Trump, ora più che mai!_di Roger Stone

Qui sotto pubblichiamo l’appello lanciato da Roger Stone a sostegno della ricandidatura di Donald Trump a Presidente degli Stati Uniti. Roger Stone è stato, assieme al Generale Flynn, una figura chiave della prima elezione di Trump. Non tutti lo hanno compreso nel movimento MAGA; forse nemmeno appieno lo stesso Trump, almeno sino a quando lo ha graziato dalla persecuzione giudiziaria allo scadere del suo mandato presidenziale. Lo hanno capito benissimo al contrario i suoi avversari portandolo con ferocia e spietatezza alla rovina economica e ad una condizione di salute precaria. Non ostante, assieme a qualche altro fondatore, abbia scelto di mettersi saggiamente in disparte al momento dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca, è rimasto comunque nel mirino spietato dei suoi avversari. Ricordiamo tutti la vergognosa spettacolarità della vera e propria operazione militare che lo ha condotto agli arresti in piena notte nella sua abitazione. Roger Stone è stato un alto funzionario dello stato federale con incarichi chiave sin dalla lontana amministrazione Nixon. Conosce benissimo i meccanismi di funzionamento delle dinamiche politiche americane ed ha intuito, tra i primi, la via del disastro verso la quale stavano conducendo il paese le varie amministrazioni, a partire da quella di Bush Senior e i centri decisori presenti negli apparati nevralgici. A settanta anni Stone getta sul terreno il peso della sua autorevolezza per sostenere ancora una volta Trump e diradare almeno in parte la cortina fumogena stesa sulle candidature alternative, o presunte tali che stanno emergendo. Non conoscendo bene, nei particolari, le dinamiche interne al movimento, nutriamo qualche dubbio, però, sulla giustezza di questa ricandidatura di un personaggio dai limiti, pari alla sua tenacia, evidenti e sulla maturità di eventuali candidature realmente alternative. Tanto più che, alla sua seconda riproposizione, non sembra disporre del sostegno e del supporto di un gruppo ben organizzato, strutturato ed esperto. La dinamica dello scontro politico negli Stati Uniti vive una fase di stallo, ma solo apparente. Di fatto la polarizzazione geografica del conflitto interno si è ulteriormente accentuata con l’ulteriore fattore dirompente di un movimento che continua ad estendersi nei ceti popolari produttivi delle varie etnie. L’alterazione dei risultati elettorali con brogli ormai su scala industriale sta facendo il resto, insinuando il dubbio sulla effettiva efficacia di un impegno politico fondato e dettato esclusivamente sulle scadenze elettorali in un movimento che ha compreso l’importanza di un radicamento nei centri amministrativi e di potere e di una connessione con quelle élites dissenzienti con l’attuale politica avventurista. Il movimento MAGA vive all’interno profonde contraddizioni tra chi punta ad una azione tendente semplicemente a dividere il fronte geopolitico avversario che si sta compattando, più per la costrizione esterna americana che per affinità dei componenti, attorno al polo russo-sino-indiano e chi, mosso probabilmente da una impostazione economicista e un po’ ingenua, tende a ridurre le dinamiche geopolitiche ad una serie di relazioni bilaterali mutevoli. Una interpretazione, quest’ultima, probabilmente accettabile e praticabile solo in una fase temporanea di transizione verso una ricomposizione multipolare degli schieramenti e non a caso sostenuta, paradossalmente, anche dalla attuale leadership cinese. Un aspetto che avrebbe dovuto far riflettere meglio la dirigenza cinese, riguardo al suo comportamento nei confronti di Trump. Un movimento il cui successo, però, potrebbe condurre ad una dinamica meno tragica le relazioni geopolitiche e spostare più all’interno degli Stati Uniti un conflitto che, altrimenti, coinvolgerà il mondo intero. Una classe dirigente e un ceto politico serio e legato agli interessi fondamentali dei paesi europei più importanti dovrebbe sostenere ed agevolare convintamente la strada di questo movimento proprio per gli spazi che un suo successo definitivo aprirebbe ad una condizione più autonoma ed indipendente dell’Europa. Il carattere miserabile, stupido, insipiente e compradore di questi, già visibile in quei quattro anni, sta emergendo, purtroppo, sempre più alla luce del sole condannando, con poche eccezioni, un intero continente al disastro inconsapevole ed autolesionistico a vantaggio di una élite sempre più arroccata. Buona lettura, Giuseppe Germinario

 

ROGER STONE: TRUMP, ORA PIÙ CHE MAI

Trump non è accettato o sostenuto dai membri titolari di tessera dell’establishment repubblicano di Washington. Questa è una virtù, non una pecca.

 

Nel suo discorso di annuncio alle sua corsa alle presidenziali 2024, un discorso ordinato e perfettamente disciplinato, Donald Trump si è riformulato come un outsider politico pronto a tornare alle guerre politiche di vecchia stagione e a sfidare gli interessi politici e mediatici radicali che hanno sistematicamente ribaltato e neutralizzato il progressi fatti durante la sua prima presidenza.

Quelli del movimento MAGA riescono a percepire, attraverso la narrativa accuratamente orchestrata, implacabile e completamente falsa, la tesi che cerca di incolpare l’ex presidente per la sottoperformance del partito repubblicano nelle elezioni di medio termine. Com’è conveniente che la vittoria relativamente facile del candidato appoggiato da Trump J.D. Vance in Ohio, così come la dura, ma riuscita rielezione del senatore Ron Johnson (forse il più grande difensore di Trump al Senato degli Stati Uniti) in Wisconsin sono così facilmente trascurate dai media.

Quelli della cabala corporativa/governativa/mediatica ora elevano lo spettro di una candidatura del governatore della Florida Ron DeSantis. La scelta di De Santis come principale nemico di Trump è un riconoscimento del fatto che il collegio elettorale dell’America Prima (MAGA) è ancora dominante alla base del Partito Repubblicano. DeSantis, nonostante il suo pedigree, ha governato in Florida seguendo il manuale del MAGA.

L’establishment, che ora cerca di distruggere Trump, ha già riconosciuto la non fattibilità di presentare come alternativa a Trump l’ex vicepresidente Mike Pence o l’ex direttore della CIA e segretario di Stato Mike Pompeo, tutte e due potenziali candidature assolutamente impopolari tra la base di MAGA. L’ascesa di una potenziale candidatura di De Santis, toglie prezioso ossigeno che una delle loro candidature richiederebbe.

L’unico altro potenziale candidato, dietro cui la cabala repubblicana/mediatica poteva schierarsi, il senatore della Florida Marco Rubio, è stato sostanzialmente neutralizzato da Trump quando l’ex presidente ha tenuto un comizio caloroso a favore di Rubio, in Florida, nel momento in cui  la rielezione del Senatore Rubio era in bilico. La sfida contro la candidata Democratica si presentava problematica poiché la deputata della sinistra radicale; Val Demings era ben finanziata e organizzata. L’intervento di Trump ha tolto dalla pentola bollente Rubio forzando poi Rubio ad essere in debito con Trump e quindi ora fedele all’ex presidente.

Prima del comizio di Trump a Miami, i sondaggi mostravano che Rubio era in vantaggio su Demings di soli tre punti, ma dopo il comizio di Trump, il senatore Rubio ha ottenuto una vittoria finale di 16 punti rispetto alla Demings.

Con Pence e Pompeo che mancano del necessario appeal nella base repubblicana e con Rubio dipendente ora da Trump,altro non rimane che DeSantis.

Ieri sera ho partecipato allo storico annuncio del presidente Trump a Mar-a-Lago della sua candidatura per le presidenziali del 2024. C’era elettricità nell’aria che non vedevo né sentivo dall’inizio del 2016. I media hanno rapidamente sottolineato che mentre io e Mike Liddell, descritti come “i sostenitori di Trump”, eravamo tra il pubblico, nessun membro del nuovo Congresso era presente . Ancora una volta, i media giudicano male l’umore degli elettori;  il fatto che Trump non sia appoggiato o sostenuto da membri tesserati dell’establishment repubblicano di Washington è un pregio, non un difetto.

L’assalto organizzato dall impero mediatico NewsCorp di Rupert Murdoch, tra cui Fox News, il Wall Street Journal e il New York Post, mette in mostra una chiara impressione errata del ruolo svolto da Fox e dalle altre testate giornalistiche di Murdoch nell’ascesa iniziale di Trump.

Fox News ha cercato sistematicamente di promuovere più sfidanti a Trump nelle primarie del 2016. Tuttavia, ha visto svanire quegli sforzi quando hanno scoperto che trasmettere dall’inizio alla fine i comizi di Trump faceva guadagnare gli indici più alti di ascolto mai registrati prima nella storia di Fox News, consentendo così a Murdoch di addebitare molto di più per la pubblicità sulla sue reti. Fox News ha  beneficiato della nomina e dell’elezione di Donald Trump più che Trump abbia beneficiato delle dirette fatte dalle emittenti di Murdoch.

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump potrebbe affrontare coloro che traggono grandi profitti dall’immigrazione illegale e frontiere aperte?

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump smaschererà e correggerà la corruzione nelle nostre agenzie di intelligence e negli uffici delle forze dell’ordine, come la CIA e l’FBI?

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump organizzerà una campagna nazionale per porre un limite temporale per  i membri eletti del Congresso?

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump imporrebbe il divieto agli ex membri del Congresso, o del ramo esecutivo, di esercitare pressioni dopo aver lasciato le alte cariche del governo?

Qualcuno crede che qualsiasi candidato diverso da Donald Trump sfiderà il duopolio bipartitico che sta cercando di cancellare la nostra eredità, cancellare la nostra Costituzione e distruggere le stesse libertà che garantiscono lo stile di vita americano?

Ecco perché sono con Trump, ora più che mai.

 

Roger Stone

L’Ucraina è una cartina tornasole_con Antonio de Martini

L’Ucraina si sta rivelando una vera e propria cartina di tornasole in grado di rivelare gli interessi di fondo, la coerenza dell’azione dei vari attori rispetto a questi e la postura e statura di questi nell’agone internazionale. La Russia, l’Ucraina, la Turchia e l’Italia sono l’oggetto di attenzione di questa conversazione con Antonio de Martini. Buon ascolto, Giuseppe Germinario

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LEGISLATURA E DUALISMO COSTITUZIONALE, di Teodoro Klitsche de la Grange

LEGISLATURA E DUALISMO COSTITUZIONALE

Qualche mese fa (21/12/2021) osservavo in un articolo che Costantino Mortati aveva elaborato il concetto (nella modernità dovuto principalmente a Lassalle) e coniato il termine di “costituzione materiale”. Il termine, secondo il giurista calabrese indicava «una raffigurazione della costituzione che colleghi strettamente in sé la società e lo stato, è da ribadire quanto si è detto sull’esigenza che la prima sia intesa come entità già in sé dotata di una propria struttura… e risulti sostenuta da un insieme di forze collettive che siano portatrici della divisione stessa e riescano a farla prevalere dando vita a rapporti di sopra e sotto–ordinazione, cioè ad un vero assetto fondamentale che si può chiamare “costituzione materiale” per distinguerla da quella cui si dà nome di “formale”».

Nella repubblica i partiti del CLN che avevano elaborato il testo della Costituzione alle successive prime elezioni politiche del 18 aprile ’48 conseguivano oltre il 90% dei voti, espressi da circa il 90% degli elettori: ne conseguiva che almeno l’80% dei cittadini italiani aveva votato i partiti del CLN. Fino agli anni ’80 la situazione variava di poco: i partiti ciellenisti conseguivano all’incirca l’80%-85% dei voti espressi.

Con l’ascesa della Lega e il crollo del comunismo tale consenso plebiscitario si riduceva. Già nel 1994 i partiti non ciellenisti (e non rivendicanti l’eredità di quelli) riportavano tra un terzo e la metà dei voti espressi.

Nel decennio trascorso il divario è cresciuto: il successo dei partiti anti-establishment dal 2018 (al più tardi) ha la maggioranza dei suffragi. Oltretutto anche tra gli altri l’affectio alla costituzione formale appare ridimensionato – almeno in alcuni.

La novità (prevista) – a questo riguardo – è che FdI, cioè il partito dei volutamente esclusi dall’arco costituzionale ha conseguito alle politiche il 26% dei suffragi, mentre il PD, cioè il partito della “costituzione più bella del mondo” ha il 18%. Inoltre la maggioranza anti-establishment è stata confermata. Dalla propaganda elettorale (e successiva) del PD basata in larga parte sull’antifascismo e sulla provenienza post-fascista della Meloni, a giorni probabilmente incaricata di formare il governo, si ricava che la Repubblica “nata dalla resistenza” e dotata della Costituzione “più bella del mondo” avrà un Presidente del Consiglio “post-fascista”. A parte la foga della propaganda, questo è un bel caso di “paradosso delle conseguenze”, scriverebbe Freund. Infatti se a una costituzione formale corrisponde una costituzione materiale diversa – e questo è il caso – la conseguenza non è che il popolo (e le forze politiche che ne hanno il consenso) deve adeguarsi alla Costituzione formale, ma che quella formale dev’essere adeguata a quella materiale, almeno in una democrazia.

Anche se sono convinto che nella situazione in cui è ridotta l’Italia, con oltre 5 milioni di poveri assoluti, vincoli esterni spesso matrigni, debito pubblico alle stelle, saccheggio fiscale e così via, quello di cambiare la Costituzione formale non è il problema più urgente, non bisogna trascurarlo né rinviarlo alle calende greche.

Soprattutto perché è la Costituzione ma soprattutto la forma di governo parlamentare ad essere una delle ragioni della decadenza della Repubblica. Questo già quando le forze riconducibili alla costituzione materiale avevano un consenso largo: ora che ci troviamo in una situazione di non corrispondenza tra formale e materiale, l’urgenza appare superiore. Il sintomo più evidente dell’allargamento del divario dopo, s’intende, il deperire dei partiti ciellenisti, è il crescere dell’astensionismo: governante la “seconda repubblica” l’astensionismo è aumentato di oltre 20 punti percentuali (alle elezioni politiche).

Secondo un modo di pensare diffuso, volto a considerare l’osservanza della legalità come criterio “moderno” della legittimità, è sufficiente osservare le procedure legali, in ispecie quella di successione al potere, perché il potere sia legittimo. Tuttavia senza disprezzare del tutto tale tesi, questa va ridimensionata. Ciò che fa delle leggi fondamentali un costituente/legittimante e un principio costituzionale è che siano scritte non sulla carta, ma nel “cuore” dei governati. Due pensatori agli antipodi come Rousseau[1] e de Maistre[2] lo sostenevano. E tanti altri hanno condiviso tale concezione: da Hauriou a Lasalle. Quest’ultimo riteneva la Costituzione formale “un pezzo di carta”, sul quale erano “buttati giù” i rapporti di forza effettivi. Se però questa operazione non era ne è realizzata, ne consegue un dualismo costituzionale, in cui a differenza (parziale) del dualismo di potere, chi ha la maggioranza non governa effettivamente, e chi governa effettivamente non ha la maggioranza.

Situazione squilibrata, che presuppone di essere (rapidamente) risolta.

Teodoro Klitsche de la Grange

[1] “Non vi sarà Costituzione buona e solida se non quella in cui la legge regnerà sui cuori dei cittadini” Considerazioni sul governo di Polonia”, Bari 1971, n. 179.

[2] “in che libro era scritta la legge salica… essa era iscritta nel cuore dei francesi” Des Constitutions politiques et des autres institution humaines, II,S. Pietroburgo, 1814.

Fermare la guerra! A quali condizioni?_di Giuseppe Germinario

Siamo al nono mese di guerra in Ucraina. Al progressivo e sempre più evidente coinvolgimento degli Stati Uniti e al trascinamento dei paesi della Alleanza Atlantica in Europa, corrisponde un affievolimento dell’entusiasmo, che in Italia per la verità non ha raggiunto mai vette eccelse, nel sostegno al regime ucraino. Non è ancora una opposizione aperta, anche perché in Italia manca totalmente una leadership politica in grado di alimentarla, sostenerla e dirigerla con discernimento. Il senso di inquietudine e di malessere, però, è palpabile e crescente.

Sarà il rischio sempre più evidente di uno scontro militare aperto che vedrebbe per la terza volta l’Europa come il campo di battaglia di un confronto che vede questa volta, a differenza delle altre due, negli Stati Uniti, un paese separato da un oceano e nella Russia, un paese immerso in due continenti con un piede ben saldo nel 40% del territorio europeo; sarà per le drammatiche conseguenze delle sanzioni, nominalmente volte a punire la Russia, di fatto a stroncare l’Europa, in primis Germania, Francia e Italia. Persino il nostro ceto politico, così entusiasticamente ed acriticamente schierato nel sostenere l’avventurismo statunitense, comincia a intravedere l’arrivo di fosche nubi all’orizzonte e a percepire la difficoltà nel dover gestire una situazione potenzialmente esplosiva.

Flebili voci iniziano ad alzarsi per “fermare la guerra” e “raggiungere la pace”. Un coro al quale partecipano anche i partigiani più oltranzisti nel sostegno al regime ucraino, alimentando con questo la confusione e gli equivoci nei quali rischierà di affogare ogni iniziativa seria e realistica. Una situazione non nuova nel panorama politico italiano così magmatico e paludoso.

Su questo tocca dare ragione a Calenda e alla sua chiarezza inequivocabile di schieramento. Ci è toccato vedere addirittura il PD manifestare per la pace di fronte alla ambasciata russa, dimenticandosi degli altri attori geopolitici coinvolti a pieno titolo. L’unico segno di cautela, dubito di ritegno, la fine di ogni velleità di assunzione di un ruolo di mediatore, resa provocatoria dall’atteggiamento del Governo Draghi.

Ogni presa di posizione credibile ed ogni iniziativa realistica non può prescindere dalle risposte da dare a tutta una serie di interrogativi rimossi dai facitori di opinione pubblica e dai costruttori di consenso:

  • Come mai gli Stati Uniti non hanno sottoscritto gli accordi di Minsk?

  • Come mai gli Stati Uniti hanno pesantemente armato, organizzato ed integrato, nella fase di latenza degli accordi, l’esercito ucraino con caratteristiche sempre più offensive e si sono spinti sino a sottoscrivere con il regime ucraino, nell’ottobre 2021, un accordo di mutuo soccorso che prevedeva addirittura l’insediamento di un consolato in Crimea?

  • Con quali finalità gli Stati Uniti hanno finanziato ed insediato, con la partecipazione del Pentagono e dei Servizi, decine di laboratori bio-chimici a ridosso dei confini con la Russia?

  • Come mai Francia e Germania hanno dimenticato di esercitare il proprio ruolo di garanti, previsto dagli accordi di Minsk?

  • Quale il motivo della rimozione riguardo alla natura del regime ucraino, nato dal peccato originale di un colpo di stato nel 2014, mosso da una strage ad opera di provocatori ormai in gran parte noti a piazza Maidan, proseguita con altre stragi ed esecuzioni ad Odessa, Melitopol e in tutta l’area russofona e russofila del paese, andata avanti con la progressiva messa al bando di partiti dell’opposizione, siano essi russofili, neutralisti o solo critici del crescente interventismo del regime ucraino?

  • Quale il motivo del silenzio sulle aperte discriminazioni nei confronti della componente russa e russofona, pari a ben oltre il 40% della popolazione originaria dell’Ucraina al 2014, culminata col la legge di tutela delle sole minoranze prive di statualità o con statualità interne alla Unione Europea?

  • Perché il sistema mediatico e politico, nella quasi totalità, continua ad omettere la esistenza e la dimensione reale delle stragi di propri civili, perpetrate coscientemente dall’esercito ucraino a fronte della continua segnalazione di stragi da parte russa, per altro in gran parte smentite dalla documentazione disponibile?

Tutti interrogativi posti non solo in nome di una esigenza astratta di verità o nel caso peggiore da una inconscia e acritica partigianeria e tifoseria a favore di uno dei contendenti, quanto dalla risposta dalla quale dipende una corretta e realistica azione tesa ad una tregua e ad un accordo possibile tra le parti.

Una tregua e un accordo che dipendono sostanzialmente da una premessa e da quattro determinanti necessarie a definire l’ambiente ecologico del teatro ucraino.

La premessa è che nel diritto e nelle convenzioni internazionali viene riconosciuta la facoltà di intervento bellico preventivo in caso di minaccia diretta, così come argutamente stigmatizzato dal professor Sinagra. Una situazione che andrebbe quantomeno approfondita, ma che i politici e l’informazione occidentale si sono ben guardati dall’analizzare sul campo. A questa segue il fatto che il principio di integrità territoriale di uno stato è contemperato dal diritto di autodeterminazione dei popoli, meglio se regolato secondo dinamiche concordate e vigilate nella loro osservanza dagli organismi internazionali. Nel contesto post-sovietico vi è comunque una fase di transizione che dovrebbe essere regolata secondo accordi politici che considerino i contenziosi inevitabili e le implicazioni per le nuove minoranze venutesi a determinare. Quello della discriminazione delle minoranze russe nei paesi seceduti dalla Unione Sovietica, poi denominata CSI, in particolare. L’azione statunitense, della NATO e della Unione Europea ha alimentato queste contrapposizioni piuttosto che risolverle o contenerle in funzione delle sue politiche espansive e russofobiche.

Quanto alle determinanti da tenere conto quanto segue:

  • non si può prescindere dal carattere di guerra civile, col tempo sempre più virulento, assunto dal conflitto militare in Ucraina;

  • né si deve sottovalutare la capacità operativa e di supporto delle forze militari e del complesso militare-industriale russo; sopravvalutare, sino a ritenerlo illimitato, quelli degli Stati Uniti e dell’Alleanza Atlantica;

  • riuscire ad individuare i limiti e la soglia sulla quale è disposta a fermarsi la leadership statunitense. Limiti e soglia non predeterminati dalla amministrazione americana, ma dipendenti dall’andamento del feroce scontro politico in corso all’interno della stessa e tra questa e l’opposizione sempre più strutturata del movimento trumpiano;

  • dalla volontà di una qualche parte delle élites politiche europee di inserirsi in quello scontro per far uscire il continente o almeno parte di esso dalla morsa mortale e suicida in cui si è progressivamente cacciato in un contesto paradossale nel quale la Russia sembra subire i maggiori problemi nel proprio vicinato prossimo, ma, assieme a Cina e India, sembra acquisire crescenti consensi nel resto del mondo a discapito del mondo occidentale.

Tutti fattori che rendono improponibile un mero ritorno agli accordi di Minsk, ma la cui azione protratta nel tempo renderà sempre più costoso il prezzo da pagare in caso di cedimento e più rischiosa l’eventualità di un azzardo.

Una cornice realistica che potrebbe definire un “manifesto alla nazione”, una piattaforma in grado di fermare la corsa alla guerra e al disastro socioeconomico cui stiamo andando incontro e che superi le due tare che inibiscono lo sviluppo di un movimento politico maturo ed efficace: la partigianeria e la tifoseria che, ad armi impari, comunque pervade gli schieramenti in campo; il massimalismo di una opposizione strisciante ma irrilevante che, sull’onda di slogan facili quali l’uscita dalla NATO, senza comprendere le pesanti, probabilmente drammatiche, implicazioni nel tempo e nel merito che una tale decisione comporterebbe, è destinata a rinchiudersi nel ruolo di testimonianza, di contestazione di comodo o di azioni avventate; la strumentalizzazione a fini di gestione partitica interna di iniziative per altri versi significative.

La leadership turca, ungherese, probabilmente quella futura bulgara e moldava, il passato gaullista della Francia mostrano la possibilità di azione entro i comunque angusti spazi offerti dal sistema di Alleanza Atlantica: offrono spazi, per di più, anche a quei settori sempre più presenti, che pur intendendo rimanere fedeli all’alleanza, intendono garantire un ruolo più autonomo al proprio paese. E qualche pallidissima traccia di questo atteggiamento lo si può rilevare persino nei programmi elettorali di alcuni partiti, quali la Lega. Che poi nel tempo, questa sia una posizione realistica, sarà tutta da dimostrare.

L’importante è sapere che più va avanti il processo di integrazione della alleanza, più sarà difficile e doloroso districarsi dai suoi tentacoli; in tutti gli ambiti, non solo quello militare. Ne parleremo quando approfondiremo il contenuto del NSS, appena prodotto dalla amministrazione statunitense

QUALCHE NOTA SULLE ELEZIONI, di Teodoro Klitsche de la Grange

QUALCHE NOTA SULLE ELEZIONI

Sull’esito elettorale più scontato, previsto e prevedibile della storia della Repubblica italiana (prima e seconda) occorre fare qualche considerazione, selezionandole tra le meno frequentate dai giornali di regime.

La prima è che, come capita da oltre 5 anni, la larga maggioranza dei votanti, si è orientata verso partiti anti-establishment. Dalle politiche del 2018 (ma in effetti dalle ultime amministrative ad esse precedenti) la somma dei voti conseguito da M5S, Lega, FDL e partitini popul-sovranisti è largamente superiore al 50%.

Da ultimo abbiamo avuto il 26% a FDI, il 16% al M5S, il 9% alla Lega, più circa il 4% ad Italexit, Italia sovrana e popolare, ecc. ecc., cioè sommando il 55%. Che è, decimale più o meno, quanto conseguivano gli stessi sia alle politiche 2018 che alle europee 2019. Una robusta maggioranza anti-establishment che ha acquisito stabilità. Si potrebbe replicare che è una maggioranza frazionata in più soggetti politici e quindi priva di compattezza.

Sicuramente in tale obiezione c’è del vero, ma a patto di considerare anche come da un lato, lo scambio dei voti tra partiti è stato soprattutto all’interno dello “schieramento”: per cui i voti persi dal M5S alle politiche 2018 sono passati (circa la metà) alle europee 2019, a favore quasi totale della Lega e FDI, del pari tali voti sono transitati alle politiche 2022 dalla Lega a FDI. A parte comunque qualche decimale restituito, alla differente distribuzione tra i partiti corrisponde una scarsa permeabilità tra gli schieramenti (filo establishment/anti-establishment). Di voti ritornati dal M5S al PD o dalla Lega a FI ce ne sono stati, dai risultati, assai pochi, una frazione minima di quelli transitati all’ “interno”. Ad essere esaurienti anche lo schieramento filo-establishment ha avuto un andamento analogo: lo scambio è quasi tutto avvenuto al proprio interno, peraltro per cifre percentuali meno imponenti che in quello maggioritario.

Qualche anno fa mi capitò di scrivere come la situazione ricordava la tesi di Gramsci del “blocco storico” che il pensatore sardo vedeva realizzato dalla convergenza (rivoluzionaria) di operai del nord e contadini del sud, ripetuta oggi, nel XXI secolo, dall’alleanza tra ceti medi (prevalentemente rappresentati dalla Lega) e strati popolari (M5S), tutti consapevoli che la deriva economica infausta della seconda Repubblica li stava impoverendo (in economia) ed emarginando (in politica). Da cui la necessità di pensionare/privatizzare la vecchia classe dirigente (il momento del “vaffa”), connotata (negativamente) dall’idoneità, confermata in circa 20 anni, di tenere l’Italia ferma al più modesto (sotto)sviluppo d’Europa, di cui lo stivale è l’ultima ruota (dopo esserne stata per tanti anni – precedenti la “seconda Repubblica” – uno dei motori).

Il nuovo blocco, imputabile principalmente a detto tasso di (sotto)sviluppo si è realizzato in molti anni, ma con una particolare accelerazione a partire dal governo Monti. Questo, facendo peraltro aumentare assai il rapporto debito pubblico/PIL prese alcune misure particolarmente significative per l’ascesa delle forze anti-estabishment: l’IMU, la Legge Fornero, il blocco della rivalutazione delle pensioni “alte”. Malgrado i sacrifici imposti a contribuenti e lavoratori, ottenendo risultati negativi. Il tutto tra gli osanna dei media mainstream.

Dopo un insuccesso di tale portata, partite IVA, pensionati prorogati, pensionati d’oro e d’argento (v. stampa mainstream) ecc. ecc. capirono che l’interesse che li univa era quello di liberarsi di una classe dirigente rapace ed incapace, e che tutto il resto, in particolare gli interessi in conflitto tra loro era – ed è – secondario.

E che quindi il nemico (interno) era lo stesso. Si sa da millenni il nemico è un elemento unificante di ogni soggetto (o coalizione) politica. Di fronte alla sfida da esso rappresentata cessano i conflitti (v. Eschilo) o meglio si relativizzano, e si incrementa coesione e consistenza del soggetto (o della coalizione) che gli si contrappone. È il nemico il sicuro cemento anche delle alleanze, perfino le più eterogenee (v. il capitalismo anglosassone e il comunismo sovietico nella II guerra mondiale), come delle coalizioni interne (v. i governi di salute pubblica in guerra, come quello di Churchill-Atlee). Inoltre l’elettorato di schieramento privilegia tra i partiti anti-establishment quello che appare come il più contrapposto alle élite: nel 2018 il M5S, da sempre all’opposizione, nel 2019 la Lega di Salvini anti-migranti ed anti-Fornero, nel 2022 FdI unico partito d’opposizione al governo Draghi, filo-europeo e filo-atlantico. Il sentimento politico funziona anche all’interno dello schieramento. Onde il “blocco” nato nel secondo decennio di questo secolo è poco scalfibile. Almeno a livello di base.

Per cui anche la piroetta fatta col governo Conte-bis (l’alleanza col partito simbolo dell’establishment, cioè il PD) accentuava il ridimensionamento del M5S, ma non faceva perdere un voto al “blocco”. E soprattutto – e logicamente – non ne faceva guadagnare al PD. Anzi la caduta del governo Draghi da una parte, e la difesa del reddito di cittadinanza – contrastato da gran parte degli altri partiti – dall’altra rianimavano il M5S il quale recuperava all’ultimo momento gran parte dei voti persi tra il 2019 e il 2022. A conferma della forza attrattiva della collocazione anti-establishment (o meglio anti-sistema), capace di far recuperare anche incoerenze, trasformismi (e diffidenze).

Resta da vedere in che modo il M5S riuscirà a gestire l’evitato disastro. Populizzando la sinistra, dato che il PD, tallonato nelle percentuali dai grillini, è in serie difficolta? O spingendo sulla crisi e diventando il Melenchon italiano? O facendosi egemonizzare dal PD (e satelliti) e probabilmente candidarsi all’estinzione per anoressia elettorale?

La seconda, peraltro, non silenziata dai media di regime, è la bassa affluenza alle urne. Ma ad essere silenziato non è tanto il fatto (incontestabile) ma la di esso interpretazione più probabile.

Aspettiamoci anzi che venga utilizzato per delegittimare il governo futuro, sostenendo che, avendo il centrodestra il consenso di circa il 30% degli elettori, non sia rappresentativo della maggioranza del “paese reale”. A cui è facile rispondere che è sempre meglio ottenere il consenso di una grossa minoranza del corpo elettorale, che quello dei “poteri forti”, di natura non elettivi ed espressione di assai ristrette minoranze.

Ma non è questo il dato essenziale: l’astensionismo diffuso un tempo – quaranta o cinquant’anni fa, era giustificato con l’omogeneità delle società che ne erano affette, soprattutto gli USA (all’epoca votavano, alle presidenziali, circa il 60% degli aventi diritto al voto); non c’erano tra repubblicani e democratici, “scelta di civiltà” sulla quale decidere e/o contrapposizioni di sistema come percepito in Italia.

Nel caso dell’Italia di oggi tuttavia la spiegazione più probabile di tale disaffezione al voto è un un’altra – e peggiore per la salute delle istituzioni -: è che è aumentato lo iato tra volontà espressa dagli elettori, e concrete decisioni conseguenti alle elezioni. Interventi per la composizione del governo a carico di candidati ministri scomodi, governanti mai eletti neanche in un consiglio scolastico, partiti che cambiano schieramento, parlamentari che migrano da un partito all’altro, pressioni da governanti e/o istituzioni straniere hanno aumentato a dismisura il fossato tra volontà popolare e azione di governo. Per cui andare a votare appare un inutile perdita di tempo e una presa in giro. Ma è certo che ogni regime politico si fonda sul consenso (dal basso all’alto) e sul potere (dall’alto al basso): se manca il primo il sistema è zoppo; può durare per tempo limitato, per poi entrare in crisi e sfociare a prezzo di un grosso scossone (dalla rivoluzione in giù) in un governo legittimo (opposto se non diverso). Va da se che gli astensionisti di tale tipo sono non degli indifferenti, ma dei disperati. Sono la disperazione 2.0; ma in quanto tali più propensi a cambiare il sistema che a conservarlo. Sicuramente questo a quota (crescente) di disperati non esaurisce né occupa l’intero serbatoio dell’astensione elettorale, ma una buona parte.

C’è da chiedersi peraltro il senso che avrebbe una manifestazione di indifferenza nel momento in cui tutta la stampa (di regime o meno) e tutti i politici sottolineano che siamo nella peggiore crisi dal dopoguerra; e ciò corrisponde alla percezione della maggioranza degli italiani. Essere indifferenti in una situazione del genere è pericoloso per sé e per gli altri.

In terzo luogo uno degli effetti della crisi è – in genere – l’intensificarsi del sentimento politico, cioè della contrapposizione amico-nemico, nonché della violenza interna ed esterna alla comunità.

Clausewitz riteneva il sentimento politico uno dei componenti la triade della guerra; Girard faceva notare che la violenza si accompagna ad ogni crisi come mezzo (reale od immaginario) di soluzione. Anche le epidemie che provocarono esecuzioni pogrom, disordini, linciaggi (a farne le spese, durante la peste nera, soprattutto gli ebrei). Non è facile che oggigiorno si ripetano scenari di violenza collettiva; ma l’innalzarsi della temperatura del sentimento politico è visibile proprio dal carattere coeso, durevole e (poco) permeabile del blocco maggioritario.

La coesione del gruppo sociale in lotta è proprio uno degli effetti della contrapposizione ad un nemico. Onde è il maggiore sintomo del rafforzamento della medesima.

Da ciò deriva che tale coesione può essere mantenuta a patto di non trascurare il presupposto: ossia l’identificazione del nemico che, al fine di non cadere nell’accusa di guerrafondaio, sarebbe meglio definire colui che è animato da un’intenzione ostile e che è riconosciuto come tale. Verso il quale non è necessario muovere guerra, ma prendere atto dei contrapposti interessi. Trattare anche, perché anche l’inimicizia è una relazione sociale e proprio quella con il nemico – compresi gli accordi – ha un’importanza decisiva. Tutt’è non illudersi e non illudere. Perché la prima via porta alla sconfitta, la seconda alla disgregazione (tra vertice e base).

Compito difficile ma non impossibile, che è il segno distintivo degli statisti; merce assai rara negli ultimi trent’anni.

Teodoro Klitsche de la Grange

COME, ATTRAVERSO LA SUA PRESENZA IN LIBIA, LA TURCHIA RICATTA L’UE, di Bernard Lugan

Il conflitto ucraino e la politica sanzionatoria imposta dagli Stati Uniti alla Russia hanno accresciuto enormemente l’importanza e la competizione dei paesi, in particolare quelli europei e in primis l’Italia, nell’area sud-orientale del Mediterraneo. Una regione già di per sé altamente instabile. Ad un accresciuto interesse, corrisponde però un drammatico ridimensionamento del peso geopolitico di Francia, Spagna, Grecia e Italia e l’intenzione della attuale leadership statunitense di accontentare e ricondurre in qualche modo le ambizioni turche e di fare dell’Ucraina e di alcuni paesi dell’Europa Orientale i veri pivot, anche energetici, in grado di controllare e condizionare pesantemente eventuali ambizioni autonome della Germania e della Francia. L’Italia è come non data, irrilevante. La Nuland, potente e famigerata sottosegretaria agli esteri americana, ha infatti più volte affermato che si deve semplicemente arrangiare. L’ennesimo scorno per chi, come l’ENI, è stata protagonista delle ricerche di giacimenti in quell’area. Ma forse anche persino l’ENI volge uno sguardo sempre più distratto verso il nostro paese. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Certamente non rimprovereremo al Presidente Erdogan di aver difeso gli interessi nazionali del suo Paese, ma gli ectoplasmi dell’UE per essersi piegati alla sua politica.

Per l’UE l’unica seria alternativa al gas russo è quella offerta dal gigantesco giacimento situato nelle acque territoriali di Egitto, Gaza, Israele, Libano, Siria e Cipro (vedi mappa a pagina 9). Riserve di 50 trilioni di m3, o ¼ dei 200 trilioni di m3 stimati di riserve mondiali, più riserve di petrolio stimate in 1,7 miliardi di barili. Tuttavia, è attraverso il gasdotto EastMed che devono avvenire le future esportazioni verso l’Italia e l’intera Ue. Ma, dal 1974, la Turchia, che occupa militarmente e illegalmente la parte settentrionale dell’isola di Cipro, afferma di fatto di avere dei “diritti” territoriali su questo giacimento di gas. Per essere riconosciuta, Ankara blocca il progetto EastMed ricattando l’UE. Per “facilitare” la “riflessione” degli europei, la Turchia ha preso un solido impegno in Libia. Torna indietro. Il 7 novembre 2019, messo alle strette militarmente a Tripoli dalle forze del maresciallo Haftar, il governo di unità nazionale (GUN) guidato da Fayez el-Sarraj, ha chiesto alla Turchia di intervenire per salvarla. Il presidente Erdogan ha accettato in cambio della firma di un accordo marittimo che gli permettesse di ampliare l’area della sua area di sovranità, tagliando la zona economica marittima esclusiva (ZEE) della Grecia situata tra Creta e Cipro, proprio dove deve passare il futuro gasdotto EastMed. Questo accordo, che quindi traccia artificialmente e illegalmente un confine marittimo turco-libico nel mezzo del Mediterraneo, consente alla Turchia di tagliare l’asse del gasdotto EastMed da Cipro poiché quest’ultimo passerà attraverso acque divenute unilateralmente turche. Il presidente Erdogan sa benissimo che questo accordo viola la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), ma la Turchia, il cui obiettivo è l’ampliamento del proprio spazio marittimo, non l’ha firmato, quindi ha potuto affermare che qualsiasi futuro gasdotto o gasdotto richiederà ora un accordo turco. Il 17 dicembre 2019 l’Egitto ha reagito all’accordo turco-pistola con la voce del maresciallo Sisi che ha dichiarato che la crisi libica era una questione di “sicurezza nazionale egiziana”. Essendo economicamente in una situazione disastrosa, l’Egitto, che conta sull’inizio della costruzione del gasdotto verso l’Europa, non può infatti tollerare che questo progetto, per esso vitale, venga messo in discussione dall’annessione marittima della Turchia. Quanto agli europei, a parte le loro solite affermazioni relative al crawling semantico, le loro proteste erano solo circostanziali. C’è da dire che all’epoca il gas russo si stava riversando nell’UE e che lì sarebbe stato versato ancora di più grazie ai gasdotti del Nord Europa… Ma, da allora, in Ucraina è scoppiata la guerra e, dato la “crociata democratica” decisa contro Mosca e le sanzioni contro la Russia, è facile capire che l’Ue ora farà di tutto per accelerare la messa in servizio del gasdotto EastMed, e questo, a costo della capitolazione alle richieste turche. La guerra in Ucraina ha infatti “aperto il gioco”, consentendo alla Turchia di scommettere su tutti i fronti contemporaneamente: – Mantiene buoni rapporti con la Russia, che le fornisce il 60% del proprio fabbisogno di gas e alla quale è legata da un partnership instaurata attraverso il gasdotto Turkstream che, attraverso il Mar Nero, aggira l’Ucraina. Pur sapendo che geopoliticamente, un giorno o l’altro scoppierà una grave crisi tra i due paesi del Mar Nero…

– Sa che, presi per la gola dalle proprie sanzioni, gli europei faranno di tutto per mettere in servizio il gasdotto EastMed. Ma, per questo, la Turchia dovrà avere la sua “quota” nello sfruttamento del giacimento del Mediterraneo orientale. Ciò avverrà a costo del riconoscimento, in forma diretta o indiretta, dell’annessione della parte settentrionale di Cipro da parte della Turchia? Ciò sarebbe singolare in un momento in cui una vera guerra è stata lanciata contro una Russia che cerca di recuperare il Donbass, la vecchia terra russa staccata artificialmente dalla madrepatria dai bolscevichi per indebolire il peso nazionale russo all’interno dell’URSS (Unione dei Soviet Repubbliche Socialiste)… In una UE senza memoria e senza spina dorsale, tutto è davvero possibile…

http://www.bernard-lugan.com

L’immigrazione, l’economia e le elezioni italiane, di George Friedman

L’Italia ha eletto un partito di estrema destra alle elezioni parlamentari tenutesi nel fine settimana. Il risultato indica che gli italiani sono scontenti della realtà del Paese. L’Italia è la terza economia dell’Unione Europea, dopo Germania e Francia, e le sue realtà economiche e sociali sono molto diverse dagli altri paesi di punta del Continente, nel senso che la sua economia è meno produttiva e genera più debito. Gli italiani credono, con qualche ragione, che la Banca Centrale Europea stia portando avanti politiche monetarie a vantaggio della Germania, che vuole mantenere il valore dell’euro come creditore netto. L’Italia privilegia una politica molto diversa di denaro a buon mercato, una preferenza ragionevole considerando che è un debitore netto. Un’unica banca europea non può servire entrambi gli interessi, né dividere prontamente la differenza. Ma date le dimensioni della Germania,

La logica impone che l’Italia eleggerebbe un governo di dura opposizione che vede la BCE come una minaccia alla prosperità italiana. È nostra opinione da tempo che la tensione tra Italia e Germania sulla politica monetaria rappresenterebbe la più grande minaccia, forse letale, per l’Unione Europea. Visto il prossimo inverno, i politici europei proteggeranno gli interessi dei propri elettori, e quindi seguiranno politiche divergenti. La BCE non sarà in grado di armonizzare le economie europee e, se l’embargo russo persiste, la competizione tra le nazioni sarà intensa. L’UE è stata creata per garantire pace e prosperità, come proclama il suo motto. La pace vacilla e la prosperità sta svanendo. Le elezioni italiane segnano una crisi.

Nel frattempo, c’era un altro problema che incombeva sulle elezioni: l’immigrazione clandestina. Questo problema è stato affrontato dall’Europa dal 2015, quando un numero enorme di migranti musulmani è arrivato nel continente. All’epoca, l’immigrazione relativamente aperta era la politica dell’UE, ma l’opposizione era sostanziale. I fautori della politica ritenevano che gli Stati membri avessero l’obbligo morale di ammettere i migranti. Ma gli oppositori sostenevano che ci si aspettava che gli Stati membri facessero entrare troppi migranti e che il blocco ei suoi sostenitori, in particolare quelli dei paesi ricchi, si stessero pavoneggiando per la loro superiorità morale senza pagare il conto.

Per capire questi temi, inserirei la mia esperienza di giovane immigrato negli Stati Uniti, cosa che ho già fatto. Sono un immigrato e di certo non mi oppongo all’immigrazione. Allo stesso tempo, capisco lo stress che gli immigrati mettono sul sistema e la paura per l’immigrazione. Quella paura non può essere liquidata come semplice razzismo. Il costo dell’immigrazione è a carico di gruppi che trovano l’onere difficile da trasportare. Tuttavia, il problema non è solo finanziario. Quando gli immigrati arrivano in un paese, non vivono tra i ricchi. Invece, sono incanalati a vivere tra i più poveri della società, dove un appartamento potrebbe essere a malapena accessibile.

Gli immigrati sono anche stranieri e spesso non capiscono il paese ospitante. I genitori spesso vanno a fare lavori umili e i loro figli sono lasciati a se stessi. Mancando la supervisione dei genitori, gli immigrati dallo stesso paese si stringono insieme e scoppiano le guerre – tra ebrei e portoricani, irlandesi e neri, italiani e dominicani, per fornire un campione dei gruppi etnici con cui sono cresciuto. Sono stati commessi crimini e i residenti sono stati rapinati e derubati nei loro appartamenti.

Il punto è che l’immigrazione è un’esperienza brutale per i giovani e un’influenza ancora più orribile sui residenti che vi si erano stabiliti anni prima. Era particolarmente un incubo per gli anziani. Chiunque potesse fuggire. Chi non poteva restare in casa. Questa è stata l’esperienza degli immigrati, ed è stata anche l’esperienza della classe operaia e dei pensionati. Non è stata davvero colpa di nessuno, a parte coloro che hanno sostenuto la politica senza capire cosa significasse l’immigrazione su larga scala e non hanno tentato di mitigare la crisi che ha causato.

Ho notato uno schema a New York che vedo in Europa e altrove. I più appassionati difensori dell’immigrazione non vivono nei quartieri in cui si stabiliscono gli immigrati, né hanno la minima idea di cosa comporterà la collisione delle culture o di cosa faranno gli adolescenti senza sorveglianza. Se niente di tutto questo accade nei loro quartieri, non è che siano indifferenti al caos; è che semplicemente non riescono a capirlo.

L’aumento dell’ostilità nei confronti degli immigrati in Europa aumenterà quando gli immigrati saranno inviati nei quartieri più poveri dei paesi più poveri. Non mi scambi per un oppositore dell’immigrazione. Sono qui in America come un immigrato. Ma sono anche consapevole che non esiste un memoriale che contenga i nomi di coloro che lo hanno pagato.

Il problema dell’immigrazione esiste in tutti i paesi. Ma in Europa è più divisivo. L’America è una nazione di immigrati e tutti noi abbiamo un antenato che è venuto qui o è stato portato qui, ad eccezione dei nativi americani, che sono stati quelli che hanno pagato per la prima ondata. Ma capisco la posizione italiana sull’immigrazione, che si può riassumere così: “Lasciateli andare tutti in Germania”. Ed è qui che la questione economica e quella dell’immigrazione si incontrano, creando un nuovo potente problema alimentato dal disprezzo rivolto a chi si oppone all’immigrazione delle classi morali superiori. L’UE sarà lacerata da questi problemi, così come altri paesi.

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IL DOPO – ELEZIONI: TRAMONTO DELLA SINISTRA PACIFISTA E COMPARSA DELLA DESTRA D’ESTABLISHMENT. GLI SCENARI INTERNAZIONALI, di Marco Giuliani

IL DOPO – ELEZIONI: TRAMONTO DELLA SINISTRA PACIFISTA E COMPARSA DELLA DESTRA D’ESTABLISHMENT. GLI SCENARI INTERNAZIONALI

La futura maggioranza sarà costituita da una destra ormai annidata nelle stanze dei poteri forti

Che il segretario uscente di ciò che qualcuno, sino a poche ore fa, osava ancora definire “centrosinistra”, avrebbe annichilito quel residuo di aspirazioni legate a una maggiore giustizia sociale, al valore del pacifismo (almeno d’estrazione cattolica) e alla tutela del mondo del lavoro, era cosa ampiamente prevista. Potremmo dire banalmente scontata. Si aprono tuttavia scenari che saranno caratterizzati principalmente da alcune variabili indipendenti e pressoché inedite del panorama parlamentare italiano: l’uscita di scena dei movimenti della sinistra pacifista (e anche un po’ classista) legata ai tradizionali canoni trasmessi dal sessantotto e l’insinuazione di una destra, se ancora si può definire destra, ormai da tempo annidata nei meandri dell’euroatlantismo filostatunitense e negli alti apparati di potere istituzionali e politici.

Chi, tra gli elettori della nuova maggioranza (che stavolta non si sono astenuti) spera in un cambiamento, c’è la seria possibilità che resti fortemente deluso; il prossimo venturo esecutivo, infatti, ha già imposto alcuni paletti a chi vorrà starci: prosecuzione dell’appoggio a Kiev in armi e miliardi e applicazione dell’agenda Draghi, almeno riguardo ai conti pubblici e alle relationship internazionali con UE e Nato. In relazione a questi presupposti, ci sarà da capire quanto il populismo della Lega sopporterà le imposizioni di Bruxelles e i diktat di Biden, che tra sanzioni e spese militari stanno rendendo la vita difficile a decine di milioni di cittadini del vecchio continente. Ma tant’è. Il rigenerato centrodestra a trazione meloniana è da tempo ancorato su posizioni conservatrici e non estremiste, linea favorita certamente dall’appiattimento dei programmi e delle scadenti iniziative del panorama politico italiano, ormai tecnocratizzato e concentrato sulle leggi di bilancio più che sulle preoccupazioni e sugli interessi dei cittadini.

La prima seduta delle due nuove camere è fissata per il 13 ottobre, e sarà condizionata, oltre che dal cosiddetto toto-ministri, anche dalla richiesta del Capo dello Stato di apporre immediatamente una forte stabilità (per poter continuare ad assecondare Casa Bianca e Von der Leyen?), della quale, in un momento di crisi internazionale così drammatico, si deve far garante. Già, perché la crisi legata al conflitto russo-ucraino continua a provocare strascichi sempre più gravi; la manomissione del Nord Stream e le annessioni dei territori del Donbass, legittimate o meno dai referendum, infatti, non hanno fatto altro che indispettire ulteriormente i falchi euroatlantici, decisi ad applicare nuove sanzioni e fornire nuove armi a Zelensky. Va ricordato altresì che i prossimi aumenti dei costi energetici non peseranno affatto sugli Usa o sui vari Borrell, Von der Leyen e Sholtz, ma solo sui cittadini comuni di un’Europa sempre più subalterna alla politica militarista di Washington. Quanto è giusto far pagare le sanzioni al popolo europeo? Perché mai le privazioni determinate dall’embargo a Mosca dovrebbero tramutarsi in bollette? Speriamo che l’esecutivo appena uscito dalle urne non ci parli di nuovi scostamenti di bilancio, perché altrimenti vorrebbe dire che le future generazioni cresceranno con enormi debiti sulle spalle vita natural durante.

Nel frattempo, lo slogan si vis pacem para bellum, risalente alla Roma antica e in particolare allo scrittore Vegezio, comincia a scricchiolare. Oltre ai mal di stomaco di Orban e del serbo Vucic, anche i tedeschi si sono scossi: con 476 no, il Bundestag ha respinto la risoluzione 20/2347 che prevedeva la spedizione di altre armi pesanti agli ucraini. Ciò significa che raccoglie sempre meno consensi il prolungamento di un conflitto che sta indebolendo solo l’Europa e che potrà allentarsi solo con una trattativa ed eventuali,  reciproche concessioni.

MG

 

 

 

 

BIBLIOGRAFIA & SITOGRAFIA

 

Crimea: quel referendum è illegittimo, articolo del 7 aprile 2014 a cura della redazione di www.ispionline.it

Televideo Rai del 26/09/2022, pp. 120-180 –

https://www.bundestag.de/dokumente/textarchiv/2022/kw39-de-entschlantrag-reg-erklaerung-912538, link della pagina ufficiale del parlamento federale tedesco, consultata il 29 settembre 2022 –

www.notiziegeopolitiche.net, pagina del 27 settembre 2022 consultata il 29 settembre 2022 –www.theitaliantimes.it, pagina del 28 settembre 2022 consultata il 28 settembre 2022 –

 

SOCIOLOGIA DEL VOTO_di Pierluigi Fagan

SOCIOLOGIA DEL VOTO. Faremo una breve considerazione a grana grossa su dati quasi completi della Camera per il proporzionale.
Tra coloro che hanno votato, si stagliano due gruppi. Quello che si nomina ed è di fatto il CDX somma, al momento, circa 11 milioni di voti. L’altro gruppo non ha nome e non è tale neanche di fatto, ma ha certi suoi gradi di omogeneità pur molto relativa. Parliamo qui in termini di sociologia politica, classificazione per condivisioni di impostazioni politiche ideali molto a gran grossa, nulla con cui poi si fanno governi o leggi specifiche semmai frutto di mediazioni e compromessi. Composto dal CSX propriamente detto ed il M5S, peserebbe sempre 11 milioni di voti, qualche centinaia di migliaia di voti meno dell’altro. Di questo secondo gruppo non fa parte Azione-Italia Viva.
Merito del meccanismo che trasforma questo relativo equilibrio dei due gruppi socio-politici in una disfatta epocale, visto da una parte – dall’altra è un trionfo epocale, è di un certo Rosato, oggi proprio in Italia Viva, un ragioniere democristiano ai tempi parte del PD. Ma poiché la lungimiranza della classe dirigente del PD è esuberante, oltre ad aver creato un meccanismo elettorale assurdo e non aver mai neanche provato a cambiarlo sebbene più o meno tutti lo ritengono assurdo dal 2017, hanno anche deciso che per fedeltà ad un totem detto “Agenda Draghi” non si doveva neanche provare a fare un accordo tattico col M5S. Meglio per quest’ultimo, che recupera parecchio dai sondaggi estivi.
Quanto al PD propriamente detto, siamo ad un milione di voti in meno rispetto al 2018 per una percentuale appena superiore del +0,5% per via della più generale contrazione dei votanti. Un milione di voti persi, quasi un -18% e stante che questo partito, nel 2018, era guidato da uno sbiadito funzionario, tale Maurizio Martina oggi alla FAO.
Tuttavia, l’Italia si uniforma agli standard europei, festeggiando la sua prima premier donna e medie di voto basse, su standard post-democratico, due fatti tipicamente europei.
[La foto è un tributo all’intrepido ragioniere al cui nome è legato il fatidico meccanismo che ha trasformato un composito e variegato quadro politico in un monocolore di destra]
[Attenzione alle pesature di sociologia politica. Al di là degli esiti elettorali partitici, al di là del diritto a governare garantito dal voto, in politica i voti si contano ma si debbono anche pesare]
SOCIOLOGIA DEL VOTO (2). Ieri abbiamo evidenziato come i due blocchi socio-politici principali, quello che ha vinto e quello che non è neanche riuscito a presentarsi come un blocco dividendosi in due parti, (qui non uso CDX e CSX perché queste sono categorie solo politiche mentre qui l’analisi è “socio”-politica), in realtà divergono per poco. Il loro insieme fatto cento, infatti, vede quello che ha vinto al 52% e quello che ha perso al 48% (l’ipotetica alleanza elettorale CSX+5S), questa è la loro pesatura sociale relativa.
Alcuni commenti sul post di ieri, evidenziavano le varie ragioni che portarono il partito principale dell’area che non formandosi in blocco poi ha perso più del reale peso (PD-CSX), a fare questa dissennata legge elettorale. Legge che ha trasformato un dato molto relativo in assoluto. In aggiunta, la decisione di Letta ad escludere a priori ogni possibile alleanza con i 5S, decisione incomprensibile stante la meccanica elettorale. Le rapide dimissioni annunciate ieri da Letta fanno pensare che tale esito era per certi versi “programmato”, per quali ragioni può esser oggetto di speculazione. Ma ci sarebbe anche da domandarsi perché in questi cinque anni, quel partito non ha sentito necessità almeno di provare a cambiarla.
Credo la risposta risieda nella genetica del PD, un progetto bipolare su format di cultura politica anglosassone (Lab-Con UK/ Rep-Dem US), quasi che imponendo una legge elettorale maggioritaria, allora si sarebbero formati partiti e cultura politica bipolare conseguente, una assurdità. Ne è venuto fuori un accrocco con una minoranza ex-democristiana che però spadroneggia su un totale maggiore della somma delle parti, con fazioni lib-lab confusamente “post-moderne/progressiste”, altri rimasugli più un corpo in teoria, almeno potenzialmente, “socialdemocratico” in senso europeo (PSE-SPD). Parliamo non della sua classe politica di partito, di nuovo, parliamo degli elettori, dei pezzi di società. Chi non ha amici e conoscenze di persone per bene, intrinsecamente quasi-socialdemocratiche per idee e valori, che si ostinano in mancanza di meglio a votare questo accrocco che fatalmente li delude?
Dato l’evidente fallimento di impiantare una cultura politica maggioritaria in un Paese che, come la Spagna, la Francia, la Germania ovvero la tradizione europea, è intrinsecamente pluripartitico, forse arriverà il giorno in cui questo accrocco si potrà sciogliere rilasciando le sue due anime principali a due percorsi di identità propria. Queste due aree avranno poi agio di collaborare ed allearsi, ma partendo da due soggetti pesati che chiariscano il loro reale peso di rappresentanza, determinando quindi i pesi dell’agenda politica concordata -dopo- una elezione e non prima dentro lo stesso partito che tale non è vista la diversità componente obbligata a convergere su dinamiche assai poco chiare in senso democratico. Detto altrimenti, la fazione ex-democristiana non volendo tornare all’insignificanza della Margherita, vuole a tutti i costi tenere unite le parti componenti l’accrocco che non è mai stato, né mai potrà essere “un” partito. A loro conviene.
Passiamo poi ad evidenziare come il soggetto +Europa abbia fallito il quorum per 50.000 voti. Unitamente alla punizione delle principali forze di sostegno al governo Draghi (PD, FI, Lega, Di Maio etc.), si evidenzia palesemente come il dibattito politico pubblico sia artificiosamente centrato su temi ed argomenti (ad esempio il dogma sfiorante il culto di Mario Draghi) che non hanno alcuna presa sul Paese reale. Ha stra-vinto l’unica forza politica che non ha partecipato al governo del banchiere ed ha vinto relativamente (ovvero ha perso rispetto al 2018 ma rimbalzando all’ultimo momento delle più fosche previsioni) la forza che alla fine se ne è in parte dissociata tra scrosci di pubblico sdegno.
In Italia c’è un problema grave di scollamento tra élite pubblica (imprenditori, affaristi, giornalisti, intellettuali organici alle classi di potere e conseguente classe politica da questi supportata) e popolazione, è del tutto evidente. Era evidente nel 2018, continua ad esserlo. La “democrazia”, ammesso e non concesso quella solo rappresentativa possa definirsi tale, è un sistema complesso. Si può nominalmente far finta sia tale rincuorandoci dell’esser dalla parte giusta della storia politica, salvo poi manipolarla di modo che sia, com’è nei fatti, una oligarchia che si sottopone a giudizio molto poco libero una volta ogni cinque anni. E’ questo blocco dall’alto che genera come unico sfogo il c.d. “populismo”.
E veniamo ai bassifondi elettorali. Qui abbiamo una forza politica centrata su un giornalista televisivo (Paragone), senza reale consistenza politica in senso tradizionale che ottiene 540.000 voti, agitando il tema dell’uscita dell’Italia dall’euro o forse anche dall’Europa. Fa già ridere così. Nel senso di presumere il poter fare una forza politica su un singolo tema così delicato senza essere in Inghilterra (modello Farage), di nuovo presupponendo che nel mondo politico ci siano “modelli” non dipendenti dalle condizioni di contesto cui applicarli, una sorta di teoria della fisica politica trasferita alle società, alla geo-storia, alla cultura. Va be’, diciamo che il tipo che ha del furbacchione, stando già in Parlamento, ci ha “provato” a rimanere nel bel mondo, rimarchevole comunque che mezzo milione di persone gli abbiamo pure dato retta.
Quanto a Italia Sovrana e Popolare, siamo a 300.000 voti, tenuto conto che 100.000 circa sono del PC di Rizzo (2018). La c.d. area sovranista politicamente più seria del “fenomeno Paragone”, “pesa” 200.000 voti. Sul totale aventi diritto, Italia ed Estero, sarebbero lo 0,4%. Ripeto, qui facciamo pesatura all’ingrosso dei blocchi sociopolitici, quindi non consideriamo il poco tempo avuto da queste formazioni (sì perché l’area è piccola, ma ciononostante si divide in fazioni) per la campagna elettorale e gli scarsi mezzi. Anche se uno si potrebbe domandare perché con poco tempo a disposizione e scarsi mezzi, cose note a priori, qualcuno abbia sentito l’esigenza di mettere in piedi una macchina elettorale dedicata.
Qui si possono fare due considerazioni che poi è una sola. Questa legge elettorale, ma è cosa che penso rimarrà anche quando decideranno di adeguarla ad un modo normalmente proporzionale, pone lo scalino del 3% che sugli attuali votanti vale qualcosa come circa 850.000 voti. Se fossero stati quelli del 2018, lo scalino sarebbe valso 1,1 milioni di voti. Sempre poi che in una nuova legge proporzionale non decideranno, com’è probabile, di portarlo al 5%. Chi tenta la scalata elettorale deve porsi questo target. Il target dovrebbe retroagire sul pensiero ed il fare politico. Ho l’impressione che gli amici di ISP non avessero una auto-percezione realistica della propria consistenza. Ho l’impressione che questa area che ha presenza più nel virtuale che nel reale, scambi i numeri di Internet con quelli del mondo “grande e terribile”. Il che per un’area critica verso il neoliberalismo con distopiche derive da capitalismo della sorveglianza ha del paradossale. Speriamo il risultato concreto porti riflessione concreta e non collezione di scuse per continuare a pensare ed agire come s’è fatto fino ad ora. Popolo vs élite? Non c’è più destra, né sinistra? Non c’è più o non deve esserci? No perché la destra sembra ci sia e neanche poco.
E chiudiamo l’analisi del micromondo con Unione Popolare. Qui il risultato migliora dal solo Potere al Popolo del 2018 ma di molto poco e comunque anche qui, di gran lunga lontani dal quorum. Anche De Magistris, come Ingroia, come Paragone, è uno di quegli aspiranti al Parlamento, chissà se per pure ragioni personali o anche ideali. Perché gente di questa area politica si ostini a creare forze politiche che in tutta evidenza non riescono a lievitare come progetto politico e si svegliano quando sentono la chiamata alle elezioni che, come sappiamo, sono ampiamente condizionate se non truccate, ha del mistero.
Chissà profondere impegno ed energia politica nei cinque anni e non nei cinque mesi o settimane che portano alle elezioni, sarebbe più serio e proficuo?
A conclusione, ho idea che la corrosione profonda del significato del concetto di “politico” e di “società” operata ormai da decenni, abbia raggiunto il suo risultato: nessuno sa più come interpretarli. Chissà, magari, prima o poi, a qualcuno verrà in mente di studiare riflessivamente la faccenda invece che scrivere l’ennesimo libro o articolo di critica al neoliberismo. Una critica della critica, in altri tempi si sarebbe chiamata una “autocritica”. Non un pentimento formale di tipo confessional-cristiano, una applicazione delle razionalità a sé stessa. Sarebbe già un buon inizio e poiché dalle nostre parti (cultura della complessità) si dice che ogni percorso ha dipendenze dalle condizioni iniziali, sarebbe l’inizio necessario.
[Naturalmente molti lettori e lettrici, qualcuno anche in vena di commento, come ieri accaduto, non coglieranno la differenza tra una analisi sociopolitica ed una politica stile diretta Mentana. Qui si cerca di capire i rapporti tra blocchi sociali/ideali e politica, al netto di leader e partiti specifici. Altre analisi sono benvenute, polemiche da basso condominio, meno]

Mario Draghi, la parabola di un funzionario diligente e imperterrito_di Giuseppe Germinario

Per la prima volta mi è capitato di vedere Mario Draghi sorridente e rilassato.

L’eterno ghigno obliquo che segna il suo viso nei momenti solenni e in quelli più informali quasi del tutto raddrizzato; il viso pacioso e morbido; il passo non più lievemente strascicato, ma sciolto, persino nell’atto di scendere l’impervia scaletta di un aereo; l’abbigliamento composto ma informale, illuminato di bianco.

L’espressione del classico atteggiamento e senso di sicurezza di chi si sente finalmente a casa propria, protetto dalle mura domestiche e da un ambiente familiare da poter calpestare ad occhi chiusi.

Un’alea simile l’aveva mostrata al momento di offrire le proprie dimissioni irrevocabili al Senato. Non era, però, esattamente la stessa. Allora la giovialità era accompagnata da un senso di sollievo. L’altro giorno no; era serenità paciosa ed assoluta.

Mario Draghi non era giunto, però, nel suo rifugio in Umbria; era arrivato a New York con il sovrappiù, per giunta, dei fusi orari.

Con ogni evidenza era giunto in effetti a casa sua, nella sua vera casa.

Non poteva arrivarci come padrone di casa; per meglio dire come uno dei padroni di casa.

I quotidiani italici avrebbero voluto con tutto il cuore presentarlo così; nemmeno loro, però, cosi proni e adulanti, ci sono pienamente riusciti. Hanno sottolineato con enfasi le laudi e i riconoscimenti offerti solennemente e stucchevolmente da potenti lucidi, ma decisamente attempati; hanno enfatizzato il sostegno scontato e bonario, si direbbe paterno, di una amministrazione e di un Presidente, Biden, decadenti e decomposti; hanno precisato però con sufficienza la difficoltà di ottenere un formale incontro bilaterale, richiesto con cauta insistenza, che sancisca la solennità del riconoscimento alla persona; hanno persino premurosamente glissato sull’accoglienza piuttosto freddina ed indifferente all’assemblea dell’ONU riservata al nostro SuperMario, consistita in un malinconico deserto di sedie vuote. A confronto, l’accoglienza riservata al Presidente della Mongolia, paese incuneato tra Russia e Cina, ma sgomitante, è sembrata una apoteosi.

Una accoglienza solitamente riservata, quindi, quella a Mario Draghi, con fare benevolo e paterno, ma senza inutile spreco di energie e pathos, ai servitori utili, ma non indispensabili, ormai sulla via del tramonto.

Eppure a Mario Draghi quel tiepido calore, quella ospitalità nelle stanze di servizio sono bastati a infondergli serenità gioviale. Buon per lui e per il suo equilibrio psicologico; rammentando, però, che anche le oche giulive raggiungono così il loro equilibrio, a scapito però della considerazione che nel tempo i contemporanei ed i posteri avranno maturato nei loro confronti. Il fìo da pagare anche sull’offuscamento della sua aura efficientista, costruita i tre decenni, sarà salato, ma con ogni evidenza anch’esso sopportabile.

Il raffronto dei due discorsi all’assemblea generale dell’ONU tenuti dai due leader, rispettivamente Joe Biden e Mario Draghi, è impietoso e non fa che confermare la reale postura e statura del nostro.

Zio Joe, pur con tutte le nebbie che ormai da tempo attraversano il suo cervello, ha seguito a suo modo nella sua prolusione un filo arguto e proattivo, da vero decisore politico.

Ha cercato di insinuarsi nelle reali contraddizioni delle politiche estere di Russia e Cina, in particolare nella natura dei loro impegni economici, offrendo comunque ad una il ruolo di paria e all’altra di interlocutore ostile; ha cercato di incrinare con argomenti il sodalizio crescente tra i due paesi e di proporsi come paladino ed artefice della emancipazione dei restanti paesi nel mondo. Bontà sua, senza costrizioni e per libera scelta degli stessi e in competizione bonaria con gli altri giganti emergenti, quasi a riconoscere finalmente ed implicitamente il carattere multipolare della competizione geopolitica; si è erto a paladino del diritto internazionale e della sovranità intangibile degli stati nonché delle condizioni di vita e di lavoro.

Per rendere minimamente credibile le sue tesi, si è presentato come l’artefice di una svolta radicale rispetto alle politiche dei precedenti presidenti americani.

L’asino ha cominciato a cascare nel momento in cui Joe Biden è entrato nel merito.

Quando ha riproposto le politiche agricole e le tecnologie delle multinazionali agroalimentari, utili all’agricoltura intensiva necessaria a sollevare il mondo dalla fame, come pure al controllo e alla servitù delle masse contadine; quando ha “offerto” le proprie tecnologie e i propri parametri nell’affrontare il cambiamento climatico; quando si è offerto a garante della libertà di circolazione sui mari.

Buone intenzioni, condite con numerose bugie ed omissioni, che soffrono del retaggio del passato e del ritardo rispetto all’attivismo di Cina, Russia ed ormai anche India; fini reconditi che riaffiorano inesorabilmente grazie al disincanto e alla memoria degli oggetti di attenzione.

SuperMario è apparso al contrario nella veste di un ventriloquo dalla voce atona col cipiglio di un leone tramortito da ore di abbiocco sotto il sole cocente della savana. Non ha fatto altro che riproporre pedissequamente con piaggeria indirizzi e motivazioni della Casa Madre, in particolare sul conflitto ucraino, sorvolando con indifferenza sulle implicazioni disastrose di tali scelte per il paese che governa e per il continente che lo ospita.

Mario Draghi è stato invocato ed acclamato a capo di governo in quanto tecnocrate capace e competente ed uomo influente e di successo in grado di trascinare l’Italia in una postura e ruolo da protagonista.

Ha in effetti confermato la sua capacità e la sua influenza in un particolare ambito, la sua pochezza nell’altro.

In qualità di plenipotenziario, per meglio dire di luogotenente, ha contribuito a trascinare una popolazione inconsapevole delle implicazioni suicide ed una classe dirigente priva di ogni respiro strategico autonomo al carro delle scelte geopolitiche di una fazione dell’establishment statunitense; ha vigilato coscienziosamente sulle possibili intemperanze e riottosità degli alleati europei nei confronti delle scelte americane; con il PNRR e il suo corollario di leggi e norme ha contribuito attivamente a stringere ulteriormente al collo del paese il cappio dei vincoli e delle limitazioni in grado di pregiudicare per lunghi anni ogni possibilità di crescita e sviluppo autonomo e solido.

Su questo può vantare un più che discreto successo personale.

Come Capo del Governo ha operato nella pressoché completa vacuità e continuità, perfettamente in linea con i governi che lo hanno preceduto in questi trenta anni. Una vacuità la cui percezione delle tragiche conseguenze aleggia ormai con inquietudine nei corridoi e nelle strade, ma che diventerà evidente solo quando il nostro starà veleggiando in lidi più sicuri che tempestivamente sta individuando.

Con la eccezione della campagna vaccinale, efficace nelle modalità, molto meno nella risoluzione dei problemi, ha gestito in perfetta continuità l’emergenza pandemica, ingarbugliando un problema oggettivo in un groviglio di provvedimenti estemporanei, contraddittori e draconiani più confacenti ad una strumentalizzazione politica e ad una logica totalitaria di controllo che ad una gestione flessibile e ferrea, ma risolutiva o almeno contenutiva della crisi pandemica. Il risultato più evidente è stata la parziale defenestrazione della quota dalemiana di tecnici a corte con una dalle capacità simil dubbie.

Sul PNRR la strada è appena tracciata; una volta però esaurito l’effetto elementare del moltiplicatore keinesiano legato alla messa in opera degli investimenti, sempre che siano conclusi, emergerà la marginalità del moltiplicatore legato alla fase operativa delle strutture attuate. Del PNRR e più in generale dei Fondi Strutturali Europei ci siamo occupati in tre articoli di diversi mesi fa, confortati dal giudizio di una discreta letteratura europea cui risulta estranea il nostro paese. Non serve, quindi, dilungarsi più di tanto. Il dato politico ricalcherà le dinamiche e gli esiti del passato in assenza di una mole analoga di risorse nazionali, svincolate dalle normative europee e legate al perseguimento dell’interesse nazionale volto alla creazione e controllo di una capacità industriale strategica autonoma. Il recente decreto sui poteri speciali non deve ingannare. E’ rivolto a fronteggiare le mire e le collaborazioni con i paesi dichiarati ostili e tuttalpiù a parare qualche colpo troppo spregiudicato dei nostri fratelli, vicini di casa; non intende essere decisa rispetto alla capacità di controllo ed acquisizione dei fondi americani, quanto esserne compartecipi subordinati. In termini di controllo politico, il risultato certo sarà la ennesima sovrapposizione di un ulteriore apparato amministrativo, rispetto alla pletorica rete burocratica e al disordine istituzionale attualmente in atto.

Sul cambiamento climatico e sul catastrofismo ambientale il giudizio segue la falsariga. Nessuna riflessione sul realismo e la realizzabilità del piano di conversione energetica, sulle implicazioni sul residuo apparato industriae nazionale e sulla capacità di produzione e padroneggiamento delle nuove tecnologie. Uno sterile allarme sul catastrofismo ambientale di origine più o meno antropica che impedisce di agire localmente sulle cause e sugli effetti e di cogliere il nesso tra il popolamento delle aree e la loro possibilità di manutenzione e di coltivazione, riducendo di fatto i disastri a tragedie ineluttabili e il problema ambientale ad una saturazione di attività, quindi ad una necessaria ed implicita decrescita.

Superfluo, al momento, parlare del prossimo disastroso dissesto economico legato alle politiche energetiche e alla accettazione supina delle attuali e future politiche sanzionatorie. La speranza recondita sarà di farlo apparire con il tempo una fatalità.

La smentita più clamorosa delle qualità taumaturgiche di Supermario è avvenuta proprio sul suo presunto punto di forza: il ruolo, la dignità e il rispetto dell’Italia all’interno della Unione Europea. Il recente accordo bilaterale tra Francia e Germania sugli scambi energetici rappresenta soltanto la ciliegina sulla torta. Un ruolo lo avrà certamente avuto la considerazione sempre più scarsa degli dirigenza degli Stati Uniti sulla utilità residua della costruzione unitaria europea e sul ruolo di capocordata assunto sino ad ora dalla Germania. La crescente importanza attribuita ai paesi dell’Europa Orientale nel ruolo guida della politica russofoba rappresenta l’esempio più tangibile di questa svolta strisciante; la qualità di emissario diretto degli Stati Uniti espressa da Mario Draghi ha certamente spinto, appena possibile, i due leader tedesco e francese, a spingere ulteriormente nell’angolo l’Italia.

L’elenco potrebbe arricchirsi di ulteriori elementi. Se ne parlerà nel tempo, appena saranno più evidenti le conseguenze di tali scelte. Servirà quantomeno a ravvivare la memoria troppo corta degli italiani riguardo ad un personaggio attivo in qualche maniera da quaranta anni nell’agone politico italiano e corresponsabile delle scelte che più hanno compromesso il futuro del nostro paese.

È utile, piuttosto, sottolineare un altro aspetto del personaggio.

Dalla contestazione Mario Draghi è stato spesso inserito nel nutrito pantheon liberal-progressista, un po’ snob e particolarmente scettico sulla capacità degli italiani di fare le scelte politiche giuste senza l’impulso e l’intervento esterno. Personaggi, per fare qualche nome, del calibro di Andreatta, Prodi, Letta, Ciampi, ma anche componenti di altri schieramenti.

Tutti personaggi con l’atteggiamento snobistico dei parvenu, desiderosi di riconoscimento all’estero e da questo soprattutto gratificati. Personaggi, tutto sommato, ancora italiani nella loro espressione e nei loro riferimenti, come potrebbe essere ancora un Mario Monti.

Mario Draghi è qualcosa di più e di diverso. Una mutazione definitiva di quella specie.

È un alieno piombato nel nostro universo, che appartiene e deve rendere conto ad un altro universo, senza brillare mai per altro di coraggio.

Come un paese, un popolo, una classe dirigente e un ceto politico abbia potuto accoglierlo senza per altro alcun accorgimento difensivo servirà a spiegare molto della condizione di immaturità politica del nostro paese e delle condizioni necessarie ad un suo risorgimento.

Al momento, il quadro politico desolante non fa che riprodurre sullo scenario suoi epigoni caricaturali destinati ad amministrare, con gaudio effimero, le macerie prodotte dai predecessori e a ritenere sufficiente a ciò il placet esterno.

Epigoni che serviranno ben poco, anche in caso di una svolta radicale favorevole negli Stati Uniti.

Giuseppe Conte e Matteo Salvini si sono fatti conoscere nel loro spessore durante l’epopea di Trump; il loro ritorno improbabile sarebbe un “déjà vu” stucchevole. Adesso toccherà ad altri. L’effetto sorpresa, come pure il momento di gloria, saranno ancora più effimeri.

Ogni ulteriore considerazione più approfondita sarà opportuna solo dopo il 26 settembre.

Questa volta lo stellone dovrà faticare parecchio per attraversare la coltre di nubi e trarre d’impaccio in qualche maniera il paese; sempre che non si sia spento discretamente, ahimè.

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