avendo, in entrambi in casi, una certa confusione definitoria dei due concetti.
In una sperimentale psicologia dei popoli, si potrebbe diagnosticare per gli anglo-sassoni un ineliminabile senso di inferiorità a cui fanno diga con un manifesto senso di superiorità che li rende, obiettivamente, poco simpatici. Si ricordi che furono spesso inglesi le prime teorie “scientifiche” della razza (gli anglo-sassoni si sentono “ariani”, la famiglia reale è di origine tedesca sebbene abbia cambiato nome d’origine solo durante la Prima guerra mondiale adottando il nome di Windsor rimuovendo quello vero che recitava Sachsen-Coburg und Gotha e del resto, il principe William è un esemplare dolicocefalo), così come l’idea che fosse naturale il predominio di classe (darwinismo sociale). Infatti, è assai probabile che la citata “schadenfreude” più che comprensibile per le vittime dirette dell’obbligata convivenza nelle due isole dei vecchi britanni, si sia l’altra sera estesa a larghe parti del mondo come ammette un articolo scritto da un keniano su Al Jazeera ripreso da Internazionale.
L’inferiorità è data dal loro lungo dover subire, a loro volta, il senso di superiorità dei civilizzati che li hanno a lungo considerati barbari, quali erano in effetti. In un esercizio di storia controfattuale, chissà quanti tra colo che ne hanno subito le angherie hanno immaginato cosa sarebbe successo se i Romani non si fossero ritirati lasciandogli spazio libero da riempire.
Be’, l’altra sera, nel grande romanzo popolare della storia delle culture, i discendenti dei Romani li hanno sconfitti in quel di Londinium, privando loro di una gioia, regalata invece ai molti che ne hanno vastamente e lungamente subito l’indubitabile egoistica ed arrogante potenza.
Anche questa è “cultura”, certo “popolare”, ma molti amanti a parole del popolo farebbero meglio a coltivare di più le connessioni sentimentali con quel “popolo” che vorrebbero emancipare senza diventare quindi una nuova aristocrazia. Sebbene solo intellettuale, sempre della convinzione di essere i migliori (àristoi), si tratta.
> L’articolo di Internazionale citato: https://www.internazionale.it/…/inghilterra-italia-europei

MACHIAVELLI SU CONTE E I 5 STELLE, di Teodoro Klitsche de la Grange

MACHIAVELLI SU CONTE E I 5 STELLE

Siamo tornati a chiedere lumi a Machiavelli sulla crisi dei 5 stelle e il contrasto Conte-Grillo e ce l’ha gentilmente concesso.

Cosa ne pensa della vicenda Conte e del Movimento 5 Stelle?

Il Conte non era un politico ma un privato onde “Coloro e quali solamente per fortuna diventano di privati principi, com poca fatica diventano, ma assai si mantengono; e non hanno alcuna difficultà fra via, perché vi volano: ma tutte le difficultà nascono quando e’ sono posti”.

Infatti una volta insediato, a comandare è stato qualcun altro: Conte al massimo pesava per metà. Perchè questi governanti si reggono “sulla volontà e fortuna di chi lo ha concesso loro, che sono dua cose volubilissime et instabili, e non sanno e non possono tenere quello grado: non sanno: perché, s’e’ non è un uomo di grande ingegno e virtù, non è ragionevole che, sendo vissuto sempre in privata fortuna, sappia comandare; non possono perché non hanno forze che gli possino essere amiche e fedele”. Con buona pace dell’ “uno vale uno” (tale quando voti, non quando governi).

Quindi la caduta del governo Conte 1…

È la conseguenza di quanto ho appena ripetuto. Conte era la “testa di legno” di Salvini e Grillo. Durava finchè lo volevano loro.

Ma c’è un sistema per consolidarsi, o almeno conservare il potere conseguito “per arme altrui”?

Conte sapeva di non avere i voti, che sono per voi quello che per me erano i soldati.

Dato che non l’aveva, doveva procurarsene di propri, perché coloro che “così di repente sono diventati principi”, per conservare il potere debbono creare, una volta insediati al potere “quelli fondamenti” cioè ai tempi vostri, voti. Ma quando stava al governo, sia con la Lega che con il PD, poco ha potuto fare.

Ora che è fuori dal governo è assai difficile.

Scrissi che è meglio preparare i “fondamenti”, ossia i mezzi e condizioni per esercitare il potere, prima; nel caso di nomina per fortuna, almeno quando il governante s’è insediato; ma quando l’ha perso non l’ho considerato, perché raro anzi rarissimo.

Quindi fuori dal governo?

Può promettere ma poco, a meno che non trovi tanti sprovveduti, dei Messer Nicia, per capirci. Con i quali si può essere “larghi a promettere ma nell’attender corti”. Invece i suoi possibili seguaci, anche se digiuni di Stato (e di politica) quanto agli affari propri, sono dei Licurghi. Capiscono subito che può mantenere poco, e quindi poco (al massimo) manterrà. Ancor più per aver ridotto il numero dei parlamentari. Come scrissi al principe nuovo occorre assicurarsi dei nemici, procurarsi amici, punire i traditori, farsi amare e temere dal popolo: il tutto presuppone di stare al potere. E Conte ora non ci sta.

Ma potrebbe avere ancora il consenso degli elettori?

Che non aveva quando fu nominato al potere. E perché? Quando se l’è guadagnato? Se lo ottiene sarà sempre poco per tornare al posto di prima. Se invece lo consegue per “arme altrui” cosa tanto rara, di tornare al comando sempre per volontà degli stessi – il problema si ripropone comunque. Guarda un po cosa successe al vostro Monti: perse il governo, conseguendo poi alle elezioni europee con la propria lista, meno dell’1%: chi lo aveva designato pochi anni prima l’ha lasciato in naftalina, a scrivere articoli. Non crediate che siano più generosi col Conte. In politica la gratitudine, anche se talvolta necessaria, è merce rara.

Teodoro Klitsche de la Grange

A METÁ DEL GUADO TRIBUTARIO, di Teodoro Klitsche de la Grange

A METÁ DEL GUADO TRIBUTARIO

Il documento conclusivo licenziato dalle Commissioni Finanze di Camera e Senato su una riforma fiscale complessiva è notevole per cose scritte e anche per quelle non scritte.

Partiamo dalle prime. Da (almeno) cinquant’anni si sentono ripetere luoghi comuni sulla situazione fiscale, ed economica in genere, connotati dal carattere di edulcorare la maggiorazione del prelievo a carico, s’intende, di tutti, ma soprattutto di quelli che subiscono le attenzioni del fisco più rapaci. E, in genere, di ottundere, mistificare, illudere i contribuenti.

Nel documento tali luoghi comuni sono quasi tutti smentiti (anche se non esplicitamente, ça va sans dire). Esaminiamone alcuni. “Il problema principale dell’economia italiana, da cui derivano molte delle altre criticità, è un tasso di crescita del PIL sostanzialmente inferiore a quello dell’area-euro” e subito dopo “Tutte le analisi macroeconomiche concordano nell’includere il mal funzionamento del sistema fiscale tra le principali determinanti del nostro problema di crescita” (il corsivo è mio).

Credevamo, a sentire i ciarlatani del regime, che il problema principale fosse quello dell’evasione (ossia della violazione). Apprendiamo invece non solo che non è quello, ma che probabilmente l’evasore di un sistema così controproducente è un patriota che ha salvato (purtroppo solo i propri) quattrini delle pubbliche dissipazioni.

Secondo punto: si legge che la tassazione sul lavoro (e non solo) “è nettamente superiore alla media dell’area euro. In particolare, l’aliquota implicita di tassazione sul lavoro è pari al 42,7%”. Ma il seguito è anche più interessante “L’eccessivo carico tributario sul lavoro è un problema anche in virtù del trend di riduzione della quota di redditi da lavoro sul PIL, passata dal 68% del 1970 al 52% del 2018”. Quindi jobs acts e tutta la chincaglieria mediatica sul costo del lavoro è, in termini macro economici, una litania volta ad occultare la riduzione delle retribuzioni (e altro). C’è poi l’applicazione della curva di Laffer (“regolarità” economica così semplice ed evidente che solo ai Balanzoni di regime non appare tale) “È ragionevole ritenere, inoltre, che, da un lato, aliquote marginali effettive elevate o altamente variabili possono spingere i contribuenti di alcune fasce di reddito a sottrarre reddito all’imposizione fiscale… la struttura delle aliquote marginali effettive presenti nel nostro sistema imposte-benefici è altamente inefficiente nonché dannosa per la crescita economica”. Laffer è riabilitato.

La semplicità legislativa. Si legge che “la complessità del nostro sistema tributario (è) uno dei maggiori ostacoli alla crescita economica” ed anche, aggiungiamo, maggiore incentivo alla corruzione, ad applicare il famoso detto di Tacito corruptissima res publica plurimae leges. In particolare occorre sottolineare quanto afferma il documento sullo “Statuto del contribuente” riforma tanto strombazzata dai governi di centrosinistra “È purtroppo però un fatto largamente accertato che lo Statuto del Contribuente sia la norma meno rispettata del nostro ordinamento giuridico”. Verissimo, ma non siamo d’accordo con la “soluzione” proposta: costituzionalizzare lo Statuto del contribuente, perché tutte le recenti costituzionalizzazioni, da ultimo quella dell’art. 111 Cost., si sono rivelate delle solenni affermazioni sulla carta di quello che, al contrario, si legiferava, ma soprattutto si praticava nelle amministrazioni. Erano cioè delle derivazioni (nel senso di Pareto) preventive. Assai meglio, per garantire che sia rispettato, seguire il consiglio di Gaetano Mosca, da me citato nel mio ultimo articolo: sanzionare con una grossa multa il funzionario che non rispetta lo Statuto del contribuente. State sicuri che se quella sanzione verrà istituita e soprattutto applicata, lo Statuto del contribuente sarà osservato almeno quanto in Inghilterra l’habeas corpus.

Da notare infine il paragrafo sul contrasto all’evasione fiscale. Al posto del cinquantenario ritornello “paghiamone meno, paghiamole tutti”, con cui si accompagna l’aumento delle imposte a chi già le paga, si osserva che “vi è bisogno di un’evoluzione culturale da ambo le parti: ciascuna di essere deve allo stesso tempo mutare i propri comportamenti in senso virtuoso e abbandonare i pregiudizi nei confronti della «controparte»… Lo Stato deve allontanare ogni tendenza a considerare il contribuente un «evasore che ancora non è stato scoperto»”, e il contribuente deve internalizzare i benefici di pagare le imposte. E il documento ribadisce “che il perseguimento di tale strategia sia un processo di natura culturale travalica, non di poco, i confini di un documento di indirizzo, e forse persino di ogni atto normativo” (il corsivo è mio).

Anche qui si concorda: su cose che non risultano dal common sense, poco può fare il legislatore. Ma assai può il popolo sovrano, mandando a casa coloro che hanno creato un sistema siffatto e la cui credibilità è sotto-zero. Al punto che anche cose condivisibili, se proposte da certe forze politiche sono percepite con diffidenza o rigettate tout-court dalla maggioranza dei cittadini.

E quello che manca? Non sappiamo se sia dovuto ad una preventiva delimitazione dell’indagine o ad un’omissione (voluta); ma resta il fatto che se non si rimodella (verso la parità delle parti) la giustizia tra privati e pubbliche amministrazioni, le migliori intenzioni rischiano di rimanere almeno in gran parte tali.

Tale problema nel documento non è affatto considerato, e l’omissione rischia di compromettere l’encomiabile sforzo di ridurre idola e mistificazioni. Perché se i diritti del contribuente e i doveri delle pubbliche amministrazioni (e dei funzionari) non sono giudicati da magistrati indipendenti, e soprattutto i relativi processi denotati dalla “parità delle armi”, rischiano di essere i diritti di “un dio minore” cioè diritti enunciati ma non (o poco) applicati.

Ma su questo ho già scritto tanto, onde non posso far altro che rinviarvi il lettore.

Teodoro Klitsche de la Grange

1 114 115 116 117 118 176