Domanda: c’è un rapporto tra la riforma della scuola e i carabinieri di Piacenza che diventano criminali?
Risposta: sì.
La riforma di Giovanni Gentile, che sta per compiere cent’anni, ha certo limiti e difetti (come tutto) ma sotto un aspetto essenziale coglie il punto: è intesa a insegnare alla futura classe dirigente a pensare criticamente l’ordine dei fini, in parole povere e chiare il perché si fanno o non si fanno le cose. Ecco perché è costruita intorno all’asse della filosofia, ed ecco perché nella scuola di vertice, il liceo classico, si insegnano il latino e il greco, senza i quali è impossibile accedere direttamente ai testi fondativi della civiltà europea. Le odierne proposte di aggiornamento alle “esigenze della modernità”, in soldoni di incentrare l’asse della scuola sull’apprendimento di materie scientifiche e lingue straniere per allinearsi ai “paesi più avanzati” omettono di rilevare il fatterello che la scienza non ha NIENTE da dire in merito all’ordine del fini, al “perché si fanno e non si fanno le cose”, e che il benchmark di apprendimento delle lingue straniere è la lingua materna (nessun italiano imparerà mai l’inglese meglio dell’italiano, anche se lo studia per tutta la vita).
E i carabinieri criminali? Cosa c’entrano?
I carabinieri non diventano criminali per difetti operativi, per esempio per un criterio di reclutamento inadeguato o procedure di controllo interno insufficienti. i carabinieri diventano criminali perché, fatta esperienza di ingiustizie, ipocrisie, abusi, corruzione nell’Arma, nello Stato, nel mondo in generale, prima pensano “chi me lo fa fare”, poi pensano “sono tutti corrotti, perché non approfittare delle occasioni?” poi commettono le prime irregolarità, poi constatano la propria impunità, poi diventano criminali veri e propri, e fino a quando non li beccano sentono di essere nel giusto, perché il giusto non esiste.
E attenzione, ragazzi: il giusto non esiste sul serio, se non esiste dentro l’anima, o se si preferisce nella mente, delle persone.
L’autunno scorso un ex Presidente del Consiglio – e un mese fa l’attuale – si sono rallegrati per l’apertura dei Romani ai “provinciali”; onde già Claudio era stato fatto imperatore, malgrado nato a Lione. Da tale esempio ne hanno ricavato conforto per le politiche d’accoglienza, d’integrazione e, verosimilmente, forse anche per lo jus soli (?), maccheronicamente inteso.
A chi conosce la storia e i costumi di Roma la vicenda non sta così: Claudio era romano, anzi di una delle più antiche gentes. Svetonio riporta che i Claudii immigrarono in Roma ai tempi di Romolo, ad avviso di alcuni; secondo altri, subito dopo la caduta della monarchia. Alla Repubblica la gens Claudia dette centinaia di magistrati, tra cui ben ventotto consoli. Il fatto che Claudio fosse nato a Lione non vuol dire che fosse gallo. Era nato in Gallia perché il padre guidava le legioni romane nelle guerre contro le tribù germaniche. La circostanza della nascita lontano da Roma non significa per nulla che non fosse romano: lo era per jus sanguinis. Ancor più il rilevante ruolo della gens Claudia nella storia romana rende un po’ comica la tesi del Claudio gallico o non-romano.
È interessante chiedersi perché sia stato diffuso da persone di buona cultura. Sembra di escludere che i due credano che Claudio non era civis romanus perché nato in Gallia.
Piuttosto, nella propaganda diretta ad elettori i quali neppure sanno chi era Claudio (e forse cos’era l’impero romano) devono propinarsi argomenti semplici e comprensibili da parte dei meno acculturati. E quale argomento migliore del luogo di nascita, accompagnato dalla completa de-contestualizzazione, onde la Gallia provincia romana appare “uguale” alla attuale Francia, stato sovrano?
In altre parole dire che Claudio è nato a Lione (che allora i romani chiamavano Lugdunum) significa quindi che era gallo, quasi francese. Il fatto che la Gallia fosse una provincia di Roma, che erano – specie nel primo secolo dell’Impero – i magistrati romani a governarla, questo è probabilmente ignorato da tanti onde cede di fronte all’argomento tele-anagrafico, alla portata di tutti.
Certo sarebbe stato sicuramente più in linea con la tesi cara ai due leaders politici, ricordare, di Claudio, lo splendido discorso fatto per l’ammissione al Senato delle grandi famiglie galliche, riportato da Tacito, che è, a un tempo, spiegazione della capacità di Roma di integrazione di popoli diversi, e della stessa integrazione quale mezzo della politica. Disse Claudio che i romani, da Romolo in poi, non avevano mai considerato gli altri popoli, anche se un tempo nemici (e vinti) come alienigeni (cioè diversi da loro); per cui con chi si era fatta la guerra era possibile costruire insieme e vivere in pace.
L’inconveniente di quel discorso è che non è immediatamente comprensibile (soprattutto) e che comunque l’integrazione richiede tempo (i Galli ammessi l’avevano aspettata circa un secolo) e non verificata da un esame d’italiano (o giù di lì).
A proposito di altri esami (e d’istruzione): non vorremmo che, anche complice l’emergenza da Coronavirus, il distanziamento scolastico e così via, non si desse un ulteriore “taglio” allo studio della storia, che, a quanto si legge, ne ha già subiti. In particolare di quella antica giudicata – a torto – di scarsa utilità.
Il che non è vero: a leggere il libro italiano che sarebbe il più conosciuto al mondo, cioè il Principe, Machiavelli lo scrive prendendo gran parte del materiale dalla storia antica.
Perché, dopo certe lezioni, c’è da aspettarsi che gli studenti, disabituati a conoscenza e valutazione storica, rispondano agli esaminatori che l’imperatore Claudio era il nonno di Macron.
Qui sotto la traduzione di un articolo della rivista statunitense di categoria delle forze di polizia particolarmente espressivo della situazione e dello stato d’animo delle forze dell’ordine. Una condizione non nuova, ma che sta trovando un momento di precipitazione nell’attuale situazione di conflitto politico e disordine sociale di quel paese. Questa volta anticipiamo la traduzione cui seguirà un lungo commento proprio per non scoraggiarne la lettura.
Questa è la cosa più difficile che abbia mai scritto.
Sono cresciuto in una famiglia di forze dell’ordine. Mio padre si fece strada fino al grado di Capitano al Ft, Dipartimento di polizia di Smith (AR). Da bambino ricordo di essere andato spesso con lui il venerdì a ritirare il suo assegno ed ero sbalordito da questi supereroi con i quali lavorava.
Erano divertenti, come divertente era andare in giro. Uomini e donne di tutte le razze, tutti con la stessa missione; rendere la comunità più sicura.
Mio padre ha fatto molti sacrifici e così anche la mia madre buonanima. Che si trattasse della settimana di sorveglianza, di intercettazioni telefoniche o di inseguimenti dei corrieri di droga, ha dato tutto per la mia famiglia e ha lavorato molto di più per non privarci di niente. Alcuni chiamerebbero questo privilegio, ma dove sono cresciuto lo chiamavano duro lavoro.
I bambini a scuola pensavano che fosse bello quello che faceva mio padre e se a volte mi chiedeva se qualcuno mi dava fastidio, mai mi era capitato. C’era un rispetto tra tutti … anche tra i bambini nei laboratori.
Non sono cresciuto con il desiderio di fare il poliziotto, ma in una notte fatidica, da matricola al college, tutto è cambiato.
Ho fatto un giro in una macchiana della polizia e il viaggio della mia vita non sarebbe mai stato più lo stesso.
Dopo quattro anni di college, mio padre mi voleva in un’agenzia che corrispondesse a quell’istruzione, così mi sono trasferito a Tulsa (OK) a 21 anni senza mai guardarmi indietro.
Non conoscevo nessuno e tutto quello che sapevo era ciò che vedevo fare mio padre, lavorare sodo e trattare le persone con rispetto. Ho visto molti altri poliziotti lavorare sodo e fare tutto il possibile per mantenere la comunità al sicuro.
Sono passati 27 anni e se mi avessero detto le condizioni delle forze dell’ordine oggi, non ci avrei mai creduto.
Non è che le forze dell’ordine siano cambiate in peggio, ma tutto ciò che lo circonda è cambiato.
I malati di mente erano soliti ricevere cure e ora mandano solo poliziotti. Ai bambini veniva insegnato il rispetto e ora è bello essere irrispettosi.
I supervisori ti sostenevano quando avevi ragione, ma ora ti accusano di avere torto per placare i matti.
I genitori si arrabbiavano con i loro figli per essere stati arrestati e ora si arrabbiano con noi.
I media si adoperavano per evidenziare il contributo positivo che la nostra professione ha dato alla società e ora o la ignorano o distorcono la verità per polemizzare ed assecondare le proprie tasche.
C’era un rispetto comune tra i criminali. Quando erano catturati, capivano che avevi un lavoro da svolgere, ma ora è colpa nostra se siedono in manette piuttosto che per le loro decisioni personali.
Se qualcuno attaccava un poliziotto, erano visti come tali. Ora li martirizziamo e subiamo cause legali per milioni.
Prestavamo testimonianza in tribunale e ci si credeva. Ora, a meno che non ci sia un video da tre diverse angolazioni, a nessuno importa cosa hai da dire.
Con tutto questo parlare di razzismo e di poliziotti razzisti, non ho mai visto persone trattate diversamente a causa della loro razza. E mentre so che i codardi che non hanno mai fatto questo lavoro mi chiameranno razzista per averlo detto, tutto ciò che ho sempre visto erano comportamenti criminali e poliziotti che cercavano di fermarlo e non provavano fastidio al colore della loro pelle.
Ho visto gli sbirri aiutare e salvare uomini di qualsiasi tipo di razza, genere o etnia a cui riesci a pensare e mentre quello significava qualcosa, a nessuno ora importa più.
Mi hanno chiamato con tutti gli epiteti a cui riesci a pensare e molti di loro con sfumature razziali, ma gli insulti non provengono mai da poliziotti. Ho visto i poliziotti afroamericani prendersi carico di questo e ho persino parlato della difesa di una recluta dopo essere stato rimproverato da molti codardi che avevano lo stesso colore della sua pelle.
Ho sentito parole che non avevo mai sentito prima di essere un poliziotto.
Zio Tom, Cracker, Maiale e la parola N…(negro) solo per citarne alcuni. Li ho ascoltati migliaia di volte e mai una volta ho visto un agente di polizia reagire.
L’hanno appena preso.
Nonostante ciò, è stata la più grande opportunità della mia vita fare questo lavoro. Lo avrei raccomandato a chiunque e speravo segretamente che uno dei miei figli lo avrebbe fatto un giorno.
Sarebbero stati un poliziotto di quarta generazione.
Ma oggi è finito tutto. Non augurerei questo lavoro al mio peggior nemico. Non manderei mai nessuno a cui tengo molto all’inferno di questa professione che è diventata.
È l’unico lavoro in cui puoi fare tutto nel modo giusto e perdere tutto.
È l’unico lavoro in cui gli stessi cittadini per i quali rischi la tua vita ti odiano per questo.
È l’unico segmento rimasto nella società che è bello discriminare e giudicare, solo per l’uniforme che indossi.
Non puoi mai spiegare.
Non puoi mai ragionare con loro.
Le parole cattive ora si sono trasformate in pietre, bottiglie e spari.
L’ho visto accadere a coloro che mi stavano attorno e ho visto la distruzione totale della loro vita.
Questo lavoro è una bomba a orologeria e potresti essere cancellato o perseguito alla chiamata successiva, anche se fai tutto bene.
Nessuna professione deve occuparsene.
I medici uccidono 250.000 persone all’anno. Li chiamano “errori medici” perché la società capisce che fanno un lavoro molto difficile sotto stress elevato e devono prendere la migliore decisione possibile al momento.
Le forze dell’ordine hanno lo stesso compito e abbiamo molto successo. Nonostante la società più violenta che abbiamo mai visto, meno di 1.000 sospetti vengono uccisi ogni anno. Il 96% degli aggressori ci attaccano con le armi e il resto ci attaccano con le loro macchine o i loro pugni e sempre più con pistole giocattolo; così Benjamin Crump può aiutare la loro famiglia a vincere alla lotteria.
Ho visto i poliziotti rischiare la propria vita quando non avrebbero dovuto ……. solo per evitare di prenderne uno.
Non ottengono mai il credito di altre professioni.
I codardi ci circondano. Dai capi agli sceriffi ai politici, nessuno ci copre.
Ora, per il poco che abbiamo, ci viene detto che ci scacceranno o addirittura ci aboliranno. I cittadini con un’agenda politica regneranno su di noi e tutto ciò che devi fare è svegliarti e indossare l’uniforme per essere razzista.
Questo fine settimana ho ricevuto minacce di morte solo per aver fatto il mio lavoro. Sarebbe stato scandaloso un decennio fa e avrebbe fatto notizia nazionale.
Adesso è solo un lunedì.
Ci saranno più minacce, più accuse di razzismo e più bugie raccontate su di noi.
Ero solito parlare con gli sbirri per dissuaderli dal lasciare il lavoro. Ora li sto incoraggiando.
È finita in America. Alla fine ce l’hai fatta.
Non dovrai abolire la polizia, non ci saremo più in giro.
E mentre lo so, la maggior parte degli americani ci apprezza ancora, ma non è abbastanza e il rischio è troppo alto. Quelli di voi che dicono grazie o acquistano il pasto occasionale, significa tutto.
Ma quelli di voi che sono silenziosi mentre il lento giro dei coltelli danza alle nostre spalle ad opera di teppisti e codardi, ricadrà su di voi.
La tua convinzione in hashtag e meme sulla verità ha e creerà un ambiente nella tua comunità che non ti aspetteresti mai.
Se pensi che Minneapolis si trasformerà in Mogadiscio ma che è lontano da te, sta invece arrivando.
E quando succede, ricorda cosa ha prodotto la tua complicità.
Questa è l’America che hai creato.
Nota del redattore: l’autore di questo articolo è in lotta per la sua vita. 24 ore dopo la pubblicazione dell’articolo, un attacco orchestrato dai media ha distrutto il suo personaggio e la sua reputazione. Chiediamo il tuo aiuto facendo clic qui.
Potrebbe sembrare il solito lamento che per deformazione professionale capitava ogni tanto di sentire dagli oltranzisti della “legge e ordine”. Non è così!
Sembra ormai chiaro che il cambiamento degli equilibri geopolitici, gli squilibri della formazione socio-economica, l’insolita asprezza del conflitto politico stiano intaccando pesantemente l’assetto istituzionale ed inizino ad intaccare la fluidità di funzionamento degli apparati statali e pubblici sino a raggiungere le stesse forze dell’ordine statunitensi. L’ondata di proteste scatenata dall’uccisione di Floyd a Minneapolis rientra tra le spallate ormai sempre più frequenti in grado di accentuare l’instabilità di quell’edificio politico. Gli atti peggiori hanno però spesso bisogno di ammantarsi della più nobile delle motivazioni. https://twitter.com/RPD_PSI/status/1267202275895803904La denuncia di razzismo rientra a pieno titolo in questa casistica. Per cogliere al meglio il peso di tali valutazioni occorre porsi delle domande e fornire qualche dato.
Il comportamento delle polizie e delle forze dell’ordine possono essere tacciate oggi di discriminazione razziale? I dati diffusi confermano questa tesi e questa convinzione così diffusa in determinati ambienti sociali e politici?
Le forze dell’ordine americane hanno compiuto nel 2019 370 milioni di interventi con circa mille uccisioni di cittadini e la morte di diverse decine di poliziotti in un contesto di libera circolazione delle armi.
I neri di recente immigrazione sono molto più integrati e riescono a migliorare la loro posizione sociale molto più dei neri delle comunità originarie americane. Si potrebbe continuare su questa falsariga. Questi, come altri dati, non ci dicono che il razzismo è scomparso da quella società. Ci dicono che non investe le istituzioni in quanto tali. Gli Stati Uniti attuali sono molto diversi da quelli di cinquanta anni fa. Ai propositi di “melting pot” si è sostituita la chiusura e la giustapposizione di comunità. Il degrado sociale e delle aspettative le attraversano sempre più trasversalmente. Il mercato elettorale, perché sempre più di mercato ormai si tratta, si è prontamente adeguato alla situazione. Più che preoccuparsi di creare un linguaggio comune fatto di significati condivisi e doveri e diritti comuni, le famiglie politiche conseguono il successo elettorale assecondando le rivendicazioni più disparate e i diritti e processi identitari più particolaristici. L’assetto democratico di quel paese sta rivelando limiti analoghi all’applicazione dei sistemi democratici nelle società di tipo tribale. I paradossi in effetti non mancano. Dal razzismo si sta passando ai razzismi. Una sorta di nemesi delle intenzioni dei progressisti. I disordini e le contestazioni hanno mostrato la loro maggiore virulenza proprio in quelle città, per lo più democratiche, dove più il ceto politico prevalente ha assecondato queste tendenze. Ha compreso e appoggiato i manifestanti e contemporaneamente è finito sotto accusa perché responsabile da decenni della organizzazione delle polizie locali così duramente contestate. Alla fine piuttosto che dimettere i responsabili, tra le forze dell’ordine, degli atti di arbitrio specifici e reprimere i pesanti atti di vandalismo e linciaggio, piuttosto che compromettere assetti di potere ultradecennali ha preferito assecondare gli istinti e sottomettersi al pubblico ludibrio https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/06/07/george-floyd-il-sindaco-di-minneapolis-si-unisce-ai-manifestanti-ma-viene-contestato-vergogna-torna-a-casa-ed-e-costretto-ad-andarsene/5827143/ e delegittimare le istituzioni in quanto tali con pubblici atti di prostrazione e contrizione.
Atti che hanno trovato emuli patetici ed interessati anche qui a casa nostra
E’ la goccia che sta facendo traboccare il vaso. Lo scoramento e la disaffezione tra le forze dell’ordine sono al livello di guardia; l’abbandono delle fila assume dimensioni preoccupanti; corrispondentemente le forze anarcoidi e le bande si stanno ringalluzzendo.
La conseguenza sarà che per rimpolpare le fila dovranno abbassare gli standard qualitativi per le assunzioni di poliziotti avvicinandoli pericolosamente ai livelli sudamericani per non parlare delle tentazioni di autogoverno e di iniziative autonome. Se queste sono le tendenze di medio periodo, un discorso a parte merita una contingenza politica perfettamente inserita in queste dinamiche. Trump è sempre più il nemico delegittimato da abbattere. Alle soglie di una inchiesta che rischia di ribaltare le accuse del Russiagate e dell’Ucrainagate, di compromettere ex capi della FBI, di Stato ed aspiranti candidati alle presidenziali, di smascherare alla luce del sole le connivenze vergognose di uomini politici e funzionari degli apparati di sicurezza europei, le manifestazioni ed i disordini si stanno rivelando un provvidenziale diversivo teso a prendere tempo e distogliere l’attenzione. I sempre più frequenti appostamenti, aggressioni, agguati e uccisioni ai danni di singoli poliziotti, bianchi e neri e delle loro famiglie creano un clima di ingovernabilità che potrebbe legittimare la richiesta di decadenza prematura dell’attuale Presidente, ormai sempre più accerchiato da avversari e finti amici, da apparenti difensori che non fanno altro che perdere tempo prezioso nel concludere le indagini sulle manipolazioni delle inchieste. Una situazione che potrà portare alla vittoria non risolutiva di una fazione, non di una classe dirigente legittimata da tutto il paese. Una eventuale vittoria su Trump, per altro per nulla scontata, si rivelerebbe allora ancora più amara, più disastrosa e distruttiva di una sua riconferma sia per il paese che per lo stesso ceto politico a lui ostile; proprio per l’ostilità organizzata e al momento silenziosa che cinque anni di delegittimazione pretestuosa hanno fatto crescere nello zoccolo duro del suo elettorato ormai in possesso di qualche aggancio negli apparati. George Soros tre anni fa era stato profetico. Ma era solo preveggenza?
Nessuna giustificazione per i violenti metodi tradizionali della Polizia nordamericana che frequentemente evidenzia anche aspetti di brutalità. Vanno tuttavia considerati gli “interlocutori” della Polizia USA, che molto spesso si caratterizzano per inaudita ed efferata violenza.
Non è questo il caso di George Floyd e a nulla rileva il fatto che egli fosse un pluricondannato per droga e per rapina a mano armata consumata in danno di una donna incinta nella di lei casa.
Ma da questo a far passare questo George Floyd come un martire e per di più un martire della presunta violenza razziale dei “bianchi” è cosa di inaudita ignobiltà.
Fuori dai commenti e da ogni diversa soggettiva valutazione dei fatti, sono i numeri che parlano e ci indicano come nella stragrande maggioranza dei casi gli afro-americani sono vittime di altri afro-americani; i numeri ci indicano come il numero delle vittime “bianche” ad opera dei “neri” siano sideralmente superiori alle vittime “nere” ad opera dei “bianchi”. Basta consultare i numeri e le statistiche.
Quello che è ancora più schifoso è che la morte di questo povero George Floyd venga biecamente strumentalizzata per basse finalità politiche, per alimentare, specialmente in Italia, un razzismo che non c’è e che se malauguratamente dovesse presentarsi, sarà opera proprio di falsi antirazzisti.
È così abbiamo assistito ad una moltitudine di “Black Lives Matter” inginocchiati a Roma, a Bologna e in altre Città d’Italia nel gesto di chiedere perdono. È stata patetica la foto di una giornalista televisiva che ricordava, inginocchiata anche lei, la morte di questo poveretto in America. Non ne faccio il nome per non darle la pubblicità alla quale il suo gesto era unicamente rivolto.
Ma quello che è stato più sconcertante è vedere la inossidabile Laura Boldrini e altri 4/5 patetici deputati inginocchiati, con le medesime false intenzioni e con la medesima rivoltante ipocrisia, nell’Aula della Camera dei Deputati.
Una foto chiaramente preordinata a fini ignobili di pubblicità. Personaggi questi che, senza vergogna veruna, strumentalizzano la morte di un poveretto per fini di bassa politica.
Preferirei pensare che si tratti di somma stupidità, vorrei pensare a gesti compiuti in buona fede. Purtroppo non è così. Si tratta di personaggi e di fatti che testimoniano non solidarietà per una morte che non doveva avvenire, ma un livello morale veramente basso.
Dove e quando questa gente si è inginocchiata per la atroce uccisione di Pamela Mastropietro o Desirè Mariottini? Come anche di tante altre vittime della violenza delle risorse “boldriniane”.
Qui sotto un interessante articolo di Daniele Scalea sui disordini sempre più aspri che stanno interessando le città americane. Il connotato razziale delle dinamiche sociopolitiche statunitensi ha da sempre assunto una notevole rilevanza sino a sovrapporsi e conformare spesso il conflitto sociale spesso nei suoi aspetti più deleteri. Sta di fatto, però, che negli ultimi cinquant’anni e progressivamente il collante ideologico del “melting pot”, del crogiolo e della fusione delle diverse comunità razziali si è trasformato nel suo opposto; nella affermazione ermetica della propria identità razziale sino a sfociare nella aperta contrapposizione ostile. Questo a dispetto anche della cruda realtà ben evidenziata da Daniele Scalea. L’altro apparente paradosso è che, se gran parte delle forze politiche hanno assecondato questa tendenza, i democratico-progressisti ne sono diventati i più accesi alfieri e gli ostaggi più ingabbiati nei propri stessi stereotipi e nelle proprie dinamiche di acquisizione del consenso. Una trappola che rischia di risucchiare lo stesso Trump in questo gioco al massacro. Da qui il cedimento progressivo sino agli atti di delegittimazione ed autodelegittimazione vera e propria delle locali forze dell’ordine. Atti che stanno provocando scoramento e dissenso in gran parte di esse.
Un atto agli antipodi di un riconoscimento delle responsabilità dirette e personali legate alla morte di George Floyd. E’ un ulteriore passo che sta conducendo quel paese alla guerra civile, cioè al regolamento diretto dei conti tra i cittadini. I crudi video allegati rendono più di mille parole. Da tre giorni le città dell’american redoubt zone sono infatti presidiate da milizie civili.
Una dinamica che sta interessando con qualche tempo di ritardo le città europee e l’Italia. Basta osservare la progressiva chiusura e regolazione interna delle diverse comunità etniche presenti in città come Torino, Milano, Bologna con la tendenza a diffondersi anche nei centri più piccoli. Come pure analogo è lo scivolamento su posizioni integraliste e compiacenti della sinistra progressista. Il recentissimo accordo governativo con il Qatar, con il quale si lascia ampio spazio alle forze più radicali per le loro attività esterne di proselitismo religioso e organizzazione interna delle comunità islamiche sono la conferma di questa cecità spesso confortata da veri e propri mercimoni. L’esperienza francese delle banlieu, dei quartieri ghetto, non ha evidentemente insegnato alcunché o forse troppo. Si continua piuttosto a chiudere un occhio se non due sulla azione promozionale e sulle attività di finanziamento di figure filantropiche come Soros di squadre dedite ad alimentare la natura e la virulenza di queste dinamiche. E’ il paradosso, l’ennesimo, dei paladini dei cittadini del mondo. Buona lettura_Giuseppe Germinario
Le città americane bruciano. Domani potrebbe toccare alle nostre
Da una settimana le grandi città degli USA sono in preda al caos, dopo che le manifestazioni anti-polizia sono rapidamente degenerate in rivolte e saccheggi, con danni ingenti, morti e feriti. Ciò che sta accadendo Oltreatlantico ha a che fare con dinamiche proprie della società americana, retaggio d’un passato segnato da schiavismo, segregazione razziale e un presente di forte sperequazione sociale tra afroamericani e resto della società. Eppure, ha molte più similitudini di quel che pensiamo con le nostre società europee, e offre inquietanti anticipazioni d’un futuro che potrebbe riguardare anche noi.
Ma andiamo con ordine. Partiamo riepilogando succintamente ciò che è accaduto, perché non sempre l’informazione giunta in Italia è stata ricca di dettagli (e men che meno equilibrata). Il 25 maggio George Floyd, un pregiudicato (rapina a mano armata) afro-americano, è stato arrestato dalla polizia di Minneapolis per aver circolato una banconota falsa. Nel corso dell’arresto, al quale secondo i poliziotti avrebbe opposto resistenza, Floyd ha perso la vita. Sono circolati filmati realizzati dai passanti in cui si vede l’uomo a terra lamentarsi di non poter respirare, mentre un poliziotto lo tiene lungamente immobilizzato col ginocchio sul collo. Il comportamento della pattuglia coinvolta è subito apparso eccessivamente violento e inconscientemente pericoloso, e malgrado l’autopsia abbia escluso l’asfissia come causa della morte, è difficile non crederla collegata alle modalità dell’arresto.
David Patrick Underwood, agente federale ucciso dai “manifestanti”
La morte di George Floyd è diventata l’innesco per manifestazioni e proteste contro il “razzismo sistemico” che interesserebbe la polizia e le istituzioni americane in genere. Le forze dell’ordine sono state attaccate con violenza: un agente (nero!) è stato ucciso con colpi d’arma da fuoco. Altri sono stati feriti in scontri a fuoco che si stanno facendo sempre più frequenti. La Casa Bianca è sotto assedio dei manifestanti anti-Trump, malgrado Minneapolis sia una città amministrata dai democratici (e la polizia “normale” negli USA dipende dall’amministrazione comunale o statale, non da quella federale). Fin qui c’è una logica, per quanto illegale, in ciò che fanno i “manifestanti”. Impossibile invece legare alla morte di Floyd e alla “lotta al razzismo” i saccheggi che si stanno sistematicamente svolgendo in decine di città americane; colpiti sono non solo i negozi delle grandi catene ma anche i piccoli esercizi a gestione familiare (inclusi quelli di afro-americani e latini). La polizia, che ricordiamo dipendere dall’amministrazione cittadina (in tutte le grandi città interessate dalle rivolte afferente al Partito Democratico) il più delle volte non interviene. Negozianti e cittadini si stanno organizzando autonomamente per difendere le loro proprietà e i loro quartieri, ma spesso hanno la peggio e sono vittime di aggressioni d’indicibile brutalità, come attestato nei video seguenti [VIDEO CON CONTENUTI SENSIBILI: non guardare se facilmente impressionabili]:
ELIJAH
@ElijahSchaffer
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BREAKING: man critically injured at Dallas riots It appears he attempted to defend a shop with a large sword Looters ran at him, then he charged rioters They then beat him with a skateboard and stoned him with medium sized rocks I called an Ambulance and it’s on the way
Do you know any of these menYesterday, May 30, these men violently attacked a store owner & her husband who were trying to protect their business from being looted. Please look at the video & still images. If you know any of them, please call Crime Stoppers @ 423-9300.
Malgrado i “manifestanti” abbiano assaltato anche la sede della CNN ad Atlanta, i media progressisti stanno facendo i salti mortali per giustificare le rivolte e caratterizzarle come “pacifiche”, talvolta con esiti comici (nel video seguente c’è un cronista che dichiara: “Si tratta di proteste che, parlando in generale, non sono indisciplinate”. Nel frattempo, sullo sfondo, si vede un edificio dato alle fiamme, e la grafica informa che il fuoco è stato appiccato anche alla stazione di polizia).
Ovviamente i politici di Sinistra non sono da meno. I tumulti avvengono in città da loro amministrate, con la polizia che non vuole o non può frenarli. Il Presidente Trump sta offrendo la Guardia Nazionale per sedare i disordini, ma per ora poche città l’hanno accettata, malgrado la situazione sia fuori controllo da giorni. Del resto, politici democratici stanno partecipando ai cortei pacifici, mentre i loro rampolli partecipano ai tumulti più violenti. La figlia del sindaco di New York Bill De Blasio è stata arrestata. La figlia della deputata Ilhan Omar su Twitter ha organizzato una colletta di “beni di prima necessità” per i manifestanti, tra cui barre di compensato da usare come scudi e …mazze da hockey. Poco male: i progressisti hanno già trovato dei capri espiatori. Le rivolte sarebbero opera, niente meno, che dei suprematisti bianchi e, ovviamente, dei Russi, che nella paranoia maccartista dei democratici stanno bene ovunque.
Ultima annotazione: la Sinistra, anche in America, ha fatto propria la causa del lockdown. Le amministrazioni democratiche sono state implacabili nel chiudere in casa i cittadini. Improvvisamente, in nome della lotta al “razzismo” e a Trump, cortei e assembramenti divengono leciti ed anzi encomiabili: che il coronavirus abbia preferenze ideologiche e colpisca solo i conservatori? Lo scopriremo fra un paio di settimane, tempo di incubazione e peggioramento dei sintomi della Covid-19.
Completato questo doveroso quadro, spostiamoci ora alla visione contestuale e alle lezioni da trarne.
1. Esiste una storia problematica di brutalità della polizia contro gli afro-americani; ma l’America del 2020 non è quella del 1991-92, del pestaggio a Rodney King e della rivolta di Los Angeles. All’epoca i poliziotti responsabili furono prosciolti. La vicenda di George Floyd è forse più grave di quella di King, ma anche le conseguenze sono state assai differenti.
Il capo della Polizia, Medaria Arradondo, un nero d’origine messicana nominato dal sindaco democratico di Minneapolis, dopo un solo giorno dagli eventi ha licenziato in tronco tutti e quattro i componenti della pattuglia. Dopo quattro giorni è stata formulata l’accusa d’omicidio per il maggiore responsabile. Addirittura, tanta è stata l’esecrazione generale, che la moglie dell’ex poliziotto si è affrettata a chiedere il divorzio dando pubblicità alla cosa. Dov’è il “razzismo sistemico” in tutto ciò? La vicenda assomiglia semmai a quanto accadde nel 2016 al bianco Tony Timpa, un soggetto con problemi psichiatrici immobilizzato in una posizione pericolosa dai poliziotti che lui stesso aveva chiamato (tra i quali un nero), e che ci lasciò la pelle. Anche in questo caso abbiamo un video dell’accaduto, nessun agente coinvolto è stato punito, eppure non si sono viste mobilitazioni di piazza.
Certo: gli afro-americani hanno più probabilità di essere uccisi dalla polizia (anche se la maggior parte delle vittime è d’etnia bianca). Ma è vero anche il contrario: gli agenti hanno una più elevata probabilità di essere uccisi da criminali afro-americani (tra 2004 e 2015 responsabili del 43% delle uccisioni pur essendo il 13% della popolazione; dei 48 agenti uccisi nel 2019 il 35% è stato ucciso da neri – dati FBI). Uno studio statistico recente non ha rilevato pregiudiziali anti-neri nelle uccisioni a fuoco da parte di forze dell’ordine; al contrario si è visto (qui e qui) che sono gli agenti neri e ispanici a premere il grilletto con maggior facilità. Più che un problema di razzismo, sembrerebbe trattarsi di disparità etnica nella partecipazione ad attività criminali. Gli afro-americani, che compongono la parte economicamente più povera, più spesso si dedicano ad attività criminali e più spesso hanno a che fare con la polizia: sia come vittime sia come carnefici.
2. Chiaramente un commentatore progressista ricondurrà anche le predette disparità sociali al “razzismo sistemico”, ed è esattamente ciò che fanno per rinfocolare la rivolta. Se lo Stato e le istituzioni sono intrinsecamente razziste, tutti i dati e argomenti presentati al punto 1 sono fatui: qualsiasi cosa sia avvenuta, se una minoranza etnica è implicata, a monte ci saranno sempre l’ingiustizia e lo sfruttamento da parte dei bianchi. Il neomarxismo post-operaista, egemone nelle università e nella cultura, identifica nelle minoranze il nuovo soggetto rivoluzionario capace di scardinare ciò che resta dell’ordine sociale tradizionale. Centinaia di corsi, articoli, talk show e serie Tv hanno spiegato che “il Sistema” è intrinsecamente razzista, che il benessere e la prosperità dell’Occidente bianco dipendono dallo sfruttamento del resto del mondo “colorato”, che non si può scendere a patti con quest’ordine sociale ma che va distrutto alle fondamenta. Così si soffia sul fuoco della rivolta e la si legittima anche nelle sue estreme manifestazioni. Gli antifa, estremisti di sinistra dediti alla violenza politica, sono i grandi protagonisti dei tumulti assieme alle gang afro-americane.
3. Il controllo dell’informazione mainstream permette di controllare il sentire comune. Mostrando le immagini della morte di George Floyd si è suscitata una giusta indignazione contro alcuni poliziotti violenti. Inquadrando la vicenda nel presunto razzismo di gran parte dei poliziotti si è incanalata la rabbia dai singoli alle istituzioni, così che nemmeno le pronte misure prese contro i rei possano placare gli animi: la questione non è più “giustizia per George Floyd” (più che licenziare e incriminare i responsabili che si può fare?), ma la lotta contro Trump, il “razzismo sistemico dei bianchi” e via dicendo. Nascondendo le immagini delle peggiori violenze dei rivoltosi, si evita che nasca indignazione anche contro di essi.
4. Tutti gli elementi predetti ci sono già, in nuce, anche in Italia. Da noi non c’è una comunità minoritaria che discende da una storia di schiavismo, ma c’è una crescente componente allogena che, da quando i flussi sono divenuti caotici e incontrollati (cioè dal 2011), sempre meno è assimilata o anche solo integrata dalla società italiana. Anche nelle nostre città, come già accaduto in quelle francesi o tedesche, si stanno creando comunità dall’identità separata, con proprie reti sociali sganciate dal resto della popolazione, economicamente svantaggiate e socialmente emarginate. Su tali svantaggi lucrano gli agitatori di professione, coloro che da varie cattedre e pulpiti raccontano che l’Italia è razzista e ciò sta all’origine di tutti i problemi delle minoranze. In America le violenze sono state perpetrate da gang criminali ed estremisti di sinista (gli Antifa). Anche in Italia con l’immigrazione di massa è arrivato il crimine organizzato di matrice etnica e anche da noi esistono realtà estremiste, come gli anarco-insurrezionalisti e certi “centri sociali”, che praticano la violenza politica e sognano una rivoluzione manu militari. Tutti i fattori del caos americano sono presenti anche da noi. La rivolta delle banlieue francesi ci ha svelato anni fa che certi fenomeni non sono più esclusiva degli USA, ma fanno parte anche della realtà europea. Oggi il fuoco divampa Oltreatlantico, presto potrebbe farlo da noi, se non sapremo prendere contromisure. Quali? Contrastare con una narrazione alternativa la propaganda estremista della Sinistra; tornare a un’immigrazione controllata e regolata che permetta di assimilare culturalmente e socialmente i nuovi arrivati; estirpare i fenomeni d’illegalità estremista e violenza politica che ancora sussistono quasi indisturbati nel nostro Paese.
Daniele Scalea
Fondatore e Presidente del Centro Studi Machiavelli. Laureato in Scienze storiche (Università degli Studi di Milano) e Dottore di ricerca in Studi politici (Università Sapienza), è docente di “Storia e dottrina del jihadismo” e “Geopolitica del Medio Oriente” all’Università Cusano. Dal 2018 al 2019 è stato Consigliere speciale su immigrazione e terrorismo del Sottosegretario agli Affari Esteri Guglielmo Picchi.
Abbiamo raccolto in un unico testo sei dei numerosi contributi di Gianfranco Campa che focalizzano l’attenzione sulle profonde e inquietanti lacerazioni della formazione sociopolitica americana, accentuatesi vistosamente con l’accelerazione delle dinamiche della globalizzazione a partire dagli anni ’90. Riteniamo di aver fatto una cosa utile ai lettori interessati_Giuseppe Germinario
VERSO LA GUERRA CIVILE. IL TRAMONTO DELL’IMPERO USA
(Prima Parte)
LA COLLINA DI ARMAGEDDON
“Questa è la mia collina di armageddon, da qui combatterò la mia ultima battaglia, il mio ultimo atto”
Erano i primi giorni di servizio effettivo, giorni di smarrimento, annebbiamento mentale e fisico, seguiti ad un estenuante corso di addestramento durato sette mesi. Ma non era finita! Ai sette mesi di accademia si aggiungevano i quattro mesi di addestramento sul campo. Quattro mesi di pratica, la prova del fuoco sulla strada, in auto, di pattugliamento con un altro agente seduto al fianco, specializzato nel valutare il rendimento ed il corretto adempimento al dovere. È sulla “strada” che devi dimostrare di aver appreso e di saper mettere in pratica i concetti di base propinati durante l’accademia di polizia. Un appuntamento giunto al quale di solito un buon 10-20% delle reclute fallisce l’obbiettivo e la realizzazione di una aspirazione.
Già nei mesi precedenti oltre il 30% dei commilitoni, compagni di accademia, tra di loro alcuni amici carissimi, erano stati rispediti a casa per aver fallito uno dei 187 esami previsti durante il corso. La durezza della selezione e la concreta possibilità di fallire spinge la maggior parte dei “rookies” a sviluppare una meccanismo di autodifesa. Per molti diventare un poliziotto rimarrà solo un miraggio, un sogno mai realizzato, riposto in qualche cassetto. Per questo ti guardi intorno e cerchi di trovare quella boa, quel salvagente che ti possa aiutare a rimanere a galla, almeno fino a quando non esci dal tunnel. I meccanismi di autodifesa per superare lo stress e gli ostacoli esistono , anche se sono più che altro espedienti emotivi che ti danno una apparente sensazione di coraggio e di adeguatezza. Chi si affida alle preghiere, chi allo yoga, chi alla bevande energetiche, chi invece alla raccomandazione di qualcuno in una posizione di potere. Tutti questi accorgimenti, lo ribadisco, non assicurano il successo nell’iter di addestramento. Neanche l’ultima soluzione, il sotterfugio può garantire la sopravvivenza; in California per arrivare ad essere poliziotto la raccomandazione non serve, gli esami non si possono aggirare o addomesticare.
Il turno comincia alle 07.00 e finisce alle 19.00. Arrivo al distaccamento 30 minuti in anticipo, entro nello spogliatoio e mi guardo intorno. UOMINI/DONNE, BUSSA PRIMA DI ENTRARE, annuncia il cartello affisso sulla porta. E` il benvenuto in un distaccamento troppo piccolo per avere spogliatoi separati. Lo stress si fa sentire. Lo yoga non lo pratico, con le preghiere ho un rapporto a dir poco conflittuale e di individui che portano l’argenteria sulla divisa non ne conosco nessuno. Un certo senso di sconforto comincia ad insinuarsi nell’anima. Dov’è il galleggiante, il canapo che mi terrà a galla aiutandomi a sopravvivere nei prossimi quattro mesi?
Il distaccamento è minuscolo, in totale dieci agenti, incluso il Chief, due sergenti e sette agenti. Per curiosità do un’occhiata alla lista affissa nella bacheca, quella dei nomi che fanno servizio in questa piccola stazione. Il mio sguardo cade sulle generalità di uno dei due sergenti. Il cognome denota una chiara origine italiana. Mi rivolgo all’altro agente che si sta preparando al servizio con me; punto il dito sul cognome del Sergente “Italiano”: “George?” (non il suo vero nome) mi chiede. “Si” gli rispondo. “Lascia perdere e sempre ‘cranky’ (irritabile), non piace a nessuno; trenta anni di servizio, potrebbe andare in pensione, ma è qui a rompere le scatole, a rendere la vita difficile a tutti…” La speranza si affloscia come un pallone bucato, lo sconforto ritorna. Appellarsi all’italianità del sergente per un trattamento meno ostico non sembra essere l’ancora che cercavo.
“Caspita! Un vero ‘greaseball”, accento compreso, non uno di quei fasulli che vengono da New York pretendendo di essere Italiani per poi scoprire che sono di seconda o terza generazione” Così mi saluta George, incrociandolo nel parcheggio del distaccamento tra le macchine di servizio. ”Si, Italiano, ma anche americano di adozione.” gli rispondo, accennando ad un saluto quasi militare. “Okay, whatever, cambia poco; un ‘greaseball’ in questo posto dimenticato da Dio, ci mancava solo quello…” Questo è stato di fatto il primo contatto con George; un benvenuto corrispondente alle sue propensioni comunicative, prossime al nulla. Ma nonostante tutto, l’inizio di un’amicizia che a distanza di vent’anni resiste ancora al tempo e alla lontananza.
George, di nonna genovese e nonno siciliano. Di Italiano aveva ereditato solo il piacere della pasta al pesto; un piatto che sua nonna sapeva, da buona genovese, cucinare alla perfezione. George non ha mai visitato l’Italia, ne aveva il desiderio di farlo. Tutto barca, pesca e caccia. Due matrimoni falliti alle spalle, quattro figli adulti di cui tre sposati con cinque nipoti a testimoniare e rammentargli costantemente l’età che avanza. I nipoti hanno negli anni ammorbidito la durezza di un uomo che ha sempre combattuto contro tutto e tutti. Un uomo in constante stato di guerra; sul lavoro, in famiglia, con i vicini, con gli amici (quei pochi che gli sono rimasti), con i colleghi, subordinati e superiori che fossero. George è uno degli agenti, tra quelli che ho conosciuto negli anni, rimasti coinvolti in conflitti a fuoco; era appena entrato in servizio nella ormai lontana estate del 1973. Per anni George ha visto il mondo cambiare attorno a sé, ma al cambiamento ha sempre resistito, come un vecchio dinosauro che vede l’asteroide dell’estinzione avvicinarsi a grande velocità dal cielo e, ignorandolo, continua a foraggiarsi tra l’erba.
Uno di quegli asteroidi lo colpì a tre anni dal nostro primo incontro nel parcheggio della stazione di polizia. Era il Giugno 2004; le due del mattino di un sabato come tanti. E’ l’orario più probabile per pescare conducenti in preda ai fumi dell’alcool o di sostanze stupefacenti. Parcheggio la mia enorme macchina di pattuglia, una vecchia Ford Crown Victoria, appostandomi dietro un albero, nascosto all’uscita di una curva della strada principale che attraversa la giurisdizione, con il muso della macchina rivolto nella direzione della corsia della strada. Motore acceso, luci spente, rilevatore di velocità montato sul cruscotto che segnala la velocità di ogni passaggio. Molti non si accorgono nemmeno della mia presenza; altri, i più attenti, nel buio totale colgono la sagoma della mia macchina all’ultimo momento, quando ormai il radar sul cruscotto ha rivelato la loro andatura, troppo tardi per rallentare; i più premono il piede sul pedale del freno e allo stesso tempo, colti di sorpresa, fanno oscillare la macchina verso il lato opposto dove sono parcheggiato. Il traffico è ormai ridotto quasi a nulla, passa una macchina ogni 10 minuti; mentre contemplo la decisione di abbandonare la mia caccia per tornare a pattugliare, George, l’altro collega in servizio con me quella notte, mi chiama alla radio: “Campa c’è una macchina che ho visto sfrecciare mentre arrivavo da una delle traverse, dovrebbe comparire sul tuo radar da un momento all’altro; io non ho fatto in tempo a rivelare la velocità.” “10-4 (ricevuto)” rispondo. Il tempo di rimettere a posto il microfono della radio e il rilevatore di velocità sul cruscotto si illumina come un albero di natale. Segnala 83 miglia all’ora, in una zona dove il limite è di 30. Osservo i fari del veicolo che si avvicinano verso di me a grande velocità raggiungendo e passando dalla mia postazione senza neanche rallentare di un miglio. Accendo le luci della pattuglia faccio inversione e mi lancio all’inseguimento della macchina. “E passato?” mi chiede George alla radio. “Si” rispondo io, “come un razzo” aggiungo. “Non perderlo di vista questo mentecatto” mi dice. Giusto per una frazione di secondo osservo la mia velocità sul contamiglia: 90. Ora ho la visuale sulla macchina sospetta, la osservo sbandare due volte quasi finendo contro uno dei pali della luce posizionati al ciglio della strada. George mi raggiunge, ora siamo in due ad inseguire; sento alla radio che altre pattuglie stanno arrivando. “Campa prendo io la posizione primaria, tu prendi quella secondaria e mantieni la comunicazione con la centrale.” Neanche il tempo di rispondere e osservo la macchina sospetta sbandare per la terza volta, l’ultima, sino a sbattere contro il palo del semaforo abbattendolo al suolo per poi terminare la sua corsa sulla panchina degli autobus in una nube di fumo.
“Esci di lì coglione” sento gridare fra il trambusto, il fumo e le sirene. Raggiungo George che nel frattempo con le mani cerca di aprire lo sportello del guidatore; la macchina è però un groviglio di lamiere e plastica. A malapena riesce a tirare fuori il conducente attraverso quel che rimane del finestrino, prendendolo per la testa. “Sarge” (abbreviazione per Sergente) sento gridare dietro di me “ma non vedi che ha perso conoscenza!”. La voce non la riconosco, ma appartiene a uno degli altri agenti nel frattempo arrivati sul posto. Mi rivolgo io al Sergente “probabilmente ha subito un grave trauma, meglio aspettare i paramedici, li ho già chiamati”
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“Che necessità c’era di estrarlo di forza dall’abitacolo della macchina quando era chiaro che non era cosciente?” La domanda del Chief era diretta a George. “Poteva avere un’arma nell’abitacolo e volevo prevenire che la impugnasse” risponde George. “La macchina era un’accozzaglia di lamiere e lui era chiaramente svenuto se non addirittura morto; la tua logica è antidiluviana. Se mai uscirà dal coma rischia di rimanere paralizzato per il resto della sua vita e sarà anche grazie a uno dei mie Sergenti che vuole sempre usare le mani anche quando non e`necessario.” replica il Chief. “Mica siamo manovali! ” si difende George. “Infatti non sei un metalmeccanico, ma un agente addestrato, un supervisore, un professionista” risponde il Chief.
Sarà l’ultima “avventura” di un uomo superato dalla storia. Un uomo che non aveva colto il cambio generazionale nel modo di interpretare e gestire le relazioni sociali, l’ultimo di una generazione di dinosauri che combattono contro i fantasmi di un cambio epocale che li spinge a isolarsi sempre di più e allontanarsi dalla civiltà attuale.
La vecchia guardia si ritrova oggi smarrita, disorientata da una propsettiva completamente diversa di interpretare il ruolo di pubblico ufficiale. Le reclute e gli agenti che vengono ora sfornati dai corsi di polizia sono addestrati secondo criteri completamente diversi da quelli in uso solo dieci anni fa. Ad un impegno già estremamente stressante e rischiosissimo si aggiunge ora anche un aspetto politico che costringe i poliziotti a riconsiderare ogni azione intrapresa sul campo. Il risultato è visibile nelle statistiche: l’aspettativa media di vita dei poliziotti americani è di 59 anni. Se le armi, gli incidenti stradali, i suicidi non uccidono prematuramente un poliziotto, ci pensano malattie cardiovascolari e tumori vari. Al primo di dicembre di quest’anno, il 2019, le statistiche ci dicono che i soli poliziotti uccisi durante un conflitto a fuoco sono aumentati del 20% rispetto al 2018, per un totale di 267 poliziotti. Una strage senza precedenti. Con il pensionamento dei vecchi dinosauri, definiti a volte (a ragione) dal grilletto troppo facile e con il reclutamento di una nuova leva imbavagliata dal credo del politicamente corretto i risultati rifulgono nelle statistiche ferali.
George, tre mesi dopo il rimbrotto nell’ufficio del Chief, andrà in pensione concludendo una carriera, che dopo oltre trent’anni, era cambiata di riflesso ai mutamenti del mondo che gli girava intorno. George non era stato capace di cogliere, comprendere e gestire il suo impegno adattandosi ai cambiamenti.
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La statale 85 taglia il Wyoming da nord a sud costeggiando il confine con lo stato del Nebraska e del South Dakota. Partendo da sud, cioè dal confine col Messico, la 85 termina a Fortuna, nel Nord Dakota, al confine col Canada. La zona est del Wyoming è forse la meno bella e maestosa di questo stato che incarna il concetto stesso di frontiera americana. I maestosi parchi nazionali di Yellowstone e Grand Teton si trovano dalla parte opposta, nella zona ovest vicino al confine con l’Idaho. Nonostante ciò percorrendo la 85 e attraversando il confine con il Sud Dakota si entra nel parco nazionale del Black Hills. Le bellissime colline del Black Hills sono meglio conosciute perché all’interno accolgono il Mount Rushmore e la montagna memoriale dedicata a Crazy Horse (Cavallo Pazzo).
Vivo negli Stati Uniti da oltre trent’anni, ma la magica terra del west, con i suoi panorami maestosi, epici, pieni di straordinaria bellezza naturale, non finisce mai di stregarmi. Vivo nell’Ovest, in California, perché l’est non è mai riuscito ad entusiasmarmi. Senza togliere nulla alla cosmopolita New York, alla calda Miami, alle montagne dello Shenandoah, al verde sontuoso del Vermont, preferisco l’Ovest con i suoi spettacolari parchi nazionali: Grand Canyon, Yosemite, Yellowstone, Bryce Canyon, Glacier e tanti altri. Dai picchi della Sierra Nevada, ai deserti dell’Arizona. Dalla spettacolare costa Pacifica ai laghi di Tahoe e Powell, dagli altopiani desertici del Nevada alle praterie del Dakota, dai crateri “lunari” dell’Idaho agli Archi monumentali dello Utah, dalla Valle della Morte al parco nazionale di Zion, l’Ovest è un affresco senza uguali nel mondo. Attraversando le strade leggendarie dell’Ovest, lontano dai grandi centri abitati, in questi ampi e maestosi spazi aperti, si rivive lo spirito pionieristico di un tempo. L’ovest è stato e torna ad essere l’ultima frontiera.
Percorrendo la 85 in Wyoming, si attraversa un paesino di nome Lusk. Nel minuscolo centro del paese si trova una nota stazione di servizio, punto di ritrovo e di sosta per i motociclisti che attraversano gli Stati Uniti sugli assi East-Ovest, Nord-Sud. Una tappa storica e obbligata per gli amanti delle Harleys. In quella stazione di servizio, due anni fa, io e mia moglie, sulla via del ritorno in California, avevamo offerto la cena a un motociclista infreddolito che aveva sostato di rientro in Colorado.
Dopo aver attraversato il centro abitato, direzione nord, molte miglia più avanti si arriva a un incrocio con una strada non asfaltata, che sfocia in ambedue lati sulla 85. Svoltando si entra nella strada sterrata che mi conduce al ranch di George. Una tenuta collocata internamente, qualche miglio lontano dalla statale. Seduto su una collinetta , il ranch di George gode di una vista panoramica libera tutto intorno da ogni ostacolo. Una proprietà di diversi ettari.
“Da quando tuo figlio frequenta l’università di Bismarck mi vieni a trovare tutti gli anni” mi accoglie George. “Lo sai che, anche se devo fare una piccola deviazione per arrivare qui, non mi perderei per nessuna ragione al mondo la possibilità di prendermi un caffè con te e contemplare dalla veranda di casa tua questa splendida vista’ rispondo. “Dalla California al Nord Dakota puoi prendere l’aereo e arrivare a Bismarck in poche ore invece di metterci due giorni con la macchina.”rincara la dose George. “Si lo so, l’aereo lo prendo al ritorno, se no non potrei venire a romperti le scatole; ma se vuoi me ne vado…” gli dico scherzando. “Gianfranco tu sei noioso. La birra non ti piace. Io il vino non lo bevo, mi costringi sempre a procurami una bottiglia di rosso perché la birra la detesti, che razza di Americano sei?” Mi apostrofa con fare seccato. “Parli tu che ti scoli la birra messicana…” gli replico
Il Ranch di George non è grandissimo, ma quanto basta per tenerlo occupato dalla mattina alla sera. Le donne vanno e vengono, ma è troppo scorbutico per stringere una relazione impegnativa. Vive solo, anche se tra figli, nipoti e amici c’è sempre qualcuno a visitarlo. Cinque cavalli, una quindicina di mucche, in più cani, galline, tacchini, ma soprattutto il grande orgoglio di George, tre bisonti che scorrazzano liberi nella terra recintata di sua proprietà, rendono la visita al ranch di George uno svago e un diversivo per sfuggire alla routine quotidiana.
“La scorsa estate ho subito una invasione di serpenti a sonagli; uno di quei viscidi ha morso una mucca del mio bestiame. Superfluo dire che gli ho spappolato la testa con un colpo di fucile” mi racconta George mentre seduti in veranda ci beviamo una bibita. “Zitto che se ti sentono gli animalisti ti fanno causa.” gli dico. “Mi possono baciare il culo. Mica siamo in quella fogna progressista della California. Questo è il Wyoming e questa è la mia terra. Io sono il re di questa terra. Faccio ciò che voglio. Il governo, o qualsiasi altra organizzazione per me possono andare a puttane.” mi risponde George con tono aggressivo. Prosegue con un certa concitazione “Da questa casa, su questa collina, riesco a vedere tutto intorno alla mia proprietà. Una posizione strategica, Se mai verranno e quando verranno avranno delle sorprese poco piacevoli…“ Puntando il dito verso l’orizzonte George esclama ”Questa è la mia collina di armageddon; da qui combatterò la mia ultima battaglia, il mio ultimo atto”
George, californiano di nascita, dopo il pensionamento, ha venduto la sua casa in San Rafael, a nord di San Francisco e si è trasferito in Wyoming. Grazie ai costi esorbitanti degli immobili in California, soprattutto nella baia di San Francisco, con i soldi della vendita della casa di proprietà dei genitori, George ha potuto trasferirsi in Wyoming comprandosi il ranch, il bestiame, la terra, tre trattori, due pickup trucks, un quad e una moto Harley. George diceva sempre che quando andava in pensione si sarebbe trasferito in Wyoming; ne era innamorato. Cosa attrae uno come George a trasferirsi nel maestoso Wyoming?
George non è l’unico poliziotto che ha lasciato la California dopo il pensionamento. L’esodo di poliziotti californiani che al termine della loro carriera si trasferiscono in altri stati è biblico, senza precedenti nella storia americana. Molti ex componenti delle forze dell’ordine scelgono l’Idaho come destinazione finale, ma anche il Wyoming, lo Utah, il Montana, il Tennessee; il Nebraska, risultano fra i più gettonati. La maggior parte di loro preferisce vivere in campagna lontano dai maggiori centri metropolitani.
L’esodo verso questi stati non è riservato ai soli ex-componenti del mondo militare e delle forze dell’ordine: Cittadini comuni da ogni parte dell’America hanno deciso di trasferirsi negli stati “montagnosi”. Le ragioni di questo impulso migratorio sono le stesse per tanti altri che, come George, hanno abbandonato posti come la California, New York, Illinois, Pennsylvania, ma soprattutto i grandi centri metropolitani per trasferirsi nel cosiddetto redoubt states.
THE AMERICAN REDOUBT
”La minaccia di una futura guerra civile è solo un motivo in più per trasferirsi permanentemente in uno stato interno che incarna di più lo spirito conservatore. Se vivi lontano dal conflitto, avrai la scelta di esserne coinvolto, direttamente o indirettamente, ma se vivi “nel bel mezzo di esso”, allora hai maggiori probabilità di essere travolto dagli eventi. Molte situazioni saranno determinate [dalla] geografia, piuttosto che dalla volontà, quindi scegli saggiamente la tua terra. Potrei essere di parte, ma credo che quasi tutte le contee dell’ American Redoubt siano un buon punto di partenza, nella tua ricerca di un rifugio sicuro.”
Benvenuti nel redoubt americano. Che cos’è il redoubt americano? Piu semplicemente possiamo chiamarla l’ultima frontiera americana. Un pezzo di territorio che incorpora le aree geografiche del Nord Ovest-Pacifico. Include lo stato del Wyoming, del Montana, dell’Idaho e la parte orientale degli stati dell’Oregon e Washington. All’alba della nascita degli Stati Uniti, queste zone erano contese dai pionieri. La frontiera americana che si spostava verso ovest, lentamente ingoiava questi pezzi di terra, trasformandoli, malleandoli, rendendoli partecipi nella nascita della nazione a stelle e strisce. Domarli questi stati pero`non è mai stato del tutto possibile;troppo selvaggi, troppo ribelli, per conformarsi pienamente alle regole dettate della lontana Washington. I territori del Wyoming, dello Utah, del Dakota, dell’Idaho stanno lentamente tornando ad essere terre di frontiera. L’ultima frontiera dell’impero americano, dove nelle montagne e colline del redoubt americano si terrà l’ultima battaglia fra i patrioti americani fedeli alla costituzione originaria e le forze anti-costituzionali. ”Questa è la mia collina di armageddon da qui combatterò la mia ultima battaglia, il mio ultimo atto”
Il concetto di redoubt ha preso forma e si è sviluppato nel 2010, in piena presidenza Obama. Gli anni dell’amministrazione Obama hanno esasperato lo scontro in atto fra il movimento patriottico americano (da non confondere con l’idea neo-conservatrice-repubblicana) e il crescente potere governativo che negli ultimi decenni ha cominciato a pervadere sempre di più l’esistenza dei cittadini americani regolamentando la vita quotidiana. In altre parti del mondo l’intervento sociale e legislativo dei governi centrali viene visto a volte come una panacea ai problemi dei cittadini stessi: scuola, sanità, trasporti e servizi sono parte essenziale del rapporto cittadino-stato. I patrioti americani invece concepiscono un mondo diverso, con un governo centrale presente ma non impositivo, minimalista non oppressivo. Incarnano lo spirito dei primi coloni inglesi fuggiti dalla madre patria e dalla oppressione della corona inglese, arrivati nel nuovo mondo alla ricerca della libertà di religione e di espressione. I patrioti americani moderni incarnano lo spirito dei patrioti del 1776. “ Voglio meno ingerenza burocratica, meno governo; lasciatemi in santa pace.Togliete le mani dalla mie tasche e fatemi avere più controllo del mio destino” (Ronald Reagan)
Ma non è solo dal governo che scappano quelli come George e tanti altri come lui. Scappano sì dalla tassazione asfissiante degli stati e delle contee progressiste-liberali, ma anche dal cambiamento demografico che li fa sentire emarginati, ospiti in casa propria. Scappano da questi stati che hanno cominciato, secondo loro, a violare con leggi oppressive il sacrosanto diritto di possedere le armi. Diritto incastonato nel secondo emendamento della costituzione Americana: “«Essendo necessaria, alla sicurezza di uno Stato libero, una milizia ben regolamentata, il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non potrà essere infranto.»
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James Wesley Rawles è un autore americano che scrive romanzi sul tema della sopravvivenza; romanzi bevuti, letti e distribuiti tra i patrioti americani, incoraggiandoli a prepararsi alla prossima guerra civile e al caos che la caduta degli Stati Uniti porterà. Rawles si descrive come un costituzionalista tradizionale. Ex ufficiale dell’intelligence dell’esercito americano e` l’ispiratore, la mente, dell’esodo verso il redoubt americano. Anche Rawles, come George è californiano di nascita; di Livermore precisamente, un paese distante dal mio una decina di chilometri. Rawles cita la polarizzazione dei due maggiori partiti politici degli Stati Uniti, la politicizzazione delle agenzie governative – individuando negli abusi di entità come l’FBI, la CIA, la DIA e il Dipartimento degli Interni la causa di futuri conflitti. Rawles descrive la polizia, i tribunali e i mass media come complici delle agenzie statali e federali intente a violare i capisaldi presenti nella costituzione americana tesi a prevenire abusi da parte del governo e dei centri di potere della classe dirigente. Continua affermando che la tassazione è uno stratagemma socialista usato da un governo corrotto per “espropriare la produttività altrui e ridistribuire la ricchezza costruendo una base elettorale governo-dipendente e permanente…Il globalismo, il socialismo, la burocrazia sono inconciliabili con il patriottismo e la costituzione americana. I globalisti hanno come obiettivo la redistribuzione della ricchezza a livello globale e allo stesso tempo, attraverso il globalismo, i trattati internazionali , le grandi multinazionali e le leggi oppressive sull’ambiente, l’arricchimento personale di pochia scapito della distruzione del concetto di nazioni e di popoli realmente liberi. La minaccia di una futura guerra civile è solo un motivo in più per trasferirsi permanentemente in uno stato interno che incarna di più lo spirito conservatore. Se vivi lontano dal conflitto, avrai la scelta di esserne coinvolto, direttamente o indirettamente. Ma se vivi “nel bel mezzo di esso”, allora hai maggiori probabilità di essere travolto dagli eventi. Molte situazioni saranno determinate [dalla] geografia, piuttosto che dalla volontà, quindi scegli saggiamente la tua terra. Potrei essere di parte, ma credo che quasi tutte le contee dell’ American Redoubt siano un buon punto di partenza, nella tua ricerca di un rifugio sicuro.”
Nel caos della futura caduta degli Stati Uniti, qualunque dovesse esserne il motivo, l’America Redoubt diventerebbe il nuovo baluardo, un nuovo soggetto geografico, dal quale, sulle ceneri della precedente, ricostruire il sogno di una nazione libera e costituzionalista; “Una nazione che diventi bastione di un nuovo cristianesimo tradizionale, libero da ogni legge o regola dettata da entità sovranazionali, globali, mondiali, con una presenza governativa ridotta al minimo essenziale. Una nuova nazione garante della libertà personale, con cittadini liberi di possedere le armi, di curarsi della propria terra come desidera, di vivere la propria vita sollevata da ogni giogo legislativo-burocratico. Mi piacerebbe vedere l’American Redoubt ritagliarsi l’autonomia necessaria rispetto a quelli che oggi conosciamo come gli Stati Uniti d’America. Vorrei vedere l’American Redoubt fondamentalmente come una roccaforte di valori tradizionali con il resto degli Stati Uniti affondare nell’oblio” afferma Rawles. Qui il blog di Rawles e dei patrioti dell’America Redbout: https://survivalblog.com
Perché i patrioti americani hanno scelto questa area geografica per auto-esiliarsi? La risposta è da ricercare nella posizione “strategica” e politica di questa area geografica. Il Wyoming, Idaho, Montana, le parti orientali dell’Oregon e dello stato di Washington, sono a maggioranza di destra conservatrice. Sono geograficamente montagnosi, piene di risorse naturali. Secondo i patrioti dell’American Redbout la possibilità di acquistare proprietà con un esteso pezzo di terra, incluso di torrente, alberi e cacciagione, permette la completa indipendenza e quindi sopravvivenza in caso di collasso sociale. In più il fatto che le regioni sono montagnose permette a chi li conosce bene di usare il territorio a proprio favore in caso di conflitto armato. L’agenzia immobiliare survival realty è specializzata nella vendita della perfetta proprietà da acquistare nell’America Rebout. https://www.survivalrealty.com/american-redoubt/
C`è un altro aspetto che spinge all’esodo dei patrioti americani verso il redoubt: Sono Stati in cui il diritto al possesso delle armi è regolato al minimo. L’Idaho, il Montana e il Wyoming sono considerati fra i primi dieci stati più permissivi nel possesso delle armi. Per esempio in Wyoming la legge permette il trasporto libero delle armi. Non è richiesto un permesso. Puoi andare dove vuoi con le tue armi, puoi anche mostrarle in pubblico. Non è richiesto nessun permesso e nessuna registrazione al momento dell’acquisto. Non ci sono limitazioni al numero delle armi che puoi acquistare. Non esiste nessuna legge che regola le dimensioni dei caricatori. In contrasto la California non permette l’uso di caricatori con più di 10 proiettili. Lo stato della California richiede un permesso per trasportare l’arma. Per acquistarla devi sottoporti ad un controllo per eventuali precedenti penali e problemi psichiatrici. Le armi acquistate devono essere tutte registrate. Qui in dettaglio le leggi che regolano il possesso di armi stato per stato:https://www.gunstocarry.com/gun-laws-state/#wy2
Ma chi sono e quanti sono esattamente i patrioti del redoubt? Un’inchiesta condotta dalla rivista The Economist in un articolo dell’agosto 2016 sul movimento american rebout intitolato “L’ultima Grande Frontiera”, stimava che “migliaia di famiglie” si sono trasferite nella Redoubt affermando che il movimento “sta lentamente guadagnando terreno” Quantificare l’esatto numero è impossibile perché la stragrande maggioranza delle persone che si trasferiscono sono per natura molto circospetti. Sono distaccati dal mondo mediatico-sociale. Molti di loro non hanno accesso a internet , televisione e telefono, strumenti che considerano di spionaggio e controllo. La forma di comunicazione preferita è una battuta di caccia in cui ritrovarsi e coordinare varie idee, tra una birra, un barbeque e una sventagliata di caricatore. Wilderness living – The last big frontier | United States
La maggior parte sono cittadini che non si rispecchiano più in una nazione che sta cambiando, fedeli ancora ad una idea di America che va lentamente dissolvendosi. Sono di tutte le razze, non solo bianchi. Il rappresentante dei patrioti americani che si appresta a correre per la sedia del terzo distretto senatoriale dello stato dell’Idaho si chiama Alexander Barron, un afro-americano: https://alexanderbarron.com
I patrioti americani vengono definiti da molti, come rappresentanti di estrema destra. In realtà i patrioti americani rifiutano il concetto di nazismo, fascismo e comunismo. Odiano entità come gli antifa e i naziskins. Sono ideologie che non collimano con la loro idea di libertà poiché vengono visti come strumenti di ideologie oppressive dei popoli, veicoli di governi autoritari; l’antitesi del credo patriottico americano che nel governo vede uno strumento di oppressione.
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“Sposta una di quelle sagome più a destra, non vedi che sono troppo vicine?” grido a George mentre osservando dalla distanza lo vedo posizionare i bersagli per il tiro. Non lo sento rispondere, ma anche se mi volta le spalle, realizzo mentalmente la serie di di parolacce che probabilmente sta sussurrandomi contro. “A proposito non vedo l’AR-15- l’hai preso dal bunker?” chiedo a George guardando di fronte a me la serie di armi appoggiate sul largo tavolo. “Bro, go fuck yourself!” esplode finalmente George, dopo il record di cinque minuti di silenzio durante I quali ha evitato di reagire alla mia prima provocazione. Ma ora la misura è colma “quando smetti di fare la parte della fighetta me lo dici. Hai riempito i caricatori?” mi chiede George. “Certo che li ho riempiti,mentre tu giocavi a bambole con le sagome. Il Remington, l’M60 e il Mossberg sono pronti , ma non vedo gli AR-15. Pensavo li avessi presi.” gli rispondo.”Devo averli lasciati a casa” esclama George. “Potevi anche ricordami di portarli” mi dice con tono accusatorio. “Io sono incaricato di trasportare le cassette delle pallottole, le protezioni agli occhi e alle orecchie, tu le armi; se sei entrato in fase senile me lo dici prima, così penso a prendere e trasportare tutto io…” ribatto. “Whatever man! Let’s get it started” risponde con voce alterata.
Con l’arrivo di due amici di George, il suo poligono personale, situato all’interno della sua proprietà, si illumina come un campo di battaglia con i traccianti di fuoco che eruttano dalle canne delle nostre armi. Alla fine, circa 50 sagome e oltre mille cartucce vuote ricoprono il terreno sotto i nostri piedi. Mentre con aria soddisfatta ci stringiamo la mano complimentadoci a vicenda, mi vengono in mente le parole di George “Questa è la mia collina di armageddon, da qui combatterò la mia ultima battaglia, il mio ultimo atto”
VERSO LA GUERRA CIVILE. IL TRAMONTO DELL’IMPERO USA
(Seconda Parte)
CRONACHE DALL’ ULTIMA FRONTIERA
“Siamo una potenza costituzionale non una potenza imperiale”
“Papà dove sei?” mi chiede mio figlio al telefono. “Ho appena lasciato il Ranch di George, sono sulla strada, il navigatore mi dice che dovrei arrivare a Bismarck intorno alla mezzanotte.” rispondo. “Mezzanotte!!!? Scusa, ma non sei nel mezzo del Wyoming?” mi chiede sorpreso mio figlio. “Si, avrei dovuto metterci circa 7 ore, ma voglio fare una piccola deviazione, arriverò a Bismarck tardi, vado direttamente in albergo, ti chiamo domani mattina così passo dall’Università e ti vengo a prendere.“ la mia risposta lascia mio figlio ancora più perplesso, ma alla perplessità manca la curiosità indagatrice di approfondire le ragioni del mio fuori programma: Chi? Che cosa? Quando? Dove? Perché?
Mentre percorro la 85, direzione nord, la mia attenzione tutta rivolta alla strada è temporaneamente distratta da tre cartelli, di una discreta grandezza, posizionati al ciglio della strada. Ad occhio e croce, ognuno di questi tabelloni, stile pubblicitario, sarà approssimativamente di 2 metri di altezza per 6 metri di lunghezza. Apparentemente non c’è niente di anormale nel vedere tabelloni pubblicitari affissi ai margini delle strade cittadine e delle interstatali americane; in questo caso però qualcosa di insolito attira la mia attenzione. Da lontano osservo, sul primo dei cartelloni che incrocio, la sagoma di un fucile da caccia: “Benvenuti in Wyoming; Terra del Secondo Emendamento”. Rallento per leggere meglio le incisioni sugli altri due cartelloni; vorrei scattare una foto fermandomi sul ciglio della strada, ma non ho voglia di farmi passare dal Tir che ho appena superato un paio di chilometri prima. Così continuo la mia corsa, giusto rallentando quanto basta per leggere i messaggi scritti sugli altri due cartelloni. Ad un centinaio di metri dal primo tabellone, il secondo annuncia: “Gli Schiavi erano Disarmati!“; ancora altri cento metri, il terzo e ultimo cartello annuncia “Le Armi hanno solo due nemici: La ruggine e i Politici!” Solo ora mi accorgo che pur essendo vicini al ciglio della strada i tre cartelloni sono piazzati all’interno della staccionata collocata ai bordi della strada; presumo che siano stati piazzati lì da privati, dal proprietario della terra stessa o da qualcun altro con il dovuto permesso. Hanno utilizzato quindi la proprietà che costeggia la strada per mandare un messaggio a chi si trova, come me, ad attraversare lo spazio sconfinato del Wyoming.
Un po di miglia più avanti, mentre mi appresto ad superare il confine con il Sud Dakota, mi ritrovo di fronte un Pick Truck, Ford 350, Nero. Il paraurti posteriore è ricoperto di adesivi; riesco a leggerne un paio, prima di sorpassare il veicolo: “Laureato All’università di Smith and Wesson – LGBT: I Support; Liberty, Guns, Beer, Trump.” Trattengo a stento una risata, mentre un cartello mi annuncia l’entrata in Sud Dakota.
I messaggi pro-armi mi fanno riflettere sulla natura stessa, l’essenza, l’anima, che questa nazione incarna: Gli Stati Uniti non sono una entità creata da burocrati seduti a tavolino, in giacca e cravatta, a colpi di trattati internazionali, come è stata, per esempio, l’Unione Europea; al contrario una nazione nel cui DNA è inciso a caratteri cubitali l’uso delle armi. Una nazione forgiata nel sangue; con l’annientamento di un popolo indigeno (Indiani), una guerra di Indipendenza, passando attraverso le guerre Indiane, la guerra del 1812 con la Gran Bretagna e quella del 1846 con il Messico, per finire con una guerra civile che ha causato più morti fra gli Americani che in quelle della prima, seconda guerra Mondiale, della guerra di Corea e del Vietnam messe tutte insieme. L’America! Un paese cresciuto sul movimento dei coloni e dei pionieri che con le famiglie, tra mille pericoli e peripezie, si lanciavano alla conquista dell’ignoto. Per molti l’unica speranza di sopravvivenza era un fucile, una pistola con i quali proteggersi durante il loro cammino.
I dati sul possesso delle armi rendono chiaro l’enorme significato culturale e simbolico che esse rappresentano per i patrioti americani e i cittadini statunitensi in genere. Piaccia o no il possesso delle armi è apprezzato, venerato negli Stati Uniti più che in qualsiasi altro paese del mondo. Le armi come simbolo della libertà e della cultura americana. I numeri parlano sa soli. Due sono i dati da considerare. Primo, il dato ufficiale sul numero delle armi in posseso dei cittadini americani quantificato tramite la loro immatricolazione delle armi; secondo, il numero totale stimato delle armi, comprese quelle non registrate in possesso degli americani. Uno studio del Graduate Institute of International and Development Studies di Ginevra sostiene che sono più di 393 milioni le armi di proprietà in possesso dei cittadini negli Stati Uniti. Il rapporto, che si basa su dati ufficiali di oltre 230 paesi, rileva che il possesso globale delle armi è fortemente concentrato negli Stati Uniti. Nel 2017, ad esempio, gli americani costituivano il 4 percento della popolazione mondiale, ma possedevano circa il 46 percento dell’intero patrimonio mondiale stimato in 857 milioni armi da fuoco in mano a civili. Con una stima di 120,5 armi per ogni 100 residenti, il tasso di possesso pro-capite di armi, negli Stati Uniti è il doppio di quello di qualsiasi altra nazione. Lo stato con il numero pro-capite più alto di immatricolazione è il Wyoming.
Saluto il Wyoming e di conseguenza il Redoubt. Lontano dai maggiori centri abitati l’America Redoubt è un manifesto vivente al diritto di possesso delle armi. Si respira, si coglie, si osserva la voglia di libertà, incastonata negli spazi maestosi di questa America dell’ultima frontiera.
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Anche il Dakota, sia il Nord che il Sud, sono Stati che potrebbero tranquillamente identificarsi e far parte dell’America Redoubt. La mentalità, lo spirito che li avvolge e lo stesso di quello del Wyoming, del Montana e Idaho, ma per i patrioti del Redoubt i territori del Dakota pongono, tatticamente parlando, un problema non indifferente: le enormi praterie, che il larga parte dominano un territorio povero di grandi catene montuose e di fitte foreste, sono del tutto inadatti alla guerriglia armata. Non danno sufficiente protezione da artiglieria pesante, carri armati e larghi gruppi di combattenti. In contrasto foreste, montagne e la conoscenza intima di esse offrono agli altri stati un vantaggio indubbio, soprattutto in presenza di un nemico più numeroso e meglio armato.
Ormai con la macchina ho raggiunto e sto attraversando le Montagne delle Colline Nere (Black Hills). Questa area geografica del Sud Dakota è una delle più storiche e significative degli Stati Uniti, per varie e importanti ragioni. E qui che Mount Rushmore è collocato. Qui c’e anche la montagna dedicata a Crazy Horse (Cavallo Pazzo) ed è sempre qui, fra i picchi e le foreste delle Colline Nere, che aleggiano i fantasmi storici di un passato mai dimenticato e ancora controverso. Le colline nere sono considerate montagne sacre per gli indiani della tribù Lakota. I Black Hills (Paha Shapa) rappresentano la storia e la tradizione dei popoli nativi di questa area geografica. Nel 1776 gli indiani Lakota-Sioux conquistarono a spese della tribù dei Cheyenne questo territorio. Il 1776 è un anno significativo; fu anche l’anno della Dichiarazione di Indipendenza che di fatto segnava la nascita degli Stati Uniti D’America. La stessa data, due aree geografiche lontane, due entità politiche separate, diverse e aliene fra di esse, che però, per l’ineluttabilità del destino, si incroceranno e si scontreranno nel futuro.
Attraversando le Colline Nere arrivo a un paesino che si chiama Custer. L’ultima volta che ci ero passato, motivato dal consiglio di un’amico, mi sono fermato in un ristorante per assaggiare “Il miglior Barbecue D’America.” Dakota BBQ è un posto piccolo, niente di sofisticato, ma leggendario fra i buongustai, gli amanti della carne al barbecue. Purtroppo questa volta però dovrò rinunciare al miglior barbecue del mondo; il tempo a disposizione è poco e la strada che mi attende lunga. Do un’occhiata all’orologio; segna le 11:30, la mia corsa continua…
Il paesino di Custer evoca un pezzo di storia importante per gli Stati Uniti. Il paese prende il nome dal famoso ufficiale militare, George Armstrong Custer, comandante del Settimo Cavalleria. Settant’anni dopo l’epico viaggio di Lewis e Clark, che risalendo il fiume Mississippi, attraversarono il Continental Divide, diventando i primi americani ad entrare nei territori dell’Ovest, nel 1874, una spedizione militare comandata dal Tenente Colonnello Custer, partendo dal Forte Abraham Lincoln, sulla riva occidentale del fiume Missouri, in quello che oggi viene chiamata la capitale del Nord Dakota, Bismarck, si avventurò alla scoperta delle Colline Nere. Ufficialmente il governo degli Stati Uniti aveva incaricato Custer di intraprendere la spedizione con l’obiettivo di trovare un luogo adatto per insediare un nuovo forte militare. Ma Custer aveva anche l’obiettivo di accertare se le voci di una possibile presenza di vene d’oro nelle Colline Nere era veritiera. Così, partendo il 2 luglio 1874, l’eroe della guerra civile, George Custer, guidò il Settimo Cavalleria e un gruppo di spedizione di oltre mille uomini alla scoperta delle Colline Nere. Custer era convinto che le Colline Nere sarebbero state fonti di una vasta riserva aurea utile alla prosperità della nuova nascente nazione degli Stati Uniti D’America.
L’interesse degli americani per le Black Hills e la spedizione di Custer, procedeva in violazione del trattato firmato a Fort Laramie, nel 1868, che garantiva ai Sioux “uso e occupazione assoluta e indisturbata” dell’intera area delle Colline Nere. La spedizione nelle Black Hills gettò le basi per la conseguente “invasione” dei pionieri, dei coloni alla ricerca dell’oro; fu uno dei fattori scatenanti l’ultima guerra indiana, la guerra delle grandi praterie fra i Sioux e gli Americani. L’ultimo capitolo di un conflitto che spense la luce della libertà delle popolazioni native d’America. Ironia della sorte; è la stessa luce che va lentamente estinguendosi anche sui patrioti americani in questo ventunesimo secolo, patrioti travolti dal cambio epocale demografico e generazionale.
Durante la spedizione di Custer, fu eretto l’accampamento principale del settimo cavalleria nello stesso luogo dove oggi sorge il paese. E sempre nello stesso luogo, tramite una foto storica, Custer veniva immortalato, dopo una battuta di caccia con la sua preda, un orso grizzly.
Oggi, la popolazione delle Black Hills è composta principalmente dagli abitanti delle riserve indiane e da quelli della base aerea militare di Ellsworth; in più tanti turisti che, soprattutto d’estate, vengono a visitare questi luoghi leggendari. L’economia delle Black Hills è così passata dallo sfruttamento delle risorse naturali (miniere e legname) all’industria del turismo e dell’ospitalità.
Di solito passato Custer e la città di Rapid City, per raggiungere Bismarck, dovrei dirigermi verso nord attraversando le vasti praterie del Dakota. La strada mi porta a percorrere le riserve indiane delle tribù dei Cheyenne e di Standing Rock. Questa ultima tribù, due anni fa, salì alla ribalta delle cronache mondiali, quando i nativi, sostenuti da migliaia di attivisti ambientali, organizzarono una protesta, in larga scala, contro il gasdotto Dakota Access Pipeline (DAPL). Per i nativi di Standing Rock, i lavori del gasdotto violavano il territorio sovrano e sacro della riserva indiana. Il DAPL, anche conosciuto come Bakken, è un oleodotto sotterraneo lungo 1.172 miglia (1.886 km). Inizia nei giacimenti petroliferi di Scisto della formazione Bakken, nel Nord Dakota, e continua attraverso il Dakota del Sud, lo Iowa, fino al terminale petrolifero a Patoka, nell’Illinois. Insieme al gasdotto di trasferimento di petrolio greggio da Patoka a Nederland, in Texas, forma il sistema Bakken. La Costruzione del DAPL , un progetto da 3,78 miliardi di dollari, iniziò nel giugno 2016. Nonostante la massiccia protesta, che bloccò temporaneamente la costruzione del gasdotto, DAPL fu completato nell’aprile 2017, diventando operativo nel Giugno 2017.
Questa volta però mi dirigo verso est, invece che a nord; una deviazione dal mio tragitto originale con un chiaro obbietivo. Mentre la macchina continua la sua corsa, lo scenario cambia dalle montagne delle Colline Nere, alle pianure e dolci colline delle praterie del Dakota. Mi fermo ad una piccola stazione di servizio nel mezzo del niente; il nucleo urbano è composto, letteralmente parlando, da quattro, cinque case: Hayes, popolazione 77 abitanti recita il cartello al suo ingresso. Devo riempire il serbatoio e rifocillarmi un momento. Entro nella stanzetta del minimarket, anche se descriverlo così sembra eccessivo. Il commesso dietro il banco mi saluta: “Come stai? Tutto a posto?” “Si grazie” rispondo. Il commesso è probabilmente anche il proprietario della “stazione”. Un uomo sulla trentina, cappello, camicia, jeans, stivali e cinturone da cowboy. Mi ricorda una giovane versione dello Sceriffo più duro e controverso D’America: il Capitano Clay Higgins il quale dopo la pensione fu eletto al Congresso Americano come rappresentante Repubblicano della Louisiana.
Solo ora mi accorgo che al lato del cinturone, il cowboy ha una fondina con dentro la pistola. Incuriosito gli domando: “Ci sono rischi di rapine in questo posto isolato?” “No, perché?” Mi risponde. “ Niente, solo curiosità”. Sotto la giacca, la mia Sig 357, fedele compagna, che porto con me ogni volta che viaggio, grida vendetta. In California sarebbe culturalmente inaccettabile mostrare un arma in pubblico. Col gomito accarezzo il lato della giacca, avvertendo il rigonfiamento della mia pistola. Questo mi porta conforto e mi fa sentire meno solo nelle sconfinate pianure del Dakota. Mentre attendo che la cassa elabori i dati della mia carta di credito, noto un cartello affisso al muro, dietro il bancone, incuriosito leggo : “Troppo sangue versato. Siamo una potenza costituzionale non una potenza imperiale!” Deduco che il sangue versato sia riferito alle guerre combattute dall’America in questi ultimi vent’anni. Mi piacerebbe porre una domanda al Cowboy commesso, ma il tempo stringe e la tabella di marcia mi impone di proseguire il mio viaggio.
“Da dove vieni?” Mi chiede il cowboy mentre, dopo aver firmato la ricevuta, raccolgo dal banco, la bottiglia d’acqua e le noccioline acquistate. “Dalla California” gli rispondo. Lui mi guarda dritto negli occhi senza accennare ad un minimo di inflessione emotiva. “Ti sei perso nelle praterie?” Mi chiede. “No, Sono sulla strada per Bismarck vado a trovare mio figlio all’Università”.
Esco dalla stazione di servizio, improvvisamente un vento gelido mi avvolge. L’assenza di rilievi montagnosi significativi e la latitudine, lasciano esposte le praterie del Nord e Sud Dakota ai venti polari provenienti dal Canada. Siamo ad Ottobre e mentre in California imperversa l’estate indiana, con temperature ben oltre i 30 gradi, in Dakota l’inverno è ormai arrivato.
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L’OMBELICO DEL MONDO
“Qual è il dovere più sacro e la più grande fonte di sicurezza per la Repubblica? Un inviolabile rispetto della Costituzione e delle leggi”
“Ciao Gianfranco, piacere di conoscerti” mi porge il benvenuto Vince. Il primo scambio è cordialmente positivo. Si avverte la sensazione di mutuo e reciproco rispetto. “Vince, il piacere è tutto mio.” rispondo.
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“Vai a trovare Vince” mi aveva suggerito George prima di lasciare il suo ranch in Wyoming. Una veloce telefonata fatta da George, per confermare se Vince fosse disponibile, mi aveva convinto ad effettuare una piccola deviazione sulla strada verso Bismarck per conoscere uno degli amici più cari di George.
L’amicizia tra Vince e George è di vecchia data. George era un giovane poliziotto appena arruolato nelle forze dell’ordine, Vince invece era un professore di storia in una delle più prestigiose e conosciute università della California. Secondo la versione dei fatti, che diverge leggermente a secondo di chi la racconta, Vince era in macchina mentre andava al lavoro e George era di pattuglia. George fermò Vince per notificargli una multa per eccesso di velocità. “Non l’ho multato, gli diedi semplicemente un avvertimento” sostiene George. “Mi multò per eccesso di velocità, andavo solo 15 miglia oltre la soglia del limite” sostiene tuttora Vince. Comunque sia quell’incontro fu l’inizio di un’amicizia che dura ormai da oltre 40 anni.
Vince, durante la sua lunga carriera, ha insegnato storia a migliaia di studenti, ma proprio come George, un giorno Vince si ritrovò sopraffatto dal futuro e relegato in un passato che non esisteva più. La sua colpa? Aver scritto una recensione accademica sulla “pericolosa” erosione dei valori della costituzione americana. Vince denunciava il numero sempre più alto di istituzioni e cittadini americani che non sapevano piu interpretare l’essenza della costituzione, ignorando completamente il suo significato e i rispettivi contenuti. Vince attribuiva la decadenza dei valori costituzionali, tanto cari ai padri fondatori e ai patrioti americani, a vari motivi. Principalmente tre. Primo, la sempre più crescente macchina amministrativa, burocratica che snatura il concetto costituzionale di “limited government.” Secondo, la crescente mancanza di insegnamento didattico storico sull’importanza dei valori costituzionali. Terzo, la connessione tra l’immigrazione moderna e l’erosione del rispetto, la conoscenza, l’intendimento dei concetti cardini della costituzione, in particolare quelli ribaditi nel secondo emendamento. Questo ultimo punto creò una levata di scudi da parte di varie entità accademiche e mediatiche che si precipitarono a definire lo scritto di Vince razzista. Vince aveva più volte cercato di chiarire la sua posizione: “La mia affermazione era neutrale, non era un giudizio pro o contro l’immigrazione, ma piuttosto una semplice constatazione dei fatti”. Vince sosteneva che la massiccia immigrazione moderna, proveniente principalmente dai paesi latini e asiatici è intrinsecamente diversa da quella del passato “L’immigrato in quanto tale, indipendentemente da dove proviene è sempre degno dei diritti e delle opportunità che gli Stati Uniti offrono”
Secondo Vince, il logorio del rispetto nei riguardi del secondo emendamento in Stati dell’unione come la California e New York è dovuto anche al fatto che i nuovi immigrati sono estranei ai valori legati al concetto di possesso delle armi. La maggior parte arriva da paesi avversi alla cultura delle armi. “Non è una filosofia giusta o sbagliata, ma semplicemente la constatazione che nella stragrande maggioranza dei casi, i nuovi immigrati che arrivano negli Stati Uniti sono estranei al diritto del possesso alle armi, provengono da culture in cui l’equivalente del nostro secondo emendamento non esiste. Non comprendono né la necessità, né la ragione di possedere le armi.”
La parte meno compresa del secondo emendamento è il significato, lo spirito, al di là del possesso fisico delle armi, che il secondo emendamento rappresenta: “Il secondo emendamento garantisce di fatto l’opzione del cittadino alla ribellione, alla rivoluzione. ll secondo emendamento, non è stato scolpito dai Padri Fondatori nel testo della costituzione per garantire il diritto del cittadino di andare a sparare al poligono, di andare a caccia, oppure di proteggersi dai criminali; queste sono le conseguenze naturali delle quali il cittadino beneficia. La vera ragione dell’esistenza del secondo emendamento è quello di garantire un baluardo, un dissuasore contro la nascita di un governo, di un’entità sovrana ostile alla costituzione stessa. I Padri Fondatori si sono preoccupati di codificare i diritti alle armi nella costituzione con una sola ragione in mente: offrire al cittadino gli strumenti necessari per opporsi, se desidera, ad una dittatura tirannica.” Sostiene Vince. Ad avallare questo concetto essenziale, primario, nella costruzione della costituzione americana, si può portare come esempio la collocazione stessa del secondo emendamento, nella stesura del dettato. Il primo emendamento afferma il diritto alla parola e alla libertà di espressione “Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscono la libera professione; o che limitino la libertà di parola, o di stampa; o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti.” Il secondo emendamento afferma il diritto al possesso delle armi. In altre parole; se il diritto al primo emendamento venisse meno, il secondo diventa garante e baluardo del rispetto del primo emendamento. Il due emendamenti sono interconnessi; il lento, inesorabile sgretolamento di questi due emendamenti porterà alla fine della repubblica a stelle e strisce; il tempo segna l’ora tarda della Repubblica Americana; l’ora della rivoluzione e della ricostruzione di una nuova entità. Una realtà fondamentalmente diversa da quella attuale. Il destino della Repubblica è ormai incanalato su binari che non si possono deviare…Mi vengono in mente le parole di alcuni dei Padri Fondatori, su tutti Alexander Hamilton, Samuel Adams e George Washington: “Qual è il dovere più sacro e la più grande fonte di sicurezza per la Repubblica? Un inviolabile rispetto della Costituzione.” “Se mai dovesse venire il momento, quando uomini vanitosi e ambiziosi avranno i posti più alti nel governo, il nostro Paese avrà bisogno dei suoi patrioti per impedirne la sua rovina.” “Il governo non è intelletto, non è eloquenza, è solo forza. Come il fuoco, è un servo pericoloso e un temibile padrone.“
Due giorni dopo la pubblicazione dello scritto, Vince fu chiamato a rapporto dal rettore dell’università per chiedere chiarimenti su alcuni dei concetti più” controversi” espressi nel suo saggio. Poiché era professore di ruolo, al rettore dell’Università mancavano le basi per poter licenziare Vince. “Probabilmente neanche il rettore credeva che il mio ‘peccato’ fosse degno di questa sollevazione di scudi. Ma anche lui dovette cedere all’impeto critico al quale fu soggetto il mio scritto.”
Come conseguenza del suo saggio Vince fu oggetto di minacce alla sua incolumità. Lettere minatorie arrivavano a decine ogni giorno, sia nel suo casellario postale all’Università, sia a casa. Una scritta sul muro dell’Università lo accusava di essere razzista e la macchina gli fu rigata più volte nel parcheggio dell’università stessa. Tutto ciò convinse Vince, dopo tanti decenni di insegnamento, ad appendere i libri al muro e andare in pensione; era il 22 Aprile 1998.
***
Seduti nel salone di Vince ci gustiamo il tè che sua moglie ha preparato. Il salone è di fatto una libreria privata; i muri sono ricoperti da scaffali pieni di testi. “Quanti sono?” Chiedo a Vince guardando gli scaffali. “Fino a qualche anno fa avevo una collezione di 1322 libri, oggi me ne sono rimasti 543”
Vince ha raggiunto e superato la ottantina d’anni anche se ne dimostra non più di 70. ”Sembra più vecchio George, nonostante abbia una decina di anni in meno”, rivolgo un complimento a Vince ridendo. “George ha vissuto una vita sempre sul filo del rasoio; sparatorie, inseguimenti, botte, arresti, insulti, umiliazioni, divorzi, fallimenti; ha combattuto contro tutto e tutti a volte anche con chi gli era amico. Andare in pensione e lasciare la California per il Wyoming, circondandosi di terra, aria, animali e libertà gli ha sicuramente prolungato la vita” Risponde Vince.
“Perché il Sud Dakota?” domando schiettamente a Vince. “Mia moglie è originaria di Sioux Falls, ci incontrammo all’università di Berkeley dove si era trasferita a studiare e da allora non ci siamo più lasciati. Quando andai in pensione si presentò l’opportunità di comprare un appezzamento di terra e una casa qui a Highmore, dove il fratello buonanima, di mia moglie viveva.” Risponde Vince. Tra la terra del cognato e quella di sua proprieta, intorno ai 110 acri (oltre 44 ettari) negli ultimi vent’anni, Vince ha coltivato e prodotto tonnellate di Mais e Soia. Vince ora è in pensione per la seconda volta, la terra è stata data in gerenza ad una compagnia che produce il mais, “la stessa a cui vendevo il mais” precisa Vince. Gli Stati Uniti sono il primo produttore al mondo di mais, il Sud Dakota il sesto stato dell’unione per la produzione di mais.
Highmore, il centro abitato dove vive Vince, si fa fatica a chiamarlo paese. Highmore è la “capitale” della Contea di Hyde. Gli elettori della Contea di Hyde hanno votato repubblicano sin dalla creazione dello stato del South Dakota. In sole due elezioni hanno votato democratico: quelle di Franklin D. Roosevelt nel 1932 e Lyndon B. Johnson nel 1964.
Il censimento ufficiale dice che a Highmore vivono 795 persone. In totale nella contea vivono 1280 persone. L’estensione della contea di Hyde è di 2240 chilometri quadrati. Per fare un paragone è più o meno della stessa estensione della provincia di Latina. Hyde sta lentamente scomparendo; nel 1930 la popolazione era di 3690 abitanti. Da allora, anno dopo anno, la contea ha visto calare demograficamente la popolazione. Rispecchia una tendenza ormai consolidata nel paese. Le contee a maggioranza di cittadini bianchi vanno lentamente scomparendo se non sono rimpiazzate da immigrati provenienti da altri Stati dell’Unione o da altri paesi del mondo. Generalmente parlando, la popolazione degli Stati Uniti è sempre in crescita, ma in posti dove l’immigrazione non arriva, il basso tasso di natalità è una condanna certa per il futuro. “D’altronde” dice Vince ”se non sei dedito alla coltivazione e/o all’allevamento, per i giovani qui non c’è niente…”
Nonostante tutto, Highmore è salito alla ribalta nazionale nel giugno del 2019, quattro mesi prima della mia visita a Vince. Infatti uno dei motivi di questa mia deviazione non era solo il desiderio di conoscere Vince, ascoltando in prima persona la sua personale storia di fuga verso l’ultima frontiera, ma anche la curiosità di visitare un piccolo centro abitato della praterie del Dakota, diventato, tutto di un colpo famoso e proiettato sulla ribalta della politica nazionale. Highmore, questa comunità minuscola, per qualche ora, si è ritrovata al centro dell’aspro scontro politico-sociale in atto di questi tempi di tardo impero americano. In un istante Highmore si è scoperta al centro del mondo: “Preferire chiamarlo l’ombelico del mondo, definirlo centro è esagerato; alla fine siamo solo un buco nel mezzo della prateria. Passata la sbornia mediatica, siamo tornati ad essere un buco…grazie a Dio…” specifica Vince.
Ogni Giugno, in questa centro abitato, si tiene la celebrazione annuale della giornata dei Coloni di Highmore. Un evento celebrativo per radunare tutti insieme i cittadini della contea e dare la possibilità anche agli espatriati da questa contea, che vivono in altri stati, di rientrare e celebrare la cultura e lo spirito delle praterie. Il Giugno passato però è stato particolare; era la celebrazione del cinquantesimo anniversario della giornata dei coloni. A renderla più vivace e “controversa” ci ha pensato un cittadino di Highmore; Jeff Damer. In uno dei carri della parata celebrativa ha pensato bene di mettere una gabbia con dentro due persone con le maschere rispettivamente di Hillary Clinton e Barack Obama. Al di fuori della gabbia un’altra persona con la maschera di Donald Trump a simboleggiare l’arresto e l’imprigionamento di Obama e Clinton per mano dello “Sceriffo” Trump. Inutile dire che in questi tempi di estrema sensibilità sociale e politica, il simbolismo del carro ha toccato un nervo delicato in questa America che naviga sull’orlo di una guerra civile.
I grandi network come la CNN e il mondo dei social media si sono improvvisamente accorti dell’esistenza di questo “ombelico del mondo” riversandosi nelle praterie del Dakota per comprendere meglio “l’odio” che spinge questi “trogloditi” a fomentare il loro razzismo, misoginismo e anticonformismo…
“Ci conosciamo tutti qui, incluso Jeff, un bravo ragazzo, che non si aspettava di certo una reazione del genere..Nessuno mai si era preoccupato di sapere cosa succedesse in questa terra di frontiera…” esclama Vince. “Per qualche giorno mi sembrava di essere tornato in California, con l’ossessione del politicamente corretto che mi ha tormentato negli ultimi anni della mia carriera…Ho avuto flashbacks che mi hanno impedito di dormire per un paio di notti quasi fossi afflitto da disturbo da stress post-traumatico” dice Vince con tono mesto. “Grazie a Dio così come erano improvvisamente apparse le orde urbane-radical chic, così si sono dileguate, un paio di giorni dopo. Qui vive tutta brava gente e desidera solo essere lasciata in pace. Molti nella comunità, dopo la parata, da Jeff al Sindaco del paese, hanno subito minacce di morte. La maggior parte di queste minacce arrivavano da soggetti che vivono in altri stati, come la California.” continua Vince. “Quello che questa gente non riesce a comprendere è il significato stesso del primo emendamento: Libertà di espressione e di parola vuol dire letteralmente quello. I Padri Fondatori non hanno lasciato dubbi. Qualsiasi opinione, per quanto odiosa possa essere, e` protetta dalla Costituzione. Fra l’altro ciò che è detestabile per me potrebbe essere apprezzato da qualcun altro. Il vero lascito al rispetto della libertà di parola non è quando scambiamo opinioni ed esprimiamo concetti con coloro con i quali ci troviamo d’accordo, ma quando ci confrontiamo con chi detestiamo per le idee che esprimono. Non dobbiamo condividerle ne ascoltarle quelle idee, ma dobbiamo rispettare la libertà di chiunque di esprimerle” dice Vince. “Quello che è successo lo scorso Giugno ha convinto molti di Highmore che anche nelle nostre praterie la libertà concessa dalla Costituzione è ora minacciata da forze sovversive che fino a qualche anno fa erano relegate alle zone metropolitane e universitarie, soprattutto in stati come la California e New York. Qui la gente ha perso un certo senso di innocenza e si ritrova ora a meditare sul proprio futuro. Molti sono venuti in pellegrinaggio a casa mia per chiedere consiglio e ascoltare la mia esperienza. Ho ricordato a loro che quello a cui hanno assistito, sperimentato, io e mia moglie lo avevamo già vissuto vent’anni fa. Prima di questa storia che ha travolto e stordito il nostro paesino, guardavo alle milizie civili armate del Montana o del Wyoming con un certo disinteresse; le ritenevo francamente troppo radicali e fanatiche. Ora purtroppo in Highmore si sente più di qualcuno che vorrebbe creare anche qui un reggimento miliziano. Ci sentiamo con le spalle al muro. Non vivrò abbastanza a lungo da assistere alla sfracello di questo paese e di questo ne sono riconoscente a Dio. Ma nel futuro tutto sarà diverso: La nostra cara amata nazione non esisterà più e se continuerà sarà in una forma completamenta diversa da quella attuale.” la voce di Vince è tremolante, quasi sull‘orlo del pianto.
“Ti vuoi fermare per cena?” mi chiede Vince. “Ti ringrazio, apprezzo l’invito, ma devo declinare; sono già le sette di sera e devo ancora arrivare a Bismarck.” gli replico. “Ti posso donare un libro per farti compagnia?” mi chiede Vince. “Sei molto gentile Vince ma io non leggo quasi più i libri cartacei; preferisco gli audio ebook sul kindle, cosi anche quando sono in macchina posso ascoltare la narrazione, ma sono interessato a conoscere la tua raccomandazione su qualcosa da leggere” dichiaro con curiosità. “Washington’s Crossing di David Hackett Fischer” Risponde Vince
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Sei mesi dopo la Dichiarazione di Indipendenza, il sogno della rivoluzione americana stava già sfumando. Le forze britanniche aveva sbaragliato gli americani a New York, occupato tre colonie ed erano ormai ad un passo da Filadelfia. La notte di Natale del 1776 George Washington era sul punto di perdere la Guerra Rivoluzionaria. Le truppe continentali erano scoraggiate e quasi sconfitte. Il resto dei patrioti americani avevano perso fiducia nelle capacità militari-tattiche di Washington. Il generale Joseph Reed, uno degli ufficiali più vicini a Washington aveva cospirato contro di lui. Uno dei comandanti di Washington, Charles Lee era stato catturato due settimane prima dagli Inglesi. Il Congresso stesso aveva abbandonato Filadelfia rifugiandosi a Baltimore per sfuggire all’avanzata inglese.
Qualche mese prima, a luglio, nel preciso istante della dichiarazione di indipendenza, George Washington comandava una forza di 20,000 truppe per lo più male addestrate contro 32,000 soldati Britannici altamente addestrati, disciplinati e bene equipaggiati. Sconfitta dopo sconfitta, molti dei soldati continentali erano tornati a casa o avevano disertato raggiungendo le truppe britanniche. Con soli 5000 uomini rimasti, in quella fredda e ventosa notte di natale del 1776, George Washington stava guardando dritto alla disfatta che incombeva. In quella notte di Natale George Washington si sarebbe giocato la sua ultima e decisiva carta. In quella notte la battaglia di Trenton entrerà nella storia come quella che cambierà le sorti della Rivoluzione Americana.
Alle sue truppe esauste e demotivate George Washington aveva letto, tre giorni prima, lo scritto di Thomas Paine: “Questi sono i tempi che provano le anime degli uomini: il soldato estivo e il patriota di un giorno, in questa crisi, si defila nel servire il proprio paese; ma chi lo sostiene ora, merita l’amore e il ringraziamento dell’uomo e della donna. La tirannia, come l’inferno, non si sconfigge facilmente; tuttavia ci portiamo dietro questa consolazione: più difficile è il conflitto, più glorioso è il trionfo.”
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L’orologio segna le 20:20, ancora tre ore e mezzo mi separano dalla mia destinazione finale: Bismarck. Mentre la macchina attraversa le praterie del Dakota, non c’è più nessuno sulla strada. A parte i mie fari, il buio è totale, le poche macchine che ogni tanto incrocio bucano fugacemente la notte. Il forte vento freddo lo avverto nel controllo dello sterzo; la macchina di tanto in tanto sbanda leggermente e richiede massima concentrazione nella guida.
Nella fredda e ventosa notte delle praterie rifletto sul mio viaggio che involontariamente si è trasformato in un’odissea nell’ultima frontiera americana: Vince fu il precursore di George e di tanti altri personaggi che come loro si sono ritrovati improvvisamente tagliati fuori da una società che stava rapidamente cambiando.
Molti anni prima che esistesse il Redoubt Americano, George e Vince si sono trasformati, giocoforza, in una sorta di nuovi pionieri alla ricerca di una nuova frontiera che gli permettesse di sfuggire all’onda inesorabile del cambiamento epocale in atto nella società americana. Quello che ha catapultato Highmore alla cronaca nazionale è un riflesso della guerra di pensiero e delle divisioni politiche che affliggono gli Stati Uniti odierni. Ormai nessuno ne è immune, neanche “un buco nel mezzo delle praterie.” Lo scontro fra forze opposte: da un lato quelle elitiste, progressiste-globaliste che cercano di cambiare, trasformare, un modo di pensare e di vivere radicato nel “passato” e dall’altro una parte della società, sempre più minoritaria, che cerca di aggrapparsi e tenere in vita quelle tradizioni, soprattutto costituzionali, sempre meno importanti in questa America del ventunesimo secolo. L’onda trasformatrice, picconatrice dei valori costituzionali, che partendo dai centri di potere amministrativo, finanziario, mediatico, filosofico e didattico ha trasformato la repubblica americana in una impero globalista, sta ora bussando alle porte degli stati del redoubt e della praterie della frontiera americana. Gente come Vince e George che anni prima era fuggita per evitare di essere travolta completamente da quell’onda, ora si ritrova a guardare, dalle montagne del Wyoming o dalle praterie del Dakota, lo tsunami che all’orizzonte avanza inesorabilmente. Con le spalle al muro non hanno più dove andare a ripararsi. Quando George disse che quella di casa sua sarebbe stata la collina di armageddon, l’ultimo suo atto, non scherzava affatto…L’orizzonte si oscura, i cieli annunciano la burrasca…
Questi sono i tempi che mettono alla prova l’animo degli uomini…
VERSO LA GUERRA CIVILE. IL TRAMONTO DELL’IMPERO USA
(Terza Parte)
UN CAMBIAMENTO EPOCALE
“Lo scopo della costituzione e` limitare il potere del governo federale non quello dei cittadini americani”
La sala riunioni è affollata. Gente in fila che preme per entrare nel ginnasio di una scuola (Horizon Middle School) di Bismarck. La fila di persone si snoda sin oltre il portone di entrata. Dentro la sala tutte le sedie sono occupate e molti sono appoggiati ai muri in piedi. Non avverto per ora la tensione che mi sarei aspettato per un dibattito così saturo di tensione politica e sociale. Mi accomodo nella terzultima fila in fondo la sala. Prima di entrare nel ginnasio, mentre ero in fila, ho scambiato due battute con un cittadino di Bismarck: Jim è un uomo sulla cinquantina, mi invita a sedermi accanto; ci sono anche la moglie, Mary e un amico di Jim, Greg. Siamo tutti coetanei, anche loro attenti a partecipare alla pubblica riunione. Jim è un imprenditore, ha una ditta di costruzione e scavi; la moglie e i due figli lavorano con lui. Mentre parlo con Jim, osservo con la coda dell’occhio Greg. Un uomo dai lineamenti duri, rughe scavate nella pelle come se fossero dei canali di irrigazione. Occhi blu profondi, capigliatura spessa, barba lunga. La stazza e` imponente; ad occhio e croce Greg svetta a oltre un metro e novanta e supera abbondantemente i 100 chili. Sotto la camicia pesante da cowboy, non intravedo grasso; deduco che la stazza di Greg è per la maggior parte composta da muscoli. Le mani sono grosse come pale meccaniche e nel momento di stringerle le ho sentite callose e ruvide. L’insieme mi lascia pensare ad un uomo temprato da un lavoro duro e faticoso. Mi giro verso Greg e gli domandò: “hai terra?” “Si ho terra, animali e un ranch” mi risponde. Un tema ricorrente quello della terra, dei ranch e degli animali, in questa landa americana dell’ultima frontiera, rada di popolazione, quasi a simboleggiare gli immensi spazi sconfinati, posizionati alla periferia del mondo metropolitano, caotico e decadente della civiltà occidentale.
“Cosa ha spinto tuo figlio a iscriversi all’università di Bismarck?” Mi chiede Jim incuriosito. “Ha vinto una borsa di studio dall’università di Bismarck e quindi ha deciso di frequentare l’università in Nord Dakota” rispondo. Aggiungo: ”Infatti ha accettato con molte riserve l’offerta da Bismarck, l’ho convinto dicendogli che se non andava dove gli offrivano una borsa di studio, il costo dell’Università sarebbe stato per me decisamente proibitivo e di conseguenza avrebbe dovuto vedersela da solo.” “ Povero ragazzo cresciuto e nutrito al sole della California, finito nella ‘tundra’ del Dakota…” Scherza Jim.
Sul palco di fronte alla platea sono seduti i commissari della contea di Burleigh, dove si trova la capitale del Nord Dakota; Bismarck. Jim con il dito mi indica i commissari identificandoli per nome e cognome: Brian Bitner, Jerry Woodcox, Mark Armstrong, Kathleen Jones e Jim Peluso. Mi guardo intorno alla platea, osservo nel volto dei partecipanti alla riunione il tratto della società di questa ultima frontiera americana. Gli uomini e le donne che mi circondano rappresentano i cittadini del Nord Dakota e proprio come quelli del Sud Dakota e degli Stati del Redoubt Americano, sono ancora a maggioranza tradizionalmente bianca, una realtà che rappresenta una america che va velocemente scomparendo. Nel resto degli stati dell’Unione, oltre questa terra da ultima frontiera, la composizione della popolazione americana è cambiata drammaticamente negli ultimi due decenni.
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Sin dall’insediamento di Jamestown nel 1607 e dallo sterminio dei popoli nativi, gli Stati Uniti sono stati prevalentemente a maggioranza bianca. I bianchi rappresentavano nel 1950 intorno all’88% della popolazione statunitense. Nel 2018 sono scesi al 60%. Scenderanno al di sotto del 50% nei prossimi 10-15 anni. Già ora i non bianchi rappresentano più della metà delle popolazioni delle Hawaii, del Distretto di Columbia (Washington), della California, del Nuovo Messico, del Texas e del Nevada. “Resistono” gli stati dell’ultima frontiera americana; Idaho, Montana, Wyoming, North Dakota, South Dakota, ma e una resistenza simbolica, dal destino segnato.
Altro dato interessante; nel 2020 si prevede che negli Stati Uniti ci saranno più nascite di bambini non bianchi rispetto a bambini bianchi. Nel 2015, per la prima volta, negli Stati Uniti ci sono stati più decessi che nascite di persone bianche. Gli stati con il numero più alto di morti di bianchi rispetto alle nascite includono la California, la Florida, la Pennsylvania e il Michigan.
Il cambiamento demografico negli Stati Uniti è una certezza, un destino segnato che renderà la razza bianca minoritaria; porterà cambiamenti epocali nella composizione politica e ideologica della terra a stelle e strisce. L’America sta cambiando ed è un cambiamento senza possibilità di ritorno. La popolazione bianca sta velocemente scomparendo mentre aumenta la popolazione ispanica, asiatica e nera. Questo passaggio da una nazione in maggioranza bianca a una più diversificata sta avvenendo in alcuni luoghi degli Stati Uniti più rapidamente rispetto ad altri. Gli stati del Redoubt Americano e dell’ultima frontiera sono quelli che stanno cambiando molto più lentamente, ancorati, asserragliati ancora a una popolazione ed a una tradizione culturale e costituzionale che rappresenta il volto di una America smarrita, un concetto di un’america tradizionale incanalata ormai sul viale del tramonto.
L’onda del cambiamento sta bussando inesorabilmente e prepotentemente alle porte del Redoubt. Quel cambiamento che fino a 10 anni fa ancora eludeva l’ultima frontiera americana, ora si ritrova sotto le mura, alla soglia del cancello. Infatti non solo i grandi centri urbani o le zone costiere, ma anche stati limitrofi ai territori del Redoubt come il Colorado, si sono ormai trasformati completamente in una nuova entità. Il muro del Redoubt si sta lentamente ma inesorabilmente sgretolando e con esso l’America dell’ultima frontiera. L’unica domanda da porsi è se i patrioti del redoubt saranno disposti ad accettare questo cambiamento senza porre resistenza.
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La riunione trasformata in dibattito va avanti per circa quattro ore. I commissari prima discutono fra di loro e poi passano la parola al pubblico che ha il diritto, se desidera, di esprimersi apertamente al microfono ed esporre la propria opinione per cercare di convincere i commissari a favore o contro la ricollocazione dei rifugiati nella terre delle comunità del Nord Dakota. Alla mezz’ora di dibattito tra i commissari fanno seguito tre ore e mezza di interventi da parte dei cittadini di fronte al tavolo dei commissari e di fronte alla platea stessa. La lunga fila di cittadini in piedi, al centro della sala, aspetta diligentemente il proprio turno per esprimere il proprio parere di fronte ai commissari sperando di convincerli a votare contro o a favore della risoluzione di accettazione della quota di rifugiati. Negli occhi e nello sguardo di Jim, Mary e Greg intravedo il riflesso della emotività che questo tema crea nell’animo di molti cittadini di Bismarck.
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In seguito alla sconfitta degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, migliaia di vietnamiti furono trasferiti come richiedenti asilo negli Stati Uniti, per sfuggire all’avanzata del comunismo.
Il 13 aprile 1979, il procuratore generale degli Stati Uniti per l’amministrazione Carter, Griffin Bell, annunciò che, attraverso un ordine esecutivo, avrebbe concesso l’ammissione di migliaia di rifugiati dal Sud-Est asiatico e dai paesi del blocco sovietico negli Stati Uniti. Come risultato delle azioni di Bell, il numero totale di rifugiati che entrarono negli Stati Uniti raggiunse quell’anno oltre 65.000 (40.000 dal sud-est asiatico e 25.000 dal blocco sovietico). L’azione esecutiva dell’amministrazione Carter apriva la strada alla necessità di cementare una legge, una soluzione, che non fosse temporanea. Il continuo flusso di rifugiati all’indomani della guerra del Vietnam e le rivoluzioni comuniste nel sud-est asiatico generano un sostegno politico, da parte di ambedue i partiti (Repubblicano e Democratico), sulla necessità di rendere permanente, con una legge ed una riforma, l’ammissione di rifugiati negli Stati Uniti allargandone il numero. Alla fine del 1979 il Congresso approvò tale riforma all’unanimità: Refugee Act del 1980-S.643.
Il 18 marzo 1980, la legge fu presentata al presidente Jimmy Carter che la firmò aprendo definitivamente le porte ai rifugiati. La nuova legge si integrava con la legge sull’immigrazione e naturalizzazione datata 1965, creando anche un meccanismo per rivedere e adeguare le quote dei rifugiati per far fronte alle emergenze che via via si andavano a creare nel mondo. La legge cambiò la definizione di rifugiato stesso, conformando le leggi immigratori americane agli standard stabiliti dalle convenzioni e dai protocolli delle Nazioni Unite.
Dal 1980 ad oggi, cioè dal passaggio in legge del Refugee Act, che va aggiunto appunto alla riforma del 1965, gli Stati Uniti hanno ammesso più rifugiati di qualsiasi altro paese al mondo, oltre 3 milioni in totale. I rifugiati vanno aggiunti al numero degli immigrati legali, che dal 1980, è passato da meno di 15 milioni a 45 milioni. Un aumento vertiginoso spinto dell’immigrazione su larga scala dall’America Latina e dall’Asia, con una popolazione di origine straniera che si è attestata nel 2018 a 44,7 milioni. Agli immigrati legali vanno aggiunti quelli illegali che si calcola siano intorno ai venti milioni (stima per difetto).
Per anni gli stati, le varie contee e municipalità dell’Unione, si sono visti sdoganare un numero sempre più alto di rifugiati ricollocati dal governo federale nelle proprie giurisdizioni. Stati come la California, New York e Washington hanno accolto migliaia di rifugiati senza battere ciglio. Altri Stati soprattutto quelli del Redoubt e dell’ultima frontiera americana hanno, malgrado la loro reticenza, accolto i rifugiati senza aver strumenti a disposizione per opporsi. I cittadini dell’ultima frontiera americana hanno sempre espresso la loro disapprovazione al flusso migratorio nei loro stati, mentre i politici locali, siano essi democratici o repubblicani (maggioranza), si sono sempre adoperati per facilitare la ricollocazione dei rifugiati nei territori di loro competenza. Da una parte il governo federale, spalleggiato dai politici locali (di qualsiasi partito essi fossero) che impone agli stati dell’ultima frontiera le quote dei rifugiati pena la perdita di finanziamenti federali, dall’altro i cittadini che vorrebbero un maggior potere decisionale nella scelta di imporre quote di rifugiati nei propri territori, città, paesi e comunita`.
Negli anni, i flussi dei rifugiati ammessi negli Stati Uniti è oscillato tra alti e bassi a seconda degli scenari geopolitici mondiali e delle amministrazioni in carica alla Casa Bianca. Con l’avvento di Donald Trump due importanti fattori si sono creati. Il primo:Il numero massimo imposto dall’amministrazione Trump di rifugiati ammessi negli Stati Uniti è sceso al record più basso mai registrato, 18,000 nel 2019, ben al disotto dei 110,000 imposti da Obama nel 2016. Il secondo: Trump nel Settembre del 2019 ha firmato ed emesso un ordine esecutivo con cui, per la prima volta dal 1980, le agenzie che si occupano di reinsediamento di rifugiati devono ottenere il consenso scritto dai funzionari statali e locali in qualsiasi giurisdizione chiedono di collocare i rifugiati. In altre parole mentre prima i governi locali non avevano modo di opporsi sul numero di rifugiati che il governo federale assegna tramite le agenzie non governative, l’ordine esecutivo di Trump delega autorità decisionale e consente ai governi locali di accettare o meno i rifugiati e se disponibili a collaborare con le agenzie che si occupano dei rifugiati, decidere quanti rifugiati sono disposti a ospitare.
L’ordine esecutivo di Trump coniugato con il numero striminzito di rifugiati che l’amministrazione Trump è disposta a far entrare, ha reso difficile il lavoro delle agenzie non governative. Le lamentele e le cause intentate in corte per cercare, tramite i giudici, di bloccare l’ordine esecutivo di Trump, si sono moltiplicate. Catholic Charities, Hebrew Immigrant Aid Society, Lutheran Immigration and Refugee Service, Church World Service e tante altre organizzazioni che si occupano di rifugiati sono sul piede di guerra contro l’amministrazione Trump. Cio che queste organizzazioni però non colgono è l’altra faccia di una società che alla periferia dei grandi centri urbani e dei grandi stati liberal-progressisti, fondamentalmente è stanca di vedersi imporre decisioni dall’alto senza essere consultata.
Il decreto esecutivo di Trump ha dato voce ai patrioti che si oppongono all’immigrazione e ai rifugiati offrendo ai cittadini uno strumento da usare per mettere pressione sui politici locali. Prima di Trump i politici si nascondevano dietro la scusa che non potevano opporsi alle quote di rifugiati imposte da Washington nei loro territori. Ora quella scusa è stata rimossa; Trump ha prima abbassato le quote di ammissione di rifugiati nel paese e poi ha trasferito il potere decisionale nelle mani degli stessi enti locali. Il risultato è questa assemblea di cui sono testimone, resa necessaria per discutere e convincere i commissari della contea se accettare o meno i rifugiati.
Lentamente la gente in fila, uno alla volta, si presenta di fronte al microfono ed esprime pubblicamente la propria opinione sui rifugiati da collocare nella contea di Burleigh. Sorprendentemente molti di quelli che sono in fila esprimono un’opinione positiva e di sostegno ai rifugiati incoraggiando i commissari a votare a favore dell’insediamento. Jim con la testa, alzando il mento, indica in direzione delle persone in piedi in mezzo alla sala in attesa pazientemente del loro turno per parlare: “Vedi li riconosci da lontano; molti non sono neanche di Bismarck. Ci sono Immigrati, studenti universitari sottoposti al lavaggio del cervello dai propri professori universitari anche loro presenti in fila, in attesa di parlare ed impartire lezioni di comportamento a noi ‘ignorantoni.” Poi ci sono i rappresentanti di organizzazioni religiose che ci dicono che dobbiamo accettare tutti i rifugiati perché anche Gesù Cristo con la sua famiglia è stato un rifugiato. Se ci ostiniamo ad essere intransigenti ci dicono che andremo sicuramente all’inferno“ mi sussurra Jim all’orecchio. “ Ma all’inferno qualcuno di noi c’è già stato!” continua Jim rivolgendo lo sguardo verso Greg. Mi giro di lato e osservo Greg, ponderando le parole di Jim e chiedendomi che cosa intendesse per “all’inferno qualcuno c’è già stato”. Jim quasi come se leggesse il mio pensiero continua a parlare sottovoce “quando nel buio più totale che ti avvolge, nei momenti di disperazione che ti lacerano l’anima, l’unica consolazione che ti tiene a galla è quella di sapere che hai fatto tutto il possibile affinché il sacrificio delle persone a te più care non sia stato invano.Quando Greg ha perso suo figlio, appena ventenne militare in Iraq, queste organizzazioni religiose, caritatevoli, nonostante la tragedia, si sono viste poco o niente. Gli unici vicini a Greg sono stati i patrioti che stringendosi intorno alla famiglia l’hanno sostenuta e aiutata. Queste entità religiose ritengono meglio concentrarsi sui rifugiati perché portano denaro. Miliardi di dollari dei contributi che ogni anno vanno a riempire le casse di queste organizzazioni religiose o laiche. Ci sputo sopra e li vomito questi ipocriti”
Continua la parata delle persone che esprimono la loro opinione; ha ormai superato le quattro ore, le ultime tre ore e mezza sono state spese dando la possibilità al pubblico di esprimersi. La maggior parte della gente è rimasta seduta ad ascoltare con attenzione e rispetto. Ogni volta che al microfono si sentiva qualcuno esprimere un giudizio positivo, eloquentemente spiegando le ragione per cui si dovrebbero accogliere i rifugiati nelle terre del Dakota, la sala rumoreggiava. Un signore seduto di fronte a me continuava a muoversi nervosamente sulla sedia, quasi come se stesse combattendo internamente con un fuoco invisibile, cercando di domare uno spirito inquieto.
Proprio come era successo con Highmore; “l’ombelico del mondo”, i mass media come la CNN, il New York Times si sono, solo ora, accorti dei malumori espressi da questa ultima frontiera americana. Si sono presentati in massa a questa riunione in Bismarck. Ufficialmente è la prima volta, il primo dibattito pubblico, da quando Trump ha firmato l’ordine esecutivo, in cui un ente locale è chiamato, alimentato dall’impeto dei patrioti e cittadini, ad esprimersi sui rifugiati. Nei commenti dei giornalisti presenti si intravede una certa condiscendenza nei riguardi dei cittadini di Bismarck, a dimostrazione che i rappresentanti delle élite mediatiche e politiche di questo paese nutrono un disprezzo culturale nei confronti di una parte del popolo americano. Si può quasi leggere nella testa ciò che pensano: “…ma come si permettono questi mandriani retrogradi a sfidare le regole del buon senso comune…?”
Si susseguono gli interventi:
“Non siamo contro i rifugiati o gli immigrati, ma abbiamo i nostri veterani, i nostri senzatetto , gli alcolizzati e tossicodipendenti a cui pensare”
“Siamo una nazione che ha sempre accettato i rifugiati e gli immigrati”
“Stiamo parlando di un piccolo numero di persone che fuggono da guerre e disastri e hanno bisogno della nostra assistenza”
”Secondo le cifre ufficiali ogni rifugiato costa alla collettività dei contribuenti 65.000 dollari di spese necessarie per provvedere ai loro bisogni di base, come alloggio, cibo…”
Alla fine degli interventi i commissari si apprestano a votare. Il processo di voto è semplice e trasparente; i commissari vengono chiamati per nome e annunciano a voce il loro voto: Brian Bitner: No a i rifugiati. Un mormorio si alza in sala, con qualcuno che due file di fronte a me applaude convinto. Jerry Woodcox: Si a i rifugiati. “Vergognati!” Si sente qualcuno esclamare in sala. Mark Armstrong: Si ai rifugiati “Bravo Mark!” Una voce alla mia destra proclama la sua soddisfazione. “Mark ma che fai? Hai perso la testa? ” Chiede invece ad alta voce un uomo tre-quattro file avanti a me. Jim Peluso: No ai rifugiati. “ Way to go Jim! (E la strada giusta Jim)” dichiara una voce dietro di me. Kathleen Jones: Si ai rifugiati! Voto finale; tre a favore dei rifugiati due contro. Greg si alza di impeto dalla sedia che cade per terra ed esce dalla sala senza dire una parola. Mary stringe la mano al marito Jim e i due restano seduti a fissare un punto del muro alle spalle dei commissari. C’è chi applaude contento della decisione dei commissari, il resto, la maggioranza, si alza e in silenzio comincia a sfollare la sala; si avverte un senso di rabbia e delusione tra la maggior parte delle persone presenti. Un uomo si alza e camminando si avvicina al tavolo dei commissari, punta il dito verso di loro che sono rimasti seduti di fronte alla platea: “La Costituzione non autorizza il Congresso o alcun ramo del governo federale a fornire alcun tipo di assistenza sociale o aiuto finanziario supplementare agli immigrati o rifugiati.Lo scopo della costituzione è limitare il potere del governo federale non quello dei cittadini americani; con questa decisione andate contro la volontà dei cittadini di Bismarck, portate l’acqua per conto dei politici e degli apparati burocratici, vi allineate con gli interessi di queste agenzie sovranazionali, vergognatevi…!” Impreca l’uomo.
Mi rivolgo verso Jim e alzandomi chiedo se vogliono rimanere in sala ancora per molto. “No, siamo pronti ad uscire” mi risponde Jim, poi prosegue “ meglio andarcene, voglio vedere dove è andato Greg”. Io, Jim e Mary usciamo insieme dalla sala e dal tepore dei riscaldamenti, appena messo piede fuori, l’aria gelida mi colpisce come una lama di coltello al viso. Greg è in piedi appoggiato ad un camion nel parcheggio, presumo che sia il suo veicolo. Jim si avvicina a Greg e gli chiede come sta: “you okay man?” Greg gli risponde “all good bro”. Poi Jim si rivolge verso di me “hai programmi per stasera?” mi chiede. “No, devo solo rientrare un po presto in albergo, domani mattina ho il volo di ritorno in California” gli rispondo. “Vieni con noi! Andiamo a bere qualcosa” mi propone Jim.
***
L’ ASCESA DELLE MILIZIE
“Sono come avvoltoi che circolano sopra il corpo di un guerriero ferito mortalmente…”
Sono le nove di sera, la citta e deserta, una macchina della polizia attraversa l’incrocio di fronte al pub. Siamo agli inizi dell’autunno e ci sono solo 3 gradi, mi chiedo come fanno i colleghi di Bismarck ad operare durante l’inverno quando la temperatura a Gennaio scende sotto i trenta gradi, non li invidio…
Il pub è quasi vuoto, io Jim e Greg ci accomodiamo al tavolo con l’intenzione di ordinare qualcosa da bere, la moglie di Jim è tornata a casa. Dopo la riunione e la “sconfitta” dei cittadini di Bismarck, l’atmosfera al nostro tavolo è sobria e serena, la rabbia, specialmente quella di Greg, sembra essere passata, anche se non è mai sfociata in isteria. Non ci sono state parole fuori posto, non ho sentito in sala bestemmie o parolacce, ma solo una genuina frustrazione che si è materializzata in un uscita frettolosa e rabbiosa di molti dei partecipanti dalla sala riunioni.
Si scherza e si ride fra noi tre. Jim e Greg sono interessati principalmente ad ascoltare le mie avventure da poliziotto californiano. Anche se ho conosciuto per la prima volta Jim e Greg questa notte, percepisco che l’amicizia sarà duratura e il mio prossimo viaggio in Nord Dakota e nell’ultima frontiera americana, oltre a includere George e Vince, avrà come protagonisti anche Jim e Greg.
Vorrei chiedere a Greg i dettagli sulla morte del figlio in Iraq, ma mi astengo per rispetto verso l’uomo che ancora non conosco bene; quando i tempi saranno maturi, al mio prossimo viaggio, avrò la possibilità di discutere anche del figlio di Greg. La perdita di un figlio è una tragedia immane per un padre, quello che rende questa tragedia ancora più dolorosa è il sapere che il sacrificio di tanti giovani americani, per certi versi è stato del tutto inutile. Il prezzo pagato dalle famiglie americane per le avventure imperialistiche dei centri di potere di Washington è altissimo. Secondo l’ultimo rapporto pubblicato nel 2016 dal Dipartimento degli Affari dei Veterani degli Stati Uniti (VA), analizzando i dati di 55 milioni di veterani, dal 1979 al 2014, l’analisi indica che una media di 20 veterani muore per suicidio ogni giorno. Senza includere guerre come quella della Corea e del Vietnam, ai suicidi si aggiungono i morti in Afghanistan; 2,216 e quelli in Iraq; 4,576.
Cerco di comprendere l’opposizione dei cittadini di Bismarck all’accoglienza verso i rifugiati. Parlando con Jim e Greg, capisco che non è un opposizione spinta da un impulso intollerante, ma piuttosto una forma di ribellione contro i poteri burocratici e amministrativi: “I veri rifugiati siamo noi non loro. I nostri soldati, appartenenti a legioni sparse per il mondo, in terre e frontiere distanti, che prestano servizio in aree geografiche delle quali a malapena riconosciamo il nome, tornano a casa distrutti. Soffrono di stress post traumatico. Appena attraversato il ciglio della porta di casa, lasciano cadere lo zaino a terra, si dirigono in camera da letto o sul divano e vanno a dormire stanchi, privi di ogni energia, svuotati da ogni motivazione, gusci vuoti, fantasmi, pallidi ricordi di quegli esseri umani che furono prima di arruolarsi. Molti si chiedono perché sono in Afghanistan, in Iraq, in Siria. I nostri soldati sono il riflesso di una nazione esausta da decenni di guerre create con pretesti fasulli per il beneficio di una classa dirigente alla quale la costituzione non interessa in nessun modo. Poi, per compensarci dei sacrifici fatti dai noi stessi, dai nostri amici, dai nostri figli, dai nostri fratelli e sorelle, dai nostri padri e dai nostri nonni ci impongono i rifugiati nelle nostre terre, rifugiati che le loro politiche hanno contribuito a creare, dicendo che è nostro dovere accettarli altrimenti siamo razzisti, egoisti, tribali, intolleranti, xenofobi…Spediamo oltre 700 miliardi annui in spese militari per crearci una corazza, un’armata invincibile. Ci dicono che i nostri nemici sono i russi, i cinesi, i terroristi, quelli stessi terroristi finanziati dalla classe dirigente di questo paese. Tutto ciò mentre dall’interno la nostra nazione si sta lacerando. Le nostre tradizioni stanno scomparendo. Le nostre terre stanno morendo. Le nostre città invase e violentate. La nostra costituzione calpestata. La nostra nazione somiglia a un palestrato pieno di muscoli con un corpo perfetto, ma dentro quel corpo dalla apparenza invincibile, un cancro lo sta lentamente consumando.” risponde Jim alla mia domanda del perché si sono recati stasera alla riunione esprimendo la loro opposizione alla collocazione di nuovi rifugiati nel loro territorio. Greg incalza la dose “I globalisti guerrafondaii, lo stato burocratico permanente, insieme alla macchina del complesso militare creano, tramite politiche estere fallimentari, le crisi sociali che spingono milioni di persone a spostarsi in cerca di rifugio e poi chiedono a noi cittadini, contribuenti, di sostenere queste politiche fallimentari tramite i sacrifici, le tasse, l’impegno morale e finanziario, accogliendo nelle nostre terre migliaia di poveri rifugiati sfrattati dai teatri di guerra e violenza che gli stessi poteri forti hanno creato distruggendo quelle terre, le loro culture e tradizioni. I poveri rifugiati sono vittime come lo siamo noi, vittime degli stessi nemici. Si aggiungono i sostenitori del politicamente corretto che usano parole come razzismo e intolleranza per imporre i flussi migratori nelle nostre terre e cambiare sostanzialmente la nostra composizione culturale e costituzionale. Sono come avvoltoi che circolano sopra il corpo di un guerriero ferito a morte…Mark Twain diceva: ‘La nazione è divisa, metà patrioti e metà traditori’…Loro sono i traditori”
Fra una birra, le patatine fritte e un bicchiere di vino, la serata al pub scorre veloce, si trasforma in una discussione filosofica-culturale. Scopro con grande sorpresa che Greg è laureato in ingegneria, la sua apparenza bruta e rude inganna e annebbia il giudizio sulla persona, mai giudicare un libro dalla copertina…
La discussione si incanala su diversi argomenti: “Quello che è successo stasera è solo un esempio, un anticipo, di ciò che avverrà in altri stati; continuano a spingere le loro ideologie e le loro leggi nei nostri territori e se reagiamo ci criticano e ci etichettano usando ogni aggettivo dispregiativo possibile. Nel frattempo sempre più persone si stanno radicalizzando unendosi ai miliziani.” Afferma Jim. Un tema ricorrente questo delle milizie; lo aveva già accennato Vince durante la mia visita a Highmore due giorni prima. “Ma quante milizie ci sono in Nord Dakota?” Chiedo a Jim. Mi risponde Greg inserendosi nella conversazione ”Una domanda difficile da rispondere, non ti so dire esattamente quanti miliziani ci sono in Nord Dakota, ma ti posso assicurare che c’è ne sono molti di più rispetto al passato. Conosco più di qualcuno che ora fa parte della milizia. Gente assolutamente normale alienata sempre di più dalla società moderna. Si rifugia formando una comunità nella comunità, unendosi a gruppi che resistono e promettono guerra ai nemici della costituzione. Questi sono gli ultimi fuochi di un mondo che sta finendo, tutto intorno il cambiamento ci avvolge; ci si sente impotenti, il coagularsi intorno ad altre persone simili è il naturale processo di autodifesa messo in atto per resistere al cambiamento epocale che ci sta avvolgendo. Si sente nell’aria cha la rivoluzione è prossima. I tempi e i modi non li conosco, ma verrà come è sicuro che la notte segue il giorno, come la morte segue la vita… ”
Greg ha ragione, lui percepisce ciò che i dati ci dicono: Secondo uno studio del Southern Poverty Law Center; nel 2016 venivano identificati 276 gruppi di milizie attive in tutti gli Stati Uniti. Rispetto ai 202 del 2014 c’è stato un aumento del 37%. Il numero rappresenta una impetuosa crescita dopo diversi anni di declino. Le schiere dei miliziani è cresciuto in modo esplosivo dopo le elezioni nel 2008 del presidente Obama. Si è passati da 42 gruppi nel 2008 ai 276 del 2016. Secondo dati non ufficiali, tra il 2017 e il 2019, i gruppi miliziani attivi sul territorio dell’unione sarebbero aumentati superando abbondantemente le quattrocento unità.
Quantificare il numero dei singoli membri però è molto problematico poiché una larga maggioranza dei miliziani aderiscono in incognito, non pubblicizzano la loro appartenenza alle milizie. Le cifre ufficiali dicono che sarebbero oltre 50,000 i membri appartenenti alle forze miliziane. E una cifra su cui nutro seri dubbi visto la reticenza dei membri stessi a manifestarsi; stimerei quel numero ad almeno il doppio, 100,000. Significativa è stata la manifestazione recentemente svoltasi in Richmond, la capitale dello stato della Virginia.
Lo stato della Virginia, sotto il controllo di legislatori democratici, ha cercato di introdurre una legge restrittiva sull’uso delle armi. La reazione dei cittadini è stata immediata. Secondo la polizia sarebbero state altre 22,000 le persone armate fino ai denti scese in piazza a Richmond per dimostrare contro la legge. Ora è chiaro che non tutti i 22,000 partecipanti erano membri miliziani, ma è altrettanto certo che almeno la metà dei partecipanti hanno contatti o appartengono a organizzazioni miliziane. Il resto ha la potenzialità di unirsi ai miliziani visto che la libertà delle armi è uno dei maggiori punti che accomuna i patrioti americani di ogni tipo e i miliziani. 22,000 persone in piazza a protestare solo nello stato della Virginia mi fanno pensare che 100,000 miliziani per l’intero paese è probabilmente un numero ancora troppo basso. A dimostrazione della pesante presenza di miliziani durante la manifestazione di protesta contro la legge sulle armi, basterebbe osservare alcune delle bandiere che sventolavano nelle strade di Richmond, una fra tutte quella del “III 1776”, un gruppo paramilitare molto nutrito, antigovernativo, fondato nel 2008, attivo sia negli Stati Uniti sia in Canada.
Secondo i mass media e i democratici, i movimenti miliziani sarebbero composti da gruppi bianchi di estrema destra. Questa definizione di comodo, semplicistica e affrettata, denota una mancanza di onestà intellettuale e giornalistica. I miliziani e i movimenti patriottici in generale, sono composti da varie estrazioni sociali, razziali, inclusi afroamericani, latini, donne e movimenti omosessuali.
Storicamente parlando le forze miliziane moderne sono tornate alla ribalta nazionale agli inizi degli anni novanta, ma in realtà hanno sempre fatto parte della cultura a stelle e strisce. Infatti le unità della milizia costituirono la spina dorsale della forza che iniziò la rivoluzione americana e furono usate per potenziare l’esercito continentale durante la guerra di indipendenza. Fu la milizia che portò a termine l’assedio di Boston e diede a George Washington un esercito con cui proseguire la guerra prima che il Congresso continentale potesse fornire l’autorizzazione a una forza semi-professionale.
Quando la Rivoluzione americana finì, l’esercito fu ridotto a una piccola forza in risposta a uno spirito anti-monarchico prevalente all’epoca che considerava un esercito permanente come un pericolo per un popolo libero. Tuttora nello spirito patriottico prevale sì il sostegno ai soldati americani per il dovere che esplicano al servizio della patria, ma nel profondo del loro spirito di libertà sono convinti che un esercito è un viatico di potere in mano ai burocrati per minare e indebolire l’autorità dei governi locali e dei cittadini.
***
Mentre la notte fredda del Nord Dakota scorre via velocemente è giunto il momento di congedarmi dai miei nuovi amici. Il ritorno in albergo e le poche ore di sonno sono tutto ciò che mi separa dal volo di rientro in California. Una delle cose più belle degli Stati Uniti, soprattutto nell’America dell’ultima frontiera è la facilità con cui si fa amicizia e ci si connette con la gente.
Dopo la presa di posizione anti-rifugiati dei cittadini di Bismarck, la diga si è aperta. Sono seguite altre udienze pubbliche: La contea di Beltrami in Minnesota ha votato contro l’insediamento di nuovi rifugiati. La contea di Cass dove si trova la città di Fargo in Nord Dakota ha votato si ai rifugiati, creando anche li molto malumore. Il governatore del Texas ha chiuso lo stato ad ulteriori rifugiati, i semi della ribellione stanno lentamente germogliando.
Al mio ritorno in albergo mi sdraio sul letto esausto da un viaggio che in 5 giorni mi ha portato a percorrere oltre 2,700 chilometri attraversando 7 stati, incluso il cuore dell’America Redoubt. Non è la prima volta che attraverso gli Stati Uniti dal nord a sud, da est a ovest, in lungo e in largo. Questo viaggio però rispetto agli altri mi ha lasciato dentro un segno indelebile. Sono partito da San Francisco per Bismarck, in macchina, come avevo già fatto altre volte, non più con l’intenzione solamente di visitare il figlio, gli amici o parchi nazionali, bensì con il desiderio di comprendere meglio i cambiamenti in atto in questa nazione. Negli ultimi anni ho sperimentato di persona il cambiamento tumultuoso in corso in America. Un cambiamento culturale, demografico e generazionale che, alimentato dalla politica corrosiva di questi ultimi quattro-cinque anni, sta lacerando profondamente la terra a stelle e strisce. Il viaggio si è trasformato in una odissea che mi ha spiritualmente ed emotivamente scosso, esaurendo l’energia che avevo dentro. Ritornerò in California, al lavoro, in riserva, più stanco di quando sono partito, ci vorranno molti giorni per recuperare. Definire questo viaggio una vacanza è per lo meno un azzardo.
Mentre rivivo mentalmente i momenti più significativi di questo viaggio, improvvisamente mi ricordo che devo prendere la mia pistola, scaricarla, smontarla, per poterla trasportare, con il consenso del capitano, nella stiva dell’aereo. Fisso l’arma per qualche secondo pensando a quanto importante sia questo strumento nello scontro culturale epocale in atto negli Stati Uniti.
Sdraiato sul letto in attesa che morfeo mi accolga, incuriosito vado su un sito di miliziani, leggo la loro introduzione:
“Perché state tutti nell’ombra, patrioti? Risorgete fratelli e sorelle di questa nazione, coraggiosamente insieme, l’uno con l’altro, chiedete ai nostri servitori eletti di tornare allo stato di diritto se non vogliono essere trattati da criminali quali sono!
Desideriamo la pace, ma non a spese della nostra libertà! Siamo uniti e pronti!
Per il momento, oh voi tiranni, andate avanti contro di noi usando le vostre leggi incostituzionali, ma mentre ci prepariamo allo scontro finale, vi avvertiamo che non obbediremo! E rifiutandoci di obbedire, stroncheremo e annulleremo le vostre leggi incostituzionali rendendole inutili!
Il mio viaggio nell’America del Redoubt è terminato, quello nella futura prossima guerra civile continua. Nella mente recito la poesia scritta da un patriota anonimo delle praterie:
Lascia che l’America sia di nuovo America.
Lascia che sia il sogno di una volta.
Lascia che sia il pioniere sulla prateria
cercare una casa dove lui stesso è libero.
Lascia che l’America sia di nuovo il sogno sognato dai sognatori.
Lascia che sia quella grande terra splendente
dove mai i re sorgeranno né i tiranni cospireranno.
VERSO LA GUERRA CIVILE IL TRAMONTO DELL’IMPERO USA
(Quarta e Ultima Parte)
I NEMICI SI SCHIERANO: LE CITTÀ STATO
“Preferisco stare nella mia fattoria piuttosto che essere imperatore del mondo.”
Il traffico è apocalittico! Si avanza di pochi centimetri alla volta, ogni 5 minuti. Sono le 14 e 20 di un martedì qualunque e mentre sono al volante della mia macchina, affogato nella marea di veicoli che mi accerchia, rifletto sul cambiamento che gli ultimi 30 anni hanno portato nella vita quotidiana di chi vive nella Bay Area (la Baia di San Francisco). Lo stesso ponte, nello stesso giorno e alla stessa ora, trenta anni fa riuscivo ad atrraversarlo in meno di dieci minuti; adesso se sono fortunato riesco a farcela in ¾ d’ora. All’epoca le scorribande da un parte all’altra della baia erano, per me che, lavoravo al giornale di San Francisco, prassi quotidiana, ordinaria amministrazione. Infatti fino a quando riuscivo a rientrare alla base prima delle 15:00, di solito la mia auto sulle freeways della baia scivolava piacevolmente, priva di intralci significativi. Ora pur facendo un lavoro diverso e una strada diversa, il traffico è diventato talmente asfissiante che le corsie libere di una volta giacciono nella mia mente come un pallido ricordo. Qualche settimana fa un articolo di Business Insider sosteneva che il traffico nell’area della baia era aumentato, solo nell’ultimo decennio, dell’84%.
Il mio viaggio nell’ultima frontiera americana è terminato appena qualche giorno fa e già, nonostante il desiderio di rientrare in California, dalla mia famiglia, lo stress del traffico, delle torme di auto e persone che mi cingono d’assedio mi porta un senso di soffocamento nel cuore. Con la mente rivivo il mio viaggio nell’America del Redoubt. Non ci sono più le praterie del Dakota, le montagne del Wyoming, le colline della Idaho. Non ci sono più le rade macchine che ogni tanto incrociavo nelle strade deserte in quelle immense praterie. Non ci sono più i cavalli liberi a cavalcare tra terreni incolti e selvaggi; un vero inno alla libertà. Non ci sono più i pascoli con i Bisonti e le Mucche a foraggiare. Non ci sono più i cartelloni pubblicitari che dichiarano amore eterno alle Armi, a Dio e alla Patria. Spariti i Cowboys con la pistola nella fondina attaccata al fianco, alla cintura dei jeans. Il sussurro del vento delle praterie rimane un pallido ricordo rimpiazzato dal rumore dei motori delle macchine e dei camion bloccati sulla freeway.
Mentre pazientemente attendo di avanzare centimetro per centimetro imbottigliato nel traffico, sulla mia destra osservo lo stagliarsi all’orizzonte dei grattacieli di San Francisco. In una giornata limpida come quella di oggi riesco a cogliere in tutta la sua estensione l’area urbana della baia di San Francisco; 8 milioni di persone stipate in una area geografica di appena 18,040 km2.
Il mio viaggio nell’America del Redoubt e dell’ultima frontiera mi ha sbattuto in faccia il contrasto stridente fra l’America dei grandi centri urbani e quella dei grandi spazi immensi; due mondi lontani fra di loro geograficamente, economicamente e culturalmente. Due mondi diversi, agli antipodi nel modo di interpretare la vita, la libertà, ma soprattutto la costituzione americana. Due mondi che hanno sempre fatto fatica a incontrarsi, ma che in questi ultimi anni si sono divaricati tra di loro ancora di più. I centri urbani da un lato; addensamenti di masse umane, un caleidoscopio di razze e culture che convivono sopra, sotto, nei meandri di grattacieli, di periferie e freeways; conglomerati caotici che si avviluppano per centinaia di chilometri senza interruzione. Dall’altro? Praterie, montagne, deserti, colline, laghi, piccoli paesi, spazi immensi, cieli limpidi e profondi. Tutte cose che mettono in risalto le differenze di questi due mondi, ma nonostante tutto un qualcosa li accomuna: Lontano dai grandi centri urbani, si trovano le fattorie e i terreni che producono carne, latte, formaggi; il grano, le verdure, l’acqua, cioè tutto il necessario e l’indispensabile alla vita, alla sopravvivenza dei grandi centri urbani. Due mondi lontani ma allo stesso tempo connessi da un legame esistenziale. Il primo, il mondo urbano, in particolare al secondo. La ribellione che fermenta nell’America dell’ultima frontiera, all’interno dell’America rurale renderà questo rapporto ancora più problematico, ma soprattutto mette a rischio la sopravvivenza stessa dei grandi centri urbani.
Lo scontro segue in apparenza gli schemi del confronto politico. In realtà la divisione fra repubblicani e democratici, fra destra e sinistra, fra i liberali e i conservatori, fra rossi e blu, fra i globalisti e i nazionalisti patriottici, fra lo stato ombra e lo stato costituzionale, fra Wall Street e Main Street è in realtà solo un corollario del vero scontro del quale l’America prossima futura sarà testimone e protagonista; lo scontro fra i centri urbani e le aree rurali. Lo scontro fra le città-stato e il resto del paese, lo scontro tra urbanisti e ruralisti. Queste sono le forze realmente schierate, una accanto all’altra, una contro l’altra; due forze destinate a scontrarsi in una guerra civile prossima futura. Quanto prossima?
***
Le elezioni presidenziali del 2016, con la vittoria a sorpresa di Donald Trump, hanno evidenziato una mappatura all’interno della società americana che va ben aldilà della ideologia politica. Trump ha vinto nei centri rurali mentre Hillary Clinton ha vinto, comodamente, nei centri urbani, soprattutto in quelli più grandi. La elezione di Trump ha confermato una tendenza già in corso che si era vista con il referendum in Inghilterra l’anno prima; i centri periferici e rurali avevano votato per la Brexit mentre i centri urbani avevano votato contro. La cosa si è ripetuta nelle recenti elezioni in Canada dove Justin Trudeau, ha vinto grazie ai voti dei centri urbani ma ha perso pesantemente nelle zone rurali. Il potere, il dominio conseguito, soprattutto grazie alla globalizzazione, dalle Città Stato negli ultimi decenni è ora messo in discussione.
Le città stato americane sono l’esempio più chiaro della posizione acquisita negli anni da questi centri urbani. Tra i tanti esempi Los Angeles è la città stato centro del potere mediatico; San Francisco la città stato centro del potere della new economy che ha dato vita, grazie alla Silicon valley, alla rivoluzione digitale e all’alta tecnologia; New York è la città stato di Wall Street, centro di potere finanziario e bancario. Washington è la città stato centro di potere amministrativo, politico. Boston è la città stato centro del potere intellettuale. Las Vegas il centro del divertimento. Poi ci sono Chicago, Seattle, Detroit. Philadelphia e via discorrendo, tutti posti dove i democratici elitisti, l’establishment politico e finanziario, propinatori del concetto di globalismo si annidano e proliferano…
Con la fine della seconda guerra mondiale e l’avvento del globalismo, negli ultimi decenni la società americana ha visto la separazione fra i centri rurali e quelli urbani divaricarsi in maniera sempre più accentuata. L’ascesa al potere delle Città Stato non è nuova nella storia dell’umanità. Basta ricordare le Città Stato della Grecia e quelle dell’Italia. Il globalismo ha contribuito ad alimentare, ha sostenuto la crescita di potere economico e politico delle città stato. In questi agglomerati si annidano anche le forze elitiste che controllano i processi del globalismo. Gli elitisti che grazie alle masse urbane sotto il loro controllo, propinano le politiche che hanno plasmato l’America degli ultimi 50 anni.
In tempi di prosperità le città stato crescono, acquistano potere e dettano le linee sociali e politiche da seguire. Il cittadino di San Francisco o di New York diventa il cittadino del mondo, un cittadino non più ancorato al concetto di delimitazione, di nazionalismo, di sovranità. In altre parole il cittadino di San francisco o di New York si riflette, tanto si identifica in quello di Roma, Londra , Parigi, Tokyo, Pechino e via dicendo, quanto lo stesso è completamente alienato e distaccato dalla realtà rurale prossima che lo circonda. Chi sente il bisogno dei trogloditi del Montana, del Wyoming, del Dakota, dell’Idaho quando si ha a disposizione il mondo intero? Non è un caso che molti dei grandi centri urbani Statunitensi si trovano nello zone costiere del Pacifico o dell’Atlantico. Così si intrecciano tra di essi più facilmente rapporti, collaborazioni, scambi culturali ed economici. Si firmano trattati internazionali, mentre il resto del paese, le zone interne e rurali rimangono ancorate ad un concetto più tradizionale di società, appena sfiorate dalla globalizzazione.
Con l’avvento di Trump e della Brexit la globalizzazione è entrata in crisi. Più probabilmente ne sono la cartina di tornasole. Il processo di globalizzazione si è arrestato ed è ora entrato in una fase di decadenza; una crisi che, anche dopo l’uscita di scena di Trump, quest’anno o fra quattro anni, sarà comunque irreversibile. Così come caddero le città stato greche e italiane, così le città stato americane cadranno sotto i colpi di una crisi che si aggrava sempre di più e che fomenta la ribellione nei centri rurali del paese.
Le città stato oggi sono potenti perché raggruppano una popolazione molto più larga rispetto alle aree rurali. Globalmente parlando il 54% della popolazione vive nelle aree urbane; negli Stati Uniti arriva addirittura al 63%. Questa differenza, associata alla globalizzazione, ai trattati internazionali e al libero scambio di prodotti e di persone, alimentata ulteriormente dai grandi hub di trasporto di massa presenti nelle città stato, fa sì che il potere di queste sia molto più incisivo e decisivo rispetto alle zone rurali. La potenza delle città stato non è riuscita a fermare le elezioni di Trump poiché il sistema elettorale negli Stati Uniti ha caratteristiche peculiari rispetto al resto delle democrazie nel mondo. La costituzione americana non contempla un sistema maggioritario. In altre parole la maggioranza dei votanti non decide la presidenza; è il sistema del collegio elettorale che decide le elezioni presidenziali. Ecco perché Trump ha vinto nel collegio elettorale pur perdendo nel voto popolare con una differenza di oltre due milioni e mezzo di voti. Nonostante ciò è diventato Presidente. I padri fondatori avevano immaginato e paventato un futuro in cui il voto popolare, le masse, avrebbero influenzato e deciso le sorti per il resto del paese, tagliando fuori dalle decisioni politiche il cuore agricolo, rurale e produttivo della nazione. I padri fondatori stessi erano nazionalisti e per la maggior parte figli delle campagne. Tra di loro gente come Thomas Jefferson, George Washington, Benjamin Franklin, John adams, James Madison. Famose sone le frasi espresse da alcuni di loro sull’importanza della libertà e del significato che la terra, i suoi frutti e i suoi figli hanno sul resto della nazione:
“Sembrano esserci solo tre modi per acquisire ricchezza da parte di una nazione: Il primo è la guerra, come fecero i romani, nel saccheggio dei popoli soggiogati. Questa è la rapina. Il secondo è il commercio, più generalmente definito barare, fregare il prossimo. Il terzo dall’agricoltura, l’unico modo onesto in cui l’uomo riceve un vero ritorno del seme gettato nel terreno, in una sorta di continuo miracolo, portato dalla mano di Dio a suo favore, come ricompensa per la sua vita innocente e la sua industria virtuosa. ” Benjamin Franklin
“Penso che i nostri futuri governi rimarranno virtuosi per molti secoli; purché siano principalmente agricoli ” Thomas Jefferson.
“Preferisco stare nella mia fattoria piuttosto che essere imperatore del mondo.” George Washington
IL TRAMONTO DELLE CITTÀ STATO
“Se verranno camuffati da “semplici” nuovi residenti li riconosceremo e li smaschereremo. Se verranno armati, affamati e disperati li affronteremo…”
I nazionalisti fedeli alla costituzione sono quindi in realtà i veri eredi del concetto dell’America come inteso originariamente dai padri fondatori: potere limitato dei burocrati e quindi dei governi, antimperialismo e potere costituzionale, poteri ai cittadini garantito principalmente dalla costituzione con la garanzia del possesso delle armi e della libertà di parola.
Il potere delle città stato e quindi dei globalisti elitisti è ora in fase calante. La globalizzazione e i trattati internazionali sono in crisi e la fine della globalizzazione porterà la fine del potere delle città-stato. Le economie hanno esaurito il loro impeto espansionista, soprattutto il modello di capitalismo sfrenato; anche questo contribuisce alla decadenza delle città stato. Nessuna sommatoria di potere finanziario e politico può fermare il tramonto dei centri urbani. Si aggiunge anche un altro aspetto all’equazione del tramonto delle città-stato: la crisi del tasso di natalità. Verso la fine di questo secolo, secondo alcuni studi, la popolazione mondiale comincerà a declinare. Ciò che ancora permette ad alcuni, anche se non tutti, ì grandi centri urbani americani, occidentali in genere ed asiatici di crescere è l’immigrazione, soprattutto dai paesi più poveri del terzo mondo, in particolare l’Africa e l’India. Intorno al 2040 il calo demografico, pur con la crescita immigratoria attuale, comincerà ad influire in maniera negativa sui centri urbani; questo metterà in crisi la ricchezza e la prosperità delle città-stato. Il calo demografico associato al riflusso della ricchezza contribuirà al deterioramento degli standard di vita nelle città-stato. Il calo demografico colpirà anche i centri rurali, ma la differenza fra le zone interne del paese e le zone urbane è fondamentale visto che le risorse si trovano nelle zone interne.
I centri urbani credono di essere potenti e ricchi ma mancano delle risorse primarie per sopravvivere. Le risorse che permettono ai centri urbani di operare provengono dall’interno del paese, dalle zone rurali. L’acqua, il cibo, le principali fonti di sostentamento dei cittadini metropolitani,proviene dalle sorgenti delle montagne, dei laghi, dei bacini idrici. Il grano proviene dalle praterie. La carne proviene dai ranch e dagli allevamenti di bestiame. Le verdure, l’insalata, la frutta proviene dalle campagne. Senza il contributo delle zone rurali, i grandi centri urbani farebbero fatica a sopravvivere.
Lo scontro prossimo futuro nell’America del ventesimo secolo è sì uno scontro politico costituzionale, ma si trasformerà più o meno rapidamente in uno scontro anche per il controllo delle risorse. I miliziani, i cittadini dell’ultima frontiera americana saranno pronti a respingere le orde alla ricerca di quel sostentamento che i centri urbani non potranno più offrire? Chi sono queste orde provenienti dai centri urbani? Le orde non saranno semplicemente ex-residenti delle città stato che fuggono dai centri dell’Impero in fase di disfacimento. Tra queste orde liberali progressiste, orfane delle classi globaliste, elitiste si annidano, ex funzionari dello stato burocratico, ex appartenenti ai centri di potere finanziario ed economico. Questi potenti soggetti porteranno con sé armate mercenarie arruolate fra i guerrieri della giungla urbana; ex-appartenenti alle bande criminali che infestano i centri urbani a stelle e strisce. Tra di loro ci saranno potenziali terroristi, ex-narcotrafficanti, ex-carcerati se non malavitosi in piena attività. Opposte a queste orde ci saranno i miliziani, i patrioti e i semplici residenti delle campagne e dei paesi dell’America dell’ultima frontiera.
Non è fantascienza, nè complottismo; è uno scenario di una società che quando si sgretolerà potrà affrontare scenari apocalittici. Il professore Vince mi disse “ Gianfranco, due sono gli esiti possibili, in una caduta dell’impero americano: Il primo, una fratturazione relativamente indolore; ognuno per la sua strada, noi abitanti delle praterie insieme all’America rebout da una parte, dall’altra gli stati dove i grossi centri urbani sono collocati. I quei centri si annidano i proponenti di una costituzione americana revisionata secondo le necessità e i bisogni ideologici degli elettori democratici liberali progressisti. Tieni però presente che anche in stati ultra-liberali come la California, lontano dai centri urbani, ad esempio nel nord e nella sua valle centrale, i residenti “conservatori”, i patrioti talvolta superano di numero i liberali progressisti. La seconda possibilità, una caduta violenta che degenera in una guerra civile che porterà le orde urbane a infrangere il confine delle terre libere dell’ultima frontiera”
Il cerchio a questo punto si chiude. Nel mio viaggio precedente nel profondo dell’america del redoubt, il sentimento quasi complottista che ora si annida nell’America dell’ultima frontiera appariva quasi fuori luogo, esagerato. La “fuga” di George, Vince e migliaia di patrioti come loro l’avevo interpretata come l’incapacità di adattarsi, da parte di certi dinosauri ancorati al passato, ad un mondo dinamico, ad una società in constante moto perpetuo di cambiamento. Ora comprendiamo il sentimento e la logica dei patrioti americani. Non sono dei fanatici complottisti alla ricerca di uno scontro armato contro un invisibile e immaginario nemico; sono persone che si sono rifugiate nell’ultima frontiera per evitare di rimanere travolti dalle possibili conseguenze catastrofiche che la caduta dell’impero americano porterà a molti dei suoi figli. Ritengono la possibilità di tornare alle origini di una nazione costituzionale antiimperialista, una possibilità troppo remota; piuttosto si preparano, dovesse essere necessario, ad affrontare lo scontro civile prossimo futuro; una nuova guerra civile.
La logica di scegliere le armi e il territorio su cui scontrarsi rappresenta un vantaggio tattico importante da ponderare. Riaffiora continuamente nella mia memoria la frase di George: “Se verranno camuffati da ‘semplici” nuovi residenti li riconosceremo e li smaschereremo. Se verranno armati, affamati e disperati li affronteremo. La giungla urbana è la loro casa, ma questo è il nostro territorio. Conosciamo ogni albero, ogni ruscello, ogni montagna, ogni vallata, ogni grotta, ogni pietra di questa nostra terra. Sappiamo cosa vuol dire sopravvivere semplicemente con quello che la nostra terra ci offre. Conosciamo le tempeste di neve e di pioggia, la intensità dei terremoti, la forza e la direzione del vento, gli animali che vagano in questa nostra ultima frontiera, dell’ America libera e costituzionale. Siamo pronti!…Questa è la mia collina di armageddon, da qui combatterò la mia ultima battaglia, il mio ultimo atto.” Se non sarà George a difendere la sua terra saranno sicuramente i suoi figli o nipoti a dover affrontare la guerra civile. Tutta la sua stirpe è forgiata nella solidità di una tempra che tanto distingue i residenti dell’ultima frontiera americana. Gli americani del Redoubt; gente pacifica, cresciuta nel rispetto del prossimo e nel rispetto della libertà del vicino, altrettanto anelante all’ardente desiderio di libertà. Gente forgiata fra le praterie, le montagne, i duri inverni e il duro lavoro delle fattorie e terre. Pronta ad aiutare chiunque abbia bisogno, ma allo stesso tempo gente che se messa contro un muro, che se appena percepisce che qualcuno vuole privarli della libertà, fa scattare un istinto guerriero che li porta a difendere la propria terra e i propri cari fino alla morte. Le orde urbane avranno anche i gangster addestrati alla sopravvivenza nelle giungle di cemento, ma in queste terre dell’ultima frontiera, carichi di armi e munizioni, i patrioti non indietreggeranno di un centimetro…
Rappresenteranno l’ennesimo paradosso della storia. Saranno per alcuni versi i nuovi indiani d’America; figli, per una beffa del destino, di coloro che li hanno spossessati.
IL VIRUS DEL NOSTRO MALCONTENTO
“La nostra Costituzione garantisce che il diritto dei cittadini sia protetto…Ho prestato giuramento di sostenere la costituzione…
P.S. Sono passati piu` di 4 mesi dal rientro del mio viaggio nell’america dell’ultima frontiera e la crisi del coronavirus e scoppiata travolgendo il mondo. Le città stato sono quelle che hanno pagato il prezzo più alto di questa pandemia, dove la concentrazione urbana ha generato una incidenza di infezioni e mortalità molto più alta rispetto alle zone rurali, mettendo appunto in risalto la fragilità dei conglomerati urbani. Come ho detto prima; in tempi di prosperità le città stato crescono e si arricchiscono, mentre in tempi di crisi si impoveriscono e perdono potere.
This is America. We pray, we sing the Star-Spangled Banner, and we celebrate the liberties that make our country special. pic.twitter.com/vHAzQQc0Ez
— Governor Kristi Noem (@govkristinoem) July 17, 2020
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Ha gli occhi grandi e verdi che ricordano le praterie del Dakota. D’altronde lei stessa è figlia di quelle praterie. Nata e cresciuta nel Sud Dakota, da famiglia di agricoltori, colpita dalla tragedia della perdita del padre a soli 22 anni, ha dovuto lasciare il college per tornare a casa ad occuparsi del ranch di famiglia. Se si deve descrivere una donna che incarna lo spirito delle praterie, la cinquantenne governatrice repubblicana del Sud Dakota, Kristi Noem è la candidata per eccellenza.
La Noem si è rifiutata, con altri quattro governatori, di imporre il lockdown ai cittadini del Sud Dakota. Ha invece preferito suggerire le linee guida per evitare l’espansione del contagio e ha lasciato ai cittadini stessi la decisione, la responsabilità di gestire la crisi. I risultati fino ad ora hanno dato ragione a lei, forte anche del vantaggio di una popolazione assai diradata, mancando al Sud Dakota, centri urbani di grandi proporzioni. Comunque sia, al momento attuale, il Sud Dakota registra 2,600 casi con 21 morti.
La governatrice ha espresso il suo pensiero nei seguenti termini “La nostra Costituzione garantisce che il diritto dei cittadini sia protetto…Ho prestato giuramento di sostenere la costituzione… Il mio ruolo rispetto alla sicurezza pubblica è qualcosa che assumo seriamente. Le persone stesse sono le entità principalmente responsabili della loro propria sicurezza. Sono a loro che vengono affidate ampie libertà – sono liberi di esercitare i loro diritti, quelli al lavoro, al culto e allo svago- oppure starsene a casa se desiderano praticando il distanziamento sociale. La scelta è loro…La mia responsabilità è rispettare i diritti delle persone e dei cittadini che mi hanno eletto…”
I cittadini del Sud Dakota hanno ringraziato la loro governatrice con una parata di veicoli di fronte alla sua casa. Un omaggio e un incitamento al suo coraggio: Ambulanze, Polizia, Vigili del Fuoco, Camionisti, motociclisti, semplici cittadini…In altri paesi si è giustamente voluto ringraziare gli operatori sanitari; nel Sud Dakota hanno voluto invece celebrare una donna che gode del rispetto dei propri elettori e cittadini. L’immagine di una governatrice in lacrime per la intensità dell’evento ha fatto il giro dei social media.
Sono curioso di sentire l’opinione di Vince: lo chiamo a quasi due mesi dall’ultima volta che abbiamo parlato la telefono: ” L’ultima volta ci siamo sentiti a Natale credo? “ Mi risponde Vince prima ancora di di salutarmi con un Hello. “Si, volevo sapere se il coronavirus fino ad ora ha risparmiato te e la tua famiglia.”Gli chiedo. “Siamo in buona salute, se non ci ha ucciso l’inverno delle praterie, non penso lo farà il coronavirus…hai parlato con George?” mi risponde Vince “Si, l’ho sentito la settimana scorsa; l’ho trovato bene, anche se un po alticcio, ma in buono spirito.” rispondo a Vince. “ George! Il dottore gli ha detto di smettere con alcool e fumo ma quello continua imperterrito è più duro di una sequoia ” Esclama Vince. Chiedo a Vince la sua opinione sulla situazione in America, visto il drammatico cambio di eventi rispetto a qualche mese fa: “La crisi del Coronavirus ha solamente contribuito ad evidenziare le differenze di questa America in profonda crisi di identità . Di solito, nel passato, eventi di grande impatto hanno sempre condotto ad una unificazione di spirito ed intenti fra gli americani, coagulando il paese intorno alla causa, qualunque essa fosse. Così fu con la prima e seconda guerra mondiale. E stato cosi anche con l’undici di Settembre, anche se quella unità nazionale fu sperperata con la guerra in Iraq. Questa volta la crisi del Coronavirus ha accentuato ancora di più le differenze nel paese. Il lockdown e le limitazioni alla libertà del cittadino ha incrementato ancora di più la convinzione, fra i patrioti, che la costituzione sia stata violata in una maniera irreparabile. Un lento, inesorabile tramonto dei valori costituzionali, accentuato da una crisi che quei valori avrebbe dovuto far rinascere. Il solco scavato è ormai irrimediabilmente troppo profondo da colmare. Il destino della nazione è segnato, mi sento addirittura di stabilire una data alla caduta. Mentre prima ero convinto che i tempi non erano quantificabili, ora sono dell’opinione che al massimo fra quattro decenni, gli Stati Uniti D’America saranno un’entità del tutto diversa da quella attuale. Vedi anche solo come i diversi stati dell’unione si stanno muovendo per gestire la crisi del Coronavirus. La diversità di risposte e soluzioni fra i vari stati è accentuata dalle differenze politiche e sociali. I democratici approvano le misure restrittive imposte da burocrati e scienziati e forse, in uno stato come New York, queste misure sono anche necessarie; in molti Stati repubblicani le misure restrittive per il controllo della pandemia sono viste con una insofferenza enorme. D’altronde è come ingabbiare una bestia selvaggia; la bestia in gabbia tende a ribellarsi. Lo spirito americano è uno spirito pionieristico. Se i nostri antenati si fossero preoccupati dei pericoli, della morte e delle sfide che li attendevano quando partivano alla conquista dell’ignoto, sarebbero rimasti dove erano…La differenza di risposte e di interpretazioni alla crisi del Coronavirus mette in risalto, per la prima volta dal 1861, lo spirito federalista dell’Unione…” Lo spirito federalista dell’Unione! Mi colpiscono le parole di Vince. Lui sostiene che per la prima volta dalla fine della guerra civile l’America sta tornando ad un sistema di federalismo incentrato sull’importanza degli stati e delle realtà locali rispetto al potere centrale. Parte delle problematiche che portarono alla guerra civile (1861-1865) riguardavano appunto l’interpretazione del federalismo. Molti cittadini degli Stati del Sud ritenevano che i soli governi statali avessero il diritto di prendere decisioni importanti, come per esempio la legalizzazione della schiavitù. I sostenitori dei diritti degli Stati credevano che i singoli governi statali avessero il potere sul governo centrale federale. La maggior parte degli stati del sud alla fine si separò dall’Unione perché ritenevano che la secessione fosse l’unico modo per proteggere i propri diritti. Il risultato fu appunto quella terribile guerra civile. In altre parole quello che Vince sostiene è che si stanno ricreando le condizioni per una America impostata sul potere dei singoli stati e delle realtà locali, in contrasto con le autorità federali. Un’America ante 1861, ante guerra civile insomma. “Gianfranco tante volte non ci si accorge di essere entrati in una condizione di guerra civile fino a quando la prima pallottola non ti ha bucato la fronte..!Un’altra cosa, Gianfranco. E’ sbagliato definire nazionalisti i patrioti. Il nazionalismo impone una interpretazione centralista del concetto di nazione. I patrioti americani credono nella costituzione, che è decana della indipendenza personale e territoriale. I patrioti amano il loro paese ma odiano la centralità burocratica di esso…” Tutto mi è ora più chiaro. Le risposte che cercavo le ho trovate lungo il mio viaggio nell’america dell ultima frontiera.
Gli Stati Uniti sono ormai entrati in uno stato di pre-guerra civile. Tempi, modi e schieramenti in questione contengono ancora elementi di incertezza; il destino è però segnato, scritto nella storia prossima futura. I miei figli e soprattutto i miei nipoti saranno testimoni di eventi epocali, dovranno solo scegliere con chi schierarsi.
C’è un segnale inconfutabile che il governo Conte-bis sta per istituire nuove imposte o alzare qualche aliquota: e non è solo la proposta (di deputati del PD) dal nome buonisolidarista di “Contributo di solidarietà” sui redditi superiori a € 80.000,00, ma è che già i corifei delle élite decadenti hanno intonato di nuovo il ritornello ripetuto tante (purtroppo) volte negli ultimi 50 anni: lotta all’evasione! paghiamone meno paghiamole tutti! Dopo che è stato gorgheggiato a lungo, l’esperienza insegna, segue, puntuale come la morte, uno o più aumenti (o istituzioni) d’imposta che, avrebbero lo scopo esternato di combattere l’evasione”, ma invece hanno quello praticato, di far pagare di più quelli che non evadono (i soliti). Risultato esternato che è peraltro poco (o punto) raggiunto . Facciamo un esempio. L’IVA, l’imposta che ha il maggior gettito dopo l’IRPEF, fu istituita nel 1972 e vige dal 1973; l’aliquota ordinaria nel 1973 era del 12%. Nel tempo tale aliquota ha avuto 9 variazioni: 7 al rialzo (ne dubitavate?) e 2 al ribasso. Con gli ultimi rialzi dei governi Berlusconi (sul piede di partenza) e Letta siamo arrivati al 22%.
Ossia l’aliquota è quasi raddoppiata. A che è servito il (quasi) costante rialzo? Sicuramente ad aumentare la predazione dei contribuenti i quali pagano per ogni cessione di beni e servizi soggetti all’aliquota ordinaria (quasi tutti) il 10% in più a Pantalone (obiettivo colto ma occultato). Quanto al fine esternato il calcolo è più difficile, per il carattere presuntivo e/o parziale dei dati. Comunque da dati (relativamente) affidabili si sostiene che dal 1980 al 2009 l’evasione dell’IVA è calata dal 20% al 14%; valutazioni diffuse alla CGIA di Mestre danno un’evasione stimata (totale, cioè di tutte le imposte e contributi) di circa euro 100 miliardi l’anno dal 2010 al 2015 (relativamente stabile) e per l’IVA, nello stesso periodo di circa 35 miliardi annui. I due aumenti, nello stesso periodo 2010-2015 che l’avevano portata dal 20% al 22% non sembra abbiano inciso affatto sull’evasione.
D’altra parte è noto come le sciagure – come la pandemia – stimolino l’appetito fiscale dei governanti. Amilcare Puviani scriveva che “il sopraggiungere di sventure pubbliche, il minacciare di pericoli nazionali e perfino l’esagerazione o addirittura l’invenzione di quelle o di questi, danno luogo ad attenuazioni degli effetti penosi immediati di imposte, opportunamente collegate a quegli eventi”; ghiotta occasione, quindi, per aumentarle. Pertanto è difficile per il governo PD-M5S resistere alla tentazione, specie per il PD ch’è abituato a cedervi.
Piuttosto è interessante notare come, da quasi cinquant’anni, tale argomento-principe per tosare i cittadini sia un asserto così poco ragionevole e smentito dai fatti.
Gli è che “pagare meno, pagare tutti” è affermazione che ha una qualche base: è vero ad esempio che un’imposta spalmata su un maggior numero di contribuenti, incide meno pro-capite. Se si aggiunge a ciò la proporzionalità dell’imposizione, il carico appare equamente ripartito, Ma se, come avviene (ed avveniva) spesso, non incide (di fatto o di diritto) su tutti e/o non lo fa proporzionalmente, indubbiamente la situazione si deteriora. Al punto che l’esenzione (totale o parziale) della nobiltà e del clero da molti oneri tributari fu una delle cause, forse la principale, della rivoluzione francese.
Scriveva Salvemini che nell’ancien régime le imposte “fuggivano quelli che avrebbero potuto pagare e si abbattevano su chi non era in grado di difendersi”. Possedendo gli ordini privilegiati circa un terzo delle terre francesi (in un paese agricolo!) la conseguenza era che i restanti due terzi dovevano soddisfare quasi integralmente i bisogni crescenti dell’amministrazione statale. Se l’affermazione è vera e si fonda su una semplice divisione da scuola elementare (il dividendo è il fabbisogno delle finanze pubbliche, il divisore il numero dei contribuenti, il quoziente il carico fiscale pro-capite) altri fattori, non puramente quantitativi e forse più determinanti, la condizionano.
Il primo dei quali è l’aumento del dividendo: se il carico fiscale aumenta, il quoziente è sempre più gravoso, anche se equamente ripartito. Altro è dividere un carico fiscale che, nell’Italia di un secolo fa, si aggirava intorno al 20% del PIL, altro oggi, che è oltre il 40%. Anche se equo è comunque troppo.
Il secondo è la destinazione del prelevato: se va a favore di certi ceti o classi, la disuguaglianza, cacciata dal prelievo, si riproduce nella spesa. Tutti pagano in modo uguale, ma alcuni ricevono disegualmente (i tax-consommers).
Il terzo, che il vertice impositore è un complesso politico-amministrativo che, come tutte le classi dirigenti, vive non solo per la politica, ma altrettanto di politica, come scriveva Max Weber. E quindi si appropria di parte della ricchezza prelevata. Quando peraltro la classe dirigente gode di poca considerazione, ha un consenso minoritario e un’autorità (non il potere, autorità) prossima allo zero, come quella italiana attuale, il problema è grave. E diventa gravissimo in un’epoca in cui il risultato economico (in termini di crescita del benessere individuale e collettivo) è decisivo. I governanti attuali, e quasi tutti i precedenti, hanno aumentato il prelievo e non hanno ottenuto altro che una venticinquennale stagnazione, la peggiore d’Europa. E tralasciamo altri rilevanti aspetti del “quadro” complessivo per esigenze di “redazione”.
Perciò è razionalmente superficiale e quindi poco o nulla “comprendente” ridurre a un solo aspetto, forse neppure il principale (ancorché importante) il complesso rapporto tra esigenze pubbliche e giustizia, autorità e consenso, doveri e diritti.
A furia di ripetere il ritornello suddetto, ormai da quasi mezzo secolo e dopo tali penosi risultati significa quindi solo contare sul presupposto che tutti gli italiani siano (detto in politicamente corretto) “diversamente intelligenti”.
VERSO LA GUERRA CIVILE. IL TRAMONTO DELL’IMPERO USA
(Terza Parte)
UN CAMBIAMENTO EPOCALE
“Lo scopo della costituzione e` limitare il potere del governo federale non quello dei cittadini americani”
La sala riunioni è affollata. Gente in fila che preme per entrare nel ginnasio di una scuola (Horizon Middle School) di Bismarck. La fila di persone si snoda sin oltre il portone di entrata. Dentro la sala tutte le sedie sono occupate e molti sono appoggiati ai muri in piedi. Non avverto per ora la tensione che mi sarei aspettato per un dibattito così saturo di tensione politica e sociale. Mi accomodo nella terzultima fila in fondo la sala. Prima di entrare nel ginnasio, mentre ero in fila, ho scambiato due battute con un cittadino di Bismarck: Jim è un uomo sulla cinquantina, mi invita a sedermi accanto; ci sono anche la moglie, Mary e un amico di Jim, Greg. Siamo tutti coetanei, anche loro attenti a partecipare alla pubblica riunione. Jim è un imprenditore, ha una ditta di costruzione e scavi; la moglie e i due figli lavorano con lui. Mentre parlo con Jim, osservo con la coda dell’occhio Greg. Un uomo dai lineamenti duri, rughe scavate nella pelle come se fossero dei canali di irrigazione. Occhi blu profondi, capigliatura spessa, barba lunga. La stazza e` imponente; ad occhio e croce Greg svetta a oltre un metro e novanta e supera abbondantemente i 100 chili. Sotto la camicia pesante da cowboy, non intravedo grasso; deduco che la stazza di Greg è per la maggior parte composta da muscoli. Le mani sono grosse come pale meccaniche e nel momento di stringerle le ho sentite callose e ruvide. L’insieme mi lascia pensare ad un uomo temprato da un lavoro duro e faticoso. Mi giro verso Greg e gli domandò: “hai terra?” “Si ho terra, animali e un ranch” mi risponde. Un tema ricorrente quello della terra, dei ranch e degli animali, in questa landa americana dell’ultima frontiera, rada di popolazione, quasi a simboleggiare gli immensi spazi sconfinati, posizionati alla periferia del mondo metropolitano, caotico e decadente della civiltà occidentale.
“Cosa ha spinto tuo figlio a iscriversi all’università di Bismarck?” Mi chiede Jim incuriosito. “Ha vinto una borsa di studio dall’università di Bismarck e quindi ha deciso di frequentare l’università in Nord Dakota” rispondo. Aggiungo: ”Infatti ha accettato con molte riserve l’offerta da Bismarck, l’ho convinto dicendogli che se non andava dove gli offrivano una borsa di studio, il costo dell’Università sarebbe stato per me decisamente proibitivo e di conseguenza avrebbe dovuto vedersela da solo.” “ Povero ragazzo cresciuto e nutrito al sole della California, finito nella ‘tundra’ del Dakota…” Scherza Jim.
Sul palco di fronte alla platea sono seduti i commissari della contea di Burleigh, dove si trova la capitale del Nord Dakota; Bismarck. Jim con il dito mi indica i commissari identificandoli per nome e cognome: Brian Bitner, Jerry Woodcox, Mark Armstrong, Kathleen Jones e Jim Peluso. Mi guardo intorno alla platea, osservo nel volto dei partecipanti alla riunione il tratto della società di questa ultima frontiera americana. Gli uomini e le donne che mi circondano rappresentano i cittadini del Nord Dakota e proprio come quelli del Sud Dakota e degli Stati del Redoubt Americano, sono ancora a maggioranza tradizionalmente bianca, una realtà che rappresenta una america che va velocemente scomparendo. Nel resto degli stati dell’Unione, oltre questa terra da ultima frontiera, la composizione della popolazione americana è cambiata drammaticamente negli ultimi due decenni.
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Sin dall’insediamento di Jamestown nel 1607 e dallo sterminio dei popoli nativi, gli Stati Uniti sono stati prevalentemente a maggioranza bianca. I bianchi rappresentavano nel 1950 intorno all’88% della popolazione statunitense. Nel 2018 sono scesi al 60%. Scenderanno al di sotto del 50% nei prossimi 10-15 anni. Già ora i non bianchi rappresentano più della metà delle popolazioni delle Hawaii, del Distretto di Columbia (Washington), della California, del Nuovo Messico, del Texas e del Nevada. “Resistono” gli stati dell’ultima frontiera americana; Idaho, Montana, Wyoming, North Dakota, South Dakota, ma e una resistenza simbolica, dal destino segnato.
Altro dato interessante; nel 2020 si prevede che negli Stati Uniti ci saranno più nascite di bambini non bianchi rispetto a bambini bianchi. Nel 2015, per la prima volta, negli Stati Uniti ci sono stati più decessi che nascite di persone bianche. Gli stati con il numero più alto di morti di bianchi rispetto alle nascite includono la California, la Florida, la Pennsylvania e il Michigan.
Il cambiamento demografico negli Stati Uniti è una certezza, un destino segnato che renderà la razza bianca minoritaria; porterà cambiamenti epocali nella composizione politica e ideologica della terra a stelle e strisce. L’America sta cambiando ed è un cambiamento senza possibilità di ritorno. La popolazione bianca sta velocemente scomparendo mentre aumenta la popolazione ispanica, asiatica e nera. Questo passaggio da una nazione in maggioranza bianca a una più diversificata sta avvenendo in alcuni luoghi degli Stati Uniti più rapidamente rispetto ad altri. Gli stati del Redoubt Americano e dell’ultima frontiera sono quelli che stanno cambiando molto più lentamente, ancorati, asserragliati ancora a una popolazione ed a una tradizione culturale e costituzionale che rappresenta il volto di una America smarrita, un concetto di un’america tradizionale incanalata ormai sul viale del tramonto.
L’onda del cambiamento sta bussando inesorabilmente e prepotentemente alle porte del Redoubt. Quel cambiamento che fino a 10 anni fa ancora eludeva l’ultima frontiera americana, ora si ritrova sotto le mura, alla soglia del cancello. Infatti non solo i grandi centri urbani o le zone costiere, ma anche stati limitrofi ai territori del Redoubt come il Colorado, si sono ormai trasformati completamente in una nuova entità. Il muro del Redoubt si sta lentamente ma inesorabilmente sgretolando e con esso l’America dell’ultima frontiera. L’unica domanda da porsi è se i patrioti del redoubt saranno disposti ad accettare questo cambiamento senza porre resistenza.
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La riunione trasformata in dibattito va avanti per circa quattro ore. I commissari prima discutono fra di loro e poi passano la parola al pubblico che ha il diritto, se desidera, di esprimersi apertamente al microfono ed esporre la propria opinione per cercare di convincere i commissari a favore o contro la ricollocazione dei rifugiati nella terre delle comunità del Nord Dakota. Alla mezz’ora di dibattito tra i commissari fanno seguito tre ore e mezza di interventi da parte dei cittadini di fronte al tavolo dei commissari e di fronte alla platea stessa. La lunga fila di cittadini in piedi, al centro della sala, aspetta diligentemente il proprio turno per esprimere il proprio parere di fronte ai commissari sperando di convincerli a votare contro o a favore della risoluzione di accettazione della quota di rifugiati. Negli occhi e nello sguardo di Jim, Mary e Greg intravedo il riflesso della emotività che questo tema crea nell’animo di molti cittadini di Bismarck.
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In seguito alla sconfitta degli Stati Uniti nella guerra del Vietnam, migliaia di vietnamiti furono trasferiti come richiedenti asilo negli Stati Uniti, per sfuggire all’avanzata del comunismo.
Il 13 aprile 1979, il procuratore generale degli Stati Uniti per l’amministrazione Carter, Griffin Bell, annunciò che, attraverso un ordine esecutivo, avrebbe concesso l’ammissione di migliaia di rifugiati dal Sud-Est asiatico e dai paesi del blocco sovietico negli Stati Uniti. Come risultato delle azioni di Bell, il numero totale di rifugiati che entrarono negli Stati Uniti raggiunse quell’anno oltre 65.000 (40.000 dal sud-est asiatico e 25.000 dal blocco sovietico). L’azione esecutiva dell’amministrazione Carter apriva la strada alla necessità di cementare una legge, una soluzione, che non fosse temporanea. Il continuo flusso di rifugiati all’indomani della guerra del Vietnam e le rivoluzioni comuniste nel sud-est asiatico generano un sostegno politico, da parte di ambedue i partiti (Repubblicano e Democratico), sulla necessità di rendere permanente, con una legge ed una riforma, l’ammissione di rifugiati negli Stati Uniti allargandone il numero. Alla fine del 1979 il Congresso approvò tale riforma all’unanimità: Refugee Act del 1980-S.643.
Il 18 marzo 1980, la legge fu presentata al presidente Jimmy Carter che la firmò aprendo definitivamente le porte ai rifugiati. La nuova legge si integrava con la legge sull’immigrazione e naturalizzazione datata 1965, creando anche un meccanismo per rivedere e adeguare le quote dei rifugiati per far fronte alle emergenze che via via si andavano a creare nel mondo. La legge cambiò la definizione di rifugiato stesso, conformando le leggi immigratori americane agli standard stabiliti dalle convenzioni e dai protocolli delle Nazioni Unite.
Dal 1980 ad oggi, cioè dal passaggio in legge del Refugee Act, che va aggiunto appunto alla riforma del 1965, gli Stati Uniti hanno ammesso più rifugiati di qualsiasi altro paese al mondo, oltre 3 milioni in totale. I rifugiati vanno aggiunti al numero degli immigrati legali, che dal 1980, è passato da meno di 15 milioni a 45 milioni. Un aumento vertiginoso spinto dell’immigrazione su larga scala dall’America Latina e dall’Asia, con una popolazione di origine straniera che si è attestata nel 2018 a 44,7 milioni. Agli immigrati legali vanno aggiunti quelli illegali che si calcola siano intorno ai venti milioni (stima per difetto).
Per anni gli stati, le varie contee e municipalità dell’Unione, si sono visti sdoganare un numero sempre più alto di rifugiati ricollocati dal governo federale nelle proprie giurisdizioni. Stati come la California, New York e Washington hanno accolto migliaia di rifugiati senza battere ciglio. Altri Stati soprattutto quelli del Redoubt e dell’ultima frontiera americana hanno, malgrado la loro reticenza, accolto i rifugiati senza aver strumenti a disposizione per opporsi. I cittadini dell’ultima frontiera americana hanno sempre espresso la loro disapprovazione al flusso migratorio nei loro stati, mentre i politici locali, siano essi democratici o repubblicani (maggioranza), si sono sempre adoperati per facilitare la ricollocazione dei rifugiati nei territori di loro competenza. Da una parte il governo federale, spalleggiato dai politici locali (di qualsiasi partito essi fossero) che impone agli stati dell’ultima frontiera le quote dei rifugiati pena la perdita di finanziamenti federali, dall’altro i cittadini che vorrebbero un maggior potere decisionale nella scelta di imporre quote di rifugiati nei propri territori, città, paesi e comunita`.
Negli anni, i flussi dei rifugiati ammessi negli Stati Uniti è oscillato tra alti e bassi a seconda degli scenari geopolitici mondiali e delle amministrazioni in carica alla Casa Bianca. Con l’avvento di Donald Trump due importanti fattori si sono creati. Il primo:Il numero massimo imposto dall’amministrazione Trump di rifugiati ammessi negli Stati Uniti è sceso al record più basso mai registrato, 18,000 nel 2019, ben al disotto dei 110,000 imposti da Obama nel 2016. Il secondo: Trump nel Settembre del 2019 ha firmato ed emesso un ordine esecutivo con cui, per la prima volta dal 1980, le agenzie che si occupano di reinsediamento di rifugiati devono ottenere il consenso scritto dai funzionari statali e locali in qualsiasi giurisdizione chiedono di collocare i rifugiati. In altre parole mentre prima i governi locali non avevano modo di opporsi sul numero di rifugiati che il governo federale assegna tramite le agenzie non governative, l’ordine esecutivo di Trump delega autorità decisionale e consente ai governi locali di accettare o meno i rifugiati e se disponibili a collaborare con le agenzie che si occupano dei rifugiati, decidere quanti rifugiati sono disposti a ospitare.
L’ordine esecutivo di Trump coniugato con il numero striminzito di rifugiati che l’amministrazione Trump è disposta a far entrare, ha reso difficile il lavoro delle agenzie non governative. Le lamentele e le cause intentate in corte per cercare, tramite i giudici, di bloccare l’ordine esecutivo di Trump, si sono moltiplicate. Catholic Charities, Hebrew Immigrant Aid Society, Lutheran Immigration and Refugee Service, Church World Service e tante altre organizzazioni che si occupano di rifugiati sono sul piede di guerra contro l’amministrazione Trump. Cio che queste organizzazioni però non colgono è l’altra faccia di una società che alla periferia dei grandi centri urbani e dei grandi stati liberal-progressisti, fondamentalmente è stanca di vedersi imporre decisioni dall’alto senza essere consultata.
Il decreto esecutivo di Trump ha dato voce ai patrioti che si oppongono all’immigrazione e ai rifugiati offrendo ai cittadini uno strumento da usare per mettere pressione sui politici locali. Prima di Trump i politici si nascondevano dietro la scusa che non potevano opporsi alle quote di rifugiati imposte da Washington nei loro territori. Ora quella scusa è stata rimossa; Trump ha prima abbassato le quote di ammissione di rifugiati nel paese e poi ha trasferito il potere decisionale nelle mani degli stessi enti locali. Il risultato è questa assemblea di cui sono testimone, resa necessaria per discutere e convincere i commissari della contea se accettare o meno i rifugiati.
Lentamente la gente in fila, uno alla volta, si presenta di fronte al microfono ed esprime pubblicamente la propria opinione sui rifugiati da collocare nella contea di Burleigh. Sorprendentemente molti di quelli che sono in fila esprimono un’opinione positiva e di sostegno ai rifugiati incoraggiando i commissari a votare a favore dell’insediamento. Jim con la testa, alzando il mento, indica in direzione delle persone in piedi in mezzo alla sala in attesa pazientemente del loro turno per parlare: “Vedi li riconosci da lontano; molti non sono neanche di Bismarck. Ci sono Immigrati, studenti universitari sottoposti al lavaggio del cervello dai propri professori universitari anche loro presenti in fila, in attesa di parlare ed impartire lezioni di comportamento a noi ‘ignorantoni.” Poi ci sono i rappresentanti di organizzazioni religiose che ci dicono che dobbiamo accettare tutti i rifugiati perché anche Gesù Cristo con la sua famiglia è stato un rifugiato. Se ci ostiniamo ad essere intransigenti ci dicono che andremo sicuramente all’inferno“ mi sussurra Jim all’orecchio. “ Ma all’inferno qualcuno di noi c’è già stato!” continua Jim rivolgendo lo sguardo verso Greg. Mi giro di lato e osservo Greg, ponderando le parole di Jim e chiedendomi che cosa intendesse per “all’inferno qualcuno c’è già stato”. Jim quasi come se leggesse il mio pensiero continua a parlare sottovoce “quando nel buio più totale che ti avvolge, nei momenti di disperazione che ti lacerano l’anima, l’unica consolazione che ti tiene a galla è quella di sapere che hai fatto tutto il possibile affinché il sacrificio delle persone a te più care non sia stato invano.Quando Greg ha perso suo figlio, appena ventenne militare in Iraq, queste organizzazioni religiose, caritatevoli, nonostante la tragedia, si sono viste poco o niente. Gli unici vicini a Greg sono stati i patrioti che stringendosi intorno alla famiglia l’hanno sostenuta e aiutata. Queste entità religiose ritengono meglio concentrarsi sui rifugiati perché portano denaro. Miliardi di dollari dei contributi che ogni anno vanno a riempire le casse di queste organizzazioni religiose o laiche. Ci sputo sopra e li vomito questi ipocriti”
Continua la parata delle persone che esprimono la loro opinione; ha ormai superato le quattro ore, le ultime tre ore e mezza sono state spese dando la possibilità al pubblico di esprimersi. La maggior parte della gente è rimasta seduta ad ascoltare con attenzione e rispetto. Ogni volta che al microfono si sentiva qualcuno esprimere un giudizio positivo, eloquentemente spiegando le ragione per cui si dovrebbero accogliere i rifugiati nelle terre del Dakota, la sala rumoreggiava. Un signore seduto di fronte a me continuava a muoversi nervosamente sulla sedia, quasi come se stesse combattendo internamente con un fuoco invisibile, cercando di domare uno spirito inquieto.
Proprio come era successo con Highmore; “l’ombelico del mondo”, i mass media come la CNN, il New York Times si sono, solo ora, accorti dei malumori espressi da questa ultima frontiera americana. Si sono presentati in massa a questa riunione in Bismarck. Ufficialmente è la prima volta, il primo dibattito pubblico, da quando Trump ha firmato l’ordine esecutivo, in cui un ente locale è chiamato, alimentato dall’impeto dei patrioti e cittadini, ad esprimersi sui rifugiati. Nei commenti dei giornalisti presenti si intravede una certa condiscendenza nei riguardi dei cittadini di Bismarck, a dimostrazione che i rappresentanti delle élite mediatiche e politiche di questo paese nutrono un disprezzo culturale nei confronti di una parte del popolo americano. Si può quasi leggere nella testa ciò che pensano: “…ma come si permettono questi mandriani retrogradi a sfidare le regole del buon senso comune…?”
Si susseguono gli interventi:
“Non siamo contro i rifugiati o gli immigrati, ma abbiamo i nostri veterani, i nostri senzatetto , gli alcolizzati e tossicodipendenti a cui pensare”
“Siamo una nazione che ha sempre accettato i rifugiati e gli immigrati”
“Stiamo parlando di un piccolo numero di persone che fuggono da guerre e disastri e hanno bisogno della nostra assistenza”
”Secondo le cifre ufficiali ogni rifugiato costa alla collettività dei contribuenti 65.000 dollari di spese necessarie per provvedere ai loro bisogni di base, come alloggio, cibo…”
Alla fine degli interventi i commissari si apprestano a votare. Il processo di voto è semplice e trasparente; i commissari vengono chiamati per nome e annunciano a voce il loro voto: Brian Bitner: No a i rifugiati. Un mormorio si alza in sala, con qualcuno che due file di fronte a me applaude convinto. Jerry Woodcox: Si a i rifugiati. “Vergognati!” Si sente qualcuno esclamare in sala. Mark Armstrong: Si ai rifugiati “Bravo Mark!” Una voce alla mia destra proclama la sua soddisfazione. “Mark ma che fai? Hai perso la testa? ” Chiede invece ad alta voce un uomo tre-quattro file avanti a me. Jim Peluso: No ai rifugiati. “ Way to go Jim! (E la strada giusta Jim)” dichiara una voce dietro di me. Kathleen Jones: Si ai rifugiati! Voto finale; tre a favore dei rifugiati due contro. Greg si alza di impeto dalla sedia che cade per terra ed esce dalla sala senza dire una parola. Mary stringe la mano al marito Jim e i due restano seduti a fissare un punto del muro alle spalle dei commissari. C’è chi applaude contento della decisione dei commissari, il resto, la maggioranza, si alza e in silenzio comincia a sfollare la sala; si avverte un senso di rabbia e delusione tra la maggior parte delle persone presenti. Un uomo si alza e camminando si avvicina al tavolo dei commissari, punta il dito verso di loro che sono rimasti seduti di fronte alla platea: “La Costituzione non autorizza il Congresso o alcun ramo del governo federale a fornire alcun tipo di assistenza sociale o aiuto finanziario supplementare agli immigrati o rifugiati.Lo scopo della costituzione è limitare il potere del governo federale non quello dei cittadini americani; con questa decisione andate contro la volontà dei cittadini di Bismarck, portate l’acqua per conto dei politici e degli apparati burocratici, vi allineate con gli interessi di queste agenzie sovranazionali, vergognatevi…!” Impreca l’uomo.
Mi rivolgo verso Jim e alzandomi chiedo se vogliono rimanere in sala ancora per molto. “No, siamo pronti ad uscire” mi risponde Jim, poi prosegue “ meglio andarcene, voglio vedere dove è andato Greg”. Io, Jim e Mary usciamo insieme dalla sala e dal tepore dei riscaldamenti, appena messo piede fuori, l’aria gelida mi colpisce come una lama di coltello al viso. Greg è in piedi appoggiato ad un camion nel parcheggio, presumo che sia il suo veicolo. Jim si avvicina a Greg e gli chiede come sta: “you okay man?” Greg gli risponde “all good bro”. Poi Jim si rivolge verso di me “hai programmi per stasera?” mi chiede. “No, devo solo rientrare un po presto in albergo, domani mattina ho il volo di ritorno in California” gli rispondo. “Vieni con noi! Andiamo a bere qualcosa” mi propone Jim.
***
L’ ASCESA DELLE MILIZIE
“Sono come avvoltoi che circolano sopra il corpo di un guerriero ferito mortalmente…”
Sono le nove di sera, la citta e deserta, una macchina della polizia attraversa l’incrocio di fronte al pub. Siamo ancora in autunno e ci sono solo 3 gradi, mi chiedo come fanno i colleghi di Bismarck ad operare durante l’inverno quando la temperatura a Gennaio scende sotto i trenta gradi, non li invidio…
Il pub è quasi vuoto, io Jim e Greg ci accomodiamo al tavolo con l’intenzione di ordinare qualcosa da bere, la moglie di Jim è tornata a casa. Dopo la riunione e la “sconfitta” dei cittadini di Bismarck, l’atmosfera al nostro tavolo è sobria e serena, la rabbia, specialmente quella di Greg, sembra essere passata, anche se non è mai sfociata in isteria. Non ci sono state parole fuori posto, non ho sentito in sala bestemmie o parolacce, ma solo una genuina frustrazione che si è materializzata in un uscita frettolosa e rabbiosa di molti dei partecipanti dalla sala riunioni.
Si scherza e si ride fra noi tre. Jim e Greg sono interessati principalmente ad ascoltare le mie avventure da poliziotto californiano. Anche se ho conosciuto per la prima volta Jim e Greg questa notte, percepisco che l’amicizia sarà duratura e il mio prossimo viaggio in Nord Dakota e nell’ultima frontiera americana, oltre a includere George e Vince, avrà come protagonisti anche Jim e Greg.
Vorrei chiedere a Greg i dettagli sulla morte del figlio in Iraq, ma mi astengo per rispetto verso l’uomo che ancora non conosco bene; quando i tempi saranno maturi, al mio prossimo viaggio, avrò la possibilità di discutere anche del figlio di Greg. La perdita di un figlio è una tragedia immane per un padre, quello che rende questa tragedia ancora più dolorosa è il sapere che il sacrificio di tanti giovani americani, per certi versi è stato del tutto inutile. Il prezzo pagato dalle famiglie americane per le avventure imperialistiche dei centri di potere di Washington è altissimo. Secondo l’ultimo rapporto pubblicato nel 2016 dal Dipartimento degli Affari dei Veterani degli Stati Uniti (VA), analizzando i dati di 55 milioni di veterani, dal 1979 al 2014, l’analisi indica che una media di 20 veterani muore per suicidio ogni giorno. Senza includere guerre come quella della Corea e del Vietnam, ai suicidi si aggiungono i morti in Afghanistan; 2,216 e quelli in Iraq; 4,576.
Cerco di comprendere l’opposizione dei cittadini di Bismarck all’accoglienza verso i rifugiati. Parlando con Jim e Greg, capisco che non è un opposizione spinta da un impulso intollerante, ma piuttosto una forma di ribellione contro i poteri burocratici e amministrativi: “I veri rifugiati siamo noi non loro. I nostri soldati, appartenenti a legioni sparse per il mondo, in terre e frontiere distanti, che prestano servizio in aree geografiche delle quali a malapena riconosciamo il nome, tornano a casa distrutti. Soffrono di stress post traumatico. Appena attraversato il ciglio della porta di casa, lasciano cadere lo zaino a terra, si dirigono in camera da letto o sul divano e vanno a dormire stanchi, privi di ogni energia, svuotati da ogni motivazione, gusci vuoti, fantasmi, pallidi ricordi di quegli esseri umani che furono prima di arruolarsi. Molti si chiedono perché sono in Afghanistan, in Iraq, in Siria. I nostri soldati sono il riflesso di una nazione esausta da decenni di guerre create con pretesti fasulli per il beneficio di una classa dirigente alla quale la costituzione non interessa in nessun modo. Poi, per compensarci dei sacrifici fatti dai noi stessi, dai nostri amici, dai nostri figli, dai nostri fratelli e sorelle, dai nostri padri e dai nostri nonni ci impongono i rifugiati nelle nostre terre, rifugiati che le loro politiche hanno contribuito a creare, dicendo che è nostro dovere accettarli altrimenti siamo razzisti, egoisti, tribali, intolleranti, xenofobi…Spediamo oltre 700 miliardi annui in spese militari per crearci una corazza, un’armata invincibile. Ci dicono che i nostri nemici sono i russi, i cinesi, i terroristi, quelli stessi terroristi finanziati dalla classe dirigente di questo paese. Tutto ciò mentre dall’interno la nostra nazione si sta lacerando. Le nostre tradizioni stanno scomparendo. Le nostre terre stanno morendo. Le nostre città invase e violentate. La nostra costituzione calpestata. La nostra nazione somiglia a un palestrato pieno di muscoli con un corpo perfetto, ma dentro quel corpo dalla apparenza invincibile, un cancro lo sta lentamente consumando.” risponde Jim alla mia domanda del perché si sono recati stasera alla riunione esprimendo la loro opposizione alla collocazione di nuovi rifugiati nel loro territorio. Greg incalza la dose “I globalisti guerrafondaii, lo stato burocratico permanente, insieme alla macchina del complesso militare creano, tramite politiche estere fallimentari, le crisi sociali che spingono milioni di persone a spostarsi in cerca di rifugio e poi chiedono a noi cittadini, contribuenti, di sostenere queste politiche fallimentari tramite i sacrifici, le tasse, l’impegno morale e finanziario, accogliendo nelle nostre terre migliaia di poveri rifugiati sfrattati dai teatri di guerra e violenza che gli stessi poteri forti hanno creato distruggendo quelle terre, le loro culture e tradizioni. I poveri rifugiati sono vittime come lo siamo noi, vittime degli stessi nemici. Si aggiungono i sostenitori del politicamente corretto che usano parole come razzismo e intolleranza per imporre i flussi migratori nelle nostre terre e cambiare sostanzialmente la nostra composizione culturale e costituzionale. Sono come avvoltoi che circolano sopra il corpo di un guerriero ferito a morte…”
Fra una birra, le patatine fritte e un bicchiere di vino, la serata al pub scorre veloce, si trasforma in una discussione filosofica-culturale. Scopro con grande sorpresa che Greg è laureato in ingegneria, la sua apparenza bruta e rude inganna e annebbia il giudizio sulla persona, mai giudicare un libro dalla copertina…
La discussione si incanala su diversi argomenti: “Quello che è successo stasera è solo un esempio, un anticipo, di ciò che avverrà in altri stati; continuano a spingere le loro ideologie e le loro leggi nei nostri territori e se reagiamo ci criticano e ci etichettano usando ogni aggettivo dispregiativo possibile. Nel frattempo sempre più persone si stanno radicalizzando unendosi ai miliziani.” Afferma Jim. Un tema ricorrente questo delle milizie; lo aveva già accennato Vince durante la mia visita a Highmore due giorni prima. “Ma quante milizie ci sono in Nord Dakota?” Chiedo a Jim. Mi risponde Greg inserendosi nella conversazione ”Una domanda difficile da rispondere, non ti so dire esattamente quanti miliziani ci sono in Nord Dakota, ma ti posso assicurare che c’è ne sono molti di più rispetto al passato. Conosco più di qualcuno che ora fa parte della milizia. Gente assolutamente normale alienata sempre di più dalla società moderna. Si rifugia formando una comunità nella comunità, unendosi a gruppi che resistono e promettono guerra ai nemici della costituzione. Questi sono gli ultimi fuochi di un mondo che sta finendo, tutto intorno il cambiamento ci avvolge; ci si sente impotenti, il coagularsi intorno ad altre persone simili è il naturale processo di autodifesa messo in atto per resistere al cambiamento epocale che ci sta avvolgendo. Si sente nell’aria cha la rivoluzione è prossima. I tempi e i modi non li conosco, ma verrà come è sicuro che la notte segue il giorno, come la morte segue la vita… ”
Greg ha ragione, lui percepisce ciò che i dati ci dicono: Secondo uno studio del Southern Poverty Law Center; nel 2016 venivano identificati 276 gruppi di milizie attive in tutti gli Stati Uniti. Rispetto ai 202 del 2014 c’è stato un aumento del 37%. Il numero rappresenta una impetuosa crescita dopo diversi anni di declino. Le schiere dei miliziani è cresciuto in modo esplosivo dopo le elezioni nel 2008 del presidente Obama. Si è passati da 42 gruppi nel 2008 ai 276 del 2016. Secondo dati non ufficiali, tra il 2017 e il 2019, i gruppi miliziani attivi sul territorio dell’unione sarebbero aumentati superando abbondantemente le quattrocento unità.
Quantificare il numero dei singoli membri però è molto problematico poiché una larga maggioranza dei miliziani aderiscono in incognito, non pubblicizzano la loro appartenenza alle milizie. Le cifre ufficiali dicono che sarebbero oltre 50,000 i membri appartenenti alle forze miliziane. E una cifra su cui nutro seri dubbi visto la reticenza dei membri stessi a manifestarsi; stimerei quel numero ad almeno il doppio, 100,000. Significativa è stata la manifestazione recentemente svoltasi in Richmond, la capitale dello stato della Virginia.
Lo stato della Virginia, sotto il controllo di legislatori democratici, ha cercato di introdurre una legge restrittiva sull’uso delle armi. La reazione dei cittadini è stata immediata. Secondo la polizia sarebbero state altre 22,000 le persone armate fino ai denti scese in piazza a Richmond per dimostrare contro la legge. Ora è chiaro che non tutti i 22,000 partecipanti erano membri miliziani, ma è altrettanto certo che almeno la metà dei partecipanti hanno contatti o appartengono a organizzazioni miliziane. Il resto ha la potenzialità di unirsi ai miliziani visto che la libertà delle armi è uno dei maggiori punti che accomuna i patrioti americani di ogni tipo e i miliziani. 22,000 persone in piazza a protestare solo nello stato della Virginia mi fanno pensare che 100,000 miliziani per l’intero paese è probabilmente un numero ancora troppo basso. A dimostrazione della pesante presenza di miliziani durante la manifestazione di protesta contro la legge sulle armi, basterebbe osservare alcune delle bandiere che sventolavano nelle strade di Richmond, una fra tutte quella del “III 1776”, un gruppo paramilitare molto nutrito, antigovernativo, fondato nel 2008, attivo sia negli Stati Uniti sia in Canada.
Secondo i mass media e i democratici, i movimenti miliziani sarebbero composti da gruppi bianchi di estrema destra. Questa definizione di comodo, semplicistica e affrettata, denota una mancanza di onestà intellettuale e giornalistica. I miliziani e i movimenti patriottici in generale, sono composti da varie estrazioni sociali, razziali, inclusi afroamericani, latini, donne e movimenti omosessuali.
Storicamente parlando le forze miliziane moderne sono tornate alla ribalta nazionale agli inizi degli anni novanta, ma in realtà hanno sempre fatto parte della cultura a stelle e strisce. Infatti le unità della milizia costituirono la spina dorsale della forza che iniziò la rivoluzione americana e furono usate per potenziare l’esercito continentale durante la guerra di indipendenza. Fu la milizia che portò a termine l’assedio di Boston e diede a George Washington un esercito con cui proseguire la guerra prima che il Congresso continentale potesse fornire l’autorizzazione a una forza semi-professionale.
Quando la Rivoluzione americana finì, l’esercito fu ridotto a una piccola forza in risposta a uno spirito anti-monarchico prevalente all’epoca che considerava un esercito permanente come un pericolo per un popolo libero. Tuttora nello spirito patriottico prevale sì il sostegno ai soldati americani per il dovere che esplicano al servizio della patria, ma nel profondo del loro spirito di libertà sono convinti che un esercito è un viatico di potere in mano ai burocrati per minare e indebolire l’autorità dei governi locali e dei cittadini.
***
Mentre la notte fredda del Nord Dakota scorre via velocemente è giunto il momento di congedarmi dai miei nuovi amici. Il ritorno in albergo e le poche ore di sonno sono tutto ciò che mi separa dal volo di rientro in California. Una delle cose più belle degli Stati Uniti, soprattutto nell’America dell’ultima frontiera è la facilità con cui si fa amicizia e ci si connette con la gente.
Dopo la presa di posizione anti-rifugiati dei cittadini di Bismarck, la diga si è aperta. Sono seguite altre udienze pubbliche: La contea di Beltrami in Minnesota ha votato contro l’insediamento di nuovi rifugiati. La contea di Cass dove si trova la città di Fargo in Nord Dakota ha votato si ai rifugiati, creando anche li molto malumore. Il governatore del Texas ha chiuso lo stato ad ulteriori rifugiati, i semi della ribellione stanno lentamente germogliando.
Al mio ritorno in albergo mi sdraio sul letto esausto da un viaggio che in 5 giorni mi ha portato a percorrere oltre 2,700 chilometri attraversando 7 stati, incluso il cuore dell’America Redoubt. Non è la prima volta che attraverso gli Stati Uniti dal nord a sud, da est a ovest, in lungo e in largo. Questo viaggio però rispetto agli altri mi ha lasciato dentro un segno indelebile. Sono partito da San Francisco per Bismarck, in macchina, come avevo già fatto altre volte, non più con l’intenzione solamente di visitare il figlio, gli amici o parchi nazionali, bensì con il desiderio di comprendere meglio i cambiamenti in atto in questa nazione. Negli ultimi anni ho sperimentato di persona il cambiamento tumultuoso in corso in America. Un cambiamento culturale, demografico e generazionale che, alimentato dalla politica corrosiva di questi ultimi quattro-cinque anni, sta lacerando profondamente la terra a stelle e strisce. Il viaggio si è trasformato in una odissea che mi ha spiritualmente ed emotivamente scosso, esaurendo l’energia che avevo dentro. Ritornerò in California, al lavoro, in riserva, più stanco di quando sono partito, ci vorranno molti giorni per recuperare. Definire questo viaggio una vacanza è per lo meno un azzardo.
Mentre rivivo mentalmente i momenti più particolari di quel viaggio, improvvisamente mi ricordo che devo prendere la mia pistola, scaricarla, smontarla, per poterla trasportare, con il consenso del capitano, nella stiva dell’aereo. Fisso l’arma per qualche secondo pensando a quanto importante sia questo strumento nello scontro culturale epocale in atto negli Stati Uniti.
Sdraiato sul letto in attesa che morfeo mi accolga, incuriosito vado su un sito di miliziani, leggo la loro introduzione:
“Perché state tutti nell’ombra, patrioti? Risorgete fratelli e sorelle di questa nazione, coraggiosamente insieme, l’uno con l’altro, chiedete ai nostri servitori eletti di tornare allo stato di diritto se non vogliono essere trattati da criminali quali sono!
Desideriamo la pace, ma non a spese della nostra libertà! Siamo uniti e pronti!
Per il momento, oh voi tiranni, andate avanti contro di noi usando le vostre leggi incostituzionali, ma mentre ci prepariamo allo scontro finale, vi avvertiamo che non obbediremo! E rifiutandoci di obbedire, stroncheremo e annulleremo le vostre leggi incostituzionali rendendole inutili!
Il mio viaggio nell’America del Redoubt è terminato, quello nella futura prossima guerra civile continua. Mi consola la poesia scritta da un patriota delle praterie:
Lascia che l’America sia di nuovo America.
Lascia che sia il sogno di una volta.
Lascia che sia il pioniere sulla prateria
cercare una casa dove lui stesso è libero.
Lascia che l’America sia di nuovo il sogno sognato dai sognatori.
Lascia che sia quella grande terra splendente
dove mai i re sorgeranno né i tiranni cospireranno.
Alcune settimane fa, il 19 novembre, avevo provato una riflessione a caldo[1] sul fenomeno delle Sardine del quale veniva riconosciuto il carattere politico, in quanto orientato ad un nemico. Quando si sceglie di attribuire ad un movimento il carattere politico per il fatto, capitale, che individua un “nemico” giova in genere riferirsi al capitale articolo di Carl Schmitt del 1932[2]. In esso l’autore cerca una specificità del “politico” che sia distinta dall’azione come dal pensiero. Ovvero da ciò che si lascia decidere in base all’essere utile o dannoso (ovvero nel campo dell’economico), buono o cattivo (nel campo della morale), bello o brutto (dell’estetica). È una distinzione eminentemente ‘politica’, dunque, quella che non afferma la cattiveria, la bruttezza o la dannosità, ma designa gli amici (freund) e i nemici (feind). Una distinzione, meramente concettuale, che si fonda su un “criterio, [ovvero] non una definizione esaustiva o una spiegazione di contenuto”, che ha a che fare con ciò che appartiene, ciò che unisce, non necessariamente con ciò che si distingue per il grado dell’utile, bontà o bellezza. Un concetto questo che è catturato da frasi come “è un bastardo, ma è il nostro bastardo”, detto, ad esempio di un dittatore sudamericano (frase attribuita al Presidente Roosevelt e riferita a Somoza)[3].
Coglie questo punto Moreno Pasquinelli in un articolo dal titolo espressivo “Sardine: tra Kant e Schmitt”[4], su Sollevazione. Il movimento è letto come interprete di una vasta area che unisce un sentimento progressista di ispirazione globalista (anche designato come “neoliberismo progressista”[5]) e un sottostante, e sotto alcuni profili contrastante, umanitarismo di marca cattolica. Materiali eterogenei ma sedimentati, che sono coaugulati da una inimicizia. Quindi una estraneità, quella verso il plebeismo ostentato di Salvini.
La retorica, enormemente potenziata dalla massiva sovresposizione mediatica di questi mesi, ha battuto su valori forti, declinabili facilmente sul sottofondo liberale come su quello cattolico, antecedenti: tolleranza, pazienza, morbida dolcezza, bassotono, pacificazione sorridente, gaia spensieratezza. Posture, prima ancora che valori, che identificano immediatamente, fisiognomicamente, un parente, un essere parente tra chi non soffre la vita. Chi ha, in fondo, l’orizzonte aperto e non vive nel pozzo[6].
Moreno identifica qui la mossa delle Sardine bolognesi (questa distinzione tra poco troverà senso). L’aggregazione, che produce un non irrilevante effetto nelle elezioni romagnole, dei “parenti” avviene contro un “hostis” pubblico, Salvini. Ma non tanto, io credo, perché egli sarebbe il “male”, (certo lo è, come è brutto e come è dannoso), quanto perché è ‘straniero’. Per così dire egli potrebbe anche essere, paradossalmente, onesto, leale, ma resterebbe sempre l’altro[7].
Torneremo sulle lezioni che ne trae, ma intanto restiamo qui. La mossa “politica” è potente, chiama a raccolta e fa popolo, ovviamente nel farlo fa anche guerra (civile). Chiama a raccogliersi come ‘parenti’, esattamente, tutti coloro che sono giusti, sanno ben vivere, pacifici, sereni, e quindi si sentono tolleranti, superiori, morali, in genere spensierati. Guardano con fastidio misto a timore, gli ansiosi, i rozzi, ineleganti, i felposi, urlanti, certo immorali, ovviamente inferiori, abitanti delle tante periferie del paese. Raccogliersi, mano nella mano, coloro i quali, del resto, in questi anni lentamente, inesorabilmente, ma anche ovviamente, pacificamente, si sono separati, hanno imparato a vivere tra simili, sono fuggiti dai sobborghi, hanno popolato i quartieri bene[8]. La chiamata tra ‘parenti’ si declina, insomma, sotto specifici caratteri di classe[9].
Sotto questo profilo dunque, ha ragione Moreno, la mobilitazione delle sardine è “politica”. Sotto questo profilo è una mobilitazione del nemico[10].
Lo rende particolarmente evidente l’incontro con i Benetton di qualche giorno fa. Ma certo non lo determina. Tuttavia è sufficiente per creare fratture nel campo del nemico: infatti alcune ore fa il portavoce delle sardine romane, Stephen Ogongo ha defezionato. In un post reso noto intono alle otto di sera sul gruppo “Sardine di Roma”[11], hanno scritto:
“Sardine di Roma, da oggi in autonomia. Incontro con i Benetton solo l’ultimo degli errori dei fondatori bolognesi
L’incontro che i fondatori delle Sardine hanno avuto con Luciano Benetton è stato sbagliato, inopportuno. Un errore politico ingiustificabile, ma solo l’ultimo degli errori che Mattia Santori, Roberto Morotti, Giulia Trappoloni e Andrea Garreffa hanno commesso nelle ultime settimane.
Da questo momento le Sardine di Roma non fanno più riferimento ai 4 fondatori di Bologna né alla struttura che stanno creando. Le Sardine di Roma ripartono da quei valori che hanno fatto della manifestazione di Piazza San Giovanni la più grande e la più partecipata delle sardine: uguaglianza, libertà, giustizia sociale. Affiancarsi agli squali, o diventare come loro, non ci rafforza ma ci indebolisce, ci rende prede inconsapevoli.
La pubblicazione della foto scattata a Fabrica, “centro di formazione per giovani comunicatori”, ha giustamente scatenato una polemica all’interno e all’esterno del movimento delle Sardine. È un fatto noto che la famiglia Benetton è la maggior azionista di Atlantia e della società infrastrutturale Autostrade per l’Italia, tuttora compromessa con il tragico crollo del Ponte Morandi di agosto 2018 che ha causato la morte di 43 persone.
Chi lotta per la giustizia sociale e per un nuovo modo di fare politica non può dimenticare il grido di dolore delle famiglie delle vittime di Genova. Per chi ha creduto nei valori espressi nelle piazze delle Sardine è stata una delusione enorme che ha minato gravemente l’integrità e la credibilità del movimento.
Ciò che rende tutto sospetto è la tempistica di questo incontro, che avviene proprio nel momento in cui si è riaperta la trattativa per la concessione di Autostrade per l’Italia. Se non ci fosse niente da nascondere, perché non hanno reso pubblica la loro visita a Fabrica prima? Perché non hanno pubblicato loro stessi la foto dopo l’evento?
L’aspetto più grave di questa vicenda è stato l’aver assistito a diversi tentativi di limitare la discussione all’interno dei gruppi Facebook delle Sardine addirittura attraverso la censura di determinate parole e la cancellazione di diversi commenti e post critici.
Questo è un comportamento pericoloso che limita la libertà di espressione. E non è la prima volta che accade. Sempre più nelle scorse settimane abbiamo assistito a un controllo “dall’alto” delle comunicazioni tra noi e verso l’esterno teso ad assicurarsi che i 4 leader fondatori del movimento siano sempre messi in buona luce, anche a discapito di altri.
Anche l’organizzazione delle Sardine sui diversi territori e città ne ha risentito, con l’allontanamento volontario e forzato di soggetti che non condividevano più il modo di evolversi del movimento. Un comportamento che non giova né al movimento né al Paese che vogliamo migliorare.
Segnali preoccupanti sintomo di una situazione che ha passato il segno e a cui serve rimediare in fretta.
Per questo, credo sia giunto il momento di ritornare alle origini del movimento delle Sardine, che era ed è un fenomeno spontaneo, aperto a tutti quelli che vogliono auto organizzarsi senza controlli e regole imposte dall’alto. Le Sardine di Roma tornano in mare aperto: la nostra forza sarà la comunità, l’essere in tanti e il saper stare insieme”.
Si era detto all’inizio che i due sottofondi, conflittuali, valoriali sono quello liberale e quello umanista (cattolico). Il testo segna lo spostamento.
Vicino alla “libertà”, compare la chiamata della “uguaglianza” e, a maggiore esplicitazione di senso, la “giustizia sociale”. Il capitalismo predatorio dei Benetton è riportato, con metafora ittica di contrasto, alla figura dello squalo.
Segue una brutale presa di distanza, senza sconti e senza rimedio, nella quale ai quattro “fondatori”[12] sono rimproverate doppiezza, manovre nascoste, antidemocraticità nella gestione della discussione, censura, purghe ed allontamenti. Ed, infine, il sempiterno mantra di tutti i “movimenti antisistemici” di questa epoca post-ideologica (o iper-ideologica[13]): tornare alle origini, ad un fenomeno che è stato “spontaneo” e “aperto a tutti quelli che vogliono auto-organizzarsi senza controlli e regole imposte dall’alto”.
Il pedaggio si deve sempre pagare.
La chiusa anti-liberale cade alla fine: “la nostra forza sarà la comunità, l’essere in tanti e il saper stare insieme”.
Bene.
La lezione è triplice:
Non c’è politica senza identificazione del nemico (ma occorre anche riconoscere i suoi travestimenti);
Si definisce la propria identità politica anzitutto indicando il nemico principale (ma bisogna anche farlo nel “momento favorevole”[14]);
Si crea la forza costruendo la comunità non in base al mero interesse (non di solo pane vive l’uomo).
[2] – Carl Schmitt “Il concetto di politico”, del 1932, un anno non certo irrilevante. Anzi, un anno cruciale, nel 1930 Heinrich Brüning era stato nominato Cancelliere ed aveva avviato una drastica politica deflattiva (anche in reazione all’inflazione che fino a qualche anno prima era servita a distruggere i debiti di guerra, ma aveva di fatto espropriato la piccola e media borghesia di tutti i suoi risparmi), a seguito del blocco della politica nel Reichstag il 14 settembre 1930 erano state chiamate nuove elezioni che avevano visto l’avanzamento del Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori, che arrivò al 18,3% dei voti, quintuplicandoli in due soli anni. Da quell’anno, senza un possibile governo, la Repubblica di Weimar scivola nella guerra civile. Quindi dal 1930 al 1933, il Cancelliere governa senza maggioranza a forza di Decreti Presidenziali di emergenza. Sulla base di una radicale teoria dell’austerità, nel mezzo della grande depressione causata dalle conseguenze del crollo del ’29, il Cancelliere ridurrà drasticamente le spese pubbliche e licenzierà milioni di impiegati pubblici, riducendo anche le protezioni per la disoccupazione. Sul finire del’32 inizierà, è vero, una timida ripresa ma troppo tardi, ormai il governo non ha il sostegno di nessuno e quasi tutti chiedono una svolta radicale. L’anno successivo ci sarà l’avvento al potere di Adolf Hitler.
[3] – La distinzione tra amico e nemico indica, “l’estremo grado di intensità di un’unione o una separazione, di una associazione o una dissociazione; essa può sussistere teoricamente e praticamente senza che, nello stesso tempo, debbano venire impiegate tutte le altre distinzioni morali, estetiche, economiche o di altro tipo. Non v’è bisogno che il nemico politico sia moralmente cattivo, o esteticamente brutto, egli non deve necessariamente presentarsi come concorrente economico e forse può anche apparire vantaggioso concludere affari con lui. Egli è semplicemente l’altro, lo straniero (der fremde) e basta alla sua essenza che egli sia esistenzialmente, in un senso particolarmente intensivo, qualcosa d’altro e di straniero, per modo che, nel caso estremo, siano possibili con lui conflitti che non possano venir decisi né attraverso un sistema di norme prestabilite né mediante l’intervento di un terzo ‘disimpegnato’ e perciò ‘imparziale’” (Le categorie del politico, p.109). E’ importante anche considerare che il “nemico” non è l’avversario, non è il concorrente, ma un insieme che combatte e si contrappone ad un altro insieme, è sempre pubblico. Egli è l’hostis e non l’inimicus.
[6] – Mi riferisco alla bellissima immagine evocata da Chiara Zoccarato in questo intervento video.
[7] – In realtà la designazione dell’altro, dello straniero, è un addensatore di caratteri negativi, disvaloriali, per cui a Salvini, in modo non dissimile dalla sua identificazione dei nemici negli ‘esterni’, non è riconosciuta alcuna virtù. Egli è il cattivo, lo stupido, il brutto, il disutile e distruttivo.
[8] – Il fenomeno è descritto da una ormai vastissima letteratura, da Harvey a Sennett, da Giulluy a Sassen.
[9] – E’ un tentativo di chiamare una classe “per sé”, ovvero una autoidentificazione come simili, nell’elevatissima frammentazione lavoristica, identitaria, insediativa, contemporanea, costituita non necessariamente dagli abbienti, o non solo, ma da tutti coloro che sentono di avere ancora, o di poter avere in un futuro prevedibile e non fantasmatico, controllo della propria esistenza. Di essere in grado di fare, determinare, il proprio valore. E che, per questo, sentono di potersi elevare, distinguere. Non è tutta borghesia, ma è l’area che gravita, credibilmente, su di essa. Non è una classe “in sé”, anzi probabilmente in sé, rispetto ai mezzi di produzione, è quasi altrettanto eterogena del campo avverso, ma, figlia dell’epoca “post-materialista”, subisce l’egemonia dall’alto della borghesia medio-alta.
[10] – Questa era la chiusa, dopo una descrizione volta a giustificarla, dell’articolo di novembre, cui rimando.
[12] – Che, ovviamente, sono solo i portavoce degli autentici fondatori, o mandanti politici.
[13] – Non c’è maggiore ideologia di quella che appare come natura.
[14] – Se è vero che può essere opportuno negoziare e finanche allearsi con forze ostili, se serve a neutralizzare di volta in volta quella più pericolosa, è anche vero che va fatto al tempo giusto. “Nemico principale” e “momento favorevole” si guardano negli occhi.
Da quando è in sella il governo giallorosso i suoi sostenitori decantano che i rapporti con l’Europa sono tornati al bello stabile, che il governo è tra i più considerati a Bruxelles e così via.
Nessuno, che mi risulti, ha notato, all’apertura di tali cori, che l’Unione Europea aveva concesso all’Italia un incremento del rapporto deficit/PIL del di 2,2% per il corrente anno, a fronte del 2,04% assicurato al governo “nemico” Lega-M5S.
Questo (misero) 0,16% del PIL, pari a poco più di 2,5 miliardi di euro, ci ha dato la misura dell’amicizia nutrita dall’establishment europeo nei confronti del nuovo governo. Per fare un paragone è assai meno del deficit concesso alla Francia e comunque inferiore a quello realizzato dalla Spagna (2,5%) che non sembrano preoccupare granché i vertici europei. Anche in passato sono stati tollerati rapporti deficit/PIL superiori al 10% senza ansie eccessive. Vero è che per l’Italia – a differenza di altri Stati (come l’Irlanda e il Portogallo) – le dimensioni economiche e il complesso del debito pubblico rende l’incremento più rischioso.
Ciò stante resta il fatto che laddove esiste un rapporto d’amicizia politica o quanto meno un interesse comune degli Stati i rapporti economici non si misurano col bilancino e la partita doppia, ma seguono esigenze e criteri di carattere politico. Facciamo due esempi di questa costante nel secolo scorso.
Il primo: quando la Gran Bretagna, già in guerra con il III Reich, si trovò a corto di contante, Roosvelt ne finanziò l’armamento con la legge “affitti e prestiti” con cui praticamente concesse un credito amplissimo alla Gran Bretagna (e non solo). Rischiando grosso, perché questa era esposta all’invasione delle Panzer Divisionen, per cui i creditori americani correvano il rischio di ritrovarsi il debitore inglese “al gabbio” tedesco.
Qualche anno dopo, di fronte ad un’Europa distrutta dalla guerra, il Presidente Truman col piano Marshall decise di aiutarne la ricostruzione con copiosi aiuti economici. Anche in tal caso determinante fu l’esigenza politica di bloccare l’espansionismo sovietico e di consolidare il rapporto con i governi amici dell’Europa occidentale; comunque il piano si rivelò una mossa azzeccata anche economicamente, perché consentì di accelerare il recupero delle economie europee con notevoli benefici anche per quella USA.
Se i Presidenti USA avessero valutato le situazioni ricordate in base al giornalmastro, forse l’Inghilterra sarebbe finita sotto un Gauleiter o qualche paese europeo-occidentale sotto un governo comunista o para-comunista (di “larghe intese”) con notevole ridimensionamento della potenza USA (e probabilmente, anche dell’economia). Quindi era stata una scelta corretta e provvida quella di aiutare gli amici politici, anche correndo un rischio elevato.
Se questo è vero, occorre capire perché i governanti europei sono così avari nei confronti dei loro “alleati” italiani e lesinino loro anche gli zerovirgola.
La prima spiegazione è che gli eurocrati pensino che l’economia debba prevalere sulla politica; ma l’ipotesi non è del tutto credibile – anche se in linea col pensiero prevalente (oggi al tramonto). Questo perché l’ascesa del popul-sovranisti rischia di mandare a casa gran parte degli attuali governanti europei (in particolare quelli di centrosinistra, debilitati dalla disaffezione del loro elettorato); e in politica, l’obiettivo di conservazione del potere è primario onde non è credibile che, per qualche zerovirgola si ripeta quanto già successo nel 2018: che l’Italia è stata il primo paese dell’Europa occidentale ad avere un governo popul-sovranista.
Tenuto conto che comunque c’è un interesse a dare una mano al governo giallorosso, occorre cercare i motivi perché, a Bruxelles si limitino alla falange del mignolo. All’uopo possono formularsi due ipotesi.
La prima è che si considera il governo giallorosso poco o punto affidabile, per due ragioni concorrenti. L’una che tutti i governi italiani dal 2008 ad oggi, pur applicando, spesso con zelo, le direttive europee, non hanno fatto altro che aumentare l’indice deficit/PIL.
Per cui il PD che di quei governi (con l’eccezione del Conte 1) e dell’attuale è il sostegno più qualificante è considerato poco affidabile. Alla fin fine coniuga le direttive europee con la conservazione degli assetti vintage e la strategia delle mance (alle banche, alle concessionarie “privatizzate”, ai tax-consommers) per cui l’aumento del deficit e della spesa non ha alcun effetto politico gratificante. La crescita dei consensi, anche rispetto alle politiche 2018, dei partiti sovranisti (LEGA e FDS) lo comprova. Come parimenti il crollo rovinoso dei 5S, aumentato dopo il varo del governo Conte-bis. E qua veniamo alla seconda ragione: se il governo attuale, già minoritario, continua a perdere consensi, l’aiuto è politicamente inutile. Meglio trattare con chi ha una reale legittimazione democratica, e cioè il consenso del potere maggioritario, perché quanto meno, ha più autorità nel far valere poi gli accordi stipulati e mantenerli.
Insomma c’è un grave sospetto che quello 0,16% in più di deficit sia dovuto alla scarsa considerazione che “la dove si puote ciò che si vuole” si ha delle declinanti élite italiane. Altre ragioni si potrebbero enumerare, ma paiono d’impatto minore. La sostanza è che in Europa si aspettano l’imminente tracollo – se non definitivo, almeno per un decennio – degli “amici” italiani.
Per cui come succede in guerra dove gli ascari o gli auxilia erano i primi ad essere sacrificati, così lo saranno gli “amici” italiani, a prova di un rapporto ineguale più che di amicizia, di sudditanza. Politicamente normale per chi la accetta.