LA STRATEGIA USA NEL MONDO RACCONTATA DA GEORGE FRIEDMAN NEL 2015 E DA ME NEL 2022, di Antonio de Martini

George Friedman é il miglior analista strategico vivente negli USA, fondatore e direttore per parecchi lustri dell’agenzia STRATFOR che ha offerto i migliori approfondimenti fino a che l’ha diretta personalmente.

Nel 2015 in una conferenza a Chicago, tra esperti, ha spiegato la strategia generale degli Stati Uniti per mantenere l’egemonia mondiale. Ecco in inglese, con sottotitoli in francese, in un filmato You tube estratti della sua visione, mai contestata da alcuno. Lascio a lui il compito della illustrazione dei principi che considero realistica e solidamente fondata.

Una prova di quanto qui detto e previsto é certamente il conflitto ucraino e il successivo atteggiamento americano nei confronti della Unione Europea e della Brexit. Se ne deduce che interpretare correttamente gli avvenimenti e le scelte riguardanti il conflitto ucraino é di importanza vitale per noi e per il futuro del continente.

CAPIRE LE LEZIONI DELLA NUOVA GUERRA UCRAINA

L’alluvione di chiacchiere, sovente mendaci, vanitose o inconcludenti, specie in Italia da parte di coloro che non sono riusciti a collocarsi come esperti di pandemia, ha impedito a una pubblica opinione distratta dall’endemico qualunquismo, di ascoltare le poche considerazioni logiche e a mente fredda sulle ragioni dello scontro, sulle strategie e sulle tattiche impiegate e identificare, distinguendo, quali siano gli interessi rispettivamente degli USA, dell’Europa ( EU) e dell’Italia.

Si naviga a vista, annaspando tra l’etica a buon mercato e la speranza di non essere creduti. Sempre più vero il detto che ” é difficile far capire qualcosa ad un uomo quando il suo stipendio dipende dal non capire.”

Di conseguenza abbiamo i “no war “che si affiancano ai “no vax” e i possibilisti che non comprano più i quotidiani per non farsi imbottire di comunicati – diretti e indiretti- emessi da scarti di leva anche professionale, privi di esperienza militare, digiuni di geografia, di storia e privi di conoscenza delle lingue più utili ( inglese, ucraino e russo), senza quindi accesso diretto alle fonti.

I cattolici, guerrafondai per non perdere il posto in Rai, stati messi in fuori gioco dall’intervento del Papa e i fautori della NATO hanno strillato tanto tempestivamente e tanto in falsetto da far capire a tutti che i ragazzi del coro erano stati istruiti con cura, ma con tonalità da stadio.

Proviamo a mettere ordine nel buio in cui brancoliamo noi italiani ?

GLI ANTEFATTI

Per facilitare la comprensione di fatti e antefatti sfuggiti ai più, ecco qui sotto, a disposizione per consultazione, una serie di links di questo blog ( ma ce ne sono anche altri che mi sono stancato di radunare. Potete cercarli clikkando in alto a sinistra nella finestra ” cerca”) che vi riportano al 2014 e alle omissioni dei media italiani. La crisi era prevista e prevedibile, l’intervento armato russo più volte minacciato. Nessuno se ne é preoccupato. Nessuno ha capito che una guerra in Europa, avrebbe significato la perdita dell’ubi consistam della Unione Europea, diventata l’avatar della NATO.

La disinvolta smentita al primo solenne ” mai più guerre in Europa” pronunziato dal 1945 in poi da ogni singolo politico del continente, implica fatalmente una perdita di credibilità anche dell’altro “ mai più” che in questi giorni riecheggia per ogni dove sulla shoà. Presto tradiranno anche quello.

https://corrieredellacollera.com/2014/02/25/ucraina-prima-pedina-della-teoria-del-domino-o-prova-di-una-nuova-yalta-a-geometria-variabile-di-antonio-de-martini/

https://corrieredellacollera.com/2014/02/28/ucraina-tra-usa-e-russia-con-germania-mezzana-dalla-ribellione-alla-secessione-a-di-antonio-de-martini/

https://corrieredellacollera.com/2014/02/15/la-sfida-usa-russia-per-lucraina-intanto-pagano-i-paesi-brics-con-svalutazioni-selvagge-brasile-india-cina-sud-africa-di-antonio-de-martini/

https://corrieredellacollera.com/2014/03/14/la-russia-riponde-allamerica-con-una-proposta-globale-di-sfruttamento-economico-sostenibile-dellasia-sebastopoli-e-ormai-come-sagunto-ma-questa-volta-io-tifo-per-annibale-di-antonio-de-marti/

https://corrieredellacollera.com/2014/03/02/crisi-ucraina-in-crescendo-per-supplire-alla-impossibilita-militare-di-intervento-n-a-t-o-e-soddisfare-la-fazione-bellicista-di-antonio-de-martini/

https://corrieredellacollera.com/2014/03/08/ancora-su-ucraina-italia-stati-uniti-ma-scomodiamo-carl-schmitt-e-la-grande-bellezza-scegliete-di-antonio-de-martini-e-massimo-morigi/

Le ragioni della scelta del punto di attacco all’impero russo

A) La ragione principale é che l’Ucraina si prestava come zona di scontro ideale per via dell’esistenza di una resistenza ed un odio sordo accumulati durante gli anni della industrializzazione forzata che ha distrutto la piccola proprietà agricola e il latifondo, per dare vita a grandi complessi industriali ormai cadenti; l’esistenza di reduci della guerra mondiale che avevano combattuto con la Wehrmacht e anche con le SS contro l’odiato Stalin (oltre 250.000 uomini, ottocentomila se consideriamo logistica e retrovie), la continuità nel tempo dell’organizzazione Gehlen e dei partigiani nazionalisti, che fornirono subito dopo la concessione dell’indipendenza, una base storica e politica all’aspirazione, legittima, dell’Ucraina ad allontanarsi dalla sua ex potenza coloniale. Meglio avere il padrone a novemila Km da Kiev che a novecento. Il contrasto tra queste due Ucraine ha fornito il brodo di coltura dello scontro cui ha contribuito la generale corruttela del paese, la sua relativa vicinanza a Mosca, gli errori politici di Nikita Krusciov che fece tutta la sua carriera politica come segretario del partito ucraino e che cercò di ammansire gli ucraini con particolari riconoscimenti e annacquare il loro nazionalismo con attribuzioni di territori russofoni ( Crimea e e Donbass ) all’Ucraina con una rettifica delle frontiere verso est immettendo alcuni milioni di russi. Riteneva impensabile una secessione.

Anche il fatto che l’urto militare sia stato iniziato – e maldestramente- dai russi ha giovato alla narrativa propagandistica americana, lungamente preparata e ammirabilmente dispiegata.

B) I rapporti privilegiati dell’URSS ( che fu il primo paese a riconoscere il nuovo stato ebraico) con lo stato di Israele e il via vai creatosi con l’autorizzazione all’emigrazione, rese il paese facilmente permeabile in entrambi i sensi quella frontiera rispetto ad altre ( es il Caucaso) da parte di elementi estranei. Anche la presenza sul territorio ucraino di significative minoranze polacche , rumene e ungheresi facilitavano la creazione di spinte centrifughe.

C) la vicinanza – a partire dal 1990/91- delle frontiere occidentali e segnatamente quella polacca.

D) La riconosciuta validità della “ strategia Schulenburg“, dal nome del capo del “Dipartimento 13” del ministero degli esteri del Reich incaricato di amministrare i territori russi occupati che ha costituito un precedente. Si legga ( editore SugarCo) “Fra Hitler e Stalin” di Hans von Herwarth, segretario di Schulenburg miracolosamente scampato alla forca.

Schulenburg, dopo anni di vita in Russia, dove era nato, elaborò e mise in opera l’idea che “per battere i russi, servono altri russi e ogni guerra alla Russia, per riuscire deve essere trasformata da guerra in guerra civile”. La strategia ebbe successo, tanto che Hitler ne frenò il reclutamento per eccesso di riuscita perché – contrastava con la filosofia nazista degli untermenschen slavi – e, scoperto che Friederik Schulenburg ( e il suo interfaccia militare Claus Von Stauffenberg) erano anche l’anima dell’attentato del 20 luglio 1944 , impiccò tuttifornendo un alibi antinazista postumo agli USA per utilizzare le reti clandestine create durante la guerra dai tedeschi.

In questa mia intervista a un canale you tube di qualche settimana fa, cerco di illustrare la situazione.

n parole povere entrambi i contendenti sul terreno hanno accettato la sfida ed entrambi hanno fallito nella speranza di realizzare vittorie lampo. Siamo allo stallo. Nel primo conflitto mondiale i contendenti impiegarono quattro anni ad accorgersene.Nel secondo i tempi si allungarono per via dell’imposizione della resa senza condizioni che costrinse a combattere fino alla fine. Oggi si cerca di prolungare la guerra fornendo armi e illusioni all’Ucraina, ma evitando il coinvolgimento diretto.

Lo scopo degli USA é provocare un salasso di uomini e denari fatale alla Russia, farla diventare – uso le parole che Winston Churchill pronunziò a proposito nelle rappresaglie provocate dagli inutili attentati del SOE britannico – “ il popolo più odiato d’Europa” con drammatici resoconti di “bombardamenti sulla popolazione inerme” ( che però la propaganda dipinge come intrepido e destinato alla vittoria) e soprattutto – come spiegato da Friedman nel suo video– per scavare un abisso di morti e inimicizia tra la Germania e la Russia che abbinando tecnologie e risorse naturali relegherebbero gli USA a potenza di terza fila.

COSA SUCCEDE ADESSO: L’ALLARGAMENTO?

Nel suo sforzo di far durare la guerra gli USA rischiano di estenderla in direzioni non volute distruggendo quel che resta della Unione Europea, già mutilata della secessionista Gran Bretagna, certamente incoraggiata dal governo d’oltreatlantico. Altri sono pronti a seguire, come il gruppo di Visegrad ( filo britannico, composto da Repubblica Ceca ( che ha appena eletto presidente ìl’ex comandante NATO, Slovacchia, Polonia e l’Ungheria) e l’Italia che litigando con pretesti speciosi con la Francia, tendono a isolare Francia e Germania che sono state il nucleo motore della maldestra costruzione europea che va smantellata per evitare che seguano la Germania nella marcia verso est. Quanto conti l’Europa per gli USA, é dimostrato dall’ormai famoso ” fuck Europe” della plenipotenziaria del Dipartimento di stato, Victoria Nuland intercettata durante la predisposizione del governo filo NATO uscito dalla ” rivolta di piazza Maidan.

Continuare ad alimentare la guerra anche con sole armi e denari, comporta – oltre al pericolo di sfaldamento della coalizione occidentale – il rischio concreto di essere bombardati proprio come é accaduto nei giorni scorsi all’Iran che é apparso – negano, ma non vengono creduti – come il fornitore di armi ( Droni a basso costo e in gran numero per saturare le difese elettroniche) della Russia. Chi la fa, l’aspetti e l’anello più debole della NATO ( siamo chiamati a Bruxelles, ” l’anello di spaghetti”) siamo noi italiani.

Le punzecchiature polemiche di Putin e Medvevdev all’Italia servono a polemizzare senza attaccare la Germania che viene trascinata quasi a forza nel campo occidentale, mentre Svezia e Finlandia , consce di rappresentare un possibile prossimo fronte, hanno di molto raffreddato il loro entusiasmo verso l’adesione alla NATO e hanno inscenato roghi del Corano – e ammesso ufficialmente di finanziare il PKK – per passare la patata bollente del rifiuto a Erdogan che pur di essere protagonista accetta anche parti di ” cattivo”. La Turchia, bastione militare dell’ala destra dello schieramentoNATO, é già ostentatamente neutrale e l’unica che si adopera per trovare scappatoie negoziali. Al pericolo di allargamento dello scontro al contenzioso Serbia-Kosovo, ho dedicato un articolo tre giorni fa. In Israele sono ripresi gli scontri cruenti coi palestinesi e il Papa , quando invoca la cessazione delle ostilità ormai chiede tregua ” su tutti i fronti”.

IL RIDIMENSIONAMENTO USA?

Per parte loro, i russi hanno dato cenno, prima di volontà di prolungamento dello scontro con il reclutamento di 300.000 riservisti, adesso di prepararsi all’allargamento del conflitto con la chiamata alle armi di altri cinquecentomila uomini, ma dettaglio trascurato volutamente dagli occidentali, l’allarme nucleare lo ha dato alle truppe del Pacifico, dando a intendere che mira a rappresaglie casomai verso gli Stati Uniti e non verso l’Europa.

Gli resta da capire che gli USA non possono essere colpiti nel portafoglio, dato che stampano dollari senza limiti, ma che devono essere colpiti nell’immagine e nel prestigio come fece Ben Laden con un attacco nel cuore di Manhattan.

La Marina americana si vanta di essere la regina degli oceani come l’Inghilterra di un tempo, ma non vedo nuovi Nelson all’orizzonte. Il comandante della V flotta USA ( di stanza a Bahrein) si é suicidato di recente e la flotta del Pacifico é in ristrutturazione dopo una serie di incidenti degni della scoperta della tomba di Tutankamon.

Una iniziativa, la meno cruenta possibile, che chiuda il canale di Panama separando flotte e oceani, oppure nello stretto di Hormuz ( golfo persico) che interrompa il 30% dei flussi di greggio del mondo, distruggerebbe la politica dell’embargo e il presto dell’America in uno con le residue speranze di Biden di restare alla Casa Bianca.

SCELTE PER L’EUROPA E L’ITALIA.

Tra una Europa strutturata come oggi e gli USA, credo la scelta di giocare la carta americana sia obbligata, a condizione che sia a fronte di contropartite militari, politiche ed economiche concrete e non promesse all’inglese.. Diversa sarebbe la situazione in cui il direttorio franco tedesco si rendesse conto della necessità di riconoscere l’importanza politica, strategica ed economica di spostare il baricentro verso il sud e il mediterraneo con un ruolo centrale a Italia, Spagna, eTurchia, nonché al Maghreb che secoli di corteggiamento e le presenti risorse minerarie rendono omogeneo con noi.

L’Italia potrebbe intanto dare un segnale di serietà rinunziando da subito all’accordo con Inghilterra e Giappone per progettare l’aero da combattimento del futuro. Che senso ha dire che siamo un paese serio che tiene fede alla parola con gli alleati, quando si progetta “l’aereo del futuro” con due paesi estranei alla UE mentre si progetta contemporaneamente di “diventare l’hub energetico del centro europa? Che senso ha privarsi di una delle cinque( inadeguate e insufficienti) batterie antiaeree con cui dovremmo difendere l’intero territorio italiano per regalarla a un paese che viene bombardato da oltre un anno ( stando a quanto detto dai media)…Che senso ha annunziare previsioni economiche quando si sono sbagliate tutte quelle fatte negli ultimi venti anni? Che senso ha che il Consiglio supremo di Difesa chieda alla NATO un rafforzamento dell’ala sud dell’alleanza quando in contemporanea mandiamo i nostri carri armati nel nord Europa e i nostri aerei in Romania?

Ecco , la nostra presidente del Consiglio Meloni, fa bene a non voler scimmiottare il fascismo, ma dio ci salvi se intende (o intendono?) scimmiottare il ” La guerra continua” di Pietro Badoglio buonanima.

https://corrieredellacollera.com/2023/01/31/la-strategia-usa-nel-mondo-raccontata-da-george-friedman-nel-2015-e-da-me-nel-2022/

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IMMUNITÁ E GIURISDIZIONE ORDINARIA, di Teodoro Katte Klitsche de la Grange

Nota introduttiva

Questo saggio era stato pubblicato sul n. 1/2003 della rivista
“Palomar”. I problemi che tratta non sono per nulla cambiati. Anzi sono
stati aggravati dalla c.d. “legge Severino” onde è ancora un lavoro per
il ministro Nordio.

 

IMMUNITÁ E GIURISDIZIONE ORDINARIA

  1. È merito – non dei minori – di Berlusconi aver posto, dopo la decisione della Cassazione sul legittimo sospetto, il problema dell’immunità degli organi apicali dello Stato in termini politici concreti e reali – ovvero di potere – ciò che a finire tra Commissioni (parlamentari), leggine, codicilli, causidici, girotondi e “mozioni degli affetti” ha tutto da perdere in chiarezza e importanza. In sostanza le questioni poste dal presidente del Consiglio sono semplici: se le persone preposte o componenti gli organi supremi dello Stato possano essere giudicate, con la conseguenza, possibile, della condanna e detenzione mentre sono in carica. E, correlativamente, se la loro permanenza o rimozione nella carica non sia di competenza esclusiva del corpo elettorale, cioè dell’ “organo” in cui si esercita, primariamente, quella sovranità del popolo, fondamento della Costituzione repubblicana (art. 1).

A sentire il coro che si leva dai girotondi e dalla nomenklatura del centrosinistra, la risposta è semplice: i ladri devono stare in galera. Il che, in concreto, significa che in tale (scomoda) posizione deve stare chi le Procure – e spesso qualche Tribunale – giudicano tale. Il fatto che, forse per caso, ma forse no, i suddetti “ladri” siano coloro che occupano le poltrone da cui hanno da poco allontanato molti dei coristi, non li turba. Evidentemente la maestà della Giustizia è, in questi casi, considerata, la migliore delle derivazioni (nel senso di Pareto) perché copre, col suo ingombro, il più evidente e umano tra i residui: quello di potere, in termini filosofici elevato da Nietzsche a Wille zur macht, e che con saggezza pari all’efficacia dell’espressione il buon senso siciliano ha riassunto nel detto: cumannari è megghiu cà….

A confutare quanto ripetuto dall’opposizione basterebbe, forse, tale constatazione. Ma dato che, indipendentemente da chi occupa certe posizioni di potere, il pensiero politico e costituzionale moderno, praticamente unanime, sostiene proprio il contrario di ciò ch’è urlato “in tondo”, e, in particolare, che quanto è auspicato (per Berlusconi e i suoi sodali, s’intende), è escluso in uno Stato ben ordinato, ci sembra utile ricordarne le ragioni.

  1. A ricercare i motivi per cui un organo sovrano, e chi vi è preposto, sia “protetto” (cioè sia, in misura e modi variabili, sottratto alla giurisdizione) si ha l’imbarazzo della scelta. Si può partire dall’immunità degli organi sovrani, o dal principio politico della democrazia; dalla distinzione dei poteri o dal carattere rappresentativo degli organi (in maggiore o minore misura) immuni.

Prendendo le mosse dal principio (liberale) della distinzione dei poteri, recepito da tutte le Costituzioni borghesi (in caso contrario, non sarebbero liberali), come il potere legislativo non può cassare o riformare sentenze o provvedimenti di Giudici, così quello giudiziario non può intervenire né sulle Camere, né sui loro atti e procedimenti, né sulle persone dei deputati (senza autorizzazione della Camera stessa). La prima costituzione europea moderna, cioè quella francese del 1791, già lo disponeva (titolo III, cap. I, art. 3) prescrivendo che i tribunali non potessero interferire nell’esercizio del potere legislativo né sospendere l’attuazione delle leggi: prescrizioni similari, e quelle sull’immunità dei parlamentari da arresti e processi erano riportate praticamente in tutte le costituzioni europee successive, degli Stati liberali prima e (poi) democratico-liberali. La ragione era semplice e chiara: la libertà politica non sopporta sovrapposizioni e concentrazioni di poteri (o di atti) riconducibili a due funzioni distinte. È per quella altrettanto pericoloso un Parlamento il quale riformi una sentenza o ordini un arresto che un Giudice il quale disapplichi una legge e mandi in carcere un deputato, perché ambedue queste “invasioni” concentrano in un solo potere atti pertinenti a diverse e distinte funzioni. Per cui al principio (liberale) della distinzione dei poteri è connaturale impedire che questi interferiscano tra loro, se non in casi tassativi e limitati (basati sulla distinzione di Montesquieu tra pouvoir de statuer e pouvoir d’empêcher).

Anche se il senso è diverso, dal principio politico democratico si desume la stessa “interdizione”. Qui non viene tanto in rilievo – anche se comunque ha un peso – la circostanza che i giudici, in un ordinamento come il nostro, o, in generale, degli Stati continentali europei, costituiscono un corpo burocratico di funzionari reclutati per concorso, e quindi, per tale carattere, disomogeneo al principio della democrazia, come scrive Carl Schmitt[1], e ripetuto da Berlusconi. Perché una giurisdizione esercitata da magistrati elettivi (come in molti stati U.S.A.) è legittimata dal “popolo” quanto il deputato[2].

Piuttosto in tal caso viene in considerazione, per l’appunto, la contrapposizione tra giudizio di uno o più funzionari, e quello del “popolo” stesso. In fondo l’aveva acutamente notato Machiavelli[3]quando scriveva che “lo accusare uno potente a otto giudici in una repubblica non basta; bisogna che i giudici siano assai, perché i pochi sempre fanno a modo de’ pochi. Tanto che se tali modi vi fussono stati, o i cittadini lo arebbono accusato, vivendo lui male, e per tale mezzo, senza far venire l’esercito spagnolo, arebbono sfogato l’animo loro; o, non vivendo male, non arebbono avuto ardire operargli contro”. Il Segretario fiorentino aveva capito che, in una Repubblica (da intendersi nel caso come una forma costituzionale se non democratica, con elementi di democrazia) un tribunale “ordinario” che giudichi un politico configura un potenziale (ma assai probabile) caso di conflitto costituzionale e, ancor più facilmente, origina un conflitto politico. Perché delle due l’una: o il giudizio del Tribunale è conforme a quello della maggioranza e allora i partigiani dell’eventuale accusato potranno sempre additare come esempio di giustizia estranea all’ordinamento democratico il verdetto di alcuni funzionari su un uomo comunque popolare; o non lo è, e si apre un contrasto, assai più grave, tra la volontà di tutti (o quasi) e il giudizio di pochissimi. Perciò occorre trovare “alcuno modo di accuse contro all’ambizione de’ potenti cittadini”, ovvero una strada che possa evitare i conflitti che la giustizia ordinaria genera quando oggetto del giudizio è un affare (e/o un uomo) politico.

L’impossibilità, in grandi democrazie come quelle moderne, di giudizi nell’areopago, ha determinato che la giustizia “politica” sia normalmente esercitata, con procedure (e da organi speciali) o comunque presenti vistose deroghe od eccezioni agli “ordini” comuni. In genere le Carte costituzionali delle democrazie borghesi prevedono la competenza a giudicare di una seconda Camera (il modello ne è stato la Camera dei Lords inglese) come il Senato U.S.A., o il nostro nello Statuto albertino o quello della Terza Repubblica Francese; ovvero di un giudice speciale (come talvolta le Corti costituzionali); l’esercizio dell’azione penale è riservato ad organi politici (la Camera dei rappresentanti negli U.S.A., o quella dei deputati in Italia; ambedue le camere in Francia nella Costituzione vigente).

Immunità dalla giustizia ordinaria, variamente configurate, accompagnano di solito tali “status” e “ordini” eccezionali[4]; anche le norme definenti i crimini “politici” di solito sono formulate in guisa che l’interprete abbia una certa “discrezionalità” nel determinarne l’ambito[5]. Per cui si può agevolmente constatare come, nelle democrazie moderne, è normale che la giustizia “politica” esercitata su ministri, Capi di Stato, parlamentari e talvolta funzionari, lo sia in forme e procedure extra-ordinem: l’unico connotato comune ai vari ordinamenti, invero, è quello, negativo, di escludere (in tutto o in parte) la competenza dei Tribunali ordinari. Nessuno prevede che ministri, deputati o Capi di Stato possano essere giudicati da una Corte ordinaria con il comune procedimento. In questo può affermarsi che l’intuizione di Machiavelli ha avuto successo. La natura “politica” del processo, delle parti e del suo oggetto (e il suo collegamento con decisioni popolari) prevale sul principio democratico dell’isonomia; il rapporto con la volontà e le scelte popolari è tuttavia, per lo più confermato dal ruolo giudiziario che vengono ad assumere organi politici, spesso legittimati anch’essi democraticamente, perché elettivi.

Alle stesse conclusioni ai può giungere partendo dal principio – e dal concetto – di rappresentanza politica. Questa comporta la distinzione, già chiaramente formulata nella Costituzione francese del 1791 (tit. III, cap. IV, sez. 2, art. 2) in base alla quale non tutti i poteri dello Stato sono rappresentativi, e non tutti i funzionari dello Stato sono dei rappresentanti. L’uno e l’altro sono riservati a uno o pochissimi organi (e loro titolari): il Capo dello Stato, le Camere, il Governo.

Ad esser rappresentata è l’unità politica, intesa come totalità; funzione della rappresentanza è far esistere ed agire la comunità. Senza rappresentanza – o senza l’opposto principio di forma, cioè l’identità – una società politica non può agire. Senza i poteri rappresentativi, che la Costituzione italiana vigente identifica esplicitamente nel Capo dello Stato e nelle Camere, la Repubblica non esisterebbe neppure: ancor meno ciò che non esiste (e viene ad esistenza solo quando c’è una rappresentanza) potrebbe agire. Da una parte, ma con ciò entriamo nel profilo successivo, ciò comporta che coloro che rappresentano (anche se a giudizio di taluni indegnamente) l’unità e la totalità, non possono essere giudicati da chi non è rappresentante, ma esercita soltanto un pouvoir commis; dall’altra che un G.I.P. che ordinasse l’arresto o un Tribunale che condannasse un solo deputato, e più ancora il Capo dello Stato o un congruo numero di parlamentari, decapiterebbe lo Stato, togliendogli – nei casi più gravi – la capacità di agire, e negli altri, influendo sulle decisioni degli organi rappresentativi[6].

L’argomento decisivo per spiegare l’ “immunità” di determinati organi (e dei loro titolari e componenti) è comunque di essere “sovrani”. Senza voler entrare nella tematica della sovranità moderna (cioè della sovranità tout-court) fin dal medioevo è stato individuato un organo (o un soggetto) il quale decideva in ultima istanza; anche prima che il concetto moderno di sovranità fosse elaborato, l’identificazione di tale organo (o soggetto) era assai importante, perché legittimante o meno lo justum bellum[7]. Tale criterio d’identificazione dell’organo “sovrano” era ripetuto spesso nella filosofia e nel diritto pubblico moderno. Era sviluppato da Hobbes e da de Maistre, ma in effetti presente in altri pensatori, tra cui Kant e Locke, in quest’ultimo nella forma negativa dell’impossibilità che vi sia un sovrano laddove una controversia non è decidibile da un’autorità. Corollario della stessa era che non può esistere, in un’unità politica, la compresenza di più poteri “sovrani”. Tra tutti coloro che hanno sostenuto l’impossibilità di concepire più sovrani in un’unità politica, è importante ricordare, per l’estrema chiarezza, il pensiero del giovane Marx, secondo il quale “è proprio del concetto di sovranità che questa non possa avere doppia e addirittura opposta esistenza”, per cui la questione che si pone in concreto è “sovranità del popolo o del monarca”: infatti “se la sovranità esiste nel monarca, è una sciocchezza parlare di una sovranità contraria esistente nel popolo”[8]. Nucleo di tale teoria è che vi è nello Stato un organo (un soggetto) che giudica ma non può essere giudicato da alcuno; che ha “tutti i diritti e nessun dovere (coattivo)”[9].

Marx sintetizzava così in poche parole il profilo più importante del pensiero politico  sulla sovranità: che di (organi o soggetti) sovrani, in una unità politica, ve ne può essere uno solo. Questa è la ragione decisiva per ritenere che se a un altro potere (o soggetto) fosse consentito esercitare una coazione sul sovrano, questo non sarebbe più tale, ma lo sarebbe l’altro. Onde evitare questa “traslatio imperii” (la quale peraltro potrebbe assumere anche moto …pendolare), gli organi sovrani sono sottratti (in tutto o in parte) alla giurisdizione ordinaria. E’ quanto sosteneva (tra gli altri) un Presidente del Consiglio italiano, e fine giurista, come Vittorio Emanuele Orlando, in un saggio di settant’anni orsono. Scriveva infatti: “Che fra gli organi onde lo Stato manifesta la sua volontà e la attua, uno ve ne sia che su tutti gli altri sovrasta, superiorem non recognoscens, e che non potendo appunto ammettere un superiore (chè allora la potestà suprema si trasporterebbe in quest’altro) deve essere sottratto ad ogni giurisdizione e diventa, per ciò stesso, inviolabile ed irresponsabile, è noto[10] (il corsivo è nostro). Analoga spiegazione era stata data da Thomas Hobbes “ Infine, dal fatto che ciascuno dei cittadini sottomette la sua volontà alla volontà di colui che ha il potere supremo sullo Stato, così da non potere usare delle proprie forze contro di lui, segue evidentemente che qualunque cosa costui faccia, non può essere punito[11] (il corsivo è nostro). E alla stessa conclusione si arriva a leggere Bodin: secondo il quale “Le prerogative sovrane devono essere tali da non poter convenire altro che al principe sovrano; se anche i sudditi possono essere partecipi, esse cessano di essere tali” perché “ciò significa che questo, da suo servitore che era, diverrà suo compagno, e così facendo egli rinuncerà alla sovranità; perché la qualifica di sovrano, ossia posto al di sopra di tutti i sudditi, non può convenire a chi di un suo suddito faccia un compagno”[12].

D’altra parte una delle “marques de souvraineté” secondo Bodin non è rendere giustizia, ma giudicare in ultima istanza. Chi giudica in ultima istanza non può – in tutta evidenza – essere utilmente giudicato perché un eventuale giudizio sarebbe comunque sottoposto alla revisione sovrana. Ammettere poi che si possa giudicare in ultima istanza in modo difforme dal sovrano, significa dividere la sovranità. Anche se Bodin viveva agli albori dello Stato moderno, così diverso dall’attuale, si rinviene anche nel suo pensiero la soluzione (negativa) del problema: che cioè, ad essere decisivo, è sempre il giudizio del (popolo) sovrano. E che questo non può essere oggetto di riesame da altri perché, in tal caso non sarebbe più sovrano; o, se altri giudica, il relativo giudizio è ininfluente rispetto a quello del sovrano.

L’immunità, indipendentemente dalla dibattuta questione se ad essere sovrano sia un potere costituito, o il potere costituente, l’organo o il popolo – che, relativamente alla questione qui esaminata, è ininfluente – compete, come sosteneva Orlando, a quell’organo (o organi) apicali, superiorem non recognoscens nell’ordinamento dello Stato. E, come riteneva Santi Romano, relativamente alle immunità parlamentari, “Il fondamento di tutte queste immunità dei senatori e dei deputati è da ricercarsi non soltanto nel bisogno di tutelare il potere legislativo da ogni attentato del potere esecutivo e nella convenienza di non distrarre senza gravi motivi i membri del Parlamento dall’esercizio delle loro funzioni, ma nel principio più generale dell’indipendenza e dell’autonomia delle Camere verso tutti gli altri organi e poteri dello Stato: di tale principio esse costituiscono una delle varie applicazioni o, meglio, una particolare guarentigia”[13]; per cui non costituiscono eccezioni, ma applicazione di un “principio più generale”.

Il pregio di questa concezione, nelle sue varie formulazioni e articolazioni, è di spiegare la ragione dell’immunità per qualsiasi tipo e forma di Stato, indipendentemente dai principi, valori e forme di governo di ciascuno: non è possibile che in uno Stato (ben) ordinato un giudice, anche “supremo”, possa giudicare e condannare un componente dell’organo “sovrano”, sia che si tratti del parlamentare o del Capo dello Stato in una democrazia borghese, del componente del Soviet Supremo in una delle (defunte) democrazie popolari, ovvero del Fürher, Caudillo o Duce in uno Stato fascista o nazista. Se lo fa, ciò significa soltanto che ad essere “sovrano” è il Tribunale e non il Soviet Supremo, il Parlamento, o il Conducator.

Cosa d’altra parte non ignota al diritto pubblico: in talune costituzioni non moderne, l’autorità “suprema” competeva a un organo le cui funzioni originarie (e prevalenti) erano giudiziarie; sviluppando le quali aveva assunto un primato politico. E’ il caso, ad esempio, del Consiglio dei Dieci a Venezia.

  1. A cercare le ragioni (politiche) per cui la regola generale è quella esposta da Orlando e non l’eccezione criticata si ha l’imbarazzo della scelta. Ma il motivo principale è la situazione d’indipendenza in cui deve trovarsi l’organo sovrano, per garantire quella della comunità rappresentata. Senza l’indipendenza da altri poteri, dall’esterno ma anche all’interno, di quello, non è possibile garantirla di questa: e lo stesso vale per la libertà di agire che ne è la prima, necessaria, conseguenza. Un organo dipendente e perciò non libero di agire non è in grado di tutelare l’esistenza della comunità.

In una democrazia politica l’unica dipendenza che quell’organo può avere è verso il popolo, organizzato nel corpo elettorale. Se dipende – in tutto o, verosimilmente, anche solo in parte – da altri (a parte le inidoneità oggettive degli uffici e dei procedimenti giudiziari, aggravate dal non essere legittimati dal suffragio popolare), ciò costituisce una grave vulnus al principio democratico, perché la volontà e la scelta del sovrano sarebbero soggette al consenso di chi da quello non dipende.

In termini politici la soluzione è semplice: vuol dire rispondere alle domande conseguenti all’alternativa di Marx: chi comanda? Il popolo o i Tribunali? La risposta suggerita (anche se talvolta timidamente, e soprattutto indirettamente) è quella che si può ascoltare da (alcuni) esponenti del centrosinistra: se condannato si deve dimettere. Il che significa, in senso proprio ed esplicito, che a decidere chi deve governare non è il corpo elettorale, ma i Tribunali. I quali così vedono riconoscersi un potere di veto  sulle scelte popolari. La seconda alternativa – meno frequentata, e il perché lo si capisce bene – è sostenere che i processi facciano il loro corso, e il condannato, legittimato dai suffragi, rimanga al suo posto. Era la soluzione formulata che un noto giurista come Léon Duguit e sulla quale il nostro Orlando ironizzava: perché la conseguenza sarebbe che il Presidente del Consiglio dovrebbe ricevere gli ambasciatori e i premiers stranieri invece che a Palazzo Chigi, a Rebibbia. Dove presiederebbe anche il Consiglio dei Ministri. La comicità delle conseguenze evidenzia quella della tesi che le presuppone.

La quale, malgrado il protestar contrario, e proprio nella sua formulazione “il condannato dovrebbe dimettersi” manifesta il suo carattere politico, nel senso specifico di “politica di partito” o “politicante”. Perché risponde da un lato alla questione nel senso più comodo per chi si trova in sintonia con certi (e non pochi) uffici  giudiziari; dall’altro, e più importante, ne costituisce la risposta inversa, che a decidere non debba essere il popolo, ma il potere giudiziario. Stravolgendo così sia il principio democratico in modo radicale, sia la governabilità, per il conflitto che genera tra poteri, uno dei quali legittimato dal suffragio e l’altro no.

  1. Insistendo nel considerare la tesi criticata come non strumentale, essa può essere ricondotta al tentativo, tante volte ripetuto, di giuridificare la politica (quindi la sovranità). Anzi di questa tesi, ne costituisce una parte, un paragrafo piccolo perché profondamente incoerente: quello consistente nel giudiziarizzare la politica, diametralmente opposto al carattere peculiare della sovranità: di essere al di là del diritto. Ovvero, in altri termini, di potervi rientrare ma come assoluto. Già tale connotato era stato individuato da Bodin: la sovranità è “il potere assoluto e perpetuo di uno Stato”, rafforzato dal ricordato paragone tra Dio e Sovrano. Kant ne da poi la definizione (giuridicamente) più corretta: colui che “Nello Stato ha verso i sudditi soltanto diritti e nessun dovere (coattivo)” (anche questa analoga alla definizione che da di Dio)[14] e specifica che “non può essere contenuto nella costituzione nessun articolo che renda possibile… a un potere di opporsi a colui che possiede il comando supremo … che renda possibile limitarne il potere” perché “allora non è quello, ma questo il supremo detentore del comando: il che è contraddittorio”[15]. Ora il diritto ha una dimensione relativa: ai soggetti, anche se diversi in diritti, facoltà, obblighi, competono sia situazioni giuridiche attive che passive. A ogni potere corrisponde un obbligo, un dovere o una responsabilità. Il sovrano, in questo senso è l’eccezione che tuttavia rende possibile (anche) la vigenza di un sistema di norme e rapporti formali, attraverso (l’instaurazione e) il mantenimento dell’ordine. L’assolutezza del comando sovrano (e del concetto) ha indotto il costituzionalismo (liberale) a ricercare i sistemi per bilanciarlo con il diritto: tentativo in gran parte riuscito, ma non totalmente, perché è impossibile giuridificare tutto[16]. In fondo proprio a Locke, uno dei “padri” del costituzionalismo moderno, dobbiamo l’affermazione che in certi casi non v’è giudice sulla terra, ma si ha il diritto di appellarsi al cielo: cioè di ribellarsi e risolvere la controversia con la forza. La contraria tesi si fonda sull’illusione che il diritto sia co-estensivo alla politica: che possa regolare tutto, inquadrandola in un sistema di norme applicabili e “calcolabili”. Ma come per la sovranità (e i suoi atti) così non è in tutti i casi più importanti e politicamente decisivi: per esempio la guerra e la pace. Si può prevedere nella Costituzione chi ha il diritto di dichiarare la guerra, e il procedimento relativo, ma non ciò che più conta: l’identificazione del nemico e l’obiettivo politico. Del pari per la pace: la decisione se concluderla – e a quali condizioni – è necessariamente rimessa all’arbitrio del competente potere costituito (che in democrazia risponde verso il corpo elettorale); ma non è certo concepibile prevedere per legge come, quando e con chi concluderla.

Di questa utopia, la giudiziarizzazione è il capitolo più incoerente: perché se non può esistere una legge per i “casi alti” della politica, tantomeno può esistere un Tribunale che giudichi in base a norme  “misurabili” (cioè come ci si aspetta che giudichi). Se, d’altra parte, il Tribunale decidesse (rettamente) applicando norme di diritto comune non è detto che gli effetti del giudizio siano politicamente opportuni; se invece tenendo d’occhio la convenienza politica e non i “sillogismi” giudiziari, tale attività costituirebbe giustizia politica (e non un giudizio “ordinario”), in cui l’aggettivo, com’è noto, prevale sempre sul sostantivo. E non sarebbe così il rimedio auspicato ma – al contrario – inutile e quasi sicuramente dannoso[17]. Che il tutto sia comunque sostenuto ed auspicato non deve meravigliare, perché rientra in quella tendenza prevalente nella sinistra (ma non soltanto di questa) d’immaginare dei modelli di società e/o di Stato ideali e di misurare la realtà in base ai medesimi. Già un simile modo d’agire era stigmatizzato da Machiavelli “E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti e conosciuti essere in vero; perché elli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si dovrebbe fare, impara piu tosto la ruina che la preservazione sua”.

Perché così si prende a misura della realtà il proprio arbitrio soggettivo e non la ragione oggettiva.

Molto meglio seguire Hegel, il quale, com’è noto oltre a ritenere quello (l’arbitrio) capace solo di gonfiare le teste[18], scriveva che la scienza dello Stato non sia altro “se non il tentativo d’intendere e presentare lo Stato come cosa razionale in se…..deve restar molto lontano dal dover costruire uno Stato come dev’essere” perché “intendere ciò che è, è il compito della filosofia, perché ciò che è, è la ragione”[19]. A prescindere da come (e in che misura) si voglia considerare la “coincidenza” di razionale e reale, è un fatto che nessun ordinamento democratico-liberale prevede che un Tribunale ordinario condanni un Capo dello Stato o di Governo, o anche un parlamentare, come se si trattasse di un caso ordinario, secondo il diritto comune. E compito dell’interprete è di comprenderne le ragioni. Piuttosto che erigere il proprio arbitrio (e i propri interessi) a massima dell’agire universale, è più (umile e)  utile  chiedersi perché l’agire universale è del tutto opposto alle proprie valutazioni soggettive .

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] Verfassungslehre, trad. it., Milano 1984, p. 357 ss. 360 ss.

[2] Anche se in tal caso c’è da chiedersi se sia da considerare “popolo” nel senso della democrazia politica, il collegio elettorale che sceglie il giudice o il deputato. Ma il problema ci porterebbe lontano ed               esula dei limiti del presente scritto.

[3] Discorsi I, 7.

[4] Ricordiamo alcune disposizioni costituzionali europee sull’immunità dei parlamentari: art. 26 Cost. francese; art. 46 Cost. tedesca; art. 71 Cost. spagnola; art. 45 Cost. belga.

[5] V. Benjamin Constant, ora in Principi di Politica, Roma 1970, p. 121, secondo il quale la “discrezionalità” e l’istituzione di Tribunali speciali avevano (anche) la funzione di preservarli da tutte le pressioni popolari.

[6] Machiavelli (op. cit.) sostiene che senza quei rimedi straordinari, la conclusione dei conflitti  può essere la chiamata di “forze estranee” cioè degli stranieri. Machiavelli non conosceva il concetto di rappresentanza politica (in nuce nella Riforma, sviluppato poi nei secoli XVII e XVIII), ma quanto prefigura potrebbe ripetersi in un conflitto che veda poteri “commis” contrapposti a quelli rappresentativi, impossibilitati dai primi a funzionare, con un terzo “esterno” che se ne giova.

[7] Già è cennato in S. Tommaso Summa Th., II, II, p. 40, art. 1; è sviluppato nella Tarda Scolastica v. tra gli altri F. Suarez De charitate disp. 13 De bello Sectio II, S. Roberto Bellarmino ora in Scritti politici, Bologna 1950, p. 260.

[8] V. Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, Roma 1983, p. 40.

[9] V. Kant, Die Methaphysik der Sitten, trad. it., Bari 1973, p. 149.

[10] V. E. Orlando Immunità parlamentari ed organi sovrani, Rivista di diritto pubblico,  XXV Roma 1933, ora in Diritto pubblico generale, Milano 1954, p. 487. E prosegue: “circa gli attributi ed i caratteri dell’organo sovrano come furono definiti di sopra, non vi sono gravi difficoltà, quando l’ordinamento ne riconosce ed ammette uno solo: e non importa se questo unico organo sovrano sia, in relazione alle varie forme di governo, una persona fisica (monarchia), o un collegio, e questo sia costituito da componenti di una classe privilegiata o dalla universalità dei cittadini (aristocrazie o democrazie assolute)” e specifica: “Si giustifica pertanto la nostra teoria la quale può riassumersi così: non si può dare organo sovrano senza che esso sia coperto della garanzia della inviolabilità, la quale importa: essere sottratto ad ogni giurisdizione capace di esercitare una coazione fisica sulla persona. Naturalmente, come avviene sempre nel mondo del diritto, questo principio generale deve, nell’applicazione, adattarsi alle manifestazioni concrete della realtà costituzionale, assumendo forme diverse senza però venir mai meno in se stesso”.

Se si tratta di organo collegiale “come sono le assemblee parlamentari, l’inviolabilità fisica non può normalmente porsi se non in via indiretta, attraverso l’inviolabilità dei membri; ma, d’altra parte, non è necessario e sarebbe anzi sconveniente, che questa forma di inviolabilità del collegio nelle persone dei suoi membri fosse così assoluta e così rigida come deve essere in rapporto a una persona fisica”. Per cui “Attraverso tutte queste differenze, per quanto importanti possano essere, è però sempre lo stesso principio che si applica, riaffermando l’inviolabilità  come qualità inseparabile dell’organo sovrano: diritto comune e non diritto di eccezione, poiché deriva per virtù di semplice logica giuridica dalla stessa maniera di essere dell’ordinamento” perché ad essere “rigorosamente esatti” non è tanto che il Parlamento (e gli altri organi sovrani) si sottraggono ad ogni giurisdizione “ ma bensì, che compete ad esso (comprendendo il Re) la giurisdizione suprema e che tale sua qualità sia sufficiente perché possa risolvere senza concorso di un’altra autorità, le questioni della sua prerogativa”, op. cit. p. 495 ss..

[11] De Cive, trad it., Roma 1981, p. 135.

[12] Six livres de la Republique, I, X, trad. it., Torino 1988, pp. 482 e 483 e prosegue “come il gran Dio sovrano non può fare un altro Dio simile a lui, poiché egli è infinito e non vi possono essere due infiniti, come si dimostra secondo ragioni naturali e necessarie, così possiamo dire che quel principe che abbiamo detto essere l’immagine di Dio non può rendere un suddito uguale a se stesso senza con ciò annullare il suo stesso potere”.

[13] Corso di diritto costituzionale, Padova 1928, p. 222.

[14] Op. cit. p. 49.

[15] Op. cit. p. 149-150.

[16] Come scrive De Maistre sul diritto di resistenza “quando si è deciso … che si ha diritto di resistere al potere sovrano … non si è concluso ancora nulla, perché resta da sapere quando può esercitarsi tale diritto, e chi ha il diritto di esercitarlo…” e prosegue “Quale potere nello Stato ha diritto di decidere che è giunto il momento di resistere? Se tale Tribunale preesiste è già parte della sovranità, e contestandone l’altra parte l’annienta. Se non esiste prima, da quale Tribunale questo Tribunale sarà costituito?” Du Pape, lib. II, cap. 2.

[17] Ciò era stato visto distintamente da De Maistre, quando scriveva che in una Costituzione “ Que ce qu’il y a de plus essentiel, de plus intrinsèquement constitutionnel et de véritablement fondamental, n’est j’amais écrit, et même ne saurait l’être” v. Des constitutions politiques Paris 1814 p. 26.

[18] V. Die Phänomenologie des Geistes V, B, C.

[19] Prefazione a Grundlienien der Philosophie des Rechts.

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Massimo Morigi, Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo 3a parte

Massimo Morigi (per chi non volesse rileggere l’introduzione passare direttamente al link da pag 72)

LO STATO DELLE COSE DELL’ULTIMA RELIGIONE POLITICA ITALIANA: IL MAZZINIANESIMO

UNA RIFLESSIONE TRANSPOLITICA PER IL SUO LEGITTIMO EREDE: IL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO. PRESENTAZIONE DI TRENT’ANNI DOPO ALLA DIALETTICA OLISTICO-ESPRESSIVA-STRATEGICA-CONFLITTUALE DE ARNALDO GUERRINI. NOTE BIOGRAFICHE, DOCUMENTI E TESTIMONIANZE PER UNA STORIA DELL’ ANTIFASCISMO DEMOCRATICO ROMAGNOLO

INTRODUZIONE

Se accostiamo «Io sono una forza del Passato./Solo nella tradizione è il mio amore./Vengo dai ruderi, dalle chiese,/dalle pale d’altare, dai borghi/abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,/dove sono vissuti i fratelli.» che è la definizione della poetica e della Weltanschauung di Pier Paolo Pasolini con «Mi fanno male i capelli, gli occhi, la gola, la bocca… Dimmi se sto tremando!» criptica, surreale ma al tempo stesso lancinante e terribilmente espressiva dichiarazione del disagio del personaggio di Giuliana, interpretata da Monica Vitti, nel film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni e citazioni entrambe impiegate in questo Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo. Una riflessione transpolitica per il suo legittimo erede: il Repubblicanesimo Geopolitico. Presentazione di trent’anni dopo alla dialettica olistico-espressiva-strategica-conflittuale de Arnaldo Guerrini. Note biografiche, documenti e testimonianze per una storia dell’antifascismo democratico romagnolo, abbiamo immediatamente l’immagine del particolare metodo dialettico impiegato da Massimo Morigi e di cui si aveva avuto una prova anche nello Stato delle Cose della Geopolitica. Presentazione di Quaranta, Trenta, Vent’anni dopo a le Relazioni fra l’Italia e il Portogallo durante il periodo fascista. Nascita estetico-emotiva del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico originando dall’eterotopia poetica, culturale e politica del Portogallo, anche questo pubblicato a puntate sull’ “Italia e il Mondo”, che è, oltre ad essere un metodo dialettico che, come più occasioni ribadito da Morigi, oltre a non riconoscere alcuna validità gnoseologico-epistemologica alla suddivisione fra c.d. scienze della natura e scienze umane storico-sociali, entrambe unificate, secondo Morigi, nel paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico, proprio in ragione del suo approccio olistico, non distingue nemmeno fra dato storico-sociale e fra il suo stesso dato biografico e cercando di capire, assieme ai destinatari dei suoi messaggi, come questo dato biografico lo abbia portato alle sue odierne elaborazioni teoriche. A questo punto si potrebbe obiettare che in Morigi prevale sull’analisi teorica una sorta di deteriore biografismo, dove il momento dell’analisi viene travolto da una non richiesto lirismo. Niente di più errato. Comunque si voglia giudicare il del tutto inedito paradigma dialettico del Nostro, e noi comunque lo giudichiamo come l’unico tentativo veramente serio compiuto dalla fine del grande idealismo italiano di Gentile e Croce di far rivivere in Italia e nel resto del mondo il metodo dialettico, la manifestazione lirica cui Morigi rende conto a sé stesso prima ancora che ai lettori non sono assolutamente le sue interiori ed intime inclinazioni che giustamente egli ritiene non debbano interessare a nessuno ma si tratta del rendere conto, anche pubblicamente, del suo culturale Bildungsroman, dove nello Stato delle Cose della Geopolitica veniva focalizzato nella cultura portoghese, nella saudade di questo paese e, infine nella filmografia di Wim Wenders, in specie in quella che aveva come sfondo il Portogallo, Lo Stato delle Cose e Lisbon Story, mentre ora, Nello Stato delle Cose dell’ultima religione politica: il Mazzinianesimo si tratta della filmografia d’autore degli anni Sessanta del secolo che ci ha lasciato, cioè di quella di Federico Fellini, di Michelangelo Antonioni e di Pier Paolo Pasolini. E se è vero, come è vero, che il ricorso a questo strumento per l’interpretazione della crisi politica non solo del movimento mazziniano e del partito che tuttora vuole presentarsi come la sua attuazione politica è stata anche indotta dal fatto che sulla crisi della religione politica del mazzinianesimo e del partito che ancora vuole esprimere ed intestarsi questa ideologia non è stato, in fondo, scritto praticamente alcunché di veramente interessante e significativo (e non è questa la sede per contestare questa definizione di identità politica del PRI ed anche Morigi, anche per una sorta di rispetto verso un partito politico in cui militò in un lontano passato – e di cui, fra l’altro, dimostra in questo saggio introduttivo di essere un profondissimo conoscitore e, quindi, inevitabilmente quasi un “appassionato”–, è tutt’altro che acido rispetto a questa autodefinizione identitaria) ma anche della crisi politico-sistemica più generale che ha investito il nostro paese è, sulla scorta della sua dialettica totalizzante del tutto giustificata e conseguente, a noi lettori appare chiaro – ma anche Morigi, ne siamo sicuri ne è pienamente consapevole – che la filmografia espressamente citata in questo scritto di Morigi è anch’essa una parte importante del romanzo di formazione culturale di Morigi che, proprio in virtù della particolare dialettica totalizzante da lui elaborata può essere impiegata per dare conto sia del suo metodo dialettico che della crisi politica del sistema politico Italia, filmografia italiana che, sottintende sempre è stato quindi anche decisiva, insieme alle suggestioni portoghesi e wendersiane, per la definizione del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico.

Un’ultima notazione. Come da sottotitolo Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo è l’introduzione del saggio di Massimo Morigi, Arnaldo Guerrini. Note biografiche, documenti e testimonianze per una storia dell’antifascismo democratico romagnolo, edito nel 1989 e che oltre ad essere la biografia dell’antifascista repubblicano e mazziniano Arnaldo Guerrini, già più di trent’anni fa esprimeva, come ci dice il suo autore e come potranno vedere i lettori dell’ “Italia e il Mondo” la consapevolezza della crisi del sistema politico italiano che sarebbe esplosa con Mani pulite. Questa biografia, assieme ovviamente al suo scritto introduttivo sullo Stato delle cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo, su espresso desiderio dell’autore viene pubblicata in quattro puntate a partire da questo mese di gennaio del 2023, in una sorta di augurio di buon anno nuovo per l’acquisizione di una rinnovata consapevolezza politica per terminare con l’ultima puntata da pubblicarsi in occasione del IX Febbraio, data dell’anniversario della nascita della Repubblica Romana del 1849 e che per tutti i mazziniani, siano o no ancora facenti parte del Partito Repubblicano Italiano, è la ricorrenza più importante di tutto il calendario, ancora più importante, siano o no questi repubblicani credenti nelle varie denominazioni del cristianesimo, del Natale cristiano. Ci sarebbe così allora ancora molto da dire sulle religioni politiche e su come il Repubblicanesimo Geopolitico nel suo olismo dialettico, voglia essere, come dice espressamente Morigi, una prosecuzione ed evoluzione per i nostri tempi dei principi repubblicani di Giuseppe Mazzini…

Buona lettura

Giuseppe Germinario

Segue sul link sottostante a partire da pag 72 (per chi ha già letto la prima parte)

TERZA PARTE DELLO STATO DELLE COSE ULTIMA RELIGIONE POLITICA

Massimo Morigi, Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo 2a parte

Massimo Morigi (per chi non volesse rileggere l’introduzione passare direttamente al link da pag 73)

LO STATO DELLE COSE DELL’ULTIMA RELIGIONE POLITICA ITALIANA: IL MAZZINIANESIMO

UNA RIFLESSIONE TRANSPOLITICA PER IL SUO LEGITTIMO EREDE: IL REPUBBLICANESIMO GEOPOLITICO. PRESENTAZIONE DI TRENT’ANNI DOPO ALLA DIALETTICA OLISTICO-ESPRESSIVA-STRATEGICA-CONFLITTUALE DE ARNALDO GUERRINI. NOTE BIOGRAFICHE, DOCUMENTI E TESTIMONIANZE PER UNA STORIA DELL’ ANTIFASCISMO DEMOCRATICO ROMAGNOLO

INTRODUZIONE

Se accostiamo «Io sono una forza del Passato./Solo nella tradizione è il mio amore./Vengo dai ruderi, dalle chiese,/dalle pale d’altare, dai borghi/abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,/dove sono vissuti i fratelli.» che è la definizione della poetica e della Weltanschauung di Pier Paolo Pasolini con «Mi fanno male i capelli, gli occhi, la gola, la bocca… Dimmi se sto tremando!» criptica, surreale ma al tempo stesso lancinante e terribilmente espressiva dichiarazione del disagio del personaggio di Giuliana, interpretata da Monica Vitti, nel film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni e citazioni entrambe impiegate in questo Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo. Una riflessione transpolitica per il suo legittimo erede: il Repubblicanesimo Geopolitico. Presentazione di trent’anni dopo alla dialettica olistico-espressiva-strategica-conflittuale de Arnaldo Guerrini. Note biografiche, documenti e testimonianze per una storia dell’antifascismo democratico romagnolo, abbiamo immediatamente l’immagine del particolare metodo dialettico impiegato da Massimo Morigi e di cui si aveva avuto una prova anche nello Stato delle Cose della Geopolitica. Presentazione di Quaranta, Trenta, Vent’anni dopo a le Relazioni fra l’Italia e il Portogallo durante il periodo fascista. Nascita estetico-emotiva del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico originando dall’eterotopia poetica, culturale e politica del Portogallo, anche questo pubblicato a puntate sull’ “Italia e il Mondo”, che è, oltre ad essere un metodo dialettico che, come più occasioni ribadito da Morigi, oltre a non riconoscere alcuna validità gnoseologico-epistemologica alla suddivisione fra c.d. scienze della natura e scienze umane storico-sociali, entrambe unificate, secondo Morigi, nel paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico, proprio in ragione del suo approccio olistico, non distingue nemmeno fra dato storico-sociale e fra il suo stesso dato biografico e cercando di capire, assieme ai destinatari dei suoi messaggi, come questo dato biografico lo abbia portato alle sue odierne elaborazioni teoriche. A questo punto si potrebbe obiettare che in Morigi prevale sull’analisi teorica una sorta di deteriore biografismo, dove il momento dell’analisi viene travolto da una non richiesto lirismo. Niente di più errato. Comunque si voglia giudicare il del tutto inedito paradigma dialettico del Nostro, e noi comunque lo giudichiamo come l’unico tentativo veramente serio compiuto dalla fine del grande idealismo italiano di Gentile e Croce di far rivivere in Italia e nel resto del mondo il metodo dialettico, la manifestazione lirica cui Morigi rende conto a sé stesso prima ancora che ai lettori non sono assolutamente le sue interiori ed intime inclinazioni che giustamente egli ritiene non debbano interessare a nessuno ma si tratta del rendere conto, anche pubblicamente, del suo culturale Bildungsroman, dove nello Stato delle Cose della Geopolitica veniva focalizzato nella cultura portoghese, nella saudade di questo paese e, infine nella filmografia di Wim Wenders, in specie in quella che aveva come sfondo il Portogallo, Lo Stato delle Cose e Lisbon Story, mentre ora, Nello Stato delle Cose dell’ultima religione politica: il Mazzinianesimo si tratta della filmografia d’autore degli anni Sessanta del secolo che ci ha lasciato, cioè di quella di Federico Fellini, di Michelangelo Antonioni e di Pier Paolo Pasolini. E se è vero, come è vero, che il ricorso a questo strumento per l’interpretazione della crisi politica non solo del movimento mazziniano e del partito che tuttora vuole presentarsi come la sua attuazione politica è stata anche indotta dal fatto che sulla crisi della religione politica del mazzinianesimo e del partito che ancora vuole esprimere ed intestarsi questa ideologia non è stato, in fondo, scritto praticamente alcunché di veramente interessante e significativo (e non è questa la sede per contestare questa definizione di identità politica del PRI ed anche Morigi, anche per una sorta di rispetto verso un partito politico in cui militò in un lontano passato – e di cui, fra l’altro, dimostra in questo saggio introduttivo di essere un profondissimo conoscitore e, quindi, inevitabilmente quasi un “appassionato”–, è tutt’altro che acido rispetto a questa autodefinizione identitaria) ma anche della crisi politico-sistemica più generale che ha investito il nostro paese è, sulla scorta della sua dialettica totalizzante del tutto giustificata e conseguente, a noi lettori appare chiaro – ma anche Morigi, ne siamo sicuri ne è pienamente consapevole – che la filmografia espressamente citata in questo scritto di Morigi è anch’essa una parte importante del romanzo di formazione culturale di Morigi che, proprio in virtù della particolare dialettica totalizzante da lui elaborata può essere impiegata per dare conto sia del suo metodo dialettico che della crisi politica del sistema politico Italia, filmografia italiana che, sottintende sempre è stato quindi anche decisiva, insieme alle suggestioni portoghesi e wendersiane, per la definizione del paradigma olistico-dialettico-espressivo-strategico-conflittuale del Repubblicanesimo Geopolitico.

Un’ultima notazione. Come da sottotitolo Lo Stato delle Cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo è l’introduzione del saggio di Massimo Morigi, Arnaldo Guerrini. Note biografiche, documenti e testimonianze per una storia dell’antifascismo democratico romagnolo, edito nel 1989 e che oltre ad essere la biografia dell’antifascista repubblicano e mazziniano Arnaldo Guerrini, già più di trent’anni fa esprimeva, come ci dice il suo autore e come potranno vedere i lettori dell’ “Italia e il Mondo” la consapevolezza della crisi del sistema politico italiano che sarebbe esplosa con Mani pulite. Questa biografia, assieme ovviamente al suo scritto introduttivo sullo Stato delle cose dell’ultima religione politica italiana: il Mazzinianesimo, su espresso desiderio dell’autore viene pubblicata in quattro puntate a partire da questo mese di gennaio del 2023, in una sorta di augurio di buon anno nuovo per l’acquisizione di una rinnovata consapevolezza politica per terminare con l’ultima puntata da pubblicarsi in occasione del IX Febbraio, data dell’anniversario della nascita della Repubblica Romana del 1849 e che per tutti i mazziniani, siano o no ancora facenti parte del Partito Repubblicano Italiano, è la ricorrenza più importante di tutto il calendario, ancora più importante, siano o no questi repubblicani credenti nelle varie denominazioni del cristianesimo, del Natale cristiano. Ci sarebbe così allora ancora molto da dire sulle religioni politiche e su come il Repubblicanesimo Geopolitico nel suo olismo dialettico, voglia essere, come dice espressamente Morigi, una prosecuzione ed evoluzione per i nostri tempi dei principi repubblicani di Giuseppe Mazzini…

Buona lettura

Giuseppe Germinario

Segue sul link sottostante a partire da pag 73 (per chi ha già letto la prima parte)

SECONDA PARTE DELLO STATO DELLE COSE ULTIMA RELIGIONE POLITICA

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Carlo Nordio, Giustizia, Liberilibri_a cura di Teodoro Klitsche de la Grange

Carlo Nordio, Giustizia, Liberilibri 2022, pp. 62, € 13,00.

Questo breve ma efficace saggio di Nordio si conclude con un giudizio sulla giustizia penale attuale “Abbiamo disposizioni severe e attitudini perdoniste, una voce grossa e un braccio inerte, una giustizia lunga e il fiato corto: vogliamo intimidire senza reprimere e redimere senza convincere”; questo ricorda molto da vicino l’opinione di Alexis de Tocqueville sull’ordinamento giuridico dell’ancien régime, caratterizzato secondo il pensatore francese da norme severe ed una pratica fiacca. A mio avviso la ragione della somiglianza di tali giudizi consegue dal fatto d’essere l’effetto della fase di decadenza di un ordinamento. Per cui, dato che Nordio propone per la giustizia italiana di riformarla radicalmente in senso  liberale, non si può che concordare nell’auspicio.

Dopo aver iniziato questa recensione dalla fine del saggio, mi riposiziono al principio. Il libro è diviso in due parti: nella prima si tratta del concetto di giustizia nella civiltà occidentale, il quale “poggia su quattro pilastri diversi ma massicci: la cultura giudaico-cristiana e quella greco-romana”.

Nella seconda si analizza “quanta parte di questa cultura sia confluita nella giustizia (penale) italiana. E proporremmo una loro conciliazione, nella prospettiva di una riforma liberale”.

Nella prima parte quindi si considerano le radici (giudaico-cristiane, nonché greco-romane) dell’idea di giustizia. Nella seconda si riscontra quanto ve ne sia nell’ordinamento concreto attuale e cosa ne occorra riformare.

In altre parole l’autore confronta l’attuale ordinamento con le radici storico-filosofiche della nostra civiltà. Cioè parte da una prospettiva di alto profilo, al contrario di molte delle soluzioni concrete attuali la cui causa efficiente spesso non è il garantismo o il giustizialismo (o altre siderali esigenze) ma espedienti e callidità di potere, compreso il condizionamento di processi in corso, per i quali si paventano le influenze sulle elezioni o sulle carriere di politici (e burocrati).

Quanto alla giustizia penale e all’influenza religiosa “i principi della cultura giudaico-cristiana sono stati formalmente ossequiati ma sostanzialmente negletti. La composizione tra rigore retributivo e misericordia benevola si è stemperata in un caotico sincretismo di magistero arcigno e di sgomenta rassegnazione”. Relativamente all’influsso greco-romano l’equilibrio razionale tra la presunzione di innocenza e la certezza della pena “dovrebbe essere il precipitato logico, e il risultato pratico proprio della tradizione greco-romana filtrata da John Stuart Mill, da Tocqueville e Montesquieu, come da Verri e Beccaria”, come espresso dal novellato (1999) art. 111 della Costituzione. Tuttavia tale recepimento “è stato così inavveduto da esser minato da alcune contraddizioni insanabili”, anche e soprattutto perché il processo che ne risulta ha “poco a che vedere con quello accusatorio anglosassone, che si regge su alcuni solidi principi, come la divisone delle carriere, la distinzione tra giudice del fatto e del diritto, la nomina e i poteri del pubblico ministero, l’estensione dei patteggiamenti e, più importante di tutti, la discrezionalità dell’azione penale”. La conclusioni è che “accanto alla dissoluzione dell’eredità giudaico-cristiana della concezione retributivo-indulgenziale della pena, assistiamo al ripudio del legato greco-romano del razionalismo pragmatico, perché alla lunghezza esasperante dei nostri processi si associa la confusionaria applicazione di norme incerte e scoordinate. E il Paese che è stato la culla del diritto ne è diventato la bara”.

Nordio, volando alto, fa discendere l’attuale situazione dalla mancata applicazione di principi storico filosofici, espressi da pensatori nel corso di millenni. Se da questo confronto storico-filosofico, passiamo a quello logico-comparatista, nel senso di vedere quanto delle soluzioni che le concezioni politicamente corrette vogliono imporre come capisaldi dello “Stato di diritto” lo siano in altri ordinamenti, il discorso non cambia.

Per esempio l’obbligatorietà dell’azione penale: è vero che è sancita dall’art. 112 della Costituzione, ma si configura in modo assai differente negli Stati di diritto contemporanei, a partire dalla Gran Bretagna.

Così per l’azione penale, spesso accordata anche alle vittime del reato (e talvolta a associazioni o a tutti). O la separazione delle carriere che in alcuni ordinamenti non si pone data la “separazione” naturale tra titolari (anche pubblici) dell’azione penale e organi giudicanti.

In sintesi quello che il “politicamente corretto”, la stampa mainstream, e (molti) poteri forti vorrebbero far passare come quintessenza del liberalismo “compiuto” e della modernità, non lo è, o non s’impone con la conclamata evidenza la perentorietà e unitarietà che ci viene quotidianamente rappresentata.

Nordio fa leva, per demolirla, sulla storia e sul pensiero di millenni; ma questo risulta anche dalle (odierne) soluzioni adottate appena fuori dai confini. E non si vede come molte non possano essere recepite nell’ordinamento italiano, solo perché contrarie agli anatemi mediatico-culturali.

Teodoro Klitsche de la Grange

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IL COMPITO PRINCIPALE, di Teodoro Klitsche de la Grange

Nota

Qualche mese dopo l’insediamento del governo Berlusconi, la rivista
“Palomar” pubblicava un numero tematico su “La destra oggi”, con le
risposte di molti collaboratori, abituali e non.

Si ripropone il contributo, tenuto conto della persistenza delle simili
“sfide” al governo Meloni

IL COMPITO PRINCIPALE

  1. Tra le molte cose che il centrodestra deve realizzare la principale – e ovviamente più difficile – è ricostruire lo Stato, intendendo per tale non solo gli apparati pubblici, ridotti per lo più, ad un insieme di burocrazie quasi sempre inefficienti e spesso rissose, ma l’ “idea” (e il concetto) di quello, che va smarrendosi anche e soprattutto per l’identificazione che, nella coscienza collettiva, se ne fa con il rovinoso spettacolo offerto dalle amministrazioni pubbliche. Dato il quale, il problema che si pone è, nello specifico, individuare quale ne sia – tra i molti – l’aspetto più importante, anche al limitato fine di non fare di questo intervento un trattato, di volume proporzionale all’entità dei disastri ereditati. Questo è, senza dubbio, la separazione che il tramonto della Repubblica ha in parte subito, ma in altra, prevalente, incentivato, tra governati e governanti e di cui fanno fede la crescente disaffezione elettorale e i referendum disertati, per citare solo gli indicatori più verificabili, e forse più importanti. Ed è evidente che tale disaffezione è stata coltivata alacremente, non solo per interesse, ma anche per mentalità, dalla sinistra. Ciò per più ragioni: il leninismo, è stato, nel XX secolo, la più compiuta e coerente espressione di una mentalità oligarchica, con un partito d’illuminati destinato a guidare le masse, inconsapevoli o poco consapevoli, alla costruzione della società senza classi; peraltro a una certa tecnocrazia di sinistra è naturale credere che la soluzione dei problemi politici, sociali ed economici sia attingibile con strumenti tecnici (mentre talvolta, spesso, è così, e talaltra no: in genere più sono realmente decisivi, meno si prestano a soluzioni “tecniche”); altro errore ricorrente è ragionare in termini di potere e poteri, facendo di tutto o questioni di amministrazione (più in basso), o di governo (più in alto), quando l’importanza di questi è relativa rispetto alle categorie “essenziali” della politica, come l’autorità, la legittimità, l’integrazione: ossia quelle che fondano un potere legittimo, consentito, e proprio per questo, più facilmente obbedito. Quest’ultimo errore è stato mutuato da un liberalismo decadente, e spesso inconsapevole dei propri presupposti: in effetti ragionare di poteri, prescindendo da ciò che li fonda, equivale a vagheggiare un potere autoreferenziale, che si sostiene da sé, senza l’ausilio di principi di legittimità, teocratico o democratico che siano; e così, non sollevato dall’alto, né sostenuto dal basso, si regge come il barone di Münchausen che si afferrava il codino per non sprofondare nella palude. Ma è certo che, se quel sistema è idoneo nelle favole, nel mondo reale il tonfo è assicurato. Ed è già avvenuto il 13 maggio: l’immensa concentrazione di potere che negli anni ’96-’98 ha denotato il regime dell’Ulivo è stata prima erosa a livello locale, poi ribaltata a livello nazionale. A conferma che un potere non sostenuto dal consenso “profondo”, è “una tigre di carta” di maoista memoria: rotocalchi, RAI, quotidiani, Parlamento, Procure, enti locali e sindacati, par condicio e soprattutto la federazione di burocrazie che si riconoscono nell’Ulivo non è riuscita ad evitare il rigetto dello stesso da parte della comunità nazionale.

Il primo servizio che il centrodestra può rendere alla nazione (ed a se medesimo, avendo un consenso molto superiore alla parte avversa), è di rimettere le cose a posto, garantendo che, d’ora in poi, chi governa abbia autorità e legittimità; che la legalità non sia uno slogan e un’arma selettivamente puntata contro gli oppositori, ma concretamente, e generalmente, applicata; che i funzionari dello Stato siano dei civil servants, e non un misto tra efori spartani  e monarcomachi (ugonotti o gesuiti). Ricostruire il tessuto di uno Stato-comunità, in cui alla separazione tra governanti e governati, si sostituisca la distinzione tra chi comanda e chi obbedisce; ricondurre così ad unità (e riconciliare) i termini essenziali dell’unità politica, che come scriveva Proudhon, non possono “mai né essere assorbiti l’uno dall’altro, né escludersi”[1], è il compito principale.

  1. Agli albori del costituzionalismo moderno, dello Stato liberal-democratico borghese, era sottolineato il carattere di stabilità della legge, ed ancor di più della Costituzione; ciò rispondeva non solo all’esigenza di un diritto stabile, di applicazione prevedibile e “misurabile”, ma anche all’aspirazione ad un assetto istituzionale “ideale” e perfetto, razionale nello scopo di offrire un mezzo di soluzione ad ogni contingenza storica e ad ogni conflitto. Tale elemento, necessario, tendeva a porre in ombra l’altro aspetto – e funzione – della costituzione: di essere il “principio dinamico dell’unità politica” ovvero di dover coniugare stabilità e divenire, movimento e durata, consenso e potere, esistenza ed azione politica. Questo secondo profilo è stato evidenziato e posto in luce da pensatori politici, giuristi e filosofi, in particolare dallo scorcio del XIX secolo in poi. Renan, Hauriou, Schmitt, Smend, Gentile vi hanno contribuito: dalla definizione di Renan della Nazione come “un plebiscito di tutti i giorni”, alla concezione dell’istituzione di Hauriou[2]; dalla costituzione quale “principio del divenire dinamico dell’unità politica” di Schmitt [3], al giudizio di Gentile: “lo Stato – malgrado il suo nome – non è nulla di statico. E’ un processo. La sua volontà è una sintesi risolutrice di ogni immediatezza” [4]; fino alla tesi di Smend [5]. Ed è a Smend che dobbiamo la più approfondita e concreta teoria dell’integrazione come momento centrale dell’unità politica e della coesione comunitaria. Scriveva Smend che: “Se la realtà della vita dello Stato si presenta come la produzione continua della sua realtà in quanto unione sovrana di volontà, la sua realtà consisterà nel suo sistema di integrazione. E questo, cioè la realtà dello Stato in generale, è compreso correttamente solo se concepito come l’effetto unitario di tutti i fattori di integrazione che, conformemente alla legislatività dello spirito rispetto al valore, si congiungono sempre di nuovo e automaticamente in un effetto d’insieme unitario” [6], e in un altro passo sostiene che: “La comunità, il gruppo, lo Stato non devono essere intesi come un Io collettivo riposante su se stesso, ma come la struttura unitaria della vita individuale, come dialettica che realizza e trasforma dinamicamente l’essenza del singolo e dell’intero” [7], e quindi “Esso, cioè, non è un intero immobile emanante singole espressioni di vita, leggi, atti diplomatici, sentenze, atti amministrativi, ma piuttosto esiste come tale solo in queste singole espressioni di vita, in quanto attivazioni di una connessione spirituale complessiva, e nelle ancora più importanti innovazioni e trasformazioni che hanno come oggetto esclusivo questa stessa connessione. Lo Stato vive ed esiste solo in questo processo di rinnovamento costante, di rigenerazione continua del vissuto” [8]
  2. Nel tramonto della “prima Repubblica”, e soprattutto nella sua fase terminale, cioè il regime dell’Ulivo, è stato fatto proprio l’inverso: si è prodotto e ricercato non “l’unione spirituale di volontà” ma la distribuzione del potere tra le oligarchie organizzate.

Basta dare i poteri necessari alle persone morali e competenti ri-sintetizzano gli idola del centro-sinistra, e le cose andranno a posto. Ma tale ragionamento non sta in piedi: non solo perché – e ciò è la ragione minore – il problema diviene in tal caso quali sono i poteri necessari e chi sceglie le persone morali e competenti. E con ciò ci si avvicina al nodo essenziale: ovvero del chi decide su necessità, moralità e competenza. Se è il “popolo”, il “potere maggioritario” di Hauriou, consenso ed integrazione si accrescono: se invece è un qualche sinedrio partitocratico-istituzionale, la cui maggiore sollecitudine è di escludere e rovesciare le scelte popolari, con i vari mezzi noti, dai ribaltoni in giù, l’uno e l’altro si riducono. Ma, più ancora, un tale ragionamento è concettualmente errato: a costituite una comunità, un’unità politica, necessari sono il governo e i governati, e il rapporto che s’instaura tra l’uno e gli altri. Lo Stato, questo ente dalle tante definizioni, prima di essere Stato-apparato, è Stato-comunità, e prima ancora un’idea, che vive nel (e del) rapporto tra i cittadini e tra questi e i governanti. Il problema dei poteri è importante, ma secondario rispetto a quelli: se assetto e distribuzione di questi fossero decisivi, sarebbero sufficienti a garantire l’unità ed effettività del comando. La storia mostra che non è così: sono legittimità ed autorità a garantire che l’assetto dei poteri vigente sarà accettato dai “sudditi”, e non l’inverso, che sia un “buon” assetto di poteri  ad assicurare e sostenere un’autorità legittima.

Per il consenso popolare, così sottovalutato, si è pensato invece che bastassero articolesse, interviste al Tg, o nei casi più importanti, i dibattiti nei vari Sciuscià e simili. I governati, in tale visione, avevano la funzione dello spettatore distaccato, dell’osservatore che plaude o dissente, ma, per carità, senza agire; l’essenziale non era la partecipazione ma che non disturbassero i manovratori (e la manovra). Una rappresentazione del popolo molto politically correct. Un esempio chiaro e sintetico ce l’ha dato l’on. Rutelli, in occasione del referendum del 7 ottobre 2001 (sulla riforma federale della Costituzione, fatta dall’Ulivo sul piede di partenza del governo) disertato da circa due terzi del corpo elettorale a conferma della solenne indifferenza verso le “realizzazioni” del centro-sinistra. Diceva, tutto contento, il (soi-disant? ) capo dell’opposizione “Ottimo il risultato del referendum, una prova di maturità e serietà” (Libero 9 ottobre 2001)” (il corsivo è nostro).

In altre parole il coinvolgimento dei governati è un plus, un “optional”, irrilevante; l’essenziale è osservare le forme di procedimenti legalmente validi: con ciò si pensa all’impossibile, quanto perseguita surrogazione della legalità alla legittimità. Che il problema reale  – e decisivo –   non sia quello dell’osservanza delle forme, ma del far osservare i comandi, e che questo è tanto più facile quanto più i destinatari dei medesimi lo fanno spontaneamente e generalmente; che, come scriveva Hauriou vi sia una “sovranità di sudditanza” che si esercita non solo all’intervenire ogni tanto con rivoluzioni, sommosse e così via, ma, assai più frequentemente, col non obbedire, è cosa che non rientra nella Weltanschauung – per così dire – ulivista.

La quale, di converso, dev’essere la (prima) preoccupazione del centro destra. Non che ne manchino delle altre, d’indubbia importanza: ma questa è decisiva, ed osservarla costituisce, in se, un fatto positivo e determinante, perché realmente costitutivo dell’unità politica . Certo, avere un governo stabile e in condizione di governare; un’amministrazione efficiente, fornitrice di servizi e non consumatrice di risorse; una giustizia che non sia come la rana di Galvani, generalmente nell’immobilità della morte ma, ogni tanto agitantesi per la “scossa” del “caso sociale” (o del nemico politico), è determinante per il futuro dell’Italia: ma ricostituire l’integrazione della comunità lo è di più. Senza la quale i due “estremi” necessari e indefettibili dell’unità politica, stanno o in opposizione espressa  – con pericolo grave e pressante per la comunità – o in una evidente indifferenza, foriera di decadenza, spesso lunga, ma ancor più, priva di sbocchi.

In mezzo, tra governanti e governati, si trova l’ampia gamma dei poteri “forti”, comprese le “cupole” delle varie corporazioni, la cui reazione – aperta ed espressa, o più spesso occulta e indiretta – è, ed ancor più sarà, dura, proporzionale al ridimensionamento (se non alla “detronizzazione”) di questi che una maggiore integrazione tra governanti e governati comporta. Ma è un rischio che bisogna correre. Non foss’altro perché una delle lezioni più evidenti dell’ultimo quinquennio è che, ormai, non vale più la regola dell’on. Andreotti che “il potere logora chi non ce l’ha”: all’Ulivo l’overdose di potere – pari, se non superiore a quella della DC (e alleati) negli anni cinquanta nel ’96- 2001 non ha portato (o mantenuto) un voto in più. Voto che forse avrebbero potuto ottenere, ove avessero governato meglio, il che avrebbe significato scontentare (almeno) alcune corporazioni forti: avendo preferito il consenso delle quali, non hanno guadagnato quello del corpo elettorale. E questo dev’essere di conforto – e monito – al centro destra, ad onorare il patto col popolo, anche a scapito della tregua con le corporazioni.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] P.J. Proudhon Contradictions politiques. Théorie du mouvement constitutionnel au XX siècle. Paris 1952, p. 215.

[2] V. M. Hauriou Précis de droit constitutionnel, laddove scrive “dell’organizzazione formale dell’ordine sociale concepito come un sistema animato d’un movimento lento ed uniforme”, op. cit., p. 71 ss.

[3] Verfassungslehre, trad. it., p. 18, Milano 1983, cui si rimanda

[4] Genesi e Struttura della società, ed. Firenze 1987, p. 103

[5] “Elezioni, dibattiti parlamentari, formazioni di gabinetto, referendum popolari: sono tutte funzioni integrative. In altre parole, non trovano la loro giustificazione, come insegna – per la sua origine giuridica – la teoria dominante degli organi e delle funzioni dello Stato, soltanto nel fatto che i rappresentanti dello Stato e del popolo in quanto intero vengono insediati” ma piuttosto “esse integrano, cioè creano di volta in volta, per parte loro, l’individualità politica del popolo nel suo insieme e perciò producono il presupposto del suo attivarsi in modo comprensibile sotto l’aspetto giuridico e materialmente positivo o negativo sotto quello materiale”; e prosegue “il diritto elettorale deve condurre in primo luogo alla formazione di partiti e quindi alla produzione di maggioranze, e non semplicemente di singoli deputati. Nello Stato parlamentare il popolo non è già in sé politicamente presente e viene poi ulteriormente qualificato, di elezione in elezione, in una particolare direzione politica: e da una formazione di gabinetto all’altra, esso ha invece una sua esistenza come popolo politico, come unione sovrana di volontà, principalmente in virtù di una sintesi politica specifica in cui soltanto giunge sempre di nuovo ad esistere in generale come realtà statale”, v. Rudolf Smend, Verfassung und Verfassungsrecht, trad. it., Milano 1988, p. 93-95.

[6] Op. cit. p. 111

[7] Op. cit. p. 272

[8] Op. cit. p. 272

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IL BICCHIERE MEZZO PIENO, Teodoro Klitsche de la Grange

IL BICCHIERE MEZZO PIENO

Tra le innovazioni del decreto 150/2022, c’è l’estensione dei reati procedibili solo a querela dell’offeso, onde creare un barrage ai processi penali e così ridurne il numero. Il tutto, si sostiene, in linea con gli obiettivi di efficienza del processo e del sistema penale. Ancorché il tutto possa prestarsi ad un’inferiore deterrenza della prescrizione sanzionatoria (e così al di essa effetto dissuasorio) la rimessione alla parte lesa della facoltà di “far partire” il procedimento, ne facilita – a vantaggio della medesima – le condotte risarcitorie e riparatorie del reato, con soddisfazione – almeno parziale – dell’interesse della vittima.

Nello stato in cui versa la giustizia italiana, non possono che essere benvenute disposizioni che consentono una migliore soddisfazione dell’interesse privato, peraltro “alleggerendone” gli oneri per lo Stato. Tuttavia sono i presupposti di soluzioni come questa a dover essere criticati; vediamo perché.

Scriveva Hegel che lo “Stato è la realtà della libertà concreta”, in quanto, brevemente, coniuga gli interessi particolari con l’interesse della generalità così che né l’universale si compie senza l’interesse particolare, né che gli individui vivano solo per questo, senza che vogliano, in pari tempo, l’universale.

Più “tecnicamente”, da giurista, Jhering collegava l’interesse particolare al generale, attraverso i meccanismi giuridici, in particolare la sanzione, che, come Carnelutti avrebbe sottolineato, è un avvaloramento del precetto normativo con la quale si penalizza la condotta conforme o contraria a quella, sacrificando o soddisfacendo l’interesse particolare.

Anche per questo Jhering scrisse quel best seller giuridico che è La lotta per il diritto (Kampf ums Recht) ancora oggi, a circa un secolo e mezzo dalla pubblicazione, continuamente riedito. Nell’edizione Laterza degli anni ’30, con un’avvertenza preliminare di Croce che, sorprendentemente, ne sottolineava l’alto valore etico, scrivendo: “Può far maraviglia che questo elevamento della lotta pel diritto sopra le considerazioni utilitarie sia sostenuto da un pensatore che nella sua speciale trattazione filosofica dell’argomento, Der Zweck im Recht (1877-83), riportò il principio del diritto all’egoismo… Ma tant’è: nel Jhering il sentimento morale era più forte dei suoi presupposti e della sua logica filosofica” e proseguiva che a questa concezione “valse il forte rilievo dato agli individui e ai loro bisogni e ai fini che si propongono nel formare il diritto; se anche gli piacque interpretarli e chiamarli, poco felicemente, egoistici”.

La ragione per cui lottare (Kampf) per il proprio diritto soggettivo, al tempo stesso si risolve nel realizzare  quello oggettivo è che il diritto che non è applicato, per cui non si lotta, è un diritto… teorico. Cioè che nega la propria essenza di attività (ragione) pratica. Come le idee di Platone, confinato in un iperuranio normativo, senza un demiurgo che lo porti in terra.

Se la funzione del demiurgo è rivestita soltanto dalla vittima zelante probabilmente l’effettività dell’attuazione (cioè la soddisfazione dell’interesse pubblico all’ordine sociale) e così l’oggettivazione lascerà a desiderare.

Ciò premesso quel che più sorprende di questa soluzione è che se ne vuole misurare (almeno nella rappresentazione che ne danno molti mass-media) l’efficacia non dal calo dei reati commessi ma da quello dei processi che ne conseguono.

Di per se che non si celebri il processo dopo il reato perché manca la querela, non significa che il reato non sia avvenuto (né che il reo non lo reiteri), ma solo, per l’appunto, che manca la querela. Anzi, sbrigarsela con un risarcimento e non con la detenzione non fa calare le trasgressioni, ma aumentare le possibilità di “farla franca”. In particolare per i rei dotati di disponibilità finanziarie.

C’è da aggiungere che tale modo di ragionare, in particolare se presentato come “momento” decisivo delle riforme, è figlio di una visione burocratica del mondo; è l’universo visto dall’angolo visuale della scrivania, ma tale punto di osservazione non permette una percezione “a giro d’orizzonte” e prenderla per quella principale è frutto di una deformazione professionale, spesso ripetuta. Se invece di centomila processi da iniziare se ne hanno settantamila, onde la durata degli stessi dimezza, non vuol dire (neppure) che l’efficacia dell’amministrazione della giustizia penale è migliorata, ma solo che ha minore lavoro da sbrigare. Tuttavia la funzione della giustizia penale in ispecie, di assicurare l’ordine sociale non ci guadagna un gran che. Ciò non significa che la riforma sia disprezzabile, ma che non è il caso di intonare peana né confidare in grandi risultati da un bicchiere mezzo pieno.

Teodoro Klitsche de la Grange

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NOMINE E AIUTANTATO, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOMINE E AIUTANTATO

Nell’imminenza dello scadere del termine  entro il quale la vigente legislazione prescrive che debbano essere confermati o sostituiti i grands-commis statali dopo l’insediamento del governo post-elettorale, si è acceso il dibattito su conferma o ricambio dei suddetti servitori dello Stato.

Ovviamente il PD, il quale a dispetto del fatto di non aver mai ottenuto una maggioranza dei votanti è stato sempre al governo (o nell’area di governo) negli ultimi dieci anni – fatta eccezione per il Governo Conte 1 -, con relative nomine, accusa il governo di voler fare lo stesso: di ricoprire le caselle dei personaggi ossequienti alla nuova maggioranza quanto i loro predecessori a PD (e sodali). Condendo il tutto con l’usuale ricorso alla megliocrazia: che i loro nominati erano bravi, colti, esperti, educati, buoni, umanitari (ecc. ecc.). Mentre quelli nominandi dal governo Meloni sono mediocri, ignoranti, dilettanti, ecc. ecc. Argomento involontariamente comico: se l’Italia avesse avuto una tecno-burocrazia così eccellente non si capisce come – da trent’anni – sia ferma, anzi in decadenza. O meglio la spiegazione è meno confortante per il PD di quanto lo sia ritenerne corresponsabile la dirigenza burocratica.

Ma, a parte la propaganda, il rapporto tra potere burocratico, potere politico, ma soprattutto democrazia è uno dei principali dello Stato moderno. Già agli albori, durante la rivoluzione francese (cioè nello Stato allora “forse” il più burocratizzato del pianeta) i rivoluzionari lo avvertivano ampiamente. Sia nelle correnti (e soluzioni) più moderate; ma più chiaramente e decisamente alla Convenzione la tensione tra dirigenza eletta dal popolo e civils servants è percepita e “risolta” dai giacobini. Saint-Just diceva alla Convenzione “Tutti coloro che il governo impiega sono parassiti… e la Repubblica diventa preda di ventimila persone che la corrompono, la osteggiano, la dissanguano… gli uffici hanno preso il posto delle monarchie… il servizio pubblico, come è esercitato, non è  virtù, è mestiere… C’è un’altra classe corruttrice, è la categoria dei funzionari

Del pari Robespierre riteneva “L’interesse del popolo è il bene pubblico; l’interesse di un uomo che ha una carica è un interesse privato. Per essere buono il popolo non ha bisogno d’altro che di anteporre se stesso a ciò che gli è estraneo, il magistrato, per essere buono, deve sacrificare se stesso al popolo”. Da ciò la necessità di controllarli.

È inutile continuare col ricordare tutti i pensatori che hanno giudicato come antitetiche burocrazia e democrazia. La soluzione – nelle varie applicazioni che ha avuto –  come osservava Max Weber, è stata di sottoporre gli apparati burocratici all’indirizzo, nomina e controllo di un vertice politico, responsabile verso il corpo elettorale e quindi “rimovibile” a scadenza fissa. Un vertice non necessariamente fornito delle caratteristiche fondamentali della burocrazia (sapere specializzato, durata del rapporto, selezione “dall’alto”, professionalità) proprio perché di designazione e conferma “dal basso”.

Se non fosse così, o si dovrebbe ricorrere alle istituzioni delle poleis democratiche, dove tutte – o quasi – le cariche erano elettive, ovvero se i burocrati apicali non fossero responsabili verso il vertice politico (e conservassero i propri connotati tipici) dire addio alla democrazia possibile.

Max Weber nel distinguere la figura del capo e del funzionario da un particolare valore alla “specie di responsabilità dell’uno e dell’altro”. Il funzionario ha come dovere di eseguire un ordine, anche se non lo condivide “come se esso corrispondesse alla sua intima convinzione, mostrando con ciò che il suo sentimento del dovere di ufficio è superiore alla sua volontà personale”; di converso, prosegue Weber «Un capo politico che agisse in questo modo meriterebbe disprezzo… se egli non trova il modo di dire al suo superiore – sia esso il monarca o il demos – “o ricevo adesso questa istruzione o me ne vado”, vuol dire che è un “rammollito” come Bismarck ha battezzato il tipo». Questo se capo e funzionario seguono l’ethos del rispettivo ruolo.

Ma se non lo seguono la questione cambia; in Italia vige il nicodemismo ma soprattutto la sfrontatezza coniugata all’ambizione di voler occupare posizioni pubbliche pur riservandosi il diritto di sindacare o mal eseguire le direttive “dall’alto”. Delle quali la pretesa ad esercitare la funzione senza la fiducia del vertice politico è l’aspetto più eclatante. Che è poi un “capitolo” della mentalità consociativa tutt’altro che sminuita dalla “bipolarizzazione” la quale ha ispirato la legislazione elettorale dell’ultimo trentennio.

Cambiare i vertici amministrativi della pubblica amministrazione non è così una lesione alla democrazia, ma il rispetto della volontà popolare espressa nelle votazioni e della responsabilità che ne consegue. Anche perché il ruolo della dirigenza generale e del vertice politico è ordinato (tra l’altro) dall’art. 4 del D.lgs. 165/2000 il quale per il vertice dispone “Gli organi di governo esercitano le funzioni di indirizzo politico-amministrativo, definendo gli obiettivi ed i programmi ad attuare ed adottando gli altri atti rientranti nello svolgimento di tali funzioni, e verificano la corrispondenza dei risultati dell’attività amministrativa e della gestione agli indirizzi impartiti. Ad essi spettano in particolare:… e) le nomine, designazioni ed atti analoghi ad essi attribuiti da specifiche disposizioni”; mentre “Ai dirigenti spetta l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa… Essi sono responsabili in via esclusiva dell’attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati”.

Il fatto che diverse norme di legge dispongono la “conferma” (o la sostituzione) dell’apice della dirigenza burocratica al cambiamento del vertice politico risponde al “circuito” democratico: per il quale chi governa deve avere il consenso dei governati, attuarne la volontà e avere la responsabilità verso i medesimi. E quindi il potere di controllare, sostituire e confermare coloro che – non essendo “funzionari onorari” ma di carriera, non sono nominati né confermabili dal corpo elettorale. Verso il quale quello di nominare gli apici dirigenziali non è un diritto ma un dovere. Una responsabilità cui non ci si può sottrarre.

Teodoro Klitsche de la Grange

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REALTA’ E MALINCONIA, di Pierluigi Fagan

REALTA’ E MALINCONIA. Prenderemo in esame le due fotografie su “lo stato d’animo del Paese” fatte dal 56° Rapporto CENSIS uscito ai primi dello scorso dicembre, i cui temi confermerebbe l’IPSOS con una indagine uscita sul Corsera. Chi scrive ha lavorato in passato con queste ricerche ed istituti, si possono criticare poiché in statistica nulla è esente da critiche, ma nella sostanza le ritiene affidabili o quantomeno indicative. Vediamo i temi principali che emergono da questa doppia fotografia.
Il primo e più importante sembra essere quello che CENSIS chiama “malinconia”. Da una parte emerge forte disagio nella somma degli effetti delle quattro crisi (economica, geopolitica, ambientale, sanitaria), dall’altra se tutto ciò infrange irreparabilmente il sogno-promessa della tarda modernità (in attesa ci si metta d’accordo a dar la modernità per terminata trovando nome alla nuova epoca in cui siamo capitati), tutto ciò non ha rappresentazione e forse valida interpretazione. Ne consegue un senso di privata e passiva tristezza.
Tra i tanti dati di cui poi accenneremo, quelli microsociologici mi sembrano i più interessanti. Dice CENSIS “Complessivamente, 8 italiani su 10 affermano di non avere voglia di fare sacrifici per cambiare, diventare altro da sé”. Si tratta della rottura della macchina delle promesse desideranti che traina ogni società dei consumi ovvero società basate sull’ordinatore economico. Nei dettagli: “Prevale piuttosto la voglia di essere sé stessi, con i propri limiti. Gli italiani non sono più disposti a fare sacrifici: per mettere in pratica le indicazioni di qualche influencer, per vestirsi secondo i canoni della moda, per acquistare prodotti di prestigio, per sembrare più giovani, per sentirsi più belli. E (per molti ed in crescita) non si è più disposti a sacrificarsi per fare carriera nel lavoro e guadagnare di più”. Questa macchina è in doppia crisi. Sia perché non più in grado di mantenere anche al minimo la sua promessa di avanzamento sociale, sia perché a fronte della gravità delle crisi reali non è di questo tipo di presunto “avanzamento sociale” che si sente il bisogno. Ogni “gioco sociale” è una convenzione, questo che ha innervato e strutturato le nostre società così a lungo, sembra a corto di convinzione ed una convenzione senza convinzione, implode lasciando dietro di sé il vuoto. Il vuoto si riempie di malinconia.
Poiché altrove nel Rapporto si conferma che le persone hanno tutte capito alla perfezione di esser capitate in una transizione ovvero un passaggio trasformativo profondo, storico e non occasionale, ne consegue che il crollo di una convenzione di cui quasi nessuno è più convinto, lascia il vuoto ed il vuoto si riempie di malinconia.
Sui dati sociologici più duri, le due ricerche confermano esserci un picco di problematicità acuta sull’aspetto economico-sociale. Questo è dato dai temi “economici, occupazionali, welfare ed assistenza”. Società basate sull’ordinatore economico soffrono particolarmente il non funzionamento del gioco economico, il crollo delle prospettive, l’esasperata precarietà (che non ha più neanche il traino dell’ipotetica promessa al potersi risolvere in prospettiva diventando così “sacrificio senza speranza”), l’inflazione, le forti diseguaglianze, dicono che stiamo giocando un gioco che non funziona, truccato, di falsa promessa. La distanza tra questi item ed altri quali la sicurezza, gli immigrati, l’ambiente, il controllo sociale, dice anche quanto alcune forze politiche o culturali parlino di cose che in realtà non corrispondono affatto allo stato d’animo diffuso. Questa mancanza di rappresentazione pubblica del sentimento personale crea una dissociazione, ognuno si ritira nel suo preoccupato sentimento privato, il che aumenta depressione e malinconia.
Chissà poi perché non solo l’area politica che è ovvio che in questa fase storica sia del tutto inadeguata, ma anche e soprattutto quella intellettuale non si sintonizzi su questo sentimento. Evidentemente, sfugge all’auto-analisi. O molti di questi “intellettuali” essendo pensionati o professori, non vivono appieno il problema o sono catturati in un mondo parallelo in cui la battaglia delle idee segue tutt’altra partizione, una forma esasperata di “scolastica critica” in cui ormai si gioca tutto all’interno di un mondo concettuale che ha perso ogni riferimento al reale. Un po’ come nella pandemia in cui pochi hanno notato lo stato pietoso ed inadeguato della sanità pubblica nel Paese con più anziani al mondo (assieme altri due o tre), librandosi ariosi dalle vette e dai picchi dell’analisi biopolitica, un po’ come ormai più di un decennio di retorica anti-neolibersita, anti-globalista, anti-eurista che non è mai atterrata lì dove i nodi che da ideologici diventano pratici, producono malessere individuale e sociale (le famose “contraddizioni”).
Eppure, queste stesse ricerche rilevano l’ovvio in una società sempre più anziana: severe preoccupazioni per il rischio di non autosufficienza e invalidità, di non poter contare su redditi sufficienti in vecchiaia, di perdere il lavoro e quindi di andare incontro a difficoltà economiche, di incorrere in incidenti o infortuni sul lavoro, di dover pagare di tasca propria prestazioni sanitarie impreviste. Così per i più giovani che sappiamo ormai dimenticati e per lo più esclusi dalla coesione sociale. Sarà il caso di notare che gli anziani statistici (+64 ed in costante aumento) sono quasi il 25% della popolazione, aggiungendo giovani in stato di lunga precarietà ed attesa di futuro siamo ad una massa importante della società, quasi il 40%.
Ma nulla di tutto ciò sempre preoccupare molti dei nostri intellettuali critici che, negli ultimi giorni, si sono abbandonati a profluvi di analisi sulla grandezza mal compresa di Joseph Ratzinger. Molti sembrano presi da questa grande macchina di intrattenimento dei concetti e delle critiche che sembra voler evitare a tutti i costi i fondamentali reali. Chi parla più di lavoro, reddito, ridistribuzione, diseguaglianza concreta, protezione pubblica? Chi sente ed interpreta la malinconia e la depressione diffusa? Meglio l’euro, l’UE matrigna, il popolo, i vaccini, il non c’è più destra né sinistra. Ognuno felice di partecipare alla costruzione di questa nuova area neo-con dal confuso sapore libertariano, visto che non c’è più sinistra e siamo tutti di destra meglio cercare la propria interpretazione di cinquanta sfumature di destra. Poi magari si scrive un articolo sulla minaccia anestetizzante della virtualità senza accorgersi quanto si partecipa attivamente a costruire questa virtualità distraente, ognuno col suo commento del giorno dopo in cerca di pubblico riconoscimento secondo un indice dei temi e degli argomenti che è poi quello del fatidico mainstream.
Poi magari si fonda un partitino tre mesi prima delle elezioni, si fa una figuraccia ma non c’è problema, arriva sempre un nuovo tema su cui esibire pensiero critico e mettersi in mostra in nome di un “cambiamento” che in realtà nessuno sembra davvero volere mentre si cerca di sfuggire, ognun per sé, all’attrazione appiccicosa di questa vasta malinconia che non trova più il suo inchiostro per esser raccontata.

Lo smarrimento del sindacalismo compassionevole, di Giuseppe Germinario

Con l’avvento del Governo Meloni sarà importante tenere d’occhio il comportamento delle tre confederazioni sindacali. Saranno importanti nel determinare i destini di un governo che si dovrà barcamenare tra l’appiattimento acritico e diligente alle scelte geopolitiche dell’attuale amministrazione statunitense, al momento concentrate sul fronte orientale della NATO, l’afflato di orgoglio nazionale di cui si nutre continuamente la sua narrazione e le conseguenze sempre più evidenti di tali scelte, delle dinamiche geopolitiche più generali e degli indirizzi economici della UE sulla precaria condizione socio-economica dell’Italia.

Di queste scelte geopolitiche statunitensi, come della logica che informa l’indirizzo economico, quello ambientalista ed energetico della UE abbiamo già parlato con dovizia. Il dato più evidente della istigazione e della reazione della NATO all’intervento russo in Ucraina è stato il rapporto causale diretto delle sanzioni alla Russia con l’ulteriore drammatico dissesto dell’economia dell’intera Europa piuttosto che di singoli paesi, come avvenuto con quelle sulla Siria, l’Iran e la Libia. Anche su questo argomento proseguiremo nella discussione.

Quanto al Governo Meloni è una forzatura eccessiva presentarlo come un mero appiattimento ed una mera clonazione del precedente governo retto da un funzionario plenipotenziario. Sull’onda di una politica americana che non vede più nella UE un pilastro fondamentale della propria egemonia quanto piuttosto una mera appendice sempre più ridondante delle funzioni sempre più estese della NATO; di una politica per altro che tende a delegare ai propri alleati l’esecuzione sul posto di parti significative delle proprie strategie è probabile che il Governo Meloni, dovesse durare e riuscire ad affrontare la complessità del bailamme europeo, possa nutrire la propria narrazione nazionalista, quantomeno su alcuni temi a corollario degli interessi fondamentali dell’amministrazione statunitense. Di questo ne parleremo in futuro man mano che matureranno i tempi e si presenteranno le diverse opzioni.

Da tempo le tre confederazioni sindacali non sono più tra le protagoniste principali dello scenario politico italiano; sono però le realtà politiche più costrette in una camicia di forza dalla quale appare impossibile uscire. Una gabbia in gran parte costruita con le proprie stesse mani che rende impossibile una azione coerente ed efficace di difesa degli interessi popolari e del lavoro dipendente.

I due congressi di CISL e UIL appena tenuti e le tesi del prossimo congresso della CGIL, che si terrà a marzo 2023, con varie sfumature hanno confermato questa incapacità di uscire da una narrazione così costrittiva ed invalidante. La prima con un ostentato, totale e acritico appiattimento all’orientamento atlantista ed europeista; la seconda allineata, ma con qualche punzecchiatura puntuale, ma incoerente con il contesto adottato; la terza con un allineamento evasivo, condito da un generico pacifismo e da una superficialità di analisi disarmante. Non a caso è proprio Landini la figura più motivata a confessare apertamente e candidamente il proprio smarrimento rispetto alla complessità e drammaticità del contesto geopolitico ed economico.

Come si evincerà dall’economia del testo le ragioni di esistenza e persistenza di questa gabbia non sono solo soggettive, legate agli evidenti limiti di comprensione e di formazione politica dei gruppi dirigenti sindacali; riguardano anche la ragione d’essere stessa dei sindacati combattuta da due contraddizioni non risolvibili, quanto piuttosto da gestire in corso d’opera. Nella fattispecie la strutturazione nazionale del sindacato teso a difendere universalmente o nella modalità più estesa possibile la condizione universale del salariato o del lavoratore dipendente; l’assunzione del lavoro salariato, quindi, più o meno esplicitamente, del rapporto capitalistico di produzione come chiave di volta in grado di spiegare e determinare le dinamiche sociali e le decisioni politiche delle classi dirigenti della o delle formazioni sociali. Una assunzione, quest’ultima, che nella sua connotazione più radicale, espressa nelle tesi alternative della CGIL, non va, direi non può andare, oltre e piuttosto non fa che riproporre di fatto a suo modo, comunque, la regolazione e la riproduzione, sia pure nella forma conflittuale estrema, del rapporto capitalistico.

Con tutte le difficoltà dovute al fatto che, ormai da qualche decennio, il contesto geopolitico ed internazionale viene analizzato sempre più occasionalmente e con superficialità, il punto comune di partenza è la constatazione del processo di globalizzazione come fonte degli squilibri economici e della precarietà e impoverimento nel mondo del lavoro.

Qui è opportuna una nota a margine sul fatto che gran parte dei narratori, pur dichiarandosi paladini della generale condizione lavorativa, rimangono abbagliati dal degrado di una parte di essa, quella dei paesi occidentali, compresa l’Italia, omettendo di conseguenza i progressi di condizione che parallelamente si verificano in gran parte dei paesi emergenti. Una condizione negletta, quindi, di nuovi squilibri e riequilibri, piuttosto che di un catastrofico degrado generale.

Il dato dirimente, però, è un altro e risale ai fondamenti teorici di queste affermazioni. Il processo di globalizzazione, frutto della contrapposizione capitale/lavoro, sarebbe opera di una cupola di capitalisti cosmopoliti, in particolare soprattutto magnati della finanza pura e semplice, in grado di spostare indifferentemente i propri capitali, ormai nella loro espressione più liquida.

Da qui la necessità di contrapporre a questa sorta di Associazione degli Industriali planetaria una vasta gamma di organismi sovranazionali che spaziano secondo il livello richiesto e la fuga verso aspettative utopiche e fuorvianti. Dal Governo Mondiale alla creazione di un sindacato mondiale realmente operativo, alla attribuzione fuorviante di competenze sovrane, proprie di uno Stato, ad organismi sovranazionali di altra natura e funzione, quali il FMI, l’OCSE, l’Unione Europea.

Potrebbero sembrare considerazioni troppo astratte e distanti; ininfluenti sull’azione concreta dei soggetti politici in generale, delle dirigenze sindacali in particolare.

Non è così, almeno a parere di chi scrive.

Cercherò di chiarirlo, ma prima è necessaria qualche considerazione aggiuntiva sulle dinamiche della globalizzazione, sulla funzione esplicativa del rapporto capitale/lavoro, sul rapporto tra l’agire politico e le dinamiche economiche e all’interno di esse, sulla gerarchia tra il politico (azione politica) e l’economico.

  • Sino a pochi mesi fa globalizzazione è stato il termine taumaturgico adottato per spiegare le più disparate dinamiche che attraversano l’azione umana sul pianeta; ultimamente, con il riemergere del peso delle decisioni politiche e del conflitto geopolitico aperto sembra caduto in disgrazia in una specie di ritorno al passato alimentato dalle pulsioni “sovraniste” dei centri decisori dei paesi avversi ai principi costitutivi del mondo occidentale. Nella sua definizione riferita alla condizione oggettiva, il termine indica la riduzione drastica, se non il pratico azzeramento, come nel caso delle comunicazioni e degli impulsi digitali, dei tempi una volta necessari a connettere i vari punti del globo terrestre, parte di un complesso sistema reticolare; siano essi luoghi di produzione ed economici, che commerciali, che finanziari, che di trasmissione, controllo e comunicazione. Sulla base di questa dinamica alimentata dalle economie di scala e dallo sviluppo di alcune tecnologie, ma in realtà resa possibile da una condizione politica ben determinata di cui si parlerà in seguito, si è formata una rappresentazione ideologica definibile con il termine “globalismo”, comprensivo sia della accezione positivistica-progressista che di quella populistica-movimentista. Delle due la prima ci offre una rappresentazione reticolare di connessioni puntuali di fatto prive di gerarchie che trovano il loro punto di equilibrio spontaneo e soddisfacente attraverso la compensazione dei flussi sempre più svincolati da limitazioni e sempre più intensi. Il multilateralismo può essere la traduzione politica ottimale di questa dinamica; l’equilibrio spontaneo del libero mercato il modello di riferimento di questa rappresentazione sistemica.

    La seconda delle accezioni spiega all’opposto la dinamica e il funzionamento del sistema con il controllo progressivo totalitario di una cupola ristretta di veri decisori, per lo più ricondotta ai detentori del capitale, via via sintetizzata e ridotta a quella dei detentori di capitale finanziario ed ancora a quella di detentori di quel capitale finanziario liquido del tutto separato dalle attività produttive. Le figure, quindi, in grado di controllare e determinare con la loro mobilità ed immediatezza il controllo con profitto dei processi di globalizzazione sempre meno frenati da vincoli temporali e spaziali.

  • Quanto alla funzione fondativa e pervasiva delle formazioni sociali e delle loro espressioni politico-istituzionali affidata al capitalismo, quindi al rapporto capitalistico di produzione ed ancora, in ultima istanza, al rapporto fondamentale tra detentori dei mezzi di produzione e salariati detentori della semplice forza lavoro, la permanenza della sua rappresentazione teorica è resa possibile, sia nella sua residua rappresentazione conflittuale che in quella prevalentemente “collaborativa”, solo dalla regressione schmitiana e ricardiana a lavoro/capitale della potente contrapposizione marxiana tra forza lavoro/detentori del capitale.

    La distinzione tra lavoro e forza lavoro salariata rimane importante per individuare la particolare realizzazione del pluslavoro attraverso il plusvalore come pure per individuare la particolare dinamica di produzione di risorse che consente lo svolgimento competitivo e conflittuale del mercato capitalistico con annesso corollario, però, di una “caduta tendenziale del saggio di profitto” ormai sempre di là da venire. È una rappresentazione duale di rapporto sociale che per di più non riesce a spiegare compiutamente sia la complessità delle stratificazioni sociali attraverso l’individuazione delle due classi fondamentali antagoniste, sia il contenuto antagonistico di quelle stesse due classi, giacché sia lo “sfruttato” che lo “sfruttatore” vivono la condizione di salariato. Da qui la ricorrente tentazione di tornare alla dialettica del rapporto capitale/lavoro, laddove il capitalista assume progressivamente la veste del percettore di rendite, dello speculatore indifferente, separato, avulso dalla produzione e dal produttore.

Le implicazioni di questo particolare ritorno al passato, specie quando progressivamente intrecciato, così come si sta verificando, con le tesi globaliste, sono particolarmente notevoli nelle rappresentazioni ideologiche e nelle condotte politiche di determinati centri decisori e di specifiche élites; tra questi, in particolare i centri dirigenziali sindacali, per quanto costoro sempre meno consapevoli e coscienti del proprio bagaglio e retaggio culturale e per quanto comunque richiamati al peso della realtà più prosaica e pragmatica dal carattere “mercantilizio” del loro impegno professionale.

Il globalismo, nella sua prima accezione di cui sopra, nel suo lirismo armonico autoregolatorio impedisce e vieta di individuare le gerarchie sottese, necessarie ed indispensabili a garantire il funzionamento e la fluidità del meccanismo; tende al contrario a dissolverle. Uno strabismo che impedisce di individuare il necessario ruolo egemonico e regolatore, quindi prettamente politico, assolto in qualche maniera dalle leadership statunitensi, specie negli ultimi cinquanta anni, e che dovrà essere perseguito in futuro, tutt’al più in coabitazione cooperativa/conflittuale bipolare sbilanciata, se si vorrà mantenere e sviluppare in qualche maniera l’attuale sistema globale di relazioni e connessioni. Si tratta, in pratica, di ciò che viene definito con il termine “multilateralismo” nel sistema di relazioni internazionali. È però una accezione non particolarmente radicata negli ambienti sindacali, in particolare italiani, se non in alcune componenti, nella fattispecie della CISL, non a caso, a suo tempo negli anni ‘50, di diretta emanazione vaticana e statunitense. Una osticità comprensibile in ambienti in cui prevale la funzione contrattuale e il cui gioco conflittuale/cooperativo con le controparti assume una valenza esistenziale.

È la seconda accezione di “globalismo” ad essere più congeniale alla rappresentazione, alle funzioni e agli schemi operativi di questi centri sindacali, pur essendo molto più vasta la platea attratta e mobilitata da questi schemi.

In questo compendio la liquidità, sempre più indifferente ai limiti posti dal territorio, dallo spazio, dal tempo e dal valore d’uso, tipici della tradizionale imprenditoria, è il connotato fondamentale del capitalismo; la sempre più ristretta congrega di capitalisti finanziari, dediti al movimento vorticoso dei flussi di liquidità, diviene la figura chiave e dominante del sistema in grado di determinare le sorti dell’economia, le prerogative di fatto progressivamente decrescenti e asservite degli stati, nonché gli enormi squilibri e le abissali ineguaglianze presenti sul pianeta forieri di conflitti e disastri. Una cupola tanto determinante delle sorti politiche, quanto sterile nella sua funzione parassitaria. Ad un gradino appena inferiore agiscono, secondo la rappresentazione, le multinazionali, queste ultime più legate alla realizzazione produttiva dei profitti, alle rigidità imposte dal capitale fisso (impianti), alle caratteristiche dei mercati, ma con la possibilità di giostrare allegramente nella competizione territoriale e di allentare questi legami e accrescere enormemente le possibilità di controllo con l’avvento di nuovi ambiti operativi, quali l’acquisizione e la manipolazione dei dati.

Una rappresentazione dalla enorme capacità attrattiva, il cui fascino dipende soprattutto dalla estrema facilità di individuazione dell’artefice delle cose del mondo e dell’avversario da additare ed esorcizzare. Una rappresentazione in grado di mobilitare da oltre quaranta anni masse e gruppi contestatori peregrinanti per il mondo in una sorta di rituale defatigante, quanto sterile; di spingere i centri politici contestatori o presunti tali, anche nelle loro espressioni più pragmatiche, ad inseguire le chimere del governo mondiale, dell’attribuzione di poteri effettivi ad organizzazioni sovranazionali che sono in realtà espressioni del potere reale di particolari centri decisori annidati negli stati egemonici piuttosto che di queste cupole, sino a cercare di adeguare le proprie strutture organizzative alla dialettica di queste chimere.

Alla capacità di suggestione di questa tesi, non corrisponde una analoga profondità di analisi sufficiente a fornire strumenti adeguati all’azione politica, tutt’altro.

  • Intanto bisognerebbe prendere atto che il capitalismo è ormai da tempo presente e dominante in tutte le formazioni sociali, comprese quelle definentesi ancora socialiste; continua ad essere privo di reali alternative credibili proprio per le sue capacità dinamiche e di adattamento ed anche di prospettive che riesce ancora ad offrire. Ha poco senso individuare nella contrapposizione tra formazioni capitalistiche e quelle di altra natura il motivo fondante dell’attuale conflitto politico e geopolitico; ancora meno lo si può fondare realisticamente sulla lotta di classe, sarebbe già meglio definirle di classi, quando in realtà sarebbe molto più esplicativo il conflitto e la competizione tra capitalisti e gruppi di essi gerarchicamente costituiti.

  • Restringere il focus e additare i magnati della finanza come i deus ex-machina in grado di manipolare i destini del mondo in funzione del loro profitto e della preservazione del ruolo parassitario serve ancor meno a circoscrivere efficacemente il bersaglio. Non è del resto un approccio inedito. Anche se l’ambito della finanza tende comunque ad assumere un ruolo particolare nelle fasi regressive di un attore egemone, attribuire una postura autocratica e dominante a queste componenti porta ad ignorarne la complessità ed articolazione, nonché la funzione positiva e propositiva all’interno del processo di accumulazione capitalistica e nel più ampio spazio di esercizio del potere politico. Intanto il settore finanziario è molto diversificato nei compiti e nelle funzioni; anche nei suoi nuclei più speculativi, assolvono comunque ad una funzione di drenaggio verso il centro e di condizionamento e penetrazione nelle periferie dei centri egemonici consolidati e in formazione. Basterebbe dare una occhiata poco più che distratta ai flussi verso il centro egemonico statunitense e al ruolo di tramite in queste dinamiche di paesi come la Germania, ampiamente sopravvalutate per la loro potenza effettiva. Si tratta, in realtà, anche in questo caso di coaguli di potere ben radicati nei centri egemonici, con strettissimi legami simbiotici con essi, dipendenti dalla regolazione e dalle normative e in aperta competizione tra di essi. La loro conclamata onnipotenza e la loro liquidità indifferente alle limitazioni di tempo e spazio subisce ancora dei limiti fisici pesanti, pur se con dinamiche e dimensioni storicamente mutate.

Se è vero, quindi, che la natura del modo di produzione capitalistico riesce a realizzare la propria azione cooperativa, più o meno forzata, nelle imprese attraverso soprattutto la competizione ed il conflitto nel mercato, è altrettanto verosimile che questa competizione delinea la formazione di centri decisori plurimi; che più aumenta la centralizzazione e la concentrazione, più l’azione e le decisioni di questi soggetti si allontanano dalla pura logica economica o politico-economica. In realtà quelli più importanti sono integrati a pieno titolo nei centri decisori politici, influiscono ovviamente a vario titolo ed intensità, ma devono sottostare a quelle logiche ed adattare la loro azione a quei perimetri.

Il modo capitalistico, del resto, plasma nel tempo le formazioni sociali e riesce anche a modificarne la forma mentis. Deve altresì adattarsi alle caratteristiche storiche, territoriali, politiche e culturali di queste, dimostrando una flessibilità e capacità di adattamento inedite nella storia. La stessa competizione economica, diventa essa stessa una competizione ed una imposizione di modelli.

Il capitalista, l’imprenditore, il manager, il finanziere, in quanto figure sociali e professionali dotate, per altro, di poteri di comando, tendono a formarsi una propria rappresentazione e a plasmare con essa l’ambiente. Devono fare i conti con altre rappresentazioni, specie quelle prodotte da decisori di diversa emanazione e trovare con essi punti di equilibrio e di sintesi. Riescono paradossalmente ad avere maggiore influenza nelle formazioni semiperiferiche, prive o carenti di protagonismo politico o di potere o nelle fasi, rare e temporanee, di egemonia incontrastata; la loro pervasività è deleteria nelle fasi di competizione e di conflitto egemonico sino a diventare un fattore drammatico di decadenza. Questo ovviamente al netto di manipolazioni ideologiche strumentali, così ben delineate ad esempio da analisti sagaci come Mearsheimer che conoscono benissimo i protagonisti e il modus operandi dei centri decisori statunitensi.

Per concludere il modo capitalistico di produzione fa parte e si inserisce pienamente nelle dinamiche più estese di conflitto e cooperazione politica, pur se con logiche in parte proprie. La sua conformazione e dinamica di riproduzione dipendono altresì da altre logiche e dalla particolare simbiosi di esse.

A mero titolo di esempio l’affermazione del modo capitalistico statunitense come il fallimento di quello sovietico sono dipesi dalle scelte politiche e geopolitiche; la loro capacità di innovazione tecnologica è dipesa dalla capacità di integrazione della ricerca scientifica ed applicazione tecnologica, in prevalenza militare, con le piattaforme industriali capaci di operare nella società civile. Fattore che ha reso economicamente e socialmente sostenibili le ambizioni politiche e geopolitiche, ma solo laddove l’integrazione e la sinergia è riuscita. L’agenzia DARPA statunitense, come quelle sorte in Cina, sono l’esempio più evidente della dialettica esistente tra i vari ambiti e nei centri decisori politici.

Questa lunga digressione può sembrare leziosa e ridondante rispetto al merito della produzione politica, programmatica e rivendicativa dei centri dirigenti sindacali, ormai sempre più asfittica ed incoerente; soprattutto se comparata con quella ben più ambiziosa ed incisiva, spesso per altro velleitaria e fumosa, di diversi decenni fa. Un giudizio confortato dalla frequentazione e conoscenza diretta, ai più alti livelli, di quegli ambienti di allora. Le cui tracce, però, permangono tuttora.

La lettura delle tesi e l’ascolto degli interventi congressuali delle tre confederazioni, per quanto tediosi, offrono ancora diversi spunti di riflessione inseribili nel contesto su specificato.

In ordine di grandezza e generalità dei problemi:

  • il tema della globalizzazione rappresenta la cornice fondamentale entro cui va inquadrata l’azione sindacale. Il paradigma adottato che il processo è determinato sia dalle dimensioni delle economie di scala, che dalle innovazioni tecnologiche legate ai flussi, che dalle dimensioni delle imprese e dei centri finanziari in una sorta di inerzia espansiva della velocità e del raggio di azione dei flussi e di capacità di intervento e governo di centri ed entità sovranazionali, per lo più mossi da interessi privati. La contromisura consisterebbe nella costruzione di entità politiche adeguate a coprire e regolare la dimensione e lo spazio dell’economia globalizzata. La dimensione ottimale ipotizzata sarebbe quella del governo mondiale cui far corrispondere organizzazioni sociali, nella fattispecie sindacali, di pari livello capaci di confrontarsi sia con le entità politiche che economiche di quella dimensione in una riedizione edulcorata e contrattualistica del vecchio internazionalismo

  • Nelle more il raggio ed il livello di azione ed organizzazione dovrebbe corrispondere alla dimensione degli organismi sovranazionali esistenti o in formazione. Il presupposto implicito di queste considerazioni tocca la presunta inadeguatezza della dimensione statale ad affrontare e cogliere la dimensione dei problemi. La realtà ci rivela sempre più che la globalizzazione non rivela altro che la dimensione e la gamma allargata dei campi di azione degli stati nazionali comunque destinati a rimanere gli attori principali e gli arbitri le cui prerogative hanno bisogno, piuttosto, di essere allargate e rese più incisive. Il corollario di questa presunzione è l’attribuzione a questi organi sovranazionali di poteri e prerogative che in realtà rimangono saldamente in mano agli stati e ai centri decisori in buona parte annidati in essi in grado di manovrarli ed orientarli pesantemente. Questo vale per l’ONU, per il FMI, per tutta la pletora presente nell’agone internazionale, ma anche per l’Unione Europea.

Le conseguenze derivanti dall’adozione di questo paradigma in termini di condotta politica sono enormi sia nella postura sulle politiche nazionali sia nell’atteggiamento e nelle condotte adottate nei confronti degli organismi sovranazionali.

  • Nella fattispecie della Unione Europea l’insieme del gruppo dirigente sindacale è affetto visibilmente dalla sindrome del lirismo europeista che impedisce di vedere la sua funzione precisa di subordinazione degli stati europei all’atlantismo e all’egemonismo statunitense, essendone in realtà fautori più o meno accesi ed entusiasti. Non si tratta solo di una postura di politica generale che impedisce di vedere la realtà delle politiche aggressive della NATO, di debilitazione delle politiche estere dei paesi europei, della genesi dei conflitti in particolare l’ultimo in Ucraina e il precedente contro la Serbia. Si tratta anche della particolarità delle modalità di creazione del mercato comune, della inibizione delle possibilità di sviluppo industriale ed economico dei paesi europei specie nei settori strategici, della permeabilità delle strutture finanziarie europee alle scorribande di quelle statunitensi. Ma aspettarsi da questi gruppi dirigenti una posizione appena critica ed autonoma su quest’ordine di problemi sarebbe troppo.

    Colpisce, piuttosto, la mancanza di analisi seria sulla funzione dei fondi strutturali, compresi quelli inseriti nel PNRR, e sulle forme di regolazione delle politiche di ricerca scientifica e tecnologica. Argomenti più congeniali e politicamente “accessibili” dei quali abbiamo già ampiamente trattato su questo sito. Nessuna lettura delle dinamiche innescate da queste politiche; nessuna analisi sulle conseguenze dei processi di polarizzazione e squilibrio interno creati da questi nei paesi europei. Niente che non cadesse nella mera rivendicazione quantitativa di maggiori investimenti. Pieno conformismo se non in timici accenni apparsi, ad esempio, nelle pagine più interne delle tesi congressuali della UIL ma con scarso seguito nelle conseguenze da trarne.

    Le critiche che vengono mosse sono, quindi, soprattutto di ordine quantitativo e di ulteriore spinta ed integrazione delle dinamiche già in atto.

    È la stessa qualificazione degli effettivi poteri attribuita a queste istituzioni a sviare le energie. L’azione essenziale della dirigenza sindacale dovrebbe quindi rivolgersi verso il governo nazionale ed investire i temi della sua incisività nel determinare le politiche europee, della sua presenza adeguata e attiva negli apparati burocratici, nella capacità di pressione, di contrattazione e di codecisione; tanto più che la stessa struttura produttiva del paese, fondata su piccole e medie aziende, è ancora meno in grado di influire per proprio conto sugli indirizzi di politica europea e più prosaicamente nelle pratiche lobbiste imperanti in quegli apparati.

  • La sudditanza politica ed ideologica non limita a questo gli aspetti deleteri dei comportamenti sindacali. Tutta l’impotenza e l’accondiscendenza manifestata nelle disastrose politiche di privatizzazione e cessione delle attività; tutta la sottovalutazione della necessità del mantenimento in Italia del controllo di indirizzo e gestionale delle aziende non hanno fatto che alimentare quella gestione disastrosa ed esterofila e il fenomeno, impressionante nelle dimensioni, della cessione o del trasferimento all’estero del controllo di gran parte delle stesse aziende private. Nei casi più paradossali, come quello della FIAT, con i peana di approvazione delle stesse vittime o presunte tali. La costante intangibile degli incontri rituali tra Governo e dirigenza sindacale si riduce stancamente al solito “di più” di investimenti ad integrazione dei fondi europei, piuttosto che a compensazione degli squilibri da questi creati con la conseguenza di accentuare ulteriormente le dinamiche innescate.

La conseguenza principale di questa impronta politico/ideologica è stata il decadimento progressivo ed inarrestabile della visione confederale delle politiche sindacali; probabilmente l’acquisizione più importante, pur con la sua buona dose di velleitarismo, della stagione sindacale degli anni 60/70. Il tentativo più o meno consapevole di costruire non solo la coesione politica interna al movimento operaio e sindacale, ma di legarla ad un progetto di costruzione nazionale comprensivo degli interessi e dei punti di vista di categorie diverse dal lavoro dipendente.

A questa involuzione ha fatto seguito, parallelamente e con un nesso causale stretto, il lento mutamento della postura sindacale nei suoi luoghi stessi di elezione: i posti di lavoro e le fabbriche. Da sindacato che aveva acquisito nei settori professionalizzati i propri punti di forza e di riferimento si è trasformato in sindacato dei “deboli” dalla postura vagamente tribunizia; con esso si sono impoverite le politiche salariali, sempre più orientate all’appiattimento legato al recupero del potere di acquisto dei settori più precari; è pressoché scomparsa una contrattazione seria sugli inquadramenti, mirata sulla loro corrispondenza con l’organizzazione del lavoro e sulla crescita professionale.

L’esatto presupposto per corporativizzare, laddove possibile, la difesa della propria condizione di lavoro e per ridurre la regolazione del mercato del lavoro ad una rivendicazione sterile di norme, non corroborate da politiche economiche favorevoli, ridotte sempre più a slogan impotenti.

L’elenco delle derive politiche potrebbe allungarsi a dismisura, a cominciare dall’approccio alle tematiche fiscali tutte incentrate su una visione manichea e moralistica del fenomeno dell’evasione fiscale piuttosto che del carattere vessatorio di un sistema che colpisce con diverse modalità sia il lavoro dipendente che quello autonomo.

Porterebbe però a rincorrere le tematiche ed i problemi.

Il nodo di fondo è che se i soggetti principali del confronto politico e geopolitico sono i centri decisori politici, di cui fanno parte anche gli agenti capitalisti e se gli stati sono destinati a mantenere, se non ad accrescere il loro ruolo nel confronto, anche le politiche sindacali devono essere ricondotte all’interno di un progetto serio di ricostruzione nazionale ed identitario. Quello deve essere il posto dove trovare lo spazio della difesa degli interessi popolari.

Le fughe in avanti, comprese quelle dal sapore vagamente internazionalista, per meglio dire cosmopolite, rischiano di trasformarsi drammaticamente nel loro opposto nel momenti di crisi aperta. Nella prima guerra mondiale abbiamo già conosciuto la trasformazione inopinata di quel fervore nel sostegno senza colpo ferire al bellicismo dei singoli contendenti.

La tradizione e la formazione politico-culturale di questi gruppi dirigenti, del tutto assimilabile a quella del nostro ceto politico partitico, certamente non li rende indenni da questo clamoroso trasformismo dettato dallo smarrimento rispetto agli eventi. Dal pragmatismo, attitudine notoria di questi ambienti, al bieco trasformismo il passaggio dei momenti critici è breve e repentino.

https://www.cisl.it/wp-content/uploads/2022/06/Mozione-Finale.pdf

https://terzomillennio.uil.it/wp-content/uploads/2022/10/Relazione-del-Segretario-generale-Pierpaolo-Bombardieri-2.pdf

https://www.facebook.com/100086492414055/videos/652967926339972

https://www.cgil.it/la-cgil/democrazia-e-partecipazione/xix-congresso-il-lavoro-crea-il-futuro/2022/06/22/news/materiali_congressuali-2195017/

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