Italia e il mondo

TRUMP E IL RATTO D’EUROPA_di Teodoro Klitsche de la Grange

TRUMP E IL RATTO D’EUROPA

1.0 Le reazioni indispettite delle èlite europee e della stampa loro allineata alle  pagine che Trump ha dedicato all’Europa nel documento National Security Strategy 2025, non sorprendono: né per la reazione né nei di essa modi ed argomentazioni. D’altra parte anche le considerazioni del documento americano erano state in gran parte anticipate nelle precedenti esternazioni di Trump (e di Vance); peraltro, diversamente da quello che il Presidente USA afferma urbi et orbi, ossia tutto e il contrario di tutto a giorni alterni, il pensiero sull’Europa è stabile e immutato. I punti essenziali del quale sono di seguito riepilogati.

1) “L’Europa continentale sta perdendo quota nell’economia globale: è scesa dal 25% del PIL mondiale nel 1990 al 14% attuale — in parte a causa di regolamentazioni nazionali e sovranazionali che soffocano creatività e spirito d’iniziativa. Ma questo declino economico è superato da una prospettiva ancor più grave: quella della cancellazione civile” e questo perché l’attività dell’U.E. e di altri organismi internazionali…” conculcano la libertà politica e la sovranità; ed adottano “politiche migratorie che stanno trasformando il continente e creando conflitti; censura della libertà di espressione e repressione dell’opposizione politica; crollo dei tassi di natalità; perdita delle identità nazionali e della fiducia in sé stessi.

Se le tendenze attuali proseguiranno, il continente sarà irriconoscibile in 20 anni o meno”.

2) Il Presidente afferma di volere “che l’Europa rimanga europea, che ritrovi fiducia civile e abbandoni il suo fallimentare modello di soffocamento regolatorio”. Poi un’altra considerazione realistica “Gli alleati europei godono di un significativo vantaggio in termini di hard power rispetto alla Russia in quasi tutte le misurazioni, tranne che nelle armi nucleari”, perciò l’Europa gode di un vantaggio che  dovrebbe impedire o almeno ridimensionare le (pretese) velleità egemoniche di Putin, se ne deduce.

3) “L’amministrazione Trump si trova in contrasto con funzionari europei che nutrono aspettative irrealistiche sulla guerra e governano in maggioranze instabili, molte delle quali calpestano principi democratici fondamentali per reprimere l’opposizione. Una larga maggioranza degli europei vuole la pace, ma questo desiderio non si traduce in politiche concrete, in larga parte a causa della sovversione dei processi democratici da parte di questi governi”.

4) Tuttavia “l’Europa rimane strategicamente e culturalmente vitale per gli Stati Uniti. Il commercio transatlantico resta uno dei pilastri dell’economia globale e della prosperità americana” pertanto “La diplomazia americana deve continuare a difendere la vera democrazia, la libertà di espressione e la celebrazione senza complessi dei caratteri nazionali europei e della loro storia. L’America incoraggia i propri alleati politici in Europa a promuovere questa rinascita dello spirito, e la crescita dell’influenza dei partiti patriottici europei rappresenta effettivamente un motivo di grande ottimismo.

Il nostro obiettivo deve essere aiutare l’Europa a correggere la sua traiettoria attuale… Vogliamo lavorare con paesi affini che desiderano restaurare la propria grandezza.

Sul lungo periodo, è più che plausibile che entro poche decadi almeno alcuni membri della NATO diventeranno a maggioranza non europea”.

5) La migrazione incontrollata può alterare l’anima dell’Europa. Nelle nazioni ove la maggior parte della popolazione divenisse non europea “è una questione aperta se considereranno il proprio ruolo nel mondo — o la propria alleanza con gli Stati Uniti — nella stessa maniera di coloro che firmarono il Trattato NATO”.

6) Segue un elenco di priorità: Ristabilire condizioni di stabilità interna in Europa e stabilità strategica con la Russia; conseguire autonomia militare, invertire la rotta spirituale. Tra queste interessano soprattutto:

“• Rafforzare le nazioni solide dell’Europa centrale, orientale e meridionale tramite legami commerciali, vendite di armi, collaborazione politica e scambi culturali ed educativi;

• Porre fine alla percezione — e prevenire la realtà — di una NATO in espansione perpetua;

• Incoraggiare l’Europa a contrastare sovracapacità mercantiliste, furti tecnologici, cyber-spionaggio e altre pratiche economiche ostili”.

2.0 I capisaldi del discorso di Trump sull’Europa e di tutto il documento, sono il realismo, il pragmatismo, il ridimensionamento (o il rifiuto) di contrapposizioni ideologiche: tipo quella spesso prediletta di democrazie contro autocrazie. Ossia il contrario (spesso) e, in genere, il diverso da quanto praticato dalle élite europee (al tramonto) nell’ultimo trentennio, anche ispirato dalle amministrazioni USA pre-Trump.

D’altra parte che il capitolo sull’Europa s’intitoli “promuovere la grandezza europea” è anch’essa una considerazione realistica, per due motivi. Il primo che in un pluriverso, è essenziale selezionare i nemici e gli amici: se il nemico è un elemento insopprimibile, occorre provvedersi di amici, perché – come insegnato da millenni di storia, non ci si può contrapporre a tutti, pena la sconfitta e, al limite, l’autodistruzione.

E tra i diversi soggetti politici (Russia, Cina, India) l’intesa è più facile con chi, come Europa e USA, appartengono alla medesima Kultur (civiltà): quella del cristianesimo occidentale, con la separazione di Chiesa e Stato, di questo dalla società civile, del popolo e dei suoi rappresentanti, della libertà e delle proprietà garantite (anche nei confronti dei poteri pubblici).

3.0 Dove la critica di Trump coglie nel segno è nel notare come la pratica governativa della maggior parte dei paesi europei abbia contraddetto gran parte dei principi della civiltà euro-occidentale e della capacità di ripresa..

Il primo luogo con la perdita del rapporto tra vertice politico (governanti) e seguito (in senso lato i governati), il cui segno più evidente è il moltiplicarsi di governi populisti o comunque non allineati alle vecchie élite, in particolare nell’Europa “centrale, orientale e meridionale”. Ma risulta anche  laddove i governi “nuovi” non hanno conseguito la maggioranza negli organi governativi, ma l’hanno tra gli elettori, con la conseguenza della difficile governabilità, come in Francia (malgrado la prevalenza nella quinta Repubblica del pouvoir minoritaire presidenziale-governativo). Mentre nel contempo la dirigenza europea esercita pressione sui governi non allineati, malgrado eletti (e confermati) da maggioranze popolari (come l’Ungheria di Orban) o cercando di non condannare, anzi di agevolare la manomissione del procedimento elettorale (come in Romania).

Tutte pratiche aventi in comune la debolezza di élite dal consenso scemante; ovviamente riuscendo sempre meno a raggiungere lo scopo.

In secondo luogo l’irrealismo di certe politiche: dal cominciare col far passare la Russia come nemica principale, quando è evidente che Putin non ha l’intenzione, e a ben vederer neppure la forza di invadere l’Europa centrale ed occidentale in un conflitto convenzionale (l’uso della superiorità nucleare russa appare ancor più irrealistico). O quello di europeizzare masse di migranti, in particolare islamici: poco propensi ad abiurare. O perseguire obiettivi (Green Deal) in modo autolesionistico (per l’economia).

Inoltre Trump nota il tafazzismo europeo quando, invece dell’orgoglio delle proprie civiltà, istituzioni, valori e cioè della propria identità, ne prova quasi vergogna (qua, però, l’esempio è venuto dagli USA e dalla cancel culture).

Le proposte del documento sull’Europa hanno anche un effetto ironico: dopo che le élite europee avevano favorito l’estensione della NATO (e dell’UE) agli Stati dell’Europa orientale, proprio dell’America viene il prudente (ed evidente) consiglio di non espanderla (dato a suo tempo da tanti altri, tra cui Kissinger). Così i tromboni italiani che hanno auspicato la riduzione della sovranità nazionale – cominciando del “vincolo esterno” – e “guerrafondai” europei (italiani compresi) tutti compiaciuti di aiutare gli ucraini a combattere una guerra (persa) a danno dei combattenti e a spese degli europei, che proprio dal referente principale arrivi il consiglio a calmare i bollenti spiriti e a pensare più realisticamete è sintomatico dell’inadeguatezza di élite decadenti.

Alle quali ciò che (più verosimilmente) dispiace del documento è l’incoraggiamento ad alleati politici e partiti patriottici; suona come un preavviso di sfratto alle élite.

Cosa che ovviamente non sopportano e pour cause: avendo collezionato talvolta sconfitte e talaltrA risultati mediocri, non resta loro che consolarsi con l’esercizio del potere.

E’ il potere per il potere, in luogo del potere per uno scopo (l’interesse generale, della comunità.

Ma non vogliono che lo si “racconti in giro” come ha fatto Trump. E per questo fanno passare le critiche del Presidente americano per spirito antieuropeo nel senso delle comunità, quando il bersaglio ne sono le élite europee decadenti.

Teodoro Klitsche de la Grange

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Donroe: il corollario Trump alla dottrina Monroe_di Le Grand Continent

Donroe: il corollario Trump alla dottrina Monroe

Per raggiungere l’Europa, Trump ha «bisogno» di passare attraverso il continente americano.

Sovvertendo la dottrina Monroe, egli persegue un progetto imperialista esplicito.

Il contesto generale della strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

Autore Il Grande Continente

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In occasione dei 250 (?sarebbero 200_nota editoriale) anni della dottrina Monroe, martedì la Casa Bianca ha pubblicato un comunicato ufficiale  1in cui Donald Trump afferma il suo attaccamento a questo pilastro strutturale della politica estera statunitense, ma anche la sua intenzione di attualizzarlo completandolo con un «corollario Trump».

Quando il 2 dicembre 1823 il presidente James Monroe pronuncia il suo discorso sullo stato dell’Unione, gli Stati Uniti sono un paese giovane il cui territorio non ha ancora raggiunto le dimensioni attuali. Un decennio prima, le potenze imperiali iberiche, a lungo predominanti in America, hanno iniziato a crollare, consentendo la nascita di nuovi Stati indipendenti nel continente. 

È in questo contesto che il presidente Monroe annuncia ai suoi concittadini, agli abitanti del continente americano e al resto del mondo che il suo Paese intende ora agire per accelerare e perpetuare questa dinamica di riflusso degli imperialismi esogeni in terra americana. Presentando gli Stati Uniti come garanti dell’indipendenza dell’intero continente americano, avverte le potenze extra-americane che non tollererà più tentativi di predazione imperiale da parte loro sul continente.

La dottrina Monroe è fondamentalmente ambigua. Affermando che gli Stati Uniti proteggeranno d’ora in poi l’indipendenza dell’intero continente americano, essa li rende una potenza che vuole essere fraterna e solidale nei confronti degli altri popoli americani. Questa promessa apparentemente altruistica nasconde in realtà una doppia dimensione egoistica: in primo luogo, gli Stati Uniti decidono di proteggere il loro continente non tanto per aiutare gli altri americani, quanto per garantire la sicurezza dei loro vicini e proteggere se stessi. In secondo luogo, questa dottrina afferma implicitamente che gli Stati Uniti sono per loro natura la potenza egemonica nelle Americhe e sono destinati a rimanere tali.

La dottrina Monroe pretende quindi di vietare le ingerenze extra-americane, e in particolare europee, nell’emisfero occidentale, ma si guarda bene dal menzionare le ingerenze che gli stessi Stati Uniti potrebbero essere indotti a esercitare negli affari degli altri paesi americani. Questa ambiguità apre una breccia nella quale si inserisce nel 1904 il presidente Theodore Roosevelt.

Aggiungendo il suo “corollario” alla dottrina Monroe, afferma il diritto degli Stati Uniti di intervenire ovunque lo ritengano necessario in America per difendere meglio il continente dalle minacce che il resto del mondo potrebbe rappresentare per esso. La violazione da parte degli Stati Uniti della sovranità degli altri Stati americani viene così presentata come un male necessario, il prezzo da pagare per garantire l’indipendenza del continente americano dal resto del mondo.

Mentre la dottrina Monroe intendeva sacralizzare l’indipendenza degli Stati americani rispetto al resto del mondo, il corollario Roosevelt sancisce la preminenza di uno di essi – gli Stati Uniti – sugli altri.

Nell’interpretazione che Trump dà della dottrina Monroe, si osserva lo stesso slittamento, che si discosta in modo ancora più radicale dal suo significato originario.

Il 2 dicembre 1823, la dottrina della sovranità americana fu scolpita nella pietra quando il presidente James Monroe dichiarò alla nazione una semplice verità che ha risuonato attraverso i secoli: gli Stati Uniti non mancheranno mai di difendere la loro patria, i loro interessi o il benessere dei loro cittadini.

A differenza di molti dei suoi predecessori, Donald Trump non cerca di sfruttare l’ambiguità consentita dall’aggettivo inglese american: la «sovranità americana» che celebra è chiaramente quella dei soli Stati Uniti e non dell’intero continente americano. Ciò che gli sta a cuore sono la patria, gli interessi e il benessere dei soli cittadini statunitensi.

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Il 2 dicembre 1823, la dottrina della sovranità americana fu scolpita nella pietra quando il presidente James Monroe dichiarò alla nazione una semplice verità che ha risuonato attraverso i secoli: gli Stati Uniti non mancheranno mai di difendere la loro patria, i loro interessi o il benessere dei loro cittadini.

A differenza di molti dei suoi predecessori, Donald Trump non cerca di sfruttare l’ambiguità consentita dall’aggettivo inglese american: la «sovranità americana» che celebra è chiaramente quella dei soli Stati Uniti e non dell’intero continente americano. Ciò che gli sta a cuore sono la patria, gli interessi e il benessere dei soli cittadini statunitensi.

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Oggi, la mia amministrazione ribadisce con orgoglio questa promessa nell’ambito di un nuovo «corollario Trump» alla dottrina Monroe: sarà il popolo americano, e non le nazioni straniere o le istituzioni globaliste, a controllare sempre il proprio destino nel nostro emisfero.

La formula «corollario Trump» è un riferimento diretto al corollario Roosevelt del 1904. In entrambi i casi, si tratta di modificare la politica estera degli Stati Uniti. Tuttavia, questo cambiamento non viene presentato come una novità, ma come un semplice aggiornamento, che deriverebbe dalla dottrina Monroe senza metterla fondamentalmente in discussione.

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Più di due secoli fa, il presidente Monroe proclamò davanti al Congresso americano quella che oggi è conosciuta come la “dottrina Monroe”, una politica audace che respingeva l’ingerenza delle nazioni lontane e affermava con sicurezza la leadership degli Stati Uniti nell’emisfero occidentale.

Donald Trump espone qui un’interpretazione imperialista della dottrina Monroe. A differenza di alcuni suoi predecessori, non cerca di presentarla come un’opposizione di principio alle ingerenze straniere in America: le uniche che denuncia sono quelle provenienti da «nazioni lontane», in altre parole non americane. Questo è un modo per legittimare implicitamente le ingerenze vicine, ovvero quelle provenienti dagli stessi Stati Uniti.

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«I territori americani, in virtù della libertà e dell’indipendenza che hanno acquisito e mantenuto, non devono più essere considerati oggetto di futura colonizzazione da parte di alcuna potenza europea», dichiarò il presidente Monroe. Grazie a queste parole potenti, tutte le nazioni hanno compreso che gli Stati Uniti d’America stavano diventando una superpotenza senza precedenti nella storia del mondo e che nulla avrebbe mai potuto competere con la forza, l’unità e la determinazione di un popolo amante della libertà.

Donald Trump offre qui una lettura anacronistica della dottrina Monroe.

Quando questa dottrina fu enunciata, gli Stati Uniti erano ben lungi dal disporre dei mezzi per applicarla: numerose potenze europee conservavano allora delle colonie in America. Per decenni, queste potenze continuarono a intervenire negli affari americani senza che gli Stati Uniti potessero opporsi.

È solo nel XX secolo che gli Stati Uniti sono diventati la «superpotenza» di cui parla Donald Trump, trasformando in realtà le raccomandazioni del presidente Monroe.

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Nei secoli successivi, la dottrina della sovranità del presidente Monroe ha protetto i territori americani dal comunismo, dal fascismo e dalle aggressioni straniere. In qualità di 47° presidente degli Stati Uniti, ribadisco con orgoglio questa politica collaudata nel tempo. Da quando sono entrato in carica, ho condotto una politica aggressiva che dà priorità all’America e promuove la pace con la forza. Abbiamo ripristinato l’accesso privilegiato degli Stati Uniti al Canale di Panama. Stiamo ristabilendo il dominio marittimo americano. Stiamo ponendo fine alle pratiche non conformi al mercato nei settori della catena di approvvigionamento internazionale e della logistica.

In questo paragrafo, Donald Trump inserisce la sua politica nella scia di quella di Theodore Roosevelt piuttosto che in quella di James Monroe. La «politica aggressiva» che rivendica fa infatti eco al «grande bastone» (big stick) con cui Roosevelt minacciava coloro che avessero osato opporsi alla potenza degli Stati Uniti.

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La mia amministrazione sta anche mettendo fine al traffico di droghe letali che transita attraverso il Messico, all’invasione di immigrati clandestini lungo il nostro confine meridionale; stiamo smantellando le reti narcoterroristiche in tutto l’emisfero occidentale. Al fine di difendere i lavoratori e le industrie della nostra nazione, ho recentemente concluso accordi commerciali storici con El Salvador, Argentina, Ecuador e Guatemala, consentendo un accesso più ampio e fluido al mercato. Rinvigorita dal mio corollario Trump, la dottrina Monroe è viva e vegeta, e la leadership americana sta tornando, più forte che mai.

In questo paragrafo, Donald Trump giustifica la sua politica ingerente e aggressiva in America Latina presentandola come derivante dai principi enunciati nel 1823 da Monroe, che egli si assume il diritto di reinterpretare aggiungendovi quello che definisce un «corollario Trump».

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Oggi rinnoviamo il nostro impegno a mettere sempre al primo posto la sovranità, la sicurezza e l’incolumità degli Stati Uniti. Soprattutto, ci impegniamo a proteggere la nostra preziosa eredità nazionale di autonomia repubblicana da ogni minaccia, sia esterna che interna.

Il riferimento alle «minacce interne» contro il patrimonio nazionale statunitense costituisce una forma di distorsione della dottrina Monroe, che era orientata alla prevenzione delle minacce non solo extra-statunitensi, ma anche extra-americane. Donald Trump sta cercando di utilizzare la dottrina Monroe per giustificare la sua politica interna repressiva nei confronti dei suoi oppositori.

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Fonti
  1. America 250 : Messaggio presidenziale in occasione dell’anniversario della Dottrina Monroe, Maison-Blanche, 2 dicembre 2025.
  2. America 250: Messaggio presidenziale in occasione dell’anniversario della Dottrina Monroe
  3. Proclamazioni
  4. 2 dicembre 2025
  5. Il 2 dicembre 1823, la dottrina della sovranità americana fu immortalata in prosa quando il presidente James Monroe dichiarò davanti alla nazione una semplice verità che ha risuonato attraverso i secoli: «Gli Stati Uniti non vacilleranno mai nella difesa della nostra patria, dei nostri interessi o del benessere dei nostri cittadini». Oggi, la mia amministrazione ribadisce con orgoglio questa promessa con un nuovo “Corollario Trump” alla Dottrina Monroe: il popolo americano, e non le nazioni straniere né le istituzioni globaliste, controllerà sempre il proprio destino nel nostro emisfero.
  6. Più di due secoli fa, il presidente Monroe proclamò davanti al Congresso degli Stati Uniti quella che oggi è conosciuta come la leggendaria “Dottrina Monroe”, una politica audace che rifiuta l’ingerenza straniera di nazioni lontane e afferma con sicurezza la leadership degli Stati Uniti nell’emisfero occidentale. “I continenti americani, grazie alla condizione di libertà e indipendenza che hanno assunto e mantengono, non devono più essere considerati soggetti a futura colonizzazione da parte di alcuna potenza europea”, dichiarò il presidente Monroe. Con queste parole potenti, ogni nazione capì che gli Stati Uniti d’America stavano emergendo come una superpotenza diversa da qualsiasi altra mai vista prima al mondo e che nulla avrebbe mai potuto rivaleggiare con la forza, l’unità e la determinazione di un popolo amante della libertà.
  7. Nei secoli successivi, la dottrina della sovranità del presidente Monroe ha protetto il continente americano dal comunismo, dal fascismo e dalle violazioni straniere e, in qualità di 47° presidente degli Stati Uniti, sono orgoglioso di riaffermare questa politica consolidata nel tempo. Da quando sono entrato in carica, ho perseguito con determinazione una politica di pace attraverso la forza che mette al primo posto l’America. Abbiamo ripristinato l’accesso privilegiato degli Stati Uniti attraverso il Canale di Panama. Stiamo ristabilendo il dominio marittimo americano. Stiamo smantellando le pratiche non di mercato nella catena di approvvigionamento internazionale e nei settori logistici.
  8. La mia amministrazione sta inoltre bloccando il flusso di droghe letali che attraversano il Messico, ponendo fine all’invasione di immigrati clandestini lungo il nostro confine meridionale e smantellando le reti narcoterroristiche in tutto l’emisfero occidentale. Per difendere i lavoratori e le industrie della nostra nazione, ho recentemente concluso accordi commerciali storici con El Salvador, Argentina, Ecuador e Guatemala, consentendo un accesso al mercato più ampio e semplificato. Rinvigorita dal mio Corollario Trump, la Dottrina Monroe è viva e vegeta e la leadership americana sta tornando più forte che mai.
  9. Oggi rinnoviamo il nostro impegno a difendere sempre la sovranità, la sicurezza e l’incolumità degli Stati Uniti. Soprattutto, promettiamo di proteggere la nostra preziosa eredità nazionale di autogoverno repubblicano da ogni minaccia, sia interna che esterna.

Dare un senso all’Après-Ucraina_di Aurélien

Dare un senso all’Après-Ucraina.

Cosa potrebbe significare e cosa potrebbe non significare.

Aurélien11 dicembre
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Ho scritto in diverse occasioni sulle conclusioni più ampie che l’Occidente deve trarre dal suo fallimento politico e militare in Ucraina, e sulla conseguente probabilità di avere come vicino una Russia arrabbiata e potente. Con l’avvicinarsi della conclusione del conflitto, iniziamo a vedere esperti parlare delle “lezioni” che l’Ucraina può offrire all’Occidente, sia in campo politico che militare. Ma, come dimostrerò, trarre “lezioni” dalle crisi non è mai facile, e naturalmente le persone tendono a trarne insegnamenti che le confortano e rafforzano la fiducia nelle proprie capacità di anticipazione, nella propria attuale posizione politica, o in entrambe. Ho quindi pensato che potesse essere utile fare oggi un’analisi preliminare del territorio e cercare di definire quali siano, a mio avviso, i problemi principali e dove probabilmente si svilupperanno incomprensioni e conflitti politici. Come al solito, non vedo alcun motivo di cercare di fare previsioni definitive.

Dobbiamo innanzitutto comprendere che trarre “lezioni” da qualsiasi crisi politica o militare è problematico per vari motivi, al punto che alcuni paesi occidentali hanno riconosciuto che è meglio parlare più modestamente di “lezioni identificate” piuttosto che di “lezioni apprese”. Le ragioni sono abbastanza ovvie: le “lezioni” potrebbero essere impossibili da seguire per ragioni di risorse, finanziarie o politiche, potrebbero essere in conflitto con altri imperativi altrettanto importanti e, sorprendentemente spesso, non c’è accordo nemmeno su quali siano queste lezioni. Inoltre, l’idea di “trarre lezioni” implica che esse saranno applicabili, in tutto o in parte, ad altre crisi che si presenteranno in futuro (e che tali crisi, di fatto, si presenteranno), e quindi vale la pena di impararle. Altrimenti non ha senso. Pertanto, le proposte di “trarre lezioni” dall’Ucraina implicano che crisi almeno in parte simili si presenteranno in futuro e, come vedremo, non è necessariamente così.

Alcune lezioni tecniche sono state storicamente semplici da identificare e attuare. Per il Regno Unito, l’operazione delle Falkland ne ha fornite alcune, sostanzialmente incontestabili. Ad esempio, gran parte della costruzione delle navi era in alluminio, materiale che brucia facilmente. Allo stesso modo, la sovrastruttura delle navi presentava molti spigoli vivi, il che aumentava la traccia radar, e infine molti dei decessi e dei feriti erano correlati al fumo, e non esisteva alcun sistema per impedire la diffusione di fumi tossici. La marina britannica e altre marine furono in grado di affrontare questi problemi immediatamente o nel corso di ristrutturazioni e nuove costruzioni. Gli inglesi si resero anche conto che il loro sistema decisionale in caso di crisi era troppo diffuso e incoraggiava lotte politiche (assomigliava in qualche modo al sistema statunitense odierno) e introdussero un sistema molto più centralizzato qualche anno dopo.

Ma nella maggior parte dei casi, le “lezioni” sono meno tecniche e meno ovvie, e la loro applicazione ancora meno. È facile sovrainterpretare le “lezioni” di una crisi tanto quanto ignorarle. Proprio come i militari sono abituati a essere accusati simultaneamente di non imparare dall’esperienza da un lato e di combattere sempre l’ultima guerra dall’altro, così la stessa critica può essere ragionevolmente rivolta ai tentativi dei governi di trarre insegnamenti dalle crisi in senso più generale.

Non essendo un esperto militare, tralascerò le questioni molto tecniche, su cui comunque sussistono notevoli divergenze. Inoltre, il modo in cui vengono poste queste domande spesso non è molto utile e spesso coinvolge feticisti delle armi che si sbandierano statistiche sulle prestazioni a vicenda. In definitiva, il punto non è se il previsto FX69 o il previsto Su-141 siano caccia “migliori”, a meno che non si consideri lo scenario generale. Se i combattimenti aerei (anche se a lunghissimo raggio) saranno una caratteristica dei conflitti futuri e questi aerei previsti saranno coinvolti, allora le caratteristiche prestazionali avranno il loro peso. Ma sappiamo, ad esempio, che la dottrina russa per la superiorità aerea si basa in larga misura sui missili e, anche se l’FX69 fosse stato per certi versi “migliore” al momento del suo ingresso in servizio, potrebbe non essere abbastanza vicino agli aerei russi da rendere tale superiorità utile. Le vere lezioni da trarre da crisi e conflitti si trovano sempre a un livello più generale.

Si consideri, ad esempio, un tentativo di prevedere l’esito della Battaglia d’Inghilterra del 1940 semplicemente confrontando le caratteristiche prestazionali degli aerei coinvolti. Questo avrebbe tralasciato le principali ragioni per cui gli inglesi vinsero: il radar, un comando operativo centralizzato, la profondità strategica (dato che la RAF poteva spostare i suoi caccia a nord), il fatto che i piloti tedeschi sopravvissuti all’abbattimento andarono effettivamente perduti mentre i piloti britannici no, ecc. ecc. Né si dovrebbe dimenticare la decisione politica di riarmare ed espandere la RAF. Alcuni dettagli prestazionali erano rilevanti (come la limitata autonomia dei caccia tedeschi), ma erano ben lontani dall’essere l’intera questione. E anche se, ad esempio, i russi avessero studiato attentamente la Battaglia d’Inghilterra (e non c’è traccia del loro contributo), le “lezioni” sarebbero state impossibili da applicare in Unione Sovietica, dove la situazione era molto diversa.

Quindi, detto questo, passiamo all’Ucraina, ripetendo l’importantissima condizione che le “lezioni” hanno valore solo se possiamo aspettarci futuri conflitti con almeno alcune delle stesse caratteristiche, e se è probabile che le “lezioni” siano ragionevolmente durature, dati gli enormi costi e tempi necessari per sviluppare e adattare l’equipaggiamento militare. Per quanto riguarda il primo punto, dobbiamo ricordare che l’Ucraina è un tipo di conflitto molto specifico. Innanzitutto, si combatte su un’area vasta e relativamente urbanizzata, dotata di fortificazioni e di una consistente infrastruttura ereditata dall’Unione Sovietica. Si combatte su diversi tipi di terreno, con condizioni meteorologiche che vanno dal caldo estivo alla neve invernale. (Ricordate le mie osservazioni su Clausewitz e l’importanza del “Paese”). Si combatte tra due nazioni tecnologicamente avanzate con industrie di difesa autoctone, i cui equipaggiamenti sono simili, e in alcuni casi identici, e in gran parte derivanti dalla stessa tradizione tecnologica. Si combatte tra Paesi con una tradizione militare comune e la capacità di condurre operazioni terrestri e aeree su larga scala (meno influenzate dall’Occidente nel caso dell’Ucraina di quanto a volte si pensi), e tra Paesi in cui il patriottismo e la volontà di combattere per il proprio Paese sono ancora forze politiche. E infine, si combatte tra il Paese più grande del mondo, sostanzialmente autosufficiente economicamente e con il tacito consenso della Cina, e un Paese più piccolo sostenuto finanziariamente e militarmente dall’intero mondo occidentale.

Quindi, ovviamente, le probabilità che la stessa situazione si verifichi altrove sono pari a zero. La domanda, come sempre, è fino a che punto, se mai, le peculiarità del conflitto ucraino siano applicabili a potenziali conflitti altrove. La prima domanda è ovviamente se assisteremo ad altri conflitti di questo tipo in altre parti del mondo. Ci sono diverse sfumature nascoste in questa domanda: la guerra in Ucraina è andata avanti così a lungo perché le due parti sono in grado di arruolare e addestrare grandi eserciti (l’Ucraina, certamente, con più difficoltà) e di rifornirli ed equipaggiarli con scorte e nuova produzione (trasferita nel caso dell’Ucraina). Ciò significa che forze molto ingenti possono combattersi ininterrottamente per anni e, nel caso della Russia, ampiamente compensare le perdite di personale e materiali.

Ora, il luogo più ovvio per una guerra futura del genere è l’Europa contro le forze della NATO, ma è dubbio che lo scenario sia molto probabile. Come spiegherò tra un minuto, è molto difficile immaginare che le forze della NATO si riconfigurino per assimilare le lezioni dell’Ucraina, e in ogni caso non è necessario che i russi attacchino le nazioni della NATO con forze di terra. Possono distruggere le forze della NATO da una distanza di sicurezza con missili e droni. Inoltre, le forze della NATO sono piccole ed è improbabile che aumentino di molto, e le loro scorte di munizioni e logistica si esauriranno nel giro di pochi giorni. (A differenza della Russia, e nonostante gli aumenti pianificati delle scorte, le nazioni della NATO non possono sostituire le loro perdite e i consumi in tempo reale, come può fare la Russia). Quindi uno scontro militare diretto sarebbe, come si dice, bruscamente brutale e breve, anche se la NATO “imparasse le lezioni” dell’Ucraina.

È difficile immaginare guerre di simile portata e intensità altrove nel mondo. Una possibilità è una guerra terrestre che coinvolga le due Coree, dove il livello tecnologico, anche sul versante settentrionale, è generalmente elevato, sebbene il territorio sia molto diverso. Inoltre, sebbene scontri di confine qua e là nel mondo siano ovviamente possibili (India e Pakistan o Cina ne sono esempi esemplificativi), è difficile immaginare una guerra su vasta scala del tipo a cui stiamo assistendo ora. Le guerre tra Eritrea ed Etiopia sono state combattute in passato con armi ad alta tecnologia (seppur a un livello di intensità piuttosto basso) e paesi come Sudan e Algeria utilizzano sistemi moderni ma non hanno nemici evidenti che meritino un conflitto serio. Pertanto, sebbene sia ragionevole affermare che l’Ucraina abbia dimostrato l’importanza della logistica e delle scorte di munizioni per combattere una guerra lunga e ad alta intensità, non è chiaro quante guerre di questo tipo ci saranno effettivamente. (Tuttavia, una presunta guerra tra Stati Uniti e Cina per Taiwan, ammesso che possa realmente verificarsi, avrebbe in comune l’importanza dei numeri e delle grandi scorte, anche se l’ambiente operativo fosse molto diverso.)

Tuttavia, l’esperienza ucraina ha dimostrato l’importanza di aspetti noiosi e banali come il supporto logistico, i rifornimenti e la quantità di armi. L’Occidente non si è mai veramente allontanato dalla mentalità della Guerra Fredda, che prevedeva una guerra futura molto breve e quindi non richiedeva scorte oltre un certo livello. Ma in aggiunta, e in gran parte all’oscuro dell’opinione pubblica, le pressioni di bilancio hanno costretto le nazioni occidentali a ridurre la logistica e il supporto logistico. Questo si è recentemente rivelato molto importante nei conflitti nel Mar Rosso, dove le grandi e costose navi da combattimento di superficie occidentali hanno dovuto essere dislocate perché avevano esaurito tutti i loro armamenti difensivi e perché le marine occidentali ora hanno poca capacità di rifornire le loro navi dispiegate mentre sono in mare con i beni di prima necessità per sopravvivere, figuriamoci con nuove munizioni.

L’idea che i numeri siano fondamentalmente importanti non è certo una novità: proverbi secondo cui Dio sta dalla parte delle grandi forze risalgono al XVIII secolo e potrebbero non essere stati originali allora. Allo stesso modo, l’idea che “la quantità abbia una qualità propria”, erroneamente attribuita a Marx, Clausewitz, Stalin e altri, risale anch’essa a molto tempo fa. Ma l’idea fu espressa in forma matematica un secolo fa dall’ingegnere Frederick Lanchester, che dimostrò che per le forze tecnologiche, dove il combattimento non era solo corpo a corpo individuale, la potenza combattiva delle forze avversarie non era proporzionale al loro numero, ma al quadrato del loro numero. Pertanto, uno scontro esemplificativo tra 50 carri armati da una parte e 25 carri armati dall’altra conferisce alla parte più numerosa non un vantaggio di 2 a 1, ma un vantaggio di 2500 (50*50) rispetto a 625 (25*25), ovvero 4 a 1. Naturalmente la qualità conta molto, ma come mostra questo esempio, al variare dei numeri, anche l’efficacia deve variare molto di più. Nel semplice esempio sopra, la parte più piccola deve essere quattro volte più efficace per essere uguale a quella più grande. Durante la Guerra Fredda, questa era la tattica che l’Armata Rossa intendeva adottare: schierare un numero molto elevato di equipaggiamenti “abbastanza buoni” contro equipaggiamenti NATO qualitativamente superiori, ma schierati in numero molto inferiore. Il sistema di attacchi a scaglioni, in cui le forze migliori venivano inviate inizialmente, seguite da quelle meno capaci, aveva lo scopo di logorare le forze NATO in modo tale che, quando fossero state schierate le forze sovietiche più deboli, la NATO non avrebbe avuto più nulla.

I combattimenti in Ucraina non sono stati proprio così, ma ciò che abbiamo visto è lo stesso principio applicato in modo asimmetrico all’attacco rispetto alla difesa. I russi sono stati in grado di lanciare massicci raid con missili e droni, spesso coinvolgendo 400-500 piattaforme. Tali numeri superano la capacità matematica dei sistemi di difesa di ingaggiarli. I missili di difesa aerea possono ingaggiare un solo bersaglio alla volta e vengono spesso lanciati in coppia, quindi il numero di droni e missili russi (inclusi i decoy) si è trasformato in un vantaggio qualitativo. E qui, poiché una batteria di difesa aerea può sparare solo a un certo numero di bersagli in un dato periodo, non importa, entro limiti ragionevoli, quanto siano efficaci i missili, perché molti attaccanti riusciranno comunque a passare. In parole povere, se una città dispone di sistemi di difesa aerea in grado di ingaggiare tre bersagli in successione ciascuno fino a una certa distanza, e la capacità di lanciare dieci intercettori contemporaneamente, allora se il sistema è così avanzato che il colpo con un solo missile è garantito ogni volta, allora trenta bersagli possono essere ingaggiati e colpiti tra il momento in cui vengono rilevati e il momento in cui arrivano. E se l’attaccante invia un centinaio di droni e missili… avete capito. E in effetti questo è ciò che sembra essere accaduto al largo delle coste dello Yemen e durante il bombardamento iraniano di Israele. Sì, puoi acquistare più sistemi di difesa aerea, ma il tuo avversario può inviare molto più facilmente più missili e droni, e alla fine finirai sempre per esaurire i sistemi difensivi prima che lui esaurisca quelli offensivi.

Il che ci porta, suppongo, ai droni, di cui tutti vogliono parlare ora. E ancora una volta, la questione di quali esperienze ucraine siano trasferibili, e quindi quali “lezioni” si possano trarre, è molto più complessa di quanto possa sembrare. Vale la pena sottolineare che i droni non erano molto presenti all’inizio del conflitto, ma ora sono diventati un fattore significativo. (Questo è particolarmente vero per l’Ucraina, che sarebbe in una situazione molto peggiore senza di loro). Ma questo significa, ad esempio, che ora non c’è protezione, tutto è visibile, la sorpresa è impossibile e così via? Ancora una volta, bisogna guardare il quadro più ampio. La Russia dispone di satelliti da ricognizione, mentre l’Ucraina ha accesso ai dati di quelli occidentali. Questo rende i preparativi su larga scala per un attacco, ad esempio, difficili da nascondere a un avversario che dispone di tale tecnologia o può accedervi. Ma i satelliti hanno dei limiti, anche quelli che utilizzano tecnologie di ricognizione non visiva, e non tutto ciò che è accaduto in Ucraina è stato rilevato in anticipo. Per i droni, il quadro è piuttosto diverso. Innanzitutto, sono necessariamente lenti e vulnerabili, e le loro prestazioni sono influenzate dalle condizioni meteorologiche, dal fumo e dal camuffamento. Di recente, i russi hanno sperimentato droni che producono fumo per nascondere i movimenti, e naturalmente hanno tenuto conto di nebbia e pioggia per muoversi inosservati. Quest’ultimo punto è interessante, perché suggerisce che in altre aree del mondo, dove le condizioni climatiche sono diverse, i droni potrebbero essere molto più difficili, o molto più facili, da cui nascondersi (si confrontino, ad esempio, le sabbie del Sahel con le giungle della Cambogia).

Inoltre, “drone” (fino a poco tempo fa, “Unmanned Air Vehicle”) è un termine molto generico. È chiaro, ad esempio, che i droni russi che volano oltre Kiev sono di fatto velivoli senza pilota, con una notevole capacità distruttiva. All’altro estremo, le riprese di numerosi attacchi di droni ucraini mostrano piccoli velivoli a corto raggio che sganciano granate su piccoli gruppi di soldati. Questo ci porta a una delle conclusioni più importanti della guerra finora: molto dipende dal comando e controllo generale e dalla capacità di utilizzare le capacità insieme, come parte di un piano generale. È in parte una questione di scala: i russi sembrano essere in grado di trattare l’intera campagna come un’unica operazione (utilizzando attacchi diversivi in ​​una regione per distogliere le forze ucraine, ad esempio) e questa è una capacità in sé, che l’Occidente non possiede, il che è uno dei motivi per cui le “lezioni” potrebbero non essere facili da imparare.

Il numero esatto e il dispiegamento delle truppe russe non sono chiari, ma è indiscutibile che i russi dispongano di un certo numero di eserciti interforze, forti di circa 25.000 uomini, in Ucraina (in Occidente sarebbero chiamati Corpi d’Armata), comandati da un generale di alto rango e coordinati a loro volta da un quartier generale superiore. L’Occidente non ha nulla di simile, e non ne ha avuto, in realtà, dalla fine della Guerra Fredda. Alcuni paesi occidentali hanno mantenuto le “Divisioni”, ma non come unità di manovra: sono essenzialmente formazioni amministrative, e l’ultima volta che una Divisione è stata schierata in operazioni è stata dagli Stati Uniti (da soli) nella Seconda Guerra del Golfo. I requisiti intellettuali, dottrinali e infrastrutturali per operare a quel livello semplicemente non esistono più in Occidente, ed è dubbio che possano essere ricreati. Questo di per sé probabilmente elimina ogni idea che l’Occidente possa “combattere” una guerra convenzionale contro la Russia, ma ovviamente ciò non significa che il suo esercito sarebbe necessariamente inefficace in altri scenari e contro altri avversari.

La rilevanza di questo per i droni è che i russi hanno chiaramente integrato la guerra con i droni a tutti i livelli della loro pianificazione e delle loro operazioni. Esiste evidentemente un piano a livello operativo per raggiungere l’obiettivo strategico di distruggere la capacità dell’Ucraina di sopravvivere e combattere, e la Russia non invia circa 500 droni e missili ad attaccare obiettivi in ​​tutta l’Ucraina senza un’attenta pianificazione e integrazione con le attività delle forze terrestri e aeree. È dubbio che, per ragioni di scala e dottrina, l’Occidente possa fare qualcosa di simile, soprattutto perché sarebbero coinvolti così tanti paesi diversi con così tanti tipi diversi di equipaggiamento.

Nonostante l’attuale entusiasmo, sembra improbabile che l’Occidente adotti i droni come hanno fatto russi e ucraini. Ci sono diverse ragioni per questo, ma la principale è che questi due paesi stanno combattendo una guerra, e in tempo di guerra l’innovazione tende a imporsi come priorità. Entrambe le parti, e in particolare i russi, sono state colte di sorpresa dalla natura della guerra così come si è sviluppata nel 2022, e di conseguenza l’innovazione è stata molto rapida in tutti i settori. Non c’è alcuna possibilità che ciò accada in Occidente: l’urgenza politica non c’è, lo scenario è completamente incerto e, soprattutto, non esiste una dottrina per l’uso effettivo dei droni: in parole povere, se si avessero effettivamente 100.000 droni di diversi tipi, per cosa li useremmo esattamente e come decideremmo? È improbabile che ci sia una risposta, anche perché il sistema decisionale collettivo occidentale è così poco maneggevole. In effetti, o un gruppo di lavoro della NATO impiega dieci anni a sviluppare un concetto, e nel frattempo la tecnologia sarà cambiata, oppure decine di nazioni decidono semplicemente di fare di testa propria. Dico sempre di non scrivere “NATO” seguito da un verbo, perché la NATO, in quanto tale, è ben oltre il punto in cui può fare qualcosa a livello istituzionale, e qualsiasi “decisione” sarà il minimo comune denominatore di molte scelte e pressioni diverse.

Prima di passare alle potenziali “lezioni” dell’Ucraina per i conflitti extraeuropei, vorrei tornare per un attimo alla questione della durata. In altre parole, non vogliamo dare per scontato che il mondo sia cambiato radicalmente solo per scoprire che questo cambiamento inizia ad attenuarsi o addirittura a invertirsi dopo pochi anni. Ci sono molti esempi di ciò che accade, ma due basteranno. Gran parte della paura e dell’agitazione riguardo ai bombardieri con equipaggio umano dopo la Prima Guerra Mondiale derivavano dal fatto che non sembrava esserci un modo ovvio per fermarli: il bombardiere con equipaggio umano era l’equivalente delle armi nucleari nell’immaginario popolare e politico. Ma alla fine degli anni ’30, come ho appena detto, erano stati sviluppati caccia monoplani ad alta velocità e il radar e altre innovazioni fecero sì che i bombardieri non avessero più aria libera. In effetti, inglesi e americani scoprirono rapidamente che far volare bombardieri senza scorta di giorno sulla Germania – che dopotutto era stata l’idea originale – era un suicidio e furono costretti a passare ai bombardamenti notturni. Successivamente, i sistemi di difesa aerea migliorarono radicalmente e ora, in alcune parti del mondo, la domanda è dove i bombardieri riusciranno a sopravvivere.

Qualcosa di simile accadde con il carro armato. Originariamente, il suo scopo era risolvere il problema fondamentale: la fanteria non poteva più muoversi senza protezione in campo aperto per affrontare il nemico senza subire perdite terrificanti. (Se avete guardato video dall’Ucraina, avrete notato che alcune cose non cambiano mai). Quando i carri armati furono poi utilizzati dai tedeschi in operazioni di penetrazione profonda all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, sembrò che fosse arrivata una forza nuova e irresistibile. Ma tale guerra si rivelò presto limitata, con lo sviluppo di armi anticarro a basso costo. Poi la situazione si ribaltò di nuovo: nella guerra in Medio Oriente del 1973, i carri armati israeliani furono annientati da missili anticarro trasportabili. Fu la fine dei carri armati. In realtà non lo fu, perché gli israeliani, nella loro arroganza, avevano semplicemente trascurato i principi della guerra interforze e avevano inviato i carri armati da soli, senza supporto. Ma questo non impedì la diffusione, negli anni ’80, di fantastiche idee di eserciti occidentali equipaggiati solo con missili anticarro. (In effetti, ricordo un piano particolarmente folle: distribuire armi del genere a ogni famiglia in Germania, in modo che i russi non osassero mai attaccare). Come gli esperti militari fecero subito notare, in una situazione del genere i russi avrebbero semplicemente raso al suolo le difese con l’artiglieria.

Ma in ogni caso, la minaccia rappresentata da tali armi era stata compresa da tempo, e ben presto gli inglesi presentarono una speciale corazza composita per i loro carri armati, da allora copiata da nazioni in tutto il mondo. Anche i russi hanno aperto la strada allo sviluppo di misure difensive attive di ogni tipo. Gli attacchi dei droni contro i carri armati sono l’ultima iterazione di una lotta tra attacco e difesa che dura da cinquant’anni e che senza dubbio evolverà ulteriormente. Si stanno sviluppando tecnologie difensive che potrebbero essere in grado di interrompere e proteggere dai droni al punto che ne sarebbero necessari così tanti per ottenere un’eliminazione che il loro utilizzo sarebbe antieconomico. Sarebbe imprudente liquidare subito il carro armato, e in effetti imprudente trarre troppe conclusioni sui droni.

Come ho detto qualche tempo fa, è discutibile quanti altri conflitti simili a quello ucraino ci saranno effettivamente. Ma la questione ovvia è se le stesse tecnologie vengano applicate (o meno) a guerre molto più comuni: tecnologia inferiore, forze meno addestrate e terreni molto diversi. Ovviamente esistono numerose possibilità, ma consideriamo due varianti di base. La prima è il potenziale utilizzo di droni di diverso tipo da parte di paesi con tecnologia intermedia. Sembra che questo sia stato un fattore determinante nel recente conflitto tra Armenia e Azerbaigian. Ora, qui stiamo parlando principalmente di singoli operatori di droni e di droni che trasportano piccole cariche esplosive. In realtà, coordinare gli attacchi con i droni richiede un’infrastruttura estesa per identificare i bersagli, ordinare gli attacchi e coordinarsi con le forze di terra. Sebbene vi siano prove, ad esempio dell’utilizzo di droni da parte delle RSF in Sudan, probabilmente si tratta solo di un singolo individuo. È necessaria una significativa capacità di comando e controllo per utilizzare i droni come fanno i russi e, naturalmente, per essere sicuri che i bersagli attaccati siano quelli del nemico e non i propri.

La seconda è la guerra asimmetrica tra eserciti ad alta tecnologia (spesso occidentali) e forze irregolari o milizie, e si presenta in due forme. Per lungo tempo, milizie e simili hanno avuto un sostanziale vantaggio logistico rispetto alle forze convenzionali. La regola generale nella guerra di controinsurrezione è sempre stata che il governo, o la parte convenzionale, necessitasse di un minimo di dieci soldati schierati sul terreno per ogni guerrigliero. Questo è stato più o meno il caso durante la crisi algerina, dove a un certo punto mezzo milione di soldati francesi erano schierati nel territorio. Allo stesso modo, durante l’emergenza in Irlanda del Nord, fino a 20.000 soldati britannici sono stati coinvolti nello schieramento, nel pre-addestramento o nel riaddestramento contro una forza attiva dell’IRA che non è mai stata misurata in più di centinaia di unità. L’esperienza delle forze NATO e statunitensi in Afghanistan è stata simile. Gran parte del lavoro di queste truppe consisteva semplicemente nel pattugliamento e nella sorveglianza, e potrebbe essere che parte di questo sforzo possa essere dirottato sui droni, se esiste anche una significativa capacità di comando e controllo.

Abbiamo qualche indicazione che l’alta tecnologia, se usata in modo intelligente, stia già alterando questo equilibrio se la parte convenzionale decide di essere proattiva nella ricerca e nell’eliminazione degli irregolari. Questo è stato fatto di recente da Israele contro Hezbollah. Dopo aver penetrato la loro rete di telefonia mobile e averla resa inutilizzabile, e dopo aver sabotato i cercapersone che venivano utilizzati al suo posto, hanno lasciato Hezbollah senza possibilità di comunicazioni mobili. Ciò ha costretto Hezbollah a organizzare un incontro con i comandanti di alto rango e fonti interne al movimento hanno informato gli israeliani di dove e quando, consentendo loro di essere annientati. Gli israeliani hanno utilizzato i droni, non per lo più in combattimenti convenzionali, ma per attaccare obiettivi di precisione, tra cui singoli comandanti, siti di stoccaggio di armi e così via.

In passato, uno dei vantaggi logistici degli irregolari era il costo e la complessità dell’attacco vero e proprio. In Afghanistan, erano necessari costosi droni (essenzialmente velivoli senza pilota) pilotati da specialisti per attaccare obiettivi talebani con sistemi missilistici costosi e complessi. Durante l’intervento francese in Mali, iniziato nel 2013, si è calcolato che ogni combattente jihadista ucciso costasse circa un milione di euro, tenendo conto dei missili e del costo degli aerei convenzionali provenienti dal Niger. Con i droni e i moderni sistemi di comando e controllo, potremmo assistere all’inizio di un cambiamento in questo equilibrio. In Ucraina, droni piccoli e semplici sono stati utilizzati dagli ucraini per colpire persino singoli soldati russi con granate. Se le forze internazionali tornassero nel Sahel (e l’Unione Africana ha già rilasciato dichiarazioni in tal senso), allora, in teoria, un gran numero di droni relativamente semplici, coordinati centralmente, potrebbe essere utilizzato per localizzare gruppi jihadisti e forse ingaggiarli. Ma dobbiamo sempre ricordare che gli eserciti occidentali non hanno esperienza di questo tipo di guerra e che, al di fuori delle grandi guerre, l’innovazione raramente avviene dall’oggi al domani.

Questo potrebbe non essere il caso di gruppi irregolari, milizie, terroristi, chiamateli come volete. Una delle tattiche fondamentali di questi gruppi è l’attacco a obiettivi fissi con auto o camion pieni di esplosivo. Questa fu la tattica usata per uccidere 63 persone, per lo più libanesi, presso l’ambasciata americana a Beirut nel 1983, quando un camion che trasportava 900 chilogrammi di esplosivo riuscì a entrare nel complesso dell’ambasciata e l’autista si fece esplodere, distruggendo gran parte dell’ambasciata. Da quell’episodio, e da altri in diversi paesi, le ambasciate sono diventate sempre più sicure: le ambasciate statunitensi in particolare, come la nuova ambasciata statunitense a Beirut in costruzione, sono diventate campi fortificati, spesso con ampi spazi vuoti ridondanti per impedire agli attentatori di avvicinarsi troppo. Ma gli aggressori cercano ancora di schiantarsi e farsi strada a colpi di esplosivo: in Iraq, lo Stato Islamico ha fatto un uso creativo di bulldozer pieni di esplosivo, spesso utilizzandone diversi in successione per demolire anche strutture altamente protette.

Si presume che tutti questi attacchi, come gli attacchi ai veicoli governativi o delle ambasciate su strada, avvengano a livello del suolo. I veicoli possono essere rinforzati in modo discreto con corazze in Kevlar e non portare segni distintivi, e gli accessi agli edifici possono essere volutamente tortuosi ed elaborati per prevenire attacchi ad alta velocità e per consentire a una torre di guardia di aprire il fuoco se necessario. Tuttavia, anche droni piuttosto semplici potrebbero cambiare radicalmente questo scenario, ed è difficile pensare a una difesa utile che possa essere predisposta contro di loro. Il jamming elettronico, sebbene forse efficace, causerebbe ogni sorta di problemi collaterali, e in ogni caso l’ultima cosa che si desidera è che un drone con una bomba si schianti contro un edificio vicino alla propria ambasciata e causi morti o feriti.

Per il momento, quindi, la situazione è più o meno chiara che mai in questa fase di crisi. Tuttavia, possiamo trarre qualche conclusione (molto provvisoria)? Vorrei suggerire tre possibili spunti di riflessione:

  • In primo luogo, è probabile che l’entusiasmo e l’eccitazione del pubblico e degli esperti superino di gran lunga qualsiasi reale possibilità di trarre conclusioni utili, per non parlare di apportare cambiamenti utili. Il panico da droni è già iniziato e continuerà, anche perché la persona media non ha idea di che aspetto abbia un drone militare, per non parlare di come differiscano l’uno dall’altro. È probabile che ci saranno pressioni politiche per “scudi anti-droni” altamente costosi e probabilmente inutili sulle aree popolate dell’Occidente, e contromisure altrettanto costose e inutili. Burloni, attivisti politici e semplici idioti riusciranno a chiudere aeroporti e spazio aereo per lunghi periodi: una telefonata o un annuncio sui social media potrebbero essere sufficienti a diffondere il panico. Qualsiasi incidente aereo sarà immediatamente e automaticamente attribuito ai droni. Nel frattempo, naturalmente, l’effettivo uso ostile dei droni per attività come la ricognizione ravvicinata di installazioni sensibili verrà perso nel rumore.
  • In secondo luogo, l’Occidente sarà lento ad adottare le tecnologie utilizzate in Ucraina (inclusi, ma non solo, i droni) e lo farà in modo disomogeneo e con modalità diverse, per ragioni finanziarie, burocratiche e politiche. A sua volta, ciò deriverà in parte dal fatto che le “lezioni” dell’Ucraina, come di altre grandi guerre e crisi, saranno contestate e controverse, e dipenderanno in una certa misura dalle conclusioni che sarà politicamente possibile raggiungere e difendere.
  • Infine, le tecnologie introdotte in Ucraina, e quelle ancora in fase di sviluppo, troveranno utilizzi che per il momento nessuno può prevedere, alcuni positivi, altri negativi. (La criminalità organizzata potrebbe trovare utili le tecnologie dei droni per il trasporto di droga, ad esempio).

Per ora è tutto.

Ucraina e UE: compagni di sventura insieme alle corde_di Simplicius

Ucraina e UE: compagni di sventura insieme alle corde

Simplicius 11 dicembre∙
 
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Sembra che le cose abbiano preso una brutta piega nella vicenda degli “amanti sfortunati” dell’Ucraina e della sua euforica fanciulla europea.

Le opzioni stanno rapidamente esaurendosi, con il fallito tentativo di pirateria di Bruxelles e le riunioni sempre più convulse e umilianti dell’Euro-circus-roadshow, non rimangono praticamente altre opzioni oltre alle autoflagellanti convulsioni di disperazione a cui stiamo dolorosamente assistendo.

Il club dei perdenti con un indice di gradimento complessivo inferiore al 50%

La cosa triste è che questo carnevale non ha quasi più pubblico: chi è, esattamente, protagonista di questa farsa esagerata? per di più?

È chiaro che non c’è più alcuna visione per il futuro, nessuna soluzione praticabile, e gli ultimi fedeli sostenitori globalisti di Macron, Merz e Starmer si comportano come polli senza testa che vagano da una capitale europea in crisi all’altra per la loro interminabile processione di rituali umilianti.

Nel frattempo, i tiranti dell’UE stanno cedendo mentre l’intera struttura traballante inizia a gemere sotto il peso schiacciante della sua irrilevanza. Qui lo scrittore franco-polacco Daniel Foubert offre una diagnosi vivacedella follia terminale e della disgregazione che attanagliano l’Europa morente:

L’Europa non ha “un problema”. Ha TRE problemi: tre nazioni europee stanno soffrendo di una grave “sbornia post-imperiale”.

In primo luogo, c’è il Regno Unito, una nazione che ha votato per la Brexit per “riprendere il controllo”, solo per rendersi conto di aver completamente dimenticato come guidare.

La crisi d’identità britannica è come guardare un leone in pensione che cerca di adottare una dieta vegana. Hanno scambiato la fiducia imperiale con un corso di sensibilizzazione del reparto risorse umane. La terra di Churchill è ora governata da una burocrazia tentacolare, uno “Stato assistenziale” che teme più di offendere qualcuno su X che il declino reale. La polizia britannica, un tempo invidiata dal mondo intero, ora sembra dedicare più risorse alle indagini su “incidenti di odio non criminali” e alla verniciatura delle auto di pattuglia con i colori dell’arcobaleno che alla risoluzione dei furti con scasso. È una nazione che si aggrappa disperatamente all’estetica della tradizione – la famiglia reale, lo sfarzo, il tè – mentre le sue istituzioni sono state svuotate da un marciume progressista che fa sembrare conservatore un campus universitario californiano. Vogliono la spavalderia del XIX secolo, ma sono paralizzati dalla fragilità emotiva del XXI.

Poi c’è la Francia, la zia arrabbiata e fumatrice incallita dell’Europa che si rifiuta di ammettere di essere disoccupata da decenni.

I postumi della Francia si manifestano come uno stato permanente di insurrezione mascherato da “impegno civico”. La loro identità è divisa tra un’élite delirante che pensa ancora che Parigi sia la capitale dell’universo e una popolazione che esprime la sua “joie de vivre” bruciando le fermate degli autobus ogni giovedì. I francesi soffrono di un complesso napoleonico senza Napoleone; esigono il tenore di vita di un impero conquistatore mentre lavorano 35 ore alla settimana e vanno in pensione a un’età in cui la maggior parte degli americani sta appena entrando nel pieno della propria carriera. Predicano i “valori repubblicani” e un secolarismo aggressivo, eppure lo Stato ha perso il controllo su vaste aree delle proprie periferie. La Francia è essenzialmente un bellissimo museo a cielo aperto dove i curatori sono in sciopero, le guardie hanno paura dei visitatori e la direzione è impegnata a dare lezioni al resto del mondo sulla “grandeur”, mentre la bolletta dell’elettricità rimane insoluta.

Infine, abbiamo la Germania, il gigante nevrotico che ha deciso che l’unico modo per espiare la propria storia è quello di commettere un lento suicidio industriale.

Il postumi dell’impero tedesco è una malattia autoimmune morale: il Paese è così terrorizzato dalla propria ombra che ha sostituito l’orgoglio nazionale con un’aggressiva autoflagellazione e norme sul riciclaggio. La loro identità si basa sull’essere la “superpotenza morale”, il che si traduce praticamente nella chiusura delle loro centrali nucleari perfettamente funzionanti per bruciare carbone sporco, il tutto mentre danno lezioni ai loro vicini sull’impronta di carbonio. È una nazione di ingegneri che hanno progettato una società che non funziona. Lo spirito tedesco, un tempo caratterizzato da efficienza e disciplina, si è trasformato in una burocrazia paralizzata, dove compilare il modulo corretto è più importante del risultato. Sono così disperatamente desiderosi di evitare di essere “minacciosi” che sono diventati essenzialmente una grande ONG con un esercito che ha scope al posto dei fucili, terrorizzati che mostrare un po’ di spina dorsale possa essere interpretato come una ricaduta.

Ma ciò che è degno di nota è che, nonostante queste convulsioni terminali, i burattini dell’euro continuano a raddoppiare gli stessi tormenti che li hanno condotti in questo pozzo senza fondo di disperazione. Ad esempio, Qui un parlamentare danese chiede che l’Europa abbia il proprio nucleare.armi dopo i presunti tradimenti degli Stati Uniti, che “non possono più difendere l’Europa”.

Merz è stato anche visto enfatizzare la solennità sdolcinata durante uno scambio sceneggiato in cui un soldato della Bundeswehr lo informava che molti membri delle forze armate non intendono vivere oltre i 40 anni, sottintendendo una sorta di “grande guerra” imminente: uno spettacolo di allarmismo tanto impressionante quanto rivoltante.

Persino Politico ha inferto un duro colpo all’Europa con il suo nuovo numero che presenta Trump come “la persona più potente d’Europa”, relegando scandalosamente gli altri “grandi” europei in fondo alla classifica:

https://www.politico.eu/politico-28-class-of-2026/

È chiaro che anche l’istituzione ha riconosciuto la totale insignificanza di questi cosiddetti “leader di primo piano”.

Ma mentre l’effimera vicenda si esaurisce e la cerchia di sostegno di Zelensky esaurisce le opzioni, anche lo stesso narco-nano comincia a rendersi conto che il tempo sta per scadere. Trump ha ora dato un ultimatum all’Ucraina affinché accetti l’accordo entro Natale, con notizie che sostengono che Trump “abbandonerà” l’Ucraina.

Le idi di dicembre sono ormai alle porte e le notizie che portano con sé non sono ottimistiche.

Con Yermak sconfitto, Zelensky è rimasto solo a fissare il precipizio e per una volta ha ammesso di essere pronto per le elezioni entro 60 giorni dal cessate il fuoco.

L’Ucraina è pronta a tenere le elezioni nei prossimi 60-90 giorni se i suoi alleati potranno garantire la sicurezza del voto, ha dichiarato martedì il presidente Volodymyr Zelensky, in seguito alle critiche del suo omologo americano Donald Trump. -CNN

Possiamo solo supporre che l’unico mandato rimasto al narco-fuhrer sia quello di sparire in modo tale da non renderlo un bersaglio per la vendetta dei gruppi nazionalisti ucraini più militanti. Ciò significa che probabilmente è pronto a rinunciare al trono “democraticamente”, a patto di poter prima garantire un cessate il fuoco “favorevole” che placasse il blocco banderista, che recentemente lo ha minacciato più volte.

https://www.cnn.com/2025/12/09/europe/ukraine-elections-zelensky-trump-russia-proposal-intl-latam

Zelensky ha chiesto sostegno per realizzare questo obiettivo, ma purtroppo il suo “gruppo di sostegno” di professionisti europei, sempre più esiguo, ha sempre meno potere di fare qualcosa, dato che gli Stati Uniti hanno lanciato alcuni dei più feroci attacchi all’unità dell’Europa e della NATO, con la recente Strategia di Sicurezza Nazionale di Trump, Musk e l’ultimo appello dell’impero Twitter per lo scioglimento dell’UE, e ora anche l’ultimo disegno di legge di Massie per ritirare completamente gli Stati Uniti dalla NATO:

In particolare, leggi le parti sottolineate sopra.

Anche Zelensky sa che il gioco è finito e ora non solo sta implorando un cessate il fuoco e le elezioni, ma sta anche implorando la Russia per una nuova “tregua energetica”, dopo i devastanti colpi che la Russia ha inferto alla rete elettrica ucraina nelle ultime settimane.

https://www.zerohedge.com/geopolitica/la-russo-rifiuta-nuova-offerta-di-zelensky-energia-cessate-il-fuoco-problemi-riparazione-rete-elettrica-aggravarsi

Basta ascoltare Alexander Kharchenko, “direttore del Centro di ricerca sull’energia” dell’Ucraina, mentre spiega che la rete energetica non dispone più di risorse per il ripristino:

Se la Russia continua gli attacchi contro l’Ucraina, per il settore energetico è finita, non ci saranno pezzi di ricambio per le riparazioni! E solo la Russia li produce.

“Se la Russia attaccherà ancora 2-3 volte, non avremo più attrezzature per riparare il sistema elettrico”.
– Kharchenko, direttore del Centro di ricerca sull’energia

Uno dei principali canali ucraini che ha riportato la notizia dei nuovi attacchi alla rete energetica russa avvenuti ieri sera:

Kiev dovrà affrontare interruzioni di corrente senza precedenti: alcuni gruppi rimarranno senza elettricità per quasi 17 ore, — DTEK.

Come si può vedere, con la rete energetica ucraina in una situazione così precaria da spingere lo stesso Zelensky a implorare la Russia per un nuovo cessate il fuoco energetico, e con la reputazione dell’UE e della NATO in frantumi e i piani in fumo, le cose non sono mai sembrate così catastrofiche per l’Ucraina.

E tenete presente questo: Il fulcro della narrativa e della propaganda della “vittoria” dell’Ucrainasono stati i suoi cosiddetti attacchi “devastanti” alle risorse energetiche della Russia. Ciò significa che per Zelensky offrire di sacrificare quest’ultima e fondamentale carta vincente – senza la quale l’Ucraina non ha alcuna possibilità di ottenere la “vittoria” – significa che gli attacchi della Russia alla rete elettrica ucraina sono stati davvero devastanti, al punto che Zelensky e il suo team devono aspettarsi una catastrofe imminente. Anche mentre scriviamo, la Russia sta nuovamente colpendo i punti energetici dell’Ucraina sia a Odessa che a Kremenchug, con segnalazioni di interruzioni di corrente.

Nel frattempo, le timide iene europee continuano a girare intorno alla periferia, inserendo furtivamente le loro truppe nelle “retrovie” dell’Ucraina per cercare di influenzare la situazione in ogni modo possibile e disperato. Sfortunatamente per loro, ora stanno subendo perdite, poiché la necessità impellente di arginare le perdite dell’Ucraina li ha apparentemente costretti a passare a ruoli più “attivi”, aperti o “di primo piano”, tanto che molto probabilmente sono finiti sotto il fuoco diretto della Russia, in questo caso presumibilmente dal sistema Iskander:

Per chi se lo stesse chiedendo, quanto sopra rappresenta una sorta di punto di svolta perché non si tratta della morte di un semplice britannico mercenario, come spesso accade oggi, ma piuttosto il primo decesso in assoluto di un soldato in servizio attivo in Ucraina.

https://euromaidanpress.com/2025/12/10/uk-confirms-first-military-casualty-in-ukraine-during-ukrainian-defense-capability-trial/

Si tratta della prima vittima tra i militari britannici in servizio in Ucraina dall’invasione russa del febbraio 2022.

Il Guardian riconosce:

https://www.theguardian.com/uk-news/2025/dec/10/british-solider-killed-on-duty-in-ukraine-named-at-lcpl-george-hooley

Si noti che il defunto caporale George Hooley apparteneva al “Parachute Regiment”, un’unità d’élite delle forze speciali delle forze armate britanniche; da ciò possiamo dedurre e inferire diverse cose.

L’affermazione:

È rimasto ferito in un tragico incidente mentre osservava le forze ucraine testare una nuova capacità difensiva, lontano dal fronte ha aggiunto il ministero.

Quale “nuova capacità difensiva” stavano testando? Presumibilmente un qualche tipo di sistema di difesa aerea contro l’Iskander in arrivo.

In ogni caso, questo è tutto ciò che resta all’Europa disperata: misere “azioni di retroguardia” per cercare di sostenere il proprio crollo del Progetto Ucraina. Nel frattempo, le forze russe continuano ad avanzare con sicurezza, conquistando oggi finalmente Seversk, con Gulyaipole e altre città sotto minaccia:

Ci sono notizie sparse secondo cui la Federazione Russa avrebbe sfondato fino al centro di Gulyaypole.Finora non siamo in grado di confermare queste notizie, ma si registrano movimenti da più parti verso il centro. In alcuni casi, l’«Eastern Express» si trova a meno di un chilometro dal centro. Il segno blu sulla mappa indica la posizione centrale della città, che la Federazione Russa deve ancora raggiungere.

Sembra che il tempo stia finalmente scadendo per l’Ucraina, insieme ai suoi alleati europei e della NATO.

Il barattolo delle Mance rimane un anacronismo, un arcaico e spudorato doppio prelievo, per coloro che non riescono proprio a trattenersi dal ricoprire i loro umili autori preferiti con una seconda avida dose di generosità.

La strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti provoca sconvolgimenti in Europa_di Modern Warn Monitor

La strategia di sicurezza nazionale degli Stati Uniti provoca sconvolgimenti in Europa

Una schietta valutazione americana delle risorse limitate e della necessità di un riavvicinamento con la Russia mette a nudo le illusioni strategiche dell’Europa e la sua crisi geopolitica sempre più profonda.

8 dicembre 2025

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President Donald Trump signs executive orders flanked by Secretary of Health and Human Services Robert F. Kennedy, Jr. and Director of the National Institutes of Health Jay Bhattacharya, Monday, May 5, 2025, in the Oval Office. (Official White House Photo by Molly Riley)

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Vorrei cogliere questa occasione per riunire i numerosi filoni emersi dopo la pubblicazione del Strategia di sicurezza nazionale degli Stati Unitie di considerarli con l’approccio calmo e metodico che richiedono. Infatti, sebbene il documento abbia già scatenato una tempesta in tutta Europa e i governi di tutto il continente sembrino increduli, la storia più profonda sta solo iniziando a svelarsi.

Per comprendere la portata dello shock in Europa occorre innanzitutto comprendere la premessa fondamentale su cui si è basata la politica europea dalla fine della Guerra Fredda. I governi europei si sono convinti che l’Occidente fosse un unico organismo strategico. In questa concezione gli Stati Uniti erano naturalmente il leader, ma l’Europa si considerava un partner indispensabile che contribuiva con la sua profondità economica e un obiettivo civilizzatore condiviso.

Molti in Europa lo credevano sinceramente. Altri lo ripetevano diligentemente perché serviva ai loro interessi. Eppure, proprio questa convinzione è diventata il fondamento su cui sono state prese le decisioni.

La seconda ipotesi era ancora più importante. Le élite europee si erano convinte che il potere americano fosse illimitato. Se gli Stati Uniti desideravano un risultato, allora per definizione era realizzabile. Che fosse in Medio Oriente, nell’Europa orientale o in Asia, persisteva la convinzione che la portata delle risorse militari e finanziarie americane garantisse il successo finale. Se si verificavano battute d’arresto, erano temporanee. Se le politiche vacillavano, potevano essere corrette.

La convinzione di fondo era che gli Stati Uniti potessero sempre imporre la propria volontà, se avessero deciso di farlo.

La nuova Strategia di Sicurezza Nazionale ha smontato queste ipotesi in modo chiaro e diretto.. Afferma in termini inequivocabili che il potere americano non è illimitato. Osserva che le risorse sono limitate, che le preoccupazioni interne sono in aumento e che gli Stati Uniti devono ora dare priorità all’emisfero occidentale. Una cosa è che lo dicano analisti o commentatori. Ben altra cosa è che il presidente degli Stati Uniti firmi un documento che lo affermi con lucida chiarezza.

Per l’Europa si tratta di un vero e proprio terremoto politico.

La recensione va oltre. Descrive l’Europa non come un partner dinamico, ma come un continente in declino. Si dice che le sue istituzioni ostacolino la crescita. La sua direzione politica è descritta come autoritaria. La sua coesione culturale è descritta come fragile.

Si tratta di osservazioni che molte persone hanno fatto in modo discreto o privato, ma che ora sono state inserite nella dottrina strategica degli Stati Uniti. Ecco perché la reazione in Europa è stata così viscerale. I leader europei non solo si trovano di fronte a un ritratto poco lusinghiero, ma devono anche rendersi conto che Washington non li considera più fondamentali per i propri obiettivi globali.

La parte più significativa della Strategia di Sicurezza Nazionale riguarda la Russia. Per anni i leader europei hanno insistito sul fatto che la Russia è un aggressore che deve essere affrontato e sconfitto. Hanno sostenuto che qualsiasi compromesso è un appeasement e qualsiasi negoziazione è una capitolazione. Tuttavia, il documento americano dice qualcosa di molto diverso. Afferma che gli Stati Uniti devono cercare di ripristinare la stabilità nelle loro relazioni con la Russia e che ciò è necessario per rimodellare la loro posizione strategica.

Non si tratta di un commento fugace, bensì di un orientamento strategico sostanziale. Ciò implica che la guerra in Ucraina non può essere vinta secondo i termini richiesti dall’Europa. Deve essere portato a termine attraverso un accordo stabile con la Russia..

Non c’è da stupirsi che i governi europei siano allarmati. Negli ultimi tre anni, tutta la loro politica si è basata sulla convinzione che gli Stati Uniti avrebbero continuato a sostenere la vittoria dell’Ucraina. Ora si trovano a leggere un documento che suggerisce che gli Stati Uniti mirano a un disimpegno ordinato dall’Europa stessa.

I leader europei ripetono i soliti slogan sull’unità e sui valori condivisi. Insistono sul fatto che l’Occidente rimane forte quando è unito. Tuttavia, queste proteste sembrano sempre più vuote. Sembrano le recitazioni di funzionari che sanno che il terreno sotto i loro piedi sta cambiando, ma che si rifiutano di ammetterlo.

Nei corridoi delle capitali europee si respira un clima che unisce panico e negazione. I funzionari comprendono che la Strategia di Sicurezza Nazionale americana ha cambiato i calcoli. Tuttavia, si aggrappano alla speranza che questo cambiamento sia temporaneo. Si rassicurano pensando che forze potenti all’interno di Washington rimangano fedeli alla vecchia dottrina del dominio globale. Si convincono che se l’attuale amministrazione vacillerà, una futura amministrazione ripristinerà il vecchio ordine.

Forse lo faranno. Forse no. La realtà è che la strategia esiste. Si tratta di un documento ufficiale che riflette una valutazione attuale delle risorse e delle priorità. Anche se le future amministrazioni tenteranno di revocarla, le pressioni strutturali che l’hanno generata rimarranno.

Consideriamo l’Ucraina in questo contesto. I governi europei sanno che la situazione militare sta peggiorando rapidamente. Sanno che l’esercito ucraino è esausto e a corto di personale. Sanno che l’esercito russo ha preso l’iniziativa. Continuano a circolare notizie di posizioni che crollano e carenze di equipaggiamento. Le forze russe stanno avanzando su più fronti.

La capacità dell’Ucraina di resistere ancora a lungo è seriamente in dubbio.. Dietro le quinte, i funzionari ucraini chiedono maggiori risorse, mentre i governi europei scoprono che i propri arsenali sono esauriti.

Nel mezzo di questa crisi, gli Stati Uniti sembrano segnalare che la guerra deve essere portata a una conclusione negoziata. I leader europei trovano questo intollerabile. Per loro la guerra è diventata un progetto ideologico. È il pilastro su cui immaginano una rinnovata unità occidentale. Porre fine alla guerra senza una vittoria ucraina metterebbe a nudo l’illusione strategica al centro del loro progetto. Rivelerebbe anche la loro incapacità di comprendere il vero equilibrio di potere.

Gli europei hanno quindi assunto una posizione strana e pericolosa. Sembrano determinati a prolungare il conflitto per impedire proprio quei negoziati che gli Stati Uniti considerano ora essenziali.

È sempre più evidente che alcuni governi europei stanno esortando l’Ucraina a respingere le proposte americane. Se Washington suggerisce che l’Ucraina debba ritirarsi da alcuni territori come parte di un accordo, i funzionari europei sussurrano che tali concessioni devono essere rifiutate. Dicono ai leader ucraini che accettare tali condizioni sarebbe un tradimento imperdonabile. Tuttavia, non riescono a spiegare come l’Ucraina possa continuare a combattere, date le realtà militari sul campo. Sembrano credere che se la guerra persisterà abbastanza a lungo, gli Stati Uniti saranno costretti a tornare a un impegno totale.

In altre parole, cercano di intrappolare Washington in un conflitto che Washington ora desidera porre fine.

Si tratta di una strategia rischiosa. È improbabile che gli Stati Uniti reagiscano con benevolenza se giungono alla conclusione che l’Europa sta deliberatamente sabotando i loro tentativi di stabilizzare la situazione internazionale. I funzionari americani hanno già iniziato a chiedersi perché dovrebbero rimanere legati a un’alleanza in cui le istituzioni europee perseguono politiche contrarie agli interessi americani. Quando gli stessi funzionari incontrano i leader europei alle riunioni della NATO e li vedono lodare l’unità mentre contemporaneamente ostacolano le iniziative americane, la frustrazione è inevitabile.

La disputa sui beni russi congelati illustra perfettamente questa tensione. I funzionari europei continuano a chiedere il sequestro di oltre cento miliardi di euro di fondi russi. Lo presentano come una necessità finanziaria per l’Ucraina, anche se sanno che tale somma non cambierebbe in modo significativo l’esito a lungo termine della guerra. Il vero motivo sembra essere politico. Sperano di rendere impossibile qualsiasi accordo con la Russia convertendo questi beni in leva finanziaria.

Gli americani lo capiscono. Hanno avvertito che tali sequestri renderebbero i negoziati molto più difficili e potrebbero persino costituire una forma di guerra economica che provocherebbe ritorsioni. Eppure gli europei vanno avanti, soprattutto perché temono che un negoziato riuscito accelererebbe il disimpegno strategico degli Stati Uniti dall’Europa.

Questa divergenza di obiettivi potrebbe causare una frattura all’interno dell’Occidente.Si può immaginare uno scenario in cui la guerra in Ucraina giunga alla fase finale. L’economia ucraina subisce un’ulteriore contrazione. L’esercito registra un aumento delle diserzioni. Le forze russe ottengono nuove conquiste. Con il deteriorarsi della situazione, gli Stati Uniti intensificano i loro sforzi per raggiungere un accordo.

Eppure gli europei cercano di ostacolare questi sforzi spingendo l’Ucraina a resistere. Se il conflitto dovesse concludersi con un collasso anziché con un accordo negoziato, le recriminazioni sarebbero feroci. Gli americani potrebbero accusare gli europei di aver impedito una pace tempestiva. Gli europei potrebbero accusare gli americani di aver abbandonato l’Ucraina. L’alleanza potrebbe sopravvivere a una simile lite, ma è altrettanto possibile che precipiti in una sfiducia irreparabile.

Al momento l’Europa si trova ad un bivio. Può riconoscere il cambiamento del sistema internazionale e prepararsi ad un’era in cui il sostegno americano sarà più condizionato. Oppure può continuare ad aggrapparsi alle illusioni del passato. I segnali suggeriscono che i leader europei preferiscono la seconda opzione.

  • Non vogliono affrontare le debolezze economiche dell’Europa.
  • Non desiderano esaminare la sclerosi istituzionale evidenziata dalla Strategia di sicurezza nazionale americana.
  • Non vogliono affrontare la frammentazione politica all’interno delle loro società.
  • Preferiscono proiettare queste ansie all’esterno insistendo su un confronto permanente con la Russia.

Se l’Europa continuerà su questa traiettoria, le conseguenze saranno profonde.

  • Il sistema finanziario potrebbe trovarsi ad affrontare una maggiore instabilità.
  • La coesione politica dell’Unione europea potrebbe essere messa a dura prova.
  • La partnership strategica con gli Stati Uniti potrebbe deteriorarsi fino a sfociare in un aperto dissidio.

Questi risultati non sono inevitabili, ma diventano più probabili con il passare dei mesi senza una rivalutazione realistica della politica europea.

È possibile che gli eventi sul campo di battaglia costringano a una tale rivalutazione. Se le linee difensive ucraine continueranno a crollare e se le forze russe otterranno risultati operativi decisivi, la narrativa costruita dall’Europa crollerà. A quel punto i leader europei potrebbero scoprire che il loro rifiuto di pianificare alternative li ha lasciati senza leva e senza opzioni. Potrebbero anche scoprire che Washington non è più disposta a portare il peso delle decisioni europee che non ha sostenuto.

Vedremo come si evolverà l’inverno. Vedremo come si evolverà la situazione militare. Vedremo come le pressioni economiche peseranno sull’Ucraina e sull’Europa stessa.

Ciò che è già chiaro è che le ipotesi strategiche che hanno guidato l’Europa per trent’anni non sono più valide.La Strategia di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti ha messo in luce questo aspetto con estrema chiarezza.

Se l’Europa si adatterà o resisterà è una questione che determinerà il futuro del continente per gli anni a venire.

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Lo scisma d’Occidente, il ritorno alla neutralità americana e il nuovo ordine multipolare_di Gordon Hahn

Lo scisma d’Occidente, il ritorno alla neutralità americana e il nuovo ordine multipolare

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Anni fa, mi aspettavo ciò che si è poi verificato: un mondo nuovamente diviso.* La fine della Guerra Fredda aveva portato a una certa reintegrazione e unipolarità grazie alla globalizzazione e all’egemonia americana. Ma, ahimè, il mondo si è nuovamente diviso tra Est (e Sud, in una certa misura) e Ovest, in gran parte a causa dell’abbandono del realismo da parte di quest’ultimo e dell’adozione di un idealismo radicale guidato da convinzioni ideologiche e dall’arroganza post-Guerra Fredda.

Tuttavia, meno evidente era un ulteriore scisma – uno scisma nello scisma – che si stava verificando all’interno dell’Occidente stesso. Le differenze tra gli elementi realisti residui e la crescente prospettiva idealista, tra gli altri fattori, stanno ora dividendo nettamente l’Occidente in due blocchi che si completano a vicenda. Certo, era chiaro da tempo che all’interno degli stati occidentali si stavano polarizzando sempre più forze “liberali” contro “conservatrici”, “globaliste” contro “populiste”, in definitiva, pratiche contro utopiche.

Questo perché il progetto occidentale è diventato essenzialmente un progetto messianico e utopico, che afferma che la diffusione della democrazia in tutto il mondo è inevitabile e porrà fine a guerre, carestie, gerarchie e repressione. Un tale obiettivo – in realtà un risultato storicamente predeterminato, come ad esempio propugnato da Francis Fukuyama – spesso porta i suoi sostenitori ad accettare qualsiasi mezzo per raggiungerlo. Il progetto comunista e le sue modalità rivoluzionarie violente ne sono un esempio lampante. Il bolscevismo democratico si sta muovendo nella stessa direzione. Se la diffusione della democrazia (leggi: repubblicanesimo) porterà pace, prosperità e libertà perpetue, perché non dovrebbero essere spazzati via tutti gli ostacoli e gli oppositori? E quali mezzi non sono degni di questo nobile fine storicamente determinato? L’inferiorità degli oppositori del progetto repubblicano e la visione lucida dei suoi adepti e profeti richiedono il massimo sforzo, non è vero?

Sullo sfondo di una scala così monumentale, il popolo ucraino e persino la stessa statualità ucraina diventano piccoli sacrifici sull’altare della democratizzazione globale e dell’espansione della NATO, se questo promette la sconfitta dei nemici della democrazia e garantisce la marcia finale dell’umanità verso l’utopia. In effetti, in alcuni circoli occidentali, l’ascesa al governo repubblicano è vista come benedetta da Dio, alla pari della Seconda Venuta e dell’arrivo del Regno Celeste sulla terra. Gli Stati Uniti sono la nazione scelta da Dio per offrire libertà e pace celestiali e perpetue a tutta l’umanità. In questo contesto, persino gli occidentali, siano essi individui, partiti, candidati elettorali o stati che rifiutano alcuni dei metodi di “promozione della democrazia” – espansione della NATO, rivoluzioni colorate, colpi di stato, sanzioni economiche e così via – sono nemici della Storia, persino di Dio, e possono diventare bersagli di recriminazioni, ritorsioni e repressione da parte dei “veri democratici”. Pertanto, la promozione della democrazia occidentale si è evoluta fino a includere l’uso deliberato della forza per raggiungere i suoi scopi.

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Ci vollero decenni perché queste divisioni create dal bolscevismo democratico si manifestassero tra gli stati occidentali, con interi stati che si schierarono su fronti opposti sulle barricate in questo scontro, formando due veri e propri blocchi politici all’interno dell’Occidente. Questa accentuata biforcazione è il risultato dei disaccordi sulla politica estera post-Guerra Fredda, sia all’interno che tra gli stati occidentali, portando in primo piano il confronto tra realisti e idealisti.

Il catalizzatore del crescente consolidamento di questo nuovo scisma tra gli stati occidentali è stata la guerra NATO-Russia-Ucraina. La guerra non solo sta dividendo e polarizzando le forze politiche all’interno degli stati occidentali, ma sta anche creando due blocchi statali concorrenti, persino antagonisti, all’interno dell’Occidente, non ancora istituzionalizzati. Da una parte si trova il blocco populista o nazionalista, composto dall’America di Donald Trump, dall’Ungheria di Viktor Orbán, dalla Slovacchia di Robert Fico e forse dalla Serbia di Aleksandr Vučić. Con l’ulteriore implosione dell’economia, della politica e della cultura europea, altri paesi potrebbero essere aggiunti a questa lista. Dall’altro lato, c’è il blocco di sinistra, utopico, se vogliamo, “wokista”, composto dal resto dell’Europa fino a includere il Maidan Ucraina di Volodomyr Zelenskiy, senza i disertori nazionalisti che si sono riallineati con gli Stati Uniti. Naturalmente, la condivisione dei “valori europei” da parte di Kiev è un mito, a meno che non si includa il fattore fascista, che è stato un passato reale sia dell’Europa che dell’Ucraina.

Possiamo vedere questo nuovo scisma più facilmente osservando il conflitto tra i paesi occidentali sulla guerra ucraina tra NATO e Russia. Il presidente Trump, nonostante tutti i suoi difetti, ha compiuto uno sforzo concertato, seppur incoerente, per porre fine alla guerra. Certo, Washington inizialmente è stata il motore di questa guerra e l’ideatrice delle sue cause, in particolare l’espansione della NATO, in particolare in Ucraina, per non parlare della rivoluzione colorata contro gli alleati e i vicini della Russia o della cessazione della partecipazione ai trattati ABM (amministrazione Bush) e INF (prima amministrazione Trump). Ma Trump ha imboccato una nuova strada.

Tuttavia, ogni volta che Washington ha proposto un nuovo piano o programma di pace, l’Europa si è unita per sostenere gli sforzi della corrotta élite ucraina volti a prolungare la guerra suicida. Ad agosto, gli europei hanno insistito per proseguire l’espansione della NATO in Ucraina (e altrove, naturalmente) e hanno spinto per un cessate il fuoco che precedesse un trattato completo, offrendo un contropiano alle proposte di Trump all’epoca. In base a questo piano, l’Occidente, compresi gli Stati Uniti, avrebbe dovuto fornire garanzie di sicurezza del tipo che l’Occidente si rifiutò di dare a Zelenskiy quando si preparò a firmare un trattato di pace nell’aprile 2022 per porre fine alla guerra. Ciò avrebbe consentito alla NATO, sotto le spoglie della “coalizione dei volenterosi” europea, di inviare forze militari in Ucraina. Trump ha respinto il piano europeo-ucraino e ha invece invitato Putin in Alaska, concordando sul fatto che un cessate il fuoco non dovesse precedere un trattato completo.

Il mese scorso, quando Trump ha proposto un piano di pace in 28 punti o almeno un programma di discussione che includeva alcuni punti specifici del trattato, l’Europa ha immediatamente presentato un piano alternativo che era in totale contraddizione con l’agenda di Trump, includendo tutte le richieste dell’Ucraina inaccettabili per la Russia ed escludendo tutte le richieste russe inaccettabili per l’Ucraina.

Pertanto, l’Europa si è affrettata a trovare fondi per scongiurare un collasso finanziario ed economico in Ucraina entro l’inverno o la primavera. Trump, al contrario, ha annunciato che interromperà ogni assistenza finanziaria a Kiev, pur subordinando tutte le forniture di armi al pagamento del prezzo pieno da parte dell’Europa o dell’Ucraina.

In effetti, l’Europa sta facendo di tutto per mantenere l’Ucraina in lotta mentre Trump cerca un accordo di pace ucraino. Sta cercando modi per attingere ai fondi sovrani russi sequestrati per finanziare il bilancio ucraino e la guerra. Ha molestato e forse persino partecipato ai recenti attacchi dell’Ucraina alla flotta ombra russa e sta procedendo al divieto totale delle importazioni di energia dalla Russia entro il 2026-2027 (anche se per ora la flotta ombra spedisce più spesso petrolio e GNL russi in Francia e altri paesi europei).

Voci stridenti provenienti dall’Europa minacciano persino la Russia di una guerra condotta direttamente dalle truppe europee, piuttosto che indirettamente tramite armi, intelligence, pianificazione e assistenza all’addestramento europei a Kiev. La Francia ha parlato quasi incessantemente di inviare truppe a Odessa e altrove in Ucraina, e politici e generali europei non fanno che incitare alla guerra. La Germania ha annunciato che la guerra è probabile entro il 2029 perché la Russia invaderà apparentemente l’Europa, se e quando sconfiggerà l’Ucraina, e così Berlino ha tentato di gonfiare la leva militare. Il ministro degli Esteri dell’UE Kaya Kallas ha chiesto lo smembramento della Russia. Più di recente, il generale Fabien Mandon, nuovo capo di stato maggiore dell’esercito francese, ha dichiarato a un congresso di sindaci che la Francia deve trovare la forza di combattere: “Ciò che ci manca – ed è qui che voi [sindaci] avete un ruolo da svolgere – è lo spirito. Lo spirito che accetta che dovremo soffrire se vogliamo proteggere ciò che siamo. Se il nostro Paese vacilla perché non è pronto a perdere i suoi figli… o a soffrire economicamente perché la priorità deve essere la produzione militare, allora siamo davvero a rischio” ( www.nytimes.com/2025/11/24/world/europe/france-voluntary-military-service.html ). Analogamente, l’ex Segretario Generale della NATO Anders Fogh Rasmussen ha recentemente dichiarato: “L’Europa deve smettere di aspettare segnali da Washington e prendere l’iniziativa in Ucraina. … Ecco perché ora chiedo all’Europa di schierare fino a 20.000 soldati dietro le linee del fronte ucraino, di istituire uno scudo aereo con circa 150 aerei da combattimento e di sbloccare i beni russi congelati”. ( https://x.com/AndersFoghR/status/1993221555166310410?s=20 ).

I leader europei hanno criticato apertamente gli Stati Uniti e il loro presidente in un modo senza precedenti. Alcuni parlamentari europei hanno definito Trump un traditore e un fascista. Dopo che Trump ha litigato con Zelenskiy nello Studio Ovale all’inizio di quest’anno, il Primo Ministro britannico Keir Starmer lo ha abbracciato politicamente e fisicamente il giorno successivo. Le relazioni tra Stati Uniti ed Europa sembrano muoversi verso un clima di sfiducia e persino di rancore, secondo quanto riportato da una conversazione telefonica tra i leader europei e Zelenskiy. Il Cancelliere Friedrich Merz ha criticato duramente la delegazione statunitense ai colloqui con ucraini e russi: “(I negoziatori statunitensi) giocano, sia con voi che con noi”. “Non dobbiamo lasciare l’Ucraina e Volodymyr (Zelenskiy) soli con questi tizi”, ha dichiarato il presidente finlandese Alexander Stubb ( https://www.spiegel.de/politik/ukraine-verhandlungen-europaeer-misstrauen-trumps-friedensplan-a-7a439009-716d-48de-bda6-5d3926d8dbc3 ). Ci sono anche voci secondo cui il partner di Washington nelle tradizionali “relazioni speciali” consideri gli attacchi di Trump contro imbarcazioni che presumibilmente trasportano narcotici dal Venezuela agli Stati Uniti e l’uccisione dei loro equipaggi illegali e crimini di guerra. È probabile che Bruxelles e Londra prendano le distanze, se non addirittura condannino con toni forse pacati, qualsiasi operazione militare statunitense in Venezuela.

Nel frattempo, Washington ha preso le distanze dall’Europa. Funzionari statunitensi, tra cui il vicepresidente J.D. Vance, hanno condannato la repressione europea delle elezioni presidenziali rumene dello scorso anno, che ha annullato la vittoria di Calin Giorgescu, e il silenzio dei leader europei riguardo a questa azione antidemocratica a sostegno della “democrazia”. Nel giro di un mese, la Romania ha arrestato Giorgescu per impedirgli di ricandidarsi quest’anno, nonostante il silenzio dell’UE. Più di recente, Trump ha escluso l’Europa dai colloqui di pace in Ucraina, sia con l’Ucraina che con la Russia, sebbene l’Europa non mostri alcun segno di volontà di sedersi al tavolo delle trattative con Putin. Mentre Steven Witkoff e altri collaboratori e funzionari dell’amministrazione Trump hanno compiuto numerosi viaggi a Mosca per negoziare con la nemesi immaginaria dell’Europa, il presidente russo Vladimir Putin, e mentre Trump ha tenuto un vertice con Putin, il presidente degli Stati Uniti non ha visitato il continente, essendo stato solo a Londra. I suoi collaboratori e funzionari incontrano raramente i funzionari europei sul continente, e questi ultimi sono costretti a recarsi a Washington per fare pressione su Trump affinché interrompa le sue politiche di “appeasement”. Non è un caso che Trump abbia proposto di tenere un vertice con Putin nell’Ungheria di Orbán e non a Ginevra e Parigi, e che i negoziatori statunitensi abbiano tenuto colloqui a Istanbul e non in Europa. Trump ha persino sanzionato i paesi europei, insieme alla Cina e ad altri, attraverso i dazi doganali universali da lui istituiti la scorsa estate.

Le questioni che dividono il blocco non si limitano alla questione se la NATO debba continuare la sua guerra contro la Russia apparentemente per conto dell’Ucraina, cercare la pace con la Russia, accettare la fine dell’espansione della NATO e concedere numerose concessioni a Mosca riguardo agli interessi di sicurezza nazionale della Russia e alla sovranità dell’Ucraina, in particolare il ripristino dell’Ucraina come stato neutrale. Immigrazione di massa contro immigrazione limitata, privilegi LGBT contro valori sociali tradizionali dominanti, laicismo contro religiosità, ambientalismo radicale contro ragionevolezza, e potenti stati tecnocratici contro un repubblicanesimo vibrante con l’intera gamma di diritti umani, civili e politici sono solo alcune delle altre questioni spinose che dividono gli stati occidentali tra loro.

La rottura definitiva tra gli stati nazionalisti e globalisti dell’Occidente avverrà quando l’Unione Europea, o qualche altra formazione, istituirà un esercito europeo e le truppe statunitensi lasceranno l’Europa. Quella sarà la fine della NATO; gli Stati Uniti non saranno più “trattenuti” in Europa. Con il declino degli scambi commerciali con l’Europa improduttiva, la dipendenza di Washington dal commercio cinese e asiatico, insieme a qualsiasi rinnovamento delle relazioni tra Stati Uniti e Russia, aumenterà, e gli ultimi legami materiali tra il Nuovo e il Vecchio Mondo dell’Occidente saranno spezzati. E con l’Occidente spirituale in agonia, non rimarranno più nemmeno legami culturali. In questo modo, sorgerebbe il potenziale per tensioni politico-militari all’interno dell’Occidente. La Vecchia Europa delle lotte intestine e delle guerre per la supremazia – qualunque supremazia possa essere ancora raggiungibile a quel punto – si svolgerà non solo in Oriente, ma forse all’interno dell’Occidente stesso.

Ciò potrebbe aprire una nuova strada strategica per Washington. Seguendo l’avvertimento del suo primo presidente, gli Stati Uniti potrebbero tentare di tenersi fuori da “guerre e coinvolgimenti stranieri” e cercare di mantenere un equilibrio di potere tra Russia ed Europa nell’Eurasia occidentale. Ciò potrebbe impedire alla grande potenza del XXI secolo – la Cina – di dominare l’Europa, poiché il suo principale alleato, la Russia, sarebbe riluttante a vedere la Cina dominare in Europa o in Eurasia. Ciò rischierebbe l’accerchiamento della Russia da parte di Pechino, poiché quest’ultima probabilmente dominerà dall’Asia centrale attraverso l’Eurasia meridionale fino al Medio Oriente. Se non dovesse dominare in quell’arco a sud della Russia, ciò sarà solo il risultato della ricerca di Pechino di un equilibrio di potere con Mosca che sia più simile a una condivisione di potere e influenza nelle regioni adiacenti alla Russia, per rispetto del suo principale alleato. Questa dinamica potrebbe funzionare anche in Europa, consentendo agli Stati Uniti di bilanciare Russia ed Europa e controbilanciare la Cina in Europa attraverso un miglioramento delle relazioni con la Russia.

Naturalmente, esistono futuri alternativi. L’intero Occidente potrebbe essere travolto da un’ondata di nazionalismo o di globalismo europeo, oppure una combinazione di questi potrebbe arrivare a dominare tutti gli stati occidentali. In tal caso, l’attuale conflitto NATO-Russia potrebbe raggiungere la sua conclusione logica ma catastrofica: una guerra diretta NATO-Russia su vasta scala, che si estende ben oltre l’Ucraina. Dopotutto, Trump è probabilmente un’anomalia nella politica statunitense, e il nazionalismo americano fornisce copertura a forme spesso più moderate in luoghi come l’Ungheria e la Slovacchia. La sua base e quella di MAGA nel Partito Repubblicano sono deboli, e ora MAGA è divisa su questioni come la condotta israeliana della guerra di Gaza. Quindi non si può escludere un ritorno al vecchio ordine Obama-Biden e un secondo tentativo di rivoluzione dall’alto per creare uno stato monopartitico sotto il governo wokista del Partito Democratico. In tal caso, l’Europa o gran parte di essa seguirà la stessa tendenza. I leader di qualsiasi paese che resisteranno al nuovo assalto del wokismo globalista saranno spazzati via e torneremo agli anni meravigliosi della “democrazia” wokista, dei diritti di gruppo su quelli individuali e, naturalmente, a livello internazionale, della “pace perpetua” della democrazia.

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Inizia la prova

Il New Deal di Brown, Parte III_di Dmitry Orlov

Il New Deal di Brown, Parte III

Con il declino del tenore di vita in Europa, le élite stanno inventando un nemico immaginario: la Russia. Con provocazioni orchestrate e distorsioni storiche, vogliono deviare la rabbia della gente e giustificare un aumento delle spese militari.

Dmitry Orlov

Sabato, 6 dicembre 20256

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qui le prime due parti

Il risultato del Green New Deal è un costante abbassamento del tenore di vita in tutta Europa, dovuto alla causa principale della diminuzione della quantità di energia accessibile pro capite. A sua volta, sono le condizioni di vita apparentemente stabili ma in costante peggioramento, molto più che una crisi vera e propria, a spingere le popolazioni a ribellarsi e a rovesciare le élite al potere. Le élite al potere in Europa ne sono consapevoli, non hanno alcuna voglia di finire impiccate ai lampioni di tutta Europa e cercano almeno di deviare la colpa e, meglio ancora, di provocare una crisi vera e propria che potranno poi fingere di mitigare.

La crisi artificiale che hanno creato è l’attacco completamente inventato ma imminente della Federazione Russa all’Unione Europea. La ridicola bugia usata per sostenere questa tesi è che se l’esercito ucraino venisse sconfitto e il regime di Kiev cadesse, i carri armati russi invaderebbero l’Europa… proprio come fecero nel 1945! La spinosa questione del perché la Russia dovrebbe mai essere interessata a una simile avventura viene elusa attraverso il fanatismo anti-russo: il semplice fatto che i russi siano russi è considerato sufficiente a garantire la loro propensione a un comportamento così folle e autolesionista.

Ma noi, non essendo irrazionali fanatici anti-russi, ci prenderemo il tempo necessario per rispondere a questa domanda. Consideriamo innanzitutto le richieste avanzate dalla Russia nei confronti dell’ex Repubblica Socialista Sovietica Ucraina, creata da Lenin e Stalin: la sua denazificazione, smilitarizzazione, neutralità e la garanzia dei diritti della maggioranza russofona (che rimane tale nonostante i pesanti sforzi ufficiali per costringere la popolazione a parlare ucraino). Si noti che “conquistare tutta l’Europa” o “ripristinare l’URSS” non è nella lista delle cose da fare della Russia. A tre anni dall’inizio dell’operazione militare speciale della Russia, possiamo valutare i risultati.

Denazificazione: dove sono finiti i battaglioni neonazisti ucraini che sfoggiavano bandiere e insegne di ispirazione nazista tedesca e i cui membri erano facilmente riconoscibili grazie alle svastiche e ai ritratti di Hitler tatuati su arti e torso? Quelli regolarmente citati per i crimini di guerra più gravi sono il battaglione Azov (ora reggimento), il battaglione Aidar, il reggimento Kraken e il Settore Destro. Il battaglione Azov è stato fondato dal nazionalista di estrema destra Andrey Biletsky, che utilizzava come emblema il Wolfsangel nazista. I membri ultranazionalisti di Pravy Sektor hanno svolto un ruolo importante nella rivoluzione Euromaidan del 2014 e nella guerra nel Donbas nel 2014-2015. Il battaglione Aidar è stato accusato di violazioni dei diritti umani da Amnesty International e Human Rights Watch. Il partito Svoboda (Libertà) ha reclutato combattenti utilizzando una retorica ultranazionalista e antisemita. Tutti loro hanno avuto un buon successo e hanno causato molti omicidi e caos, ma ormai gran parte dei loro membri iniziali sono morti e, sebbene i loro nomi siano ancora utilizzati a fini propagandistici dal regime di Kiev, le organizzazioni stesse sono ormai moribonde. A questo punto, i battaglioni nazisti vengono utilizzati principalmente come truppe di barriera, impedendo alle reclute inesperte lanciate contro l’avanzata russa di ritirarsi e cercando di ucciderle quando tentano di arrendersi.

Demilitarizzazione: durante il primo anno circa dell’operazione militare speciale, le forze ucraine non hanno avuto carenza di volontari, ma ora non ce ne sono più. Al contrario, gli uomini vengono prelevati dalle strade e arruolati con la forza (a meno che non possano permettersi di pagare una tangente salata), mentre gli ufficiali di reclutamento sono diventati ricchi sfondati e universalmente odiati e disprezzati. Inizialmente, le truppe ucraine erano armate con armi di epoca sovietica, residue della SSR ucraina, o recuperate in tutta l’Europa orientale dai paesi ex membri del Patto di Varsavia e ora membri della NATO. L’esercito ucraino era organizzato e operava in conformità con i manuali e i regolamenti dell’era sovietica. E rappresentava una minaccia formidabile e infliggeva perdite considerevoli alla parte russa. Le scorte di armi di epoca sovietica si sono gradualmente esaurite e sono state sostituite con armi della NATO, che si sono rivelate molto meno efficaci e molto più facili da distruggere per i russi, essendo progettate per massimizzare i profitti degli appaltatori della difesa americani piuttosto che per fornire una difesa adeguata (poiché nessuno sta attaccando l’America in ogni caso). Anche le scorte della NATO sono ormai sostanzialmente esaurite, così come i fondi disponibili per l’acquisto di altre armi. I leader europei in Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e altrove stanno iniziando a rifiutare l’idea di ulteriori spese militari a favore del regime di Kiev.

Nel frattempo, in Ucraina, i manuali e i regolamenti dell’era sovietica sono stati sostituiti con gli “standard NATO” e l’addestramento, che si sono rivelati molto meno efficaci di quelli sovietici. I membri della NATO hanno appreso la metodologia dagli americani, che a loro volta l’hanno appresa dagli ex ufficiali nazisti tedeschi che, come ricorderete, hanno perso la guerra contro l’Armata Rossa. La NATO, e ora l’esercito ucraino, dipendono quindi dalle dottrine militari, dai principi organizzativi e dalle pratiche operative della parte perdente. La NATO, che è composta principalmente dagli americani, è stata in grado di ottenere risultati (anche se mai una vittoria definitiva) contro avversari deboli come la Serbia e la Libia, ma la sua tecnica preferita – campagne di bombardamenti indiscriminati – avrebbe inevitabilmente portato a uno scontro nucleare se fosse stata tentata contro la Russia.

Si è verificata una situazione davvero ridicola: gli ucraini, nei panni dei nazisti tedeschi, con la NATO in un ruolo di supporto, sono coinvolti in un conflitto convenzionale ad alta intensità con la Russia, nei panni dell’Armata Rossa, ottenendo lo stesso risultato finale. Poiché ciò implica un’estrema stupidità, sembra opportuno dare un’occhiata alle classifiche nazionali del QI: la media della Russia è 103, quella dell’Ucraina è 95,4, la più bassa d’Europa. Gli Stati Uniti fanno leggermente meglio con un QI di 99,7, ma sono ancora molto indietro rispetto alla Cina, che ha un QI di 107. “Dumb and Dumber go to War” sarebbe stato un buon titolo per un film, se non fosse per tutto il sangue, lo spargimento di sangue e le tombe dei militari ucraini che si estendono oltre l’orizzonte.

Da tutto ciò è possibile trarre la conclusione che la Russia sta lentamente ma inesorabilmente raggiungendo gli obiettivi dichiarati della sua SMO, vincendo una guerra di logoramento sia contro l’Ucraina (in termini di risorse umane) che contro la NATO (in termini di armi). Con gli ultranazionalisti ucraini per lo più morti, gli arsenali ucraini e della NATO esauriti e sempre più soldati ucraini che si rifiutano di combattere, l’operazione militare volgerà inevitabilmente al termine, il regime di Kiev cadrà, la maggioranza russofona in Ucraina riaffermerà i propri diritti e, se tutto andrà bene, ci sarà un ritorno all’ordine costituzionale che è stato distrutto durante il colpo di Stato organizzato dagli Stati Uniti nella primavera del 2014.

La Russia proseguirà quindi con ulteriori operazioni militari speciali per denazificare, smilitarizzare e difendere i diritti umani delle grandi minoranze russe che vivono in Estonia, Lettonia, Lituania e Moldavia? La Russia sta trattando la difficile situazione dei russi che vivono ancora in queste zone come una questione umanitaria piuttosto che militare, assorbendo facilmente l’afflusso. Ad esempio, mezzo milione di moldavi vivono attualmente in Russia, mentre la popolazione totale della Moldavia è ora di soli due milioni di abitanti e in rapido calo. Il quadro per i Paesi baltici è simile, anche se i numeri sono troppo piccoli per avere rilevanza.

Ma ciascuna di queste ex repubbliche socialiste sovietiche ormai semi-defunte, amorevolmente create dai frammenti dell’Impero russo e alimentate dai bolscevichi di orientamento internazionalista con grande rammarico e disappunto della Russia, presenta anche alcune considerazioni strategiche per la Russia: L’Estonia, insieme alla Finlandia, blocca quasi completamente il Golfo di Finlandia, che fornisce un accesso marittimo di fondamentale importanza a San Pietroburgo e ai vicini porti di Ust-Luga e Primorsk, con un volume totale di merci di circa 170 milioni di tonnellate all’anno. La Lituania costituisce un ponte terrestre verso l’exclave russa di Kaliningrad. La Moldavia ha una regione separatista, la Transnistria, abitata da mezzo milione di persone in possesso di passaporto russo che lo Stato russo si è teoricamente impegnato a difendere.

Ma quale di questi problemi la Russia tenterebbe mai di risolvere ricorrendo all’attacco? Un’Europa non completamente folle e squilibrata dovrebbe essere in grado di risolvere tali questioni in modo amichevole e senza ricorrere alla violenza. Possiamo solo sperare che una clamorosa sconfitta della NATO in Ucraina raffreddi gli animi dei capi della NATO che attualmente stanno cercando di intensificare il conflitto.

Se dovesse scoppiare un conflitto militare che coinvolgesse i quattro paesi sopra citati, è importante tenere presente che questi dovrebbero essere difesi da truppe provenienti da altre parti d’Europa. Tutti e quattro questi paesi sono in gran parte svuotati dai giovani: poiché lì non ci sono quasi posti di lavoro, i giovani se ne vanno non appena possono, lasciando dietro di sé paesi scarsamente popolati da pensionati sempre più indigenti, con sempre più edifici scolastici vuoti che vengono convertiti per assistere gli anziani che non sono più in grado di prendersi cura di sé stessi.

A sua volta, quanto è probabile che i giovani americani, britannici, francesi, tedeschi, spagnoli e italiani possano essere arruolati e mandati a morire in un conflitto futile per difendere l’Estonia, la Lettonia, la Lituania (membri della NATO e dell’UE) e la Moldavia (non membri)? Se solo il 16% degli uomini tedeschi dichiara che sarebbe sicuramente disposto a prendere le armi per difendere la propria patria, quale percentuale di loro sarebbe disposta ad andare a morire per la Lituania? Possiamo solo fare delle ipotesi, quindi diciamo il 2%… e questi sarebbero i malati di mente, i suicidi! Possiamo anche sperare che una società tedesca non del tutto folle eserciti una notevole pressione politica per costringere il proprio governo a dare ai russi tutto ciò che vogliono, che non è molto: corridoi autostradali e ferroviari aperti e sicuri verso Kaliningrad e corridoi marittimi e aerei ampliati attraverso il Golfo di Finlandia sono tutto ciò che servirebbe per risolvere la questione in modo amichevole per quanto riguarda i Paesi baltici.

Attualmente, tuttavia, sembra che l’Occidente non sia interessato a risolvere le questioni in modo amichevole, concentrandosi invece sull’organizzazione di provocazioni. Il 10 settembre, alcuni droni sono entrati nello spazio aereo polacco. Successivamente si è scoperto che si trattava di droni Gerbera di fabbricazione russa, esche prive di carica esplosiva utilizzate per confondere e indebolire i sistemi di difesa aerea. Data la loro portata limitata, sono stati lanciati dal territorio controllato dal regime di Kiev. Hanno sorvolato parte della Bielorussia, dove alcuni di essi sono stati abbattuti, mentre altri hanno proseguito verso la Polonia. Le autorità bielorusse hanno lanciato un avvertimento alle loro controparti polacche: “In arrivo, state attenti!”.

Le forze polacche e altre forze della NATO hanno fatto decollare dei jet, ma questi sono inutili per abbattere bersagli così piccoli e lenti. I droni erano di fabbricazione russa, ma non ci sono prove che fossero pilotati dai russi. Droni di questo tipo cadono regolarmente dal cielo in Ucraina e possono essere riparati, riforniti di carburante, riprogrammati e rimessi in volo. È possibile che i russi fossero dietro la provocazione se il loro obiettivo era quello di dimostrare che la NATO è indifesa anche contro droni così primitivi, nel qual caso hanno dimostrato la loro tesi, ma è molto più probabile che sia stato il regime di Kiev a cercare di mantenere viva la narrativa dell'”aggressione russa”.

Dimostrazioni plausibilmente negabili sembrano effettivamente verificarsi. Ad esempio, c’è stato il pallone sonda cinese che ha sorvolato gli Stati Uniti continentali dal 28 gennaio al 4 febbraio 2023. La sua traiettoria di volo era un bellissimo arco che copriva l’Alaska, il Canada occidentale e poi gli Stati Uniti contigui dallo Stato di Washington a Myrtle Beach, nella Carolina del Sud. Volava troppo in alto perché l’aviazione militare statunitense potesse abbatterlo, ma ha gradualmente perso quota ed è stato abbattuto da un F-22 Raptor a un’altitudine di 18.000 metri. Si è trattato o di un incidente (il pallone è stato spinto fuori rotta) o di una dimostrazione dell’incapacità degli americani di difendere il proprio spazio aereo dai… palloni meteorologici!

Appena 10 giorni dopo l’episodio che ha visto droni russi non armati sorvolare indisturbati la Polonia, è scoppiato uno scandalo con jet russi che avrebbero violato lo spazio aereo estone. Secondo gli estoni, tre jet russi Mig-31 sono entrati nello spazio aereo estone “senza permesso e vi sono rimasti per un totale di 12 minuti”. I jet erano in viaggio dalla regione di Leningrado alla regione di Kaliningrad, seguendo i corridoi aerei sopra il Golfo di Finlandia e il Mar Baltico, frequentati dal traffico aereo tra queste due regioni russe e che aggirano i tre paesi baltici. In particolare, il corridoio internazionale di libero passaggio tra la Finlandia e l’Estonia è lungo 370 km ma largo solo 11 km ed è teoricamente possibile che i Mig abbiano deviato verso il confine meridionale estone. In ogni caso, i Mig-31 volano a una velocità di crociera di 2.500 km/h, ovvero 41 km/min, e in 12 minuti avrebbero percorso 491 km, superando il limite di circa 122 km. In sostanza, il territorio estone non è sufficientemente ampio da giustificare un tempo di volo così lungo.

La parte estone non è riuscita a presentare alcuna prova di tale violazione, mentre il ministero della difesa russo ha affermato che i jet stavano effettuando un “volo di linea… nel rigoroso rispetto delle norme internazionali in materia di spazio aereo e non hanno violato i confini di altri Stati, come confermato da un monitoraggio oggettivo”. La questione avrebbe dovuto chiudersi lì, ma noooo! Valeva la pena far decollare i jet e convocare una conferenza di emergenza della NATO in conformità con il capitolo 4 della Carta della NATO per un evento così insignificante, che fosse intenzionale, accidentale o fittizio? Solo se l’intento era quello di creare molto rumore per nulla e una tempesta in un bicchiere d’acqua.

Allontanandosi dai dettagli, tali provocazioni sono necessarie: il passaggio dall’ormai defunto Green New Deal al nuovo Brown New Deal – ovvero il militarismo europeo – richiede un nemico. Non ci sono altri candidati: la Corea del Nord è troppo scottante; l’Iran, se sufficientemente provocato, distruggerebbe Israele; e la Cina ha già messo in ginocchio le economie europea e americana e soffocherà gli occidentali se questi non inizieranno a comportarsi bene. L’unico nemico sicuro è la Russia, ma anche questo è un problema: la Russia non è sufficientemente minacciosa. È quindi necessario inscenare provocazioni per mantenere vivo il mito dell'”aggressione russa” nella mente degli europei, nella speranza di convincerli e, in caso contrario, costringerli ad accettare livelli elevati di spesa per la difesa, proprio come hanno accettato livelli elevati di spesa per l’energia “verde” – che finisce nelle tasche delle élite governative europee.

Tuttavia, risulta che provocazioni poco convinte non bastano a mantenere vivo il mito dell’«aggressione russa», figuriamoci a renderlo sufficientemente convincente da motivare decine di veri credenti a mettersi in fila nei centri di reclutamento, desiderosi di morire combattendo contro i russi aggressivi in stile ucraino. Fortunatamente, le provocazioni poco credibili non sono tutto ciò che l’Occidente collettivo ha da offrire: ci sono anche sforzi per costruire un’immagine convincente del nemico. Questi sforzi sono piuttosto estesi e complessi e sono in atto da secoli. Essi includono una fantasiosa riscrittura della storia che condanna all’oblio tutti gli episodi che non riescono a dipingere la Russia in una luce completamente negativa. Ne parleremo più avanti.Tag dell’articolo:

SITREP 12/7/25: Progressi tecnologici russi, nuovi attacchi alla rete energetica di massa, Mirnograd entra nella fase finale_di Simplicius

SITREP 12/7/25: Progressi tecnologici russi, nuovi attacchi alla rete energetica di massa, Mirnograd entra nella fase finale

È la serata del doppio spettacolo qui al Garden, allacciate le cinture e preparatevi.

Simplicius 8 dicembre
 
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Cominciamo con un interessante sviluppo della tecnologia dei carri armati russi. L’ultima tecnologia anti-drone equipaggiata in fabbrica è diventata la più efficace della guerra finora: è stata chiamata sistema Dandelion, dal nome del fiore a cui assomiglia.

Un nuovo sistema passivo anti-drone russo, denominato “Oduvanchik”, ha iniziato a comparire in prima linea.

“Oduvanchik” è una struttura modulare in fibra di vetro che ricorda il dente di leone stesso.

Grazie alla sua flessibilità, questo sistema anti-drone consente movimenti più sicuri in condizioni in cui altre strutture metalliche potrebbero essere danneggiate dai rami degli alberi. Il suo design leggero migliora le prestazioni dinamiche del veicolo e riduce lo stress aggiuntivo sui meccanismi di rotazione del modulo di combattimento/torretta del veicolo.

Un numero crescente di carri armati e veicoli blindati di entrambe le parti è dotato di tali sistemi, che finora si sono dimostrati i più efficaci. Ecco un montaggio che mostra i movimenti dei blindati russi sul fronte, molti dei quali sfoggiano design ispirati al sistema Dandelion, e una panoramica generale dei tipi di mostri blindati che questa guerra ha prodotto:

Altre foto:

Due esemplari ucraini recentemente sequestrati dalle forze russe:

La verità è che, al di là della percezione di una “minaccia inarrestabile dei droni”, i veicoli blindati si sono gradualmente adattati agli attacchi dei droni. Un recente post dell’analista Michael Kofman evidenzia questo fatto:

Come si può vedere, i recenti progressi nella tecnologia “cope cage” hanno reso molti veicoli blindati praticamente invulnerabili ai droni. Semplicemente non sarà mai possibile fermare una fornitura infinita di qualsiasi cosa. Anche i proiettili delle armi leggere finiranno per fermare un carro armato se ne vengono sparati abbastanza. Resistere a 70 droni prima di essere fermati può essere considerato un sistema difensivo efficace, e 30-40 non è molto peggio. Il problema è che i droni sono così onnipresenti che apparentemente nemmeno questo è abbastanza, ma molti assalti corazzati russi riescono comunque a respingere con successo questi attacchi di droni e vengono fermati solo da una combinazione di mine e altre munizioni.

Altre tecnologie continuano ad evolversi, come ad esempio questo Geran-3 russo a propulsione a reazione, visto per la prima volta in tutto il suo splendore mentre sorvolava l’Ucraina: da notare la velocità superiore e le caratteristiche sonore rispetto al famoso “tosaerba” che ha dato inizio a tutto:

Infatti, i droni russi Geran sono ora così vari nelle loro diverse varianti che gli ucraini ne hanno persino individuati alcuni che trasportano missili aria-aria per abbattere i jet e gli elicotteri ucraini che li inseguono:

Hunter Geran

UAV russi equipaggiati con missili aria-aria

Proprio di recente abbiamo riportato la notizia dell’introduzione delle modifiche Geran per combattere gli aerei nemici. E ora abbiamo la conferma di prove oggettive.

A giudicare dal filmato pubblicato online, il drone è dotato di un missile aria-aria a corto raggio R-60. È equipaggiato con una testata termica a ricerca automatica e può colpire bersagli fino a 10 chilometri di distanza.

 In combinazione con altre recenti modifiche (https://t.me/rybar/74529), questo nuovo aggiornamento amplia notevolmente le capacità dei droni Geran, che ora possono prendere di mira elicotteri, aerei leggeri e persino jet da combattimento AFU.

L’efficacia di questa nuova modifica resta ancora da valutare, ma il solo fatto che sia stata introdotta limiterà le azioni dell’aviazione ucraina nell’intercettare i Geran: non saranno più in grado di “dar loro la caccia” con la stessa facilità di prima.

#UAV #Russia #Ucraina

Video di un contro-drone ucraino che insegue questo nuovo Geran russo armato di missili:

La situazione al fronte, come sempre, continua a peggiorare per l’Ucraina. Una serie di post pubblicati da funzionari ucraini e figure militari lo evidenzia. Innanzitutto, è imperdibile il post dell’ex addetta stampa di Zelensky, Julia Mendel:

Successivamente, il NYT cita un comandante di plotone ucraino che si “meraviglia” dei numerosi vantaggi della Russia in termini di risorse:

https://www.nytimes.com/2025/12/06/world/europe/ukraine-pokrovsk-battlefield-russia.html

«Non ci danno pace né di giorno né di notte», disse Oleh.

Rimase stupito dalle risorse della Russia, tra cui dispositivi per la visione notturna, aerei da rifornimento e soldati.

“Se noi abbiamo tre persone, loro ne hanno trenta”, ha detto. “La quantità di manodopera di cui dispongono è semplicemente incredibile”.

“Ma”, ha aggiunto, “non si aspettavano nemmeno che avremmo combattuto così a lungo”.

Ufficialmente, la popolazione della Russia è solo tre volte superiore a quella dell’Ucraina: non è possibile che possa schierare un numero di soldati pari a un multiplo logaritmico di quello dell’Ucraina, a meno che, ovviamente, l’Ucraina non stia subendo un numero di vittime pari a un multiplo logaritmico rispetto alla Russia.

Sul fronte, le forze russe hanno conquistato quasi tutto fino al fiume Haichur, con Gulyaipole ora tagliata fuori dalla logistica su tutti i lati tranne uno:

La stessa Gulyaipole è sotto assedio da più direzioni, con i quartieri periferici che vengono lentamente conquistati e occupati:

La situazione di Mirnograd è praticamente evidente, con il cappio che la stringe sempre più forte:

Le truppe russe stanno lavorando lentamente e metodicamente per ripulire la città, adottando un approccio che privilegia la sicurezza e cerca di evitare il più possibile le vittime. Ciò comporta poche perdite per i russi, che stanno lentamente liberando le posizioni ucraine, ora concentrate principalmente nei seminterrati degli edifici, con l’aiuto, ovviamente, di enormi bombe termobariche, come dimostrato l’ultima volta. Come sempre, gli ucraini vengono riforniti interamente da droni pesanti, ma la loro situazione è prevedibilmente disastrosa.

Si può anche vedere che le forze russe hanno preso d’assalto la vicina Grishino, cerchiata in giallo sopra.

Successivamente, la situazione a Seversk è peggiorata per le forze armate ucraine, con le forze russe che sono state localizzate mentre piantavano una bandiera nel centro della città nella giornata di oggi:

Tutte le indicazioni provenienti dai canali militari indicano che questa città potrebbe essere la prossima a cadere nel prossimo futuro.

Post ucraino su Seversk:

Infine, ieri la Russia ha colpito l’Ucraina con un altro massiccio attacco aereo alla rete energetica, che ha causato nuovamente blackout diffusi e panico.

A Kiev sono state avvistate locomotive antiche in funzione, soprattutto a causa della distruzione dei depositi ferroviari, come si può vedere nella seconda metà del video qui sotto:

Mentre l’Occidente continua a condannare questi attacchi, pochi sembrano ricordare l’atteggiamento della NATO nei confronti degli attacchi alla rete energetica serba negli anni ’90:


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Cancellazione dei valori compatibili: la nuova strategia di sicurezza nazionale di Trump ridefinisce l’Europa come responsabilità strategica_di Simplicius

Cancellazione dei valori compatibili: la nuova strategia di sicurezza nazionale di Trump ridefinisce l’Europa come responsabilità strategica

Simplicius 8 dicembre
 
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Gli Stati Uniti hanno pubblicato una nuova Strategia di Sicurezza Nazionale che ripropone la Dottrina Monroe per un nuovo secolo. Bernhard di MoA ne ha parlato in modo esaustivo qui per chi fosse interessato ai dettagli. Io mi concentrerò invece sul quadro generale e su un aspetto specifico e affascinante di questo importante ripensamento della politica estera statunitense.

https://www.nytimes.com/2025/12/06/world/europe/trump-europe-strategy-document.html

Il sottotitolo del NYT riformula la nuova visione come odio verso l’Europa:

Un nuovo documento politico della Casa Bianca formalizza il disprezzo che il presidente Trump nutre da tempo nei confronti dei leader europei. Esso ha chiarito che il continente si trova ora a un bivio strategico.

Beh, perché Trump non dovrebbe odiare la nuova Europa? È un continente che ha voltato le spalle alle libertà civili, i principi che l’America stessa avrebbe dovuto difendere in primo luogo.

Ha accusato l’Unione Europea di soffocare la “libertà politica”, ha avvertito che alcuni membri della NATO rischiavano di diventare “a maggioranza non europei” e ha affermato che gli Stati Uniti dovrebbero allinearsi con i “partiti patriottici europei”, un eufemismo per indicare i movimenti di estrema destra europei.

La cosa più interessante di quanto sopra è il riferimento a un aspetto particolare del nuovo documento di Trump, che sostanzialmente riformula il calo di sostegno degli Stati Uniti nei confronti dell’Europa come una reazione alla continua politica europea di cancellazione dei propri popoli e delle proprie culture.

Un altro articolo del NYT era interamente dedicato a questo argomento:

L’amministrazione Trump ha dichiarato venerdì che l’Europa sta affrontando la “prospettiva inquietante della cancellazione della civiltà” e ha promesso che gli Stati Uniti sosterranno i partiti “patriottici” che condividono gli stessi ideali in tutto il continente per impedire un futuro in cui “alcuni membri della NATO diventeranno in maggioranza non europei”.

Anche altri hanno trattato direttamente questo aspetto così intrigante, come il National Pulse:

https://thenationalpulse.com/2025/12/05/ trump-admin-fears-nato-allies-will-become-disloyal-partners-as-mass-migration-turns-them-majority-non-european/

E perché questo non dovrebbe essere un legittimo motivo di preoccupazione per la sicurezza degli Stati Uniti? Quando la composizione demografica dei tuoi principali alleati si trasforma completamente in un popolo con una lealtà comprensibilmente discutibile nei confronti delle stesse architetture di sicurezza che sono alla base della tua alleanza chiave, beh, questo diventa un problema piuttosto tangibile.

Ecco i passaggi esatti rilevanti della nuova NSS di Trumpleggere attentamente le parti in grassetto:

  • Pagina 25: «Tra le questioni più importanti che l’Europa deve affrontare figurano le attività dell’Unione Europea e di altri organismi transnazionali che minano la libertà politica e la sovranità, le politiche migratorie che stanno trasformando il continente e creando conflitti, la censura della libertà di parola e la repressione dell’opposizione politica, il crollo dei tassi di natalità e la perdita delle identità nazionali e della fiducia in se stessi. Se le tendenze attuali dovessero continuare, il continente sarà irriconoscibile tra vent’anni o meno. Pertanto, non è affatto scontato che alcuni paesi europei avranno economie e forze armate sufficientemente forti da rimanere alleati affidabili».
  • Pagina 27: «Nel lungo termine, è più che plausibile che entro pochi decenni al massimo alcuni membri della NATO diventeranno in maggioranza non europei. Pertanto, resta da vedere se considereranno il loro posto nel mondo, o la loro alleanza con gli Stati Uniti, allo stesso modo di coloro che hanno firmato la carta della NATO.»

Il punto è talmente significativo che vale la pena ripeterlo: “Pertanto, non è affatto scontato che alcuni paesi europei avranno economie e forze armate sufficientemente forti da rimanere alleati affidabili… Di conseguenza, resta da vedere se considereranno il loro ruolo nel mondo, o la loro alleanza con gli Stati Uniti, allo stesso modo di coloro che hanno firmato la Carta della NATO”.

Ripeto: non è forse una preoccupazione legittima? Quando i propri alleati hanno modificato il loro nucleo demografico al punto da dover preoccuparsi delle basi civiche, sociali e culturali degli accordi con loro stessi, è tempo di ripensare le alleanze strategiche rilevanti che si hanno con loro.

Questo è stato a lungo motivo di crescente preoccupazione in Occidente, sin da quando l’ondata di ingegneria sociale globalista in materia di migrazione ha iniziato a raggiungere il suo apice e a rimodellare il tessuto sociale delle nazioni occidentali.

Negli Stati Uniti, in particolare, questo aspetto è stato sottolineato all’inizio degli anni 2000 in un saggio cult scritto da Stephen Steinlight, intitolato “The Jewish Stake in America’s Changing Demography”.

Nel saggio, lo scrittore ebreo Steinlight espone un’argomentazione simile, ma dal punto di vista dell’influenza ebraica negli Stati Uniti. La sua tesi è che la migrazione di massa che sta investendo gli Stati Uniti finirà per alterare la composizione demografica della nazione a tal punto da rappresentare una seria minaccia per gli “interessi speciali” degli ebrei americani, dato che gli immigrati, prevalentemente latinoamericani e musulmani, non avranno lo stesso senso inculcato di rispetto per i valori ebraici e di colpa per l’Olocausto che possiedono gli americani nativi.

https://cis.org/Report/Jewish-Stake-Americas-Changing-Demography

Dalla sua sezione, Porre le domande della Sfinge:

La domanda più importante per cominciare: la nuova nazione multiculturale americana emergente è positiva per gli ebrei? Un paese in cui enormi cambiamenti demografici e culturali, alimentati da un’immigrazione non europea su larga scala e incessante, rimarrà un paese in cui la vita ebraica continuerà a prosperare come in nessun altro luogo nella storia della diaspora? In un’America in cui le persone di colore costituiscono la maggioranza, come è già avvenuto in California, la maggior parte delle quali con poca o nessuna esperienza storica o conoscenza degli ebrei, la sensibilità ebraica continuerà a godere di livelli straordinariamente elevati di deferenza e gli interessi ebraici continueranno a ricevere una protezione speciale?

È importante che la maggior parte degli immigrati non europei non abbia alcuna esperienza storica dell’Olocausto né conoscenza della persecuzione degli ebrei nel corso dei secoli e veda gli ebrei solo come i più privilegiati e potenti tra i bianchi americani? È importante che i latinoamericani, che ci conoscono quasi esclusivamente come datori di lavoro per i servizi umili e poco remunerativi che svolgono per noi (come spazzare le foglie dai nostri prati a Beverly Hills o fare il bucato a Short Hills), costituiranno presto un quarto della popolazione nazionale? Ha importanza che la maggior parte degli immigrati latini abbia incontrato gli ebrei nei loro anni formativi principalmente o solo come uccisori di Cristo nel contesto di un’educazione religiosa in cui gli insegnamenti modificati del Concilio Vaticano II sono penetrati a malapena o per nulla? Ha importanza il fatto che la politica della successione etnica – cieca al colore della pelle, lo riconosco – abbia già portato alla perdita di legislatori ebrei chiave (il brillante Stephen Solarz di Brooklyn è stato uno dei primi) e che i seggi al Congresso un tempo considerati “sicuri” per gli ebrei siano ora occupati da rappresentanti latini?

Molto più potenzialmente pericoloso, è importante per gli ebrei – e per il sostegno americano a Israele, quando lo Stato ebraico si trova probabilmente di fronte a un pericolo esistenziale – che l’Islam sia la religione in più rapida crescita negli Stati Uniti? Che senza dubbio, ad un certo punto nei prossimi 20 anni, i musulmani supereranno gli ebrei in numero e che i musulmani con un'”agenda islamica” stanno diventando politicamente attivi attraverso una vasta rete di organizzazioni nazionali? Che ciò sta avvenendo in un momento in cui la religione islamica viene soppiantata in molti dei paesi di origine degli immigrati islamici dall’ideologia totalitaria dell’islamismo, i cui principi fondamentali sono il veemente antisemitismo e antisionismo? Il nostro status ne risentirà quando la struttura culturale giudaico-cristiana cederà il passo, prima a una giudaico-cristiano-musulmana e poi a un senso ancora più ampio di identità religiosa nazionale?

Il tutto culmina con la preoccupazione urgente di Steinlight che il potere politico ebraico nel Paese subirà una rapida erosione. A proposito, il saggio profetico è stato scritto nel 2001 e ora possiamo vedere chiaramente che la visione di Steinlight si sta avverando, poiché una nuova generazione di americani, fortemente influenzata dalle cause e dai valori dei migranti, ha effettivamente iniziato a rivoltarsi sia contro Israele che contro quelli che sono percepiti come “privilegi speciali” ebraici, con l’ascesa di figure come Nick Fuentes e movimenti affiliati.

Come si può vedere, la questione dell’immigrazione di massa che altera la natura stessa delle strutture di potere e delle alleanze nelle nazioni occidentali è da tempo un argomento esistenziale di dibattito. La nuova Strategia di Sicurezza Nazionale di Trump appare quindi un passo decisamente positivo per inviare un messaggio ai globalisti europei: l’America non tollererà che trasformino i loro paesi in minacce alla sicurezza che minano gli interessi strategici degli Stati Uniti nella regione.

Come B ha osservato nel suo articolo, questo sembra segnare la fine della famigerata Dottrina Wolfowitz, anche se ovviamente resta ancora da vedere fino a che punto le politiche “rivoluzionarie” dell’amministrazione Trump effettivamente funzioneranno nella pratica, dato che, sulla base dell’andamento attuale, aumentano le possibilità che i Democratici alla fine riconquistino il potere e ribaltino praticamente tutte le iniziative di Trump.

Detto questo, è piuttosto istruttivo osservare gli Stati Uniti definire la propria nuova strategia e rinnovare la Dottrina Monroe, annunciando con sicurezza che nessun avversario potrà rivendicare alcun diritto all’interno dell’emisfero americano, figuriamoci avvicinarsi anche solo minimamente al confine continentale degli Stati Uniti. Pensate all’ipocrisia insita in tutto ciò: la Russia è stata crocifissa per aver rivendicato la propria sfera di influenza semplicemente al proprio confine e per aver chiesto che l’Ucraina non diventasse una base terrestre e un trampolino di lancio per gli attacchi ostili della NATO contro la Russia. Ma in qualche modo, agli Stati Uniti è permesso rivendicare l’intero emisfero occidentale, mentre la Russia viene duramente criticata e sanzionata per aver osato cercare una piccola zona cuscinetto di sicurezza ai propri confini, verso i quali la NATO ha avanzato apertamente e costantemente.

Se gli Stati Uniti possono avere un intero emisfero tutto per sé, dove godono della possibilità di condurre qualsiasi operazione militare ritengano opportuna, senza leggi né regole, come quelle attualmente in corso contro il Venezuela, al fine di “proteggere i propri interessi di sicurezza nazionale”, allora sicuramente anche alla Russia può essere concesso il diritto di fare lo stesso ovunque lungo i propri confini. Dopo tutto, se il globale “ordine basato sulle regole” è veramente imparziale, dovrebbe consentire senza dubbio la distribuzione reciproca di dette “regole” tra centri di grande potenza uguali tra loro.

È interessante notare che proprio di recente la Russia ha effettivamente pubblicato una propria strategia di sicurezza nazionale simile.

Dal sito ufficiale del Cremlino:

http://en.kremlin.ru/acts/news/78554

Allo stesso modo, la nuova strategia delinea l’approccio della Russia verso il 2036 volto a garantire e rafforzare le regioni limitrofe, in particolare i territori ucraini recentemente annessi, con un senso di orgoglio civico e integrazione nella sfera culturale russa:

La nuova strategia politica nazionale di Putin punta a contrastare le “ingerenze straniere” e mira a far sì che il 95% dei cittadini condivida una “identità civica russa”.

Altro:

Il documento sottolinea separatamente la necessità di rafforzare “il ruolo unificante del popolo russo come nazione fondatrice dello Stato”. Propone di farlo attraverso progetti educativi e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, il sostegno a gruppi di arte popolare e iniziative volte a mantenere vivo l’interesse dei cittadini stranieri residenti in Russia per la cultura russa.

Allo stesso modo, pone grande enfasi sull’«ingerenza straniera» e cerca di alimentare i conflitti interetnici nelle zone di confine della Russia.

https://meduza.io/en/feature/2025/11/28/putin-s-new-national-policy-strategy-targets-foreign-meddling-and-aims-to-have -95-percent-of-citizens-share-a-russian-civic-identity

Da Meduza:

Il decreto di Putin avverte che un’azione insufficiente su questi fronti potrebbe danneggiare la sicurezza nazionale. Esso stabilisce una serie di priorità in risposta a ciò:

  • proteggere e sviluppare la lingua russa e promuoverla come lingua franca tra i numerosi gruppi etnici della Russia. Ciò include incoraggiare i giovani a utilizzare il russo letterario standard e contrastare l’uso “eccessivo” di prestiti linguistici stranieri;
  • coltivare la coscienza civica tra i bambini e i giovani. Il documento suggerisce di farlo garantendo “la presenza dei simboli dello Stato della Federazione Russa in tutti gli ambiti della vita pubblica”, ampliando l’insegnamento della storia locale e nazionale e organizzando celebrazioni pubbliche che “favoriscano il senso di comunità e di appartenenza alla storia e alle conquiste del Paese”;
  • salvaguardare la “verità storica” e la memoria storica, nonché i “valori spirituali, morali e storico-culturali tradizionali russi”, compresi gli ideali di “patriottismo e servizio alla Patria”, e aumentare l’interesse pubblico per lo studio della storia russa.

È chiaro che con queste doppie strategie di sicurezza nazionale, il mondo sta entrando in un’era in cui le grandi potenze consolidano le loro sfere di influenza in un contesto di storico crollo dei blocchi geopolitici e di avvento della multipolarità.

Le potenze mondiali hanno percepito la dissoluzione e il deterioramento di sistemi e ordini precedentemente consolidati e hanno iniziato a farsi carico di istituzionalizzare quelle cose considerate diritti nazionali e civili e diritti di nascita. Per molti versi, ciò segna un altro colpo di grazia per il globalismo, anche se non necessariamente – nel caso degli Stati Uniti – per il neoconservatorismo.


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L’ultima possibilità dell’Occidente_di Alexander Stubb

L’ultima possibilità dell’Occidente

Come costruire un nuovo ordine globale prima che sia troppo tardi

Alexander Stubb

2 dicembre 2025

Ed Johnson

Un testo interessante di A. Stubb, attuale presidente della Finlandia. Un saggio, tipica espressione di un ceto politico e di un paese gregario. Un carattere comune alla quasi totalità delle leadership europee. Sono tre i capisaldi dai quali si sviluppa l’analisi e la proposta di strategia politica dell’autore. L’idea qualificante del multilateralismo, la rottura determinata dall’intervento russo in Ucraina, l’adesione ai valori dell’atlantismo di ispirazione liberale con la conseguente rottura della condizione di neutralità.

Il multilateralismo viene visto come modalità di regolazione delle relazioni tra stati su base paritaria. Il multilateralismo, nella sua condizione ottimale, non può prescindere dall’esistenza di un regolatore in condizione egemone di arbitro giocatore. Nella fattispecie degli ultimi decenni, gli Stati Uniti. Tutti gli organi multilaterali (NATO, UE) hanno funzionato grazie alla presenza egemonica di questo regolatore di veri e propri sistemi di alleanza. Altri organismi sovranazionali (ONU, FMI, OMC) hanno subito una analoga impronta oppure si sono rivelati palestre di esercizio della competizione e della cooperazione tra gli stati principali. La stessa Cina, parlando a sua volta specularmente di multilateralismo, lo soppesa in basi ai diversi pesi specifici dei vari stati. Da questa rimozione si innesca l’idealizzazione di cui è preda Stubb più o meno consapevolmente.

Il totale travisamento della natura, delle cause e dell’intervento russo in Ucraina rappresenta il motivo e il pretesto dell’adesione alla UE e alla NATO della Finlandia sino a rinnegare in gran parte i tanti aspetti positivi che hanno caratterizzato la fase di neutralità di quel paese, comune per altro, in Europa, ad Austria e Svezia, e a modo suo alla ex-Jugoslavia. Da qui, inoltre, una visione particolarmente capziosa del ruolo svolto dalla Finlandia durante la seconda guerra mondiale.

Stubb, di conseguenza, continua a vedere nella NATO e nella UE il veicolo virtuoso di promozione dei valori occidentali della Regione Occidentale, pur assecondato nelle intenzioni da dosi di realismo pragmatico e di rispetto delle diversità del tutto assenti nel passato, rispetto alla coalizione di mero interesse della Regione Orientale, entrambe impegnate nella azione di influenza nei confronti del Sud Globale. Un impegno dal cui successo dipende la definizione di nuovi equilibri pacifici del mondo. Una visione particolarmente arida e limitativa dell’effettivo ruolo svolto dalla seconda regione. Una opzione che sta velocemente trasformando la Finlandia, come altri paesi di vecchia condizione neutrale, in realtà oltranziste maggiormente esposte all’esterno alle conseguenze tragiche di un conflitto, all’interno a politiche opprimenti di controllo sociale. Giuseppe Germinario

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Il mondo è cambiato più negli ultimi quattro anni che nei precedenti trent’anni. I nostri notiziari sono pieni di conflitti e tragedie. La Russia bombarda l’Ucraina, il Medio Oriente è in fermento e in Africa infuriano le guerre. Mentre i conflitti sono in aumento, le democrazie sembrano essere in declino. L’era post-guerra fredda è finita. Nonostante le speranze che hanno seguito la caduta del muro di Berlino, il mondo non si è unito nell’abbracciare la democrazia e il capitalismo di mercato. Anzi, le forze che avrebbero dovuto unire il mondo – il commercio, l’energia, la tecnologia e l’informazione – ora lo stanno dividendo.

Viviamo in un nuovo mondo caratterizzato dal disordine. L’ordine liberale basato sulle regole che è emerso dopo la fine della Seconda guerra mondiale sta ormai morendo. La cooperazione multilaterale sta cedendo il passo alla competizione multipolare. Le transazioni opportunistiche sembrano avere più importanza della difesa delle regole internazionali. La competizione tra grandi potenze è tornata, con la rivalità tra Cina e Stati Uniti che definisce il quadro geopolitico. Ma non è l’unica forza che plasma l’ordine globale. Le potenze medie emergenti, tra cui Brasile, India, Messico, Nigeria, Arabia Saudita, Sudafrica e Turchia, sono diventate dei veri e propri game changer. Insieme, hanno i mezzi economici e il peso geopolitico per orientare l’ordine globale verso la stabilità o verso un maggiore tumulto. Hanno anche un motivo per chiedere un cambiamento: il sistema multilaterale del dopoguerra non si è adattato in modo adeguato per riflettere la loro posizione nel mondo e garantire loro il ruolo che meritano. Si sta delineando una competizione triangolare tra quelli che io chiamo l’Occidente globale, l’Oriente globale e il Sud globale. Scegliendo se rafforzare il sistema multilaterale o cercare la multipolarità, il Sud globale deciderà se la geopolitica della prossima era tenderà alla cooperazione, alla frammentazione o al dominio.

I prossimi cinque-dieci anni determineranno probabilmente l’ordine mondiale per i decenni a venire. Una volta che un ordine si è stabilizzato, tende a rimanere in vigore per un certo periodo. Dopo la prima guerra mondiale, un nuovo ordine è durato due decenni. Quello successivo, dopo la seconda guerra mondiale, è durato quattro decenni. Ora, a trent’anni dalla fine della guerra fredda, sta emergendo qualcosa di nuovo. Questa è l’ultima occasione per i paesi occidentali di convincere il resto del mondo che sono capaci di dialogo piuttosto che di monologo, di coerenza piuttosto che di doppi standard, e di cooperazione piuttosto che di dominio. Se i paesi rinunciano alla cooperazione a favore della competizione, si profila un mondo di conflitti ancora più gravi.

Ogni Stato ha un proprio potere d’azione, anche quelli piccoli come il mio, la Finlandia. La chiave è cercare di massimizzare l’influenza e, con gli strumenti disponibili, spingere per trovare soluzioni. Per me questo significa fare tutto il possibile per preservare l’ordine mondiale liberale, anche se questo sistema non è molto in voga al momento. Le istituzioni e le norme internazionali forniscono il quadro di riferimento per la cooperazione globale. Devono essere aggiornate e riformate per riflettere meglio il crescente potere economico e politico del Sud e dell’Est del mondo. I leader occidentali parlano da tempo dell’urgenza di riformare le istituzioni multilaterali come le Nazioni Unite. Ora dobbiamo farlo, iniziando con il riequilibrare il potere all’interno dell’ONU e di altri organismi internazionali come l’Organizzazione mondiale del commercio, il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Senza tali cambiamenti, il sistema multilaterale così come esiste oggi crollerà. Quel sistema non è perfetto, ha dei difetti intrinseci e non potrà mai riflettere esattamente il mondo che lo circonda. Ma le alternative sono molto peggiori: sfere di influenza, caos e disordine.

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LA STORIA NON È FINITA

Ho iniziato a studiare scienze politiche e relazioni internazionali alla Furman University negli Stati Uniti nel 1989. Quell’autunno cadde il muro di Berlino. Poco dopo, la Germania si riunificò, l’Europa centrale e orientale si liberò dalle catene del comunismo e quello che era stato un mondo bipolare, che vedeva contrapposti l’Unione Sovietica comunista e autoritaria e gli Stati Uniti capitalisti e democratici, divenne unipolare. Gli Stati Uniti erano ormai la superpotenza indiscussa. L’ordine internazionale liberale aveva vinto.

All’epoca ero euforico. A me, come a tanti altri, sembrava che fossimo alle soglie di un’era più luminosa. Il politologo Francis Fukuyama definì quel momento “la fine della storia” e non ero l’unico a credere che il trionfo del liberalismo fosse certo. La maggior parte degli Stati nazionali avrebbe inevitabilmente virato verso la democrazia, il capitalismo di mercato e la libertà. La globalizzazione avrebbe portato all’interdipendenza economica. Le vecchie divisioni sarebbero scomparse e il mondo sarebbe diventato uno solo. Anche alla fine del decennio, quando ho completato il mio dottorato di ricerca in integrazione europea alla London School of Economics, questo futuro sembrava ancora imminente.

Ma quel futuro non è mai arrivato. Il momento unipolare si è rivelato di breve durata. Dopo gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001, l’Occidente ha voltato le spalle ai valori fondamentali che sosteneva di difendere. Il suo impegno nei confronti del diritto internazionale è stato messo in discussione. Gli interventi guidati dagli Stati Uniti in Afghanistan e Iraq sono falliti. Il crollo finanziario globale del 2008 ha inferto un duro colpo alla reputazione del modello economico occidentale, radicato nei mercati globali. Gli Stati Uniti non guidavano più da soli la politica globale. La Cina è emersa come superpotenza grazie alla sua produzione manifatturiera, alle esportazioni e alla crescita economica in rapida ascesa, e da allora la sua rivalità con gli Stati Uniti ha dominato la geopolitica. L’ultimo decennio ha visto anche un’ulteriore erosione delle istituzioni multilaterali, crescenti sospetti e attriti riguardo al libero scambio e un’intensificazione della concorrenza nel campo della tecnologia.

La guerra di aggressione su vasta scala condotta dalla Russia in Ucraina nel febbraio 2022 ha inferto un altro duro colpo al vecchio ordine. È stata una delle violazioni più eclatanti del sistema basato sulle regole dalla fine della seconda guerra mondiale e sicuramente la peggiore che l’Europa abbia mai visto. Il fatto che il colpevole fosse un membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, istituito per preservare la pace, è stato ancora più grave. Gli Stati che avrebbero dovuto sostenere il sistema lo hanno fatto crollare.

MULTILATERALISMO O MULTIPOLARITÀ

L’ordine internazionale, tuttavia, non è scomparso. Tra le macerie, sta passando dal multilateralismo alla multipolarità. Il multilateralismo è un sistema di cooperazione globale che si basa su istituzioni internazionali e regole comuni. I suoi principi fondamentali si applicano in modo uguale a tutti i paesi, indipendentemente dalle loro dimensioni. La multipolarità, al contrario, è un oligopolio di potere. La struttura di un mondo multipolare si basa su diversi poli, spesso in competizione tra loro. Gli accordi e le intese tra un numero limitato di attori costituiscono la struttura di tale ordine, indebolendo inevitabilmente le regole e le istituzioni comuni. La multipolarità può portare a comportamenti ad hoc e opportunistici e a una serie fluida di alleanze basate sull’interesse reale degli Stati. Un mondo multipolare rischia di escludere i paesi di piccole e medie dimensioni, poiché le potenze più grandi stringono accordi senza consultarli. Mentre il multilateralismo porta all’ordine, la multipolarità tende al disordine e al conflitto.

C’è una tensione crescente tra chi promuove il multilateralismo e un ordine basato sullo Stato di diritto e chi parla il linguaggio della multipolarità e del transazionalismo. I piccoli Stati e le potenze medie, così come le organizzazioni regionali come l’Unione Africana, l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico, l’UE e il blocco sudamericano Mercosur, promuovono il multilateralismo. La Cina, dal canto suo, promuove la multipolarità con sfumature di multilateralismo; apparentemente sostiene raggruppamenti multilaterali come il BRICS – la coalizione non occidentale i cui membri originari erano Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica – e l’Organizzazione di cooperazione di Shanghai, che in realtà vogliono dare origine a un ordine più multipolare. Gli Stati Uniti hanno spostato la loro enfasi dal multilateralismo al transazionalismo, ma mantengono comunque i loro impegni nei confronti di istituzioni regionali come la NATO. Molti Stati, grandi e piccoli, stanno perseguendo quella che può essere descritta come una politica estera multivettoriale. In sostanza, il loro obiettivo è quello di diversificare le loro relazioni con più attori piuttosto che allinearsi con un unico blocco.

Una politica estera transazionale o multivettoriale è dominata dagli interessi. Gli Stati piccoli, ad esempio, spesso cercano un equilibrio tra le grandi potenze: possono allinearsi con la Cina in alcuni settori e schierarsi con gli Stati Uniti in altri, cercando al contempo di evitare di essere dominati da un unico attore. Gli interessi guidano le scelte pratiche degli Stati, e questo è del tutto legittimo. Ma un approccio di questo tipo non deve necessariamente rinunciare ai valori, che dovrebbero essere alla base di ogni azione di uno Stato. Anche una politica estera transazionale dovrebbe fondarsi su un nucleo di valori fondamentali. Tra questi figurano la sovranità e l’integrità territoriale degli Stati, il divieto dell’uso della forza e il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. La stragrande maggioranza dei paesi ha un chiaro interesse a difendere questi valori e a garantire che i trasgressori subiscano conseguenze concrete.

Molti paesi stanno rifiutando il multilateralismo a favore di accordi e intese più ad hoc. Gli Stati Uniti, ad esempio, si concentrano su accordi commerciali e bilaterali. La Cina utilizza la Belt and Road Initiative, il suo vasto programma di investimenti infrastrutturali globali, per facilitare sia la diplomazia bilaterale che le transazioni economiche. L’UE sta stringendo accordi bilaterali di libero scambio che rischiano di non rispettare le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio. Paradossalmente, ciò sta accadendo proprio nel momento in cui il mondo ha più che mai bisogno del multilateralismo per risolvere sfide comuni, come il cambiamento climatico, le carenze di sviluppo e la regolamentazione delle tecnologie avanzate. Senza un sistema multilaterale forte, tutta la diplomazia diventa transazionale. Un mondo multilaterale fa del bene comune un interesse personale. Un mondo multipolare funziona semplicemente sull’interesse personale.

IL “REALISMO BASATO SUI VALORI” DELLA FINLANDIA

La politica estera si basa spesso su tre pilastri: valori, interessi e potere. Questi tre elementi sono fondamentali quando l’equilibrio e le dinamiche dell’ordine mondiale stanno cambiando. Provengo da un Paese relativamente piccolo con una popolazione di quasi sei milioni di persone. Sebbene disponiamo di una delle forze di difesa più grandi d’Europa, la nostra diplomazia si basa su valori e interessi. Il potere, sia quello duro che quello morbido, è per lo più un lusso dei grandi attori. Essi possono proiettare il loro potere militare ed economico, costringendo gli attori più piccoli ad allinearsi ai loro obiettivi. Ma i piccoli paesi possono trovare potere nella cooperazione con gli altri. Le alleanze, i raggruppamenti e la diplomazia intelligente sono ciò che conferisce a un attore più piccolo un’influenza ben superiore alle dimensioni del suo esercito e della sua economia. Spesso queste alleanze si basano su valori condivisi, come l’impegno a favore dei diritti umani e dello Stato di diritto.

Essendo un piccolo paese confinante con una potenza imperiale, la Finlandia ha imparato che a volte uno Stato deve mettere da parte alcuni valori per proteggerne altri, o semplicemente per sopravvivere. La sovranità statale si basa sui principi di indipendenza, sovranità e integrità territoriale. Dopo la seconda guerra mondiale, la Finlandia ha mantenuto la sua indipendenza, a differenza dei nostri amici baltici che sono stati assorbiti dall’Unione Sovietica. Ma abbiamo perso il dieci per cento del nostro territorio a favore dell’Unione Sovietica, comprese le zone in cui sono nati mio padre e i miei nonni. E, cosa fondamentale, abbiamo dovuto rinunciare a parte della nostra sovranità. La Finlandia non ha potuto aderire alle istituzioni internazionali a cui sentivamo di appartenere naturalmente, in particolare l’UE e la NATO.

Durante la Guerra Fredda, la politica estera finlandese era caratterizzata da un “realismo pragmatico”. Per impedire all’Unione Sovietica di attaccarci nuovamente, come aveva fatto nel 1939, abbiamo dovuto scendere a compromessi sui nostri valori occidentali. Questo periodo della storia finlandese, che ha dato origine al termine “finlandizzazione” nelle relazioni internazionali, non è qualcosa di cui possiamo andare particolarmente fieri, ma siamo riusciti a mantenere la nostra indipendenza. Quell’esperienza ci ha resi diffidenti nei confronti di qualsiasi possibilità che si ripeta. Quando alcuni suggeriscono che la finlandizzazione potrebbe essere una soluzione per porre fine alla guerra in Ucraina, mi trovo in forte disaccordo. Una pace del genere avrebbe un costo troppo alto, che equivarrebbe di fatto alla rinuncia alla sovranità e al territorio.

Viviamo in un nuovo mondo di disordine.

Dopo la fine della Guerra Fredda, la Finlandia, come molti altri paesi, ha abbracciato l’idea che i valori dell’Occidente globale sarebbero diventati la norma, ciò che io chiamo “idealismo basato sui valori”. Questo ha permesso alla Finlandia di aderire all’Unione Europea nel 1995. Allo stesso tempo, la Finlandia ha commesso un grave errore: ha deciso, volontariamente, di rimanere fuori dalla NATO. (Per la cronaca, sono stato un fervente sostenitore dell’adesione della Finlandia alla NATO per 30 anni). Alcuni finlandesi nutrivano l’idealistica convinzione che la Russia sarebbe diventata una democrazia liberale, quindi l’adesione alla NATO non era necessaria. Altri temevano che la Russia avrebbe reagito male all’adesione della Finlandia all’alleanza. Altri ancora pensavano che la Finlandia contribuisse a mantenere l’equilibrio, e quindi la pace, nella regione del Mar Baltico rimanendo fuori dall’alleanza. Tutte queste ragioni si sono rivelate errate e la Finlandia si è adeguata di conseguenza, aderendo alla NATO dopo l’attacco su vasta scala della Russia all’Ucraina.

È stata una decisione dettata sia dai valori che dagli interessi della Finlandia. La Finlandia ha abbracciato quello che io definisco «realismo basato sui valori»: l’impegno a rispettare una serie di valori universali fondati sulla libertà, sui diritti fondamentali e sulle norme internazionali, pur continuando a rispettare la realtà della diversità culturale e storica del mondo. L’Occidente globale deve rimanere fedele ai propri valori, ma comprendere che i problemi del mondo non potranno essere risolti solo attraverso la collaborazione con paesi che condividono gli stessi principi.

Il realismo basato sui valori può sembrare una contraddizione in termini, ma non lo è. Due influenti teorie del dopoguerra fredda sembravano contrapporre i valori universali a una valutazione più realistica delle linee di frattura politiche. La tesi della fine della storia di Fukuyama vedeva il trionfo del capitalismo sul comunismo come l’annuncio di un mondo che sarebbe diventato sempre più liberale e orientato al mercato. La visione del politologo Samuel Huntington di uno “scontro di civiltà” prevedeva che le linee di frattura della geopolitica si sarebbero spostate dalle differenze ideologiche a quelle culturali. In realtà, gli Stati possono attingere da entrambe le interpretazioni nel negoziare l’ordine mutevole di oggi. Nell’elaborare la politica estera, i governi dell’Occidente globale possono mantenere la loro fede nella democrazia e nei mercati senza insistere sul fatto che siano universalmente applicabili; in altri luoghi possono prevalere modelli diversi. E anche all’interno dell’Occidente globale, la ricerca della sicurezza e la difesa della sovranità renderanno occasionalmente impossibile aderire rigorosamente agli ideali liberali.

I paesi dovrebbero impegnarsi per creare un ordine mondiale cooperativo basato sul realismo dei valori, nel rispetto sia dello Stato di diritto che delle differenze culturali e politiche. Per la Finlandia, ciò significa avvicinarsi ai paesi dell’Africa, dell’Asia e dell’America Latina per comprendere meglio le loro posizioni sulla guerra della Russia in Ucraina e su altri conflitti in corso. Significa anche tenere discussioni pragmatiche su un piano di parità su questioni globali importanti, come quelle relative alla condivisione della tecnologia, alle materie prime e al cambiamento climatico.

IL TRIANGOLO DEL POTERE

Tre grandi regioni costituiscono oggi l’equilibrio globale del potere: l’Occidente globale, l’Oriente globale e il Sud globale. L’Occidente globale comprende circa 50 paesi ed è tradizionalmente guidato dagli Stati Uniti. I suoi membri includono principalmente Stati democratici e orientati al mercato in Europa e Nord America e i loro alleati più lontani, Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud. Questi paesi hanno tipicamente mirato a sostenere un ordine multilaterale basato su regole, anche se non sono d’accordo sul modo migliore per preservarlo, riformarlo o reinventarlo.

L’Oriente globale è composto da circa 25 Stati guidati dalla Cina. Comprende una rete di Stati alleati, in particolare Iran, Corea del Nord e Russia, che cercano di rivedere o sostituire l’attuale ordine internazionale basato su regole. Questi paesi sono legati da un interesse comune, ovvero il desiderio di ridurre il potere dell’Occidente globale.

Il Sud del mondo, che comprende molti dei paesi in via di sviluppo e a reddito medio dell’Africa, dell’America Latina, dell’Asia meridionale e del Sud-Est asiatico (e la maggior parte della popolazione mondiale), comprende circa 125 Stati. Molti di essi hanno sofferto sotto il colonialismo occidentale e poi di nuovo come teatro delle guerre per procura dell’era della Guerra Fredda. Il Sud del mondo comprende molte potenze medie o “stati oscillanti”, in particolare Brasile, India, Indonesia, Kenya, Messico, Nigeria, Arabia Saudita e Sudafrica. Le tendenze demografiche, lo sviluppo economico e l’estrazione e l’esportazione di risorse naturali guidano l’ascesa di questi Stati.

L’Occidente globale e l’Oriente globale stanno lottando per conquistare i cuori e le menti del Sud globale. Il motivo è semplice: entrambi comprendono che sarà il Sud globale a decidere la direzione del nuovo ordine mondiale. Mentre l’Occidente e l’Oriente tirano in direzioni opposte, il Sud ha il voto decisivo.

L’Occidente globale non può semplicemente attrarre il Sud del mondo esaltando le virtù della libertà e della democrazia; deve anche finanziare progetti di sviluppo, investire nella crescita economica e, soprattutto, dare al Sud un posto al tavolo delle trattative e condividere il potere. L’Oriente globale commetterebbe lo stesso errore se pensasse che la sua spesa per grandi progetti infrastrutturali e investimenti diretti gli garantisca piena influenza nel Sud del mondo. L’amore non si compra facilmente. Come ha osservato il ministro degli Esteri indiano Subrahmanyam Jaishankar, l’India e altri paesi del Sud del mondo non stanno semplicemente rimanendo neutrali, ma stanno piuttosto difendendo la propria posizione.

Il presidente finlandese Alexander Stubb a Washington, D.C., ottobre 2025Kent Nishimura / Reuters

In altre parole, ciò di cui avranno bisogno sia i leader occidentali che quelli orientali è un realismo basato sui valori. La politica estera non è mai binaria. Un politico deve compiere scelte quotidiane che coinvolgono sia i valori che gli interessi. Acquisterete armi da un Paese che viola il diritto internazionale? Finanzierete una dittatura che combatte il terrorismo? Fornirete aiuti a un Paese che considera l’omosessualità un reato? Commercerete con un Paese che permette la pena di morte? Alcuni valori non sono negoziabili. Tra questi figurano la difesa dei diritti fondamentali e umani, la protezione delle minoranze, la salvaguardia della democrazia e il rispetto dello Stato di diritto. Questi valori sono alla base di ciò che l’Occidente globale dovrebbe rappresentare, soprattutto nei suoi appelli al Sud del mondo. Allo stesso tempo, l’Occidente globale deve comprendere che non tutti condividono questi valori.

L’obiettivo del realismo basato sui valori è quello di trovare un equilibrio tra valori e interessi in modo da dare priorità ai principi, ma riconoscendo i limiti del potere di uno Stato quando sono in gioco gli interessi della pace, della stabilità e della sicurezza. Un ordine mondiale basato su regole e sostenuto da un insieme di istituzioni internazionali ben funzionanti che sanciscono valori fondamentali rimane il modo migliore per evitare che la competizione porti a scontri. Ma poiché queste istituzioni hanno perso la loro rilevanza, i paesi devono abbracciare un senso di realismo più rigoroso. I leader devono riconoscere le differenze tra i paesi: le realtà geografiche, storiche, culturali, religiose e i diversi stadi di sviluppo economico. Se vogliono che gli altri affrontino meglio questioni come i diritti dei cittadini, le pratiche ambientali e il buon governo, dovrebbero dare l’esempio e offrire sostegno, non lezioni.

Il realismo basato sui valori inizia con un comportamento dignitoso, con il rispetto delle opinioni altrui e la comprensione delle differenze. Significa collaborazione basata su partnership tra pari piuttosto che su una percezione storica di come dovrebbero essere le relazioni tra Occidente, Oriente e Sud del mondo. Il modo in cui gli Stati possono guardare avanti piuttosto che indietro è concentrarsi su importanti progetti comuni come le infrastrutture, il commercio e la mitigazione e l’adattamento ai cambiamenti climatici.

Molti ostacoli si frappongono a qualsiasi tentativo da parte delle tre sfere mondiali di costruire un ordine globale che rispetti le differenze e consenta agli Stati di inserire i propri interessi nazionali in un quadro più ampio di relazioni internazionali cooperative. I costi di un fallimento, tuttavia, sono immensi: la prima metà del XX secolo è stata un monito sufficiente.

L’incertezza è parte integrante delle relazioni internazionali, e mai come durante la transizione da un’era all’altra. La chiave è capire perché sta avvenendo il cambiamento e come reagire ad esso. Se l’Occidente globale tornerà ai suoi vecchi modi di dominare direttamente o indirettamente o di mostrare aperta arroganza, perderà la battaglia. Se invece si renderà conto che il Sud globale sarà una parte fondamentale del prossimo ordine mondiale, potrebbe essere in grado di stringere partnership basate sia sui valori che sugli interessi in grado di affrontare le principali sfide del globo. Il realismo basato sui valori darà all’Occidente spazio sufficiente per navigare in questa nuova era delle relazioni internazionali.

I MONDI A VENIRE

Una serie di istituzioni postbelliche ha contribuito a guidare il mondo attraverso la sua era di sviluppo più rapido e ha sostenuto un periodo straordinario di relativa pace. Oggi, esse rischiano di crollare. Ma devono sopravvivere, perché un mondo basato sulla competizione senza cooperazione porterà al conflitto. Per sopravvivere, tuttavia, devono cambiare, perché troppi Stati non hanno voce in capitolo nel sistema esistente e, in assenza di cambiamenti, se ne distaccheranno. Non si può biasimare questi Stati per averlo fatto; il nuovo ordine mondiale non aspetterà.

Nel prossimo decennio potrebbero verificarsi almeno tre scenari. Nel primo, l’attuale disordine semplicemente persisterebbe. Ci sarebbero ancora elementi del vecchio ordine, ma il rispetto delle regole e delle istituzioni internazionali sarebbe à la carte e basato principalmente sugli interessi, non su valori innati. La capacità di risolvere le sfide principali rimarrebbe limitata, ma almeno il mondo non precipiterebbe in un caos ancora maggiore. Porre fine ai conflitti, tuttavia, diventerebbe particolarmente difficile perché la maggior parte degli accordi di pace sarebbero transazionali e privi dell’autorità che deriva dall’imprimatur delle Nazioni Unite.

Le cose potrebbero andare peggio: in un secondo scenario, le fondamenta dell’ordine internazionale liberale – le sue regole e istituzioni – continuerebbero a sgretolarsi e l’ordine esistente crollerebbe. Il mondo si avvicinerebbe al caos senza un chiaro nesso di potere e con Stati incapaci di risolvere crisi acute, come carestie, pandemie o conflitti. Uomini forti, signori della guerra e attori non statali riempirebbero il vuoto di potere lasciato dalle organizzazioni internazionali in declino. I conflitti locali rischierebbero di scatenare guerre più estese. La stabilità e la prevedibilità sarebbero l’eccezione, non la norma, in un mondo in cui vige la legge del più forte. La mediazione di pace sarebbe quasi impossibile.

Ma non deve necessariamente essere così. In un terzo scenario, una nuova simmetria di potere tra Occidente, Oriente e Sud del mondo produrrebbe un ordine mondiale riequilibrato, in cui i paesi potrebbero affrontare le sfide globali più urgenti attraverso la cooperazione e il dialogo tra pari. Tale equilibrio contenerebbe la concorrenza e spingerebbe il mondo verso una maggiore cooperazione su questioni climatiche, di sicurezza e tecnologiche, sfide critiche che nessun paese può risolvere da solo. In questo scenario, prevalerebbero i principi della Carta delle Nazioni Unite, portando ad accordi equi e duraturi. Ma affinché ciò avvenga, le istituzioni internazionali devono essere riformate.

Il momento unipolare si rivelò di breve durata.

La riforma inizia dall’alto, ovvero dalle Nazioni Unite. La riforma è sempre un processo lungo e complicato, ma ci sono almeno tre possibili cambiamenti che rafforzerebbero automaticamente l’ONU e darebbero voce in capitolo a quegli Stati che ritengono di non avere abbastanza potere a New York, Ginevra, Vienna o Nairobi.

In primo luogo, tutti i principali continenti devono essere rappresentati in ogni momento nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. È semplicemente inaccettabile che non vi sia alcuna rappresentanza permanente dell’Africa e dell’America Latina nel Consiglio di sicurezza e che la Cina sia l’unico rappresentante dell’Asia. Il numero dei membri permanenti dovrebbe essere aumentato di almeno cinque: due dall’Africa, due dall’Asia e uno dall’America Latina.

In secondo luogo, nessun singolo Stato dovrebbe avere diritto di veto nel Consiglio di Sicurezza. Il veto era necessario all’indomani della Seconda guerra mondiale, ma nel mondo odierno ha reso inefficace il Consiglio di Sicurezza. Le agenzie delle Nazioni Unite a Ginevra funzionano bene proprio perché nessun singolo membro può impedire loro di farlo.

In terzo luogo, se un membro permanente o non permanente del Consiglio di Sicurezza viola la Carta delle Nazioni Unite, la sua adesione all’ONU dovrebbe essere sospesa. Ciò significa che l’organismo avrebbe dovuto sospendere la Russia dopo la sua invasione su larga scala dell’Ucraina. Una tale decisione di sospensione potrebbe essere presa dall’Assemblea Generale. Non dovrebbe esserci spazio per due pesi e due misure nelle Nazioni Unite.

Al vertice dei leader del G-20 a Johannesburg, novembre 2025Yves Herman / Reuters

Anche le istituzioni commerciali e finanziarie globali devono essere aggiornate. L’Organizzazione mondiale del commercio, che da anni è paralizzata dal blocco del suo meccanismo di risoluzione delle controversie, rimane comunque essenziale. Nonostante l’aumento degli accordi di libero scambio al di fuori dell’ambito di competenza dell’OMC, oltre il 70% del commercio globale continua a essere regolato dal principio della “nazione più favorita” dell’OMC. Lo scopo del sistema commerciale multilaterale è garantire un trattamento equo e paritario a tutti i suoi membri. I dazi doganali e altre violazioni delle norme dell’OMC finiscono per danneggiare tutti. L’attuale processo di riforma deve portare a una maggiore trasparenza, soprattutto per quanto riguarda le sovvenzioni, e a una maggiore flessibilità nei processi decisionali dell’OMC. Queste riforme devono essere attuate rapidamente, altrimenti il sistema perderà credibilità se l’OMC rimarrà impantanata nell’attuale situazione di stallo.

La riforma è difficile e alcune di queste proposte potrebbero sembrare irrealistiche. Ma lo erano anche quelle avanzate a San Francisco quando, oltre 80 anni fa, fu fondata l’Organizzazione delle Nazioni Unite. L’adesione dei 193 membri delle Nazioni Unite a questi cambiamenti dipenderà dalla loro scelta di concentrare la propria politica estera sui valori, sugli interessi o sul potere. La condivisione del potere sulla base dei valori e degli interessi è stata alla base della creazione dell’ordine mondiale liberale dopo la seconda guerra mondiale. È giunto il momento di rivedere il sistema che ci ha servito così bene per quasi un secolo.

La variabile imprevedibile per l’Occidente globale in tutto questo sarà se gli Stati Uniti vorranno preservare l’ordine mondiale multilaterale che hanno contribuito in modo determinante a costruire e dal quale hanno tratto enormi benefici. Potrebbe non essere un percorso facile, dato il ritiro di Washington da istituzioni e accordi chiave, come l’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’accordo di Parigi sul clima, e il suo nuovo approccio mercantilista al commercio transfrontaliero. Il sistema delle Nazioni Unite ha contribuito a preservare la pace tra le grandi potenze, consentendo agli Stati Uniti di emergere come potenza geopolitica leader. In molte istituzioni delle Nazioni Unite, gli Stati Uniti hanno assunto un ruolo di primo piano e sono stati in grado di perseguire i propri obiettivi politici in modo molto efficace. Il libero scambio globale ha aiutato gli Stati Uniti ad affermarsi come la principale potenza economica mondiale, offrendo al contempo prodotti a basso costo ai consumatori americani. Alleanze come la NATO hanno dato agli Stati Uniti vantaggi militari e politici al di fuori della propria regione. Rimane compito del resto dell’Occidente convincere l’amministrazione Trump del valore sia delle istituzioni del dopoguerra sia del ruolo attivo degli Stati Uniti in esse.

La variabile imprevedibile per l’Oriente globale sarà il modo in cui la Cina giocherà le sue carte sulla scena mondiale. Potrebbe intraprendere ulteriori iniziative per colmare il vuoto di potere lasciato dagli Stati Uniti in settori quali il libero scambio, la cooperazione sul cambiamento climatico e lo sviluppo. Potrebbe cercare di plasmare le istituzioni internazionali in cui ora ha una posizione molto più forte. Potrebbe cercare di proiettare ulteriormente il proprio potere nella propria regione. E potrebbe abbandonare la sua strategia di lunga data di nascondere la propria forza e aspettare il momento opportuno, decidendo che è giunto il momento di intraprendere azioni più aggressive, ad esempio nel Mar Cinese Meridionale e nello Stretto di Taiwan.

YALTA O HELSINKI?

Un ordine internazionale, come quello forgiato dall’Impero Romano, può talvolta sopravvivere per secoli. Il più delle volte, tuttavia, dura solo pochi decenni. La guerra di aggressione della Russia in Ucraina segna l’inizio di un altro cambiamento nell’ordine mondiale. Per i giovani di oggi, è il loro momento 1918, 1945 o 1989. Il mondo può prendere una piega sbagliata in questi momenti cruciali, come è successo dopo la prima guerra mondiale, quando la Società delle Nazioni non è riuscita a contenere la competizione tra le grandi potenze, provocando un’altra sanguinosa guerra mondiale.

I paesi possono anche riuscire più o meno nell’intento, come è successo dopo la seconda guerra mondiale con la creazione delle Nazioni Unite. Quel nuovo ordine postbellico, dopotutto, ha preservato la pace tra le due superpotenze della Guerra Fredda, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Certo, quella relativa stabilità è costata cara agli Stati che sono stati costretti alla sottomissione o hanno sofferto durante i conflitti per procura. E anche se la fine della Seconda guerra mondiale ha gettato le basi per un ordine che è sopravvissuto per decenni, ha anche piantato i semi dell’attuale squilibrio.

Nel 1945, i vincitori della guerra si riunirono a Yalta, in Crimea. Lì, il presidente degli Stati Uniti Franklin Roosevelt, il primo ministro britannico Winston Churchill e il leader sovietico Joseph Stalin elaborarono un ordine postbellico basato sulle sfere di influenza. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite sarebbe emerso come il palcoscenico in cui le superpotenze potevano affrontare le loro divergenze, ma offriva poco spazio agli altri. A Yalta, i grandi Stati fecero un accordo a scapito dei piccoli. Questo errore storico deve ora essere corretto.

Senza un sistema multilaterale forte, la diplomazia diventa transazionale.

La convocazione nel 1975 della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa offre un netto contrasto con Yalta. Trentadue paesi europei, più il Canada, l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti, si riunirono a Helsinki per creare una struttura di sicurezza europea basata su regole e norme applicabili a tutti. Concordarono sui principi fondamentali che regolavano il comportamento degli Stati nei confronti dei propri cittadini e gli uni verso gli altri. Si trattò di un’impresa straordinaria di multilateralismo in un momento di forti tensioni, che contribuì in modo determinante a precipitare la fine della Guerra Fredda.

Yalta ha prodotto risultati multipolari, mentre Helsinki è stata multilaterale. Ora il mondo si trova di fronte a una scelta e credo che Helsinki offra la strada giusta da seguire. Le scelte che faremo tutti nel prossimo decennio definiranno l’ordine mondiale del XXI secolo.

I piccoli Stati come il mio non sono semplici spettatori in questa vicenda. Il nuovo ordine sarà determinato dalle decisioni prese dai leader politici sia dei grandi che dei piccoli Stati, siano essi democratici, autocratici o una via di mezzo. E qui una responsabilità particolare ricade sull’Occidente globale, in quanto artefice dell’ordine che sta volgendo al termine e ancora, dal punto di vista economico e militare, la coalizione globale più potente. Il modo in cui ci assumiamo questa responsabilità è importante. Questa è la nostra ultima possibilità.

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