PRIMA GLI SPAGNOLI, POI I GRECI ED ORA I TURCHI, di Antonio de Martini

PRIMA GLI SPAGNOLI, POI I GRECI ED ORA I TURCHI

L’Italia sta scendendo gradino dopo gradino, nella gerarchia dei paesi mediterranei.
Adesso dobbiamo abbracciare con gratitudine tunisini e albanesi perchè ci permettono – ancora per poco- di non essere gli ultimi nella considerazione dei rivieraschi.
A fronte di tanta inattività, col nostro ministro degli Esteri che va in Svizzera a invitarli a venire in vacanza da noi, la Turchia di Erdogan , dopo averci sostituito di fatto nel Levante e nel Golfo, ci sta emarginando dal Nord Africa e non solo dalla Libia.
Questo attivismo bellicoso, ma non belligerante, di Erdogan sta non soltanto aprendo spazi commerciali e politici nuovi alla Turchia in tutta l’Africa, ma mette in crisi anche tedeschi e francesi che credevano di potersi approfittare dell’assenza italiana – in parte agevolata da loro- e si trovano di fronte un paese ben più difficile, deciso a trovare il suo posto al sole fottendosene dei vincoli NATO, delle buone maniere e degli usi internazionali.

In questa epoca di, nella migliore delle ipotesi castrati, chi non ha paura di combattere ha già vinto, specie se pensa di aver ragione e se il 70% dei suoi cittadini si dichiara disposto a combattere per la Patria ( contro il 20% degli Italiani e il 19% dei tedeschi e francesi, Pew research dixit).

COSA FANNO E DOVE

IRAK
Le FFAA turche, addestrate e largamente equipaggiate dagli USA, sono in questo momento impegnate nel Nord Irak nella repressione degli sconfinamenti dei curdi del PKK verso l’Irak.
Hanno ormai consolidato il diritto all’inseguimento oltre frontiera e guardano sempre più verso la zona petrolifera di Mossul che – a rigor dei termini armistiziali del 1918 – non avrebbe dovuto essere occupata tre giorni dopo il cessate il fuoco dalle truppe inglesi.
Al generale Ihsen Pascià, la sua remissività nel non ricacciarli indietro è stata rimproverata fino alla morte avvenuta negli anni settanta. Must afa Kemal che buttò a mare francesi e greci, si vide offrire la guida del paese.

SIRIA
Anche l’hinterland di Alessandretta con Idlib ( e guardando ad Aleppo) è occupato dalle truppe turche, la lira turca ha già sostituito la fragilissima lira siriana e le bande anti-Assad vivono grazie ai rifornimenti centellinati dal MIT ( il servizio segreto turco) e sono protetti dalle incursioni aeree russe dal mega contratto delle batterie antiaeree russe AS400 che i turchi stanno testando e che ogni tanto frenano nell’addestramento. Per i russi la Turchia vale molto di più che lo stremato Assad: sono in ballo gli stretti di accesso al Mediterraneo e l’intero fianco destro dell’alleanza Atlantica. Per averne una neutralità benevola sono disposti a tutto e di più.

CIPRO

Nel Mediterraneo, i turchi presidiano – anche qui con qualche ragione le acque di Cipro Nord occupata da Bulent Ecevit , il leader socialdemocratico costretto a reagire al colpo di mano annessionista dei colonnelli greci che caddero per via di quella reazione turca osannata come salvifica e democratica da tutta la NATO.
Inoltre , quando l’Inghilterra si impossessò dell’isola, nel Congresso europeo del 1878 – per un colpo di ipocrisia non nuovo per Albione- fu riconosciuta la sovranità turca su Cipro.
Ora che c’è il petrolio e il gas, farebbe comodo a tutti trattare coi ciprioti piuttosto che coi turchi che hanno tariffari più consistenti. Ma anche questo è un dossier aperto con le baionette.

KATAR
Una brigata turca si è sistemata di guarnigione in Katar a protezione ostentata del regnante e in funzione deterrente verso i sauditi.
In Libia, dove L’inutile Serraj – riconosciuto dalla comunità internazionale- fece appello alla NATO che aveva detronizzato Gheddafi per reagire contro l’auto promosso “ Maresciallo “ Haftar , un incapace già rimosso dal comando dal precedente regime riparator in VIrginoia accanto alla sede CIA

MAR ROSSO
Un presidio di una compagnia circa Erdogan lo ha installato su uno scoglio-isolotto appartenente al Sudan in mezzo al mar rosso: anche lui può influire sulla fluidità del traffico marittimo. L’aiuto datoci nella vicenda somala della giovane Italian rapita, dimostra che l’influenza turca ci h sostituito anche in Somalia e forse anche a Gibuti di cui non sono informato, ma…

LIBIA
Il premier libico riconosciuto dalla comunità internazionale, Serraj, fece a suo tempo appello ai paesi della NATO per reagire all’aggressività di Haftar – il’autonominato Maresciallo- che cercava di impossessarsi di tutto il bottino e faceva il prezioso con il nostro presidente del Consiglio Conte.
L’unico a rispondere positivamente – senza fingere equanimità impossibili nelle diatribe tra ladroni- è stato, ancora una volta Erdogan: ha firmato un “ memorandum of understanding” , ha fornito addestratori e volontari e sta rifornendo di armi Serraj facendole scortare dalla marina turca.
E’ stato così che si sono scoperti gli altarini della Francia che finge di partecipare lealmente alla operazione “ Sea Guardian” per proibire l’import di armi verso i belligeranti libici ( in realtà russi contro turchi con chaperons libici di contorno).

La nave battente bandiera tanzaniana , il “ Cirkin” , lascia l’Egeo con rotta il porto tunisino di Gabes. Il comando NATO ( Marco) lo reperisce , nota il cambiamento di rotta verso il golfo di Sirte e alle navi ( notate) greche e francesi che lo intercettano chiedendogli l’identità, il battello – scortato da due fregate turche- risponde di essere NATO.

La fregata francese “ Courbet” che mostrava di voler intervenire – la Francia si è schierata con Haftar e non da oggi- ha tentato l’intercettazione, ma è stato bloccato dalle fregate turche che hanno “ illuminato” coi loro radar di puntamento la nave francese per ben tre volte e messo gli uomini ai posti di combattimento. Il battello greco si è ben guardato dall’intervenire.

Ora la situazione è chiara : la NATO è divisa tra le due fazioni libiche a seconda degli interessi di ciascuno e la Turchia fa i propri interessi, ma anche stavolta in accordo con le determinazioni ONU ( come per il caso di Gaza).
Dei cinque dossier in ballo tutti hanno al centro risorse energetiche di cui la Turchia ha bisogno per assurgere al rango di potenza regionale in Asia, in Africa o nel Mediterraneo.
Da sola dovrà lottare ancora a lungo e con incerto risultato. Se appoggiata politicamente e strategicamente ( ah, la geografia e la tecnologia) dall’Italia, ogni traguardo diventa possibile e ogni contropartita accettabile da pagare.

Lo stesso accadde a Mustafa Kemal , Ataturk, che per riemergere dalle rovine del Califfato sconfitto, tra il 19 e il 23 si appoggioò strumentalmente alla Russia sovietica e all’Italia premussoliniana rappresentata da Sforza. E tutti i paesi coinvolti sono nostri amici/clienti preferenziali.

Attualmente impieghiamo all’estero più truppe e navi della Turchia ( Libano, Sinai, Afganistan, Libia e entità minori) in cambio di qualche pacca sulla spalla, mentre Germania e Francia stanno pigiando senza vergogna sull’affare Regeni per guastarci anche con l’Egitto che proprio ieri ha – come dice pudicamente il “ Corriere della sera” “varcato il Rubicane.” Solo che stavolta si tratta di un fiume di petrolio.

Le vere ragioni della morte di Abdelmalek Droukdal, di Bernard Lugan

Qui sotto la traduzione del notiziario di Bernard Lugan, il più puntuale analista francese della situazione sociopolitica del continente africano. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Abdelmalek Droukdal, il capo di Al-Quaïda in tutta l’Africa del Nord e la fascia sahéliana, da due decenni l’uomo più ricercato in Algeria, ha abbandonato il suo santuario di Kabylia con il suo Stato Maggiore per raggiungere il nord del Mali laddove l’armata francese lo ha abbattuto. E’ stato «neutralizzato» nella regione di Tessalit, in territorio touareg; un dato dalla importanza fondamentale.

Sorgono due domande:
1) Perché ha corso questo rischio?
2) Perché era diventato imbarazzante per gli algerini i quali non potevano non sapere del suo “spostamento”?

1) Per diverse settimane, i gruppi jihadisti dalle obbedienze diverse e dalle motivazioni disparate si sono combattuti nella BSS (Fascia Sahelo-Sahariana). Un conflitto aperta e scoppiato contemporaneamente tra l’EIGS (Stato islamico nel Grand Sahara), legato a Daesh e i gruppi che si richiamano al movimento di Al Qaeda, gli EIGS accusati dai primi di tradimento. Di fatto, i due principali leader etno-regionali della nebulosa di Al Qaeda, vale a dire il Touareg ifora Iyad Ag Ghali e il Peul Ahmadou Koufa, capo della Katiba Macina, stanno attualmente negoziando con Bamako.

2) L’Algeria è inquieta nel vedere Daesh avvicinarsi  alle sue frontiere. Or dunque, poiché considera il BSS come propria retrovia, l’Algeria ha sempre “patrocinato” un accordo di pace. Il suo uomo sul posto è Iyad ag Ghali la cui famiglia vive in Algérie dove possiede una casa. Politicamente egli dispone di quattro referenze:
– Egli è touareg ifora;
– è musulmano «fondamentalista».
– Oltre al sostegno dei touareg, dispone di una base popolare a Bamako grazie alla fedeltà dell’imam Mahmoud Dicko.
– Soprattutto, è contrario alla dissoluzione del Mali, una assoluta priorità per l’Algeria, che non vuole un Azawad indipendente; rappresenterebbe un faro per i propri Touareg.
La negoziazione che procede al momento «discretamente» ha per scopo la regolazione di due conflitti differenti i quali, non ostante le apparenze e la versione popolare, non hanno una matrice islamica. Si tratta in effetti di conflitti iscritti nella notte dei tempi, come descritti da me nel libro Les Guerres du Sahel delle origini in nessun viaggio,  di risorgenze etno-storico-politiche-oggi mimetizzate dietro il paravento islamico.
Questi due conflitti, ciascuno dalla propria dinamica sono:
– Quello del Soum-Macina-Liptako, condotto dai Peul; da qui l’importanza di Ahmadou Koufa.
– Quello del nord Mali, l’attualizzazione della tradizionale contestazione dei touareg; da qui l’importanza dell’Iad di Agha.
Or dunque, Abdelmalek Droukdal era contrario a questi accordi, e aveva deciso o ancora era stato persuaso a recarsi nella zona, forse per ristabilire un modus vivendi con Daech. Mais, surtout, per riprendere in mano e imporre la propria autorità a sua volta a Ahmadou Koufa e a Iyad ag Ghali.
Rappresentava dunque l’ostacolo al piano di pace regionale tendente a isolare i gruppi di Daech, in modo da regolare  rispettivamente il problema touareg in Mali e il problema peul nel sud del Mali e nel nord del Burkina Faso. Ecco il perché della sua morte.

Lo stratagemma della “salsiccia” dei gruppi terroristi è perfettamente riuscito. Prova due cose:

1) L’Algeria è tornata nel conflitto.

2) I militari francesi che hanno condotto l’operazione si sono ispirati alla massima di Kipling secondo il quale “il lupo afghano è inseguito in Afghanistan dal levriero afghano”.

In altre parole, non cesso di dirlo dall’inizio del conflitto, una raffinata conoscenza delle popolazioni che è indispensabile

Se la strategia dovesse essere coronata da successo, con il ritorno al gioco politico dei Touareg uniti dalla guida di Iyad ag Ghali e  dei Peul, al seguito di Ahmadou Koufa,

si potranno concentrare tutti i mezzi  sull’EIGS, con uno scivolamento delle operazioni verso l’est del Niger e della BSS.

Il problema è ormai è di sapere se il Fezzan Libico sta sfuggendo al generale Haftar (voce del comunicato del 28 maggio 2020 ). Nel caso la Turquie, nostro «buono» e «leale» alleato in seno alla NATO, avrebbe dunque un corridoio che consentirebbe ai propri servizi una linea diretta per sostenere i combattenti dell’EIGS. L’imperativo sarà quindi di riprendere il controllo fisico della regione di Madama, in modo da impedire la rianimazione del terrorismo attraverso la Libia.

Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan

Libia: fine del gioco per il maresciallo Haftar?, di Bernard Lugan

Il maresciallo Haftar non è riuscito a prendere Tripoli, nonostante i suoi annunci di vittoria e il massiccio aiuto ricevuto dall’Egitto e dagli Emirati Arabi Uniti. Nelle ultime settimane ha anche subito gravi battute d’arresto militari, perdendo la posizione strategica di Gharyan e la base aerea di Watiya in Tripolitania.

Ecco i quattro motivi di questo scacco:

1) Il maresciallo Haftar non ha fanteria, i suoi unici veri combattenti sul campo sono mercenari, principalmente sudanesi, supportati da contractors russi di basso valore militare. Questi ultimi si sono appena ritirati dal fronte di Tripoli dopo aver subito gravi perdite al cospetto delle forze speciali turche.

2) Le milizie di Zintan di cui sperava il supporto si sono schierati alla fine con i turchi-tripolitani.

3) L’intervento militare della Turchia ha rovesciato l’equilibrio di potere a favore del GNA (Governo dell’Unione Nazionale) di Tripoli.

4) La Russia, che non ha mai ingaggiato il suo esercito, ritiene che Haftar non sia più l’uomo giusto alla attuale situazione.

 

Pertanto sorgono quattro domande:

–  Qual è la linea rossa tracciata dalla Russia alla Turchia?

– Chi succederà al maresciallo Haftar a Bengasi?

– Quale soluzione politica è possibile?

– Quali conseguenze per il presidente Déby i cui oppositori sono installati a Fezzan?

 

1) Dov’è tracciata la linea rossa dalla Russia?

Dopo aver sostenuto il maresciallo Haftar, Mosca si è resa conto che costui non era in grado di prendere il potere a Tripoli. I russi sanno anche che il maresciallo è odiato in Tripolitania, dove coloro che hanno rovesciato il regime del colonnello Gheddafi lo considerano, giustamente o erroneamente, come suo successore. Questo è il motivo per cui sembrano averlo abbandonato, ma fissando una linea rossa alla Turchia. Dove è tracciata? Ecco tutta la questione

Per Mosca, la priorità è congelare la situazione sul terreno, in attesa di trovare un successore del maresciallo Haftar, che implica un’evoluzione nelle posizioni dell’Egitto e in particolare degli Emirati Arabi Uniti i quali sostengono ancora quest’ultimo. Militarmente, e da quello che è possibile sapere, Mosca avrebbe deciso di santuarizzare il fronte a ovest di Sirte.

In questo contesto, l’annuncio americano dell’invio di aerei russi ultra moderni al generale Haftar è una disinformazione perché, per quanto ne sappiamo, questi aerei “moderni” sono in realtà quattro dispositivi di seconda mano che, in ogni caso, non modificheranno l’equilibrio delle forze sul terreno.

2) Chi succede al maresciallo Haftar?

Diversi nomi sono in predicato. Tra questi, i “candidati” più autorevoli sembrano essere:

– Il generale Abderrazak Nadhouri, l’attuale capo dello staff, la cui stella è però offuscata dalle sconfitte subite in Tripolitania contro le forze turco-misuratine.

– Il Generale Ahmed Aoun, della tribù Ferjan nella regione di Sirte. Se questo ex generale di Muammar Gheddafi, popolare nell’esercito del maresciallo Haftar, fosse naturalmente in grado di radunare i kadhafisti della Tripolitania, quale sarebbe la reazione di coloro che rovesciarono il vecchio regime, in particolare il potente Zintani ?

– Si dice che Aguila Salah, il presidente della Camera dei rappresentanti che siede a Tobrouk sia il puledro dell’Egitto. L’uomo si è opposto al maresciallo Haftar da quando, consapevole del punto morto militare in cui si era cacciato, aveva proposto un piano per porre fine alla crisi attorno alla riforma di un consiglio presidenziale tripartito su base regionale ( Tripolitania, Cirenaica e Fezzan).

3) Soluzioni politiche

La domanda è semplicemente affermata:

– Con la Turchia impegnata militarmente a fianco del GNA, il generale Haftar non prenderà Tripoli.

– Con la Russia che santifica la Cirenaica, il GNA non prevarrà a Bengasi.

Conclusione: la negoziazione può quindi riprendere. Ma su basi diverse da quelle irrealistiche, perché solo elettorali, poste dalla “comunità internazionale”.

In tal modo :

1) Alla conferenza di Berlino dello scorso gennaio, la divisione del potere era stata quasi stabilita, il comando dell’esercito tornato in Cirenaica e la presidenza in Tripolitania. Tuttavia, i negoziati si erano fermati sul posto da assegnare al generale Haftar che, spinto dagli Emirati, aveva adottato una posizione massimalista che aveva interdetto la Russia.

2) Fayez el Sarraj, il capo del GNA (governo dell’Unione nazionale) con sede a Tripoli potrebbe dimettersi. Chi lo potrebbe sostituire allora? Misrati Fahti Bachaga essendo unanime con tutti coloro che temono il dominio della città-stato di Misrata sulla Tripolitania, un’opzione più consensuale sarebbe quella di Zentani Oussama Jouli. Soprattutto dal momento che quest’ultimo ha radunato nella sua persona la frazione di Zintani fino ad allora alleata con il generale Haftar, ma che ha permesso alle forze turche-GNA di riprendere la base aerea di Watiya il 12 maggio. È importante notare che, durante la guerra contro il colonnello Gheddafi, le forze speciali francesi avevano appoggiato le truppe di Osama Jouli.

Ci saremmo così spostati, in un certo senso, verso un ampio federalismo. Resta da risolvere la questione della condivisione del petrolio che, tenendo conto delle posizioni geografiche dei depositi, faciliterebbe la ricerca di un equilibrio territoriale.

4) Conseguenze per il Ciad

Con le forze di Misrata-GNA-Turchia che attualmente hanno acquisito un vantaggio, probabilmente le tribù fezzane si uniranno a loro. Se così fosse, le conseguenze regionali sarebbero quindi significative perché la Turchia, che già sostiene i gruppi terroristici armati nel BSS, sarebbe quindi direttamente in contatto con l’area, costringendo così Barkane a riposizionarsi a Madama.

In realtà, il generale Haftar non ha mai veramente controllato il Fezzan, il suo unico supporto quasi affidabile è che ci sono alcune tribù arabe i cui capi vengono comprati. Per il resto, i Toubou che odiano gli arabi vendono al miglior offerente e, come per i tuareg, si sporgono verso Tripoli.

Tuttavia, questo Fezzan in cui le tribù definiscono le loro alleanze in base all’equilibrio di potere a Tripoli e Bengasi, è la retrovia degli avversari del presidente Déby. Per la cronaca, nel 2019, la loro ultima offensiva, che stava per raggiungere N’Djamena, è stata bloccata solo dall’intervento dell’aviazione francese.

Tra questi oppositori, quello che sembra essere attualmente il più militarmente pericoloso per il presidente Déby è il Toubou-Gorane Mahamat Mahdi Ali che è a capo del FACT (Fronte per l’alternanza e la concordia in Ciad). Quest’ultimo che afferma di avere 4000 combattenti, sa di poter contare sul bacino etnico che si estende sulle regioni di Borkou, Ennedi e Kanem. Per il momento, le sue forze sono di stanza nella Libia centrale, a circa sessanta chilometri da Jufra, nella regione di Jebel Sawad (Fonte: Fezzan Consultation ). Il crollo del generale Haftar avrebbe quindi aperto Mahamat Mahdi Ali, una “finestra di fuoco” che non avrebbe mancato di sfruttare.

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Libano e Vicino Oriente, con Antonio de Martini

Torniamo ancora una volta a discutere di Vicino e Medio Oriente con Antonio de Martini. L’attenzione questa volta è centrata integralmente sul Libano. Un paese dove sono presenti tre comunità religiose principali che riuniscono la maggior parte dei clan in cui è suddiviso. Dopo l’Iraq e la Siria l’attenzione e le mire dei paesi di quella zona e dei loro tutori si stanno concentrando sul paese dei cedri. Il rischio che il Libano possa ricadere nella guerra civile che lo ha sconvolto trenta anni fa è concreto, visto che le rivalità interne spingono le varie fazioni a rafforzare i legami con i propri referenti esterni. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

ATTACCO AL LIBANO. POI A CHI ?, di Antonio de Martini

ATTACCO AL LIBANO. POI A CHI ?

Mi pare che la gente non accetti di rendersi conto che esistono verità che non siamo in grado di conoscere e che la scienza ha limiti di ignoranza e presunzione non ancora raggiunti, ma già ragguardevoli.
Particolarmente isterichiti da questa prospettiva, gli “intellettuali”, ( def. persone che hanno ricevuto una educazione superiore alla loro intelligenza) da sempre affannati a chiedersi il significato della vita e adesso a cercare di trovare un significato all’epidemia.

C’é chi la vede come una cospirazione della élite mondiale, chi come un esperimento globale e inumano, chi come una opportunità di apportare una serie di cambiamenti epocali impossibili in presenza di società non destabilizzate.
Qualcuno ci proverà ad accentuare la destabilizzazione in atto, altri a suggerirla, altri ancora a pensare di approfittarsene per restaurare l’antico ordine.

L’unico che mi sembra abbia mantenuto un passabile controllo dei nervi e della mente è Emanuele Macaluso che in una intervista ha detto di non scorgere. un orientamento al cambiamento – che non vede- in nessuna forza politica.
Aggiungerei nazionale.

Sul piano internazionale, le cose stanno diversamente.
Il duo Stati Uniti-Israele stanno mettendo in atto una serie di azioni di disinformazioni massicce in funzione anti cinese gli uni e pro domo sua gli altri. Gli esempi dell’ultima settimana basterebbero a riempire un hard disk.

L’unica strada in comune è la strategia di disinformazione che però biforca: Gli USA con la loro caratteristica filosofia pragmatista vogliono ridimensionare la Cina togliendole mercati e investimenti da riportare a casa, finire di distruggere quel che resta della influenza iraniana nel Vicino Oriente e assistere con finto disinteresse allo sfascio della Unione Europea.

Israele mira ad assumere il ruolo di subappaltatore degli USA nell’area MEME ( neologismo creato da me: Mediterraneo e Medio Oriente).
Per fare questo ha mosso parecchie pedine, ma incontrato ostacoli imprevisti come, ad esempio, Erdogan che sta riavvicinandosi agli Stati Uniti e la Merkel che ha deciso di impuntarsi definendo al Bundestag l’Unione Europea “ una ragion di Stato per la Germania”. Si è inoltre appoggiata alla traballante dinastia saudita con la quale contava istaurare una collaborazione di antichissima memoria ( trascurando però il fatto che i sauditi non discendono da Maometto e loro non sono i Khaibari).

Dopo la Libia, lo Yemen, L’Irak, la Siria, l’Afganistan e la Somalia, questa pericolosa coppia, sta preparando l’assalto al bastione di Hezbollah e per fare questo sta premendo brutalmente sul Libano.
Secondo questo piano, il governo dovrebbe estromettere Hezbollah (50% alle ultime elezioni)dalla governance ( già fatto in parte ma con un governo tecnico) poi disarmare la milizia sciita ( che è più grande e meglio armata dell’esercito libanese ed ha esperienza di guerra vittoriosa in Siria).

Al momento hanno attaccato la lira libanese come fecero tre anni fa col rublo (- 50%)e con la lira turca (-50%) – cosa di cui Trump si è vantato nella lettera a Erdogan resa pubblica) , provocando una crisi senza precedenti nel piccolo paese già oberato da una presenza di profughi pari alla popolazione e dando la colpa all’Hezbollah che, secondo la propaganda locale, avrebbe rastrellato i dollari per distruggere il paese in cui vive rafforzando il dollaro…..

Altro argomento chiave è la solita “lotta alla corruzione” che detta nel paese dei fenici – corrotto, come l’Italia da almeno duemila anni – farebbe sorridere se non fosse per la martellante capillarissima propaganda che ne ha fatto un articolo di fede.

Si tratta, mutatis mutandis, di una replica – con mezzi non ancora militari- della operazione “Pace in Galilea” fallita nel 1982 e che diede vita alla militarizzazione di Hezbollah nella zona occupata da Israele, che prima di quella guerra era una organizzazione di soccorso caritativo creata da Moussa Sader e dal Vescovo Gregoire a sostegno della fascia sciita che era la più povera del paese.

Questo obbiettivo prevede un progressivo indebolimento di Hezbollah, se possibile uno scontro tra Esercito LIbanese e la milizia sciita e poi l’attacco finale israeliano. Tanta cautela si è resa necessaria perché temono uno scontro diretto da cui già una volta sono usciti malconci.

Nella campagna per la ghettizzazione dell’hezbollah, stanno ricopiando , passo per passo, la tecnica nazista di dare la colpa di ogni male a una minoranza religiosa come accade in Germania negli anni trenta.
Hanno imparato la lezione a memoria, solo che – a parte il grottesco di accusare l parte più misera della popolazione di speculazioni finanziarie internazionali- non si tratta di una minoranza e sono armati fino i denti e pare siano in grado di bombardare intensamente Tel Aviv penetrando il sistema di difesa antiaerea israeliano.
Di qui l’imperativo di un attacco dell’esercito libanese che contrasti una reazione missilistica.
Come pensare di arricchire puntando ai cavalli.

Commentario all’intervista ad Antonio de Martini. Contro la superstizione.., di Massimo Morigi

Commentario all’intervista ad Antonio de Martini di Giuseppe Germinario. Contro la superstizione ed oltre il coronavirus per un nuovo posizionamento internazionale dell’Italia

 

Di Massimo Morigi

 

In data 17 aprile 2020 il blog di geopolitica “L’Italia e il Mondo” ha pubblicato la videointervista Conversazione fra Giuseppe Germinario e Antonio de Martini. Crisi epidemica, implicazioni, conseguenze, opzioni politiche. L’URL dell’ “Italia e il Mondo” presso il quale si può prendere visione dell’intervista è http://italiaeilmondo.com/2020/04/17/le-nuove-strade-aperte-dal-coronavirus-con-antonio-de-martini/#disqus_thread come è pure possibile visionare il documento presso YouTube all’URL https://www.youtube.com/watch?time_continue=5937&v=lEMtpmevFJU&feature=emb_logo.  Nell’augurio che l’ “Italia e il Mondo” protragga in saecula saeculorum la sua opera di risveglio del pensiero geopolitico e che la prima piattaforma commerciale di condivisione di documenti audiovisivi tenga a bada la sua natura commerciale, cioè non decida di punto in bianco di eliminare quei documenti che possono vantare meno contatti e quindi di scarsa potenzialità pubblicitaria, ma anche alla luce di un elementare principio di cautela, vista la fondamentale importanza dell’intervista per lo sviluppo del dibattito e (si spera) dell’azione per raddrizzare la schiena del nostro paese, piegata per ultimo dal coronavirus ma della cui tragica condizione  questo agente patogeno è solo la classica goccia che fa traboccare il vaso, dopo  scaricamento dell’intervista si è provveduto al suo ricaricamento presso il maggiore e più prestigioso archivio senza scopo di lucro di raccolta di documentazione digitale, generando così gli URL di Internet Archive  https://archive.org/details/y-2mate.com-le-nuove-strade-aperte-dal-coronavirus-con-antonio-de-martini-l-emtpmev-fju-360p-1  e https://ia801401.us.archive.org/5/items/y-2mate.com-le-nuove-strade-aperte-dal-coronavirus-con-antonio-de-martini-l-emtpmev-fju-360p-1/y2mate.com%20-%20Le%20nuove%20strade%20aperte%20dal%20coronavirus%2C%20con%20Antonio%20de%20Martini_lEMtpmevFJU_360p%20%281%29.mp4, presso i quali non solo l’intervista può essere ugualmente apprezzata ma soprattutto, si spera, il fondamentale documento possa superare quella marxiana “critica rodente dei topi”, nel presente caso non più i piccoli roditori che metaforicamente assalirono l’ Ideologia tedesca ma i ben più temibili e reali roditori dell’universo internettiano che fanno sì che, o per ragioni di sfinimento personale di chi mantiene ed organizza pur fondamentali siti in Rete (e lo ripetiamo per l’ennesima volta, cento di questi giorni all’ “Italia e il Mondo” uno dei pochissimi siti che nel panorama Italiano ed internazionale sappia senza estremismi ma anche senza timidezze dare diffusione ad una concreta cultura politica realista) o per ragioni di bieco tornaconto commerciale (i. e. YouTube e fratellini imitatori) questi documenti, non importa il loro valore, in media abbiano una aspettativa di vita di non più di cinque anni. Tuttavia, siccome dello spirito della Conversazione fra Giuseppe Germinario e Antonio de Martini tutto si può dire (e dal nostro punto di vista non se ne può dire che bene) tranne che sia animata da un malintesa ambizione di passare ai posteri ma è, invece, tutta protesa a fornire concrete indicazioni per il presente, noi che invece ben volentieri gli accordiamo la qualità definita dall’oraziano Exegi monvmentvm aere perennivs, veniamo ora ad enuclearne i  passaggi principali. Se si volesse dare una definizione filosofico-politica della conversazione, definizione che con questo attributo iniziale immaginiamo desti già un moto di ripulsa allo spirito concretissimo (ed acutissimo) di de Martini, si potrebbe dire che essa, al di là della contingenza del coronavirus, non è altro che un dialogo contro la superstizione. Giustificheremo fra poco questa affermazione, apparentemente sorprendente visto che la parola ‘superstizione’ non viene pronunciata una sola volta nel corso del lungo scambio di battute, più di un’ora e tre quarti, fra Antonio de Martini e Giuseppe Germinario. L’intervista inizia con un excursus storico di de Martini sulle epidemie medievali del Vecchio continente, resoconto di de Martini del quale non facciamo il sunto completo perché non si vuole togliere il piacere a chi lo voglia conoscere di apprenderlo dalle vive (ed espressivamente vivaci, il che non guasta) parole dell’intervistato ma dalle quali si nota già dal breve accenno che segue  l’abissale scarto rispetto alle attuali narrazioni sul coronavirus che ad ogni piè sospinto ci vengono giornalmente propinate dall’attuale tristo sistema di informazione di massa. Ma come, al posto del parere dell’immancabile versipelle virologo e/o epidemiologo di turno, de Martini ci riferisce di un Visir di Granada  che nel XIV secolo aveva riconosciuto la natura contagiosa della peste e che alla luce di questa consapevolezza aveva preso opportune ed efficaci misura di quarantena. Ma come, al posto delle supercazzole e delle c…te sesquipedali sui cambiamenti climatici  che avrebbero favorito la diffusione e persino la nascita dell’attuale morbo (sempre a cura dei soliti superesperti virologi e/o epidemiologi da pronto intervento di rimbambimento delle masse, corpi  d’ élite e d’assalto del thumberghismo di massa) sempre de martini ci riferisce che un tal’altro Visir coevo al primo pensava invece alla peste come una sorta di punizione divina e si rifiutava di prendere provvedimenti efficaci (oggi,  ci permettiamo noi di integrare il ragionamento di de Martini ma senza tema di stravolgerlo nella sua saggezza storicistica,  siccome siamo definitivamente secolarizzati, caduta la punizione divina, c’è invece la punizione di Gea, il pianeta vivente, una bella mossa à la Thumberg per installare fra le masse un senso di colpa in versione anticonsumista e oscurare la realtà di una peste sorta per una globalizzazione senza regole e favorita dal sempre più marcato infiacchimento dello Stato nella sua capacità di controllo del territorio e della salute pubblica, una senso di colpa anticonsumistico  le cui irrazionali involuzioni psicologiche   non sono più le classiche espiazioni corporali medievali o l’inettitudine  del secondo Visir  ma la sotterraneamente esaltata dai mass media come momento catartico tragica compressione dei consumi tramite le odierne apparentemente scientifiche italiche quarantene generalizzate – in realtà,  e per fortuna, solo una tragica parodia di quelle ben più serie e totalitarie made in China –  che assieme al morbo rischiano anche di fare scomparire il paziente, ma tant’è).  Ma, il gustosissimo excursus storico di de Martini che, proprio per la sua mentalità storico-storicista, fa intrinsecamente piazza pulita di un approccio alla situazione espertocentrica, non è altro che la premessa al nucleo duro dell’intervista, che non ruota attorno a considerazioni epidemiologiche, virali (o presunte tali) ma vuole svolgere una radicale riflessione in merito all’attuale collocamento internazionale dell’Italia, argomento, in ultima analisi, assai più importante dell’attuale crisi sanitaria e dall’impostazione del quale dipendono – questo il parere di de Martini e, modestamente anche il nostro – anche gli esiti della fuoruscita più o meno positiva dell’Italia dall’attuale crisi sanitaria. Detto in estrema sintesi. De Martini ritiene che sia giunta l’ora di prendere il toro per le corna ed approfittare dell’attuale crisi dell’Unione europea, evidenziata come non mai dalla crisi del coronavirus, per cercare di stringere un’alleanza sempre più stretta, economica, monetaria, politica e militare, con coloro che hanno girato le spalle alla UE, cioè con il Regno Unito (in questa nuova alleanza foriera di uno spacchettamento in direzione atlantica di parte del Vecchio continente – ma, grande novità rispetto all’egemonismo monocratico statunitense nato nel secondo dopoguerra, via quella che de Martini continua icasticamente, e con grande realismo politico,  a chiamare la “perfida Albione” – delle nazioni meridionali del Vecchio continente, l’Italia, sempre sue icastiche e colorite parole, «deve mettere la trippa e l’Inghilterra le ossa» e dove la trippa dovrebbe essere e la posizione strategica dell’Italia nel Mediterraneo e, soprattutto, la sua capacità –  per la verità allo stato solo potenziale e derivante dalla sua  grande tradizione di realismo politico unita ad una fine ed unica mentalità dialettico-universalistica di marca cattolica e dalle sue realizzazioni risorgimentali ma non altrettanto, purtroppo, dagli ultimi settant’anni di vita repubblicana andanti in senso diametralmente opposto a questi grandi lasciti – di recitare, anche se di concerto con gli altri paesi del sud Europa, un ruolo egemonico e di traino in questo riorientamento strategico; mentre le ossa britanniche sarebbero  le sue capacità e pulsioni imperialistiche mai sopite, “perfida Albione”, appunto: non si potrebbe immaginare linguaggio ed approccio mentale più lontani dall’odierna “pappa del cuore” che impera nell’attuale pensiero politico, diffuso poi a rincoglionimento delle masse dai grandi mezzi di informazione). Si può essere più o meno d’accordo con questa radicalità di pensiero, ma quello che qui conta è che, contrariamente alla informazione massificata, questa intervista si presenta come una delle rarissime occasioni non sprecate di cui sono a conoscenza per riflessioni politiche e strategiche  sul coronavirus  che non facciano perno sui soliti esperti d’avanspettacolo, che poi, come si è visto, esperti non lo sono per niente (in primis, ovviamente, i soliti virologi, ma last but not the least, anzi, i soliti pensatori mainstream di destra o sinistra non importa che ora non sanno far altro che  tacere o dare a ragione a questo o a quel virologo a seconda che questi sia più o meno favorevole ad un più o meno radicale blocco delle attività produttive, blocco plaudito dal pensatore di sinistra, avversato da quello più a destra: ma come si diceva una volta, il problema è politico e non certo tecnico-sanitario, e ora  come non mai l’attuale occupazione della  carica di Presidente del Consiglio da parte di un  personaggio che esprime lo zero assoluto del ‘politico” e la perfetta incarnazione, attraverso i suoi Dpcm sanitari, dello schmittiano “legislatore motorizzato” dimostra la verità di questo assunto). Ed affermando che, a scanso di equivoci, io sono personalmente totalmente d’accordo anche con questa parte più direttamente politica dell’intervista a de Martini, vengo per ultimo a giustificare l’affermazione  iniziale che l’intervista è un dialogo adversus suspertitionem. Lasciando ai lettori il piacere di completare tutti i passaggi del ragionamento, limitiamoci qui ad affermare che il significato etimologico di ‘superstizione’ ci indica la credenza che vi siano momenti e/o istanze superiori –  o, meglio, presunte tali –  di fronte al quale l’uomo, soprattutto quello comune e non vicino ai misteri, sacri o profani che siano, deve chinare la testa. L’intervista a de Martini è un potentissimo farmaco contro la moderna superstizione scientifica essendo formata ed informata al superiore pensiero storico-strategico, l’unica forma mentis ed agendi che diede inizio all’ evoluzione da ominide a homo sapiens e, nello specifico, l’unica Weltanschauung-filosofia della prassi che non solo  può permettere al nostro paese di non uscire completamente distrutto dall’attuale morbo ma anche di liberarsi dai morbi ideologici democraticistici  degli ultimi settant’anni (verso i quali, vedi sempre l’intervista,  de Martini nutre, e a ragione, una profondissima avversione). Sulle forme politiche ed organizzative di come questo pensiero storico-strategico certamente all’altezza di un mondo sempre più violentemente policentrico e dinamico possa concretamente prendere la direzione indicata da Antonio de Martini, come da consolidata esortazione di prammatica, si dichiara aperto il dibattito (e  ancora più auspicabilmente l’azione)  e, per ora, proprio per questo de hoc satis

 

Massimo Morigi – 26 aprile 2020

 

 

 

 

 

 

 

GIOCHI DI GUERRA IN UNA LIBIA CAOTICA: PROSPETTIVA GEOPOLITICA, di Mehdi TAJE

GIOCHI DI GUERRA IN UNA CAOTICA LIBIA: PROSPETTIVA GEOPOLITICA


Nonostante gli impegni assunti alla conferenza di Berlino del 19 gennaio 2020, vale a dire l’istituzione di un cessate il fuoco duraturo, il rispetto dell’embargo sulle armi e la cessazione di tutte le consegne a Armamenti ai belligeranti, non interferenze, ecc., La situazione in Libia sembra peggiorare con il rischio di sfuggire a qualsiasi controllo e destabilizzare lo spazio Maghreb-Sahelian.

Al contrario, stiamo assistendo a un’accelerazione delle interferenze e alla fornitura di armamenti in violazione degli impegni assunti alla conferenza di Berlino. La guerra in Libia, per il momento di bassa intensità, rischia di ribaltarsi in un conflitto generalizzato di alta intensità che mette a repentaglio l’esistenza stessa dello stato libico. In effetti, il conflitto si è internazionalizzato, sfuggendo ai belligeranti limitati al ruolo di “delegati” di attori regionali e internazionali che lottano per specifici obiettivi strategici ed economici, per il controllo e la condivisione della ricchezza di petrolio e gas del Paese valutata a 48 miliardi di barili (1a riserva in Africa, nona al mondo) e per garantire una quota mercato per la futura ricostruzione del Paese stimata in oltre 270 miliardi di dollari dalla Banca mondiale.

LIBIA, LA NUOVA SIRIA DEL MAGHREB?

Dal 19 gennaio 2020, i due belligeranti, ovvero il campo di Sarraj rappresentato dalla GUN [1]sostenuto principalmente da Turchia, Qatar e, in misura minore, Italia, Gran Bretagna e Maresciallo Haftar con i suoi principali sostenitori, Egitto, Emirati Arabi Uniti (Emirati Arabi Uniti), Arabia Saudita, Francia, La Russia e, in misura minore, con una strategia opaca, gli Stati Uniti, hanno beneficiato di un massiccio afflusso di armamenti sofisticati, mercenari e truppe che nutrono il rischio di escalation del conflitto. Infatti, secondo un rapporto delle Nazioni Unite risalente alla fine di gennaio 2020, gli Emirati Arabi Uniti hanno consegnato al maresciallo Haftar, tramite quasi 40 aerei cargo, oltre 3.000 tonnellate di armi, inclusi veicoli blindati, sistemi di difesa antiaerea, droni, ecc. Si dice che i mercenari sudanesi abbiano rafforzato i ranghi di quelli già presenti nell’ANL [2]. Allo stesso tempo, il sostegno turco al governo di Sarraj si intensificò: il 29 gennaio 2020, tre navi turche scortate da una fregata furono osservate in mare aperto e nel porto di Tripoli da aerei francesi Rafale decollati dalla portaerei Charles- de Gaulle. Una nave sbarcò con pesanti veicoli corazzati e altre due furono sbarcate da soldati dell’esercito turco. Il 27 gennaio 2020, circa 40 soldati turchi arrivarono a Misurata per via aerea. Probabilmente, nel supporto tecnico e per consentire l’uso di armi sofisticate. Infatti, il 28 gennaio 2020, un drone degli Emirati di fabbricazione cinese che lavorava per il maresciallo Haftar fu abbattuto a Misrata. Il 29 gennaio 2020, il presidente francese Macron, durante un’intervista con il primo ministro greco, denuncia il mancato rispetto della parola data dal presidente turco Erdogan, sottolineando al contempo la continuazione da parte della Turchia del trasferimento di mercenari siriani nel campo di Tripoli il cui numero è stimato intorno ai 2500 con un obiettivo finale di 6000 combattenti. Il portavoce dell’ANL, Ahmed Mesmari, ha valutato il loro numero il 3000 il 30 gennaio 2020. Oltre al proprio sostegno, la Francia si astiene dal denunciare la massiccia fornitura di armamenti al maresciallo Haftar in violazione di impegni presi a Berlino. Infine, il 30 gennaio 2020, l’inviato dell’ONU per la Libia, Ghassan Salamé, parlando prima che il Consiglio di sicurezza dell’ONU sottolinei:ci sono attori senza scrupoli, dentro e fuori la Libia, che scuotono la testa con un cinico occhiolino agli sforzi di pace e dichiarano piamente il loro sostegno alle Nazioni Unite. Allo stesso tempo, continuano, dietro di esso, a alimentare una soluzione militare accentuando lo spaventoso spettro di un conflitto su vasta scala e una nuova miseria per il popolo libico  ”.

In questo contesto, il caos libico, un vero buco nero sul confine orientale della Tunisia, è amplificato da molteplici interferenze e dal gioco complesso e opaco delle potenze regionali e internazionali. Oggi, come un mix tra Siria e Iraq, la Libia, divisa in tre entità che sono esse stesse fratturate e divise, sta conducendo un’aspra lotta per mantenere la sua unità. Il paese, fratturato in nuovi territori feudali, sta attraversando una situazione di guerra regionale e internazionale per procura, una guerra tribale, clan, religiosa e mafiosa che alimenta l’instabilità regionale e lo espone al rischio di somalizzazione.

In effetti, a causa di interferenze straniere, la Libia è proiettata al centro di un grande gioco su scala regionale e globale che va oltre le considerazioni interne e limita lo spazio di manovra dei belligeranti libici:

  • Affollamento di poteri rivali;
  • Lotta per l’influenza tra sostenitori e oppositori delle “rivoluzioni arabe”  ;
  • Scontri tra milizie interposte tra le monarchie del Golfo che segnano l’intrusione del Mashreq nel Maghreb;
  • Controllo della ricchezza libica, maghrebina e saheliana, riconfigurazione delle relazioni di potere su scala maghrebina, avidità di risorse di gas e petrolio nel Mediterraneo orientale, ecc.
Maresciallo HAFTAR

SITUAZIONE SUL TERRENO

Sul terreno, la fragile tregua non poteva reggere. Oltre alle incursioni aeree e al lancio di razzi, i combattimenti ripresero rapidamente nel sud della città di Tripoli. Parallelamente, dalla città di Sirte rilevata dal maresciallo Haftar il 6 gennaio 2020, l’ANL ha lanciato, il 26 gennaio 2020, un’offensiva sulla strada che porta a Misrata. L’obiettivo della manovra è prendere la città di Misrata, che si trova esposta sul suo fianco orientale, per innescare il ritorno dei misrati che difendono Tripoli, indebolendo così quest’ultimo. Allo stesso tempo, se Tripoli cade, Misrata sarebbe circondata. Al contrario, se il maresciallo Haftar viene espulso dalla Tripolitania, Tripoli cadrà sotto l’influenza della città di Misrata e delle sue potenti milizie che segnano il ritorno alla situazione che caratterizza l’anno 2014.“La costa urbanizzata di Tripoli è un caso speciale. Qui, il potere appartiene alle milizie (…) che siamo nel mondo della tratta che consente ai miliziani di sostenere le loro famiglie. Tuttavia, avrebbero tutto da perdere a causa della vittoria del generale Haftar poiché quest’ultimo aveva promesso di metterli al passo. Questo è il motivo per cui sostengono lo pseudo-governo di Sarraj, anch’esso sostenuto dalla Turchia (…) La situazione in Tripolitania è quindi molto chiara: se il generale Haftar non riuscirà a imporsi militarmente, Tripoli e le città costiere rimarranno al potere delle milizie ” [3]. Il realismo impone a Haftar di rifiutare qualsiasi cessate il fuoco che possa solo ferirlo. In effetti, controllando circa l’80-90% del territorio libico, il maresciallo Haftar è consapevole che il tempo sta giocando contro di lui, le alleanze sono instabili e la Turchia rafforza significativamente il suo sostegno militare a Camp Sarraj. Inoltre, l’offensiva lanciata il 4 aprile 2019 è impantanata nonostante gli ultimi progressi e rischia di ipotecare il supporto esterno e interno all’ANL. [4]

I CONTORNI DEL PROBLEMA LIBICO

A questo punto, tutte le conferenze internazionali sulla Libia si sono confrontate con la complessità del teatro. Poveri diagnosticano la noncuranza della realtà e della sociologia tribale libica, le strategie rivali delle potenze regionali e internazionali, l’intrusione del Mashreq o la “guerra inter sunnita”nel Maghreb, l’esacerbazione di rivalità e concupiscenze in termini di posizionamento all’interno del Maghreb, del Sahel africano e del Mediterraneo orientale e più in generale una nuova geopolitica globale che ridisegna le relazioni di potere costituiscono altrettanti ostacoli a qualsiasi insediamento duraturo della guerra in Libia. In effetti, oltre alle complesse realtà locali che caratterizzano la scena libica, senza un’approfondita analisi delle strategie dei poteri che interferiscono nel conflitto libico, dei loro obiettivi dichiarati e non riconosciuti, dell’impatto della riconfigurazione in corso delle relazioni di potere con su scala planetaria, non è possibile fare la diagnosi giusta e quindi elaborare una tabella di marcia realistica che porti a un insediamento duraturo della guerra libica tenendo conto della sovrapposizione tra tre piani, vale a dire il locale,

Prima di sviluppare brevemente questi punti, il problema libico potrebbe essere riassunto in questi termini:

  • Come organizzare una convivenza tra il centro e le periferie, vale a dire come articolare la distribuzione del potere politico e le entrate derivanti dalla ricchezza di petrolio e gas a livello locale mantenendo un potere centrale con un minimo di prerogative sovrano? Si tratta, per i libici, di inventare una nuova forma di governo che si attenga alle loro specificità;
  • La questione fondamentale in Libia riguarda il controllo della ricchezza di petrolio e gas e, in misura minore, la tratta di ogni tipo (criminalità organizzata transnazionale che erige i leader della milizia come veri e propri signori di nuovi territori feudali) a livello locale, regionale e internazionale. Come possiamo immaginare che questi signori della guerra accetteranno di deporre le armi quando controllano, con queste armi, i territori fonte di entrate considerevoli mentre gravano sulle decisioni politiche? Inoltre, quale sarà l’equilibrio delle forze emergenti dalla lotta tra le potenze tradizionalmente pesate sulla scena libica e le nuove potenze (Russia, Cina, India, Corea del Sud, Turchia, Paesi del Golfo, ecc.)? Questo equilibrio preserverà l’unità territoriale della Libia attraverso a“Comprensione” della condivisione di risorse di petrolio e gas o favorirà una spartizione del Paese?
  • Le potenze internazionali, il 5 febbraio 2020, hanno davvero interesse a pacificare la Libia?

LA NEGAZIONE DELLA REALTA’ LIBICA 

Questo è il primo punto che giustifica i successivi fallimenti delle molteplici conferenze internazionali che si occupano della guerra in Libia. Albert Einstein sottolinea: “non si può risolvere un problema con lo stesso modo di pensare di quello che l’ha generato”.La democrazia che segue il modello occidentale artificialmente posto sulle realtà libiche e l’organizzazione delle elezioni non porterà a un insediamento duraturo della guerra in Libia. Infatti, senza entrare nella complessità della sociologia politica della Libia, questo stato è caratterizzato da un mosaico tribale con equilibri precari, l’assenza di una base nazionale ancorata nel lungo tempo della storia e delle identità locali e forte regionale. L’appartenenza alla tribù, nella regione, ha sempre prevalso con profonda sfiducia nei confronti di qualsiasi potere centrale. Inoltre, la Libia è caratterizzata da una dualità tra le regioni costiere e le tribù nomadi dell’entroterra. Le città costiere hanno sempre temuto che le popolazioni nomadi desiderassero la loro ricchezza. Una dualità anche tra una Cirenaica sotto influenza greca e una Tripolitania sotto l’influenza di Cartagine e Roma. Senza tener conto della vera realtà libica, alcuni poteri e organizzazioni internazionali credono che ponendo artificialmente il modello democratico di “un uomo, un voto” su questa realtà libica molto particolare, la Libia troverà la strada per la pace e la stabilità.

Come l’Africa sub-sahariana in cui il voto, che è essenzialmente etnico, immerge i paesi nell’instabilità cronica a causa della “etno-matematica” che conferisce potere politico ai più numerosi gruppi etnici, il voto in Libia è locale , tribale e regionale. L ‘ “uomo unico, un voto” non farà altro che avallare ed esacerbare le linee di faglia generate dalla guerra guidata dalla NATO nel 2011 con l’obiettivo di eliminare il colonnello Gheddafi e rompere lo stato libico, in particolare la sua sovranità sulle sue risorse e la sua valuta. Di conseguenza, l’importazione del modello democratico occidentale basato su “un uomo, un voto”aggraverà solo il conflitto libico. In questo caso, questo è esattamente ciò che è accaduto dopo le elezioni del 2014 che hanno portato a una divisione di fatto della Libia tra il campo di Sarraj e le autorità orientali. A questo livello, la comunità internazionale, in particolare le Nazioni Unite, dovrebbe partire dal regno reale libico, vale a dire dalle tribù libiche, veri detentori del potere, oggi usurpati dalle milizie, e sostituirle al centro del gioco: spetta ai libici, tenendo conto delle peculiarità del loro paese, sviluppare, innovando, una forma di governance che consenta un’equa distribuzione delle entrate di petrolio e gas e una sottile articolazione tra potenti potenze locali e un potere regolatore centrale con un minimo di prerogative reali. Tunisia

Come sottolinea Bernard Lugan, “le tribù, eppure le uniche vere forze politiche nel paese, sono messe da parte mentre la soluzione è proprio attraverso la ricostituzione delle alleanze tribali forgiate dal colonnello Gheddafi (…) riconosciute dal Consiglio dal 14 settembre 2015 Il supremo delle tribù come il suo rappresentante legale, Seif Al-Islam, che rappresenta una delle soluzioni, viene sistematicamente respinto dagli europei. Tuttavia, è uno dei rarissimi leader libici in grado di far convivere centro e periferia, come aveva fatto suo padre, articolando i poteri e l’affitto degli idrocarburi sulle realtà locali con una presenza minima del potere centrale ” [5]. In questo caso, il 24 gennaio 2020, i capi delle tribù libiche arrivarono al Consiglio Superiore delle regioni petrolifere e acquatiche al fine di formulare le condizioni per il riavvio dei pozzi petroliferi bloccati dal campo di Haftar il giorno prima della conferenza di Berlino. e causando la caduta della produzione di petrolio da 1,2 milioni di barili / giorno a 284.000 barili / giorno. Queste condizioni possono essere riassunte in questi termini: dimissioni del governo Sarraj, leader della Banca centrale e della National Oil Corporation (NOC); costituzione di un governo provvisorio che garantisca un’equa distribuzione delle entrate derivanti dalla vendita di idrocarburi, dall’apertura di un conto bancario speciale, ecc.

UNA NUOVA GEOPOLITICA GLOBALE CHE CONDIZIONA IL FUTURO DELLA LIBIA

Ai margini del Maghreb e del Mashreq, porta di accesso all’Africa, ricca di risorse energetiche (petrolio e gas), la Libia occupa una posizione di crocevia strategica molto ambita tra Asia e Medio Oriente, il Europa e Africa. Essere posizionati in Libia consente di influenzare gli equilibri geopolitici di gran parte del Mediterraneo, il Maghreb e il Sahel africano, tre spazi speculari.

La Libia, la porta verso la profondità saheliana, ricca di risorse ambite, ha acquisito una dimensione strategica centrale .Pertanto, i poteri esterni, sotto la maschera della lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata, bramano risorse naturali comprovate e potenziali e mirano, in definitiva, a una militarizzazione crescente e duratura dell’area al fine di affermare il loro controllo e estromettere il potenze rivali (Cina, Russia, India, Turchia, Iran, Paesi del Golfo, ecc.). Questi poteri hanno tutto l’interesse a favorire l’emergere di un’equazione geopolitica mettendoli in una posizione di forza per la condivisione delle ricchezze del Sahel e del Maghreb. Inoltre, essere posizionato militarmente all’interno di questo corridoio strategico che collega l’Oceano Atlantico al Mar Rosso offre la doppia capacità di influenzare i bilanci geopolitici ed energetici del Maghreb e dell’Africa occidentale.

Senza una comprensione dettagliata della nuova grammatica geopolitica in atto su scala internazionale e delle rivalità di potere che ristrutturano la scena mondiale, non è possibile comprendere la complessità della guerra in corso in Libia.

In effetti, su scala internazionale, stiamo assistendo a un ritorno alla logica del potere con un’esacerbazione delle rivalità tra le potenze volte a mantenere gli Stati Uniti come motore di trasformazione del mondo nella loro immagine secondo il concetto di ” manifest destino ” e le forze emergenti che lavorano per creare un mondo multipolare (Cina, Russia, India, Iran, Turchia, Venezuela, ecc.). La futura strutturazione delle forze all’interno del triangolo strategico composto da Stati Uniti, Cina e Russia modellerà ancora il mondo di domani. In effetti, è attorno a questo triangolo strategico (Suslov) che si delinea l’equilibrio del potere e l’equilibrio del potere.

In effetti, secondo gli strateghi americani, se la Cina fosse in prima linea nelle potenze, combinando la sua crescita economica e la sua indipendenza geopolitica e militare, mantenendo il suo modello confuciano al sicuro dalle manovre sovversive occidentali, allora la supremazia degli Stati Uniti sarà decisamente indebolita. In questo contesto, la guerra commerciale maschera il vero interesse della lotta, la supremazia tecnologica, la guerra umanitaria (interferenza umanitaria quindi responsabilità di protezione), la strategia sovversiva dell’interferenza democratica che colpisce Hong Kong e, per inciso, Taiwan, le future pressioni ambientali , la guerra contro il terrorismo islamista e la guerra ciberneticacostituiscono le nuove linee di intervento utilizzate per mascherare i veri obiettivi della grande guerra eurasiatica:  “La Cina come bersaglio, la Russia come condizione per vincere la battaglia” . Seguendo la logica di un biliardo a tre strisce, la Cina come obiettivo perché da sola è in grado di superare l’America nell’ordine del potere materiale (economico e militare) nell’arco di trent’anni. La Russia come condizione a causa del suo orientamento strategico seguirà in gran parte l’organizzazione del mondo di domani: unipolare o multipolare.

Le crescenti tensioni in Europa orientale, Medio Oriente, Asia centrale, Sud-est asiatico e Africa, vale a dire lungo le linee di attrito tra le sfere di influenza di questi tre poli di potere, rivelano che la battaglia è già in corso.

Nel 1904, Sir Halford Mackinder, geopolitico britannico, giunse alla conclusione: il controllo dell’Heartland , il cuore dell’Eurasia, deve consentire di dominare l’isola eurasiatica mondiale, perno dell’egemonia mondiale. Questa tesi è ancora rilevante.

In effetti, gli Stati Uniti hanno operato una riassegnazione geopolitica dello spazio eurasiatico e si sono scontrati frontalmente con le potenze continentali russa e cinese che, da parte loro, hanno rafforzato in modo significativo gli strumenti volti a consentire in definitiva l’unione di Il continente eurasiatico, vale a dire la ricostruzione della Heartland che affolla il potere marittimo americano: l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai (SCO), l’Unione economica eurasiatica, il titanico progetto delle nuove strade della seta cinese, afferma BRI ( Belt and Road Initiative), la Asian Infrastructure Investment Bank (BAII), ecc. sono i vettori. Nonostante le dichiarazioni ufficiali, il discreto rafforzamento della presenza militare americana in Afghanistan, rompendo con una promessa elettorale del presidente degli Stati Uniti Trump e della dottrina di Obama, testimonia il desiderio di pesare sulle periferie russa e cinese guadagnando un punto d’appoggio nel cuore del paese. Eurasia. [6]

Dimostrazione di questo orientamento, il Segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha iniziato, dal 31 gennaio al 3 febbraio 2020, un vasto tour in Ucraina, Bielorussia, Kazakistan e Uzbekistan con l’obiettivo di provare a riposizionare gli Stati Uniti in Asia centrale e ostacolare la ricostruzione dell’Heartland portata avanti dal partenariato strategico tra Russia e Cina. Attraverso questa manovra, gli Stati Uniti aspirano a staccare i paesi dell’Asia centrale dall’asse Russia-Cina arruolandoli in “progetti di sicurezza, economici ed energetici sponsorizzati da Washington e soprattutto in relazione all’Afghanistan” . Rivela anche il peso di inerzia portato da Stati Uniti think tank e l’ establishment di Washingtondi fronte al presidente americano. Lo stesso vale per il riavvicinamento con la Russia inizialmente eretta come pilastro durante la sua campagna elettorale. Attingendo ai pensieri di Henry Kissinger, la sottile manovra consisteva nel ostacolare il riavvicinamento tra Pechino e Mosca orientando il pendolo russo verso l’Europa. “Russiagate” , procedura di impeachment, prospettive elettorali hanno costretto il presidente Trump a capire, a “girare gli angoli”e non entrare in una battaglia frontale contro lo stato profondo e i suoi relè neoconservatori. Quest’ultimo, consapevole dei tempi e del limitato spazio di manovra del presidente Trump, è stato avviato, grazie a contingenze locali favorevoli e seguendo un meccanismo consolidato e comprovato nell’Europa orientale (rivoluzioni cromatiche) e durante il detto “Primavera araba” , un’offensiva che prende di mira principalmente la zona MENA, le periferie russe e cinesi, il bacino dei Caraibi (colpo di stato militare in Bolivia, Venezuela, ecc.) E alcuni paesi dell’America Latina ritenuti recalcitranti. I sostenitori di questa offensiva credono che gli Stati Uniti dispongano dei mezzi militari ed economici per consentirgli di contenere sia la Russia che il potere cinese. Naturalmente, l’approccio deve essere di più“Morbido” e presentabile come la manovra usata in Ucraina segnata dall’uso dei neonazisti. L’obiettivo rimane lo stesso: seminare il caos, spezzare gli stati e destabilizzare le regioni al fine di garantire l’accesso alle risorse strategiche e estromettere le potenze rivali contenendole.

Di conseguenza, nonostante la reciproca sfiducia che si radicò nel lungo periodo della storia, l’arroganza occidentale, in particolare quella americana, fece precipitare il pendolo strategico russo verso Pechino. Appeasement alle frontiere, moltiplicazione delle visite ufficiali, partenariato strategico tra Russia e Cina, manovre militari congiunte su larga scala, anche nel Mediterraneo e nel Mar Baltico, firma di accordi economici (principalmente nel settore energetico) e energetici Gasdotto “Force of Siberia”), un più chiaro intreccio dei loro progetti regionali (BRI Silk Roads, Unione economica eurasiatica, progetti di treni ad alta velocità che collegano Pechino a Mosca, ecc.) sono tutti segni del tropismo di Mosca per Pechino: l’inclinazione della Russia verso est è iniziato.

Allo stesso tempo, la manovra sindacale Heartland perseguita da Russia e Cina si estese al Medio Oriente, basandosi su uno stato fondamentale, l’Iran, storicamente il nodo centrale di tutte le rotte commerciali in Asia centrale. Brzezinski ha già sottolineato, nel 1997, nel suo lavoro “Le Grand Échiquier”, questo stato fondamentale dello stato dell’Iran. Attraverso il corridoio in costruzione, un vero ponte di terra (strada, energia, ecc.) Che collega l’Iran, l’Iraq, la Siria e il Libano, cioè l’Iran al Mediterraneo orientale e i progetti di connettività, in particolare da attraverso il progetto Chinese Silk Roads (BRI) che collega l’Iran alla Cina attraverso l’Asia centrale, sarebbe stato istituito un vasto corridoio che collegava Shanghai al Mediterraneo. Un simile progetto portato avanti da Russia, Cina e Iran rappresenta un grave pericolo per gli Stati Uniti che devono ostacolarlo a tutti i costi. È in parte in questo contesto che è possibile comprendere l’eliminazione del generale Soleimani, architetto della strategia iraniana nei confronti del Mar Mediterraneo e della strategia a doppio innesco perseguita dagli Stati Uniti: continuare il rollbackdalla Russia e contenere la Cina. Le manovre marittime militari, senza precedenti nella storia dei tre paesi, eseguite dal 27 al 30 dicembre 2019 da Cina, Russia e Iran nel Mar Arabico e nell’Oceano Indiano settentrionale, hanno esacerbato il nervosismo Stati Uniti. Ostacolare la materializzazione di questi corridoi è quindi una priorità per gli Stati Uniti. È in questo contesto che è consigliabile, nonostante le dichiarazioni ufficiali, mettere in prospettiva il rifiuto degli Stati Uniti di smantellare le sue basi militari in Iraq, il mantenimento o addirittura il rafforzamento delle sue basi nel nord-est del Siria, ecc.

A questo punto, in sintesi, gli Stati Uniti stanno implementando strategie volte a ostacolare la ricostruzione della Heartland a cui aspirano la Russia e la Cina. Tuttavia, la battaglia non si limitò a Heartland , troppo lontano dalla costa per il potere marittimo americano.

In effetti, questa rivalità di potere ha per oggetto il controllo di ciò che il famoso geopolitico americano John Spykman aveva descritto come Rimland , vale a dire le coste del continente eurasiatico. La tesi formulata nel libro “La geografia della pace” nel 1944 è riassunta dalla seguente formula:  “chi controlla Rimland domina l’Eurasia. Chi domina l’Eurasia controlla i destini del mondo ” [ 7 ]

Secondo il pensiero sviluppato congiuntamente a Kais Daly, questo Rimland potrebbe essere suddiviso in due spazi: il classico Rimland interno : Europa, Asia centrale e Cina e un Rimland esterno che va dal Marocco alle Filippine permettendo il rovescio dell’Inner Rimland. Nella stessa prospettiva del gioco di Go, a lungo termine, Pechino, rafforzando la sua presenza attraverso il progetto BRI delle Strade della seta in Marocco, Algeria, Egitto (quindi nel Nord Africa e nel Maghreb) e nell’Africa orientale, aspirerebbe a consolidare la sua influenza sull’Outland Rimland . Lo stesso vale per la Russia attraverso il rafforzamento della sua influenza in Medio Oriente, nel Mediterraneo (dal 2013, la ricostituzione di untask force marittima permanente nel Mediterraneo), nel Maghreb e più in generale in Africa (Vertice di Sochi del 22-24 ottobre 2019 e strategia russa nei confronti del continente africano). La contro-manovra è già in atto dagli Stati Uniti con l’obiettivo di destabilizzare stati o regioni ritenuti centrali da Pechino nell’ambito del progetto BRI e da Mosca: Algeria (tentativo per il momento fallito), Libia ed Egitto nel Nord Africa , Sahel africano, Africa orientale e occidentale, Medio Oriente (Iraq, Iran, ecc.), Periferia cinese e russa, ecc.

Pertanto, la battaglia viene combattuta non solo lungo il Rimland classico, ma anche all’interno del Rimland esterno che collega il Nord Africa, il Sahel africano, l’Africa orientale e le Filippine. La Tunisia, nel cuore del Maghreb, non fa eccezione a questa dinamica. Il significativo rafforzamento delle posizioni cinesi e russe all’interno di questi spazi aggrava il nervosismo degli Stati Uniti e alcune potenze occidentali che aspirano a ostacolare questa manovra strategica. A loro volta, questi poteri avviano le classiche manovre di influenza, accerchiamento e contro-accerchiamento per contrastare le manovre di questi poteri rivali, o addirittura cacciarli da questi spazi altamente strategici .

È in questo nuovo e complesso contesto geopolitico che deve essere analizzato il gioco dei poteri e delle rivalità in Libia. Più in generale, il futuro della Libia e la mappa del Maghreb dipendono da esso.

Per far fronte a questo nuovo accordo geopolitico, una vera lotta al vertice dello stato americano si oppone ai neoconservatori e ai dogmatici contro i realisti per quanto riguarda la manovra contraria.

IL DILEMMA AMERICANO E IL SUO IMPATTO SULLA LIBIA E SUL MAGHREB

Due tesi con conseguenze radicalmente opposte sul futuro della Libia e più in generale del Maghreb si oppongono a Washington: la dottrina Barnett o la dottrina Trump.

Dottrina Barnett:  Thomas Barnett, discepolo dell’ammiraglio Arthur Cebrowski, nel 2003 ha affermato che per mantenere la sua egemonia nel mondo, gli Stati Uniti devono “fare la loro parte del fuoco” , vale a dire dividerlo in due. . Da un lato, stati stabili o “stati integrati”(Membri del G8 e loro alleati) e dall’altro il resto del mondo visto come un semplice serbatoio di risorse naturali. A differenza dei suoi predecessori, non vedeva più l’accesso a queste risorse come vitale per Washington, ma sosteneva che sarebbero state accessibili solo agli stati stabili e rivali attraverso i servizi dell’esercito degli Stati Uniti. Di conseguenza, era necessario distruggere sistematicamente tutte le strutture statali in questo bacino di risorse, in modo che nessuno potesse un giorno opporsi alla volontà di Washington o trattare direttamente con stati stabili. [8] [9]

È un profondo sconvolgimento del pensiero strategico americano che ha trovato la sua applicazione e la sua attuazione dalla Somalia, dall’Afghanistan nel 2001 attraverso l’Iraq, la Libia, la Siria, lo Yemen, il Venezuela e la Bolivia Oggi. In effetti, secondo il pensiero di Barnett, è opportuno situarsi in una neo conferenza a Berlino con accordie la condivisione tra grandi potenze di zone che ospitano risorse strategiche nel quadro dello sgretolamento e della frammentazione di Stati e regioni. La contromanovra russa ha risparmiato la Siria. Dall’inizio del 2019, questa dinamica di fondo ha subito un’accelerazione meteorica che non può essere considerata neutrale. Infatti, anche se obbediscono a contingenze interne segnate da molti punti comuni, in particolare un terreno fertile pronto per la conflagrazione, una nuova ondata di rivolte, che ricorda “la primavera araba” dell’anno 2011, è stata iniziata da Neoconservatori e dogmatici americani: Sudan, Algeria, Venezuela, Egitto, Iraq, Kuwait, Bolivia, molti paesi in America Latina, Iran, ecc.

Sulla scala del Maghreb, questa dottrina ha avuto un impatto diretto sulla Libia e ha portato alla situazione attuale. Più recentemente, l’Algeria è stata presa di mira e sembra, in questa fase, contrastare la manovra. Per quanto riguarda il futuro della Libia, se questa dottrina continuerà, assisteremo allo scoppio di un conflitto ad alta intensità che porta a una frammentazione della Libia e al suo inclinazione nel caos. La mappa del Maghreb sarebbe quindi capovolta, incidendo anche sul Sahel africano e in Europa. La sicurezza della Tunisia sarebbe gravemente minacciata. Dovrebbe anche essere tenuto presente la crescente rivalità tra alcuni stati europei e gli Stati Uniti sull’accesso alla ricchezza del Nord Africa e dell’Africa e la strategia degli Stati Uniti per indebolire l’Europa e limitarla al ruolo di vassallo. Questa strategia si basa principalmente su due assi: il primo asse mira a suscitare la minaccia russa al fine di dividere gli europei in merito alla posizione da adottare nei confronti della Russia e per impedire qualsiasi riavvicinamento tra Francia-Germania-Russia. Questa strategia è supportata dalla Gran Bretagna che, attraverso la Brexit, è tornata in mare aperto e con la sua posizione naturale insita nella sua insularità: la divisione del continente europeo; il secondo asse mira a destabilizzare il fianco meridionale dell’Europa, il Maghreb e la regione del Sahel, aumentando le fonti di tensione. L’Europa è così presa dalle tenaglie e non può liberarsi dalla supervisione della sicurezza americana. Infine, le considerazioni energetiche sono al lavoro con il realeLa “guerra della metropolitana” si oppone ai progetti portati avanti dai russi nel Mediterraneo orientale, in Europa, in Medio Oriente e nel Maghreb e ai contro-progetti sostenuti dagli Stati Uniti.

Dottrina di Trump:  per il presidente Trump che incarna una frangia del Pentagono e dei repubblicani ostili alla dottrina Barnett, gli Stati Uniti, fedeli al Jacksonianismo , devono rompere con questa strategia di “caos costruttivo” generalizzato. Questa strategia si è rivelata controproducente e costosa, anche per gli Stati Uniti. Trump ragiona come un uomo d’affari e pensa al suo elettorato in vista delle elezioni del 2020. Certamente, nel contesto di accordie negoziati con la Cina e la Russia, la destabilizzazione degli stati cardine può essere utile e offrire spazio per i negoziati. Tuttavia, il caos diffuso non è più sostenibile, tanto meno se impone un impegno duraturo da parte dell’esercito americano. Certo, di fronte all’aumento del potere militare della Cina e al salto qualitativo operato dalla Russia (armi ipersoniche, ecc.), L’uscita dal trattato INF e il posizionamento di missili a raggio intermedio contro i due paesi fa parte di un logica di pressione, rassicurazione e consapevolezza della natura sempre temporanea e revocabile di un accordo, tuttavia, il paradigma dominante a cui aspira il presidente Trump si basa su “una logica di accordo tra signori”. Questi ultimi, operando con accordi, negoziano, come gli eventi in corso in Siria, si stabilizzano, si ridistribuiscono nelle rispettive sfere di influenza: è il ritorno del patriottismo e dei grandi stati-nazione. Il presidente Trump, sostenendo una globalizzazione della NATO, consentirebbe di bloccare a lungo termine, come una guardia pretoriana, i paesi del GCC [10] tramite un ME della NATO ( Medio Oriente ), i paesi del Maghreb e Sahel attraverso un maggiore coinvolgimento della NATO nel Maghreb e nel Sahel, concepibile in nome della lotta al terrorismo e di una NATO Atlantico-Pacifico che integra Australia, Giappone, Corea del Sud, ecc. Questo sarebbe il dispositivo futuro per contenere la rinascita di Heartlandportato dalla Russia e dalla Cina, limitando nel contempo il massiccio coinvolgimento dei soldati americani e costringendo i paesi europei a condividere l’onere finanziario di tale impresa. È certo che molti paesi europei si troveranno coinvolti in lotte geopolitiche che non influenzano direttamente i loro interessi strategici ma obbediscono all’agenda degli Stati Uniti.

A titolo di esempio, in questo contesto, il presidente Trump non aspetterebbe all’attuazione della dottrina Barnett in Algeria, portando a una situazione simile alla Siria. A sostegno delle elezioni del 12 dicembre 2019, per gli Stati Uniti era una questione di consentire all’esercito (personale), vero detentore del potere in Algeria, di riconquistare il suo posto naturale di decisore mascherato, presso al riparo da una democrazia di facciata acquisita nel campo degli Stati Uniti. Pur consentendo al sistema di garantirne la mutazione e la sopravvivenza, l’obiettivo finale del presidente Trump sarebbe quello di avviare in Algeria un cambiamento di alleanza che causasse l’inclinazione dell’Algeria nell’orbita degli Stati Uniti. Pertanto, in caso di successo, questa dinamica segnerebbe una grande rottura ridisegnando il Maghreb o la geopolitica nordafricana. Francia, Cina, Russia, ecc.

Con questo in mente, sarebbe la stessa dinamica in Libia. Gli Stati Uniti, la Russia e, in misura minore, la Cina avrebbero negoziato, rispettando i confini della Libia, la condivisione delle zone di influenza consentendo lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio e gas libici. È la condivisione della “torta” tra “signori”attraverso accordi complessi di consorzi di petrolio opaco che sfruttano congiuntamente i depositi, come quello che è stato attuato in Iraq. L’Europa si trova emarginata nella sua periferia meridionale. Italia (ENI), Francia (Totale), Gran Bretagna (BP), Germania stanno cercando di pesare sulla futura equazione libica, il problema principale è la distribuzione della ricchezza di petrolio e gas e il posizionamento rispetto a futura ricostruzione del paese. L’intrusione della Turchia nel territorio libico, probabilmente con il consenso degli Stati Uniti, mira a garantire la sopravvivenza, per il momento, del governo Sarraj, per bilanciare l’equilibrio di potere sul terreno e quindi per “frenare” e ostacolare l’avanzata del maresciallo Haftar. È tempo di fare i veri affari, lontano dalle “telecamere” , per congelare la situazione e negoziare in base alla sua influenza sul campo: “le petroliere devono negoziare dietro le quinte”. Si tratta quindi di non consentire a un uomo forte, in questo caso il maresciallo Haftar, di assumere il controllo di tutta la Libia e di tutti i siti petroliferi e di gas, mettendolo in una posizione di negoziazione vantaggiosa. Al contrario, deve essere messo in una configurazione in cui il suo spazio di manovra nel contesto di questi negoziati deve essere il più stretto possibile. Il doppio gioco perseguito dagli Stati Uniti, a supporto del maresciallo Haftar, pur mantenendo le relazioni con il campo di Sarraj, fa parte di questa logica. Lo stesso vale per la Russia: quest’ultima, pur sostenendo militarmente il maresciallo Haftar, negozia e coltiva le sue relazioni con il campo di Sarraj e gli ex khaddafisti, incluso Seif Al-Islam. Pur tollerando il gioco turco, Mosca non ha mai dato al maresciallo Haftar lo strumento militare che gli permetteva di affrontare l’ascesa in modo definitivo. Con questo in mente, una volta conclusi gli accordi , si tratterà di consentire a un uomo forte in Libia, Haftar o altro di prendere il sopravvento e pacificare il paese facendo affidamento probabilmente sul ripristino dell’alchimia tribale. Seguirà il riavvio della produzione di petrolio libica consentendo il finanziamento della ricostruzione del paese. In questo caso, la Libia si trasformerà in uno stato cliente come alcuni paesi del Golfo che si rompono con il suo passato di stato recalcitrante.

In definitiva, due scenari con conseguenze radicalmente diverse per il futuro della Libia e per la stabilità e la sicurezza del Maghreb e della Tunisia .A questo punto, si dovrebbe anche tenere presente che l’esito della guerra libica è correlato agli eventi in atto in Medio Oriente, in particolare in Siria, e alla crescente rivalità sull’acquisizione di giacimenti di gas. e petrolio nel Mediterraneo orientale. A titolo di esempio, le strategie di Turchia e Russia in Libia non possono essere analizzate ignorando il loro gioco in Siria, Medio Oriente e Mediterraneo, in particolare gli obiettivi turchi sui depositi di gas nel Mediterraneo orientale. Ritornando alla dottrina espansionista ottomana (neo-ottomanismo), la Turchia, isolata nel Mediterraneo, attraverso l’accordo siglato con il governo Sarraj il 27 novembre 2019, in particolare per quanto riguarda la delimitazione delle zone economiche esclusive (ZEE) dei due paesi,EastMed collegherà Israele all’Italia via Cipro e la Grecia. Il presidente Erdogan ha tutto l’interesse per la sopravvivenza del governo Sarraj al fine di esercitare pressioni su questi paesi e ottenere il riconoscimento dei diritti di sfruttamento dei depositi nel Mediterraneo orientale. La Turchia, posizionandosi in Libia, consolida anche la sua presenza in Africa, acquisisce un’ulteriore carta di pressione verso l’UE controllando la rotta migratoria dalla Libia (aggiungendo a ciò che essa controlla già dal suo territorio) e si oppone all’influenza dell’Egitto, degli Emirati Arabi Uniti e dell’Arabia Saudita, poteri ostili all’Islam politico trasmesso dai Fratelli Musulmani. [11]

IMPATTO SULLA TUNISIA

In questo contesto, la guerra in Libia presenta un’alta volatilità e un rischio significativo di ribaltarsi nel caos dettando una maggiore vigilanza delle autorità tunisine. Un controllo strategico è essenziale per rilevare segnali deboli a favore dell’uno o dell’altro degli scenari sviluppati sopra e per preparare in anticipo risposte strategiche in modo da non subire eventi passivamente. I rischi sono molteplici: vari supporti di gruppi terroristici libici o rifugiati nel territorio libico ai movimenti radicali tunisini, base di ritiro, formazione e organizzazione per gruppi terroristici tunisini o elementi che possono essere ricostituiti tra gli elementi reintrodotti dalla Turchia , infiltrazione di elementi terroristici che si mescolano con rifugiati, armi e varie forme di tratta, rapimento e assassinio di cittadini tunisini, inclinazione della Libia in una guerra civile generalizzata che genera un vasto movimento di rifugiati verso il territorio tunisino, divisione dell’entità libica seguendo linee storiche di frattura, connessioni con i vari centri di crisi che abbracciano il fianco Sahel meridionale, contagio dei combattimenti su larga scala in Tripolitania, esportazione di combattimenti tra diverse fazioni libiche in Tunisia a beneficio dei libici residenti in Tunisia costituiscono tutti i pericoli che devono affrontare le autorità tunisine. Allo stesso tempo, il deterioramento della situazione in Tripolitania con conseguente chiusura duratura delle frontiere influenzerebbe direttamente le regioni frontaliere tunisine con equilibri precari che vivono principalmente di traffico illecito e contrabbando. Ciò potrebbe provocare uno scoppio di violenza e rivolte sociali difficili da controllare. A livello economico, una strategia globale e offensiva di riposizionamento della Tunisia dovrà essere concettualizzata in modo da non essere esclusa dai contratti redditizi durante la ricostruzione del paese. La Tunisia deve anche garantire la salvaguardia delle sue quote di mercato contro concorrenti formidabili, in particolare la Turchia. Infine, la scena tunisina dovrebbe essere preservata dal conflitto ideologico e dalla guerra inter sunnita tra Emirati Arabi Uniti, Egitto e Arabia Saudita con Turchia e Qatar. una strategia globale e offensiva per riposizionare la Tunisia deve essere concettualizzata in modo da non essere esclusa dai contratti redditizi durante la ricostruzione del paese. La Tunisia deve anche garantire la salvaguardia delle sue quote di mercato contro concorrenti formidabili, in particolare la Turchia. Infine, la scena tunisina dovrebbe essere preservata dal conflitto ideologico e dalla guerra inter sunnita tra Emirati Arabi Uniti, Egitto e Arabia Saudita con Turchia e Qatar. una strategia globale e offensiva per riposizionare la Tunisia deve essere concettualizzata in modo da non essere esclusa dai contratti redditizi durante la ricostruzione del paese. La Tunisia deve anche garantire la salvaguardia delle sue quote di mercato contro concorrenti formidabili, in particolare la Turchia. Infine, la scena tunisina dovrebbe essere preservata dal conflitto ideologico e dalla guerra inter sunnita tra Emirati Arabi Uniti, Egitto e Arabia Saudita con Turchia e Qatar.

Mehdi TAJE, Tunisi, 4 febbraio 2020

Mehdi TAJE è un esperto senior in geopolitica e prospettiva, direttore di Global Prospect Intelligence, presidente dell’Institute for Strategic Intelligence and Prospective Analysis (IVASP) e membro del collegio dei consulenti internazionali del Centro francese di ricerca sull’intelligence ( CF2R).


[1]  Governo dell’Unione nazionale.

[2] Esercito nazionale libico.

[3]  Real Africa , Bernard Lugan, n. 122, febbraio 2020, pag.

[4]  Real Africa , Bernard Lugan, n. 122, febbraio 2020, p.7.

[5]  Real Africa , Bernard Lugan, n. 122, febbraio 2020, pag.

[6]  Questa mappa può essere visualizzata al seguente link:  http://www.politique-actu.com/dossier/mackinder-oeuvre-geopolitique/243141/

[9] Corso di geopolitica di M. Taje, anno 2019-2020.

[10] Consiglio di cooperazione del Golfo.

[11]  Real Africa , Bernard Lugan, n. 122, febbraio 2020, p.10.

https://theatrum-belli.com/jeux-de-guerre-dans-une-libye-au-bord-du-chaos-regard-geopolitique/

Algeria: per comprendere come il sistema ha preso il sopravvento sulla strada, di Bernard Lugan

Dopo la Libia volgiamo nuovamente l’attenzione su un altro paese chiave del Mediterraneo e strategico per l’Italia. Fornitore di petrolio e gas, ma anche simbolo delle aspirazioni di emancipazione dei paesi africani_Giuseppe Germinario

Dopo più di un anno di “hirak” (movimento), rimanendo padrone del calendario che si era prefissato, e nonostante la perseveranza delle dimostrazioni che ora si sforzerà di far apparire come linea ad oltranza, il “Sistema” algerino che si diceva fosse condannato, alla fine ha trionfato sulla strada.

Una vittoria che è stata raggiunta senza le scene di anarchia che hanno sfigurato la Francia per due anni e senza quei massacri di folle che si verificano regolarmente nel mondo arabo-musulmano. Un caso da manuale … in attesa del futuro che dirà se questa vittoria è stata solo temporanea.

Per capire come il “Sistema” algerino ha trionfato sulla strada che lo ha sfidato, è importante scartare la feccia dei media e la fuga ideologica per arrivare al fondo della realtà algerina (vedi su questo argomento il mio libro Algeria, Storia al posto).

 

Spiegazioni e sviluppo:

 

Il trionfo del “Sistema” algerino consiste in sei punti:

 

1) La Costituzione è stata mantenuta, pertanto non vi sono state elezioni costituenti, la principale richiesta politica dei manifestanti

2) L’unità dell’esercito e dei grandi corpi statali, a partire dalla magistratura, è stata preservata

3) Gli appelli allo sciopero generale sono falliti, anche nel mondo dell’istruzione

4) Mentre la strada sosteneva che le elezioni presidenziali non potevano essere tenute, esse si sono svolte nella calma e ha permesso di eleggere un presidente, per la verità con uno scarso suffragio, ma legittimo.

5) L’esercito non è più ufficialmente sotto i riflettori

6) L’Algeria esce dal suo lungo silenzio diplomatico e riappare nei dossier scottanti della Libia e del Sahel.

 

Per quanto riguarda la strada, e come hanno dimostrato le grandi folle che hanno assistito al funerale del generale Gaïd Salah, bisogna riconoscere che essa non appartiene solo agli “Hirakiani” e che quindi ci sono due popoli Algeria. Uno contesta il “Sistema” quando l’altro lo supporta … Forse perché si mantiene grazie ad esso … Il che rappresenterà un vero problema per il Presidente Tebboune. La crisi economica algerina è davvero tale che, se prenderà misure per risolverlo, dovrà incidere nell’economia dell’assistenza e dei clienti, e quindi alienare il popolo “legittimista” …

 

Bouteflika cerca di fuggire dalla tutela dell’esercito

 

Fino all’elezione di Abdelaziz Bouteflika nel 1999, i successivi presidenti algerini basavano la loro forza sul potere dei clan militari; il ruolo presidenziale era limitato all’arbitrato consensuale delle loro prerogative. Il paese fu in realtà governato da circa 150 generali che costituivano il livello superiore della nomenklatura nazionale. L’esercito controllava tutto e costituiva l’élite di un paese le cui strutture tradizionali, a differenza di Lyautéen in Marocco, erano state schiacciate dalla “francesizzazione” giacobina.

Mentre gli algerini soffrivano socialmente, i soldati e le loro famiglie beneficiavano dei rifornimenti nei negozi a loro riservati laddove potevano ottenere a prezzi preferenziali beni che non si trovavano altrove nel paese. Vivevano in residenze sicure e trascorrevano le vacanze in club di proprietà dei militari. Oggi non è cambiato nulla.

 

Come tutti i presidenti, Abdelaziz Bouteflika è stato messo al potere dall’esercito. Tuttavia, a differenza dei suoi predecessori, voleva liberarsi dalla sua opprimente tutela, seguendo due modalità:

 

1) L’economia algerina essendo controllata dalla casta militare attraverso una clientela di soci obbligati o civili, ha creato una contro-potenza economica, quella degli “oligarchi”, che hanno costruito le loro fortune indecenti al di fuori delle reti militari grazie alla concessione di “prestiti” bancari molto generosi.

 

2) Al fine di rompere l’unità dell’esercito, il presidente Bouteflika ha soffiato sulle braci dei classici conflitti interni. Per perseguire questa politica, ha fatto affidamento sul generale Ahmed Gaïd Salah, del quale promosse la carriera, facendolo prima capo di stato maggiore e poi vice ministro della difesa.

 

Inizialmente, dal 2013, questo uomo svolge perfettamente la sua missione opponendosi frontalmente alle due componenti principali dell’esercito, vale a dire il Dipartimento di Intelligence e Sicurezza (DRS) e lo stato -maggiore (EM) dell’Esercito popolare nazionale (ANP). Il clan Bouteflika ha poi sostenuto l’EM nel suo compito di eliminare il generale Mohamed Lamine Médiene noto come “Toufik”, direttore del DRS dal 1990.

Tuttavia, giocando su due tavoli contemporaneamente, e per non legarsi mani e piedi all’EM, quindi al generale Gaïd Salah, il clan presidenziale ha sostituito il generale Mediene con il generale Tartag, oppositore del generale Salah. Quest’ultimo non ha lasciato trasparire nulla e, pur mostrando pubblicamente la sua totale lealtà al presidente Bouteflika, ha iniziato a lavorare pazientemente per eliminare i suoi rivali nell’esercito. Questa epurazione è stata tanto più facile da realizzare poiché allo stesso tempo, tutti gli osservatori avevano puntato gli occhi solo sulla strada che stava manifestando contro un quinto mandato del presidente Bouteflika.

Infine, il 2 aprile 2019, tutti gli strumenti militari ormai raccolti nelle sue mani, il generale Ahmed Gaïd Salah ha interrotto il mandato di Abdelaziz Bouteflika …

 

Generale Gaïd Salah, maestro del calendario

 

Procedendo in fasi successive e lasciando che la strada continuasse a manifestare, il generale completò quindi la sua acquisizione dell’Algeria attraverso il suo apparato statale. La magistratura algerina, che fino ad allora aveva preso i suoi ordini dalla presidenza, ora li raccoglieva dallo staff dell’esercito, che la usava per soddisfare la strada lanciando una caccia ai “corrotti”. Tuttavia, dietro questa cortina fumogena, furono eliminati solo gli oligarchi non militari; la purga non influì sui clan degli affari che erano subordinati ad essa.

 

Il generale si appellava allo stesso tempo alla legalità costituzionale, senza mai discostarsi dalla sua linea che era l’imperativo delle elezioni presidenziali.

Nonostante le potenti proteste popolari, è riuscito a organizzare il voto senza essere condizionato dalle condizioni della strada. Nonostante un’astensione elevata, nel dicembre 2019 un presidente è stato eletto nella persona di Abdelmadjid Tebboune, un membro di spicco del “Sistema”, più volte wali (prefetto) e cinque volte Ministro del Presidente Bouteflika … Il “Sistema” quindi rimase al potere.

Il 23 dicembre 2019, pochi giorni dopo le elezioni presidenziali, il generale Gaïd Salah è morto, privando così l’anti “Sistema” del loro nuovo obiettivo preferito, “liberando” il nuovo presidente dalla sua onerosa supervisione.

 

Lo stallo economico

 

Il “Sistema” è riuscito a risolvere la questione della successione del presidente Bouteflika nella tutela migliore dei suoi interessi; ora non rimane che evitare l’affondamento economico dell’Algeria. Una questione che si enuncia semplicemente così: gli idrocarburi forniscono, buon anno, anno cattivo, tra il 95 e il 98% delle esportazioni e circa il 75% delle entrate di bilancio dell’Algeria; tuttavia, a causa dell’esaurimento delle falde acquifere, la produzione di petrolio algerina è in costante calo. Per quanto riguarda quello del gas, rischia di diventare problematico.

 

Nel 2012 Abdelmajid Attar, ex ministro ed ex CEO di Sonatrach, la compagnia petrolifera nazionale, aveva causato un terremoto dichiarando che:

 

“Il grado avanzato di esaurimento delle nostre riserve comporta che dobbiamo costruire una riserva strategica per le generazioni future, non riuscendo a lasciare loro un’economia diversificata in grado di progredire da sola.”

 

Due anni dopo, nel giugno 2014, Abdelmalek Sellal, il primo ministro algerino dell’epoca, a sua volta ha lanciato l’allarme dichiarando davanti all’APN (National People’s Congress) che:

 

“Entro il 2030, l’Algeria non sarà più in grado di esportare idrocarburi, tranne che in piccole quantità (…). Entro il 2030, le nostre riserve copriranno solo le nostre esigenze interne. ”

 

I leader algerini per un certo periodo nutrivano speranze che il gas compensasse opportunamente il crollo della produzione di petrolio. Questa illusione è stata dissipata il 13 dicembre 2018 da Mustapha Guitouni, ministro algerino dell’energia, quando ha dichiarato davanti ai deputati dell’AFN:

 

“Se non troveremo rapidamente altre soluzioni per coprire la domanda nazionale di gas in costante aumento, tra due o tre anni non saremo più in grado di esportare”.

 

La situazione è quindi drammatica perché la produzione di gas algerino è di 130 miliardi di m3 all’anno. Tuttavia, di questo volume, 50 miliardi di m3 sono attualmente destinati al consumo locale, che aumenta del 7% all’anno e che aumenterà ulteriormente proporzionalmente con una popolazione di almeno 50 milioni di abitanti nel 2030. Pertanto, allo stato attuale della produzione, 80 miliardi di m3 di cui 30 miliardi di m3 vengono reintegrati nei pozzi di petrolio per mantenere semplicemente la loro attività.

Le esportazioni possono quindi contare solo su 50 miliardi di m3 fino ad oggi, un volume che diminuirà meccanicamente di anno in anno a causa dell’aumento della domanda interna legata alla crescita demografica … Risultato, poiché l’Algeria dovrà ridurre le sue esportazioni, sia di petrolio che di gas, vedrà quindi i suoi ricavi diminuire in proporzione.

 

In queste condizioni, come sarà il paese in grado di soddisfare le esigenze di base della sua popolazione? Nel gennaio 2019, l’Algeria aveva 43 milioni di abitanti con un tasso di crescita annuale del 2,15% e un surplus di quasi 900.000 abitanti ogni anno.

Il paese non produce abbastanza per vestirli, prendersene cura ed equipaggiarli, quindi deve comprare tutto all’estero. L’agricoltura e i suoi derivati ​​soddisfano solo tra il 40 e il 50% del fabbisogno alimentare del paese, un quarto delle entrate provenienti dagli idrocarburi viene utilizzato per importare prodotti alimentari di base … L’importazione di prodotti alimentari e di consumo rappresenta attualmente circa il 40% della fattura per tutti gli acquisti effettuati all’estero (National Center for IT e statistiche-dogane-CNIS).

 

La questione economica porterà inevitabilmente l’Algeria in una zona di turbolenza perché lo stato potrebbe non essere più in grado di acquistare la pace sociale. Tuttavia, infuso di sussidi, la base legittimista della popolazione non ha aderito all ‘”hirak” per paura di vedere il trionfo di una rivoluzione “borghese” che l’avrebbe privata del 20% del bilancio statale annuale dedicato a sostenere abitazioni, famiglie, pensioni, salute, veterani, poveri e tutti i gruppi vulnerabili …

Plus d’informations sur le blog de Bernard Lugan

 

Il rebus turco in Libia, di Bernard Lugan

Tre eventi di grande importanza rimescolano il gioco geopolitico del Mediterraneo:
1) Il 7 novembre 2019, per controllare il percorso dell’oleodotto EastMed attraverso il quale procederanno le future esportazioni di gas dagli enormi giacimenti nel Mediterraneo orientale verso l’Italia e l’Unione europea, la Turchia ha firmato con la GNU (Governo cittadino libico Union), uno dei due governi libici, un accordo di delimitazione delle zone economiche esclusive (ZEE) di entrambi i paesi. Conclusi in violazione del diritto marittimo internazionale e a spese di Grecia e Cipro, questo accordo traccia anche, artificialmente ed illegalmente, un confine marittimo turco-libico nel bel mezzo del Mediterraneo.
2) La salvaguardia di questo accordo dipende dalla sopravvivenza militare del GUN; il 2 gennaio 2020 il Parlamento turco ha quindi votato l’invio di forze di combattimento in Libia per impedire al Generale Haftar, capo di un altro governo libico, la presa di Tripoli.
3) In risposta, sempre il 2 gennaio, la Grecia, Cipro e Israele hanno firmato un accordo sulla rotta del futuro gasdotto EastMed il cui tracciato è collocato parzialmente  nella zona marittima turca sancita unilateralmente dall’accordo Turchia-GUN del 7 novembre 2019.
Questi eventi meritano una spiegazione:
Perché la Turchia ha deciso di intervenire in Libia?
La Libia era un possedimento ottomano dal 1551 al 1912, quando, sopraffatta militarmente, la Turchia ha firmato il Trattato di Losanna-Ouchy con il quale lei ha ceduto Tripolitania, Cirenaica e il Dodecaneso all’Italia (vedere sulla mia bacheca due libri di storia della Libia   e Storia del Nordafrica dalle origini ai giorni nostri ).
Dalla fine del regime di Gheddafi, la Turchia conduce una politica molto attiva nel suo antico possedimento basandosi sulla città di Misurata. Da quest’ultimo alimenta il terrorismo dei gruppi armati del Sahel ricattando la Francia: “Tu aiuti i curdi, allora noi sosteniamo i combattenti jihadisti” …
A Tripoli, militarmente messo alle strette dalle forze del generale Haftar, GNU ha chiesto alla Turchia di intervenire per salvarlo. Il presidente Erdogan ha accettato in cambio della firma dell’Accordo marittimo del 7 Novembre 2019 che consente, aumentando la estensione della sua zona di sovranità, di tagliare la zona marittima economica esclusiva (ZEE) della Grecia tra Creta e Cipro, dove deve passare il futuro gasdotto EastMed.
Come la questione del gas nel Mediterraneo orientale e l’intervento militare turco in Libia si sono collegati?
Nel Mediterraneo orientale, nelle acque territoriali di Egitto, Gaza, Israele, Libano, Siria e Cipro, si distende un enorme giacimento di gas di 50.000 miliardi di m3, quando le riserve mondiali sono stimate in 200,000 miliardi di m3. Ulteriori riserve di petrolio stimate in 1,7 miliardi di barili di petrolio.
A parte il fatto che occupa illegalmente una parte di Cipro, la Turchia non ha alcun diritto di rivendicazione territoriale su questo gas, ma l’accordo militare firmato permette di tagliare l’asse del gasdotto EastMed proveniente da Cipro per l’Italia in quanto passerà attraverso le acque dichiarate unilateralmente … Il presidente turco Erdogan è stato chiaro nel dire che qualsiasi futuro gasdotto o oleodotto richiedono un accordo turco !!! Comportandosi da “stato pirata” la Turchia è ora condannata a impegnarsi miltarmente, in quanto se le forze del maresciallo Haftar dovessero prendere Tripoli, l’accordo sarebbe stato reso obsoleto.
Come fanno gli stati derubati dalla decisione turca?
Di fronte a questa aggressione, che, in altri tempi, avrebbe inevitabilmente portato ad un conflitto armato, il 2 gennaio la Grecia, Cipro e Israele hanno firmato un accordo ad Atene sul futuro gasdotto EastMed, importante collegamento approvvigionamento energetico d’Europa. Italia, punto terminale del gasdotto dovrebbe aderire all’accordo.
Da parte sua, il maresciallo Sissi ha dichiarato il 17 dicembre 2019 che la crisi libica era parte integrante de “la sicurezza nazionale dell’Egitto” e il 2 gennaio ha incontrato il Consiglio di Sicurezza Nazionale. Per l’Egitto, un intervento militare turco che avrebbe dato la vittoria al GUN sul generale Haftar avrebbe infatti rappresentano un pericolo politico mortale, perché il “Fratelli Musulmani”, i suoi nemici implacabili, sostenuti dalla Turchia, si posizionerebbero ai suoi confini. Inoltre, essendo in acque disastrose economicamente, l’Egitto, che basa le sue speranze sull’avvio della costruzione del gasdotto verso l’Europa non può tollerare questo progetto, di vitale importanza ma rimesso in questione dall’annessione turca delle acque marittime.
Qual è l’atteggiamento della Russia?
La Russia sostiene sicuramente il generale Haftar, ma in che misura? Quattro problemi principali sorgono in effetti per quanto riguarda le priorità geopolitiche russe:
1) La Russia ha l’interesse a litigare con la Turchia opponendosi al suo intervento in Libia, quando Ankara può allontanarsi ulteriormente dalla NATO?
2) Ha interesse alla creazione del gasdotto EastMed, fortemente in concorrenza con le proprie vendite di gas verso l’Europa?
3) Non può essere che la rivendicazione turca geli l’interesse alla realizzazione di Turkstream, trascinando la Russia per anni se non per decenni in un contenzioso giudiziario presso la Corte Internazionale?
4) Ha interesse a indebolire la collaborazione con la Turchia nella realizzazione, ormai prossimo alla messa in esercizio, del gasdotto Turkstream, il quale, attraverso il mar Nero, aggira l’Ucraina? ? Tanto più che il 60% del fabbisogno di gas della Turchia sono forniti dal gas russo; se Ankara potesse, in un modo o in un altro, trarre vantaggio dal Mediterraneo orientale, questo le permetterebbe di essere meno dipendente dalla Russia … il che non sarebbe un grande affare per quest’ultima …
E se alla fine non fosse una costruzione da parte del Presidente Erdogan per imporre una rinegoziazione del Trattato di Losanna del 1923?
La Turchia sa molto bene che l’accordo marittimo con GUN è illegale in termini di diritto internazionale del marittimo in quanto viola la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) che la Turchia non ha firmato per altro. Questo trattato è illegale anche anche riguardo agli accordi sotto di Skrirat del mese di dicembre 2015 firmato sotto l’egida delle Nazioni Unite e che costituivano il GUN in quanto non danno un mandato al suo leader, Fayez el-Sarraj, a concludere tale accordo di confine. Inoltre, con solo il Qatar alleato, la Turchia è completamente isolata diplomaticamente.
Riconoscendo queste realtà, puntando sia sulla solita viltà degli europei che sull’inconsistenza della NATO in realtà in uno stato di “morte cerebrale”, il presidente Erdogan si rivela inconsciente nel giocare con la dinamite o, al contrario, un calcolatore abilissimo ad avanzare le sue pedine sul filo del rasoio.
Se la seconda ipotesi fosse corretta, l’obiettivo della Turchia sarebbe quello di aumentare la pressione per rendere chiaro ai paesi che attendono con ansia l’impatto economico della messa in servizio del futuro gasdotto EastMed, che potrebbe bloccare il progetto . A meno che la zona marittima turca possa essere estesa per permettere che sia parte nello sfruttamento delle ricchezze del sottosuolo marino del Mediterraneo orientale. Ma per questo, si dovrebbero rivedere alcuni articoli del Trattato di Losanna del 1923, una politica che ha già sperimentato una rapida attuazione nel 1974 con l’occupazione militare, anche illegale, ma efficace, della parte settentrionale dell’isola Cipro.
La scommessa è rischiosa, perché la Grecia, un membro della NATO e di UE e Cipro, un membro dell’Unione Europea, non sembrano disposti a cedere al ricatto turco. Per quanto riguarda l’Unione europea, nonostante la sua indecisione congenita, è dubbio che accetterà di lasciare il controllo alla Turchia di due delle principali valvole della fornitura di gas, vale a dire EastMed e Turkstream.
Maggiori informazioni sul blog di Bernard Lugan

La Turchia nel Mediterraneo, di Antonio de Martini

Il Mediterraneo sta tornando ad essere un campo di azione strategico nelle dinamiche geopolitiche. Il Mediterraneo non è più da tempo il Mare Nostrum ed è sempre meno il mare di ogni paese rivierasco. L’intervento militare in Libia nel 2011 voleva essere un tassello importante della politica di neutralizzazione di qualsiasi velleità di autonomia politica di un paese arabo e nordafricano, di ghettizzazione e isolamento della Russia di Putin ad opera degli Stati Uniti di Bush e Obama. Una politica del caos che avrebbe dovuto rendere impraticabili ed impervi alle potenze emergenti di Russia e Cina quei territori. Avrebbe dovuto riservare momenti di gloria e quote di bottino a potenze regionali come la Francia, perfettamente allineate al corso obamiano. A distanza di otto anni quell’intervento ha messo invece a nudo i limiti di quella strategia, la velleità e la vanagloria delle ambizioni francesi, la drammatica remissività, la fellonia suicida, l’inconsistenza e crollo di credibilità dell’azione politica dell’Italia. Ha consentito al contrario l’emersione di potenze regionali molto più dinamiche ed efficaci del blocco dei paesi europei, ha accentuato le contraddizioni interne alla NATO, interrotto la fase di arretramento della Russia, stabilizzato la presenza cinese. Un dinamismo che sta spiazzando soprattutto i paesi europei. https://www.nordicmonitor.com/2019/12/full-text-of-new-turkey-libya-sweeping-security-military-cooperation-deal-revealed/?fbclid=IwAR13hKfY9YN7j_lrzd10wIoRTN6qRACPRJPJQ-xFikwLY1m0vfUco8iuwHY Buon ascolto_Giuseppe Germinario

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