NATURA MORTA 3a parte, di Giuseppe Germinario

qui la 1a e 2a parte

NATURA MORTA (1a parte), di Giuseppe Germinario

NATURA MORTA 2a parte, di Giuseppe Germinario

 

“Vogliamo essere da stimolo affinché il Partito democratico riprenda questo cammino arrestando la sua deriva neocentrista”, così recita la parte finale del documento fondativo del Movimento dei Democratici Progressisti (http://www.huffingtonpost.it/2017/02/25/movimento-democratico-pro_n_15005420.html ). Una intenzione che rivela lo spirito gregario di una iniziativa lanciata evidentemente di mala voglia, dallo scarso respiro strategico, la cui inerzia connoterà inesorabilmente la precisa funzione del neonato soggetto politico, così come degli altri in via di formazione nella stessa area: quella di mosca cocchiera.

Ogni movimento degno di questo nome per altro indirizza la propria azione costruendosi il proprio Pantheon di numi ispiratori. Massimo d’Alema, l’incubatore del MDP (articolo I Movimento Democratico e Progressista), ancora una volta ci ha illuminati e sorpresi per il suo spirito di accoglienza, già rivelatosi per nulla schizzinoso, sin troppo generoso ed aperto alle novità di fine secolo; nel suo Olimpo in terra, nel tempio degli “illuminati” è riuscito ad assegnare un posto di prestigio niente meno che al Senatore John Mccain, il a suo dire “conservatore illuminato”, acerrimo nemico dell’apprendista stregone neopresidente Donald Trump. La ragione della inopinata ascesa al tempio sono le sue dichiarazioni sulla natura guerrafondaia delle politiche di “the Donald”. Il pulpito dal quale provengono le filippiche non potrebbe essere di certo più credibile. Si tratta proprio di quel McCain immortalato ultimamente, tra le sue innumerevoli peregrinazioni nei vari focolai di guerra nel mondo, in amabile compagnia dei più sanguinari e settari esponenti qaedisti in servizio attivo in Siria ed Iraq, nonché dei più convinti e truculenti esponenti neonazisti impegnati ad alimentare la guerra civile in Ucraina.

Verrebbe da chiedersi il motivo di cotanto spirito d’accoglienza.

Certamente al nostro Leader Maximo non difetta il realismo politico; ne consegue l’accettazione tra le proprie fila dei nemici, secondo il noto principio di Clausewitz, del suo nemico Trump, il capostipite dei populisti e dei reazionari dell’universo-mondo. Si comprende anche, dopo oltre venti anni di imbarazzi e di contorsioni sempre più inverosimili, il sollievo determinato da una situazione che consente di riproporre finalmente il vecchio schema di una sinistra democratica mondiale fautrice di diritti e di pace contrapposta ad una nuova destra razzista, divisiva e militarista. Un buon viatico per garantirsi la sopravvivenza politica ancora per qualche tempo al prezzo però della disinvolta rimozione dei misfatti bellicisti democratico-progressisti degli ultimi trenta anni. Una rimozione certamente resa più disinvolta dall’attitudine e dallo spessore della scorza acquisita nella prima mutazione del nostro dal passato originario nel Partito Comunista. A queste qualità proattive, “diciamo”, fa probabilmente però da retroterra motivazionale alle scelte politiche, una certa inguaribile provinciale sudditanza psicologica di chi ha costruito la propria ascesa politica sulla partecipazione ad una sola guerra, quella contro la Federazione Jugoslava, condotta per di più dall’alto, costruita anch’essa sulla menzogna, tanto propedeutica alla costruzione del sodalizio tedesco-americano quanto nefasta per la federazione jugoslava e deleteria per gli italici interessi; sudditanza psicologica, quella di d’Alema, al cospetto di un personaggio come McCain, al quale deve essere sfuggito persino il novero dei focolai di guerra sino ad ora fomentati. Più prosaicamente deve spingerlo all’azione politica contingente anche il rischio di rottura dello stretto sodalizio con i democratici di Clinton che tanto ha contribuito, assieme ai benefici politici legati alle privatizzazioni degli anni ’90, al successo della sua fondazione;  una incognita determinata dall’esito delle elezioni presidenziali americane e dal possibile conseguente declino della famiglia sconfitta.

Basterebbe questa sintetica rappresentazione a qualificare un movimento politico destinato a raccogliere ormai consensi residuali nel paese.

Il problema è che questa residualità potrà consentire a queste formazioni comunque di ritagliarsi un proprio peso nel processo di frammentazione politica in atto e ritardare se non pregiudicare definitivamente un qualche sviluppo di positiva maturazione politica di una parte sia pure ridotta dei suoi quadri dirigenziali e della gran parte dei militanti di questa area in via di formazione.

Da qui la necessità di sviluppare una critica più puntuale delle tesi adottate non solo dal MDP (Articolo 1 MDP), ma anche dalla costellazione di formazioni interne al PD (mozione Orlando e marginalmente mozione Emiliano), esterne ad esso ma propedeutiche alla ricostituzione del centro-sinistra (MDP di D’Alema, Bersani e Speranza; Campo Progressista di Pisapia); esterne ma intenzionalmente alternative al PD (SI- Sinistra Italiana di Fratoianni e Fassina).

Ad eccezione della mozione Emiliano, conglomerato più che altro destinato ad alimentare formazioni politiche su base civica e territoriale in particolare del Centro-Sud, il resto delle formazioni politiche citate poggia, come si vedrà dai documenti e dagli interventi prodotti, su fondamenti ed analisi politiche comuni, ma su posizionamenti politici diversi frutto di contingente opportunismo.

Ad offrire gli spunti di discussione è sempre d’Alema.

Le sue linee portanti sono le seguenti:

  • Il processo di globalizzazione non ha portato ad una spontanea condizione di pace e di sviluppo omogeneo e ad una estinzione del ruolo degli stati. Le erronee aspettative alimentate in tal senso hanno penalizzato soprattutto le sinistre
  • La globalizzazione ha accentuato le disuguaglianze e favorito quindi l’emergere del potere finanziario, l’emarginazione o la sottomissione della funzione politica a questo potere e una reazione di difesa dei ceti emarginati strumentalizzate da forze antiestablishment (antisistema) piuttosto che populiste
  • Il recupero delle prerogative degli stati nazionali e la riproposizione del nazionalismo sono un lusso consentito alle formazioni e ai paesi più grandi. In quelli medi e piccoli, come quelli europei, si risolvono in una caricatura velleitaria ed impotente
  • Il processo di globalizzazione va quindi governato; per i paesi europei rimane fondamentale ed imprescindibile costruire entità sovranazionali per assumere un ruolo politico significativo
  • La sinistra democratica e progressista deve recuperare una certa radicalità e la capacità di difesa degli interessi dei soggetti deboli assumendo come parola d’ordine il principio di uguaglianza

Inutile ricercare nei suoi interventi una qualche autocritica coerente di posizioni sostenute da lui stesso sino a pochi mesi fa.

Rimane, tra le righe, un approccio che impedisce di valutare adeguatamente la permanenza del ruolo degli stati nazionali, la composizione dei centri strategici che determinano le strategie politiche nei vari ambiti, compreso quello economico e finanziario; che nella permanenza dell’equivoco del predominio delle forze economiche consente di riproporre la solita logica di divisione tra destra e sinistra, soprattutto tra democrazia e dittatura, funzionale al mantenimento degli attuali legami di subordinazione politica nell’agone internazionale; che nella proclamata pretesa di difesa a se stante dei ceti deboli non si fa che riproporre una divisione tra destra e sinistra che assegna a quest’ultima al meglio un ruolo subordinato di redistribuzione di risorse e alla prima la funzione determinante delle scelte produttive e di organizzazione economica funzionali alle strategie geopolitiche e di controllo delle formazioni sociali. Al peggio rimane il ruolo assunto nel determinare l’attuale condizione del nostro paese.

L’analisi dei documenti congressuali consentirà un maggior approfondimento di questi spunti.

Quelle espresse da d’Alema non sono solo debolezze e carenze di analisi, delle semplici incongruenze. Sono anche l’espressione consapevole di una strategia politica da sconfiggere senza remore, oggetto di una battaglia politica. La seguente intervista lascia intravedere di cosa si tratta e di come il personaggio sia parte del meccanismo ( http://www.huffingtonpost.it/2017/04/24/massimo-dalema-spiega-ad-huffpost-la-lezione-francese-una-sin_a_22053364/  )

LE RIPERCUSSIONI GEOPOLITICHE DEL BREXIT NEL MEDITERRANEO di Antonio de Martini

LE RIPERCUSSIONI GEOPOLITICHE DEL BREXIT NEL MEDITERRANEO di Antonio de Martini

tratto da https://corrieredellacollera.com/2017/03/30/le-ripercussioni-geopolitiche-del-brexit-nel-mediterraneo-di-antonio-de-martini/#more-33036

Seguendo la logica miserabile che ha contraddistinto questo scorcio di secolo, la maggior parte degli analisti europei si è concentrata sugli aspetti mercantili del divorzio tra Gran Bretagna e l’Europa Continentale e nessuno ha affrontato i nodi geopolitici, specie mediterranei.

Non è la prima volta che l’Inghilterra sceglie la sua strada in contrapposizione al resto dell’Europa. Lo fece al tempo del Magnifico isolamento, Lo ha ripetuto al tempo di Napoleone e di Hitler.

Poiché non siamo in guerra, l’esempio più calzante da esaminare sarebbe quello del Magnifico isolamento,( non a caso i loro giornali titolano “Magnificent moment”) ma senza trascurare il vezzo tutto inglese di fomentare movimenti di secessione e guerriglia o della incentivazione della pirateria, anche con titoli nobiliari che ne hanno sempre caratterizzato le azioni di ampio respiro.

Il Carlyle scrive nel suo “Past and Present” che ” tra tutti i popoli del mondo, presentemente, gli inglesi sono i più sciocchi per la parola e i più saggi per l’azione”.

Cito autori inglesi perché essere tacciati di anglofobia oggi  è come essere accusati di antisemitismo.

In effetti, la Geopolitica inglese ha sempre lavorato sul lungo periodo e utilizzando come agenti principali geografi e antropologi.

Ian Fleming e le bravate di James Bond non hanno mai saputo farle, mentre il fratello di Ian Fleming, Victor, antropologo di valore ha sempre lavorato per l’MI6 in America Latina. Serviva ” uno di famiglia” per rincominciare a rinverdire il blasone, fin dagli anni sessanta.

Le Brigate rosse attinsero a arsenali ex inglesi, non americani. Lo scandalo P2 travolse la massoneria filo americana, ma non sfiorò nemmeno quella di obbedienza inglese.

A via Caetani, il cadavere di Moro fu ritrovato di fronte al numero civico che ospitava   una sede dell’Intelligence Service (la moglie era inglese, di questo parla il senatore Pellegrino nel suo libro su Moro, ma non lo ha detto nessuno.                                                                                                                    Hanno dirottato l’attenzione su Henry Kissinger, ma l’umiliazione di essere battuta al vertice UE di Venezia sul delicato tema palestinese la subì Margaret Tatcher, non l’americano.

Questo, per dire che quel che sto per proporre di analizzare, viene da lontano.

UN PO DI STORIA: STOCCOLMA CONTRO ROMA

Quando, nel 1956, i sei paesi europei continentali decisero di creare la Comunità Economica Europea ( CEE), l’Inghilterra non si limitò a non aderire, ma poco dopo diede vita nel 1960 a una comunità economica concorrente ( EFTA) cui aderirono originariamente Austria, Danimarca, Norvegia,Portogallo, Svezia, Svizzera e, naturalmente il Regno Unito.Furono seguiti, nel 1986, da Islanda e Finlandia. L’atto fu firmato a Stoccolma.

Nel 1961, La G.B. chiese per la prima volta di entrare nel Mercato comune assieme a Irlanda e Danimarca. Dopo un paio di anni di negoziato, nel 1963, De Gaulle espresse i suoi dubbi circa l’effettiva volontà di adesione inglese e i negoziati naufragarono.

La seconda richiesta inglese data dal 1967, anno in cui la Francia negò il suo consenso e i negoziati fallirono. ATTENZIONE: l’anno successivo si verificarono i moti del ’68 miranti a far cadere De Gaulle.

Nel 1969, L’Inghilterra reiterò la richiesta per la terza volta e, Pompidou, succeduto a De Gaulle, accettò, i negoziati durarono tre anni. Il 1 gennaio 1973 l’Inghilterra entra nel MEC e la scelta è confermata nel 1975 da un referendum.

Dopo l’adesione della Gran Bretagna alla Unione Europea, l’EFTA non si sciolse, ma alcuni paesi aderirono e altri mantennero in vita l’organizzazione che ha vivacchiato con sede in Svizzera, accettando l’adesione del granducato del Liechtenstein.

Come paventato da De Gaulle, l’Inghilterra divenne il cavallo di Troia degli USA in Europa( in questo sta la lamentela di perdita di sovranità).                 Poi, preceduta dal “Guardian” che aprì la sua redazione americana ben più grande della casa madre, l’UK iniziò a guardare sempre più agli USA.

Nei tre anni che hanno preceduto il referendum sul Brexit, è scattata l’offensiva del sorriso inglese verso il Mediterraneo  a base di film sulla famiglia reale, la guerra coi turchi ( in cui i turchi fanno sempre bella figura), la regina ormai veneranda che viene a visitare il suo vecchio amico Napolitano snobbando il Papa dove registra un inedito ritardo di mezz’ora; l’ambasciata inglese ospita in contemporanea Grillo e Renzi ecc. Insomma si pone al centro della scena.

Nel 2001 partecipa all’invasione Afgana.

Nel 2003 è lo ” sparring partner” degli USA nell’attacco all’Irak e condivide il bottino.

Nel 2011 partecipa alla campagna libica ” soffiandoci” le risorse petrolifere e ottenendo dal governo fantoccio la prospezione del mar di Cirenaica; Fa nascere il caso Regeni per impedire rapporti conclusivi tra Italia e Egitto, fino a che l’ENI non accetta di spartire la concessione che ha trovato  nelle acque profonde di fronte al delta del Nilo; assume una posizione defilata nella crisi Greca e rinnova le basi di Cipro ( una aerea e di intercettazioni, l’altra navale).

ADESSO CON LA BREXIT L’INGHILTERRA RITORNA NEL MEDITERRANEO

  1. il primo problema a porsi sarà Gibilterra: quale sarà la posizione della Unione Europea verso questo contenzioso? Si schiererà con il partner spagnolo o sosterrà Albione?
  2. La “Secessione Catalana”: sarà certamente una carta in mano agli inglesi che hanno creato e finanziato questa iniziativa condotta da gentucola, ma che rappresenta una poderosa arma di ricatto anche a fronte della possibilità che lo Spagnolo – parlato nel mondo da 440 milioni di persone- possa scalzare l’inglese, parlato da 445.                     Nel settembre 2017 la regione catalana vorrebbe fare un referendum…
  3. Il terrorismo Il TIMES di oggi ha reso chiaramente il pensiero della signora May che ha condizionato la lotta al terrorismo alla stipula di un accordo commerciale preferenziale.
  4. Israele: A Ginevra è di ieri un distinguo dell’ambasciatore inglese contro l’ONU con la dichiarazione che ” le nazioni Unite hanno un partito preso abituale ” sulla questione palestinese.
  5. Egitto e Turchia: L’Inghilterra ha accuratamente evitato di partecipare a tutte le azioni che avrebbero potuto irritare Erdogan e si sta attivando per proteggere  i suoi tradizionali alleati i ” fratelli Mussulmani”anche in Egitto, dove è di fatto alleata con Sissi e coi suoi nemici: A Sissi mostra l’esca della Cirenaica dove l’uomo forte è il suo candidato Haftar e ai fratelli mussulmani offre la mediazione col regime.                                         Ai turchi lo specchietto delle allodole è Cipro e/o le sue risorse promesse a troppi. Come al solito.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        LA PROSSIMA CRISI MEDITERRANEA SARA’ L’ALGERIA                                                                                                                                                              Gli americani non hanno dimenticato che per tutti gli anni settanta l’Algeria ha dato rifugio a Timothy Leary il professore universitario scopritore dell’LSD che sottrasse al monopolio CIA e alle Pantere Nere ( Eldridge Cleaver, Roger Holder, Melvin MCNair, tra gli altri) ricercate negli Stati Uniti  e che costituirono un serio pericolo per il governo americano.  Lo scorso anno la Russia ha minacciato di rendere pan per focaccia agli USA e sono risorte le ” Nuove Pantere Nere ” a seguito delle numerose uccisioni di gente di colore da parte delle forze dell’ordine.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              L’Algeria è il nostro ultimo rifugio di rifornimento indipendente di GAS ed è in costruzione un gasodotto bis che passi per la Sardegna e rifornisca l’Europa.  Poi saremo completamente sottomessi.                                                                                                                                                           La Francia non può partecipare all’attacco per parcellizzare l’Algeria, che è il paese più grande dell’Africa dopo che il Sudan è stato dimezzato,   a causa del gran numero si algerini sul suo territorio. Gli inglesi, si.          Un altro passo avanti nella marcia di integrazione con gli USA dove ormai regnano numerosi borsisti della fondazione Rodhes sostenitore della superiorità della razza anglosassone e del suo predominio nel mondo. Altro che quei microbi di Soros e Gates.

NATURA MORTA 2a parte, di Giuseppe Germinario

link della 1a parte http://italiaeilmondo.com/2017/02/26/natura-morta-di-giuseppe-germinario/

documento congressuale citato: http://www.partitodemocratico.it/congresso-2017/avanti-insiememozione-congressuale-matteo-renzi/

Ci siamo lasciati un mese fa nel bel mezzo del viaggio di riflessione di Renzi negli States con una sospensione di giudizio circa le sue frequentazioni. Si può confermare con ragionevole sicumera che la spregiudicatezza esibita sinora dal personaggio abbia superato da tempo ormai il suo acme; tutto si è risolto e racchiuso nella ristretta cerchia di consiglieri, sostenitori e mentori che ha facilitato la sua sfolgorante ascesa, incapace però di indirizzare proficuamente con sapienza la sua energia prorompente.

Da qui una prima considerazione. Non è sufficiente la lucidità e la chiarezza di obbiettivi individuati da uno staff destinato necessariamente a rimanere nell’ombra e avulso dal contesto politico del paese se non si dispone poi sul campo dell’indispensabile personale politico in grado di tessere appropriate relazioni, di muovere le necessarie energie, di tradurre in strategie e tattiche adeguate tese a scompaginare e ricomporre gli schieramenti e i gruppi di interesse in campo sino a ricostruire una formazione sociale sufficientemente solida, tanto più in un contesto di risorse e di margini economici decisamente ristretti.

Si ripropone in maniera sempre più acuta il problema delle modalità di formazione di una classe dirigente sempre più espressione dei poteri orizzontali dispersi nel paese e formatasi nelle varie realtà amministrative e gestionali locali piuttosto che alimentata da centri e da strutture verticali di potere sempre più logorate ed incapaci di elaborare strategie autonome; queste ultime sempre più mera espressione di indirizzi e strategie esterne al paese nel caso di centri di potere e gestionali, sempre meno in grado di elaborare indirizzi ed obbiettivi generali unificanti nel caso delle grandi associazioni nazionali.

È una delle tante conseguenze deleterie della campagna di smobilitazione della grande industria pubblica, della faciloneria con la quale si è consentita la cessione all’estero della quasi totalità della pur scarna grande industria privata e di buona parte della struttura finanziaria, della dissennatezza con la quale sono stati introdotti principi di federalismo grazie ai quali si è accentuata la disarticolazione dello Stato Centrale e l’infiltrazione delle strutture comunitarie nelle articolazioni periferiche senza la necessaria mediazione e l’indispensabile indirizzo dei centri nazionali.

Assieme al degrado del sistema universitario e all’indebolimento delle scuole nazionali di Pubblica Amministrazione e alla supina integrazione di buona parte delle strutture di comando specie militari, sono tutti fattori che contribuiscono al progressivo inaridimento del bacino da cui attingere personale in grado di elaborare ed operare secondo una visione politica generale con modalità adeguate.

Argomenti per altro già trattati in articoli di alcuni anni fa e che riproporrò su questo sito nel tempo.

A complicare ulteriormente la posizione del nostro è sopraggiunta la serie di indagini giudiziarie che sta intaccando la credibilità del cosiddetto “Giglio Magico”.

Non entrerò nel merito di come l’attuale ordinamento giudiziario, specie nei settori più permeabili della fase istruttoria, agisca pesantemente nel confronto politico, né mi soffermerò sull’evidente protagonismo di alcuni di essi, anche se in parte ridimensionati dalle recenti avocazioni. Preme sottolineare, piuttosto, come tali iniziative siano ormai un preciso segnale dell’indebolimento e del declino di un determinato gruppo dirigente e, soprattutto, evidenzino ancora di più la estrema fragilità degli attuali partiti. L’attuale sommatoria di nuclei dirigenti localistici in perenne competizione impedisce una netta separazione dell’azione politica dall’opera di reperimento e gestione più o meno trasparenti delle risorse, specie economiche. Una separazione che era particolarmente efficace ai tempi dei grandi partiti di massa della prima repubblica; una commistione ed una prossimità invece le quali rendono gli attuali gruppi dirigenti particolarmente esposti a ricatti e scorribande.

Paradossalmente il PD, proprio perché rimane l’unico partito strutturato in buona parte secondo criteri classici e con un radicamento nazionale, sembra ormai soffrire maggiormente di questi limiti, di questa permeabilità e di questa esposizione.

A mio avviso l’attuale dibattito interno, lo scontro politico in atto per la prossima rielezione del segretario vanno collocati in tale contesto.

L’esame delle tre mozioni congressuali interne al partito e dei documenti delle nuove formazioni in via di costituzione alla sua sinistra offrono alcuni spunti di riflessione al riguardo.

Inizio dalla mozione di sostegno a Renzi, a meno di qualche clamoroso incidente di percorso il predestinato alla vittoria nella battaglia politica, per lo meno quella interna al partito.

È l’unica mozione che ribadisce convintamente la necessità di una riorganizzazione istituzionale tesa a rideterminare una gerarchia funzionale delle competenze dello Stato; manca, nel contempo, altresì una qualsivoglia analisi delle ragioni del fallimento della riforma istituzionale legate anche alle contraddizioni intrinseche di quel progetto; un fallimento che rischia di rendere vacua la parziale riorganizzazione delle strutture amministrative comunque in corso. Una carenza di analisi quindi assolutamente non casuale, vista la particolare retorica che impregna l’intero documento.

Si parte dallo scontato atto di accusa rivolto ai “populisti”, entro i quali si accomunano indistintamente e opportunisticamente sovranisti, nazionalisti, razzisti, antiliberisti, comunitaristi e via dicendo, di costruire muri e di perseguire il modello della “chiusura”.

Un espediente retorico tanto semplicistico quanto ormai inefficace visto che non si riconosce attività umana, tanto più quella dell’agire politico, in grado di operare senza delimitazioni e “muri”. Più che dell’esistenza degli stessi, il dibattito risulterebbe meno pleonastico se si riuscisse a discutere concretamente del tipo di “porte” e del tipo di filtri da schierare agli ingressi e alle uscite. Un equivoco in cui l’estensore rischia di rimanere invischiato quando parla di contrapposizione tra limite ed integrazione; ma un limite appunto del quale l’estensore sembra intuire l’esistenza quando parla di “alleanza tra libertà e protezioni” e del “nuovo bisogno di sicurezza e di appartenenza” da soddisfare.

Si tenta quindi un recupero del riconoscimento dell’importanza del principio di identità nel garantire la coesione e la dinamicità di una comunità; un’azione congiunta di promozione dal basso, tesa alla valorizzazione delle comunità locali e dall’alto mirante alla costruzione di una identità europea. Cosa potrebbe essere l’identità europea se non il tentativo di costruzione di una nuova identità nazionale l’autore è lungi dal determinarlo; ciò che risalta alla fine, nella sua assenza, è l’elusione dell’esistenza delle identità e degli stati nazionali vigenti. Non più, quindi, il disconoscimento aperto così pervasivo nella retorica europeista più oltranzista, ma l’aggiramento del problema, tanto più paradossale in quanto dovrebbero essere gli stati nazionali stessi, stando alla nuova prassi instaurata obtorto collo da Renzi, a condurre il processo di proprio esautoramento. Un escamotage che inibirà ancora una volta il pieno utilizzo delle leve statali quantomeno per contrattare una condizione meno supina nell’ambito comunitario e per assumere almeno la consapevolezza del proprio stato di subordinazione; in realtà l’ennesima cortina fumogena che consentirà lo sviluppo del processo funzionalista di polarizzazione condotto attraverso i due livelli, regionale-locale ed eurocomunitario, già in atto da decenni.

L’EUROPA

Secondo il documento ad ogni buon conto si tratterebbe di recuperare, in polemica con i populisti appiattiti sulle pulsioni e con “la miopia di una classe dirigente succube del pensiero tecnocratico”, il valore della politica, la capacità quindi del politico-intellettuale di comprendere, non solo di analizzare freddamente, e di agire collettivamente sulla base di tale comprensione.

A dispetto degli inaspettati richiami gramsciani l’ennesimo disconoscimento della legittimità politica di due correnti di pensiero, populista e tecnocratico, impedisce un corretto confronto politico. Tende, in particolare, al netto delle inerzie proprie delle burocrazie, a sopravalutare l’autonomia politica di questi centri e a evitare il confronto diretto con i reali interlocutori che li indirizzano; attori assolutamente politici.

L’obbiettivo sarebbe la realizzazione di “una convergenza che faccia perno sulle tre più grandi democrazie dell’Eurozona, su un modello originale che concili integrazione e democrazia” adottando “un modello con due livelli di governo distinti, uno federale con un adeguato bilancio da gestire e regole comuni per dare una dimensione davvero europea ai nostri mercati, e uno rinviato alla responsabilità degli Stati, singoli o in forma associata nel Consiglio europeo”; “restituire quindi anima e respiro alle quattro libertà europee – la libera circolazione delle persone, dei prodotti, dei capitali e dei servizi – ritrovando in esse un orizzonte comune, di progresso e crescita”. Per concludere si deve realizzare “il principio di fondo della nostra visione; quello di un’Europa politica e democratica e anche di un’Europa sociale”.

Fine, quindi, della politica di austerità, investimenti in sicurezza, ricerca e cultura svincolati dai tetti di spesa, spesa fiscale comune attraverso una assicurazione europea contro la disoccupazione e per investimenti contro la povertà educativa. Torna in auge la funzione cruciale e prioritaria per la sinistra dell’investimento nel sociale, termine salvifico che giustifica la propria esistenza, ma che innalzata a funzione taumaturgica non fa che relegare ad una pura funzione redistributiva la sua azione politica; una funzione tutt’al più complementare incapace il più delle volte di determinare strategie in grado di preservare la forza e l’autonomia politica di un paese e lo sviluppo e la coesione sociale stessi nel lungo periodo.

Le ricadute nell’economicismo mi sembrano evidenti; lo spirito del documento equivale al tentativo di librarsi di un uccello troppo pesante per poter volare.

L’aspetto puramente politico, la sicurezza stessa dei confini vengono d’altronde giustapposti e ridotti al problema della gestione della immigrazione; a questa, ipocritamente, pare vincolata la proposta di difesa comune “partendo dal nucleo dei grandi paesi fondatori e individuando alcuni obiettivi concreti: rafforzare la collaborazione e la cooperazione; mettere in comune competenze e risorse, sulla base di un modello  condiviso e di un accordo costitutivo per stabilire finalità e modalità operative, al fine di realizzare una forza europea multinazionale, con funzioni e mandato stabiliti insieme, dotata di una struttura di comando e di meccanismi decisionali ed economici comuni; investire in una dimensione europea di integrazione dell’industria della difesa europea; dirigere risorse, umane ed economiche, verso settori strategici quali ad esempio la difesa cyber, il sistema di difesa satellitare e la logistica”.

 Si tratterebbe quest’ultimo in realtà di un passaggio epocale, sempre che non si riveli una rischiosa velleità. Tanto impegno sarebbe legato ad un obbiettivo politico tangibile: “una politica estera europea che, grazie al contributo fondamentale dell’Italia, investa su due aree d’importanza strategica: gestione dei processi migratori e Mediterraneo”.

 

Le lacune e le incongruenze presenti nel documento a mio avviso si infittiscono.

Assegnare un valore strategico alla gestione dei processi migratori e al Mediterraneo porta a confondere le cause con gli effetti. Negli ultimi anni appare evidente l’emersione di un conflitto sempre più manifesto tra Stati Uniti e Russia e sempre meno latente tra i primi e la Cina. All’interno di questo si inseriscono le dinamiche di emersione di potenze regionali, l’esplosione di conflitti regionali, l’avvio di potenti processi di riorganizzazione sociale ed economica che inducono tra l’altro a colossali movimenti migratori che si incanalano lungo corridoi resi più agibili dalla dissoluzione per lo più indotta di alcuni stati nazionali. La Libia, la Siria, l’Ucraina, il Sudan, la Bosnia sono gli esempi e le vittime più lampanti. Il terreno di confronto tra Russia ed USA vede l’Europa come teatro principale e all’interno di esso i vari paesi europei, in particolare i loro centri dominanti, hanno trovato accomodamenti più o meno convenienti. La Germania ha trovato il modo di conciliare con l’establishment americano le proprie ambizioni di estensione dell’area di influenza nella regione balcanica e nell’Europa Orientale, sacrificando al momento e per una lunga fase una prospettiva di politica più autonoma del tutto impraticabile senza una riconciliazione con la Russia; i paesi scandinavi e gran parte dei paesi dell’Europa orientale e nord-orientale hanno rispolverato ambizioni ed ostilità russofobe, sopite per quasi due secoli e assecondato di conseguenza l’espansionismo americano; l’Italia tra i paesi mediterranei ed in gran parte la Francia hanno sacrificato anche i propri interessi immediati in nome della pedissequa fedeltà atlantica con la prima ridotta ormai a terra di conquista dei propri amici alleati. L’avvento di Trump avrebbe dovuto rappresentare una occasione di recupero di rapporti accettabili con la Russia e di un’opportunità di recupero di una maggiore autonomia dagli Stati Uniti. Tanto l’aperta ostilità della Merkel verso il nuovo Presidente americano, invece, rivela la solidità degli interessi di breve periodo di quella classe dirigente e la sua speranza di un rapido ripristino del vecchio ordine nel paese egemone quanto il significativo silenzio del nostro rivela invece la debolezza e la subordinazione costosa per il nostro paese della nostra classe dirigente all’ordine precedente. Non si vede, quindi, come si possa ambire ad una difesa comune senza aver definito una altrettanto area comune di interesse e conduzione politica che ponga fine, in primo luogo, alla destabilizzazione di impronta preminentemente americana dei numerosi stati ai bordi delle aree di influenza. La stessa creazione di un unico complesso militare-industriale è quanto di più lontano si possa immaginare dalla dinamica di un libero mercato e presuppone un ruolo attivo e potente di concertazione dei vari stati nazionali.

Gli investimenti cosiddetti sociali ed una politica adeguata di investimenti infrastrutturali comunitari, altro cavallo di battaglia ricorrente, presuppongono una capacità fiscale almeno quindici volte maggiore dell’attuale senza che nessuno evidenzi le implicazioni di questo eventuale enorme trasferimento di risorse dai bilanci degli stati nazionali, data l’impraticabilità di un ulteriore incremento massivo del carico fiscale.

Basterebbe ricordare che gli Stati Uniti raggiunsero la piena condizione di stato federale dopo oltre un secolo dall’indipendenza, dopo una sanguinosa guerra civile e con il repentino passaggio del carico fiscale dall’otto a quasi il trenta per cento del prodotto interno a fine ottocento.

Gli stessi investimenti strutturali europei tra l’altro, così come concepiti sull’altare del tabù della concorrenza, secondo una letteratura ormai consolidata ma poco considerata in Italia, sono un’arma ambivalente che può accentuare anziché ridurre gli squilibri, desertificare piuttosto che ripopolare gli insediamenti produttivi, inibire lo sviluppo di una imprenditoria locale radicata.

Un dibattito aperto sul merito farebbe vacillare un altro totem indiscusso della retorica europeista.

Sono tutte ambiguità e rimozioni che servono a glissare sul peccato originale dell’attuale costruzione europea. Il suo carattere prettamente economicista e velleitariamente federalista offusca il dato che l’Unione Europea è nata sulle ceneri di una sconfitta militare dei paesi europei e sulla base di una alleanza militare che sancisce il predominio americano su di essa, così come esplicitamente definito per altro nei trattati; nasconde surrettiziamente le dinamiche di competizione e di prevalenza tra stati comunque presenti all’interno di essa; rimuove l’unica possibilità di costruzione europea che renda più trasparenti questi rapporti e agevoli un processo di emancipazione dalla sudditanza scaturita dagli esiti della seconda guerra mondiale e dalla fine della Guerra Fredda: quella confederale limitata ad un numero più ristretto di attori europei.

La ristrettezza del cerchio di frequentazioni di Renzi non è quindi casuale; rappresenta l’indice dei rigidi vincoli entro cui intende e può muoversi.

 

IL PAESE

 

La rigidità dei vincoli non è però sinonimo di immobilismo, tutt’altro. L’agenda del candidato è fitta di appuntamenti e di propositi riformatori che comunque godono di una dinamica insolita rispetto al passato.

Il welfare di cittadinanza piuttosto che di settori e di corporazioni, l’intervento assistenziale attivo, teso all’inserimento produttivo, la garanzia di reddito minimo, in particolare pensionistico, di fatto contrapposto al sistema contributivo delle pensioni, l’attenzione dichiarata e sancita al cosiddetto terzo settore legato in prevalenza ai servizi alla persona, gli investimenti nella logistica, la riforma scolastica ed universitaria sono programmi, buona parte dei quali in fase di attuazione, che stanno rivoluzionando gli assetti organizzativi e sociali e di conseguenza modificando le modalità di aderenza e di controllo pervasivo del ceto politico sulle strutture e negli apparati. Lo stesso riconoscimento di cittadinanza ai ceti professionali autonomi finalmente acquisito politicamente nel PD è un altro segno evidente della svolta, tradottosi anche nella recente legge

Si tratta di una dinamica cui Renzi ha dato una spinta decisiva, anche se scomposta, ma che aveva cominciato a delinearsi chiaramente già da sette anni, a partire dai seminari di Todi del 2011 promossi dalla Conferenza Episcopale con i quali aveva preso forma compiuta in Italia il processo di esautoramento del Governo Berlusconi. Una spinta che avrebbe dovuto portare alla creazione di una nuova DC; fallita miseramente quell’ipotesi il baricentro di quella iniziativa si è riposizionato prontamente nel PD.

Una dinamica potenzialmente ambivalente ma che rischia di assumere sempre più le caratteristiche di uno nuovo sistema di servizi di tipo parassitario e assistenziale di supporto ad un assetto sociale ed economico più precario e meno autonomo nella determinazione delle strategie. Tutto dipende dalla collocazione internazionale che si intende accettare e dalle strategie economiche che si intende perseguire. Delle prime ho accennato sopra; sulle seconde ho già accennato in altri articoli.

Le dinamiche del conflitto interno al PD sono per altro il riflesso di questo rischio.

Le tesi sostengono di puntare su turismo, edilizia ed esportazioni, qualcosa di non molto diverso dall’impronta Einaudiana data al sistema economico italiano degli anni ‘50; in realtà lo schema, già in fase avanzata di realizzazione, prevede il parziale controllo dei presidi sul territorio e la cessione a terzi esterni al paese del controllo strategico di gran parte delle reti e non fa che assecondare e accentuare le tendenze del cosiddetto libero mercato.

Come si possa essere “artefici del proprio destino” delegandone la supervisione ad altri rinunciando per altro alle leve necessarie a contrattare una compartecipazione resta un mistero.

Sindacare sul rigore di un documento può sembrare pedante e poco generoso rispetto ad una situazione talmente intricata e complessa. La coerenza di fondo può rivelarne però i limiti e le finalità effettive che possono anche prescindere dalle intenzioni soggettive.

La contingenza politica, per di più, sta costringendo Renzi al tentativo di bloccare l’erosione a sinistra, snaturando e paralizzando i propri propositi riformatori.  I richiami a Gramsci, la rivendicazione ostentata del carattere di sinistra della sua azione sono una manifestazione evidente del peso dei retaggi. Dopo le rivisitazioni subite nella sinistra latino-americana, in Podemos e in Siriza, all’intellettuale e politico sardo tocca subire anche questo ulteriore scempio, seguito alle persecuzioni fasciste.

Il PD rischia alla fine di diventare per Renzi più che un veicolo, una gabbia che rischia di soffocarlo definitivamente contribuendo in tal modo al sorgere di una terza fase più convulsa della battaglia politica. Gran parte del personale politico raccolto da Renzi, del resto, è stato coltivato dalle tre precedenti gestioni del partito sulla base di esperienze prevalentemente territoriali e localiste.

Nella terza parte dell’articolo vedremo quindi come gran parte dei suoi oppositori interni ed esterni della sinistra rappresentino un fattore di freno ulteriore e di impaludamento della situazione; in particolare vedremo come lo schema classista, quello che oppone sfruttati e sfruttatori, ricchi e poveri, forti e deboli alla base della loro azione politica offra una chiave esclusiva di lettura che impedisce di individuare le dinamiche di conflitto e cooperazione e la composizione delle forze in campo; ostacola la difesa stessa delle condizioni di vita degli strati più popolari impedendo il loro inserimento consapevole in un blocco sociale più dinamico e promettente.

Via Fani: la soluzione del delitto è ancora lì ma non la cerca nessuno, di Piero Laporta

Il testo è tratto dal sito OltreLaNotizia http://www.pierolaporta.it/via-fani-la-soluzione-del-delitto-ancora-li-non-la-cerca-nessuno/ . E’ importante non solo per l’accuratezza dell’analisi e per l’evidente competenza dell’autore; soprattutto perché lascia intuire gli intrecci e il conflitto di interessi e strategie che ne hanno determinato l’epilogo. La vicenda si inquadra, come più volte sottolineato in passato sul sito conflittiestrategie, comunque all’interno del processo di avvicinamento e di inclusione del PCI nella sfera atlantista. Occorre sottolineare, non ostante la vulgata contraria, che Aldo Moro era contrario al “compromesso storico”, così come teorizzato dall’allora Segretario del PCI Enrico Berlinguer. La sua azione politica, evidentemente, suscitò le attenzioni di quella parte dell’establishment americano e occidentale contrari a quell’avvicinamento e contribuì a creare le condizioni di un momentaneo sodalizio di questi con le componenti dell’allora blocco sovietico interessate a scoraggiare il progetto politico berlingueriano.

CrimeaStrage di via Fani: ogni anno, il 16 marzo, l’inutile commemorazione del rapimento di Aldo Moro e della strage dei cinque uomini della sua scorta.

E’ un evento di cui oramai non importa a nessuno. Chiedete nelle scuole chi fosse Aldo Moro e avrete risposte fra le più bizzarre dagli alunni e pure dagli insegnanti più giovani.

Quest’anno s’aggiunge il lavoro della commissione parlamentare di inchiesta, presieduta da Giuseppe Fioroni, persona degna del massimo rispetto. Non di meno, la tracotanza con la quale il pregiudicato Valerio Morucci ha trattato la commissione nel corso della propria udienza, fa dubitare della competenza dei commissari a interrogare testi e vagliarne le dichiarazioni.

I lavori cominciarono tre anni fa con l’audizione di Ferdinando Imposimato, il quale dichiarò d’aver precipitosamente lasciato l’incarico requirente, dopo aver sentito Morucci e Faranda per mesi, per aver «ricevuto minacce gravissime… che hanno riguardato non solo me, ma anche altri miei familiari. Io ho dovuto interrompere le indagini, che sono state proseguite da altri.»

Ah, sì? Vieni minacciato e scappi? Dice, hanno minacciato anche i miei familiari! E quindi? Li fai scortare, mandi via loro e tu rimani, oppure rimangono con te, come accade ogni giorno a qualunque investigatore impegnato seriamente contro la criminalità. Oppure, chissà, forse è un bene che tu sia andato via.

Poi seguì la deposizione di monsignor Antonio Mennini, un prelato, annunciata come novità dai tromboni d’una stampa smemorata, ignorante che il prelato fu ascoltato dagli investigatori a giugno 1978, a gennaio 1979, a febbraio ’79 e a settembre 1986. Anche le commissioni parlamentari non erano una novità per costui: comparve davanti alla Commissione Moro il 22 ottobre 1980, fu trattato coi guanti, gli riconobbero volentieri di non essere stato per nulla “reticente”. Subito dopo la Segreteria di Stato lo collocò nel servizio diplomatico della Santa Sede, mandandolo in Uganda. Come mai così lontano? Mennini ha sempre negato d’aver incontrato Moro nel covo di via Montalcini, dove i criminali rinchiusero lo statista prima di ucciderlo. Il diavolo fa le pentole, non i coperchi. A ottobre 1990, le lettere di Moro ritrovate nel covo brigatista di via Monte Nevoso, dietro una parete di cartongesso, testimoniarono che Mennini aveva avuto con Moro qualche contatto ulteriore oltre a quelli da lui ammessi in precedenza. La Corte d’Assise lo ascoltò nel 1993 e s’accontentò della sua assicurazione di non aver ricevuto altre lettere rispetto a quelle da lui dichiarate in precedenza. Nessuno ha pensato di chiedere al Vaticano le relazioni che Mennini scrisse per la Segreteria di Stato; sono almeno quattro, custodite come il segreto di Fatima.

Imposimato se ne andò a Londra, Mennini in Uganda e la verità al diavolo.

Oggi si cerca la verità nell’autopsia o nella ricostruzione di quanto avvenne in via Montalcini.

Suggeriamo invece di ripartire da via Fani; ecco alcune delle ragioni.

Primo. La perizia balistica certifica che gli uomini sull’auto di Aldo Moro furono freddati da un solo tiratore abilissimo. Si lascia intendere che costui fosse Antonio Nirta, killer calabrese, perché fotografato fra la folla affluita in via Fani dopo l’eccidio e perché è di Nirta la mano che ha sparato per freddare Aldo Moro, secondo il giornalista investigativo Paolo Cucchiarelli.

Un conto è macellare una persona inerme, com’era nelle capacità di Nirta, altro è freddare tre agenti in auto con Moro senza fare neppure un graffio al presidente della DC. Costui era un professionista militare di altissima scuola. Chi era? A quale servizio segreto apparteneva? Come arrivò in via Fani? Come andò via?

Secondo. Perché l’’agguato si fa a un quadrivio, come accadde a via Fani? La risposta è univoca: per avere almeno tre vie di fuga nel caso giunga una minaccia inaspettata. Tale eventualità – si badi – non deve comunque pregiudicare l’operazione.

Per prevenire una tale evenienza, chi diresse l’operazione di via Fani (chi la diresse davvero?) dispose certamente dei nuclei armati a un centinaio di metri su ciascuna delle strade confluenti sul quadrivio. Tali nuclei erano pronti a sparare su chiunque potesse compromettere l’agguato. Per esempio, se una gazzella di carabinieri o un’auto di vigili urbani quel mattino si fosse casualmente diretta verso l’incrocio, gli agenti sarebbero stati neutralizzati, vivi o morti, più probabilmente morti stecchiti, visto il trattamento usato ai cinque della scorta. Questo è un dato di fatto operativo che non ammette discussioni ed eleva il numero di partecipanti all’agguato di almeno otto-dodici unità. Questi nuclei dovevano necessariamente avere capacità operativa analoga a quella del superkiller che freddò i tre uomini in auto con Moro.

E’ pure rimasta nella nebbia la modalità con la quale arrivarono e poi andarono via i brigatisti di cui è nota la partecipazione all’agguato.

Valerio Morucci ha quindi dimenticato qualche dettaglio nel suo memoriale. Non è il caso di torchiare costui e i suoi compari, visto che hanno mentito?

Terzo. E’ quanto meno da sciocchi se non da complici, accreditare Steve Piekzenic, il “consigliere” statunitense,  come una monade, inviata in Italia dal Dipartimento di Stato USA a dare una mano a Francesco Cossiga. Per di più si è preso per oro colato quanto disse in varie occasioni. Anche costui meriterebbe di essere torchiato a dovere, da un maresciallo alla maniera antica. Perché? Un personaggio del genere si muove solo se accompagnato passo dopo passo da una costellazione invisibile di agenti clandestini, in grado di mutare i rapporti di forza nel teatro operativo intorno allo stesso Piekzenic. Come si mutano i rapporti di forza? Con la forza, appunto. In altre parole col ricatto, la corruzione, la violenza. Che cosa ha davvero fatto costui e che cosa hanno davvero fatto i sui complici?

Piekzenic e il suo compare Cossiga affermano di aver costretto i brigatisti a uccidere Aldo Moro. Bene. Con quali modalità operative? Rispondere, prego.

Quarto. Un’operazione di tale portata non si realizza senza complicità di pezzi importanti di tutti i servizi segreti incidenti sul teatro operativo; ovvero il SISMI e il SISDE, ma anche la CIA e, il servizio segreto militare sovietico, il GRU, ben più competente del KGB sulla vicenda Moro.

Quinto. Un agente del GRU, Sergey Sokolov sorvegliava Aldo Moro – lo riferì egli stesso – e alloggiava a Roma in via degli Orti di Alibert, in una casa di proprietà del Vaticano. Perché nessuno ha indagato su questo? Si direbbe che gli agenti sovietici stessero a Roma solo per gustare pizza e vino.

Sesto. Il piano per isolare e poi uccidere Aldo Moro fu avviato almeno un anno prima, nel 1977, guarda caso in coincidenza con la decisione politica di schierare gli Euromissili. Aldo Moro non avrebbe mai consentito di schierare gli Euromissili in Sicilia, nel feudo elettorale di Giulio Andreotti, sotto il controllo della mafia, con la quale Francesco Cossiga scese a patti.

Morto Aldo Moro, i missili furono dislocati a Comiso. La base di Comiso fu un enorme affare in forniture militari ma anche una cuccagna di appalti per le cooperative emiliane e di traffici d’ogni genere. Claudio Fava scrisse anni dopo: “Tutto questo, naturalmente, non è passato su Comiso e dintorni senza lasciare traccia: anzi; si è probabilmente avverata nel corso degli ultimi tre anni la “profezia” di Pio La Torre, il deputato comunista ucciso dalla mafia: «…Si vedrà presto a Comiso lo scatenarsi della più selvaggia speculazione, dal traffico di droga al mercato nero, alla prostituzione, con il degrado più triste della nostra cultura e della nostra tradizione»”.

Non bastasse, lo schieramento a Comiso fu sì un enorme affare ma fu anche alquanto discutibile proprio dal punto di vista militare.

Nel 1962, durante la crisi di Cuba, i missili furono schierati a Gioia del Colle, 40 chilometri a Sud di Bari. Comiso era 500 chilometri indietro di quanto fosse Gioia del Colle rispetto all’Unione Sovietica. Era dunque una scelta militarmente senza senso: un’arma strategica non rinuncia a una fascia di 500 chilometri, dov’è accertata la presenza di centinaia d’obiettivi remunerativi, compresa Mosca, la capitale. Gioia del Colle era una base attrezzata; Comiso invece dovettero costruirla da zero: piste, strade, case, hangar, magazzini, impianti… un fiume di miliardi, un fiume di droga, un fiume di potere per i Corleonesi, amici di Salvo Lima, a partire da quando? Quando si dice la coincidenza, dal 1977-1978…

Se Donald Trump e Vladimir Putin – troppo giovani per avere qualunque responsabilità – aprissero gli archivi sulla vicenda di Aldo Moro, scopriremmo come mai oggi certi “ex” del Partito Comunista Italiano e della Democrazia Cristiana – guarda caso quelli allora più intransigenti contro Moro – oggi si svelano genuflessi alla corte clintoniana. E, visto che ci siamo, scopriremmo pure come sono diventati straricchi.

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M5S, la stampella del potere Scritto il 12 giugno 2015 by Federico Dezzani

Mi pare utile riprendere un articolo di Federico Dezzani, con il quale l’autore ricostruisce la genesi del movimento- Giuseppe Germinario

M5S, la stampella del potere

Scritto il 12 giugno 2015 by Federico Dezzani

Twitter: @FedericoDezzani

link originario dell’articolo:  http://federicodezzani.altervista.org/m5s-la-stampella-del-potere/
Le recenti elezioni regionali certificano l’arretramento del M5S che perde 900.000 voti rispetto alle europee del 2014 e quasi 2 mln di voti rispetto alle politiche del 2013: è il prezzo della defezione di Beppe Grillo, ritiratosi nel novembre 2014 dalla guida del movimento perché “un po’ stanchino”. Perché Grillo abdica quando la situazione economica dell’Italia, sempre più esplosiva, permetterebbe di assestare il colpo definitivo al governo Renzi e realizzare la “rivoluzione araba” promessa nel 2013? La risposta è che M5S è la stampella dell’establishment euro-atlantico. Dall’American Chamber Of Commerce alla Telecom Italia, come è stata assemblata la piattaforma di Gian Roberto Casaleggio: l’arroganza è che tale che è apposta pure la firma “nuovo ordine mondiale”.

Italia: poligono per le sperimentazioni politiche

Quando una nuova arma è perfezionata è abitudine sperimentarla in qualche poligono di tiro lontano dal territorio metropolitano, oppure in qualche teatro bellico: ne sanno qualcosa i cittadini sardi che subiscono gli effetti del poligono sperimentale Salto di Quirra, il più grande della NATO in Europa, oppure i ribelli Houthi dello Yemen, contro cui è stata di recente scagliata una bomba termobarica, immortalata nel video che mostra tutta la potenza devastatrice dell’ordigno1. Le armi convenzionali sono solo uno degli strumenti cui il sistema euro-atlantico ricorre per esercitare il proprio dominio. Esiste poi un vasto arsenale di armi riconducibile alla “guerra psicologica”, combattuta contro nemici esterni o contro le opinioni pubbliche di paesi alleati se non, come sempre più spesso capita, direttamente contro i propri cittadini: rientrano tra le armi psicologiche gli attentati falsa bandiera, la propaganda contro governi ostili, gli omicidi politici e le rivoluzioni colorate.

Anche in questo campo l’Italia, uscita sconfitta dall’ultima guerra, ha il triste primato di essere uno dei poligoni preferiti dalla NATO, dove sono testate le nuove armi psicologiche che, se funzionanti, sono poi applicate all’occorrenza in altri Paesi. È nel Bel Paese ad esempio che è sperimentata la strategia delle tensione, applicata poi negli stessi USA con gli attentati dell’11 settembre e le lettere all’antrace.

Le basi della strategia della tensione sono poste nel settembre 1963, tre mesi prima che nasca il primo governo di centrosinistra (DC,PSI, PSDI, PRI) presieduto da Aldo Moro: è in quei giorni che dall’Ufficio Ricerche Economico Industriali del SIFAR parte una relazione riservata indirizzata al generale Giovanni Allavena, capo del controspionaggio del Servizio Informazione Forze Armate. Qui si contempla, pur di arginare l’avanzata comunista, la possibilità di2:

“creare gruppi di attivisti, di giovani, di squadre che possano usare tutti i sistemi, anche quelli non ortodossi, dell’intimidazione, della minaccia, del ricatto, della lotta di piazza, dell’assalto, del sabotaggio, del terrorismo”.

Ad attuare questo innovativo, eversivo, disegno (che metabolizza molti concetti della guerra rivoluzionaria marxista-leninista) è chiamato il maggiore Adriano Magi Braschi, tra i massimi esperti della NATO in guerra psicologica e futuro ponte tra servizi segreti e terrorismo nero, anche internazionale (è infatti in stretto contatto con l’Organisation armée secrète francese).

Due anni dopo, nel maggio del 1965, si svolge presso l’hotel romano Parco dei Principi, il convegno organizzato dall’Istituto di studi militari Alberto Pollio che posa il primo mattone della futura strategia della tensione: intervengono alla conferenza il suddetto maggiore Magi Braschi, alti esponenti delle forze armate e dei servizi, accademici e figure di spicco dell’estremismo di destra (tra cui Pino Rauti e Guido Giannettini).

La fine del mondo bipolare e la volontà di procedere a tappe forzate verso il “nuovo ordine mondiale” (Stati Uniti d’Europa, allargamento della NATO a est, neoliberismo e finanza selvaggia) comporta per l’establishment euro-atlantico la necessità di sbarazzarsi della vecchia classe politica dei “paesi alleati”, con sui si è vinta la guerra fredda: abituati a ritagliarsi una certa libertà di manovra entro i paletti della NATO e propugnatori dell’intervento dello Stato nell’economia, questi politici sono infatti obsoleti nel nuovo assetto unipolare.

In Italia è quindi testata una nuova arma psicologica che negli anni a venire sarà largamente impiegata in tutto l’Occidente: gli scandali mediatici-giudiziari, con cui si discreditano e/o eliminano politicamente singole figure o intere classi dirigenti. Quest’arma psicologica, recentemente impiegata contro i vertici della FIFA rei di non aver cancellato i mondiali in Russia del 2018, si avvale di illeciti o di ipotesi di reato, portati alla luce se e quando la vittima disobbedisce alle direttive o occorre sostituirla con uomini più freschi e fidati.

La prima e, la più potente in Europa Occidentale, bomba mediatica-giudiziaria è sganciata su Milano nel 1992, facendo leva sul finanziamento illecito dei partiti che, fino a quel momento, era stato il segreto di Pulcinella della politica italiana: è l’inchiesta Mani pulite condotta, come ha ammesso l’ex-ambasciatore americano Reginald Bartholomew prima di morire per un tumore3, dal pool milanese di Francesco Saverio Borrelli in stretto contatto con il consolato americano di Milano. Il console generale americano a Milano, Peter Semler, riceve nei suoi uffici il futuro uomo simbolo di Mani Pulite, il magistrato Antonio Di Pietro, quattro mesi prima dello scoppio dell’inchiesta: scopo dell’incontro è essere “informato” sulle implicazioni politiche delle indagini.

Antonio Di Pietro (che attira l’ammirazione del console Semler perché sa usare il computer “a differenza di gran parte degli italiani”) entra alla procura di Milano nel 1985 e la sua padronanza degli strumenti informatici (poi persa nel tempo se, come vedremo in seguito, per aprire il suo blog deve avvalersi di Gianroberto Casaleggio) gli consente di essere cooptato nel 1989 dal Ministero della Giustizia come consulente per l’informatizzazione.

Di Pietro, il cui italiano incerto corrobora le voci di una laurea in giurisprudenza parecchio opaca, ha un trascorso nel SISDE: negli anni ’80 figura tra i poliziotti di scorta al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa4 ed un appunto del centro Sisde di Milano afferma che in quegli stessi anni Di Pietro è in contatto con un diplomatico USA attivo nel nord Italia e con una società vicina alla CIA5. Perché gli americani inseriscono Di Pietro nel pool di Mani pulite, quando la squadra di Borelli sarebbe capace di condurre l’inchiesta contro i vertici della Prima Repubblica anche senza il suo apporto? La spiegazione è duplice: la volontà di avere un proprio referente fidato dentro la squadra di Mani Pulite e, non meno importante, il piano di lanciare Di Pietro, l’eroe nazionale che libera l’Italia dal marciume del DC ed il PSI, come nuovo astro nascente della politica italiana.

Tutti i media del periodo infatti, dal Corriere a Repubblica, preparano il terreno in questo senso6 e, non appena Di Pietro lascia la toga nel dicembre del 1994, gira l’ipotesi che l’ex-magistrato si schieri a destra dell’arena politica, usando come base di partenza il Movimento Mani pulite.

Nel luglio del 1995 Antonino Di Pietro compie il terzo misterioso viaggio negli USA dalla scoppio di Mani Pulite (un primo nell’ottobre del 1992 finanziato dalla United States Information Agency ed il secondo nel 1994 prima di lasciare la magistratura): là è ricevuto dall’American Enterprise Institute7 (lo stesso pensatoio che 15 anni dopo sforna Matteo Renzi) e dal politologo Edward Luttwak.

Al suo ritorno in Italia, stupendo tutti i collaboratori, Di Pietro decide di non entrare in politica con un soggetto autonomo bensì appoggiandosi al centro-sinistra. A Washington devono avergli spiegato che saranno infatti i governi di sinistra a spadroneggiare negli anni successivi, dopo l’effimera esperienza del governo Berlusconi I: il loro compito sarà smantellare l’industria di Statoagganciare l’Italia all’euro a qualsiasi costo e piegarsi alla politica angloamericana nei Balcani.

Tonino è ministro dei lavori pubblici del governo Prodi I (1996) e poi nuovamente ministro delle infrastrutture del governo Prodi II (2006-2008): è nella veste di responsabile di questo dicastero che l’ex-pm, in ottimi rapporti con gli USA, nomina nel febbraio 2007 Gianroberto Casaleggio ed i fondatori della Casaleggio associati (Mario Bucchich e Luca Eleuteri) come esperti del ministero per le strategie comunicative ed i nuovi media8.

Siamo entrati nella sperimentazione dell’ultima arma psicologica, concepita ed applicata con discreto successo già in Ucraina con la rivoluzione arancione del 2004: l’impiego della rete per influenzare l’opinione pubblica, screditare i governi ostili e, all’occorrenza, organizzare manifestazioni di piazza o moti contro le istituzioni.

È nel 2004 che Casaleggio allestisce il sito Beppegrillo.it e, a distanza di tre anni, replica l’operazione con il sito di Antonio Di Pietro: è singolare che tra le centinaia di esperti di comunicazione operanti in Italia, un ministro della Repubblica italiana si affidi “per imparare a schiacciare i bottoncini di Twitter e di Facebook”9allo stesso guru informatico che sta preparando il primo Vaffanculo-day contro il governo Prodi.

La collaborazione tra l’ex-pm di Mani Pulite e Casaleggio prosegue per tre anni, finché Di Pietro si accorge che non è più lui a dettare la linea politica del proprio sito, bensì a subirla, talvolta anche con imbarazzo a causa del toni sempre più aggressivi e denigratori dei contenuti: nel settembre del 2009 si consuma il divorzio tra il segretario dell’Idv e l’esperto informatico.

Da quel momento Di Pietro non è più un socio, seppur di minoranza, della corazzata Casaleggio bensì un rivale politico con cui spartirsi il voto di protesta: a due riprese, man mano che il governo Berlusconi IV affonda sotto il peso degli scandali-mediatici giudiziari e si avvicinano le elezioni, Tonino è liquidato. Nel febbraio del 2010 è pubblicata sul Corriere delle Sera un foto di 18 anni prima che immortala Di Pietro a cena con l’allora capo del Sisde del Lazio, Bruno Contrada, ed uno 007 in servizio all’ambasciata americana. Poi, nel novembre del 2012, la conduttrice di Report Milena Gabanelli assesta il colpo letale all’Italia dei Valori con un’inchiesta sui rimborsi elettorali.

Addio Di Pietro!

Il sol dell’avvenire è ora il Movimento 5 Stelle, nato e cresciuto attorno al blog beppegrillo.it messo a punto dalla Casaleggio Associati. È quindi tempo di indagare sul passato del guru informatico, diviso tra Olivetti, esoterismo e finanza anglosassone.

 

Casaleggio: tra Olivetti, Telecom, Goldman Sachs e nuovo ordine mondiale

Telecomunicazioni e servizi segreti sono pressoché diventati sinonimo dopo le rivelazioni dell’ex-tecnico informatico della CIA Edward Snowden, che nel 2013 dimostra come l’NSA intercetti e sorvegli illegalmente americani e stranieri, semplici cittadini o capi di Stato, appoggiandosi anche a servizi segreti alleati per coprire i rispettivi territori nazionali. Al vertice della piramide che vaglia centinaia di petabite al giorno è il Five Eyes, l’alleanza spionistica tra le potenze anglosassoni (USA, Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda e Canada). Sotto, in base ad affinità politiche e peso internazionale, scendono a cascata gli altri Paesi della NATO.

È superfluo dire che l’Italia, dove il governo Letta neppure fiata quando esplode lo scandalo NSA, è considerata un’espressione geografica, preziosa solo perché dalla Sicilia transitano i fondamentali cavi sottomarini che connettono l’Europa con tutto l’Oriente ed il Sud America: il controllo di Telecom Italia cui fa capo la rete fissa e le linee transoceaniche (Telecom Sparkle) è quindi fondamentale per Washington, tanto che ciclicamente ricorre l’ipotesi di una fusione con la texana AT&T. La penetrazione dei servizi angloamericani nell’ex-monopolio dei telefoni affonda le radici già nel dopoguerra e, dal confezionamento di dossier alle intercettazioni diffamatorie, è sempre stata usata per esercitare il ferreo controllo sul Paese.

È nella cornice Telecom/servizi segreti che deve essere inquadrata la figura di Gianroberto Casaleggio. Perito informatico, mai laureato, entra nel 1975 alla Olivetti dove incontra la prima moglie, la britannica Elizabeth Clare Birks da cui ha un figlio. Il padre di Gianroberto è interprete di lingua russa e questo è un dato interessante perché Adriano Olivetti (1901-1960), l’imprenditore visionario che lascia un’impronta indelebile all’azienda, è appassionato di letteratura russa. In particolare Adriano Olivetti, che con il nome in codice “Brown” è in stretto contatto con i servizi segreti inglesi sin dalla primavera del 194310, è un fervido appassionato di occultismo russo11Helena Blavatsky, fondatrice della Società Teosofica ed autrice del libro Iside Svelata, ed il teosofo russo Vladimir Sergeevič Solov’ëv.

Ad un occultista russo, George Gurdjieff (1877-1949), Gianroberto Casaleggio si richiama espressamente, definendosi suo discepolo12. Il profilo esoterico di Gianroberto Casaleggio si arricchisce poi di nuovi importanti particolari nel marzo del 2013, quando sul settimanale Panorama compare l’intervista al massone Giuliano Di Bernardo, ex-Gran Maestro del Grande Oriente d’Italia, dove, commentando la visione del guru di M5S, sono evidenziate le forti analogie tra il Casaleggio-pensiero e l’esoterismo della massoneria speculativa. Sia per Casaleggio che per l’ex- Gran Maestro del GOI, in un futuro non troppo lontano scompariranno le differenze ideologiche, politiche e religiose, ma secondo Di Bernardo13:

Per me a governare sarà una comunione di illuminati, presieduta dal “tiranno illuminato”, per Casaleggio a condurre l’umanità sarà la rete.

Nel 1999, con un’azzardata scalata a debito che lascerà un segno indelebile, la Olivetti di Roberto Colaninno, attiva nella telefonia con Omnitel ed Infostrada, lancia un’offerta pubblica d’acquisto su Telecom Italia, arrivando a detenerne il 51%. Da circa un anno l’ex-monopolio dei telefoni è guidato da Franco Bernabé che, legato a doppio filo con l’establishment euro-atlantico (è uno dei massimi referenti italiani del Round Table, nella veste di membro del Council on Foreign Relations, gruppo Bilderberg, International Council di JP Morgan e vice presidente di Rothschild Europe14), è reduce dell’esperienza in ENI, dove da amministratore delegato ha curato la privatizzazione del gigante petrolifero italiano al motto di “vendere, vendere, vendere”15.

Il 22 febbraio del 2000 l’Olivetti acquista, per 52 mld di lire, dalla britannica Logica Plc il 45% della società Logicasiel, di cui Finsiel (controllata da Telecom Italia) detiene il restante 55%: la società, che cambia il nome in Webegg Spa, è quindi ora in mano al 100% al gruppo Telecom Italia/Olivetti16.

La britannica Logica plc non è un’azienda qualsiasi, bensì il colosso inglese delle nuove tecnologie: nel 1974 è la prima azienda europea ad importare sul Vecchio Continente il papà di internet (Arpanet) quando è ancora un tecnologia militare statunitense e, in quegli stessi anni, disegna la rete elettronica per lo scambio di dati tra banche (il celebre SWIFT, Society for Worldwide Interbank Financial Telecommunication).

La neonata Webegg Spa che, si legge nel comunicato aziendale,“offre consulenza e soluzioni informatiche alle aziende che si organizzano in rete su modello delle web company17 è davvero ben inserita nel comunità economica anglofona, se si considera che appena un anno prima, nel 1999, ha siglato un accordo di collaborazione con la società di nuove tecnologie Neon (New Era Of Networks, con sede in Colorado), fondata nel 1995 dal responsabile informatico di Goldman Sachs, Rick Adam18 (laurea a West Point, già ufficiale della US Air Force ed ex-esperto informatico presso il colosso degli armamenti Litton Industries19, poi Northrop Grumman. Un personaggio decisamente in odore di servizi).

Amministratore delegato delle ex-Logicasiel, ora Webegg spa, è nientemeno che Gianroberto Casaleggio, affiancato dai fidi collaboratori che il guru porterà poi con sé nelle future esperienze aziendali e politiche: Luca Eleuteri (direttore generale tra il 2000 ed il 2003), Mario Bucchich (responsabile della comunicazione tra 2000 e 2003) e Enrico Sassoon (membro del cda dal 2001 al 200320). Merita qualche approfondimento quest’ultimo: Sassoon, membro del consiglio della camera di commercio americana in Italia sin dal 1998 e direttore responsabile della Harvard Business Review dal 2006, ha le sembianze del classico “agente di collegamento” tra l’ambasciata americana di Via Vittorio Veneto e gli uffici della Webegg Spa.

Come sono le prestazioni economiche del gruppo Webegg? Nel 2011 il bilancio si chiude con 91 mln di fatturato ed un utile di 6 mln 21; nel 2002 la società è consolidata da Telecom, gli utili crollano a 45 mln e l’utile a 2,8 mln; nel 2003 continua la caduta dei ricavi che si attestano per la Webegg Spa a soli più 19 mln22. Nonostante i non eclatanti risultati, la Webegg di Casaleggio non bada a spese per i propri dipendenti, come se la società godesse di qualche connaturato privilegio: tre sedi con uffici avveniristici, feste di fine anno con celebri personaggi delle tv, trasferte internazionali per partecipare a tornei di calcio aziendali, etc. etc.

L’enigmatica attività di Casaleggio in Webegg, tale da richiedere la collaborazione del responsabile informatico di Goldman Sach e la consulenza della camera di commercio americana, si interrompe bruscamente sotto il governo Berlusconi II: nel giugno del 2001 il Cavaliere vince le elezioni, il presidente di Pirelli Marco Tronchetti Provera acquista nel luglio successivo, grazie al placet del governo, il controllo di Telecom Italia e, a distanza di due anni, Gianroberto Casaleggio è costretto a lasciare la Webegg Spa. Poi, nel giugno del 2004, la controllata della Telecom è venduta alla società Value Partners.

Con l’avvento del governo Prodi II (2006-2008), Tronchetti Provera perde la sponda con l’esecutivo: prima si dimette dalla presidenza e poi accetta un nuovo patto di controllo che diluisce progressivamente la percentuale di Pirelli fino all’uscita definitiva. È facile scorgere nella salace satira23 di Beppe Grillo contro Tronchetti Provera, eletto a suo bersaglio preferito finché questi non cede Telecom, una vendetta di Casaleggio per la chiusura del “laboratorio Webegg”.

L’ex-perito informatico dell’Olivetti non si perde d’animo: traghetta i suoi uomini più fidati e soprattutto il consigliere della American Chamber of Commerce in Italy, Enrico Sassoon, verso nuovi lidi e nel gennaio del 2004 nasce la Casaleggio Associati. È molto significativo che il blasonato Sassoon (è corrispondente de il Sole 24 Ore e consulente per le maggiori multinazionali americani operanti in Italia), anziché permanere nel cda di Webegg, decida di seguire Casaleggio nella neonata impresa. Corrobora il sospetto che Sassoon, più che alle nuove tecnologie, sia interessato alla specifica attività cui sta lavorando l’enigmatico perito.

Siamo nel 2004 ed internet è parte integrante dell’allora innovativa strategia angloamericana per rovesciare i governi ostili: l’Ucraina è teatro di un primo tentativo di cambio di regime, la rivoluzione arancione finanziata da George Soros e dal Dipartimento di Stato americano24, dove sono massicciamente impiegati blog e siti d’informazione, ampiamente pubblicizzati dai media anglofoni.

Proprio in quell’anno, stando alla ricostruzione ufficiale, Beppe Grillo legge un libro di Casaleggio, ne rimane affascinato e gli telefona25. I due si incontrano al termine di uno spettacolo a Livorno e stordendolo con racconti sull’esoterista Gurdjieff e sul celebre scrittore dell’imperialismo inglese, il massone Rudyard Kipling, Casaleggio convince il comico genovese (fino ad allora un fervente luddista26) ad affidarsi alle sue mani per la creazione del blog Beppegrillo.it.

La verità deve essere probabilmente un’altra: il comico genovese (che con l’ex agente del Sisde Antonio di Pietro condivide il profilo giustizialista, anti-casta e demolitore) deve essere stato segnalato da qualcuno come idoneo al progetto che Casaleggio sta sviluppando. Chi è questo qualcuno? Gli indizi portano all’ex-colonnello della Guardia di Finanza Umberto Rapetto: amico di Grillo sin dagli anni ’9027, in contatto sin dal 2000 con Franco Bernabé che lo nomina 12 anni dopo consulente strategico in Telecom, Rapetto è docente alla NATO School di Oberammergau e consulente del Pentagono in materia di sicurezza28.

Una peculiarità che Casaleggio conserva dalla precedente esperienze in Webegg è la prodigalità negli investimenti: nell’autunno del 2004 la neonata società di Casaleggio sigla infatti un accordo di collaborazione con Enamics, società di Stanford fondata “dall’esperto mondiale di IT ed autore di best seller internazionali”29 Faisal Hoque, che costruisce le architetture informative per giganti come GE, MasterCard, American Express, Northrop Grumman, PepsiCo, IBM, Netscape, Infosys, JP Morgan Chase, etc. etc.

Come è possibile che un divo dell’informatica che lavora per i colossi delle finanza e degli armamenti americani si lasci coinvolgere nei progetti di una neo-costituita ed anonima azienda italiana? Bisogna forse porre la domanda ad Enrico Sassoon ed ai suoi amici dell’American Chamber of Commerce in Italy, perché difficilmente la Casaleggio Associati avrebbe le risorse finanziarie per pagare la parcella di Faisal Hoque.

Arriviamo ad un punto fondamentale: se in Telecom Italia i progetti del guru di Beppe Grillo erano finanziati direttamente dall’ex-monopolio dei telefoni, dove trae ora sostentamento la Casaleggio Associati? In rete sono disponibili i bilanci per il triennio 2009-201230 che mostrano ricavi ed utili in costanti calo, passando da un 1,6 mln a 1,4 e da un attivo di 118.000 € ad un perdita di 57.000 €. Nulla si sa circa i clienti, ma se si considera che nel 2012 il sito beppegrillo.it è già nato da otto anni, M5S da tre, e che circa un milione di ricavi proviene dai servizi venduti dall’ex-Sisde Antonio Di Pietro31, sorgono spontanei i dubbi sulla capacità della Casaleggio Associati di stare sul mercato senza qualche aiuto interessato.

Di certo, come nel caso di Antonio Di Pietro, è la Casaleggio Associati che produce i contenuti del blog di Grillo, stabilisce la linea politica, decide quando e contro chi alzare i toni.

Direttamente prodotti dalla Casaleggio Associati e diffusi in rete dalla società milanese sono i celebri video Prometheus – la Rivoluzione dei media32 (2007) e Gaia – The future of politics (2008): prescindendo dagli scenari ivi contenuti (terza guerra mondiale, pace perpetua, fusioni tra colossi della rete, trionfo dell’informazione angloamericana), è interessante soffermarsi sui richiami esoterici che, come abbiamo precedentemente visto, sono parte integrante del profilo di Casaleggio. Si cita espressamente il “nuovo ordine mondiale” che, da George Bush senior a Giorgio Napolitano passando per Jacques Delors è sulla bocca di tutti i membri dell’élite euro-atlantica. Inoltre, al termine di “Prometheus” (personaggio chiave della dottrina massonica/teosofica), compare il celebre occhio divino nel triangolo raggiante.

Siamo nel 2008: sfruttando il sito Meetup per l’organizzazione di incontri e manifestazione, Grillo ha iniziato da tre anni a radicarsi sul territorio e, l’8 settembre dell’anno precedente, si è tenuto in diverse piazze italiane il Vaffanculo-Day con cui il comico genovese (condannato nel 1985 a 14 mesi di reclusione per omicidio colposo) pubblicizza l’iniziativa “Parlamento pulito” contro la casta, la corruzione, i segretari di partito, i politici condannati in appello, etc. etc.

Già in quell’occasione a dare un particolare rilievo mediatico al Vaffanculo-day di Grillo sono, ça va sans rien dire, i media anglofoni: in particolare la BBC inglese (che fomenta disordini a casa altrui dai tempi della rivoluzione iraniana del 1979) non perde mai di vista il comico giustizialista, diffondendo su radio34, televisione e internet, gli spettacoli con cui, come ai tempi di Mani Pulite, si demolisce la classe politica italiana.

I tempi sono quindi maturi per il primo incontro ufficiale tra l’astro nascente della politica italiana ed il corpo diplomatico americano in Italia: nell’aprile del 2008, George Bush junior imperante, si consuma il pranzo/esame tra Beppe Grillo e l’ambasciatore americano Ronald Spogli (lo stesso che di lì a poco ammonirà Silvio Berlusconi per i suoi pericolosi legami con la Russia).

Al termine dell’incontro, l’intimo amico di Bush, consigliere tra l’altro della J. William Fulbright Foreign Scholarship (emanazione del Round Table), scrive soddisfatto un cablo al segretario di Stato Condoleeza Rice dal titolo “Lunch with italian activist Beppe Grillo: No hope for Italy. Un obsession with corruption35. Grillo, dice Spogli, è un tipo berbero ma capisce di tecnologie ed è all’avanguardia nella lotta contro la corruzione che mina l’economia italiana (insomma, il Di Pietro degli anni 2000).

L’esame è superato e dalla politica arriva il via libera al progetto sui cui i servizi d’informazione britannici e statunitensi lavorano dai tempi della Logicasiel/Webegg: il 4 ottobre 2009, al Teatro Smeraldo di Milano, nasce il Movimento 5 Stelle come filiazione del blog di Beppe Grillo, appena eletto dalla rivista americana Forbes a settima celebrità mondiale della rete36.

Dalla “rivoluzione araba” allo “sono un po’ stanchino”

Arriviamo all’interrogativo decisivo: a cosa serve il Movimento 5 Stelle?

In base alla storia recente, i movimenti politici finanziati dagli angloamericani e costruiti attorno alla rete, sono riconducibili a tre tipologie: movimenti per rovesciare governi ostili, per rovesciare governi amici e, infine, per mantenere lo status quo, fornendo una valvola di sfogo al malcontento.

Alla prima categoria è riconducibile il golpe ucraino del 2014 o l’attuale tentativo angloamericano di rovesciare il governo macedone di Nikola Gruevski: tramite siti d’informazione, blog e microblog si organizzano manifestazioni e proteste contro l’esecutivo in carica, accusandolo normalmente di corruzione, brogli elettorali e repressione dei dissidenti (stranamente nessuna protesta è mai scoppiata nel Regno Unito contro l’infamante piaga delle pedofilia che da sempre affligge la BBC e Westminister37). La protesta ha la tendenza a fallire perché l’apparato di sicurezza, fedele al governo, reprime i disordini: occorrono quindi attentati falsa bandiera di grande impatto mediatico, come l’impiego di cecchini o attentati dinamitardi, per conseguire il risultato.

Il secondo caso è quello della Tunisia o dell’Egitto del 2011: fantomatici blogger incitano alla rivolta con l’ausilio della rete Otpor!/CANVAS, il movimento di protesta si evolve in un’aperta disobbedienza alle istituzioni, le forze di sicurezza fedeli agli USA non reprimono i disordini, ed il cambio di regime si conclude con un limitato spargimento di sangue e la fuga del premier.

Il terzo caso è invece quello del Movimento 5 Stelle che, dopo aver dato ottimi risultati Italia, è riprodotto perfino negli Stati Uniti attraverso il movimento Occupy Wall Street, finanziato dal miliardario George Soros, come ammesso dall’agenzia Reuters nell’ottobre del 2011 prima di ritrattare rapidamente38.

Scrive infatti il fondatore di Occupy Wall Street, il trentenne Micah White, sul blog di Grillo39:

Al momento il M5S è il più importante movimento sociale al mondoSiete voi che ci state mostrando la strade dove andare, la direzione. E adesso vi voglio spiegare perché il vostro movimento è così importante. Noi siamo come il popolo eletto, siamo i prescelti, i prescelti per creare una nuova realtà. Ci troviamo davanti a tre grosse sfide, che hanno bisogno di soluzioni urgenti.

Sia in Italia, colonia americana sin dal 1945, che, a maggior ragione negli USA, non c’è nessuna volontà di rovesciare l’establishment né di metterlo in discussione: come le rivoluzioni colorate di Ucraina, Georgia o Libia, si agisce sì sul malcontento e sulla frustrazione della popolazione per organizzare manifestazioni e occupazioni di luoghi pubblici, ma lo scopo è offrire una valvola di sfogo, impedendo che l’accumularsi della tensione esploda in autentici disordini o moti di piazza contro la classe dirigente.

Da quando l’Italia è precipitata nella depressione economica, l’unica genuina ed autentica protesta è stata quella dei Forconi, commercianti e piccoli imprenditori piegati dalla crisi, non a caso ignorati o disprezzati dai media, messi in quarantena dal M5S40 e duramente repressi dalle autorità giudiziarie41.

Il Movimento 5 Stelle ha quindi il compito, in una prima fase, di catalizzare la protesta esacerbando i toni, e poi, superate le scadenze elettorali decisive, sterilizzare i voti raccolti, lasciando ai partiti d’establishment la possibilità di governare indisturbati, autonomamente o in coalizione se necessario.

Il sito Beppegrillo.it e M5S fa proprie le tematiche più impellenti per l’elettorato e più scottanti per la UE/NATO (l’ostilità verso la moneta unica, il rifiuto alle installazioni militari americani, l’impopolarità delle sanzioni alla Russia, lo sdegno per la responsabilità degli angloamericani nel golpe ucraino, etc.) ma poi le castra, proponendo soluzioni irrealistiche o limitandosi a qualche innocua invettiva (il referendum sull’euro cui la nostra Costituzione non riconoscerebbe nessun valore, l’esultanza per la sentenza per il provvedimento della procura di Caltagirone con cui è stato sospeso il MOUS, generiche indignazioni contro la rivoluzione colorata ucraina, etc. etc.).

Ripercorriamo la breve parabola del M5S per dimostrare la nostra tesi.

Nell’autunno del 2012 imperversa la campagna elettorale per le imminenti politiche, dove, tra l’altro, l’apparato del PD è riuscito a bloccare l’Opa ostile di Matteo Renzi, cavallo di Troia degli americani, presentando Pierluigi Bersani come candidato premier.

Il duo Casaleggio-Grillo alza al massimo i toni dello scontro, non perché voglia espugnare i palazzi romani con la forza e mettere in discussione il sistema, ma perché deve risucchiare tutto il voto di protesta: è la fase dei “giornalisti carogne”, “se va avanti così ci sarà una rivoluzione violenta”, “il sistema sta collassando”, “la rivoluzione è iniziata” etc. etc..

L’imponente tsunami tour che porta Grillo in 87 città, e di cui manca qualsiasi rendicontazione sui costi e sulle fonti di finanziamento42, è un grande successo di piazza. Il 25 febbraio 2013, prima ancora che le urne siano chiuse, sul sito OpenDemocracy finanziato da George Soros si può leggere43:

There is no telling what the outcome of today’s remarkably uncertain Italian elections will be. But the real story might just be Beppe Grillo’s Movimento 5 Stelle, which could become the third political force in the country, and set a model for others in Europe to follow.

La profezia di Soros è corretta, perché M5S, raccogliendo il 25% delle preferenze, si afferma come la terza forza del Paese, dietro alle coalizioni guidate da Pierluigi Bersani e Silvio Berlusconi.

A questo punto scatta la seconda fase della strategia per cui M5S è stato studiato, ovvero la sterilizzazione del voto di protesta: entrati in Parlamento, i grillini bocciano qualsiasi tipo di alleanza in Parlamento, bollato come “inciucio”, condannando così all’irrilevanza gli 8 mln di voti raccolti.

Il problema che si pone per gli angloamericani è ora quello di sbarazzarsi di Pierluigi Bersani, portando Matteo Renzi prima alla segretaria del PD e poi a Palazzo Chigi.

A inizio di aprile 2013, in vista delle elezioni del nuovo presidente della repubblica, Gianroberto Casaleggio e Beppe Grillo si recano in pellegrinaggio all’ambasciata inglese per discutere sulle votazioni del nuovo presidente della Repubblica44.

È significativo che gli inglesi propongano loro la riconferma di Giorgio Napolitano: il loro obbiettivo è infatti bloccare ad ogni costo l’elezione di Romano Prodi, considerato anti-americano e filo-russo, assestando così un colpo definitivo anche a Pierluigi Bersani. Grillo si adegua, dichiarando che i suoi parlamentari non voteranno mai il professore bolognese45, mentre Matteo Renzi coalizza i famosi 101 parlamentari che affossano Prodi46: l’effetto domino non riserva sorprese e cadono prima Bersani e poi il premier Letta. L’americano Matteo Renzi è finalmente a Palazzo Chigi e può recitare un simpatico teatrino con il sodale Beppe Grillo, quando si incontrano tête-à-tête nel febbraio del 2014.

Siamo nella primavera del 2014 e si avvicinano le fondamentali elezioni europee di maggio, importanti non perché si decide la composizione dell’inutile Parlamento europeo, ma perché servono a dare un’investitura pseudo-democratica a Matteo Renzi, il cui ultimo vaglio elettorale risale alle comunali di Firenze del 2009.

Grillo riveste i panni dell’agitatore blanquista, coadiuvato dai sondaggi falsati e dai media che danno il M5S ad un soffio dal PD o addirittura in testa47: urlando come un ossesso “Siamo il primo partito! Siamo al 60%! Chiederemo le dimissioni di Napolitano e vinceremo le politiche!”, Grillo spinge il voto moderato, allarmato da una vittoria del M5S, verso il PD di Renzi. È la celebre vittoria del 40%, stranamente sfuggita a qualsiasi sondaggista, che consente a Renzi di presentarsi come il trionfatore delle europee, celebrato da tutti i media di regime (“Si legge PD, si scrive DC”48, “Con Renzi ha vinto il partito della Nazione”49).

Arriviamo all’autunno del 2014: malauguratamente per Renzi, ma soprattutto per 60 mln di italiani, le ricette della Troika si confermano fallimentari, il terzo trimestre del 2014 si chiude con un PIL a -0,1% rispetto all’anno precedente e ci si avvia verso l’ennesima stagione di recessione, con un PIL a -0,4% su base annua50.

La congiuntura economica dovrebbe fornire l’assist decisivo a Beppe Grillo: la cura della BCE-UE-FMI ha precipitato l’Italia nella depressione economica, Renzi ha fallito nell’impresa di rivitalizzare l’economia, la disoccupazione continua a crescere e il malcontento pure… È tempo di assestare il colpo decisivo al governo e scatenare quella “rivoluzione araba” promessa nel 201351.

Invece Giuseppe Piero Grillo che fa?

Sostiene di essere “un po’ stanchino, come direbbe Forrest Gump”52 e, tra lo sconcerto della base, passa la palla ad un direttorio di cinque parlamentari del M5S, sotto l’occhio vigile della Casaleggio Associati. Adieu, révolution!

Da allora, ghiottissime occasioni per mandare al tappeto le fatiscenti istituzioni della Repubblica italiana scorrono placidamente sotto i ponti (perché M5S non organizza un oceanico Vaffanculo-day in Piazza del Popolo contro Mafia Capitale? Misteri d’Italia).

In cambio, l’establishment euro-atlantico, lo stesso che marchia i video della Casaleggio Associati coll’occhio divino nel triangolo irradiato, prepara l’ennesima mostruosa trasformazione del M5S, questa volta in partito di governo da sostituire/affiancare al già fuso PD di Matteo Renzi.

Sull’americana La Stampa del 3 giugno si legge l’articolo53 “D’Alimonte: l’anti Renzi non può essere Salvini. Il politologo: con l’Italicum sarebbe più favorito Di Maio”.

Stanno apparecchiando un governo Renzi-Di Maio per tenerci agganciati alla UE?

P.S.: non ce ne vogliano i grillini per il nostro articolo. A noi interessa solo la verità. Per il resto, chioserebbe Gianroberto Casaleggio con un equivocabile motto massonico54, “honi soit qui mal y pense”.

 

 

1https://www.youtube.com/watch?v=OTE_Eshm2xw

2La altre Gladio, Giacomo Pacini, Einaudi Storia, 2014, pag. 275

3http://www.lastampa.it/2012/08/29/italia/cronache/cosi-intervenni-per-spezzare-il-legame-tra-usa-e-mani-pulite-tTSX3uC51vAtqfACDDKGUI/pagina.html

4http://www.italiaoggi.it/giornali/dettaglio_giornali.asp?preview=false&accessMode=FA&id=1617080&codiciTestate=1

5http://www.ilgiornale.it/news/usa-007-e-seychelles-lato-oscuro-pietro.html

6http://www.liberoquotidiano.it/news/libero-pensiero/936673/Facci-racconta-Mani-Pulite–cosi.html

7http://www.ilgiornale.it/news/interni/tonino-pendolare-stati-uniti-quattro-viaggi-avvolti-nel-833406.html

8http://www.liberoquotidiano.it/news/politica/11619935/Quando-Casaleggio-lavorava-al-ministero-con.html

9http://www.liberoquotidiano.it/news/politica/11619935/Quando-Casaleggio-lavorava-al-ministero-con.html

10Il Golpe Inglese, Mario José Cereghino e Giovanni Fasanella, Chiare Lettere, 2011, pag. 58

11http://spazioinwind.libero.it/gburrini/arch2002/olivetti.html

12http://archivio.panorama.it/news/politica/Gianroberto-Casaleggio-l-uomo-che-ha-inventato-Grillo

13http://www.panorama.it/news/politica/gianroberto-casaleggio-massoneria/

14http://www.auditorium.com/download/download/?file_id=5767123

15http://archiviostorico.corriere.it/1993/giugno/09/NUOVO_PIGNONE_ceduta_entro_anno_co_0_93060910298.shtml

16http://www.01net.it/il-45-di-logicasiel-a-olivetti-che-lancia-webegg/

17http://www.marketpress.info/notiziario.php?g=20000223

18http://www.01net.it/logicasiel-neon-alleanza-per-il-middleware/

19http://www.avweb.com/news/profiles/182463-1.html

20http://www.affaritaliani.it/politica/casaleggio-ecco-il-guru-che-ha-creato250512.html

21https://www.telecomitalia.com/content/dam/telecomitalia/it/archivio/documenti/Investitori/AGM_e_assemblee/2005/Olivetti-2001-bilancio.pdf

22http://www.valuepartners.com/downloads/PDF_Comunicati/scrivono%20di%20noi/2004/rep_040615_computerworld_acquisizione.pdf

23https://www.youtube.com/watch?v=_KOR4EmTouU

24http://www.theguardian.com/world/2004/nov/26/ukraine.usa

25http://www.blitzquotidiano.it/politica-italiana/chi-e-gianroberto-casaleggio-influencer-beppe-grillo-1339710/

26https://www.youtube.com/watch?v=mRhqllCLjss

27http://mag.corriereal.info/wordpress/?p=20432

28https://it.linkedin.com/in/rapetto

29http://www.faisalhoque.com/pdf/NetForum1104.pdf

30http://www.ilfattoquotidiano.it/wp-content/uploads/2013/05/AA-CASALEGGIO-ASSOCIATI-6626519-Bilancio-Ottico.pdf

31http://www.unita.it/italia/m5s-di-pietro-casaleggio-grillo-web-grillini-guru-movimento-cinquestelle-italia-valori-idv-pm-blog–1.506600

32https://www.youtube.com/watch?v=HsJLRX-nK4w

34http://www.beppegrillo.it/2005/12/radio_londra.html

35http://www.lastampa.it/rw/Pub/Prod/PDF/4aprile2008.pdf

36http://www.forbes.com/2009/01/29/web-celebrities-internet-technology-webceleb09_0129_land.html

37http://www.corriere.it/esteri/14_luglio_05/scandalo-pedofilia-westminster-mistero-dossier-scomparso-10033346-042a-11e4-80b4-bb0447b18f3b.shtml

38http://www.corriere.it/esteri/14_luglio_05/scandalo-pedofilia-westminster-mistero-dossier-scomparso-10033346-042a-11e4-80b4-bb0447b18f3b.shtml

39http://www.beppegrillo.it/2013/12/oltre_-_v3day_micah_white_e_la_solidarieta_globale.html

40http://www.ilpost.it/2013/12/11/morra-m5s-forconi/

41http://www.adnkronos.com/fatti/cronaca/2015/01/13/forconi-blocchi-nel-torinese-processo-nel_4M2G8WINwgJAiHoP6K1OtN.html

42http://www.panorama.it/news/politica/grillo-il-rendiconto-dello-tsunami-tour-e-falso/

43https://www.opendemocracy.net/jamie-bartlett/beppe-grillos-five-star-revolution

44http://www.secoloditalia.it/2014/05/gli-strani-incontri-di-casaleggio-e-grillo-allambasciata-inglese-con-letta-che-pranzava-al-piano-di-sotto/

45http://www.lastampa.it/2013/04/19/italia/speciali/elezione-presidente-repubblica-2013/grillo-votare-prodi-non-esiste-DWxYl9vvEDtafqaw205gaP/pagina.html

46http://www.ilgiornale.it/news/politica/fassina-accusa-renzi-era-capo-dei-101-che-fecero-fuori-prodi-1085115.html

47http://www.repubblica.it/speciali/politica/elezioni-europee2014/2014/05/26/news/sondaggi_flop_europee-87221057/

48http://espresso.repubblica.it/palazzo/2014/05/26/news/si-scrive-pd-si-legge-dc-1.166704

49http://www.unita.it/politica/elezioni-2014/voto-renzi-vinto-partito-nazione-evento-italia-europa-argine-garanzia-sinistra-grillo-protesta-stato-1.572042

50http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-11-14/istat-pil-01percento-iii-trimestre-04percento-2013-economia-italiana-ai-livelli-2000-100100.shtml?uuid=AB5wcqDC

51http://www.giornalettismo.com/archives/869691/la-primavera-araba-di-beppe-grillo/

52http://www.corriere.it/politica/14_novembre_28/grillo-io-blog-non-bastiamo-piu-nomina-cinque-vice-voto-rete-f65f46e8-76e6-11e4-90d4-0eff89180b47.shtml

53http://www.lastampa.it/2015/06/03/italia/politica/dalimonte-salvini-non-pu-essere-lanti-renzi-e73xzRtvBnEkSZwO11X0jN/pagina.html

54http://www.beppegrillo.it/2012/05/honi_soit_qui_mal_y_pense.html

 

SIRIAN CONNECTIONS : LA PACE AVANZA IN SEGRETO: ISRAELE TEME I RUSSI E GLI USA LA TURCHIA. di Antonio de Martini

un articolo di Antonio de Martini, uno dei maggiori esperti italiani del mondo arabo e di questioni mediorientali, tratto da il corrieredellacollera.com

Con la ripresa del controllo di Palmira da parte delle truppe lealiste, la situazione, se non fosse tragicamente sanguinosa, giunge al culmine della comicità. L’ennesimo comandante americano in tour assieme ai giornalisti  – Joseph L.Votel,  sembra un sosia del comico Jerry Lewis ed è il capo dell’US central Command – aveva appena dichiarato ai reporter del suo seguito di voler aumentare i mezzi USA in zona per liberare Palmira con una frase cui siamo ormai abituati: ” that’s an option”.L’ha pronunziata con tanta convinzione da indurre l’inviato del New York Times, Michel L. Gordon,  a riferirla virgolettata.

La settimana dopo, le truppe siriane riprendevano Palmira ( Tadmor in arabo) e iniziavano i lavori di sminamento come annunziato dal portavoce del Cremlino Dimitri Peskov.

Nel frattempo, Tom Perry della Reuters da Amman rivelava che sul fronte occidentale ( l’area che va dal confine giordano al Giabal Druso e confina con Israele) la CIA aveva sospeso addestramento , salari ai combattenti e rifornimento di munizioni anche ai ribelli del FSA ( Free Sirian Army), ossia alla fazione più vicina agli USA ed ai suoi interessi.

Sul fronte orientale ( confine Siria-Turchia e costa attorno ad Aleppo) la situazione è al calor bianco.

Dopo la conquista della cittadina di Al Bab, strappata al Daesch grazie a una azione congiunta ribelli del FSA, truppe turche e osservatori USA che hanno fornito appoggio aereo, il fronte unitario si è sfilacciato di fronte al rifiuto turco di accettare che l’YPG ( milizie curde appoggiate da Israele) vengano riforniti ad integrazione degli evidentemente sparuti ribelli del FSA.

Non solo, approfittando della loro presenza  in territorio siriano, i turchi, per bocca del ministro degli esteri  Mevlut Cavusoglu hanno inviato un ultimatum : se entro 48 ore l’YPG non avesse evacuato la città di frontiera di Minbej, avrebbero provveduto le truppe turche.

A questa dichiarazione, ha replicato il Consiglio Militare di Minbej ( che fa parte del FDS, Fronte Democratico Siriano) di aver raggiunto un accordo, mediato dai russi, che le truppe regolari siriane verranno accettate e si interporranno lungo l’intera frontiera vanificando così l’operazione ” Scudo sull’Eufrate” ideata dai turchi e mostrando chiaramente di preferire il regime di Assad piuttosto che una occupazione turco-americana.

La sorpresa è stata totale: che Assad si fidasse dei russi si sapeva da un pezzo. Che i ribelli del FSA ed il loro organo politico FDS preferissero la mediazione russa e la protezione delle truppe siriane a quella NATO rappresentata dai turco-americani, è veramente dura da digerire.

Naturalmente, anche nelle cose illogiche la logica c’é.

La Siria continua a disporre con intelligente parsimonia delle proprie truppe. Ha ripreso Palmira infliggendo un duro colpo ai banditi del Daesch che avevano abbandonato il campo dopo aver minato fino all’inverosimile la zona archeologica. Lo aveva saputo anche il generale americano e voleva fare una bella rentrée in territorio siriano, ma è stato preceduto da Assad.

La interruzione dei rifornimenti ( e degli stipendi) sul fronte nord, è stata ufficialmente attribuita al rifiuto delle varie milizie all’unificazione, ma non è vero. Il fronte nord, come abbiamo visto, è ben più frazionato e addirittura in lotta con le altre milizie che si dicono alternative a Assad.

La realtà è ben più consolante:in tutta la zona frontaliera con Israele le armi devono tacere. La Siria ha annunziato ufficialmente che vuole riconquistare quel territorio ed ha ammonito ( dopo cinque anni di incursioni subite in silenzio) Israele a non interferire.  Ora la Siria ha ripreso Aleppo, svincolando altre truppe ed ha al suo fianco un alleato impegnato militarmente. Ecco un altra area in cui si apre uno spazio di mediazione per la Russia e questa scelta è stata certamente negoziata in segreto.

La chiave per giungere alla pace, per ora,  è a Ginevra , dove l’ HCN ( alto comitato negoziale, legato agli USA) sta sabotando i negoziati di pace con i gruppi di lavoro di Mosca e del Cairo  dove stanno negoziando le sigle della rivolta che sono più in contatto con la Russia.

Resta l’ostacolo reale del fronte nord dove la Turchia non vuole rinunziare a schiacciare i curdi e gli USA che li hanno già abbandonati due volte in Irak, non se la sentono di farlo per la terza volta. Ma è una brutta figura che vale l’alleanza della Turchia.

Altro indizio che la pace sia segretamente in cammino è dato dall OSCH, la strana organizzazione del signor Abdelrahman ( marito della prof del caso Regeni?)che , giunto a cinquecentomila vittime della guerra, ha iniziato a scendere. Ieri era tornato a quattrocentomila. Buon segno.

Una chiosa di Massimo Morigi a “NATURA MORTA”

Nella “Natura morta (Prima parte)” di Giuseppe Germinario assieme alla esemplare definizione – se mai ce ne fosse ancora bisogno – della natura di parvenu della politica dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi e alla descrizione dello spappolamento dello scenario politico italiano che ha consentito che un tal personaggio, unicamente dotato di prontezza ferina di riflessi ma senza alcun spessore umano e politico, abbia potuto arrivare così lontano, emerge anche un dato di fondo che consente anche riflessioni sulla attuale involuzione dei sistemi politici retti dalle cosiddette democrazie rappresentative. E questo dato di fondo è che non solo in Italia, ma in tutti i paesi del perimetro di queste democrazie, quello che è sempre più solarmente evidente – e si cerca di nascondere con tutti i mezzi della propaganda per le masse e della dottrina politica per le classi meno indòtte della popolazione – é che il concetto di politica visto come rappresentanza/rappresentazione dei vari strati e diversificati strati della popolazione non sta letteralmente più in piedi. Non sta in piedi in primo luogo perché si è visto bene che le democrazie non riescono de facto a dare rappresentanza/rappresentazione armonica della società ma solo di coloro che in virtù della loro posizione privilegiata potrebbero benissimo fare a meno di delegare un ceto politico per avere una rappresentanza/rappresentazione parlamentare-teatrale dei loro desiderata e se lo fanno lo fanno solo perché così la realtà vera dei rapporti di forza viene meglio mascherata e, in secondo luogo, non sta nemmeno in piedi dal punto di vista scientifico perché ormai dopo un più che secolare rimbambimento ingenerato dalla scienza politica liberal-liberista dovrebbe, anche al più stolto cultore di scienze politiche e/o filosofico-politiche, risultare del tutto evidente che la politica non è rappresentanza/rappresentazione di qualcos’altro ma non è altro che un episodio del morfogenetico conflitto espressivo della società. Che poi la politica dei paesi nel perimetro liberaldemocratico possa assumere la Gestalt della rappresentanza/rappresentazione politico-teatrale, non contraddice la natura intimamente conflittuale della politica ma non è altro che una sua “astuzia” per coprire questa natura e rendere perciò lo scontro ancora più efficace. Frank Ankersmit con il suo “Political Represention” è il massimo esponente di questa farlocca visione teatrale della politica e Matteo Renzi, pur probabilmente non conoscendone nemmeno l’esistenza, è con la sua postmoderna “narrazione”, senza possibilità di smentita, il massimo interprete della dottrina di questo professore olandese. Ma ciò, come ben sappiamo, non è il problema: il problema non è cioè Renzi ma una politica in Italia e all’estero e, ugualmente, le relative conoscenze teoriche sulla stessa, che sono tutte da rifondare buttando a mare il concetto che la politica sia una specie di rappresentazione di marionette (in effetti, sotto un certo punto di vista lo è, lo è, cioè, per coloro che credono nella visione teatrale della politica), dove quello che conta, in ultima istanza, sono le leggi eterne dell’economia, indiscusse ed indiscutibili (e, in effetti, l’economia riveste un grandissimo ruolo ma non perché questa sia l’espressione di leggi eterne ma perché l’economia non è altro che un episodio, come la politica del resto, dello scontro all’interno fra le classi egemoni e di queste classi egemoni contro le classi sottomesse). Nell’articolo di Germinario viene riferito di un Orlando in cerca anche di nuove categorie di pensiero. Se sia coloro che rimangono dentro il PD in posizione falsamente critica che coloro che ne escono cercheranno, come è sicuro, con un tardo e poco creativo ricalco della visione Ankersmitiana rappresentativo-parlamentar-teatrale, queste categorie in un stupido ed irriflessivo rifiuto delle “narrazioni” renziane (rifiutino, cioè, il postmodernismo narrativo di Renzi per un “sano” ritorno alle vecchie retoriche della sinistra), costoro avrebbero potuto darsi anche meno pena. Se, come invece di tutta evidenza, il loro scopo è stato quello di meglio rappresentare il loro guicciardiniano “particolare” (ottenere una parte più o meno da comprimari nel futuro parlamento-teatro), lo sforzo sarà valso lo sputtanamento di aver combattuto il segretario del partito senza alcun apparentemente valido motivo di fondo. E a questo punto dobbiamo veramente rivalutare Ankersmit e le sue (apparentemente ma anche realmente) svianti elucubrazioni teatrali.
Massimo Morigi – 27 febbraio 2017

NATURA MORTA (1a parte), di Giuseppe Germinario

Tra i dirigenti del PD il più consapevole dell’attuale condizione della classe dirigente, in particolare quella del proprio partito, è apparso Andrea Orlando, attuale Ministro della Giustizia  (http://www.partitodemocratico.it/partito/lintervento-andrea-orlando-4/  – dal 3° al 5° minuto). Nel suo intervento all’Assemblea Nazionale del 19 scorso ha giustificato il distruttivo livello di conflittualità e la personalizzazione dello scontro nel partito con la divaricazione crescente tra le categorie concettuali interpretative della realtà adottate e la realtà stessa nonché con la totale assenza, diversamente da Stati Uniti e Germania, di idonei luoghi di riflessione sulle strategie politiche da adottare. Una constatazione banale ma non scontata su una condizione che al momento sta investendo clamorosamente il Partito Democratico ma che non tarderà ad aggredire le altre forze politiche, compresa la Lega e con la parziale probabile eccezione almeno temporanea del M5S, man mano che ci si avvicinerà alle prossime inderogabili scadenze politiche; al netto di per altro consuete operazioni di trasformismo, tanto più costose per la credibilità dei protagonisti quanto più radicali sono le opzioni politiche presenti sul campo.

Uno smarrimento che deve aver colto persino un iperdecisionista, stando almeno alla sua persistente maschera, come Matteo Renzi, spinto ciò non ostante ad anticipare il suo consueto pellegrinaggio estivo in California.  Ha motivato il suo viaggio improvviso come una necessaria vacanza e un indispensabile momento di depurazione; successivamente lo ha giustificato come un momento di apprendimento di brillanti politiche di sviluppo da mutuare nel proprio paese. Si spera che la sua non sia la tardiva acculturazione e l’infatuazione di un neofita, di un parvenu pronto a mutuare pedissequamente da quel paese le politiche liberal/liberiste un po’ come i futuristi italiani negli anni ’20/’30 fantasticavano su un mondo futuro che scoprirono con meraviglia nei loro viaggi già esistere negli Stati Uniti di quegli anni.

Una impronta che si sta invece confermando; attuazione in realtà di narrazioni piuttosto che di politiche economiche concrete di quel paese, perfettamente in linea con quanto fatto dalla nostra classe dirigente degli ultimi trenta anni. Narrazioni le quali omettono accuratamente il presupposto fondamentale del successo di quelle politiche liberiste: la detenzione di quella potenza e di quella egemonia necessarie che gli Stati Uniti stanno relativamente perdendo ed esercitate sì anche dal nostro paese, ma non meno di duemila anni fa e mai più riacquisite.

Il motivo reale del viaggio sembra in realtà essere molto più prosaico e purtroppo in linea con le propensioni della quasi totalità della nostra classe dirigente; si tratta di chiedere lumi e direttive.

Gli incontri in corso non escono però dalla ristretta cerchia delle abituali frequentazioni americane sino ad ora coltivate; sono esattamente le stesse di questi ultimi quattro anni. Tanto furbo e baldanzoso, il nostro continua imperterrito a prestare ascolto a chi lo ha mandato o istigato allo sbaraglio, facendosi pagare profumatamente alcuni di essi per di più le improvvide consulenze; con grave sfregio dei principi di meritocrazia, neppure uno sconto legato ai deludenti risultati conseguiti.

Eppure qualcosa è con ogni evidenza cambiato ultimamente negli Stati Uniti e un vero leader dovrebbe saper cogliere ed approfittare delle eventuali opportunità offerte da un nuovo corso politico.

Al momento della stesura dell’articolo il viaggio dell’ex premier non è ancora terminato; rimane ancora qualche spiraglio, ma tutto sta per concludersi con ogni evidenza all’interno del cerchio tradizionale degli habituè.

Il nostro in verità ci ha abituati a dosi insolite, a volte eccessive, di spregiudicatezza, del tutto inusuali nel gruppo dirigente così compassato ed ingessato del suo partito.

Mentre D’Alema, tanto per citare il più importante, ha circoscritto il proprio sodalizio alla famiglia Clinton e attraverso questa ha potuto tessere altre relazioni in quel paese e costruirsi un futuro con la propria fondazione e il proprio think-thank, Renzi, in questo facilitato dall’assenza di retaggi ingombranti legati al passato comunista, ha potuto coltivare anche ambienti americani neocon. Lo stretto sodalizio consolidatosi attorno alla presidenza Obama tra la sinistra dei diritti umani e la destra neoconservatrice interventista, esportatrice di democrazia gli ha offerto le chiavi, ma lui non ha esitato ad aprire le porte lasciate socchiuse da quei circoli americani.

L’eventuale protrarsi della Presidenza Trump, ma su linee coerenti con le intenzioni programmatiche, rischia di logorare o far saltare quel sodalizio così nefasto per il genere umano ma così propedeutico alle carriere politiche nostrane.

Purtroppo per lui, Renzi è stato l’unico statista europeo rimasto impigliato al carro dell’Imperatore Obama sino alla fine del mandato in attesa che salisse la Presidenta (mi scuso per l’omaggio alla sintassi boldriniana) predestinata; un destino beffardo gli ha assegnato il posto di unico apostolo al desco della sua ultima cena.

Mal gliene incolse! Da allora quelli che parevano occasionali incidenti su di un sentiero luminoso si sono trasformati in disastri tali da compromettere la marcia trionfale.

La stella di Renzi ha ormai oltrepassato il proprio azimut e la sua parabola volge ormai verso la fase discendente.

Si è imposto a ragione l’obbiettivo fondamentale di modernizzare e razionalizzare il sistema politico, istituzionale ed amministrativo del paese; è partito acquisendo una base di consenso all’interno del partito intorno al 30% e coagulando un altro 50% di forze lottizzate, espressione di interessi ed esperienze locali, dallo scarso respiro nazionale; ha raccolto in pratica e confezionato i frutti avvelenati della riorganizzazione del partito avviata da Veltroni e Bersani (http://italiaeilmondo.com/2017/02/26/lassemblea-programmatica-del-pd-del-45-febbraio-2011-di-giuseppe-germinario/   http://italiaeilmondo.com/2017/02/26/dal-lingotto1-al-lingotto2_-dai-sussulti-ai-singulti-di-giuseppe-germinario-31-01-2011/ ) . Nel frattempo non è riuscito a coagulare il consenso necessario a dar forza al suo programma e l’adesione di quei centri di potere potenzialmente più disponibili alle riforme in grado di garantire più coerenza al progetto. Non gli è rimasto ben presto che giostrare con le forze in campo sino a rimanere vittima delle proprie stesse trame; sino a mettere a nudo l’origine stessa della propria investitura, non molto diversa dall’avvento del podestà straniero Mario Monti.

La forza e il successo di un programma di riorganizzazione di un sistema deriva dalla capacità di un leader e di una classe dirigente di renderlo funzionale ad una prospettiva di autorevolezza e di sviluppo tale da mobilitare energie sufficienti preparate e determinate. Renzi al contrario ha ritenuto che la riorganizzazione “motu proprio” avrebbe innescato la dinamica di efficienza della macchina istituzionale e di sviluppo dell’economia; un impulso tutt’al più coadiuvato da un programma di sostanziale liberalizzazione del mercato del lavoro, di distribuzione impersonale di incentivi, di ulteriori privatizzazioni e collocamenti azionari esteri che avrebbero liberato le virtù intrinseche di sviluppo economico del mercato.

In realtà l’economia tende ancora a ristagnare, il mercato del lavoro più che ridurre ha modificato le caratteristiche del proprio precariato. Nei vari comparti economici i provvedimenti hanno effettivamente avviato, al prezzo di un drastico ridimensionamento dell’apparato industriale, un processo di razionalizzazione e di parziale ammodernamento ma con il drammatico risultato della ulteriore perdita di controllo dei gruppi industriali strategici e di maggiore dimensione e con il rafforzamento relativo di settori marginali o complementari nella catena di valore internazionale. Così facendo ha ulteriormente indebolito proprio quei “poteri forti” dei quali avrebbe bisogno per dare forza ad un vero programma di rinascita nazionale.

Un peccato originale che riduce ad una rappresentazione macchiettistica il suo proposito di “partito della nazione”. Sacrifica la condizione di alcune categorie arroccate nella difesa fine a se stessa di diritti e prerogative in nome di una visione apparentemente astratta del bene comune e dei meccanismi “naturali” tesi a garantirlo.

Fallisce così il proposito di conquistare i voti del centrodestra, conservando l’essenziale dei voti del centrosinistra; il conflitto aperto in sede europea con la Germania si riduce a schermaglie verbali centrate su pochi decimali di deficit da destinare a spese improduttive e di redistribuzione assistenziale di risorse con il risultato di ricondurre puntualmente la conflittualità latente tra gli stati europei nella logica di controllo della potenza egemone americana.

Il risultato è l’isolamento politico in Europa compensato dall’ulteriore subordinazione all’alleato d’oltreatlantico ma senza le coperture che la Presidenza Obama pareva disposto a concedere al nostro; una struttura economica e finanziaria ormai terreno di conquista dei tre principali paesi del mondo occidentale componenti dell’Alleanza Atlantica; un leader politico sempre teso a strappare voti e consensi nel campo berlusconiano ma per garantirsi la mera sopravvivenza piuttosto che la fondazione di un grande partito maggioritario.

La scissione controvoglia della sinistra clintoniana del PD, pronta per altro a rientrare una volta regolato il contenzioso con l’intruso, apre lo spazio a numerose opzioni e contribuisce a rimettere in campo politici ormai da tempo sulla via del tramonto, a destra come a sinistra; mette a nudo tatticismi sterili e povertà di proposta politica addirittura maggiori rispetto a quanto espresso dal segretario dimissionario del PD.

Di questo si tratterà nella seconda parte dell’articolo.

Renzi, al contrario, corre seri rischi di sparire dalla scena politica soffocato nelle spire dell’attuale paralisi istituzionale.

Una volta liberatosi in parte della propria fronda interna, ha tuttavia diverse frecce ancora a disposizione del proprio trasformismo teso a rilanciare il suo nazionalismo verbale di facciata ed il suo efficientismo apparentemente fine a se stesso, magari torcendo a proprio profitto il consenso raccolto dai dissidenti. Un trasformismo evidenziato e reso inevitabile dalla totale assenza di analisi delle cause della sconfitta referendaria che non vada oltre la consueta giustificazione legata ai difetti di comunicazione del messaggio.

Una possibile resurrezione a patto però che si realizzino due condizioni:

  • che riesca a controllare la propria indole e trarre frutto dall’esperienza;
  • che a livello internazionale l’anomalia della Presidenza Trump sia ricondotta in qualche maniera nell’alveo del tradizionale scontro e della discreta collusione tra democratici e neoconservatori americani

Il prossimo rientro di Renzi ci offrirà qualche indizio sui prossimi passi da cogliere una volta caduta definitivamente la maschera delle elezioni anticipate; l’esito delle elezioni francesi aprirà le danze a corte e consentirà di cogliere più chiaramente i ruoli degli attori e la posta in palio anche qui in Italia. Sarà, probabilmente, la raccomandazione più accorata che il vecchio establishment americano, restio ad abbandonare più che la scena le leve dello stato profondo, deve aver suggerito al nostro solerte viaggiatore.

LA TAUMATURGIA DELL’INVESTIMENTO SOCIALE, di Giuseppe Germinario

Riprendo un interessante articolo di Luca Ricolfi apparso su il sole 24 ore del 25 settembre scorso dal titolo “Quando a crescere è il lavoro degli immigrati”, le cui conclusioni hanno provocato a suo tempo in me, devo confessarlo, una certa ripulsa ( http://www.pdmeda.it/pd/2016/09/26/quando-a-crescere-e-il-lavoro-degli-immigrati/ ).
Il testo parte dalla considerazione che il divario tra la pesante situazione occupazionale e la percezione di essa ancora più catastrofica derivi dal dato che la perdita in otto anni di quasi due milioni di posti di lavoro di italiani, i cosiddetti facitori di opinione pubblica è in parte mascherata dall’incremento di ottocentomila occupati tra gli immigrati, estranei alla costruzione mediatica. Il sociologo adduce tre ragioni di queste tendenze divaricanti. La prima è fisiologica, legata alla quota crescente di immigrati stanziati in Italia. Le altre due meritano la citazione integrale:”La seconda ragione è che, durante la crisi, la domanda di lavoro è crollata nelle posizioni ad alta qualificazione (tipicamente ricercate dagli italiani) ed è aumentata sensibilmente in quelle a bassa e bassissima qualificazione (tipicamente accettate dagli stranieri). La terza ragione è più generale, e probabilmente più difficile da riconoscere. Anche se molti si lamentano della situazione e della mancanza di prospettive, la realtà è che la maggior parte degli italiani hanno raggiunto un livello di benessere sufficiente a renderli alquanto “choosy” (copyright Elsa Fornero) nella ricerca di un lavoro. In tanti non cercano semplicemente un lavoro, bensì un lavoro adeguato all’opinione che essi si sono fatti di sé stessi, opinione che scuola e università si incaricano di certificare. L’esatto contrario degli stranieri, che sono disposti ad accettare un lavoro anche al di sotto, molto al di sotto, delle qualificazioni acquisite e certificate.” Da qui il giudizio: “Si può deplorare quanto si vuole questa situazione, e immaginare che quelli degli italiani siano diritti negati, e la condizione degli stranieri sia di puro e bieco sfruttamento (come in effetti talora è: vedi le tante Rosarno, vedi la piaga del lavoro nero). E tuttavia c’è anche un altro modo di raccontare le cose. Gli stranieri immigrati in Italia sono esattamente come noi, solo che vivono in un altro tempo, un tempo che noi abbiamo vissuto negli anni ’50 e ’60, quando il nostro livello di istruzione era più basso e non c’erano genitori e nonni disposti a mantenerci finché trovavamo un lavoro coerente con le nostre aspirazioni. Quanto a noi italiani, è certamente vero che i posti sono pochi, troppo pochi (ce ne mancano circa 6 milioni per diventare un paese appena normale, con un tasso di occupazione in media Ocse), ma purtroppo è anche vero che paghiamo lo scotto di aver liceizzato tutto –scuola e università – senza valutarne le conseguenze. In un paese che, colpevolmente, ha scarso bisogno di laureati e continua ad avere bisogno di innumerevoli competenze tecniche e professionali intermedie, aver svuotato di ogni vero saper fare la maggior parte dei diplomi di scuola secondaria superiore non è stata una grande trovata”; quindi la conclusione:” Forse, l’avanzata occupazionale degli immigrati, con la loro umiltà e determinazione, è anche un silenzioso segnale rivolto a noi, un invito a riflettere sullo scarto fra quel che siamo e quello cui crediamo di avere diritto”.
Si direbbe una salutare immersione nella realtà; dopata però a mio parere da dosi eccessive di senso comune dalle scarse prospettive.
• La crisi ha determinato quindi un crollo nelle posizioni ad alta qualificazione. In realtà il crollo riguarda alcuni paesi, tra questi l’Italia, mentre altri vivono un declino, una riorganizzazione o addirittura una espansione. La crisi, la situazione di rottura, quindi, agisce e produce condizioni e tendenze diverse. Non è la crisi di per sé, ma la condizione di un paese in questa situazione di rottura e transizione e la capacità e l’ambizione della sua classe dirigente a determinare il realismo delle aspettative individuali.

Avviciniamoci dunque al cuore del problema posto da Ricolfi, la schizzinosità (choosy) degli italiani nella ricerca del lavoro. Pur con tutte le tare e le precauzioni da adottare su di un argomento così esposto alla demagogia e al pressapochismo, è indubbio che le dinamiche di sviluppo ed emancipazione del paese degli ultimi trenta/quaranta anni abbiano ingenerato altrettante notevoli aspettative ed aspirazioni individuali, specie in alcune zone e categorie sociali del paese.
Altrettanto vero che tali aspettative siano state alimentate da una concezione della scuola e della università che riduceva spesso e volentieri l’istruzione e la specializzazione ad un sinonimo orientato più verso la prima che la seconda, fermo restando l’indubbio progresso sociale rappresentato da un elevato livello di istruzione.
Le stesse specializzazioni si sono orientate prevalentemente tra l’altro verso ambiti diversi da quelli tecnico-scientifici.
Una combinazione micidiale di orientamenti individuali che hanno distorto pesantemente il mercato del lavoro, spesso sostituito alla professione e alla competenza professionale l’aspirazione all’impiego e concesso prestigio e status a determinati ambiti rivelatisi alla fine pletorici e parassitari.
Da qui l’invito dell’autore a “riflettere sullo scarto fra quel che siamo e quello cui crediamo di avere diritto”.
Si tratta però di un invito che nel migliore dei casi si risolve in un moralismo sterile e inconcludente, giacché una tendenza e un orientamento diffuso se non generalizzato non può essere il mero frutto della sommatoria di scelte individuali. Nel peggiore e purtroppo sempre più corrispondente al clima politico e culturale del paese, non fa che assecondare quel tentativo di salvaguardia della posizione dei ceti intermedi più fortunati nella difesa e preservazione delle proprie prerogative di ceto e di casta le quali stanno bloccando completamente le possibilità di mobilità sociale verso l’alto e soffocando le possibilità di trasformazione e riorganizzazione positiva del paese.
Quegli orientamenti e quelle scelte individuali sono la conseguenza diretta di caratteristiche strutturali del paese e dei suoi ordinamenti che le classi dirigenti succedutesi hanno alimentato e promosso piuttosto che scoraggiato.
A titolo di esempio, l’inflazione di avvocati e commercialisti e il corrispondente alimento di aspettative trova corrispondenza esatta nelle caratteristiche del sistema fiscale e tributario e in quelle del sistema giudiziario e giuridico; una saturazione aggravata dallo scarso peso della grande industria e dal conseguente scarse possibilità di accesso in altri settori di queste professionalità.
L’ambizione all’impiego è solo in parte il riflesso della necessaria natura burocratica delle amministrazioni pubbliche; è soprattutto la conseguenza della particolare e concreta organizzazione burocratica dello Stato Italiano, del suo particolare ordinamento gerarchico, dell’effettivo livello di responsabilità esercitato nelle funzioni, delle procedure di selezione e nomina dei quadri dirigenziali, della sovrapposizione di competenze.
Non siamo giunti però ancora al cuore del problema.
L’errore secondo Ricolfi è “aver liceizzato tutto –scuola e università” “In un paese che, colpevolmente, ha scarso bisogno di laureati e continua ad avere bisogno di innumerevoli competenze tecniche e professionali intermedie”.
Intanto lo stesso autore sembra smentirsi in un altro articolo (http://www.ilsole24ore.com/art/commenti-e-idee/2016-10-16/il-problema-e-difficolta-non-latino-112506.shtml?uuid=ADC45JdB&fromSearch) perché il problema maggiore della scuola italiana sembra essere, secondo me a ragione, la svalutazione della difficoltà nello studio.
Uno studio della Fondazione Edison del 2012, con il direttore Marco Fortis non ancora pervaso dall’ottimismo oltranzistico legato alla sua partecipazione al Governo Renzi, quantificava la necessità insoddisfatta di personale qualificato nel Nord-Italia in poco più di centomila unità. Una cifra attualmente, secondo me sovrastimata, visto che in questi ultimi due anni la crisi sta decimando ormai anche aziende sane dal punto di vista organizzativo e tecnologico. Una cifra comunque certamente importante, della quale tener conto negli indirizzi scolastici, ma sicuramente poco significativa rispetto ai “sei milioni di posti mancanti” necessari a raggiungere un tasso di occupazione paragonabile a quello dei paesi del Nord-Europa.
Del resto, l’esodo che sta colpendo da alcuni anni il paese non riguarda più soltanto i laureati, specie quelli in materie tecnico-scientifiche, ma anche i diplomati, buona parte dei quali trovano collocazione nei settori produttivi-manufatturieri dei paesi ospitanti.
Alla luce di queste ultime due considerazioni l’affermazione finale dell’autore assume un tono particolarmente inquietante se non funereo.
Rappresenta soprattutto il de profundis ad un altro caposaldo delle politiche di sviluppo e di progresso tipiche del sodalizio progressista di questi ultimi decenni: l’investimento sociale.

LA TAUMATURGIA DELL’INVESTIMENTO SOCIALE

Negli ultimi anni l’espressione “INVESTIMENTO SOCIALE” ha assunto il valore taumaturgico di uno slogan. Piuttosto che la spesa sociale ex-post mirante a tappare le falle con criteri assistenziali, piuttosto che la tesi liberista di alleggerimento o soppressione del welfare, ritenuto un mero costo, mirante a ripristinare le condizioni di equilibrio tra domanda e offerta di lavoro, “le politiche sociali andrebbero viste come un investimento che la società mette in campo per garantirsi un miglior ritorno economico e sociale nel futuro” (dal libro di Ranci, Ascoli, Sgrata “Investire nel sociale”); nella fattispecie “la strategia dell’investimento sociale lega, invece, la problematica della disoccupazione innanzitutto alla carenza di adeguate qualificazioni e competenze necessarie per trovare lavoro oggi e in futuro… orientata a privilegiare politiche sociali volte alla crescita del cosiddetto capitale umano” (idem). Politiche, si concede tra i più avveduti, “accompagnate da interventi strutturali”, lungi però questi ultimi da essere definiti nel corso di questi decenni.
Il Governo di Renzi, sostenuto dal suo mentore Gutgeld, è stato il più convinto sostenitore di questo indirizzo. Nell’ambito ad esempio della formazione scolastica, l’autonomia degli istituti scolastici, il ruolo dei finanziatori privati, i progetti di alternanza scuola-lavoro, la riforma dell’apprendistato rientrano coerentemente in questi indirizzi; indirizzi che, a prescindere dal merito e tenuto conto dei necessari tempi di attuazione, immediatamente hanno dovuto scontrarsi con la realtà della struttura produttiva e di servizi del paese.
Così, pochi mesi dopo il varo della legge sono stati aboliti gli obblighi formativi esterni all’azienda degli apprendisti; i casi di alternanza scuola-lavoro sono ancora limitati; l’attenzione del mondo imprenditoriale verso la scuola, in particolare gli istituti tecnici e professionali è “ancora” abbastanza residuale; permane l’enorme problema del ruolo delle scuole tecniche e professionali nelle vaste zone del paese economicamente depresse.
Sono politiche, come pure quelle del job act, mutuate da altri paesi; nel migliore dei casi ignorano il contesto produttivo ed imprenditoriale, nel peggiore ne assecondano le tendenze praticamente ormai irreversibili ad un declassamento “spontaneo” delle strutture produttive nel contesto internazionale.
Si tratta di un contesto profondamente mutato rispetto agli scenari di appena trenta anni fa.
• La grande azienda è praticamente scomparsa e soprattutto è pressoché scomparso il loro controllo strategico. Ne consegue la crescente estraneità degli interessi del paese dalle scelte strategiche delle imprese, dalle pianificazioni di marketing e dalle politiche di innovazioni di prodotto con buona pace della beota euforia per le acquisizioni estere espressa dai vari Renzi e Fassino
• Le stesse aziende capofila delle filiere produttive composte da medie e piccole aziende sono sfuggite anch’esse in gran parte al controllo dell’imprenditoria locale
• La stessa gestione delle reti e della logistica integrata, quest’ultima in via di formazione con anni di ritardo, deve subire profondi condizionamenti esterni e risolvere in diversi casi enormi problemi legati alla frammentazione dell’apparato produttivo
• L’innovazione tecnologica e la miglioria di prodotto, già deficitaria, è in buona parte legata all’iniziativa occasionale interna alle piccole aziende difficilmente trasmissibile nei software indispensabili alla digitalizzazione dei processi
Sono una parte importante dei fattori che subordinano la ricerca e soprattutto il riconoscimento professionale ad altri fattori del tutto estranei.
Arretratezza tecnologica e dei criteri di gestione, struttura proprietaria delle aziende, fuga delle posizioni strategiche, politiche sindacali, specie nelle grandi aziende di servizio, le quali assecondano gli interessi delle grosse concentrazioni di dipendenti piuttosto che la collocazione professionale; tutti aspetti che contribuiscono ad accentuare i processi di precarizzazione già presenti nel mondo del lavoro a livello globale con l’aggravante del disconoscimento massivo delle competenze professionali. Il plus proviene dalla confermata beotitudine di gran parte della nostra classe dirigente, tra questi il nostro “bomba” (Renzi) prontissimo a esaltare il bassissimo livello retributivo dei nostri ingegneri e tecnici e ad avallare ad esempio con le ipotesi di appiattimento delle prestazioni previdenziali a prescindere dalle erogazioni contributive e di reddito di cittadinanza tale disconoscimento.
Si tratta di una classe dirigente che non fa che assecondare le peggiori tendenze prevalenti nel paese e nel mondo imprenditoriale tese a trasformare nel migliore dei casi il nostro apparato produttivo in un opificio e in un cultore di nicchie esposti alla peggiore concorrenza, subordinati alle strategie altrui con scarsissime possibilità, grazie alla cessione degli asset strategici, di partecipare con un qualche ruolo decisionale ai processi di concentrazione ed integrazione. Non si tratta, quindi, di scelte economiche neutre, ma di politiche economiche legate al tipo di collocazione e di autonomia decisionale che una classe dirigente intende subire o scegliere.
Una politica di investimento sociale può essere il giusto corollario di una politica generale minimamente ambiziosa e autonoma; slegata da obbiettivi di recupero delle prerogative di un paese o addirittura complementare e propedeutica a questa politica di subordinazione non fa che alimentare sprechi di risorse, formazione di ceti magari pure colti quanto parassitari, corporativi e istupiditi, formazione di quadri e risorse disponibili per altri paesi e di strutture amministrative autoreferenziali. Una politica storicamente attenta alla redistribuzione ma altrettanto apparentemente indifferente alla modalità e alle finalità di produzione delle risorse. In questo si può racchiudere probabilmente la parabola efficientista di Matteo Renzi.
Le politiche degli ultimi due governi, per ultimo il programma di implementazione di industria 4.0, non fanno altro che sancire irreversibilmente tale tendenza e rendere particolarmente duro e problematico un programma di recupero. Stride il silenzio che circonda un programma così importante. Ne parlerò, appena possibile, in un articolo dedicato.
Per concludere, la chiosa finale dell’articolo di Ricolfi più che una presa d’atto realistica per ripartire, mi pare sia la sanzione complice di una cattiva condizione del paese. Il contributo dell’immigrazione mi pare che si risolva anch’esso in questo. Tanto più che la segnalazione di questi sviluppi occupazionali positivi, nascondono un altro esodo del tutto ignorato; quello di una manodopera immigrata, qualificatasi professionalmente nel corso di questi ultimi lustri nel nostro paese e fuggita all’estero attirata da migliori condizioni.

GEOPOLITICA-SPIETATA ( LUCIDA), ANALISI DI MARCO BERTOLINI

tratto dal sito http://www.congedatifolgore.com/it/geopolitica-spietata-lucida-analisi-di-marco-bertolini/#.WGazcU58Hep.facebook
Mi pare l’ulteriore conferma che nei centri vitali dell’amministazione del paese ci siano personaggi e forze sensibili a un recupero delle prerogative nazionali. Manca una espressione politica che possa dare loro espressione e forza

Pubblicato il 30/12/2016
GEOPOLITICA-SPIETATA ( LUCIDA) ANALISI DI MARCO BERTOLINI
Sicurezza Internazionale:
Intervento del Generale Marco Bertolini

edito da http://www.atlantismagazine.it/

Sicurezza Internazionale: Intervento del Generale Marco Bertolini – ATLANTIS

Italia e “Comunità Internazionale”

analisi di una crisi

Attorno a noi, nell’area euromediterranea della quale rappresentiamo il centro, il punto nel quale dalla società romana prima e cristiana poi è nata l’idea stessa di occidente, si stanno verificando crisi di portata epocale che consegneranno ai nostri figli un mondo diverso e molto più difficile e pericoloso di quello nel quale abbiamo vissuto noi, figli della guerra e spettatori della guerra fredda.

E’ una realtà che ormai si sta imponendo alla consapevolezza generale, anche se spesso prevale la tentazione di limitarsi a una microanalisi delle singole situazioni di crisi, nell’illusione di venirne a capo. Così facendo, però, si perde la visione d’insieme di quello che continua a riproporsi come il solito scontro tra gli interessi statunitensi e russi, di antica memoria, che non ci lascia che il ruolo rassegnato delle comparse, e spesso delle vittime, delle frizioni tra i due giganti.

Questa situazione è particolarmente pericolosa per un paese come l’Italia, esposto geograficamente come nessun altro e che nonostante questo pare avere optato entusiasticamente per il rifiuto di individuare “originali” interessi nazionali da difendere. Al contrario, preferisce di norma appiattirsi su quelli di una Comunità Internazionale (CI) volubile, volatile e difficilissima da definire.

Gioca un ruolo chiave in questo approccio passivo una impostazione costituzionale che sembra fatta apposta per tagliarci fuori dalla realtà.

L’esempio dell’inutile articolo 11 della Costituzione è emblematico: al di là dell’inconsistenza di un “ripudio” (della guerra) che non può che essere solo retorico, tale presa di posizione impedisce all’Italia di fare i conti (almeno a parole) con una costante della storia e toglie dignità agli strumenti militari dei quali continua comunque ad essere dotata (le Forze Armate). Conseguentemente, al nostro paese non resta che mettersi disciplinatamente al seguito di coloro che tali remore non nutrono e che continuano ad essere ben determinati a perseguire i propri interessi – ovviamente travestiti da interessi “comuni” – con tutti i mezzi, inclusi quelli bellici. E non parlo di qualche dispotico regime africano o centro asiatico, ma di paesi come la superpotenza statunitense, nonché di Russia, Gran Bretagna e Francia, per rimanere all’ambito europeo. Quanto alla Germania, non si pronuncia in merito per ovvie ragioni, ma continua da tempo a mantenere in salute e in esercizio uno strumento militare decisamente importante che sta ulteriormente potenziando.

Comunità Internazionale sopra tutti e prima di tutto, quindi. Ma di cosa stiamo parlando? L’idea di Comunità che nei desideri di molti illusi dovrebbe assicurare dignità a una nostra supposta vocazione alla passività in campo internazionale è quella che si dovrebbe concretare in una profonda comunanza di valori e di interessi, primo fra tutti quello della pace. Pace innanzitutto, anzi. Ma è effettivamente così? No, e lo confermano proprio le crisi che ci circondano.

Iniziamo da quella più vicina a noi e per la quale stiamo pagando un prezzo notevolissimo, la Libia. La CI fu quella che, smentendo platealmente tutte le precedenti iniziative italiane in quel paese, nella sua connotazione anglo-francese, pseudo-NATO e para-EU, nel 2011 decise unilateralmente di intervenire, prescindendo assolutamente dai nostri interessi e addirittura dal nostro parere di principale vicino a quell’area. C’è da chiedersi se si sarebbe comportata nella stessa maniera, vale a dire mettendoci di fronte al fatto compiuto, se nello Stivale ci fosse stato un altro Stato, non necessariamente uno di quelli rammentati in precedenza. Ma tant’è: in ogni caso, ci ha poi concesso la grazia di saltare sul suo carro di esportatori di democrazia e progresso fino a renderci compartecipi o complici della creazione della situazione che ci sta deliziando da oltre un lustro. In sostanza, la CI ci ha scalzato da una posizione molto favorevole nel mercato degli idrocarburi libici, ha messo a rischio molte nostre imprese che dopo decenni di buio erano riuscite a reimpiantarsi in Libia e ci espone ora ad un flusso migratorio epocale, dal quale gli ottimi rapporti con Gheddafi ci ponevano al riparo.

Oggi, nella sua rappresentazione europea (EU) ci sta supportando nella ciclopica opera di salvamento delle centinaia di migliaia di migranti economici che prendono mare clandestinamente dalla costa della Tripolitania verso le nostre coste, facendo comunque molta attenzione a farli sbarcare solo da noi e a mantenerli confinati al sud delle Alpi. Gran bella prova di solidarietà!

Quanto alla situazione politica in Libia, nella sua rappresentazione ONUsiana la CI, dopo aver supportato a lungo il parlamento di Tobruk e il suo Generale Haftar (uomo degli USA, si diceva), si è esibita nel classico salto della quaglia, passando all’appoggio di Serraj, neo Primo Ministro a Tripoli, a sua volta supportato dalle milizie simil-islamiste di Misurata. Ed è soprattutto a questo punto che la Comunità ha smesso di essere tale: si è divisa infatti in due, con una parte capeggiata da ONU e USA al fianco di Serraj puntando ad una Libia unita e presumibilmente sotto tutela ONU/USA/NATO (la EU si adeguerà), mentre un’altra parte continua ad appoggiare Tobruk. Quest’ultima non nasconde l’aspettativa di una divisione del paese che apra alla Francia la possibilità di sfruttare i giacimenti della mezzaluna petrolifera, consenta alla Russia di evitare un altro paese sotto tutela americana, magari riservandole un ulteriore sbocco mediterraneo alternativo o complementare a Tartus, e non faccia tramontare le mire territoriali egiziane nell’est del paese, almeno a livello di ingerenza. L’Italia, ovviamente e giustamente, si inquadra nel primo gruppo e c’è da chiedersi quanto questa sua collocazione strategica sia collegata alla strana ostinazione con la quale ha iniziato a cavalcare il caso Regeni dopo un lungo periodo di corte spietata all’Egitto, negandogli ora ogni possibilità di scampo onorevole, stretto come l’ha in un angolo fatto di accuse che se sono difficili da provare lo sono altrettanto da confutare.

Sul fronte europeo, la CI subisce fortemente il peso degli interessi globali degli USA che spingono NATO e conseguentemente la sua rappresentazione virtuale locale, l’EU, a una forte contrapposizione con il loro competitor russo. Da qui, il rafforzamento del fianco nord, con la scusa di tacitare le preoccupazioni delle Repubbliche baltiche e della Polonia ma soprattutto per consentire agli US di spostare molto più a destra la propria presenza in quello che vent’anni fa era il territorio del Patto di Varsavia. Poco più a sud, invece, incombe la spaventosa crisi ucraina, per la quale non si vedono ancora vie d’uscita. In questo paese, infatti, balena da un lato una ghiotta opportunità per gli statunitensi di escludere per sempre la Russia dal Mar Nero, privandola delle basi in Crimea, mentre da parte Russa al contrario continua a materializzarsi il rischio di essere tagliata fuori definitivamente dall’Europa e da ogni forma di presenza nel Mediterraneo. Quindi, uno sviluppo da non farsi sfuggire da parte americana e una opposta minaccia da evitare in campo russo che ha portato alla situazione di stallo armato attuale.

Ed ecco, a questo punto, ricomparire la stessa CI, nelle sue manifestazioni NATO ed EU, più che mai determinata a tagliare le unghie all’orso russo utilizzando uno dei più classici strumenti di pressione di sempre, le sanzioni. Peccato che con esse, che non intaccano assolutamente l’economia degli USA che le hanno fortissimamente volute, oltre alle unghie dell’orso cadano pure i denti del resto dell’Europa – e soprattutto dell’Italia – legate alla Russia da stretti vincoli economici e commerciali ora messi a rischio, nonché da una continuità territoriale che al contrario non c’è con “l’isola americana” (un oceano a ovest, uno a est e una munitissima recinzione a sud).

A ben vedere, tale situazione è strettamente collegata a quanto accade anche nel Medio Oriente, con particolare riferimento alla Siria, dove la Russia è intervenuta per mettere una pezza ai guai fatti da un’ipocrita idiosincrasia occidentale per le “dittature”, ma soprattutto per mettere al riparo le sue residue possibilità di essere presente nel Mediterraneo dopo i rischi corsi in Ucraina. La base navale di Tartus, infatti, è il punto di approdo tradizionale delle navi della Flotta russa del Mar Nero, basata a Sebastopoli in Crimea, e la sua perdita rappresenterebbe un vulnus micidiale.

Insomma, la Russia non può ritirarsi dalla Siria per buona parte delle ragioni per le quali non può lasciare la Crimea (e l’Ucraina). In tale contesto si inquadra anche l’attivismo russo volto a ricavarsi altri spazi nel bacino, dopo la richiesta statunitense al Montenegro di entrare nella NATO (il Montenegro nella NATO!), riducendole al lumicino la possibilità di trovare altri approdi in paesi non ostili nel Mare Nostrum. La recente apertura egiziana per l’uso a tal fine della base di Sidi el Barrani potrebbe rappresentare un importante punto di svolta a suo favore.

Non c’è quindi dubbio che il punto più dolente di questa epocale tensione politico-militare è rappresentato dal Medio Oriente (o meglio, Vicino Oriente, per noi), con particolare riferimento a Siria e Irak. Per la prima volta dalla crisi di Cuba, infatti, soprattutto in Siria si corre un rischio concreto di scontro diretto tra statunitensi e russi che potrebbe portare ad una conflagrazione generale. La Russia, per i motivi sopraindicati, è infatti intervenuta militarmente, bloccando l’avanzata dell’ISIS e di Jabath Al Nusra (Jabath Fatah al Sham, dopo una recente operazione di cosmesi terminologica per occultarne le antiche radici qaediste) ma soprattutto congelando il tentativo statunitense (e saudita e turco ed emiratino e qatarino e israeliano e francese e ….) di sostituire Assad con un regime favorevole. E ora, di fronte alla prospettiva di una vittoria siriana (e russa e iraniana ed Hezbollah) con la liberazione di Aleppo dai terroristi come in precedenza avvenuto a Palmira (evento importantissimo da un punto di vista non solo simbolico ma stranamente ignorato da tutti i media), compare sgradevole la prospettiva di un Mediterraneo con una forte presenza della Russia, determinata a giocare ancora alla potenza globale. La campagna mediatica (STRATCOM – Strategic Communication) tesa a presentare come crimini di guerra i tentativi russi e siriani di sgomberare Aleppo est dai terroristi e l’improvviso attivismo contro Mosul, dopo anni di souplesse militare, non possono togliere il dubbio che il tutto sia soprattutto finalizzato ad impedire che di qua a qualche mese ci sia un solo vincitore sul campo, la Russia coi suoi alleati, con le conseguenze del caso per “l’Occidente”, costretto da tempo a considerare alcuni di essi “terroristi”.

Tornando agli interessi nazionali, anche in questo caso non sussiste alcuna significativa coincidenza tra quelli italiani e quelli della Coalizione a guida US. Il regime di Assad è notoriamente molto vicino alle numerose comunità cristiane del paese, cosa che non dovrebbe essere indifferente per quella patria del cristianesimo che è ormai a torto considerata l’Italia, e alle Forze Armate siriane, con il significativo contributo di Hezbollah, si deve la liberazione e la messa in sicurezza di numerose e antichissime comunità cristiane locali. Inoltre, non c’è dubbio che la caduta di Assad ad opera dei terroristi non comporterebbe la fine della guerra ma il probabile inizio di una nuova fase, con curdi, turchi, sunniti e sciti tutti in guerra tra di loro, appassionatamente; senza contare le ovvie ingerenze statunitensi, israeliane, francesi e britanniche da mettere in conto. Le conseguenze di una situazione del genere nel vicinissimo Libano, che è appena riuscito a eleggere un Presidente della Repubblica dopo oltre due anni di crisi, sarebbero devastanti e dalla costa orientale del Mediterraneo potrebbe iniziare un traffico migratorio verso le nostre coste capace di far impallidire quello epocale in atto dalla Libia.

Insomma, è proprio un bel pasticcio.

Per concludere, una riflessione sul gran parlare che si fa in Italia di “Esercito Europeo”, trasposizione militare dell’innamoramento per l’idea stessa di Comunità Internazionale che non si capisce da cosa derivi, visti i precedenti. Si tratta di un tentativo per coinvolgere i paesi europei nei problemi di sicurezza continentale, con soluzioni valide per tutti. In realtà si limita ad una discussione sterile, priva di possibilità di realizzazione per la differente percezione che i singoli paesi hanno di se stessi, nel contesto internazionale. Come mettere d’accordo, ad esempio l’attivismo militare francese nel sud Sahara e in Medio Oriente, o quello britannico nell’ambito della Comunità “five eyes” in tutto il mondo, con l’atteggiamento ripiegato sui propri problemi interni del nostro paese?

Si tratta, a mio modesto avviso, di un tentativo ingenuo e maldestro di conferire dignità al nostro “costituzionale” disinteresse per le questioni militari e inerenti alla difesa; una specie di disperata offerta ad altri della nostra “sovranità militare”, visto il fastidio col quale per mille motivi (tutti assurdi) non ce ne vogliamo far carico da decenni. Si tratta, infine, di un modo per rinforzare una vocazione allo “stare in gruppo” che al contrario non ci possiamo più permettere, vista la pervicacia con la quale “gli altri” pensano prima di tutto ai fatti loro. Ci accontenteranno, magari, con un Comando multinazionale in Italia, come già fatto in passato a Firenze, nel quale fare svernare a rotazione qualche Generale o Colonnello a fine carriera. Ma sulle questioni sostanziali, che incidono sul futuro delle prossime generazioni, le loro generazioni, certamente tutti terranno le carte ben coperte, come sempre.

Invece, è necessaria una riflessione sulla peculiarità dei nostri interessi, selezionando attentamente i paesi in grado di condividerli, se necessario riconsiderando i dettagli di alleanze come la NATO e l’EU se si dimostreranno eccessivamente a trazione atlantica e nord europea. Ciò si renderà necessario e di vitale importanza qualora tali alleanze continuino a non dimostrarsi sensibili alle nostre particolari esigenze, come avvenuto anche nel passato recente, con particolare riferimento a Libia, Siria e Ucraina in primis, senza dimenticare i Balcani, trasformati in un coacervo di staterelli ostili tra di loro e alla mercè dei movimenti jihadisti che durante la guerra alla Serbia si sono radicati nell’area. Oggetto di particolare riflessione dovrebbero essere anche i rapporti con la Russia, come noi interessata, anche semplicemente per mere questioni geografiche, ad avere stabilità nel Mediterraneo e nel Medio Oriente e a prevenire processi migratori dall’Africa come quelli che stiamo subendo. Non si tratta di tradire l’alleanza atlantica, ma di convincerla che gli interessi del nostro continente non possono essere definiti e decisi solo da 6000 km di distanza, oltreatlantico.

Ma la vedo dura!

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