LA SINISTRA ALLE PRESE CON LA NAZIONE, L’EUROPA ED IL MONDO, di Pierluigi Fagan

Qui sotto un interessante saggio di Pierluigi Fagan (PF), con relativo link al sito originario di pubblicazione. L’argomento (la sinistra, la nazione e la geopolitica) prosegue sulla falsariga di saggi già pubblicati su questo sito e ovviamente sul blog dell’autore. Per accedervi è sufficiente digitare sulla voce dossier del menu in alto e sul nome dell’autore. Il tema è ricco di spunti; la finalità dell’autore è di contribuire a far uscire il dibattito e l’azione politica dei critici della Unione Europea dallo stallo abbarbicato com’è alle mere enunciazioni di principio e ad un approccio meramente negativo della proposta politica, specie della componente sinistrorsa. La chiosa non intende essere una critica al testo, quanto piuttosto un tentativo di focalizzare schematicamente alcuni punti sui quali sviluppare un dibattito proficuo.

Fagan in particolare, nella fase di multipolarismo complesso in via di affermazione:

  • ritiene imprescindibile il problema della dimensione degli stati nazionali. Una posizione nient’affatto scontata; sono numerosi i fautori della tesi che attribuisce anche agli stati più piccoli, purché attrezzati con una adeguata classe dirigente, significative condizioni di agibilità
  • le dinamiche geopolitiche sono altrettanto importanti delle dinamiche tra le classi sociali; anzi, una condizione ottimale nelle prime consente una migliore gestione delle formazioni sociali. In questo ambito il dibattito generale spazia tra la priorità attribuita alle dinamiche sociali e i rapporti tra stati, tema tipico della sinistra e della estrema destra e l’esclusività attribuita ai rapporti geopolitici tra stati e istituzioni, tipica degli analisti geopolitici. Nel mezzo, a dar man forte all’approccio “complesso” offerto da Fagan, trova posto a pieno titolo, come promettente chiave di interpretazione delle dinamiche politiche, la teoria lagrassiana del conflitto strategico tra centri decisori
  • affronta la questione fondamentale riguardante l’approccio al rapporto con l’Unione Europea con una importante delimitazione. Il suo discrimine riguarda non solo i sostenitori duri e puri della UE, ma anche i cosiddetti riformatori. Le possibili posizioni dipendono in pratica dalle combinazioni possibili delle relazioni tra gli stati europei eventualmente aggregati in aree omogenee
  • vede nella Francia il baricentro della costruzione europea. Una posizione originale rispetto alle tesi prevalenti che attribuiscono alla Germania il primato politico oppure agli Stati Uniti l’assoluta predeterminazione della costruzione e degli indirizzi politici comunitari.Una ricostruzione storica delle vicende comunitarie può sembrare un puro esercizio accademico; serve in realtà a determinare le dinamiche e il peso dei vari decisori. La letteratura, al netto dell’agiografia, offre diversi punti di vista. Uno di questi, ben presente nella ricerca francese e statunitense, attribuisce alla classe dirigente “sovranista” francese la volontà di sostegno al progetto comunitario nella misura in cui fosse stata la Francia, con inizialmente la Gran Bretagna, a determinare gli indirizzi. In soldoni, nella misura e nei momenti in cui sarebbe apparsa sempre più chiara l’assoluta influenza americana e la sua volontà di sostenere la Germania in funzione antifrancese e antibritannica e come importante risorsa antisovietica, l’afflato comunitario della Francia sarebbe a sua volta venuto meno. Con due eccezioni importanti tra le quali l’azione dell’oestpolitik tedesca negli anni ’70 che indusse i francesi a sostenere l’ingresso della Gran Bretagna
  • consiglia di prendere atto della progressiva formazione di più aree europee politicamente autonome per individuare in quella latino-mediterranea, il possibile coagulo di forze capace di sostenere il confronto.    

Si attendono sviluppi e contributi_Buona lettura_Giuseppe Germinario 

 

LA SINISTRA ALLE PRESE CON LA NAZIONE, L’EUROPA ED IL MONDO.

Tra un anno si va a votare per l’Europa. Su Micromega, G. Russo Spena (qui), sintetizza le posizioni in cui si divide la sinistra europea.

La prima posizione è sostenuta da Linke (Germania) e Syriza (Grecia), dove però la posizione greca rispetto ai diktat della Troika, non ha mostrato apprezzabili pratiche politiche  alternative. Cambiare l’UE dal di dentro con intenti progressisti, la difficile linea.

C’è poi Varoufakis ed il suo Diem25 sostenuto dai sindaci Luigi de Magistris e Ada Colau, oltre a Benoit Hamon,  fuoriuscito dal partito socialista francese ha creato il movimento Génération-s – e da altre piccole forze provenienti da Germania (Budnis25), Polonia (Razem), Danimarca (Alternativet), Grecia (MeRA25) e Portogallo (LIVRE). Sinistra transnazionale che vuole democratizzare l’Europa.

Infine, ci sono Bloco de Esquerda portoghese, Podemos spagnolo e France Insoumise francese che hanno firmato assieme la Dichiarazione di Lisbona a cui ha successivamente aderito anche l’italiano Potere al Popolo. Anche qui si vuole costruire un contropotere democratico all’Europa neo-ordo-liberale.

Tutti e tre gli schieramenti mostrano un nuovo interessante fenomeno che è quello del dialogo e del coordinamento tra forze politiche di più paesi. Da tempo lo facevano le forze conservatrici, liberali e socialdemocratiche ovvero le forze di governo, quelle che governano nei rispettivi paesi e quel poco che si decide al parlamento europeo. Interessante che ora anche la sinistra quasi sempre di opposizione (Bloco de Esquerda è l’unica forza al governo oltre a Syriza) faccia i conti con il formato inter-nazionale.

Tutti e tre gli schieramenti, si ripromettono sia la democratizzazione delle istituzioni europee, sia l’inversione delle politiche neoliberali che le hanno contraddistinte. Il secondo schieramento, quello di Varoufakis, più che inter-nazionale, è trans-nazionale nel senso che a quanto par di intuire, si ripromette di costruire una unica forza politica contemporaneamente presente in più paesi, posizione molto in auge negli ambienti federalisti.

Il terzo schieramento invece, si è trovato subito diviso, una divisione però sopita e rimandata, tra il famoso “Piano B” di France Insoumise e Podemos. I francesi si sono presentati alle ultime presidenziali con un programma corposo “L’avvenire in comune”, nel quale hanno declinato 83 tesi in 7 sezioni. Nella tesi 52, presentavano l’ipotesi subordinata “Piano B”. Si trattativa dell’alternativa all’eventuale (certo) fallimento dei tentativi di correzione della politica europea, l’ultima ratio era la rescissione unilaterale francese dei trattati. Come molti avevano notato ai tempi del referendum greco, le trattative politiche si basano su i rapporti di forza e chi aspira a contrastare il potere dominante deve poter -ad un certo punto- mettere sul piatto l’opzione alternativa, quella che rovescia il tavolo. Senza questa minaccia o concreata alternativa, inutile sedersi a far qualsivoglia trattativa, trattasi di verità negoziale a priori.

Il Piano B francese era “o cambiamo l’UE-euro o usciamo”, rimaneva aperta una successiva  possibilità in cui la Francia sovrana avrebbe poi  stretto patti cooperativi e di collaborazione in ambito educativo, scientifico, culturale. Questa era la tesi 52, la 53 invece, iniziava con un “Proporre un’alleanza dei paesi dell’Europa meridionale per superare l’austerità e lanciare politiche concertate per il recupero ecologico e sociale delle attività” che è appunto ciò che hanno fatto a Lisbona. Con ciò terminava la quarta sezione e si passava alla quinta. La quinta sezione si apriva col titolo “Per l’indipendenza della Francia” e quindi dava outline di ciò che la Francia avrebbe potuto e dovuto fare sia nel mentre rimaneva nelle istituzioni europee, sia a maggior ragione e con più convinzione dopo l’eventuale applicazione dell’opzione nucleare che portava al Piano B, l’uscita unilaterale. La tesi 63, metteva in campo idee concrete di cose ed iniziative  da promuovere  nel bacino Mediterraneo, un Mediterraneo braudeliano quindi considerato sia per la sponda europea (Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Grecia), che per quella nord-africana (Marocco, Tunisia, Algeria, Libia). Il senso dell’intera questione manteneva una certa ambiguità tra questi tre livelli: Francia sovrana, Francia cooperante con i paesi latino-mediterranei nella lotta contro ma dentro l’UE, Francia perno di un nuovo sistema mediterraneo come già Sarkozy ma anche molti altri francesi avevano pensato in passato, ancora dentro l’UE ma a maggior ragione se fuori.  L’ editoriale del numero in edicola di Limes, rimarca pari ambiguità in Macron quando questo sembra superare di slancio il principio di non contraddizione nel sostenere al contempo la Francia sovrana ed uno stadio superiore di Europa federale.

Podemos, pur avendo firmato la Dichiarazione di Lisbona, pare stia ancor tentennando suDiem25 ma più che altro è interessante sottolineare come Iglesias abbia del tutto escluso la condivisione del Piano B di France Insoumise. Al di là delle opinioni specifiche di Podemos sull’euro, Iglesias ha specificato che in Spagna c’è un forte per quanto vago ultramaggioritario sentimento europeista, lo stesso che posso testimoniare personalmente vivendo lì una parte dell’anno, hanno i greci.  Sentimento europeista non vuole affatto dire adesione a questa UE o a questo euro, si tratta di una intuizione più culturale che politica.

Molta parte dell’opinione pubblica europea, è come se avvertisse che i tempi impongono il fare una qualche forma di fronte comune. Il sentimento è forte nel suo radicamento ed al contempo debole nella sua razionalizzazione, unisce i convinti supporter dell’attuale stato di cose, quanto i suoi più convinti critici oltre che ovviamente gli indecisi ed i confusi che sono la maggioranza. Vedi Trump, vedi Putin, vedi Xi Jinping, i britannici che si mettono in proprio, senti di bombe atomiche coreane, terroristi arabi, migranti africani o asiatici, la incombente matassa intricata della “globalizzazione”, l’incubo delle nuove tecnologie, il temuto collasso ambientale e ti viene facile pensare che davanti a tanta minacciosa complessità, l’unione fa la forza e da soli non si va da nessuna parte. Il passaggio da “unione” come spirito vago ad “Unione” come istituzione precisa è garantito dal meccanismo di analogia che abbiamo nel cervello, “sembra” proprio che l’uno risponda all’altro. Vale per le élite, per i medio informati ma anche per coloro che usano più neuroni della pancia che quelli della scatola cranica. Chi si muove politicamente in forma critica sulla questione europea dovrebbe tener conto di questo diffuso sentimento se non altro perché chi fa politica deve aver per interlocutore pezzi di popolazione prima che l’avversario ideologico. Si fanno discussioni con gli amici ed i nemici ideologici davanti a pezzi di popolazione perché il fine politico è conquistare cuori e menti di questi secondi. Dai temi che tratta al linguaggio che usa, questa avvertenza di parlare sempre alla generica popolazione, è del tutto ignorata dalla sinistra che oggi si interroga su dove mai sia finito il suo “popolo”.

Sembra quindi che France Insoumise abbia costruito una posizione a cerchi concentrici di definizione. Il cuore a fuoco è la battaglia contro questa UE ed euro, la corona interna meno a fuoco è la ricerca di alleanze organiche con forze politiche latino-mediterranee da cui la Dichiarazione di Lisbona, la corona esterna ancora meno a fuoco un po’ sciovinista e molto “francese”, è l’idea in fondo guida di una Francia sovrana al centro di cerchi concentrici di cooperazione asimmetrica che arriva fino a pezzi della Françafrique. Questa ultima posizione occhieggia a più vasti settori dell’opinione pubblica francese, inclusi pezzi di classe dirigente ed è forse merito di questa ampia vaghezza se France Insomise ha preso quasi il 20% al primo turno delle presidenziali. Se Mélenchon declina questo target a fasce concentriche che sembrano volersi distaccare dall’UE, Macron declina la stessa geometria egemonica  rivolta verso più UE[1].  Come mai, pur da sponde opposte, i due francesi si agitano tanto occupando più posizioni al contempo e lasciando intendere tutto ed il suo contrario?

Svegliatici, occorre dircelo, tutti un po’ tardi rispetto a ciò che si era stabilito a suo tempo nel trattato di Maastricht (che ricordiamolo è del 1992), l’analisi critica si è soffermata su gli aspetti economici e monetari, tra neo-ordo-liberismo e posizione dominante tedesca. Ma se andiamo a ritroso del registro storico, si vedrà come tutto ciò che precede Maastricht e l’euro  (ed inclusi questi) a partire dall’immediato dopoguerra, ha il suo baricentro non in Germania ma in Francia. E’ la Francia a promuovere la CECA, è la Francia a non approvare la riforma decisiva che avrebbe potuto dare un futuro politico all’Europa ovvero la CED (approvata già dai Benelux e dalla stessa Germania), è la Francia e non far entrare la Gran Bretagna in UE per poi ripensarci ed è lei stessa a sospendersi dalla NATO per diventare potenza atomica per poi ritornarci, è De Gaulle ad invitare Adenauer a Parigi per sancire il trattato dell’Eliseo (1963) quindi fissare formalmente la diarchia regnante l’europeismo, e così via fino allo stesso Maastricht e l’euro che nascono come  contropartita richiesta alla Germania per il via libera dato alla sua preoccupante riunificazione. I tedeschi, si sono limitati ad imporre la struttura economico-monetaria ai trattati, struttura che per altro avevano già nella loro Costituzione dal 1949 e dalla quale non avevano la minima intenzione di derogare perché fonda la loro nazionale narrativa post-bellica, soprattutto come spiegazione dell’irrazionalità da cui sorse il nazismo. Secondo questa narrativa, il nazismo venne dall’eccesso di inflazione.

Questo ci ha portato altrove a definire il progetto europeista, primariamente un trattato di pace tra Francia e Germania, stante che nei due secoli precedenti, questi campioni della potenza europea, si erano già combattuti e reciprocamente invasi più volte. Il  problema del confine tra Francia e Germania con tutto il portato di carbone, acciaio, metallurgia e siderurgia (quindi armi), è una costante geopolitica ovvero basata sulla politica (gli Stati, la volontà di potenza) e la geografia (confine in comune, passato indistinto, assenza di chiari segni geografici di separazione). Se Mélenchon si agita verso più autonomia e Macron verso più integrazione, l’uno pensa che la relazione con la Germania sarà sempre subalterna, l’altro pensa di poterla dominare o quantomeno contrattare secondo la tradizione del dopoguerra, il punto in comune è la Francia, la sua posizione nei prossimi decenni. Si noti come in tutta la questione europeista si incrocino sempre due assi, quello degli interessi delle classi sociali e quello degli interessi delle nazioni. Ogni governante sa che maggiore è il vantaggio portato alla propria nazione, più relativamente agevole sarà gestire i rapporti tra le classi sociali.

Tutta la faccenda europeista, se da una parte discende dal problema dei confini e dalla turbolenta convivenza dei due potenti vicini, non meno certo che da considerazioni ed interessi dell’ economia di mercato e della élite che ne beneficiano, discende anche da alcune non sbagliate considerazioni che si trovano nel Manifesto di Ventotene non meno che in Carl Schmitt, in Alexander Kojève non meno che nel primo scritto europeista del poi diventato leggenda nera principe Coudenhove Kalergi, la PanEuropa. Questi e molti altri, che data l’estrema eterogeneità non possono dirsi discendenti di una unica ideologia (ci sono accenni di Stati Uniti d’Europa addirittura in Lenin), evincono sin dai primi del Novecento che oggettivamente Europa non è più un campo di gioco unico in cui si riflettono le sorti del mondo. Gli Stati Uniti, il Giappone, la Cina, la Russia, il mondo arabo su fino all’India, segnano il prepotente allargamento del rettangolo di ogni gioco, politico, geopolitico, culturale, militare ed ovviamente economico. Lo spettro largo di queste riflessioni dura un secolo ed è la versione più colta del sentimento “unionista” di senso comune di cui abbiamo parlato prima.  Improbabile che Europa, dove a fronte di un 7% delle terre emerse si concentrano ben il 25% degli Stati mondiali, possa continuare a pensarsi come una macedonia conflittuale di stati e staterelli di più o meno antico pedigrèe. La doppia tenaglia anglosassone e sovietica per più di quattro decenni, ha reso presente a tutti come la divisione fa imperare altri soggetti, la sovranità prima ancora che monetaria, fiscale e giuridica, la si è perduta militarmente, quella politica ne è solo la conseguenza. Questo ci dice che se prima abbiamo individuato due assi ora ne dobbiamo mettere un terzo, oltre alla lotta tra le classi di una nazione e quella tra le nazioni europee tra loro, c’è anche da considerare che il quadrante di gioco non è più solo quello sub continentale ma quello mondiale.

Torniamo così al nostro discorso principale. Chi si propone di democratizzare l’UE temo stia perdendo altro tempo. Mi domando se “più democrazia” sia una invocazione infantile che serve ad acchiappare voti agitando il nobile drappo dell’autogoverno dei popoli o un preciso piano. In questo secondo -improbabile- caso, mi domando come pensano questi neo-democratici di risolvere il problema dell’oggettiva differenza che corre tra popoli latini e mediterranei e popoli germani e scandinavi, tra gli euro-occidentali e gli euro-orientali. Se domattina Mago Merlino con la bacchetta magica ci donasse il parlamento dell’euro a cui sottomettere la politica della banca centrale, i mediterranei  avrebbero la maggioranza dei 2/3, se ben convinti (e ci sono oggettivi interessi materiali nazionali a largo spettro a supporto) potrebbero far passare la riforma dell’euro facile-facile. Un millisecondo dopo la Germania, l’Olanda, la Finlandia, Lussemburgo ed i tre baltici uscirebbero.  Lo stesso varrebbe per la maggioranza italo-francese nell’eventuale parlamento della piccola federazione dei sei paesi fondatori la CEE-UE.  Così per lo statuto dell’euro ma anche per le altre necessarie riforme economiche e sempre evitando la politica estera che con la sua radice geografica, pone i mediterranei e quelli del Mare del Nord su sponde opposte, interessi diversi, prospezioni ed alleanze altrettanto diverse. Per avere democrazia ci vuole -al minimo- una Costituzione un parlamento, un governo, l’unione dei tre poteri di Montesquieu ed in definitiva niente di meno di uno Stato. Questo Stato che è l’unico sistema conosciuto in cui applicare la democrazia, a 6 se a base storica (?), 19 se su base euro o a 27 se su base UE, non è materialmente possibile per motivi auto-evidenti che i “democratici” non capisco perché si ostinino a non voler vedere. Se per fare un mercato si può essere 19 o 27 e pure eterogenei, per fare uno Stato sono richieste omogeneità giuridiche, culturali, religiose, linguistiche, storiche, politiche. Ogni volta che il sistema di mercato (UE) tenta di fare lo Stato si spacca, ma non lungo le linee ideologiche, lungo le linee geo-storiche. Ancora di recente, Macron si è speso per l’intensione (più governante quasi-federale) e Juncker ha invece ribadito l’estensione (ci sono molti paesi nel sistema, sarebbe più utile allargare il sistema ad altri paesi ad esempio i balcanici), perché le logiche per fare Stati o quelle per fare mercati sono intrinsecamente diverse.

Nessuno vuole in Europa uno Stato federale (anche perché materialmente irrealizzabile), quindi nessuno è in grado di sottomettersi a volontà generali che diventerebbero potere di popoli su altri popoli. Tra il disprezzo nei confronti dei mediterranei ed il ricambiato odio per i tedeschi o l’ironia svagata su quanto si sentono furbi i francesi senza esserlo davvero, mai come oggi stanno tornando in auge sentimenti nazionalistici che categorizzano molto sommariamente l’Altro. Far finta che non esistono i popoli o gli Stati o la storia o la geografia non aiuta, non appena si spinge troppo sull’inflazione retorica unionista, ecco spuntare subito il rimbalzo sovranista. Ma il peggio è che unionisti e sovranisti si disputano il gran premio della chiacchiera perché tanto né sembra si possa andare a più unione, né tornare alla nazione e ciò che impera, alla fine della fiera, è sempre e solo la Commissione, la BCE, i “Nien!” tedeschi. Tra il grande ed il piccolo Stato, alla fine vince sempre il Mercato.

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Siamo nel doppio vincolo, da una parte vorremmo esser più forti ed unirci ma la nostra estrema eterogeneità lo rende impossibile, dall’altra vorremmo ripristinare una accettabile democrazia e tornare a decidere noi sul “che fare?” il che però ci riporta in teoria ai nostri singoli stati che già oggi ma viepiù fra trenta anni, varranno quanto il due di coppe a briscola quando regna bastoni. Strappare più sovranità oggi, significa perderla senza speranza nell’immediato domani del commercio internazionale, della circolazione dei capitali, della dittatura dei mercati, delle nostre fragilità economiche, dei diktat anglosassoni sulla NATO, delle crescente minorità politica di nazioni piccole, sempre più anziane, sempre meno competitive e significative nello scenario mondo.

In questo dilemma che a volte si presenta come trilemma (dentro la nazione, tra le nazioni europee, nazioni europee vs resto del mondo) la sinistra ha forse una opportunità per quanto la confusione mentale ed ideologica oggi occulti proprio ciò che ha davanti a gli occhi.

Se gli otto paesi firmatari del distinguo rispetto ai sogni devolutivi macroniani sono tutti del nord Europa (inclusa la Germania dietro le quinte), se il gruppo di Visegrad unisce stati orientali confinanti ed eterogenei uniti però nel distinguersi rispetto ai dettami occidentali franco-tedeschi, se la Dichiarazione di Lisbona è firmata dai meridionali portoghesi, spagnoli, francesi ed una particella di italiani è perché l’Europa è fatta di popoli ed i popoli di culture, di storie sovrapposte su un piano geografico costante che unisce alcuni e separa altri. Sono le culture l’ordinatore che consente e non consente le eventuali fusioni tra Stati-nazione in Europa. Nessun paese latino mediterraneo avrebbe grossi problemi ad avere una banca centrale che fa quello che ogni banca centrale al mondo fa (espansione economica, controllo del cambio, aiuto nella gestione del debito pubblico oltre al fatidico controllo dell’inflazione), non così i tedeschi e la loro area egemonica nord europea. E lo stesso gruppo dei latini certo che ha interessi geopolitici comuni verso il Mediterraneo, il Nord Africa ed anche il resto del continente che s’affaccia sul nostro stesso mare (per non parlare delle opportunità di sistema con il Centro-Sud America), quindi interesse ad unire le forze in qualche modo. Interessi diversi da quelli germano-scandinavi o dei confinanti con la Russia.

Tra paesi latino mediterranei si possono fare alleanze senza speranze che si battano per una diversa UE, si possono promuovere  maggior livelli di integrazione e cooperazione fattiva mentre si rimane nell’UE, ci si può dar man forte per coordinare una simultanea uscita dall’euro tornando a chi ci crede alle rispettive valute o per uscire tutti dall’euro tedesco e confluire  in un altro euro mediterraneo espansivo, svalutabile, di aiuto alle gestione dei debiti pubblici (soprattutto quelli collocati all’estero, estero che a quel punto avendo nel nuovo sistema sei diversi paesi, diminuirebbe come impegno nel caso lo si volesse ricomprare per immunizzarsi dagli spread, come è in Giappone), sottomesso non ad un trattato ma ad un parlamento democraticamente rappresentativo.

Nel rompicapo europeo non ci sono soluzioni facili e questa invocazione di un insieme latino-mediterraneo non è esente da problemi. Si tratta però di scegliere la via meno problematica e sopratutto quella che apre a maggiori condizioni di possibilità. La comune cultura latino-mediterranea è l’unica solida base per cominciare a sviluppare progetti politici inter-nazionali per tempi che stanno velocemente scalando indici di complessità sempre meno rassicuranti. Ci conviene oltremodo svegliare tutti dal sonno dogmatico che vuole unioni a 27 o a 19 senza che sussistano gli indispensabili pre-requisiti per farlo, così come ci conviene essere realisti e responsabili e cominciare a pensare  che nel mondo nuovo paesi solitari da 60, 40, 10 milioni di abitanti avranno sovranità men che formali. Coordinarsi tra simili per criticare, provare a cambiare o abbandonare l’euro non meno che la NATO, è condizione necessaria, il fine preciso lo valuteremo assieme, intanto fissiamo il mezzo.

Non esiste una sinistra senza una Idea ed in tempi così complicati, far base su un substrato comune di origine geo-storico, quindi culturale, quindi popolare e reale, a noi sembra il modo migliore per far si che la sinistra torni a pensare e ad agire politicamente. Se le opinioni specifiche su UE, euro e vari tipi di progetti avanzati da più parti fanno perno su quel sentimento istintivo che pensa necessario unire le forze tra alcuni di noi, dare a quel sentimento la prospettiva più limitata e perciò più concreta dell’alleanza progressiva tra noi mediterranei europei (per i paesi-popoli musulmani mediterranei il discorso verrà fatto dopo, non si possono fare progetti di unione federale con paesi del nord Africa, ora), può aiutare a darci identità, egemonia nel dibattito pubblico, spinta creativa a disegnare il mondo che verrà, voglia di tornare a fare politica. Se la sinistra nasce nel conflitto sociale interno, oggi deve anche misurarsi con il formato Stato-nazionale, coi rapporti interni all’Europa che sono tra nazioni prima che tra classi e col problema di ciò che è fuori dal nostro antico mondo. L’Idea deve orizzontarsi su tutte e tre le variabili altrimenti rimane idealismo, inutile sequenza di petizioni di principio e non progetto.

La sinistra uscirà dalla sua crisi quando dimostrerà di avere un progetto positivo sulla realtà, alla funzione critica si può aderire scrivendo e comprando libri (una delle principali attività della sinistra), ma non si costruisce realtà con la “potenza del negativo”. La sinistra nata dal conflitto di classe deve sapersi riattualizzare davanti ai tre scenari sistemici mai davvero trattati in profondo dalla sua pur voluminosa produzione teorica: nazione, Europa, mondo. Niente progetto, niente sinistra.

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[1] Il Piano Macron è stato presentato a settembre 2017 alla Sorbona. Le “corone” del piano Macron erano sicurezza, difesa e politica estera, tre argomenti che si fondono come interesse francese ad agire negli “esteri” identificando l’interesse francese con quello europeo. La partecipazione francese, almeno “ideale”, al bombardamento in Siria e l’orgogliosa rivendicazione valoriale che ne ha fatto Macron il 17 aprile a Bruxelles, confermano di questa vocazione del francese ad intestarsi la funzione esteri. (Sullo sviluppo del business della difesa, si veda questo contributo di B. Montesano su Sbilanciamoci: http://sbilanciamoci.info/difesa-europea-business-della-sicurezza/ a rimarcare la costante ambiguità per la quale non si parla di esercito comune ma di business comune). Oltre ai tre argomenti “estero”, il piano Macron ha ambiente e ricerca tecnologica dove quest’ultima segna una delle croniche debolezze europee. Nessuno stato europeo è effettivamente in grado di mobilitare investimenti significativi in grado di competere con quelli americani e cinesi, mancanza che poi si riflette nelle minori condizioni di possibilità economiche e mancanza di indipendenza in un settore strategico. Infine, l’euro che Macron vorrebbe riformare con un comune bilancio e conseguente allineamento fiscale e con unico ministro delle Finanze.  Difficile che anche volendo (e sull’esistenza di questa volontà è lecito nutrire parecchi dubbi), la Germania in cui le due forze politiche in ascesa e che controllano già oggi un quarto dell’elettorato sono i Liberali euroscettici ed AfD apertamente xenofoba, aderisca al progetto se non rendendolo ancora più ambiguo tra la sua forma narrativa e la sostanza ben meno palpitante. Chissà quindi se ci sono proprio i tedeschi dietro la presa di posizione del 6 marzo, in cui otto paesi euro (Finlandia, Irlanda, Olanda, i tre baltici, Svezia e Danimarca ultimi due non in Eurozona e si tenga conto che fuori Eurozona c’è poi su posizioni simili anche il Gruppo di Visegrad) hanno pensato necessario dichiarare assieme l’assoluta contrarietà ad ulteriori devoluzioni dei poteri nazionali, bocciando in sostanza il piano Macron. A sentire le dichiarazioni di Merkel in preparazione del vertice con Macron sembrerebbe proprio di sì, i settentrionali  non vogliono alcun sistema politico comune coi meridionali, non si capisce perché i meridionali non ne prendano atto e ne traggano conclusioni.

Il 25 aprile nulla da festeggiare, di Max Bonelli

 

Il 25 aprile nulla da festeggiare.

 

Alla stanchezza fisiologica che si accompagna alla primavera (con l’ondata di pollini e le  allergie connesse) si sente nel bel paese un’altra stanchezza che scaturisce da una data rossa sul calendario dove in teoria dovremmo festeggiare la liberazione dall’occupazione tedesca avvenuta dopo l’armistizio dell’8 settembre del 1943.

I festeggiati i circa 20.000 partigiani e i “liberatori” americani, sono venuti piano, piano a mancare negli anni ma non solo per un motivo fisiologico di morte degli stessi ma per la trasformazione di questi e dei loro discendenti morali in occupanti e collaboratori degli occupanti. Questa è la situazione ad oggi  in data 25 aprile 2018. Certo non come liberatori si possono indicare  gli  USA che hanno scalzato l’occupante tedesco per sostituirlo con un nodo da “cravattaro” che si fa di ogni anno più stretto. Nuove basi aprono sul nostro territorio, impunità dei loro soldati per i crimini commessi sul nostro suolo (Cermis docet) ed imposizioni in politica estera sempre più lesioniste dei nostri interessi (Libia).

Riguardo i collaboratori degli occupanti PD=PD-L: la prima parte dell’equazione rappresentano gli eredi immorali dei partigiani comunisti.  Il PCI almeno fino alla famigerata svolta  fatta con il viaggio di Napolitano negli USA era l’unico partito che si professava sovranista in Italia (volevano un Italia neutrale fuori dalla Nato). Già riecheggiano le urla dei “destrorsi” che dicono “non è vero ci volevano nel patto di Varsavia”. Illazioni mai provate dalla Storia e dette spesso per giustificare  il servilismo dell’MSI nei confronti della Nato e dei suoi apparati senza contare la scarsa propensione storico dinamica dell’URSS all’espansione geopolitica.

Ora il pronipote è rappresentato dal PD renziano, collaborazionisti degli USA ,fedeli servi che fanno della lotta alle timide istanze sovraniste della Lega e di Fratelli d’Italia la loro ragione di esistere.

I loro antenati morali si stanno rivoltando nella tomba,chi siede a botteghe oscure è un servo del capitalismo e traditore della Patria.

La seconda parte dell’equazione è composta dagli odiosi opportunisti spesso alto borghesi benestanti che diedero avvallo allo squadrismo degli anni venti per fermare l’avanzare del socialismo e tradirono il fascismo quando fu chiaro che era ormai cavallo perdente. Anche  essi fedeli servi del più forte ed in questo caso della bandiera a stelle strisce.

 

L’occupazione militare è solo un espressione di un’altra occupazione che subisce il paese: quella economica dell’Europa a conduzione tedesca.

Presenza ancor più pesante di quella militare descritta in precedenza, perchè sta uccidendo l’Italia, il suo substrato manifatturiero, quello che

l’ ha reso  una piccola potenza economica.

La moneta unica sta uccidendo la nostra economia che non avendo in mano lo strumento della svalutazione è costretta a riversare sul lavoro le leve per attuare concorrenza dei prodotti, precarizzando le condizioni degli occupati a tutti i livelli e non ultima la classe della piccola borghesia impiegatizia.

Questa occupazione a 360|gradi Germano-Americana la stiamo vivendo in tutta la sua implacabile stretta nel mandato del presidente  Mattarella al secondo schieramento per numero di eletti il M5S con il preciso intento di unirsi al PD uscito perdente dalle elezioni. Tutto dettato dal pericolo populista sovranista che Lega e Fratelli d’Italia si fanno espressione seppur in maniera timida. Se analizziamo le parole espresse dal PD “si al dialogo con il M5S se cessano di dialogare con la Lega” si capisce a quale padrone rispondono, lo schiavo perdente che vuole prendersi in carico l’addestramento del nuovo il M5S.

Il peccato della Lega? Il timido accenno di ribellione all’occupazione. Proprio ora che Salvini parla non più di Padani, ma di Italiani e da partito secessionista timidamente fa passi verso il Sovranismo patriottico rappresentato dall’On. Bagnai e nelle loro file eletto?

 

Questa rinnovata lotta tra occupanti e loro collaborazionisti da una parte e dall’altra  patrioti che con diversi colori,contraddizioni emergono nel paese si rinnova e ci dovrebbe far riflettere che non c’è niente da festeggiare in questa data. Ci sono ragioni per una ribellione, per una lotta contro l’occupazione. Bisognerebbe rileggersi le figure di veri eroi come :

Bottai

https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Bottai

 

Mattei https://it.wikipedia.org/wiki/Enrico_Mattei

 

ed altri patrioti sovranisti  sconosciuti che in silenzio rifiutarorno di versare sangue italiano

http://www.conflittiestrategie.it/il-25-aprile-nel-ricordo-di-mio-nonno-gigi-ed-altre-storie-sconosciute-ai-piu-di-max-bonelli

 

e rivolsero le loro energie contro gli occupanti.

Eroi  che rifiutarono  la logica dei Guelfi e Ghibellini che porta ad ammazzarci con facilità tra di noi italiani e  che indicarono una strada:

rivolgere le nostre energie ad una vera lotta di liberazione perchè questa è rimasta incompiuta.

Bisognerebbe far partire un tavolo di conciliazione nazionale che parta da una base comune data di tanti patrioti che dopo l’8 settembre decisero di combattere da una parte e dall’altra i due occupanti il tedesco e l’americano senza  versare sangue italiano. Per fare questo occorre potare sia a destra che sinistra la faziosità partitica e far rimanere centrale il fusto su cui si poggia l’Italia la Patria fatta di lavoratori e piccola media borghesia con l’attività produttiva incentrata nei confini nazionali.

 

Max Bonelli

 

 

 

La trattativa con la realtà, di Roberto Buffagni

La trattativa con la realtà

 

Ho appena letto della sentenza sulla trattativa Stato-Mafia, con le pesanti condanne inflitte agli ufficiali dei Carabinieri. Evito di diffondermi sul messaggio (trasversale?) che i giudici mandano alle FFOO: “Prima di tutto coprirsi le spalle e altre parti del corpo”, all’antica quieta non movere, alla moderna don’t  rock the boat. Evito di diffondermi anche sul fatterello che le FFOO non “trattano con la Mafia” in proprio ma per conto terzi, cioè per conto dei governi (nel caso in oggetto, governi di sinistra e non berlusconiani, ma sono dettagli). Evito di diffondermi sul fatto, incontestabile, che le trattative si fanno con gli avversari e/o i nemici, con gli amici ci si mette d’accordo con le gambe sotto il tavolo e il bicchiere in mano. Evito di diffondermi sul tempismo cronometrico della sentenza, che influisce sulla delicata dialettica politica in corso, favorendo un governo 5*-PD e/o un governo 5*-Lega che spaccherebbe il centrodestra e farebbe lo scherzo dell’Anaconda a Salvini. Evito di diffondermi persino sul fatto storico, anch’esso incontestabile, che le trattative con la Mafia le faceva anche Giovanni Giolitti, un politico italiano di grande statura e specchiata onestà personale che si beccò la definizione di “Ministro della malavita” da Gaetano Salvemini.

Mi diffondo invece (poco, niente paura) su un tema che mi interessa di più.

E’ il tema della grande fiaba desinistra dei “servizi deviati” e dell’inattingibile ”terzo livello della Mafia”, in pillola: la DC un tempo, in seguito Berlusconi, insomma i destrogiri, sono complici della Mafia e in genere delle Forze Oscure della Reazione, solo grazie a questa complicità assurgono a un immeritato e altrimenti inspiegabile potere, conculcano e sbeffeggiano le Forze Sane del Progresso e fanno dell’Italia, che sarebbe tanto brava, un paese anormale ove spadroneggiano impuniti e sfacciati gli evasori fiscali, i furbetti del cartellino, gli analfabeti d’andata e ritorno, i fans di Padre Pio, Berlusconi e Lucio Battisti, gli assessori che scialacquano i risparmi degli italiani in coca troie aragoste e mutande a rete come il celeberrimo Batman, i guidatori di SUV parcheggianti in posto riservato invalidi, etc.; e questo infausto destino durerà nei secoli dei secoli sinché non andrà al governo con larga maggioranza prima il PCI, poi il PD o altri avatar del Bene levogiro tipo 5*, e allora sì che cambierà tutto: in meglio, s’intende, il dopo è sempre meglio del prima, sennò che fine fa il progresso, dove andiamo a finire, torniamo indietro?

Archetipo della suddetta fiaba, il mitico sceneggiato anni Settanta in milletrecentosei puntate La piovra, che diede fama imperitura a Michele Placido, da allora trasfigurato nell’icona immortale del “Commissario Cattani”; il quale  – nota a margine per i più piccini – aveva anche lui la moglie straniera e incontentabile come il suo più tardo avatar Commissario Montalbano, pure lui eroe desinistra sebbene pelato. Bene: colgo l’occasione per formulare anche io una sentenza, la seguente: la fiaba desinistra sulla Mafia è una fiaba.  Questa fiaba desinistra può essere raccontata bene, anche molto bene (le prime serie de La piovra sono belle o belline); e sarà sempre interessante non perché sia interessante la sinistra italiana che francamente non lo è, sotto il profilo spettacolare e drammaturgico il mito dell’onestà, del rigore, del pagamento al centesimo delle tasse, della superiorità morale, dell’eguaglianza tous azimuts, delle vacanze intelligenti, insomma il mito delle professoresse piddine entusiasma come un accertamento fiscale o una seduta dal dentista. Sarà sempre interessante perché è interessante la Mafia, che furbescamente la sinistra italiana parassita per incrementare il suo indice di gradimento spettacolare. La Mafia è interessante per due motivi: uno, che il Male è sempre più immediatamente interessante del Bene, provate a creare un personaggio integralmente buono che non sia un pesce lesso e ve ne accorgerete subito, l’ultimo che ha avuto successo è Gesù Cristo che d’altronde negava recisamente di essere buono (v. tutti i sinottici, es. Mt. 19,17);  lo spericolato Dostoevskij ci ha provato ma ha truccato le carte facendone L’idiota, troppo facile l’espediente del buono perché matto.  E’ un fatto che può dare occasione a spunti di riflessione teologica ed estetica di grande profondità che qui ometto, sarà per un’altra volta. Due, che la Mafia è interessante perché la criminalità organizzata è l’immagine analogicamente più prossima a quella di uno Stato che agisca in condizioni di reale sovranità politica, dunque non l’Italia del dopoguerra: il che rende più ghiotto ed emozionante il surrogato Mafia, quando non c’è il caviale le uova di lompo fanno venire l’acquolina in bocca. La Mafia infatti vive e opera in un mondo nel quale non esiste un terzo imparziale in grado di promulgare e applicare la legge, e dunque in un mondo che somiglia come una fotocopia al mondo delle relazioni internazionali, in cui operano gli Stati: un mondo nel quale non si può andare dal giudice o dal poliziotto se qualcuno ti fa un torto, in cui non ci si può ritirare a vita privata estraniandosi dai conflitti di vario genere che turbano sonni e digestione, in cui di punto in bianco può spuntare nel tuo orizzonte qualcuno che per motivi tutti suoi ti vuole ammazzare, te e i tuoi cari, e non solo ne ha l’intenzione ma pure i mezzi e il know-how. E’ insomma il mondo in cui chi ha il potere è costretto a prendere decisioni di vita e di morte che non solo decidono della vita e della morte fisica, ma della salvezza o della dannazione dell’anima – ognuno traduca la formula religiosa nel suo linguaggio – anzitutto la propria ma anche le altrui. Un esempio davvero magistrale di svolgimento di questo tema sono i primi due film della serie Il padrino, di F. F. Coppola, che senza alterare di molto la trama del mediocre romanzo di Mario Puzo, vi indovinò con grande intelligenza la struttura drammaturgica di una tragedia storica shakespeariana, sfuggita al superficiale romanziere.

Per concludere: la Mafia è interessante perché la Mafia è tragica, e con tragedia intendo la situazione in cui legge, costume, istituzioni, telefono amico non ti forniscono una soluzione precostituita al tuo serio dilemma di vita e di morte. Ci sei tu che sei solo, c’è il mondo che è grande, c’è il cielo che è lontano, e stop: incipit tragoedia. Questa è la tragedia, e questo è anche, nel linguaggio politico, lo stato di eccezione, che definisce chi è il sovrano.

Ecco perché la fiaba desinistra sulle Forze Oscure della Mafia & della Reazione è interessante, ed ecco anche perché è una fiaba.

E’ una fiaba nella parte desinistra, col Commissario Cattani/Montalbano che si batte per il PCI/PD +  il popolo buono che paga le tasse e raccoglie la cacca del cane con la paletta, e in quanto fiaba non intrattiene alcun significativo rapporto con la realtà effettuale, al massimo con la realtà psicologica che vuole a) sentirsi dalla parte giusta b) mettere dalla parte sbagliata chi ci sta antipatico c) vincere + avere ragione d) in attesa di c, perdere + avere ragione e) come minimo, giustificare la propria sconfitta dandone la colpa agli altri che vincono perché sono cattivi e viceversa, v. sub b.

E’ interessante invece, e sul serio, nella parte tragedia, perché la tragedia, sebbene dedestra, quella sì che intrattiene un significativo rapporto con la realtà effettuale, anzi mi sento di spararla grossa e affermare pubblicamente che qualora non si introduca nel quadro un’audace prospettiva soprannaturale & provvidenziale, la tragedia è la realtà effettuale, proprio la realtà effettuale che il pensiero (si fa per dire) desinistra non coglie, per difetto genetico dell’apparato visivo, mai. E non c’è neanche bisogno di tirare in ballo il Politico e lo stato di eccezione come ho fatto prima: perché nella realtà effettuale, anche nella realtà effettuale piccola e modesta delle nostre vite, di fronte alle cose veramente decisive come la gioia e il dolore e la scelta e la morte “ci sei tu che sei solo, c’è il mondo che è grande, c’è il cielo che è lontano, e stop: incipit tragoedia.”

Da quanto precede deriva anche un più equilibrato giudizio sulla famosa trattativa Stato-Mafia, questo. Che la Mafia è una realtà, una realtà non solo criminale ma sociale e politica, con vasto consenso in alcune, non piccole, zone del paese, forza militare non trascurabile, abbondanti finanze, embrione e qualcosina in più che embrione di struttura politica, efficiente amministrazione giudiziaria, fiscalità senza evasori, legami internazionali importanti. Sradicarla si può, come no, almeno per ora lo Stato italiano disporrebbe della forza militare sufficiente. Basterebbe rifare la “guerra al brigantaggio”, però stavolta contro i briganti veri invece che contro i legittimisti borbonici. Però i Commissari Cattani o Montalbano non bastano. Bisognerebbe anche varare un avatar della “Legge Pica” d’antan, cioè sospendere le elezioni democratiche e le garanzie giuridiche agli individui almeno nelle zone di maggior radicamento mafioso, istituire tribunali speciali e comminare condanne amministrative, meglio se anche a morte, impiegare le FFAA non per posare come belle statuine nelle piazze e nelle stazioni ma per fare i rastrellamenti, attivare una vasta campagna di eliminazioni di dirigenti mafiosi (senza processo), e scontare l’inevitabile quota di sbavature cioè innocenti che ci vanno di mezzo + atrocità assortite, dura repressione di eventuali moti popolari a sostegno della Mafia in nome dell’identità locale, ritorsioni anche terroristiche del nemico, e così via. Per me si può cominciare anche domani, ma non mi sembra che il programma qui delineato sia proprio un programma democratico e desinistra, tipo fiaccolata contro la Mafia e celebrazioni di Falcone e Borsellino nei licei con l’oratore di turno che dice “E’ tutta una questione culturale, la scuola ha il compito primario eccetera”.

Insomma: la Mafia è una realtà effettuale, e con la realtà effettuale, volenti o nolenti, tutti dobbiamo aprire una trattativa, anche lo Stato. Poi certo, le trattative possono andare meglio o peggio. Questa per lo Stato è andata bene, per la Mafia no e per gli ufficiali dei Carabinieri neanche; ma del resto, anche la fiaba desinistra ha assunto, nei cuori e nelle menti degli italiani che detto per inciso votano anche in base alla loro psicologia, una sua forma, se si vuole distorta, di realtà effettuale. E dunque, per salvare il Commissario Cattani e il Commissario Montalbano, per non sporcare la loro immagine tanto cara a tanti italiani e poter aggiungere un altro centinaio di puntate al serial Italiamoraledesinistra vs. MafiaForzeOscuredellaReazione, i giudici si sono visti costretti ad appioppare qualche decina d’anni di galera ai Carabinieri, che essendo persone concrete e non archetipi non possono aspettarsi indulgenze plenarie e resurrezioni, e del resto sono usi a obbedir tacendo, tacendo morir (per ora, poi vedremo).

That’s all, folks.

 

IL BUCO NERO_ IL RE (UE) E IL MATTO (M5S), di Roberto Buffagni

Sulla situazione politica italiana e sulle novità funamboliche del Movimento Cinque Stelle il blog ha già dedicato numerose pagine.

Riproponiamo un articolo ancora attuale di Roberto Buffagni, già apparso nel 2016 su http://carlogambesciametapolitics2puntozero.blogspot.it/2016/12/la-politicaitaliana-secondo-shakespeare.html

Un testo attuale, propedeutico a quanto scriveremo una volta che si delineerà più chiaramente la dinamica che ci porterà al varo di un nuovo governo e della conseguente maggioranza_Giuseppe Germinario

La crisi  europea e  italiana… secondo  William Shakespeare 

Il Re e il suo Matto

di Roberto Buffagni

Why, ‘some are born great, some achieve greatness,
and some have greatness thrown upon them
.
(il Matto Feste, Twelfth Night, Atto V, Scena 1)

Winning will put any man into courage.
(il Matto Cloten, Cymbeline, Atto II, Scena 3)

In questo inverno del nostro scontento (59,11% di NO nel referendum appena votato), nella situazione politica italiana non si capisce niente, tranne una cosa: che dopo questo terremoto, tra le rovine dei partiti di maggioranza e opposizione, resta in piedi ed anzi si consolida un solo partito, o meglio un solo Coso: il Movimento 5 Stelle. Il problema è che non si sa che cosa sia il M5S, questo Buco Nero. Populista, si dice. Sì, è populista: ma il populismo è uno stile, non un’identità politica, e neanche un contenuto programmatico. Insomma: che cos’è questo Coso?

Come faccio sempre quando non ci capisco niente, ho consultato il Bardo, che di politica e d’altro se ne intende assai; e come sempre il Bardo mi ha cortesemente risposto la verità, raccomandandomi però di dirla in fretta, perché “La verità è simile ad un cane/che deve restar chiuso in un canile;/va ricacciato lì dentro a frustate.” (il Matto, Re Lear, Atto I Scena 4).

Obbedisco, e ve la dico subito: il M5S è il Matto che rivela la verità sul Re.

Il Bardo, però, ama la sintesi estrema, perché è un grande poeta amico dei simboli e degli enigmi, e un grande uomo di teatro nemico delle lungaggini e della noia. A me, tocca spiegare. Spiego, scusandomi sin d’ora se dovrò esser lungo.

Chi è il Re? Il Re è l’Unione Europea. E qual è la verità che rivela il Matto sul Re? Che il Re è un usurpatore, un falso Re.

Facciamo un passo indietro, come nei romanzi d’appendice, e vediamo un po’ che cos’è quest’altro Coso o Buco Nero: l’Unione Europea, il Mostro Buono, come lo chiamava H.M. Enzensberger.

Nella grammatica politica, esistono soltanto gli Stati nazionali, che possono in varia forma e misura confederarsi, cioè unirsi in modo revocabile: v. il progetto gaulliano di “Europa delle nazioni”; e gli Imperi, in cui l’unità è federale, cioè irrevocabile: v. per antifrasi la guerra di secessione USA tra Nord federale e Sud confederale. L’Europa non può essere o diventare uno Stato nazionale, perché se esiste una civiltà europea, non esiste una nazione europea. L’UE non è una confederazione: se lo fosse, il quadro giuridico dei rispettivi poteri e competenze di Stati nazionali e istituzioni confederali sarebbe chiaro e politicamente legittimato, e l’unione revocabile.

Dunque, l’UE è un progetto federale imperiale (in corso d’opera). Per federare un insieme di Stati in un organismo istituzionale maggiore, Stato-nazione o Impero che sia, ci vuole un federatore (v. il ruolo di Piemonte e Prussia nelle unificazioni italiana, nazionale, e tedesca, imperiale, del XIX sec.). I requisiti essenziali del federatore sono l’indipendenza politica e la forza egemonica (senz’altro militare, nel caso migliore anche economica e culturale). Nel progetto di federazione imperiale UE, invece, non c’è un federatore: lo Stato più forte, la Germania, difetta di entrambi i requisiti (ospita sul proprio territorio basi militari non europee, è economicamente ma non culturalmente egemone).

In realtà, il progetto federale imperiale UE ha due federatori a metà: un federatore politico (gli USA, che hanno l’indipendenza politica, della forza militare, e in certa misura dell’egemonia culturale in Europa) e un federatore economico (la Germania). Nessuno dei due “federatori a metà”, né il politico né l’economico, può/vuole portare a compimento la sua opera. Gli Stati europei non possono federarsi politicamente con gli USA, diventando il cinquantunesimo, cinquantaduesimo, settantottesimo, etc., Stato della federazione nordamericana. Né gli Stati europei possono federarsi intorno all’egemonia economica tedesca, perché il vantaggio economico del “federatore a metà” tedesco implica lo svantaggio economico senza contropartita politica della maggior parte dei federandi, che com’è logico alla fine si ribellano: ma né gli USA per evidente assenza di legittimazione, né la Germania per evidente difetto di mezzi atti allo scopo, possono far uso della forza per ricondurli all’unità.

Ora, nessun federatore agisce gratis et amore Dei nell’unica preoccupazione dell’interesse dei federati; ma perché l’operazione sia politicamente vitale, tra federatore e federati deve sempre avvenire uno scambio, più o meno equo e immediato, di reciproci vantaggi: anche quando la federazione avvenga per conquista sul campo di battaglia. Ad esempio, nell’unificazione italiana, allo svantaggio economico patito dal Meridione – sconfitto con le armi in due campagne militari, la seconda delle quali, la “guerra al brigantaggio”, particolarmente crudele – corrispondono i vantaggi politici dell’accrescimento di potenza dello Stato, così liberato dalle ingerenze straniere, dell’integrazione tra territori culturalmente e linguisticamente affini, e, seppur tardivamente e imperfettamente, un riequilibrio/compensazione delle disparità economiche e sociali tra Nord e Sud, aggravate o almeno non appianate dall’unificazione.

Nel caso dell’UE, invece, la federazione non può essere portata a compimento né dal “federatore a metà” politico, gli USA, né dal “federatore a metà” economico, la Germania. Ne risulta non solo un impaludamento del processo di federazione, ma:

  1. a) un grave danno politico per tutte le nazioni europee: l’UE risulta in un dispositivo di neutralizzazione politica dell’Europa nel suo complesso, del quale si avvantaggia il “federatore a metà” statunitense
  2. b) un grave danno economico per tutte le nazioni europee tranne la Germania e i suoi satelliti, che invece si avvantaggiano del danno altrui.

La contropartita di questi due danni, politico ed economico, è zero. Ripeto e sottolineo due volte: zero.

Per l’Italia – Stato, nazione, popolo italiani – la contropartita di questi due danni, politico ed economico, è meglio esprimibile con un valore algebrico negativo. Esempio politico. Regnante la UE, per due volte l’Italia ha fatto uso della forza contro uno Stato straniero, su indicazione del “federatore a metà” USA e contro il proprio manifesto interesse nazionale: contro la Jugoslavia e contro la Libia (nel caso jugoslavo, l’Italia già che c’era ha fatto anche l’interesse economico della Germania). Esempio economico. Dall’ingresso nell’euro, che è una macchina per svalutare il marco e favorire il mercantilismo tedesco ai danni anzitutto dell’Italia, che della Germania è tuttora il principale concorrente economico europeo, l’Italia ha perso il 25% della sua base industriale, con la disoccupazione di massa che ne consegue.

Quanto all’Unione Europea in generale, poi, lo squilibrio tra intenzioni (almeno esplicitamente dichiarate) e risultati effettuali dell’UE è talmente grande che minaccia di provocare, più prima che poi, una implosione/disgregazione totale del progetto federale, in modi e con effetti imprevedibili e potenzialmente catastrofici.

Come sentenziato dal Bardo, insomma, l’Unione Europea è un usurpatore, un falso Re.

Ma come è giunto a conquistare il trono questo usurpatore, questo falso Re? Quali grandi Casate nobiliari l’hanno sostenuto nella sua impresa, e perché?

Le grandi Casate nobiliari che hanno posto la corona sul capo del falso Re (“uneasy lies the head that wears a crown”, dice Bolingbroke nell’Enrico IV) sono le classi dirigenti europee e statunitensi: liberals, cattolici, socialdemocratici; gli eredi legittimi delle classi dirigenti antifasciste che hanno vinto, sul campo di battaglia o nelle urne elettorali, la Seconda Guerra Mondiale e il dopoguerra. Dalla grande alleanza antifascista mancano solo i comunisti sovietici, ma sono rappresentati dai loro eredi: eredi legittimi anche loro, anche se dopo l’estinzione del ramo principale è un ramo cadetto (i maligni dicono, un ramo bastardo) a portare il titolo.

Dopo la grande vittoria comune di settant’anni fa, queste grandi Case si sono aspramente combattute per decenni. Oggi governano insieme il Consiglio della Corona del (falso) Re e la Camera dei Lord dell’Unione Europea. Come hanno fatto ad accordarsi? Per il potere, si dirà. Certo, per il potere: ma questa risposta, che è sempre vera, non spiega tutto, e anzi forse non spiega niente. Qual è il minimo comun denominatore che ha consentito alle grandi Case, un tempo in lotta per il potere, di trovare un durevole accordo, e così porre la corona sul capo del falso Re?

Il minimo comun denominatore delle grandi Casate americane ed europee che sostengono il falso Re (l’Unione Europea) è l’universalismo politico.

L’universalismo è una cosa sul piano delle idee, dei valori, della spiritualità (nella cristianità europea, l’istituzione delegata a incarnarlo era la Chiesa, il primo “sole” del De Monarchia dantesco). Se tradotto sul piano politico, però, l’universalismo non può che incarnarsi in forze inevitabilmente particolaristiche: perché esistono solo quelle, nella realtà effettuale.

Volendo, chiunque se ne senta all’altezza può parlare in nome dell’universale umanità; ma non può agire politicamente in nome dell’universale umanità senza incorrere in una contraddizione insolubile, perché l’azione politica implica sempre il conflitto con un nemico/avversario.

Senza conflitto, senza nemico/avversario non c’è alcun bisogno di politica, basta l’amministrazione: “la casalinga” può dirigere lo Stato, come Lenin diceva sarebbe accaduto nell’utopia comunista. A questa contraddizione insolubile si può (credere di) sfuggire solo postulando come certo e autoevidente l’accordo universale, se non presente almeno futuro, di tutta l’umanità: “Su, lottiamo! l’ideale/ nostro alfine sarà/l’Internazionale/ futura umanità!” (il “governo mondiale” è un surrogato o avatar della “futura umanità” dell’inno comunista).

Lenin, e in generale il movimento comunista (o anarchico) rivoluzionario, vuole risolvere la contraddizione con la forza. Nella classificazione machiavelliana, Lenin è un “leone”.

L’universalismo politico delle grandi Casate nobiliari nordamericane ed europee che sostengono l’UE non è meno radicato di quello leniniano, perché discende dalla stessa radice illuminista. Esse però vogliono/devono risolvere la contraddizione con l’astuzia; Machiavelli le definirebbe “volpi”. Scrivo “devono”, perché a prescindere dalle intenzioni soggettive, le grandi Case non potrebbero essere altro che “volpi”: entrambi i “federatori a metà”, USA e Germania, non possono portare a compimento con la forza la loro opera.

Come l’URSS comunista, anche l’UE postula l’accordo universale, se non presente almeno futuro: accordo anzitutto in merito a se medesima, e in secondo luogo in merito al governo mondiale legittimato dall’umanità universale, che ne costituisce lo sviluppo logico, e giustifica eticamente sin d’ora l’obbligo di accogliere un numero indeterminato di stranieri, da dovunque provenienti, sul suolo europeo. Per questa ragione è impossibile definire definitivamente i confini territoriali dell’Unione Europea, che qualcuno pretende di estendere alla Turchia, e persino a Israele: perché ha diritto di far parte dell’UE chi ne condivide i valori universali (cioè virtualmente tutti, dal Samoiedo al Gurkha al Masai), non chi ne condivide i confini storici e geografici.

Il passaggio tra il momento t1 in cui l’accordo universale è soltanto virtuale, e il momento t2 in cui l’accordo universale sarà effettuale, non avviene con il ferro e il fuoco della “volontà rivoluzionaria”. Le volpi oligarchiche UE introducono invece nel corpo degli Stati europei, il più possibile surrettiziamente, dispositivi economici e amministrativi – anzitutto la moneta unica – che funzionano, secondo la celebre definizione di Mario Draghi, come “piloti automatici”. Questi piloti automatici provocano crisi politiche e sociali, previste e premeditate, all’interno degli Stati e delle nazioni, ai quali impongono o di insorgere in aperto conflitto contro la Corona, o di addivenire a un accordo universale in merito al “sogno europeo”: per il bene degli europei e dell’umanità, naturalmente, come per il bene dei russi e dell’umanità Lenin ricorreva al terrore di Stato, alle condanne degli oppositori per via amministrativa, etc.

A quest’opera va associata, inevitabilmente, una manipolazione pedagogica minuziosa e su vasta scala, in altri termini una lunghissima campagna di guerra psicologica. La dirigenza UE conduce questa campagna di guerra psicologica da una posizione di ipocrisia strutturale formalmente identica a quella della dirigenza sovietica, perché non è bene e vero quel che è bene e vero, è bene e vero quel che serve alla UE o alla rivoluzione comunista: in quanto Bene e Verità = accordo dell’intera umanità, fine dei conflitti, pace e concordia universali. Le élites, necessariamente ristrette, di “pneumatici” e di “psichici” che conoscono questo arcano della Storia, hanno il diritto e anzi il dovere morale di ingannare e manipolare, per il loro bene, le masse di “ilici” che invece lo ignorano.

Il leone Lenin accetta solo provvisoriamente il conflitto politico, e anzi lo spinge a terrificanti estremi di violenza, in vista dell’accordo universale futuro: dopo la “fine della preistoria”, quando diventerà reale il “sogno di una cosa” comunista e ogni conflitto cesserà nella concordia, prima in URSS poi nel mondo intero. Le volpi UE celano l’esistenza effettuale del conflitto (in linguaggio lacaniano lo forcludono), e da parte loro lo conducono, solo provvisoriamente, con mezzi il più possibile clandestini, in vista dell’accordo universale futuro, quando diventerà reale il “sogno europeo” e ogni conflitto cesserà nella concordia, prima in Europa poi nel mondo intero.

In questo grande affresco romantico proposto alla nostra ammirazione con la colonna sonora dell’Inno alla Gioia (forse non è un caso che il Beethoven delle grandi sinfonie fosse anche il compositore preferito di Lenin) c’è solo una scrostatura: che nella realtà, l’accordo universale di tutta l’umanità non si dà effettualmente mai. Ripeto e sottolineo due volte: mai, never, jamais, niemals, jamàs, etc.

E’ questa cosa, l’usurpatore, il falso Re: il Re del Mondo di Domani che non ha né la forza, né l’autorità, né la legittimità per governare il suo regno di oggi.

E il Matto? Il Matto Movimento 5 Stelle? In che modo ci rivela la verità sul suo e nostro falso Re?

Il M5S è un caso esemplare di universalismo politico spinto fino alle estreme conseguenze dell’assurdità, del ridicolo, insomma del grottesco. La sua scelta di non allearsi con alcuna forza politica se non su singoli provvedimenti definiti “tecnici” o “concreti” consegue, infatti, direttamente dal rifiuto pregiudiziale e preliminare del conflitto politico: dire che tutti sono avversari o nemici è identico a dire che nessuno lo è; dall’individuazione del nemico/avversario, infatti, consegue quali siano gli amici politici, che non si scelgono in base alla comunanza dei valori o all’affinità intellettuale e sentimentale, ma ci vengono imposti dalla comune inimicizia.

E chi è il nemico o l’avversario del Movimento 5 Stelle? La destra? La sinistra? Il centro? Il PD? La Lega? L’Unione europea? I nemici dell’Unione Europea? L’ISIS? L’America?  Il sistema solare? Il riscaldamento climatico? I corrotti? I bugiardi? I ricchi? I poveri? Il Resto del Mondo finché non si converte e non s’iscrive alla piattaforma Rousseau?

Il M5S rinvia tutto al momento magico in cui, da solo, prenderà il 51% dei voti, metterà in opera un progetto di democrazia diretta elettronica totale, e gradualmente persuaderà tutti della bontà e verità della propria azione, che non si caratterizza per la rispondenza a interessi ben definiti di ceti, classi, istituzioni, etc., ma per qualità d’ordine prepolitico come l’onestà, la trasparenza, la freschezza, etc.: qualità in merito alle quali tutti saranno costretti ad accordarsi, se non vogliono autodefinirsi corrotti, bugiardi, marci, etc.: “… honesty coupled to beauty is to have honey a sauce to sugar.” (il Matto Touchstone, As You Like It, Atto III, Scena III)

Una posizione simile condurrebbe, per sua logica interna, al Terrore giacobino; se non fosse che a) il M5S è sprovvisto dei mezzi per metterlo in opera b) il M5S agisce in un quadro di sovranità nazionale limitata (dalla UE) c) il M5S è un Matto, e il Matto può impugnare lo scettro e la spada, ma lo scettro è di cartone e la spada di gomma: più piccoli, ma per il resto identici al (finto) scettro e alla (finta) spada del suo (falso) Re.

Il M5S è, insomma, è un microcosmo che rispecchia il macrocosmo UE: un Matto buffo, piccolo, gobbo, sguaiato, vestito come il Re, e che parla, gesticola, si atteggia, promette e minaccia (a vuoto) come il Re. Come l’Unione Europea, è un organismo politico affatto disfunzionale, ispirato a un universalismo politico che non ha la forza di imporre, e il contenuto delle sue proposte politiche si autodefinisce come “la miglior soluzione tecnica, oggettiva, per il bene di tutti, di problemi concreti”. Poi, certo: il Re ha  un vasto stuolo di tecnici professionisti ben pagati che sfornano impeccabili soluzioni tecniche a tonnellate, 24/7, mentre il Matto ha una squadretta parrocchiale di geometri, ragionieri, laureati per corrispondenza che lavorano nei ritagli di tempo e fanno quel che possono. Ma la somiglianza – anzi, diciamolo col Bardo: la parodia c’è tutta.

Come l’UE in grande, cioè in Europa, così il M5S in piccolo, cioè in Italia, sortisce principalmente due effetti: neutralizza politicamente l’Italia, che a causa dell’ “elefante nel salotto” M5S si impaluda nella paralisi politica; e non pronunciandosi mai chiaramente in merito alla UE – perché per esistere, il Matto ha bisogno del Re, anche se può punzecchiarlo – gioca e fa giocare agli italiani un incessante ping-pong mentale tra la UE realmente esistente (falsa e cattiva) e la UE possibile (vera e buona); tra il Re com’è oggi, e il Re come sarà in futuro, in quel mondo migliore che i Matti chiamano Paese di Cuccagna, Schlaraffenland, Terra di Jaunja, Land of Plenty, Pays de Cocagne, etc.

Concludo. Rispondendo alla mia domanda sul Movimento 5 Stelle, il Bardo mi ha bonariamente rimproverato, invitandomi a disturbarlo solo quando devo fargli domande veramente difficili. “Aiutati che io t’aiuto”, m’ha detto scherzosamente. Ci ho riflettuto un attimo, e arrossendo gli ho presentato le mie scuse. In effetti, ci potevo arrivare anche da solo. Non c’è forse un Matto di professione, alla guida del Movimento Cinque Stelle? Non reca forse cinque stelle, la bandiera del Matto, come ne reca dodici la bandiera del Re (proposta dall’Araldo capo d’Irlanda)? Il dodici, che nella Cabala simboleggia “Il bene sopra tutto. La virtù non è solo pensiero ma anche azione. L’agire senza lucro e senza calcolo.” E il cinque, che simboleggia: “Fugate le nere ombre della notte, l’alba porta con sé i colori vivi della primavera e prepara l’arrivo del sole.”

Che sciocco sono stato, a non accorgermene subito. E’ proprio vero che  “The fool doth think he is wise, but the wise man knows himself to be a fool.” (il Matto Touchstone, As You Like It, Atto I, Scena 5).

 

Roberto Buffagni

LA DECADENZA DI UN PAESE E DELLE SUE ISTITUZIONI, di Antonio de Martini

Le asciutte considerazioni di Antonio de Martini lasciano l’amaro in bocca. I diversi collaboratori di Italia e il Mondo si sono soffermati spesso sulla qualità delle nostre classi dirigenti e sulle modalità nefaste con le quali si sta svolgendo il confronto politico. Più volte si sono soffermati sul ruolo dei vari centri di potere e sulla particolare funzione svolta da settori sempre più ampi della magistratura e degli ordini giudiziari nel regolare e condizionare le scelte politiche. Negli ultimi trenta anni tale funzione è stata addirittura determinante, con tutte le distorsioni e le forzature conseguenti che hanno contribuito pesantemente ad inibire la formazione di élites appena più autonome ed autorevoli. La sentenza riguardante la trattativa Stato-Mafia, non ostante le suggestioni e le rievocazioni, rientra purtroppo pienamente in questo canone; è lontana anni luce dagli squarci aperti da Falcone e Borsellino e per i quali hanno pagato drammaticamente. Ancora una volta la peggiore restaurazione ha bisogno di coprirsi dell’aura della moralità. Per arrivare a mettere ordine in questi ambiti particolarmente delicati e cruciali occorrerebbe una forza politica determinata, coesa e radicata, ben lungi da essere in via di costruzione. Una situazione paludosa che sta esponendo il paese alle peggiori intemperie geopolitiche senza pensare e disporre di un equipaggio adeguato. Ne vedremo purtroppo ancora delle belle_Giuseppe Germinario

Quando una istituzione avvia la propria discesa agli inferi, inizia con lotte interne e col perseguitare i propri servitori.

Accadde a Cicerone che dopo aver salvato la Repubblica dalla congiura di Catilina e sconfitto i ribelli, fu accusato di non aver rispettato le procedure nel mettere fuori combattimento i senatori Lentulo e Cetego che miravano a sovvertire lo Stato.

Anche la Repubblica di Venezia cadde nella fatiscenza quando si affidò ai magistrati, alle delazioni anonime e ai processi ipocriti in difesa della morale in cui nessuno credeva, tanto che per anni, “veneziana” fu sinonimo di donna di liberi costumi.

Non dissimile il caso degli allora colonnelli Mori e Subranni e del capitano De Donno, cui un tribunale ha comminato due condanne da dodici anni e una da otto per aver trattato “a nome dello Stato” coi vertici della mafia identificati nel sindaco di Palermo Vito Ciancimino.

La ” trattativa” sarebbe consistita nel comunicare col sindaco di Palermo ( verissimo).
Il risultato dei colloqui fu la consegna alla giustizia del capo mafioso Totò Riina, fatto puntualmente avvenuto il 5 gennaio 1993.

Il Ciancimino, quindi, era stato trasformato in un “confidente di polizia” e non in un diplomatico di carriera.

Il ministro dell’interno, Nicola Mancino, “mandante logico” di una eventuale trattativa tra lo Stato e l’organizzazione malavitosa, è stato invece accusato e assolto per un reato minore ( falsa testimonianza). In TV , il Mancino si è autoattribuito il merito della cattura di Riina che spetta evidentemente al ROS del colonnello Mori.

Se vero, era al corrente del lavoro dei carabinieri. Se falso, l’assoluzione dall’accusa di falsa testimonianza, è stata , a dir poco, precipitosa.

Consapevoli della mancanza di una controparte credibile, i giudici l’hanno identificata in Berlusconi che divenne Presidente del Consiglio nel 1994 ( dopo la stagione delle stragi) .

Hanno taciuto – ignorandoli?- sugli atti parlamentari che hanno registrato la dichiarazione dell’allora neo presidente della commissione antimafia, Luciano Violante, che annunziava alla commissione iniziative il tal senso e della “coincidenza” che per ben due volte costui si sia trovato sullo stesso aereo Roma-Palermo in cui viaggiava il signor Brusca, anch’esso assolto perché ” pentito”.

Hanno trascurato , i giudici, anche le interviste di Giovanni Maria Flick ( all’epoca ministro di Grazia e Giustizia) che ha ripetutamente ammesso di essere all’origine dei provvedimenti di alleggerimento delle regole del 41bis, più volte sanzionate dalle istanze internazionali come evidenti violazioni dei diritti umani.
Ha anche detto – e scritto- di essersi consultato in proposito col Presidente della Repubblica.

In poche parole, se mai sia esistita una trattativa Stato- Mafia questa l’ha fatta il governo di cui guardasigilli era Flick e il governo Berlusconi non c’è entrato.

La ” gratitudine” ( immotivata?) all’Arma dei Carabinieri l’hanno espressa i governi di sinistra che hanno promosso una forza di Polizia a Forza Armata autonoma. Unico precedente al mondo è il KGB di buona memoria comunista.

Gli interlocutori primi di una eventuale trattativa non potevano che essere uomini di governo e parlamentari dotati di autorità e certamente non un colonnello e due suoi collaboratori.

La verità è che nei periodi di vuoto di potere spuntano magistrati che cercano di arrivare al potere politico sciabolando a dritta e manca trascurando i danni inferti alla credibilità dei magistrati e all’idea stessa di giustizia.

Vogliamo un altro Di Pietro? Vogliamo che i carabinieri si trasformino in pecore?
Attenzione che se proprio si vogliono pecore, potrebbero diventare pecore nere.

Che ne dice il nuovo Parlamento di una commissione parlamentare di inchiesta che svisceri questa materia ?

LA SIRIA PUNTO DI SVOLTA DELLA FASE MULTICENTRICA, di Luigi Longo

LA SIRIA PUNTO DI SVOLTA DELLA FASE MULTICENTRICA

 

di Luigi Longo

 

 

  1. La fase multicentrica sta avendo delle impennate per il dinamismo degli USA. Un dinamismo criminale, spregiudicato, delinquenziale e fuorilegge basato sulla forza militare che assume un peso specifico nelle relazioni interne ed esterne alla potenza mondiale USA nelle fasi multicentrica e policentrica.

Le suddette fasi mondiali tolgono il velo della ipocrisia e della falsa coscienza necessaria sulla democrazia e sulla libertà praticate in Occidente e portate a modello a livello mondiale [si pensi, per esempio, a quella democrazia esportata e difesa in tutto il mondo attraverso il bombardamento etico (è il titolo di un bel libro di Costanzo Preve), statunitense, con mandato divino (sic)] che ora si rivelano essere principi decisamente astratti, che poco hanno a che fare con la realtà nella quale gli agenti strategici dominanti, vettori del conflitto strategico tra le potenze mondiali, hanno bisogno di decisioni, con una filiera del comando accorciata all’essenziale duro e sbrigativo, attraverso le articolazioni istituzionali presenti sul peculiare e storico territorio nazionale che chiamiamo Stato. Il diritto, inteso come forma di organizzazione dei rapporti sociali e territoriali subisce così processi di ri-modulazione, ri-pensamento e re-invenzione. Lo stato di eccezione schmittiano diventa una eccezione regolare storicamente data che si ripresenta necessariamente nelle fasi multicentrica e policentrica del conflitto mondiale. E’ una costante storica che deve portarci a ri-considerare le relazioni e i rapporti sociali reali nelle diverse fasi della storia mondiale che definiamo monocentrica (la presenza di una potenza mondiale che funge da centro di coordinamento), multicentrica (la presenza di più potenze che fungono da coordinamento di diversi centri egemonici che si contengono l’egemonia mondiale), policentrica (il conflitto mondiale tra centri consolidati per il dominio mondiale).

 

 

  1. Gli USA sono una potenza egemone in declino che non riesce a trovare una sintesi intorno ad un gruppo strategico dominante (per i conflitti interni tra gli agenti strategici delle diverse sfere sociali) capace di frenare il proprio declino e rilanciare una nuova sfida per l’egemonia mondiale (alla Russia e alla Cina con le loro aree di influenza sempre più larghe e penetranti il territorio mondiale) che si basi su una nuova idea di società, di sviluppo, di rapporto sociale; va ricordato che non è nella storia statunitense la cultura multicentrica del mondo e la capacità di confronto tra nazioni e tra Occidente e Oriente.

La guerra in Siria, al contrario delle altre guerre nel Medio Oriente (Iraq), nei Balcani (ex Jugoslavia) e nel Nord Africa (Libia), può rappresentare il punto di svolta verso il consolidamento del polo di aggregazione intorno alla Russia e alla Cina [che già collaborano nella sfera economica (risorse energetiche, via della seta, trattati di area, accordi commerciali, eccetera)] capace di approntare una strategia tutta orientale che lancia un confronto tra nazioni eguali con una visione multicentrica del mondo e un nuovo rapporto tra Oriente e Occidente [senza dimenticare né l’influenza della sedimentazione storica del rapporto tra Russia ed Europa a partire dalla metà del XV secolo con lo zar Ivan III (1440-1505), né l’attrito storico tra Russia e Cina]. Non si tratta di un confronto basato sulla forza militare ma sul dialogo e sul confronto tra storie, culture, popoli diversi. Tale confronto non esclude affatto le questioni fondamentali quali i rapporti sociali basati sul potere e sul dominio che riguardano sia le logiche interne che esterne delle nazioni e delle relazioni con le nazioni divenute potenze mondiali [si pensi, per esempio, a quanta influenza ha l’egemonia USA nel decidere lo sviluppo e la politica delle nazioni europee e dell’Unione Europea (che è bene ricordarlo non è l’Europa della nazioni, ma un luogo istituzionale sovranazionale nato da un progetto pensato, finanziato e guidato dagli Stati Uniti e gestito da sub-agenti dominanti)].

Gli USA devono bloccare con la forza militare la possibilità di formazione del polo Russia-Cina perché sanno che l’avverarsi di tale polo, unito alla loro incapacità di fermare il proprio declino egemonico e alla convinzione che l’unica strada percorribile sia quella della guerra (è attraverso la guerra che hanno sempre affermato l’autorità globale), non sarebbe altro che l’inizio della transizione egemonica con una diversa riorganizzazione sistemica. Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski, due importanti protagonisti delle strategie di dominio statunitensi, hanno sempre combattuto e temuto la formazione di un polo sia euroasiatico (Europa-Russia) sia asiatico (Russia-Cina) perché vedevano in esso una seria minaccia alla egemonia mondiale statunitense.

La guerra USA, al contrario di quello che pensava Niccolò Macchiavelli (ne Il Principe) che la intendeva come portatrice di benessere, è solo distruzione di popoli, di territori e di nazioni per contenere la Russia e distruggere sul nascere il polo di formazione asiatico intorno a Russia e Cina.

Il declino egemonico mondiale degli USA sta nella perdita della capacità di un modello sociale di benessere interno ed esterno; gli Stati Uniti basano la loro resistenza egemonica solo sulla forza militare aggressiva e distruttrice senza creazione, senza consenso e senza confronto.

 

 

  1. L’Europa resta il teatro passivo del conflitto tra le potenze mondiali che si andrà sviluppando nelle surriportate fasi della storia mondiale. I sub agenti strategici, che dominano i luoghi istituzionali dell’Unione Europea, da tempo stanno accompagnando le diverse strategie USA di contenimento della Russia e di contrasto alla formazione del polo asiatico. Si pensi al ruolo dell’UE e delle singole nazioni europee all’interno della NATO, alla trasformazione della NATO da strumento di difesa contro la minaccia sovietica a strumento di attacco fuori area (la Nato Responce Force), alla militarizzazione tramite Nato del territorio europeo, alle infrastrutture civili da supporto a quelle militari della Nato, alla nascita della PeSCO (Permanent Structured Cooperation, Cooperazione Strutturata Permanente) del campo della difesa UE, agli interventi del Pentagono (Dipartimento della Difesa degli USA) sulle strutture militari presenti sul territorio europeo, all’americanizzazione del territorio europeo, eccetera; temi dei quali ho già trattato in precedenti scritti.

Il processo di americanizzazione europeo ha condizionato fortemente lo sviluppo e l’autonomia delle singole nazioni; ha ridotto l’Europa ad una espressione geografica a servizio delle strategie statunitensi nelle diverse aree mondiali. Tutte le succitate guerre degli USA [di invasione e di violenza alla sovranità nazionale tramite ONU o tramite NATO o tramite coalizione internazionale o tramite attacco diretto con alleati), a partire dalla implosione dell’URSS (1991)] hanno visto la partecipazione di diverse nazioni europee che si sono ritagliate spazi nella sfera economica (gestione di risorse energetiche, allargamento di aree di influenza e di mercato per le imprese, eccetera), ma sotto stretta sorveglianza delle diverse strategie politiche della potenza imperiale statunitense sempre per contrastare le nascenti potenze mondiali (Russia e Cina) capaci di sfidare l’egemonia statunitense [ esempi recenti la guerra di Libia (iniziata nel 2011) e la guerra in Siria (iniziata nel 2011)].

La stessa storia si ripete oggi, in maniera diversa, con il recente attacco USA alla Siria, dopo sette anni di tentativi di smembramento di una nazione sovrana, con morti e sofferenze inenarrabili della popolazione, insieme agli alleati ufficiali europei (Francia e Regno Unito) interessati alla sfera economica, per contrastare l’egemonia dell’area della Russia e il consolidamento di una potenza regionale come l’Iran che minerebbe il ruolo di Israele come potenza regionale vassallo USA nella politica in Medio Oriente (senza dimenticare la questione storica, politica e territoriale della Turchia), area nevralgica del conflitto strategico mondiale. Il pretesto dell’uso di armi chimiche non regge: perché Bashar al-Assad avrebbe dovuto usare le armi chimiche sulla popolazione di Douma, nell’ambito di un’offensiva globale nei confronti della regione Ghouta orientale, quando ormai i ribelli erano pronti alla resa?

E’ emblematico che nessuna nazione europea abbia protestato duramente contro il criminale attacco degli USA e dei suoi alleati; anzi, è stato sostenuto dal Segretario della Nato Jens Stoltenberg e appoggiato dalla UE, dalla Germania (Angela Merkel: risposta “necessaria e appropriata” agli attacchi chimici), Giappone, Canada e Israele. Il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha bocciato una bozza di risoluzione proposta dalla Russia che “condannava l’aggressione contro la Siria da parte degli Stati Uniti e dei suoi alleati, in violazione delle leggi internazionali e della Carta delle Nazioni Unite”.

 

 

  1. L’Italia è una drammatica espressione geografica a servizio degli USA che considerano il territorio italiano fondamentale per le loro strategie nel Mediterraneo e nel Vicino Oriente, oltre ad ospitare basi Nato-USA di grande rilievo e importanza.

L’Italia, a partire dalla sua Unità sotto il coordinamento inglese fino alla direzione statunitense, dalla seconda guerra mondiale in poi, può essere un laboratorio storico e politico per capire come l’egemonia inglese prima e quella degli Stati Uniti dopo, hanno piegato lo sviluppo del nostro Paese alle loro strategie di dominio, sia con la forza ( uccisioni di agenti strategici che pensavano alla sovranità e allo sviluppo del Paese), sia con il consenso (selezione di sub agenti strategici pronti a sacrificarsi per il bene del Paese alla servitù inglese e statunitense).

Qual è la reazione dell’Italia alla criminale aggressione degli Stati Uniti e dei suoi alleati alla nazione sovrana della Siria fatta in questi giorni? E’ emblematica della stupidità della nostra classe dirigente ben selezionata per il bene del nostro Paese.

L’account Twitter ItaMilRadar, che monitora il traffico aereo militare sui cieli italiani e sul Mediterraneo, ha riferito che due aerei militari della US Navy sono decollati dalla base Sigonella. Il primo, per pattugliare l’area al largo del porto siriano di Latakia nei cui pressi si trova la base militare russa, il secondo per svolgere attività di pattugliamento verso Est. Un Boeing E-3 della Nato ha invece svolto attività di pattugliamento nei pressi del confine tra Turchia e Siria. Ovviamente è un pattugliamento di carattere ordinario! ( www.lasicilia.it, 11/4/2018).

Il 10 aprile scorso l’Agenzia Al Sura ha segnalato che una cisterna volante italiana KC-767 è entrata in Giordania dallo spazio aereo dell’Arabia Saudita.

Le basi Nato-Usa in Italia sono in piena allerta e pronte per gli interventi in Siria. Inoltre, l’ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Militare, Pasquale Preziosa, ci ha ricordato che la base Nato di Sigonella in Sicilia, dove sono ubicati i droni strategici RQ-4 Global Hawk, è importante sia geograficamente sia strategicamente per l’attacco USA in Siria (intervista di Paolo S. Orrù pubblicata su www.tiscali.it, 14/4/2018).

Bene. Cosa fanno i nostri leader politici? Silenzio: il silenzio della paura. L’unica dichiarazione ambigua e strumentale è stata quella di Matteo Salvini che ha criticato l’attacco USA e ha precisato comunque l’importanza di stare dentro l’alleanza atlantica e che il problema è Donald Trump, come se la qualità di un Presidente facesse venir meno la criminalità imperiale statunitense.

E i nostri parlamentari? I più intelligenti hanno chiesto al Governo di conferire in Aula per conoscere i fatti ed informare il Parlamento delle iniziative prese nelle sedi competenti per una inchiesta internazionale indipendente per far luce su quanto accaduto.

 

 

  1. 5. Questo ruolo di servitù volontaria ha impedito all’Europa di essere un soggetto politico espressione di una Sintesi delle Nazioni con una propria autonomia e con un proprio ruolo da giocare nello scambio sociale, economico, culturale e politico tra Occidente e Oriente: Perché? Quali le ragioni storiche e politiche? Quali le strategie per cambiare sguardo e guardare a Oriente per un mondo multicentrico che allontani sempre più la fase policentrica?

Occorrono nuovi agenti strategici in un mondo in forte movimento per il trapasso di epoca così come sosteneva Niccolò Macchiavelli, nella Mandragola la più bella commedia italiana scritta tra il 1513 e i primi mesi del 1514, :<< […] L’espressività di Nicia, il suo sputare motti popolari a raffica diventano emblematici di un attaccamento ottuso a una fiorentinità senza prospettive, in un’epoca in cui […] la crisi politica e morale che stringe Firenze e l’Italia richiederebbe uomini nuovi, lungimiranti, tutt’altro che intenti a tenere lo sguardo fisso all’ombra del proprio campanile >>.

 

La crisi siriana e l’Italia, di Roberto Buffagni

La crisi siriana e l’Italia

 

Mentre scrivo è in corso la riunione del Consiglio di Sicurezza ONU sulla crisi siriana. Registro le due dichiarazioni molto dure e direttamente antirusse di Stati Uniti e Francia, la dichiarazione interlocutoria della Cina che invita a una soluzione politica e non militare della crisi, e la dichiarazione più cauta del Regno Unito che non dà per scontata la responsabilità siriana nell’uso dei gas: il governo May è debole, i laburisti protestano, i conservatori non sono saldamente uniti, e il Ministro della Difesa russo proprio oggi ha ufficialmente accusato il governo britannico di aver appoggiato chi ha inscenato “il falso attacco provocatorio con i gas”.

In Italia non si registrano prese di posizione serie sulla crisi siriana. Si è costretti a prendere atto, con dispiacere e vergogna, di un allineamento totale del PD alle posizioni USA più oltranziste, quando persino all’interno dell’Amministrazione americana e tra gli alti gradi delle FFAA USA ci sono serie perplessità e posizioni nettamente contrarie a un attacco non dimostrativo contro Siria e Russia. Unico a invitare alla calma e a non invischiarsi in una situazione pericolosa, Matteo Salvini: nel paese dei ciechi l’orbo è re, ma non basta.

Che cosa rischiano l’Italia e il mondo intero? In sintesi, quanto segue. In caso di un attacco USA non dimostrativo contro la Siria e il suo alleato russo, l’enorme superiorità di mezzi di cui dispongono gli USA nel teatro mediterraneo può soverchiare le difese siriane e russe. Una prima fitta ondata di missili viene abbattuta dal sistema difensivo russo-siriano che però esaurisce lo stock missilistico, che non è possibile rifornire in tempo utile per le difficoltà logistiche imposte dalla distanza tra Russia e Siria. Una seconda ondata passa e causa gravi danni, colpendo personale siriano e russo. I russi sono costretti a rispondere dal Mar Caspio e dal Mar Nero, forse anche dal suolo russo. Gli USA rispondono, lo scontro si internazionalizza. Se un missile USA colpisce il suolo russo, la Russia colpirà il suolo americano. Sebbene lo scenario sinora tratteggiato non preveda l’uso di armi nucleari, nessuno può escludere che l’escalation vi conduca. E naturalmente, a ogni passo dell’escalation diventa sempre più difficile la de-escalation, sempre maggiori le probabilità di una perdita di controllo da parte di uno o entrambi i contendenti.

Per la sua posizione geografica, in caso di attacco USA non dimostrativo l’Italia sarà in prima linea, perché gli USA vorranno usare le loro basi situate su territorio italiano. Chi dice “siamo nella NATO e dunque dobbiamo appoggiare l’intervento americano contro la Siria” mente spudoratamente. La NATO non, ripeto NON c’entra niente con l’intervento USA contro la Siria. Un’azione aggressiva NATO esige l’accordo unanime, ripeto unanime, dei membri dell’alleanza. Né alcun membro NATO è stato aggredito dalla Siria o dalla Russia. Se dalle basi USA (USA, non NATO) presenti sul territorio italiano partissero truppe o voli diretti ad aggredire la Siria, questo avverrebbe con la piena corresponsabilità del governo italiano e della nazione. Nelle basi USA su territorio italiano, infatti, ci sono due comandanti, uno americano uno italiano. Il comandante americano è tenuto a comunicare in anticipo al comandante italiano tutte le operazioni, e il comandante italiano può autorizzarle oppure no, ripeto OPPURE NO. In caso di attacco USA contro la Siria che parta da basi USA su territorio italiano, il comandante italiano della base USA è tenuto a comunicare ai superiori gerarchici il piano operativo a lui sottoposto dal comandante americano, e i superiori gerarchici a informarne il governo e il Presidente della Repubblica, comandante in capo delle FFAA, perché un atto di guerra contro la Siria e la Russia intrapreso da base USA su territorio italiano configura un identico atto di guerra dell’Italia contro Siria e Russia. Per intenderci: se la Russia rispondesse a un attacco USA partito dall’Italia attaccando obiettivi militari su territorio italiano, sarebbe giustificata dal diritto di guerra. Invitiamo caldamente tutte le forze politiche che abbiano a cuore la sicurezza e l’onore nazionale a fare pressione sul governo e sul Presidente della Repubblica, comandante in capo delle FFAA, perché con apposita comunicazione scritta ribadiscano a tutti comandanti italiani di basi militari USA che è loro diritto e dovere esigere dal comandante americano il controllo preventivo del piano di operazioni, e comunicare prontamente per via gerarchica al governo eventuali piani di operazioni USA contro Siria e Russia che partano dal suolo italiano. Se questa possibilità si verifica, viste le gravi ripercussioni possibili e anzi probabili, il governo è politicamente e moralmente tenuto a darne notizia al Parlamento, e a sottoporre a un voto delle Camere l’autorizzazione italiana di qualsivoglia operazione americana contro Siria e Russia in partenza dal territorio nazionale. Vogliamo sperare che i rappresentanti del popolo italiano si mostrerebbero all’altezza del loro ufficio, negando l’autorizzazione e così tutelando sicurezza e onore dell’Italia. Chi non lo facesse si assumerebbe una gravissima responsabilità storica e morale.

 

SULLA VIA DI DAMASCO O IL REVIVAL DEI DE FILIPPO?, di Antonio de Martini

Pubblichiamo una breve ed efficace puntualizzazione di Antonio de Martini sulla situazione in Siria. Nel frattempo:

  • in Italia l’aspetto che colpisce del nostro ceto politico è il silenzio. Probabilmente si aspetta qualche iniziativa un po’ più energica dei nostri alleati, in particolare Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, nei confronti dell’Italia prima di accodarsi nell’ennesima impresa contraria all’interesse del paese. Sino ad ora solo Salvini, tra i leader, ha osato mettere in dubbio la veridicità delle versioni ufficiali riguardanti il caso Skripal e l’attacco chimico a Goutha e contestato l’eventuale azione di rappresaglia. Alcuni esponenti di Forza Italia, a loro volta, hanno dato man forte. Per il resto, il M5S si è limitato ad una interrogazione parlamentare equidistante tra i contendenti in Siria. Un atteggiamento di neutralità che in realtà conferma il progressivo scivolamento verso l’atlantismo più remissivo. Tutt’attorno un assordante silenzio corroborato da complicità e connivenza
  • alla Casa Bianca, nello staff del Presidente, il confronto è aperto e duro. Al NSC (National Security Council), il Consiglio di Sicurezza che assiste il Presidente nelle sue decisioni, ci sono due posizioni contrapposte. Gli oltranzisti Bolton e Dunford cercano di organizzare la cordata dei sostenitori di un intervento massiccio. Mattis e Pompeo, due nomi pesanti, sono contrari adducendo ragioni geopolitiche e di incertezza riguardo l’esito militare. Kelly è in posizione di attesa. L’altra metà del gruppo attende lumi prima di prendere posizione. La decisione spetta comunque a Trump. La sua famiglia, in particolare il primogenito, questa volta sembra propendere per il non intervento. Lo zoccolo duro dell’elettorato di Trump è apertamente contrario all’intervento. Con il senno di poi si comprendono meglio le ragioni dell’estromissione di Flynn, lo scorso anno. La vittoria della fazione sarà sancita dal dosaggio di un intervento ormai inevitabile. La dinamica è stata spinta troppo in avanti.
  • in Europa Macron ha assunto il ruolo della mosca cocchiera. Probabile che sull’onda dell’entusiasmo inneschi l’attacco e rimanga alla fine solo a sostenere l’onere e la responsabilità politica dell’atto proditorio. La Germania si tira fuori dall’intervento, ma manda una nave militare, probabilmente attrezzata alle intercettazioni, nel teatro di guerra. Esattamente come nell’intervento in Libia. La Gran Bretagna agisce tra le quinte, organizza e sostiene gli “elmetti bianchi” responsabili della campagna di disinformazione e di provocazione in Siria, ma non si espone platealmente. Theresa May, già in bilico, su un’avventura del genere rischia grosso, anche personalmente.
  • Curioso che il presunto attacco chimico a Damasco sia stato immediatamente preceduto da un pellegrinaggio del Delfino saudita nelle capitali europee. La prospettiva di un accordo tra Russia, Turcia e Iran sui destini della Siria balenata nella recente conferenza stampa e il successivo annuncio di Trump della partenza delle truppe americane dal teatro siriano, prontamente contraddetto dagli eventi successivi, deve aver sconvolto le menti e le aspettative di Netanyau in Israele e soprattutto dei principi sauditi. Lo scontro tra diverse impostazioni di politica estera continua ad attraversare gli schieramenti specie del mondo occidentale. La Cina intanto cosa farà? Dal suo posizionamento dipenderanno tante cose _Giuseppe Germinario

SULLA VIA DI DAMASCO O IL REVIVAL DEI DE FILIPPO?

Se telefonate a Damasco a un amico, questo vi dirà che in città è un via vai di Russi e mezzi contraerei.

Al largo della base navale siro-russa di Tartous incrociano – e si incrociano – navi e aerei di numerose nazionalità, inclusi i tedeschi.

Il mondo dei media è attraversato da fremiti di guerra e fiumi di soldi per dimostrare che il pericolo di guerra è concreto.

Gli iraniani sono i principali destinatari di queste sceneggiate napoletane ( ” tenetemi che l’ammazzo”) alla De Filippo.

Trump – questo nuovo Peppino col toupet – sceneggia su Twitter ignaro che queste tecniche intimidatorie siano state inventate dall’impero persiano tremila anni fa a beneficio dei greci.

Il vero pericolo di guerra è costituito dalla inesperienza e inadeguatezza intellettuale e morale della squadra dirigente USA che volteggia attorno a un bullo che crede di giocare allo sceriffo.

Qualche solerte satellite potrebbe sparare un colpo per compiacerlo. Vanno bloccati gli “automatismi da alleanza” .

Questo crescendo di sceneggiate, nato per rafforzare Israele, punto irrinunciabile della strategia occidentale, in realtà lo fragilizzerà, al punto da metterne in forse l’esistenza stessa.

Sei ex capi del Mossad fecero, qualche anno fa, una pubblica dichiarazione che serviva una soluzione politica al problema palestinese e che non esisteva una soluzione militare.

Si spinsero fino a farsi intervistare nel film israeliano ” The Gatekeepers” avvertendo che una guerra contro l’intero Medio Oriente non poteva comunque essere vinta.

Netanyahu asseconda la spinta bellicista perché vuole distrarre dalle accuse di ruberie sulle forniture militari.

Erdogan e Putin per rafforzare i rispettivi consensi popolari e impedire alle opposizioni di casa di distinguersi fino a che esiste una crisi internazionale che richiede coesione.

Trump perché teme l’isolamento politico e militare degli USA che si verificherà non appena la tensione internazionale diminuirà.

È la Batracomiomachia di Omero buonanima.

IL BUON LAVORO, IL BUON SINDACATO_ di Giuseppe Germinario

Il 30 e 31 gennaio scorso la CGIL ha organizzato una conferenza di programma, il “BUON LAVORO”, sul tema delle implicazioni dei processi di digitalizzazione ed informatizzazione sull’organizzazione del lavoro delle imprese, sul mercato del lavoro, sulla contrattazione e sull’organizzazione sociale delle comunità.

Una iniziativa quanto mai necessaria nel mondo sindacale ma dal carattere ancora drammaticamente estemporaneo. Arriva, infatti, a circa trenta anni dall’avvio dei primi significativi processi di riorganizzazione delle attività produttive e di impresa, nonché della vita e dei sistemi di controllo delle varie formazioni sociali.

Un ritardo che si è manifestato in tutta la sua gravità nella qualità della relazione del Segretario Generale, Susanna Camusso e nella gran parte degli interventi, in una iniziativa per altro ancora unica nel mondo sindacale.

http://www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2018/01/20180129relazione-conferenza-programma.pdf

http://www.radioarticolo1.it/jackets/cerca.cfm?str=Buon+lavoro&contenuto=audio

La natura del potere sindacale, decisamente più contrattuale e di condizionamento che decisionale, giustifica solo in parte tale riflesso; contano soprattutto l’impostazione culturale e le chiavi interpretative di una classe dirigente sindacale impegnata a conciliare in qualche maniera gli stereotipi dell’attuale sinistra con il retaggio sempre più vago e oscuro di una visione di classe.

Nella fattispecie la relazione e le conclusioni di Susanna Camusso, nelle approssimazioni, incongruenze e alcune volte addirittura salti logici ivi contenuti, rappresentano il portato evidente di questo limite e dell’incapacità di offrire ai ceti popolari la possibilità di una difesa efficace delle proprie condizioni e un ruolo attivo in un eventuale progetto di sviluppo e di recupero di autorevolezza del paese.

È il momento, quindi, di addentrarsi nei contenuti di essa.

Il contrasto alle diseguaglianze è il filo conduttore dell’iniziativa e di tutto l’impegno sindacale.

Una ambizione caratterizzante il progressismo democratico e di sinistra cui appartiene a pieno titolo il sindacato confederale.

Quando però dalla enunciazione e dagli slogan taumaturgici si passa all’analisi e agli obbiettivi politici iniziano a sorgere i problemi e le incongruenze.

SULLE DISUGUAGLIANZE RISPETTO A CHI

Intanto diseguaglianze rispetto a chi e tra chi?

Camusso riprende pigramente le analisi modaiole di Piketty; l’1%, detentori, per di più bianchi, della ricchezza equivalente posseduta da 3,7 miliardi di persone restanti, quindi, rispetto al resto della popolazione. Un 1% costituito soprattutto da esponenti della finanza e delle banche.

Questa prima affermazione si presta a numerose obiezioni di varia rilevanza.

Sul colore della pelle, visto l’emergere di nuove potenze economiche, soprattutto in Asia e di relativi nuovi patron.

Il dato del 1% è un giochino statistico, dal vago sapore demagogico, realistico nel solo caso in cui tale immane ricchezza dovesse rimanere immobilizzata e tesaurizzata; una condizione legata a specifici cicli economici e fasi geopolitiche. Di regola rappresenta un sistema di drenaggio e riallocazione di risorse in settori e spazi geografici seguendo dinamiche economiche legate a strategie geopolitiche; un sistema, quindi, comunque di redistribuzione e di reinvestimento. Rappresentato come una cupola dominante gli affari e le peripezie del globo terreste, in grado di svuotare e sterilizzare l’azione politica, verrebbe da chiedersi come possa una organizzazione, delimitata territorialmente e circoscritta alla difesa degli interessi del lavoro dipendente, contrastare efficacemente e realisticamente questa divaricazione.

L’implicazione delle più gravi ed evidenti di tale escamotage nell’analisi politica e socioeconomica è infatti l’appiattimento del restante 99% di popolazione in un confuso calderone dagli ingredienti indistinti che impedisce di vedere le articolazioni sociali e le diversità di interessi e rappresentazione dei vari gruppi sociali.

Un’altra grave implicazione riguarda l’incapacità di analizzare e spiegare la conflittualità politica, presente in tutti gli ambiti compreso quello economico, sempre più accesa tra centri di potere in aperta competizione e del tutto incompatibile con una visione totalitaria e verticale dell’azione politica. In questa dinamica i centri economico-finanziari sono solo parte dei vari centri decisionali in competizione e conflitto ai quali partecipano a pieno titolo élites operanti in altri ambiti, dal militare all’accademico, alla sicurezza interna, all’amministrativo; compresi quindi quelli presenti nelle varie istituzioni pubbliche e statali.

La conseguenza di tale impostazione è la formulazione di orientamenti ed obbiettivi politici quantomeno velleitari o mal posti.

DISUGUAGLIANZE TRA CHI

La prospettiva di diseguaglianza interna al blocco del 99% si rivela se possibile ancora più inadeguata. La constatazione ricorrente è quella di una condizione sempre più generalizzata di precariato e di peggioramento dei livelli di sfruttamento e di condizione economica.  Più che di diseguaglianza si tratterebbe quindi di appiattimento generalizzato al ribasso delle condizioni di vita e di lavoro.

Le vie di fuga consentite da queste chiavi di interpretazione sono alla fine scontate.

Si parte dalla aspirazione di un Governo Mondiale che dovrebbe controbilanciare lo strapotere di questa grande cupola, per consolarsi via via con la costituzione degli Stati Uniti d’Europa e ridursi infine ad una generica azione di controllo dei Governi attraverso soprattutto la tassazione; il tutto corroborato e sostenuto dall’azione di un presunto movimento sindacale e di opposizione internazionale.

Sarebbe sin troppo facile sfrucugliare sulle possibilità reali di direzione unitaria di tale movimento, laddove dovesse prender piede e sul fallimento di tali aspirazioni nei momenti più drammatici di conflitto di questi ultimi due secoli. Non è però l’aspetto centrale della questione.

Le ultime vicende legate alla manipolazione di dati dei colossi della comunicazione e alla crisi economica finanziaria degli ultimi dieci anni hanno rivelato la rivalità accesa di questi centri, l’aperta innervazione di essi con gli apparati e i centri di alcuni stati in via di rafforzamento e di altri in via di indebolimento, la loro stessa dipendenza dalle scelte e dal controllo di questi apparati.

Non si tratta quindi di un generico recupero del controllo pubblico, quanto di quello delle prerogative di quegli stati che volenti o nolenti vi hanno rinunciato attraverso la realizzazione di strategie particolarmente complesse ed articolate.

Susanna Camusso invece non trova di meglio che lamentarsi del cosmopolitismo e della libertà di circolazione a senso unico auspicati e perseguiti da questa cupola; applicati quindi ai capitali ma non alla manodopera e alle popolazioni, soggette queste ultime sempre più alle limitazioni dei muri e di vari tipi di barriere. Da qui la conferma di una veemente condanna delle politiche protezioniste, per altro comunque esistenti in varie forme selettive, foriere di guerre e disastri. Una accorata difesa di libertà, costituita nella prosaica realtà da pratiche selettive che hanno garantito il predominio pluridecennale della formazione americana, ma anche l’emergere di nuove potenze sempre più in grado di sostenere la competizione politico-economica. Un vero e proprio accecamento ideologico che impedisce di vedere la natura del conflitto tra centri globalisti e centri strategici più disposti ad accettare una condizione multipolare; di individuare di conseguenza l’interesse che hanno anche gran parte degli strati più popolari e subalterni a veder frenati e strettamente controllati i processi di migrazione e i flussi economici.

Quel che appare una visione universalistica in grado di interpretare adeguatamente la realtà globale e gli interessi della varia umanità, si rivela in realtà una proiezione di una condizione e di un processo riguardante un mondo occidentale in declino o comunque costretto a circoscrivere la propria azione.

La crisi, il diradamento e il depauperamento dei ceti medi, ad esempio, contrariamente alla rappresentazione catastrofica offerta dal Segretario Generale, è un processo che riguarda soprattutto le formazioni occidentali in declino, in netto contrasto con il loro sviluppo nelle formazioni emerse ed emergenti quali la Cina, l’India, la Russia, l’Indonesia ed altre. La competizione e il declino, a volte relativo a volte assoluto delle formazioni occidentali, rende poco sostenibile il sistema di funzioni, di redistribuzione di rendite e redditi che ha contribuito a rimpolpare e garantire lo status di ampi settori di ceti intermedi.

Un processo reso ingovernabile e ulteriormente destabilizzante da due altri fattori a loro volta globali, i quali hanno un influsso diverso su formazioni in via di sviluppo e formazioni sulla via del declino; su formazioni con una folta presenza di ceti medi numerosi ed articolati e formazioni con ceti da creare partendo da una base iniziale più ristretta e meno articolata e diffusa:

  • da processi di mondializzazione delle filiere produttive e dei servizi con la conseguente migrazione di interi comparti produttivi, più o meno evoluti;
  • da processi potenti di robotizzazione e digitalizzazione i quali stanno trasformando radicalmente, più che azzerando, il livello e le gerarchie di competenze professionali nonché la definizione di funzioni e ruoli necessari alla formazione e alla stratificazione dei ceti intermedi sotto mutate spoglie

Per una associazione la quale costitutivamente fonda la propria ragione d’essere sul rapporto più o meno conflittuale tra capitale e lavoro dipendente è molto facile scivolare e proiettare le proprie dinamiche politiche e rivendicative in una visione universalistica di fatto subordinata, grazie all’impostazione dualistica dei rapporti di potere tra capitalisti (ormai finanziari) e salariati (masse diseredate), alle strategie globaliste tipiche invece di centri strategici che ambiscono all’egemonia unipolare. A meno che l’organizzazione non disponga di una classe e di un gruppo dirigente talmente saldo politicamente da essere in grado di ricondurre le dinamiche ed i conflitti di classe, le rivendicazioni settoriali all’interno delle dinamiche geopolitiche che si stanno consolidando.

LE IMPLICAZIONI POLITICHE

Questo gruppo dirigente non appare assolutamente in grado di elaborare una analisi e condurre un’operazione politica di tale portata; di conseguenza non appare in grado di opporre una difesa efficace ed unitaria degli interessi popolari.

Sembra, al contrario, rimuovere dal proprio bagaglio personale quel patrimonio culturale duramente acquisito sino ai primissimi anni ’70 ed utilizzato con buona efficacia per una brevissima stagione, sino a quando, cioè, non prevalsero definitivamente e tardivamente le pulsioni egualitariste più esasperate tipiche dell’operaio-massa e, in forma ancora più avulsa, di ampi settori del pubblico impiego.

L’enfasi con la quale la CGIL, più in generale l’insieme del mondo sindacale, pone l’accento sulle diseguaglianze è il segno della gravità della frammentazione e polverizzazione del mondo del lavoro dipendente e collaterale, ma anche dei gravi limiti dell’attuale azione sindacale.

La precarizzazione della condizione economica e dei diritti dei salariati, degli autonomi e di buona parte dei ceti professionali è la conseguenza pressoché diretta del drastico ridimensionamento dell’apparato produttivo e di servizi del paese, frutto a sua volta di una intrinseca debolezza politica della classe dirigente del paese. Il confronto tra le forze sociali, tra esse il confronto sindacale, si fonda quindi su basi e su margini più ristretti; la forza contrattuale degli strati più fragili e deboli risulta pregiudicata. L’esigenza inderogabile di ammodernamento e riorganizzazione produttiva delle attività superstiti e la perdita di controllo nazionale di gran parte delle imprese più rilevanti hanno per altro sconvolto le basi del sistema di contrattazione e dei rituali sindacali consolidati sino a fine secolo.

Non a caso l’azione più importante su cui è impegnato questo sindacato riguarda la rielaborazione del sistema dei contratti collettivi e individuali di lavoro e il varo di una carta dei diritti. Una azione alla quale, però, manca ormai una sponda politica ed istituzionale, una volta garantita dai partiti operai e popolari, in grado di sostenerla; tanto più necessaria, quanto più e polverizzato il quadro sociale operativo del sindacato.

Si tratta, però, di una operazione di stampo prettamente legalitario, di fatto elitaria che prescinde dal contesto economico e dai rapporti ormai consolidati. Lo sviluppo esponenziale dell’economia informale, una tara storica del paese Italia, è tutta lì a rivelarne la debolezza e la parzialità. Una fragilità rispetto alla quale le modalità di contrasto delle diseguaglianze prospettate da questo gruppo dirigente appaiono distorsive e fuorvianti.

L’aspetto centrale del problema è invece l’appiattimento retributivo ed anche normativo riservato a tante categorie più professionalizzate e specializzate.

Senza porre al centro questo aspetto, difficilmente il sindacato potrà contare sull’apporto delle forze più competenti, più forti e più tenaci del mondo del lavoro; rischia, piuttosto, di essere soggetto al meglio alle vampate e alle fibrillazioni senza respiro dei settori più degradati e meno capaci di sostenere confronti prolungati.

Le cause di questa condizione sono molteplici:

  • la mancata coltivazione ed incentivazione di un ceto imprenditoriale e manageriale nazionale interessato e capace di investimenti strategici, di sviluppo di grandi imprese;
  • la distruzione e l’annichilimento progressivo di quella parte di classe dirigente della nazione in grado di sostenere una collocazione internazionale del paese sufficiente ad offrire spazi e condizioni a questo sviluppo;
  • la destrutturazione piuttosto che la riorganizzazione di gran parte degli apparati e delle strutture necessari a garantire queste politiche;
  • una condizione delle strutture produttive che richiede qualificazioni complesse ma fuori mercato;
  • un serbatoio di manodopera inoccupata del tutto sproporzionato

Da qui lo spreco di competenze e di qualificazioni che sta portando ad un degrado progressivo degli stessi centri di formazione dal costo ormai sempre più insostenibile e meno giustificabile dagli sbocchi.

I primissimi anni ’70 furono i momenti di maggiore forza e lucidità del movimento sindacale. Fu la breve fase nella quale il sindacato godeva dell’apporto militante dei settori più professionalizzati del mondo del lavoro dipendente. In quegli anni maturò la politica del cosiddetto “nuovo modello di sviluppo”, velleitaria e spesso fumosa, ma indicativa delle ambizioni unitarie e generali del movimento. Contestualmente si elaborò la classificazione del personale in un inquadramento unico che tentava da una parte di far corrispondere il salario al livello professionale e di competenza dei dipendenti, siano essi operai, che impiegati, che tecnici, che quadri; dall’altra di riordinare i sistemi di incentivazione individuali. Una epopea che si concluse rapidamente nell’inerzia delle posizioni egualitariste più radicali portate avanti dai settori meno qualificati e/o più istituzionalmente garantiti da un sistema di regolamentazione pubblica proprio degli apparati burocratici ed amministrativi sino all’apoteosi velleitaria del salario considerato “variabile indipendente”. Posizioni via via prevalenti negli ambienti sindacali.

A cosa si sia ridotta progressivamente la cittadella sindacale e la composizione di gran parte dei cortei è sotto gli occhi di chi vuol vedere.

LE OMISSIONI ED I RITARDI

La relazione di Susanna Camusso e la stessa azione sindacale sono lontani da un cambiamento di impostazioni altrimenti indifferibile.

  • Nella relazione non c’è traccia della necessità di tutelare e sviluppare un complesso di grandi imprese, a controllo e di espressione nazionale in grado di garantire adeguate piattaforme industriali nei settori sperimentali e strategici, in grado di competere ma anche di partecipare con pari dignità al sistema di compartecipazioni e di fusioni internazionali.
  • Non c’è traccia del ruolo preminente cui sono chiamati gli stati nazionali nello scacchiere geopolitico e nei sistemi di alleanza che si vanno prefigurando non ostante la vulgata sovranazionale ancora predominante in questi ambienti. Sistemi propedeutici al varo di politiche industriali e alla formazione di grandi complessi di imprese paragonabili a quelle americane, cinesi e in alcuni ambiti russe;
  • lo stesso ruolo pubblico si limita, nella rivendicazione, ad una politica di massicci investimenti e di riordino normativo e organizzativo tesi a favorire le condizioni e le opportunità di mercato. Una politica velleitaria nelle dimensioni, perché inquadrata nei vincoli comunitari; essa non farebbe che assecondare per altro i processi “naturali” di mercato i cui indirizzi sono decisi altrove; di fatto in altri centri politici decisionali estranei al paese ma ben presenti in altre formazioni e apparati statali.

SINDACATO E INDUSTRIA 4.0

Risulta gravemente inficiato, di conseguenza lo stesso approccio alla problematica dell’industria 4.0 tentato nel convegno.

Non sorprende nemmeno il sostegno acritico ed entusiasta al provvedimento “Industria 4.0” varato dal Ministro Calenda nel 2016 concesso dalle tre confederazioni nel 2017.  http://www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2017/03/Doc-Unitario-CGIL-CISL-UIL-del-13-marzo-2017-INDUSTRIA-4_0-1.pdf

In proposito si veda quanto espresso a suo tempo da questo blog. http://italiaeilmondo.com/?s=i+buoi+oltre

Nella relazione vi sono solo un paio di accenni critici in proposito, quasi del tutto irrilevanti.

Si sottolinea il carattere fuorviante del titolo che induce a focalizzare l’attenzione ai soli processi industriali di digitalizzazione e robotizzazione. In una successiva intervista Susanna Camusso, bontà sua, tende a sottolineare ulteriormente che i processi riguardano ampiamente anche il settore dei servizi e le amministrazioni pubbliche.  Questo a distanza di quasi trent’anni dai primi processi avviati, già con ritardo, nel settore bancario. http://www.cgil.it/admin_nv47t8g34/wp-content/uploads/2017/06/Idea_Diffusa01-2018-1.pdf

Si indulge sulla constatazione dell’insufficienza degli investimenti, in particolare pubblici, nel settore della ricerca e sulla necessità, sulla carenza, espressa in modo generico, di una concertazione tra le parti nella messa in opera e valorizzazione degli stessi.

Glissa del tutto sull’articolazione e sugli aspetti dei quattro ambiti, pur enunciati abbastanza chiaramente nel provvedimento governativo e posizionati gerarchicamente, entro i quali agiscono i processi di intelligenza artificiale (IA), di digitalizzazione e robotizzazione.

Critica blandamente il punto di vista legato esclusivamente ai processi di automazione degli impianti, ma solo per addentrarsi a grandi linee con un grande balzo spericolato sulla problematica dell’introduzione di queste tecnologie nei beni di consumo e di servizio. Nella fattispecie sulle implicazioni positive legate alle possibili estensioni della gamma e della qualità di servizi e beni alla persona, in particolare quelli connessi allo stato sociale; su quelle negative legate al controllo e alla sicurezza dei dati personali.

Su questo aspetto, nessuna attenzione all’enorme e cruciale problema di sicurezza e di dipendenza legato ai processi di raccolta, filtraggio e trasmissione dei dati rilevati dai prodotti e dai processi industriali connessi in rete. Processi in mano quasi integralmente a compagnie americane.

Un problema che sembra preoccupare seriamente cinesi e russi, tant’è che vi stanno investendo copiosamente; non sembra gran che tormentare i sonni degli europei, tanto meno degli italiani. Nel suo piccolo la Camusso offre il suo contributo al torpore. Si guarda bene dallo spingere il Governo e gli imprenditori italiani a cercare e promuovere sinergie e collaborazioni analoghe, specie in ambito franco-tedesco, per varare analoghe strutture di servizio. Tutto l’afflato si riduce ad una accorata esortazione ad un controllo democratico, per iniziativa di governi ed istituti sovranazionali, della corretta gestione dei dati.

Ci si sarebbe aspettato una particolare attenzione, connaturata alla missione del sindacato, sulle implicazioni dei processi di digitalizzazione, robotizzazione e IA sulla organizzazione del lavoro e sui vari livelli di qualificazione e professionalità richiesti. Un aspetto cruciale fondativo della contrattazione nazionale ed aziendale. Anche in questo caso, la premura con la quale la relazione sottolinea il fatto che ci si trova di fronte a processi di lungo periodo e reiterati pare più un alibi per giustificare i ritardi di comprensione e di azione che un appello ad attrezzarsi ad una sorta di contrattazione permanente e con cognizione di causa in un quadro di politica industriale.

Non una parola, anche in questo caso, sulle pecurialità dell’industria italiana, nella quasi totalità fatta ormai di aziende di medie e piccole dimensioni le quali impediscono di acquisire all’interno gran parte delle nuove competenze richieste, obbligandole ad affidarsi a figure esterne. Da qui il fenomeno abnorme di professionisti esterni, spesso mal pagati e vessati, perché non organizzati in ordini professionali riconosciuti, dallo Stato. Nemmeno una parola sui processi di progressiva assimilazione delle competenze professionali in programmi modulari propedeutici ad un ulteriore processo di dequalificazione e precarizzazione del personale richiesto. Anche su questo i margini di azione sarebbero ancora ampi per compensare il calo di livello di specializzazione richiesti con un allargamento della qualificazione riguardante la conoscenza più ampia possibile di cicli operativi. Anche questa una ricerca e un impegno tanto in voga in quegli anni, grazie all’impegno politico e sindacale di tecnici e professionisti, ma caduta pressoché in disuso ai giorni nostri sino a confondere i concetti stessi di specializzazione e qualificazione, invertendone addirittura l’importanza.

Non è un caso che la relazione, non ostante le intenzioni dichiarate, finisce regolarmente per soffermarsi sugli episodi di precarietà, come quelli dei call center, importanti per la loro diffusione ed estensione, ma marginali rispetto a quello che sta accadendo nei gangli vitali dell’industria e dei servizi.

Con questi limiti la classe dirigente sindacale non ha alcuna possibilità di inserirsi validamente in un progetto di rinascita nazionale, condannando ampi strati popolari alla marginalità politica, sociale ed economica.

Lo stesso muro che legittimamente cerca di erigere contro la diffusione di regimi assistenziali slegati dalla condizione lavorativa, siano essi il reddito di cittadinanza o le pensioni sempre più sganciate dai versamenti contributivi o quant’altro, grazie a queste mancanze rischia di sgretolarsi di fronte agli attacchi concentrici e all’attrattiva facile e temporanea offerte da partiti movimentisti come il M5S, da gran commis dello stato, come Tito Boeri e dalle rozze politiche aziendali di gestione del personale.

Di converso la maggiore preoccupazione sembra concentrarsi su una reciproca legittimazione delle parti sociali, quindi in primo luogo con la Confindustria, tesa alla mera sopravvivenza conservativa e autoreferenziale.

Cosa sia attualmente la Confindustria, già dal passato poco glorioso, meriterebbe un capitolo a parte. Pare evidente la sua intenzione di perseguire una politica di adeguamento alle possibilità di sfruttare gli interstizi di mercati determinati da altri. Per ambire a qualcosa di più e di più dinamico occorrerebbe una classe dirigente e un ceto politico di ben altre ambizioni e capacità. La storia dell’IRI, dell’Olivetti, della Montedison sono lì a dimostrare il carattere prevalentemente retrivo e conservatore di questa organizzazione.

 

La ricerca della protezione: appunti sul 4 marzo, di Alessandro Visalli

La ricerca della protezione: appunti sul 4 marzo.

Si può partire da molte cose per spiegare la fragorosa slavina di domenica che ha travolto tutta la sinistra italiana: in primis la sua magna parte era da molto tempo più liberale che socialista, e parteggiava abbastanza chiaramente per la metà tranquilla e garantita della società; la piccola quota di LeU, fattasi ancora minore, è risultata essere in tutte le sue componenti troppo indecisa e in alcune anche compromessa con la formazione di provenienza per essere credibile per l’altra metà del cielo; del resto anche la piccolissima, ai conti ancora più del previsto, PaP si è rivelata troppo confusa e sotto troppi profili inadeguata per rappresentarla, ed anche questa alla fine ha finito per guardare solo il proprio ombelico. In tutto non è arrivata al 25% degli elettori, cioè a poco più del 15% degli elettori.

Uscendo da questa spiegazione politicista si può anche partire da guardare al nesso tra movimenti sociali e culture politiche; cioè tra quello scivolamento verso il basso almeno del 20% che non si percepisce più classe media (per cui oggi possono sentirsi tranquilli solo il 40% ca, e invece si sentono deboli almeno il 50% della popolazione). Dunque dalla molla che nel silenzio si stava caricando, come dice Bagnasco, e che alla fine è scattata.

Come sta avvenendo in tutto l’occidente, anche in Italia continua insomma quella che Spannaus ha chiamato la rivolta degli elettori. Dal 2016 abbiamo avuto prima la brexit, poi l’elezione di Trump, quindi il preavviso non ascoltato delle elezioni italiane del 2013 e dell’esplosione del M5S, un evento che nel 2014 in “trovare la forma” mi sembrava indicare, ‘come in uno specchio’ il sorgere di un nuovo assetto, un nuovo equilibrio che sorgeva da qualche parte ed iniziava ad aggregarsi. Poi abbiamo avuto il referendum italiano che ha spezzato la traiettoria di Renzi; le elezioni francesi nelle quali la Le Pen è stata fermata (ma solo al ballottaggio), ma al contempo è emersa una sinistra nuovamente attenta alle ragioni del socialismo in Mélenchon (come in Inghilterra in Corbyn e in USA in Sanders), separandosi chiaramente da un centro liberale ricostituito in Macron; persino quelle tedesche, in cui le formazioni centrali sistemiche sono ulteriormente arretrate.

Siamo quindi da qualche anno su quello che si potrebbe chiamare “un crinale”, la pallina sta andando una volta di qua ed una volta di là.

 
Elezioni 4 marzo: rapporto tra reddito pro capite e consenso al M5S

Commentando questi eventi Carlo Formenti parla dell’esplosione della rabbia delle ‘periferie’, cioè di classi subordinate schiacciate dal riassetto sistemico in corso e incazzate in particolare con la sinistra, “che le ha consegnate alla repressione del capitale globale preoccupandosi solo di difendere i diritti civili di minoranze colte e benestanti”. Le sinistre di tradizione socialista sono, insomma, diventate esclusivamente liberali e ormai difendono ostinatamente un insediamento sociale, erroneamente considerato maggioritario, riconducibile solo a classi medie ‘riflessive’, urbane, sempre più anziane. Ne è chiara immagine il multiculturalismo e la difesa della cosiddetta “società aperta” (e competitiva) ed anche il cosmopolitismo di marca borghese spacciato per internazionalismo. Del resto anche le sinistre più o meno ‘radicali’, come LeU e soprattutto PaP scontano un complessivo e radicale disorientamento strategico; l’incapacità di individuare gli snodi essenziali della situazione e di impostare un discorso politicamente e socialmente coerente. In queste condizioni il 15% del corpo elettorale è una dimensione più che appropriata (ma può ancora scendere).

Lo sfondo è chiaro: la fase di rilancio dell’accumulazione, attraverso la finanziarizzazione, l’interconnessione e l’aumento della dipendenza, e l’estensione del dinamismo che si è avuta nel trentennio dal 1980 al 2010 si è risolta in un 66% degli italiani che (indagine Demos, 2016) reputa “inutile fare progetti per il futuro”. La scheletrica ed irresponsabile antropologia del pensiero liberista non ha capito che l’incertezza ed il rischio non sono pungoli che rendono più attivo e produttivo l’uomo; se superano una certa soglia si sopportabilità, al contrario, lo spengono. Un “futuro incerto e carico di rischi”, come quello percepito incombente e minaccioso da due nostri compatrioti su tre, induce infatti quello che Mullainthan e Safir, in un bel libro del 2013 “Scarcity”, chiamano “effetto tunnel”. La scarsità percepita “cattura la mente”, inducendola a concentrarsi solo sull’assoluto presente. Ma non si tratta di ottimizzazione, come presume tanta letteratura scritta nel chiuso dei propri dipartimenti da ricchi professori: è al contrario una “inibizione”. Gli psicologi chiamano con questa parola (per questo tra virgolette) quella capacità della mente di eliminare le possibilità alternative, rendendole invisibili. In altre parole, concentrarsi su una cosa urgente e vitale (come affrontare un predatore, o pagare la prossima bolletta della luce) “ci rende meno capaci di pensare ad altre cose che contano”; è quella che si chiama “inibizione dell’obiettivo”. Tutti i fini e le considerazioni che sarebbero altrimenti importanti (migliorare la propria competenza con un corso professionale, fare quell’investimento che pure indurrebbe grandi risparmi, curare le relazioni sociali per aumentare le proprie opportunità, …) scompaiono dalla nostra stessa vista. Mentre nei paper dei vari Lucas o quelli di Prescott, si immagina che il consumatore definisca sempre ‘aspettative razionali’ sul futuro, calcolando tutte le implicazioni di ogni politica e anticipandole nella sua azione, la maggioranza di essi è invece concentrata sul “tunnel”. La mente non è, cioè, occupata a fare complessi calcoli costi-benefici ma dalle scadenze.

È questo che alla fine impedisce qualunque progettualità, inclusa la ribellione, che spinge a vivere in un eterno attimo presente, carico di angoscia e risentimento inespresso.

Ma improvvisamente il 4 marzo, in fondo inaspettatamente, questo fondo magmatico si è espresso. L’umore nero del paese profondo, quello che la sinistra neppure riesce ad immaginare e per il quale non ha proprio le parole (risolvendosi a reiterare stanchi cliché come ‘razzismo’, ‘populismo’, ‘nazionalismo’, anche ‘fascismo’) si è improvvisamente addensato come una sorta di nuovo popolo che si separa nel paese, mettendo a punto un linguaggio, dei blocchi emotivi, nei bar, nelle strade, nei negozi, negli uffici, nelle piazze. Un ‘popolo’ che si è identificato nei ‘non’, nelle differenze dal potere, dalla politica, dalla finanza, dalla grande impresa, dalla globalizzazione, dalla tecnologia industriale, dalle <caste>, dal denaro. Anche dai meridionali, dagli immigrati, dagli altri ed estranei,

Chiaramente questa “cultura” appare agli occhi ed alle orecchie di quelli che una volta sarebbero stati chiamati <gli integrati>, cioè dei colti e formati, dei tranquilli, di chi non cambia spesso lavoro, di chi ha l’orizzonte sereno di un percorso tracciato, o delle risorse per farsi il futuro che si vuole, strana ed un poco aliena. Appare sconnessa, contraddittoria, mal costruita, oscura e per certi versi temibile; sembra pericolosa.

Questa reazione, di cui tutte le sinistre sono espressione (anche quelle ‘radicali’) non capisce nulla e non si vede che in questo c’è del nuovo. Rischia, più o meno tutta insieme, di fare la fine di De Maistre con la Rivoluzione Francese, cioè slittamento per slittamento, di trovarsi alla corte di Alessandro di Russia.

Questa reazione al plebeismo di questa ‘rivolta’ (che non è ancora una ‘rivoluzione’, di qualunque segno, e forse mai lo sarà), per ora identificabile come un ‘momento Polanyi’ con singolari e rischiose analogie con gli anni trenta (quando intellettuali allora di sinistra, come Sombart, indicarono la svolta), porta in altre parole molti a cercare di arroccarsi entro il sistema sfidato. La scelta di LeU, di utilizzare i profili istituzionali dei Presidenti di Camera e Senato e di enfatizzare in ogni occasione la propria ‘responsabilità’ suona infatti a molte orecchie come chiara scelta del campo. Un campo affollato e in via di restringimento, nel quale non c’è spazio e nel quale il 3% raggiunto appare già come un risultato notevole.

Ma anche PaP, che ha inteso restarvi fuori, rigetta il plebeismo. Invece di fare tesoro della ‘tecnica della spugna’ del M5S, della capacità di addensare i sentimenti, le parole, le pulsioni e di solidificare i vapori diffusi, ha ripetuto i suoi slogan identitari. Peraltro divergenti in modo radicale gli uni dagli altri, a causa di un rassemblement costruito necessariamente troppo in fretta e senza un vero centro.

Del resto se anche fosse vero, ma credo che questo sia parte del problema, che come scrive il mio amico Riccardo Achilli “ogni crisi e ogni fase di transizione generano, nel nostro popolo, sottoprodotti di scarto, come il giustizialismo, il plebeismo, il qualunquismo, l’avventurismo, l’anarco-individualismo”, bisogna comunque chiedersi in modo più attento perché tutto questo si è risolto nel 55% dei consensi alle forze antisistema rappresentate da M5S (32%), Lega di Salvini (17%) e la più tradizionale Fratelli d’Italia (4,5%), il primo, terzo e quinto partito, mentre le forze responsabili che hanno guidato la seconda repubblica sono scese al 40%, con il PD (18%) e Forza Italia (14%), insieme all’appendice, e considerata tale, di LeU (3%).

Ci sono naturalmente molte, diverse, spiegazioni, ma torniamo agli “snodi della situazione”; in sostanza mi pare di poter dire che la sinistra liberale (tra cui va annoverata anche LeU, che ne è solo la propaggine più radical) fatica a confrontarsi con le conseguenze de:

  • la nuova ‘piattaforma tecnologica del capitalismo’ e con le sue conseguenze sul mondo del lavoro e la distribuzione,
  • l’accelerazione dei processi di disarticolazione che ne sono parte e dei fenomeni di mobilità, con le loro radicali e crescenti conseguenze (qui viene rigettato, in nome di un cosmopolitismo verniciato di internazionalismo il tema dirimente dell’immigrazione, su cui abbiamo di recente letto Sahra Wagenknecht),
  • l’Europa nel contesto del processo di ricomposizione egemonica in corso (che avevamo chiamato “la grande partita”),
  • lo smottamento della base sociale della democrazia e l’attacco al suo ‘carisma’.

Certo chiunque fatica a confrontarsi davvero con queste forze. Tanto più quanto cerca di leggerle con gli occhiali costruiti per altre ‘piattaforme tecnologiche’ (quella fordista in primis, ma anche quella post-fordista che si sta radicalizzando andando oltre se stessa e revocando via via anche i compromessi che la costituivano, come la flessibilità in cambio del lavoro), per società ancora solide che si stanno rivelando stremate e per un progetto internazionale che presumeva un’omogeneità politica e culturale prospettica che si allontana verso modelli multipolari di difficile interpretazione. Lo smottamento della base sociale della democrazia è solo il necessario suggello a questa molteplice frana.

Dunque il 4 marzo è venuta giù la slavina che seguiva al disgelo lento di forze accumulate nel lungo tempo degli ultimi trenta anni.

Il sud Italia si è unito, come mai si era visto in precedenza, garantendo maggioranze che si possono definire ‘bulgare’ al M5S, che in alcuni territori ha superato il 60% dei consensi. Il nord Italia ha visto l’affermazione impetuosa della Lega, che è cresciuta di oltre quattro volte, portandosi ad un’incollatura dal secondo partito, in caduta libera.

Quelle espresse dal M5S al sud e dalla Lega al nord sono, a tutta evidenza, due diverse forme di politica ‘maggioritaria’ (secondo la definizione che ne dà un manifesto della politica elitaria e tecnocratica come “Lo Stato regolatore” di Majone) e di ricerca di protezione, armate l’una contro l’altra.

Il miracolo del 4 marzo è cioè figlio dell’improvviso manifestarsi, ad un livello qualitativamente superiore, di quella che Laclau chiamerebbe due diverse “faglie di antagonismo”, entrambe originate dalla sofferenza e dalla paura che la metà inferiore della piramide sociale vive. Quindi da due diverse domande di protezione. Sinteticamente dalla protezione dal mercato, da una parte, e dallo Stato tassatore (eventualmente anche europeo), dall’altra.

Il lavoro che il M5S, da una parte, e Salvini dall’altra (gli indiscutibili vincitori), hanno fatto è per entrambi di identificare, in qualche modo nominare, un obiettivo centrale per orientare le energie disattivate dalla crisi. Questo ha consentito a molti di trovare la ragione per oltrepassare l’inibizione che la pressione insopportabile dell’incertezza e della scarsità porta con sé nell’identificazione chiara di un colpevole. Si tratta di un’operazione, non ha molta importanza qui se cosciente o ‘trovata’ solidificando vapori diffusi, propriamente politica (che anzi ne è il proprio) di costruzione di egemonia. La creazione di un profilo individuale nella rappresentazione politica.

La sfida che questo ‘doppio popolo’, manifestatosi nelle urne, pone in primo luogo nella modalità della sua costruzione, alla logica razionale del discorso liberale corrente è tutto in questo ‘eccesso’. Majone ci insegna che la politica ‘madisoniana’ (per la cui radice storica rimando a questo testo di Alan Taylor) nella quale abbiamo vissuto in particolare gli ultimi trenta anni è necessariamente parsimoniosa nella ricerca del consenso, anzi in sostanza ne fa a meno. Cerca di legittimarsi da un’altra fonte (ed infatti proliferano i meccanismi per ottenere la licenza d’uso a buon prezzo, con meno voti possibili, con i più diversi trucchi ‘maggioritari’), come dice il politologo italoamericano nella credibilità dei risultati anziché nella delega della maggioranza. La fonte della legittimità, per la generazione di politici cresciuta negli ultimi decenni, non è davvero il consenso degli elettori, e la responsabilità verso i Parlamenti, ma la verità della tecnica ed i risultati, in ultima analisi il successo. Non è affatto un caso che l’Unione Europea sia quello che è: di questa logica è il distillato più puro al mondo. In essa si ha un netto e pulito rovesciamento, perché a ben vedere sono i governi che controllano i Parlamenti attraverso gli schermati organismi europei (come gli Eurogruppi o il Consiglio Europeo), cfr. Majone, cit. p.168. E per farlo ricorrono anche a ‘fiduciari’ (dei mercati-sovrani, non certo dei cittadini) che non sono legati da vincoli di mandato ma sono “indipendenti”, il migliore esempio è la BCE (di cui presto avremo notizie). La mossa vincente è disperdere il potere fra istituzioni differenti (una mossa antica ed in effetti fondativa dell’assetto politico moderno, come si vede dal libro di Taylor sulla democrazia americana delle origini) il più possibile al sicuro dall’opinione dei cittadini.

La questione non è astratta, perché c’è un nesso forte e sistematico tra la possibilità di politiche redistributive (che necessitano di uno Stato forte, ‘gestore’ come dice, e di politiche attive ed energiche) e la loro legittimazione, che deve necessariamente passare per maggioranze politiche altrettanto attive ed energiche. Indebolirle, frammentando il potere e portandolo oltre le braccia degli elettori (cioè passare allo “Stato [solo] regolatore”) implica una diversa fonte di legittimità, ancorata non al voto della maggioranza ma all’efficacia credibilmente rivendicata, cioè al sapere tecnico. Questi organismi sono quindi in effetti “creati deliberatamente in modo da non renderli direttamente responsabili verso l’elettorato o i rappresentanti elettivi” (Majone, cit. p.169).

Allora quel che anche la liberale LeU non ha capito davvero è che la questione del populismo democratico non è aggirabile, in particolare se si vuole pensare a politiche redistributive e di protezione. Nella logica corrente queste non sono possibili, e per ragioni sistematiche che vanno anche oltre il mero economico.

Quando si conferma l’abbandono delle politiche ‘populiste’ (o ‘maggioritarie’, ovvero volte a ricercare il consenso delle maggioranze, della plebe) è necessario restringere la politica in favore di un potere amministrativo che trae altrove la sua legittimità (in una idea di “ragione” posta prima del discorso stesso, in qualche modo nelle cose e nei saperi tecnici che le rappresentano).

Se, invece, si corre il rischio dell’eccesso si può ricostruire un politico. È quello che hanno fatto davanti ai nostri occhi stupefatti sia il M5S sia Salvini.

Non c’è alcuna speranza per la sinistra se non supera se stessa e impara.

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