Industria e diritto di fronte allo smantellamento delle catene del valore_Intervista a Fabio Londero

Una intervista significativa che offre diversi spunti importanti che toccano alcune chiavi importanti di interpretazione che informano la produzione di questo sito. Intanto l’estensione del concetto di profitto, non solo nelle sue modalità di calcolo, anche esse discrezionali, ma anche dei criteri legati alla efficienza, alla solidità, alla possibilità di esistenza e, quindi, di mantenimento e perpetuazione del comando e del potere dei dirigenti. Figure, quindi, impegnate nel perseguimento di strategie politiche. Un altro aspetto riguarda il legame necessario che le aziende, il loro staff manageriale, devono mantenere, essendone anche l’espressione, con il proprio contesto sociale/culturale e, soprattutto, con i centri decisori nello Stato. Qui occorre fare una distinzione, del resto adombrata dallo stesso intervistato. Quella del legame originario con uno Stato egemone o, quantomeno, in possesso delle piene prerogative sovrane oppure con uno Stato dai centri decisori subordinati e sottomessi. Paradossalmente, l’autonomia strategica e decisionale delle aziende radicate in questi ultimi risulta spesso essere maggiore rispetto alle prime, anche se di fatto, in proporzione alla strategicità e peso delle loro attività, finiscono progressivamente per essere risucchiate dalla volontà egemonica dei centri decisori degli stati dominanti o da assumere questi come riferimento. La stessa esigenza di uniformazione dei principi etici, organizzativi e giuridici delle multinazionali deve appoggiarsi al tentativo degli stati egemoni di imporre la propria giurisdizione, il proprio intervento ed il proprio diritto nell’agone internazionale. L’insistenza sulle crescenti difficoltà delle multinazionali a mantenere coerenza ed unitarietà, operatività in un contesto geopolitico sempre più frammentato espressa nell’intervista è di per sé eloquente. A parere dello scrivente l’autore mette di fatto in discussione diversi punti fermi che vincolano e distorcono il dibattito oltre che in parte della corrente di pensiero dominante, soprattutto nell’area contestatrice dell’attuale assetto geopolitico/geoeconomico sino a rendere quest’ultima sterile e impotente. Tra questi il tema della cosiddetta crisi sistemica del capitalismo, del suo sistema unitario, tema per altro ricorrente almeno negli ultimi due secoli; la contrapposizione tra sistemi a dominio capitalistico da una parte, nella fattispecie il mondo occidentale a predominio anglo-statunitense, e sistemi a controllo politico; l’asserito predominio assoluto nei primi dei “nani della finanza” e della natura parassitaria del loro predominio e della predazione, anch’esso un tema ricorrente, almeno dalla fine del ‘800, nella narrazione antagonista. Si tratta, certamente, di una narrazione che “facilita” enormemente l’individuazione di un avversario perfettamente circoscritto, nella figura e nella dimensione, surdeterminato e, quindi, facilmente additabile al ludibrio delle “moltitudini”. Facili, però, quanto distorcenti di una realtà, esattamente come i mulini a vento del don Chisciotte.

Tocca ai Sancio Panza di turno introdurre qualche elemento di realtà più complesso, più scomodo, ma forse più proficuo alla costruzione di un disegno politico più impervio, ma più praticabile e meno fallimentare:

  • il modo di produzione capitalistico, in quanto rapporto sociale di produzione, è ormai da tempo presente nell’universo mondo e, devo dire, ambìto, pur in diverse modalità e intensità, da tutti i centri decisori delle varie formazioni sociali e statuali
  • una presenza diffusa che deve quindi pagare lo scotto di un adattamento ai contesti storici, culturali e territoriali, agli assetti di potere delle varie formazioni sociali; contribuendo quindi a plasmarli, ma anche ad essere plasmati e ad essere differenziati. Più che di capitalismo, si dovrebbe parlare, quindi, di capitalismi, per meglio dire di centri decisori capitalisti in cooperazione e conflitto tra loro, ma facenti parte, comunque, di centri decisori politici e strategici dagli interessi e da punti di vista più ampi rispetto alle mire di mero conseguimento di profitto
  • rispetto alle dinamiche capitalistiche interne, più che di crisi sistemica, parlerei di crisi cicliche o di crisi sistemiche propedeutiche alla formazione di nuovi assetti… appunto capitalistici
  • quanto al carattere finanziario e parassitario del capitalismo occidentale e al predominio politico assoluto delle sue figure occorre precisare e delimitare numerosi aspetti. Osservando il percorso dei flussi e il loro utilizzo si può facilmente osservare che anche quelli a carattere più speculativo, pur favorendo e alimentando in parte singoli protagonisti di natura parassitaria, assolvono in ultima istanza ad una funzione di drenaggio a fini di esercizio di potenza politica e di strategie politiche e di conformazione più o meno funzionale e coesa delle formazioni sociali-statuali dominanti; lo stesso ambito finanziario è molto articolato ed è riconducibile solo in parte ad attività speculative puramente parassitarie; nelle stesse attività finanziarie sono implicate quelle stesse imprese multinazionali che non sono avulse dalla produzione dei beni, ma che ne controllano le filiere e le catene globali di produzione con l’azione e il sostegno fondamentale degli stati egemonici

Per concludere un ragionamento che meriterebbe altri spazi ed altra profondità, più che di centri decisori finanziari egemonici nel mondo occidentale, parlerei di “strateghi del capitale” (Gianfranco La Grassa), non solo finanziari, facenti parte a pieno titolo, ma con peso più o meno relativo, di centri decisori strategici politici in competizione e conflitto tra di essi a fini di potere e di conformazione delle formazioni sociali, quindi anche di costruzione di identità e collettività e di obbligo e necessità di costruzione di una qualsivoglia coesione sociale, delle quali sono espressione. Nell’azione dei quali l’aspetto economico è solo parte ed è intriso dell’azione politica e delle finalità politiche di potere. Ambito, quello economico, che, con l’affermazione del modo capitalistico, ha assunto forme sempre più sofisticate e pervasive e, nei periodi di affermazione egemonica, carattere di apparente neutralità ed oggettività. Può assumere un interesse predominante tuttalpiù nelle periferie dei sistemi imperiali. Questo vale, pur in diversa misura e in diverse fasi storiche per tutte le formazioni sociali e per tutti i poli in via di formazione.

Possono sembrare sottigliezze fini a se stesse. In realtà hanno implicazioni particolarmente pesanti nel dibattito e nell’azione politica. Nella fattispecie nella caratterizzazione “neomedievale” delle future società, con annessa debilitazione del potere statale ridotto e conteso da altre figure, tese a generalizzare, secondo le tesi di importanti centri di pensiero (Rand), una condizione di crisi dello Stato altrimenti propria invece di alcune formazioni sociali declinanti in particolare del mondo occidentale, squassate da conflitti interni distruttivi; nella visione “populistica” del rapporto assolutamente determinante tra centri decisori, élites tout court e strati bassi della società; nel rapporto tra “moltitudini” e cupole ristrette di potere. In altre parole in una riduzione semplicistica delle stratificazioni sociali, delle gerarchie, della funzione delle élites e delle dinamiche del conflitto politico e sociale, di quelle geopolitiche e di conflitto orizzontale tra centri. Buona lettura, Giuseppe Germinario

Industria e diritto di fronte allo smantellamento delle catene del valore

FABIO LONDERO — “Non c’è un’etica condivisa lungo la supply chain”: stiamo per far deragliare le catene del valore con i nostri valori?

In un mondo rotto e sempre più regolamentato, le multinazionali che avevano puntato su una crescita globalizzata e su un diritto uniforme rischiano di disgregarsi. Per Fabio Londero, General Counsel del gruppo siderurgico friulano Danieli, le conseguenze negative dell'”effetto Bruxelles” potrebbero essere fatali.

Fabio Londero è un giurista d’impresa, Group General Counsel della multinazionale friulana Danieli, tra i leader mondiali nella produzione di impianti siderurgici.

Fare impresa in un mondo, allo stesso tempo, globalizzato e frammentato, costringe a confrontarsi con notevoli rischi, di carattere economico, politico e giuridico. Negli ultimi anni si è sviluppata un’altra tipologia di rischio, che concerne, più che altro, l’immagine di una impresa di fronte all’opinione pubblica. Trattasi del cosiddetto rischio reputazionale, strettamente legato al concetto di etica d’impresa. In cosa consiste e quanto rileva all’interno della vita di una multinazionale?

Penso sia utile ripartire dall’insegnamento, che oggi sembra così sorpassato, di Milton Friedman, secondo cui l’impresa deve perseguire gli interessi degli azionisti, nel rispetto della legge. Tale massima, e in particolare la sua seconda parte, ossia la mera conformità dell’attività di impresa rispetto all’ordinamento giuridico vigente, rimane per me un canone fondamentale. È chiaro poi che tale approccio debba essere senz’altro rimodulato alla luce del contesto. Ho sempre avuto dubbi, però, sull’agire etico dell’azienda. John Locke, qualche secolo fa, evidenziava come l’etica fosse passata dalla religione allo Stato. Ora sembra che sia passata, in parte, dallo Stato alle aziende. Solo che l’impresa, e in particolare la multinazionale, è composta da un insieme di valori spesso differenti, non comprimibili in una scelta politica del consiglio di amministrazione. Una multinazionale, pure se occidentale, lavora in decine e decine di paesi e contesti giuridici e culturali profondamente diversi: è impossibile, se non proprio controproducente, trascurare idee e valori estranei ai nostri, così come non è possibile ignorare i quadri giuridici dei paesi in cui si opera, che sono dettati dai più svariati fattori di carattere politico, economico e culturale. Il principio di realtà per affrontare questo mondo frammentato dovrebbe essere informato da logiche che permettano all’impresa di rimanere efficiente, senza una adesione totale agli scontri politici e valoriali in atto. Anche perché, quando dico che l’impresa dovrebbe limitarsi a perseguire i profitti nel rispetto della legge, non intendo solo il cosiddetto lucro; profitto deriva dal latino proficĕre, che significa innovare, perfezionare, essere efficienti. Questo deve essere secondo me il paradigma dominante, specie in un contesto geopolitico così turbolento.

Spesso un’attività, seppure lecita secondo leggi e consuetudini in vigore, ciononostante subisce un vaglio di tipo etico. Da qui il dilemma: agire semplicemente in conformità delle leggi, assumendosi il rischio del danno reputazionale, o rinunciare a determinate attività e affari in via preventiva, per evitare possibili condanne morali? Trattasi, in ultima istanza, di una analisi costi-benefici? 

Molto spesso, la prima domanda che si pone un manager di una multinazionale è: tale azione è legale o illegale? Se è legale, la decisione è quasi già presa. Questo è – e secondo me dovrebbe pure rimanere – il paradigma tradizionale. È chiaro poi che quando si opera nei mercati globali vi sono certi rischi di carattere reputazionale. Credo però che spesso questa dimensione del danno da immagine sia eccessivamente sopravvalutata: se il prodotto è valido, l’eventuale danno da immagine lascerà il tempo che trova. Dopodiché, mi chiedo: si può dire che il danno reputazionale è lo stesso per le decine di paesi in cui la multinazionale opera? O è solo quello occidentale? La catena del valore è anche una catena dei valori, che passa per molteplici sistemi, tradizioni, culture. Non c’è un’etica condivisa lungo la supply chain. Per questo insisto sul fatto che l’unico imperativo da seguire, ulteriore rispetto ai profitti, sia quello legale: il limite e lo spazio dell’agire di impresa è e deve essere solo quello tratteggiato dai diversi legislatori.

John Locke, qualche secolo fa, evidenziava come l’etica fosse passata dalla religione allo Stato. Ora sembra che sia passata, in parte, dallo Stato alle aziende.

FABIO LONDERO

In merito al rischio reputazionale, sempre più centrale è il tema ambientale. Da qui, i vari criteri ESG, norme e direttive comunitarie, codici di condotta, raccomandazioni e soft law. Si richiede all’impresa, insomma, di essere il più possibile sostenibile, specie in Europa. Quanto incide o potrà incidere il tema ambientale nell’attività di impresa?

La decisione di perseguire una politica ambientale, sul fronte, ad esempio, della produzione di beni industriali, molto spesso non deriva da una decisione di carattere ideologico-politico assunta in qualche consiglio di amministrazione sotto la spinta delle raccomandazioni di Bruxelles. È molto più probabile, invece, riscontrare scelte aziendali che hanno origini nel tempo e che nascono da intuizioni, sviluppo di nuove competenze tecniche e, soprattutto, esigenze della clientela. Mi permetto di fare un esempio riferito all’azienda per cui lavoro, la Danieli & C. Officine Meccaniche S.p.A. Negli anni ci siamo ritagliati un ruolo leader nel cosiddetto green steel, ma questo perché? Non si tratta di una mera decisione di essere sostenibili, ma di un insieme di dinamiche di impresa, come i clienti che vogliono prodotti più efficienti, l’individuazione di soluzioni tecnologiche e competenze, l’intuizione di nuovi mercati. Grazie a questa combinazione di fattori, anni fa si è deciso di andare oltre al paradigma dei grandi impianti tipico degli anni ’60, investendo invece nella maggiore efficienza dei micro-impianti, di dimensioni più contenute e più localizzati (in prossimità dei clienti), con impatti positivi in termini di minore inquinamento, minore spesa energetica e via dicendo. Un passo avanti verso la sostenibilità, ma guidato da logiche decisamente più complesse – e, mi si permetta, capitalistiche – della mera decisione dall’alto di darsi un volto verde.

Un classico esempio dell’approccio dell’Unione europea è quello attuale della Direttiva sulla Corporate sustainability due diligence (CS3D), che impone diversi accorgimenti alle multinazionali sul fronte della sostenibilità lungo la supply chain. Cosa ne pensi?

Penso che stiamo assistendo ad una bulimia di normative, parametri, direttive, raccomandazioni di soft law. Il che ha implicazioni non solo in relazione ai maggiori rischi giuridici, ma anche sul fronte dei costi, tanto che a volte mi chiedo provocatoriamente quanto sia sostenibile la sostenibilità. Peraltro, oltre al tema dei costi, vi è un discorso di fattibilità. Pensiamo proprio alla Direttiva CS3D: identificare nuovi oneri e adempimenti è facile, ma chi si ritrova a doverli applicare deve fare fronte alla complessità della supply chain. Andare a ritroso nella catena per verificare se uno delle centinaia di fornitori rispetta o meno determinati principi non solo è piuttosto complicato (oltre ad ulteriori accorgimenti di compliance, nel concreto cosa deve fare l’impresa? Ispezioni tra decine e decine di paesi?), ma riporta anche a quanto già detto sulla catena, che non è solo del valore, ma dei valori: questi principi possono valere per noi occidentali, ma non per altre realtà, che rispondono a differenti sistemi culturali e giuridici. Un uso eccessivo di tali strumenti rischia di tradursi in quello che chiamo “imperialismo dei valori”: ossia l’errore di assumere la nostra prospettiva come universale, mentre il mondo – e lo vediamo ogni giorno – è eterogeneo, “particolare”. Da cittadino italiano o europeo posso anche essere d’accordo sull’attenzione verso certi valori, ma per un’impresa conta anche il principio di realtà.

Vi sono poi le implicazioni giuridiche di tali politiche e legislazioni o para-legislazioni ambientali. Uno dei rischi più concreti è che a livello giudiziario inizino ad essere adottate decisioni basate su principi che non si fondano su normative cogenti e certe, bensì su parametri, standard e best practices di soft law. Se i tribunali, nonostante l’assenza di vere e proprie leggi vincolanti, cominciassero ad applicare tale apparato di soft law alla stregua di un principio generale dell’ordinamento, questo si tradurrebbe in un panorama di profonda incertezza, ove alla fine l’attività di impresa finirebbe per dipendere dalla sensibilità del singolo giudice. Mancherebbero la prevedibilità e la calcolabilità del rischio giuridico. E il soft law rischierebbe di tramutarsi in hard law, non per opera del legislatore, bensì di un giudice.

La catena del valore è anche una catena dei valori, che passa per molteplici sistemi, tradizioni, culture. Non c’è un’etica condivisa lungo la supply chain.

FABIO LONDERO

Quali possono essere le implicazioni di queste fratture, anche valoriali e non solo politiche, all’interno delle catene del valore?

Se la divisione politica e valoriale dovesse essere perseguita in modo netto, nella direzione di un sempre minore dialogo tra sistemi giuridici e culturali differenti, il rischio concreto è quello di una frammentazione dell’attività aziendale, nell’ottica di una divisione per aree: così, per fare un esempio, la multinazionale Alpha si scinderebbe, di fatto, in un ramo con un brand occidentale, uno orientale e via dicendo, secondo regimi valoriali e legislativi diversi e, dunque, separandone i destini e la comunicabilità, come avvenuto in parte nel caso Sequoia riportato da Jeremy Ghez in un articolo su Grand Continent. Il punto è che una multinazionale è, dalla prospettiva economico-produttiva, un tutt’uno organico. È impossibile dividerla senza romperla, ad esempio creando Alpha Cina, Alpha Usa e Alpha Italia e pretendendo logiche, politiche e decisioni radicalmente diverse a seconda del contesto. L’azienda è interconnessa, vi è un flusso di conoscenze, competenze e rapporti che non si può scindere, a mio parere. La tecnologia, ad esempio, è una, attraverso la quale si progetta, si realizza, si produce. Come si può suddividere il patrimonio in entità separate e tra loro non comunicanti? Significherebbe, di fatto, privare la multinazionale della sua ragion d’essere organizzativa, economica e aziendale.

© Danieli Corus

Negli ultimi anni, le tensioni che percorrono il panorama internazionale hanno sollevato un ulteriore interrogativo per le imprese. Come muoversi rispetto alla politica estera dello Stato di riferimento? E, soprattutto, si può dire che pure le multinazionali, in ultima istanza, non prescindono dalla frammentazione del panorama in Stati nazionali e dalla singola bandiera che, nonostante le numerose filiali e sussidiarie, le identifica?

Dal mio punto di vista, non si può ignorare il fatto che ogni impresa ha un’origine, che per forza di cose è in un certo paese e secondo la sua legge. L’importanza del nesso tra impresa controllante e Stato di origine, e relativa politica estera, è pacifica. Detto questo, ribadisco – rifacendomi soprattutto all’esperienza delle aziende produttive, che è la realtà che conosco meglio – un punto fondamentale: una multinazionale che produce determinati beni opera in diversi paesi e siti produttivi. Ciò significa che, il più delle volte, ci sono migliaia di dipendenti in giro per il mondo, in percentuali maggiori di quelle presenti nello Stato d’origine. Se il cuore è in un posto, vi sono tante altre parti del corpo dislocate per decine e decine di paesi, che hanno altrettanta rilevanza. Peraltro, il tema secondo me si complica quando si va a discutere di filiali aperte in un altro Stato. Queste filiali sono disciplinate dal diritto dello Stato in cui sono costituite, non da quello dello Stato d’origine della controllante. Penso al tema delle sanzioni, la cui complessità deriva anche e soprattutto dalla diversità dei sistemi giuridici che informano le filiali lungo la catena. Spesso, il diritto che le regola non è quello occidentale che ha imposto le sanzioni, pur considerando la portata extraterritoriale che questo intende assumere. Nel momento in cui un soggetto opera all’estero, accetta anche le normative locali di riferimento. Questo rende meno scontata l’implementazione di certe politiche.

La catena non è solo del valore ma dei valori: questi principi possono valere per noi occidentali, ma non per altre realtà, che rispondono a differenti sistemi culturali e giuridici.

FABIO LONDERO

In uno scacchiere globale così anarchico, paiono paralizzati i vari sistemi sovranazionali di risoluzione delle dispute, dagli arbitrati internazionali al WTO, mentre proliferano misure protezionistiche di carattere unilaterale: cosa significa questo nel concreto? Ci troviamo di fronte ad una rivincita, ammesso abbia mai perso, della diversità, tra molteplici Stati nazionali, giurisdizioni, culture, confini e interessi contrapposti, rispetto alle pretese unificatrici del mercato?

Nelle dinamiche politiche, così come in quelle economiche, a partire soprattutto dall’entrata della Cina nell’Organizzazione mondiale del commercio nel 2001, ci si è illusi sull’esistenza di un mondo pacifico e globalizzato, paradigma che oggi si scontra con un contesto geopolitico radicalmente cambiato. Certo, per una multinazionale il mondo piatto e unificato dal mercato sarebbe il contesto più auspicabile, ma la realtà non è più questa, ammesso sia mai stato veramente così.

Uno degli indici più concreti e interessanti per registrare tali cambi di paradigma è proprio quello delle controversie internazionali, che le multinazionali affrontano ogni giorno. Pensiamo all’arbitrato internazionale: anche in presenza di lodi arbitrali favorevoli, che ad esempio riconoscono il diritto ad ottenere dei beni di una impresa estera, nel concreto la possibilità di enforcement, ossia di eseguire questi lodi nello specifico paese per ottenere tali asset, è spesso impedita da una serie di misure protezionistiche delle singole realtà statuali. Tale tendenza sconfessa, da un certo punto di vista, l’idea del mercato globale regolato da un regime giuridico universale e uniforme. Nonostante le Convenzioni sottoscritte, di fatto risulta sempre più difficile vedersi riconosciuta la sentenza internazionale, a causa di barriere più o meno surrettizie che vengono innalzate dai singoli Stati. Così, anche se si ottiene un lodo favorevole contro un’impresa cinese, o egiziana o brasiliana e via dicendo, poi nel momento in cui si va ad eseguire tale lodo nei rispettivi paesi ove si trovano gli asset, ci si vede opporre una qualche eccezione di ordine pubblico interno che impedisce il riconoscimento del credito. E a cosa serve un lodo arbitrale internazionale che non si riesce a eseguire nel concreto? L’arbitrato internazionale è nato proprio come modello ideale di risoluzione delle controversie a livello sovranazionale, per evitare di affidarsi a sistemi giuridici statali di paesi problematici, ma ciò non è stato sufficiente a svincolare la realtà dalla concreta geografia degli asset, ossia dalla giurisdizione del singolo Stato in cui bisogna poi eseguire i lodi. Questo diventa un problema soprattutto con i soggetti locali, che hanno beni localizzati solo nel proprio Stato di riferimento, mentre le multinazionali hanno quantomeno asset più dislocati.

Trattasi di un altro fattore che può indurre alla frammentazione delle imprese in sezioni tra loro separate. Isole produttive, economiche e giuridiche sempre più indipendenti l’una dall’altra, in modo da ridurre i rischi di essere aggrediti e avvalersi, al caso, delle protezioni domestiche dello Stato. Un mondo che si frammenta in un arcipelago di isole la cui comunicazione è sempre più ridotta. Dai mercati globali ai mercati interni, con una separazione di fatto della capogruppo dalle proprie ramificazioni nei singoli paesi, con minore, se non nullo, trasferimento di ricchezze, competenze e tecnologie. Il problema, però, è che, come dicevo, la multinazionale è un tutt’uno organico, che necessita di scambi, interconnessioni. Ho dei dubbi sulla fattibilità, in concreto, di questo sistema ad arcipelago. Il rischio è che a forza di frammentare si finisca, sostanzialmente, per rovesciare le fondamenta su cui poggia una multinazionale contemporanea.

Una multinazionale è, dalla prospettiva economico-produttiva, un tutt’uno organico. È impossibile dividerla senza romperla

FABIO LONDERO

Rinnovata centralità dello Stato e della politica estera da un lato, maggiore sensibilità delle opinioni pubbliche, specie occidentali, dall’altro. È ormai impossibile per un’impresa emanciparsi dalla tenaglia composta da queste due dimensioni? Ogni fase di transizione comporta rischi, opportunità, cambi di paradigma. Quale può essere secondo te il ruolo della multinazionale al termine, se mai vi sarà un termine, di questo interregno?

Sono dell’idea che in questo mondo frammentato le aziende dovrebbero adottare una politica di basso profilo. Non bisogna ignorare la tenaglia di cui parli, ma proprio perché vi sono plurime e spesso eterogenee pressioni, l’obiettivo potrebbe essere quello tradizionale di perseguire il profitto, inteso come innovazione, efficienza, valore dell’azienda. In questo contesto non si può ignorare il quadro geopolitico, né quello dell’opinione pubblica, ma l’impresa ha una sua dimensione e deve fare i conti con i continui rapporti con le proprie ramificazioni. Quando mi confronto con un manager di un paese straniero, con valori diversi da miei, cosa devo fare? Chi ha ragione? Magari dal mio punto di vista occidentale ho ragione io, però non credo sia nell’interesse dell’impresa alzare un muro per tale mancata condivisione di un’etica comune. Per questo l’azienda dovrebbe fare un passo indietro: alla fine, cosa unisce i diversi manager? Degli scambi efficienti che portino ricchezza. Anche perché le imprese, come soggetti, non hanno alternativa, salvo perdere mercati o dividersi.

Poi certo, c’è chi potrebbe dire che proprio per le turbolenze geopolitiche di questa fase storica le imprese dovrebbero partecipare attivamente alla politica estera dei propri Stati. Questo però dipende dal contesto. Negli Stati Uniti si è sempre registrato, storicamente, un dialogo tra dimensione pubblica e privata, pensiamo alla nascita di Internet, ma stiamo parlando di un mercato enorme e di un paese con una politica estera piuttosto definita, centrale nella sua proiezione. Ma noi italiani? O noi europei? Possiamo avere buoni rapporti con le istituzioni di riferimento, certo. Ma pensiamo all’Europa: al momento è ancora percorsa da diverse geografie politiche, non è una nazione. Esiste veramente una politica industriale europea? Esiste una politica antitrust. O ambientale tuttalpiù. Ma qual è la politica estera e di sovranità europea? Se non si diventa un soggetto politico, si rimane, sostanzialmente, dei mercanti.

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Sovranità economica, l’unica chance per sopravvivere alle illusioni dell’Ue, di Giuseppe Gagliano

La crisi commerciale con la Cina, l’epidemia di Covid, poi la guerra in Ucraina hanno distrutto i presupposti ideologici su cui si basava la costruzione europea. Il mito della “felice globalizzazione” è stato infranto a favore di una conflittuale regionalizzazione del commercio internazionale, ordinata intorno a Stati Uniti e alla Cina.

In questo contesto, la guerra è ormai la griglia di lettura di tutte le divisioni internazionali: guerra per l’acqua, metalli, diritto, dati. Guerra economica ovviamente, un concetto lontano da quello dell’autoregolamentazione e da quello dei seguaci di Adam Smith e della sua “mano invisibile”.

La guerra economica è rimasta a lungo un argomento tabù: presupponeva che un partner, perfino un “amico” fosse anche un avversario da cui proteggersi, e che certe dipendenze economiche avessero tragiche conseguenze politiche. La libera circolazione di uomini, idee, capitali, tecnologie e merci doveva così assicurare, dopo la caduta del muro di Berlino e il crollo del blocco sovietico, una pace e una prosperità ampiamente condivise. Ma al contrario la guerra è sempre stata il corollario di tutta la civiltà: non è uno sfortunato avatar, ma la dimensione naturale della storia umana, senza che nessuna parte di essa sfugga.

La Germania, per 150 anni; l’Inghilterra l’ha esercitata sui mari; gli Stati Uniti si sono ispirati al modello giapponese e gli Stati autoritari o totalitari come Russia e Cina si sono dotati di tutti gli strumenti per unire la loro potenza economica alla loro volontà politica. L’attuale Europa non costituisce una alterativa valida. Essa è nata da Jean Monnet, alleato degli Stati Uniti, e il suo trattato costitutivo appare come il ripristino del Piano Marshall: insomma una felice riduzione all’antico ruolo di vassalli. Al contrario l’America è un partner particolare, se ricordiamo l’affare Snowden – la rivelazione del tentacolare sistema di spionaggio americano – che ha suscitato solo molto misurata indignazione tra gli europei di fronte ad un cinico saccheggio: “il più grande stratagemma del diavolo è far credere di non esistere”. La guerra economica tra amici non è l’unico tabù infranto.

Ma questi errori dipendono anche da una concezione liberale secondo la quale la globalizzazione e il mercato ci avrebbero liberato dalle pulsioni malvagie o arcaiche di Stati e Nazioni, insomma dalla Politica. Al contrario dobbiamo recuperare il concetto di patriottismo economico su cui si deve appoggiare la politica pubblica dell’intelligence economica – protezione delle aziende, supporto per loro a livello internazionale, influenza nelle organizzazioni internazionali e formazione. Il patriottismo economico è la sola difesa e la promozione degli interessi nazionali nel rispetto della reciprocità.

Solo gli Stati Uniti e la Cina si sono dotati di una ricca panoplia di strumenti di sovranità, secondo il proprio modello politico. Ma in economia, come in diritto, la sovranità non può essere assoluta. È necessario che gli Stati europei ricostruiscano tutto: lo Stato, la sua capacità di anticipare e finanziare, l’industria. Guardiamoci dunque da un’illusione: quella della “sovranità europea”, perché l’Europa non ha la volontà di emancipazione dalla tutela americana.

https://www.ilsussidiario.net/news/scenari-sovranita-economica-lunica-chance-per-sopravvivere-alle-illusioni-dellue/2391230/

Intelligence strategica, geopolitica e guerra economica. Dagli anni ’50 ad oggi_di Giuseppe Gagliano

C’è chi fa, chi ci prova, chi lascia fare. La Francia potrebbe essere collocata in seconda fascia. Ha avuto nel dopoguerra il momento di maggior risolutezza nel periodo gaullista; in un contesto di decadenza e regressione ha conosciuto sussulti più che reazioni efficaci ad una politica di vera e propria colonizzazione ed espropriazione delle proprie capacità tecnologiche mascherate da una sterile prosopopea che non ha fatto altro che far perdere ulteriore credibilità alla classe dirigente. L’aspetto più interessante che differenzia quel paese dal nostro riguarda l’esistenza di un nucleo esplicito ancora in grado di porre la questione della sovranità e di condurre una battaglia politica. Su questo sito ne abbiamo parlato frequentemente. Buona Lettura, GIuseppe Germinario

Dall’affare Raytheon (1994) all’affare Alstom (iniziato nel 2014), la guerra economica ha colpito duramente le aziende francesi. Gli Stati, lontani dalle raccomandazioni liberali, sono attori costanti in questa guerra economica, in particolare paesi come il Regno Unito e gli Stati Uniti, che si dichiarano i più favorevoli alla libera impresa. Lungi dal fare il punto sulla posta in gioco strategica di questo terreno di scontro, la politica pubblica francese sull’intelligence economica è rimasta insufficiente poiché la caduta dell’URSS ha alzato la posta in gioco. La difesa delle imprese francesi contro acquisizioni estere che potrebbero portare al trasferimento di tecnologie sensibili, o mettere a rischio posti di lavoro, è rimasta quindi un aspetto dimenticato dell’azione pubblica.
Nella strategia economica come nell’arte militare, il successo di una politica pubblica richiede tanto iniziativa quanto anticipazione: questi sono i precetti che gli Stati Uniti applicarono all’indomani della seconda guerra mondiale. Al contrario, a partire dagli anni ’90, i governi francesi hanno reagito molto di più a shock che mettono in difficoltà le imprese nazionali, di quanto non abbiano sviluppato a priori elementi strategici di fronte alle nuove sfide della guerra economica.

Grazie alla Guerra Fredda, e alle competizioni militari, ma anche alle tecniche, economiche e scientifiche a cui ha dato origine, le politiche pubbliche americane hanno affrontato a testa alta la questione dell’intelligence economica alla fine della seconda guerra mondiale. Il primo passo è stato quello di fornire alle aziende americane il beneficio dell’informazione pubblica: negli anni Cinquanta sono state istituite agenzie federali come la National Science Foundation per trasmettere alle aziende strategiche le informazioni prodotte dalle amministrazioni. Poiché la prospettiva di uno scontro militare con la Russia sovietica si allontanava, l’intelligence economica divenne una preoccupazione centrale del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, che in particolare mise in atto una strategia per finanziare e proteggere l’economia dell’innovazione. : il finanziamento della ricerca scientifica da parte del Dipartimento della Difesa , che salì bruscamente al 96% della R&S pubblica nel 1950, è stata mantenuta, ad esempio, al 63% della R&S nel 1987.

Questa precoce preoccupazione espressa dalla comunità dell’intelligence americana per questioni di strategia economica ha radicato potenti eredità e spiega, ancora oggi, la forza dei legami che uniscono le grandi imprese americane e servizi segreti. Alla fine della Guerra Fredda, parte delle risorse dell’intelligence americana furono, inoltre, dirottate, in mancanza di un nemico, verso l’intelligence economica; si è infatti inasprita la competizione tra attori nazionali per la conquista dei mercati. Tuttavia, questa cultura dell’intelligence economica non si è radicata nelle stesse condizioni in Francia, che fino agli anni ’90 è rimasta relativamente insensibile a questo concetto.Se la Francia era inizialmente interessata alle politiche di intelligence economica pubblica, è perché era obbligata a farlo dal contesto dell’affare Raytheon. Nel 1994, Thomson-CSF ha perso inaspettatamente il progetto brasiliano Sivam, un sistema di monitoraggio per la foresta pluviale amazzonica. E per una buona ragione: la NSA (National Security Agency) è intervenuta per intercettare le telefonate francesi e consegnare a Raytheon, concorrente americano di Thompson, informazioni strategiche che le hanno permesso di aggiudicarsi l’appalto.Nel contesto di una forte globalizzazione dei mercati, la Francia si è trovata male armata per parare questi colpi, che sono stati distribuiti tra gli alleati. I responsabili politici ora si sono resi conto che, lungi dall’idea di “concorrenza libera e non distorta”, gli Stati Uniti stavano realizzando in modo aggressivo coinvolgendo i propri servizi di intelligence nella conquista dei mercati internazionali da parte delle loro aziende.

In seguito all’affare Raytheon, alti funzionari, come l’ingegnere aeronautico Henri Martre, allora di stanza al Commissariat Général au Plan, erano convinti della necessità di colmare la “spartizione” tra aziende private e pubbliche amministrazioni per sostenere gli attori economici francesi. Grazie alla ricomposizione dell’ordine mondiale dopo la caduta dell’URSS, la “guerra economica”, intesa come la crescente importanza delle poste finanziarie nelle lotte globali tra le potenze, ha acquistato importanza, ed è stata finalmente considerata a pieno, in Francia, come una minaccia alla sicurezza nazionale.
Queste diagnosi hanno dato origine alla stesura del rapporto Martre, documento fondativo dell’intelligence economica francese, pubblicato nel febbraio 1994. Il rapporto definisce l’intelligence economica come “tutte le azioni coordinate di ricerca, elaborazione e distribuzione in vista del suo utilizzo, informazioni utili per gli attori economici.”Le proposte del rapporto hanno portato all’istituzionalizzazione di un ente pubblico dedicato all’intelligence economica, il Comitato per la competitività e la sicurezza economica (CCSE), che riferisce al presidente del Consiglio. Questo organismo, però, ha avuto le maggiori difficoltà a funzionare, abbandonato dal potere nel contesto delle elezioni presidenziali del 1995, e del fallito scioglimento del 1997. Il rapporto Martre aveva teorizzato l’intelligence economica francese, ma questa ebbe inizialmente molto poco seguito.
Contemporaneamente alla pubblicazione del rapporto Martre, negli anni ’90 la Francia si dotò di un arsenale legislativo più adatto alle minacce: fino al 1994 la tutela del patrimonio economico era disciplinata dall’ordinanza del 7 gennaio 1950, che poneva l’accento sulla regolamentare le carenze, lontano dagli imperativi della guerra economica. Solo nel 1994 la nuova versione del Codice penale incorporò, tra gli interessi fondamentali della nazione, “gli elementi essenziali del suo potenziale scientifico ed economico. Solo nel 2003 il sostegno del governo all’intelligence economica ha riscosso un rinnovato interesse.

Ciò è stato causato da un lato da un’altra vicenda di guerra economica, quella di Gemplus : nel 2003, la società francese Gemplus, leader mondiale nelle smart card, dopo aver accettato l’ingresso di Texas Pacific Group tra i suoi azionisti, non ha potuto impedire la nomina di Alex Mandl alla guida del suo consiglio di amministrazione… Alex Mandl era un direttore di In-Q Tel, un fondo di investimento creato dalla CIA, e supervisionava il trasferimento di queste tecnologie francesi negli Stati Uniti. Ancora una volta, un’impresa strategica francese fu vittima di intrighi americani in materia di guerra economica; ancora una volta, la Francia si è trovata politicamente male armata per rispondere a queste minacce. Gli avvisi dati al governo dalla Direzione della Sicurezza Territoriale (DST) non erano stati ascoltati, e i servizi segreti francesi non potevano impedire la distruzione di molti posti di lavoro alla Gemplus, né il trasferimento del brevetto dalla carta al chip al suolo americano .
Consapevoli di queste battute d’arresto, il primo ministro Jean-Pierre Raffarin e il parlamentare Bernard Carayon hanno spinto per la nomina di Alain Juillet, direttore dell’intelligence della DGSE, ad alto commissario per l’intelligence economica..
Tuttavia Tale organismo è poi entrato in concorrenza con il Servizio di coordinamento dell’informazione economica, che fa capo al Ministero delle finanze. Per evitare duplicazioni amministrative, i due organi sono stati accorpati per creare il Servizio di Informazione Strategica e Sicurezza Economica (SISSE), che costituisce il sistema esistente. Questa necessaria riforma non è stata completata fino al 2016: questa lentezza testimonia chiaramente la mancanza di considerazione da parte delle autorità pubbliche della politica di intelligence economica, in un contesto segnato dal passaggio del settore energetico del gruppo Alstom, nel 2014, sotto il controllo americano.

Come valutare oggi l’azione della SISSE, principale strumento delle politiche di sicurezza economica francesi? L’organizzazione sembra ridotta a reagire a posteriori alle minacce che incombono sulle aziende francesi, per due ragioni. In primo luogo, si occupa, come si evince dal suo titolo, solo di sicurezza economica: ciò significa che la Francia rinuncia a esercitare influenza e a sostenere in modo decisivo le sue imprese nella conquista dei mercati. In secondo luogo, come ha sottolineato Nicolas Moinet, specialista in intelligence economica,la struttura stessa della SISSE non è necessariamente la più adatta: di fronte a una minaccia multiforme che grava sulle aziende francesi , un organismo centralizzato all’interno della Direzione Generale delle Imprese (DGE) non è la forma più fluida che può assumere la politica di sicurezza economica. Al contrario, l’intelligence economica richiede adattamenti locali, che potrebbero passare in modo più deciso attraverso le prefetture, per raccogliere informazioni sul campo e contrastare più efficacemente le minacce. È vero che alle prefetture è stato affidato, da una direttiva del 2005, la conduzione delle politiche di sicurezza economica. Tuttavia, come già notato da Floran Vadillo e Nicolas Moinet nel 2012, questi servizi prefettizi non hanno raggiunto la dimensione critica che li renderebbe veramente efficaci.

L’intelligence economica francese soffre quindi della mancanza di risorse impiegate nei servizi statali decentralizzati. Mentre le iniziative stanno nascendo a livello di comunità, rimangono molto incerte e per molti insufficientemente operative: alcune regioni, come la regione dell’Alvernia Rhône-Alpes, producono così documenti destinati alle imprese per renderle consapevoli delle sfide della sicurezza economica , senza che il risultato di tali comunicazioni sia assicurato. La strategia di intelligence economica francese soffre quindi di due gravi carenze: da un lato, la SISSE, organismo specializzato in sicurezza economica, non è perfettamente idoneo a garantire la sicurezza delle imprese nazionali. D’altra parte, gli altri attori che intervengono sul campo sono troppo poco dotati finanziariamente, e troppo poco coordinati tra loro. Quali prospettive di sicurezza economica ci sono allora sul territorio francese? Gli strumenti di controllo degli investimenti esteri potrebbero dare i loro frutti se implementati: il caso Photonis ne è un esempio perfetto. Questa società con sede a Brive la Gaillarde, specializzata in sistemi di visione notturna – in particolare per uso militare – è stata oggetto di un’offerta di acquisto da parte del fondo di investimento Teledyne nel settembre 2020. Il Ministero delle Forze Armate si è poi opposto al suo veto alla vendita di questo azienda strategica. Alla fine, è stato il fondo europeo HLD ad acquisire questa azienda con 1.000 dipendenti.

In questo caso, lo stato è stato in grado di opporsi all’acquisizione di tecnologie sensibili da parte di investitori stranieri. Tuttavia, questo successo non deve essere un trionfo: mentre la natura strategica di Photonis non era in dubbio, viste le ovvie implicazioni militari delle tecnologie che stava sviluppando, lo stesso non vale per le altre azienda. La riflessione su cosa dovrebbe o non dovrebbe essere un asset strategico deve quindi essere avviata in modo sistematico e non occasionale : per esempio le fabbriche tessili di Gérardmer possono, ad esempio, essere considerate un asset strategico. La loro chiusura potrebbe causare un alto tasso di disoccupazione nel territorio, e pertanto devono essere messe in atto efficaci misure di tutela economica da parte delle autorità pubbliche per evitare acquisizioni che potrebbero mettere in pericolo l’attività, e per trovare, anticipando offerte di acquisto che mettano a rischio la sostenibilità dell’attività, acquirenti alternativi. Tuttavia, è improbabile che siano soggetti a un controllo sugli investimenti simile a quello applicato per Photonis.

Insomma Sostenere una politica di intelligence economica è un modo per la ripresa della Francia.E questo è una valutazione ampiamente condivisa non solo da Moinet,ma da Christian Harbulot e da Eric Denécé.
Il controllo degli investimenti esteri è quindi necessario, e nel caso Photonis ha dato risultati convincenti; non è però sufficiente definire un’adeguata politica di intelligence economica e tutelare le aziende in un contesto di guerra economica. Il disegno di legge portato da Marie-Noëlle Lienemann al Senato https://www.senat.fr/leg/ppl20-489.html
nella primavera del 2021 costituisce una buona risposta, oltre ai decreti Montebourghttps://www.legifrance.gouv.fr/loda/id/JORFTEXT000028933611/ e al necessario rafforzamento dell’arsenale giuridicohttps://www.economie.gouv.fr/extension-decret-2014-investissements-etrangers-entreprises-strategiques#
di fronte all’extraterritorialità del diritto americano.

https://www.iassp.org/2021/09/intelligence-strategica-geopolitica-e-guerra-economica-dagli-anni-50-ad-oggi/

La guerra economica da ieri ad oggi, Di Frédéric Munier

La guerra economica non è una novità: alcuni la fanno risalire ai Fenici! Sembrava a suo agio durante il boom del dopoguerra, ma non era mai scomparsa del tutto. Lo shock petrolifero del 1973 e soprattutto la globalizzazione le hanno dato una crescita eccezionale.

In De Esprit des lois , Montesquieu ha affermato che “l’effetto naturale del commercio è portare la pace. Due nazioni che negoziano insieme diventano reciprocamente dipendenti: se una ha interesse a comprare, l’altra ha interesse a vendere. Il commercio sarebbe quindi un antidoto alla guerra. Con la globalizzazione, alcuni potrebbero aver creduto che questa pacificazione sarebbe stata realizzata: mentre Alain Minc celebrava una “globalizzazione felice”, Francis Fukuyama vedeva nella fine della guerra fredda e nella generalizzazione del capitalismo liberale una “fine del mondo”. ‘storia’. Sulla scia dei classici, questi autori credevano che un mondo di crescente interdipendenza fosse portatore di una pace duratura.

Vent’anni dopo, tuttavia, sembra che il pianeta non sia così. La guerra tradizionale non è scomparsa, tutt’altro, soprattutto in Europa, dall’ex Jugoslavia all’Ucraina. Quanto alle relazioni economiche tra gli Stati, non assomigliano a un “commercio morbido”. Inoltre, nel 1990, Edward Luttwak aveva proclamato l’era della geoeconomia quando Bernard Esambert pubblicò The World Economic War.. Eccedenze tedesche contro deficit francesi, dollaro debole contro euro forte, difficili negoziati tra Stati Uniti e Unione Europea sul tema del trattato transatlantico, avidità di ricchezza africana… il mondo ora sembra un’arena. La guerra economica è onnipresente tanto che l’espressione è vittima del suo successo. Occorre quindi definire con precisione questo nuovo oggetto teorico e pratico, valutarne il reale ambito, i suoi mezzi di azione.

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La guerra economica è figlia della globalizzazione

Se la guerra economica nel senso più ampio del termine non è nuova, la sua forma contemporanea ha radici relativamente recenti. Possiamo considerare che dopo la seconda guerra mondiale, con la rinascita di un sistema monetario internazionale e la firma degli accordi GATT nel 1947, le regole per la concorrenza commerciale tra economie in gran parte nazionali furono stabilite all’interno del blocco occidentale. . Così, le lotte economiche che hanno avuto luogo in questi anni sono state confinate in un’arena di dimensioni limitate.

Inoltre, quando Bernard Esambert pubblicò Le Troisième Conflit mondial nel 1968 , tracciò i contorni di una guerra economica con virtù positive: non solo questa guerra “morbida” sostituì la guerra reale in Occidente, ma fu anche uno stimolo per i paesi industrializzati, impegnati in una proficua competizione per tutti. Inoltre, la guerra fredda ha costretto le nazioni del blocco occidentale a una solidarietà di fatto che ha ulteriormente limitato gli effetti delle loro rivalità economiche.

È stato proprio questo equilibrio a essere rotto nel 1991 con la caduta dell’URSS e la fine del comunismo. Da quel momento in poi, nulla ha ostacolato il modello capitalista e di libero scambio che, fino ad allora, rappresentava solo uno dei due sistemi economici all’opera sul pianeta. D’ora in poi l’arena è globale e quasi nessuno contesta le regole del gioco, allo stesso tempo la fine della guerra non fa scadere, tutt’altro, le politiche di potere; li sposta dal terreno militare e geopolitico (scontro di blocchi, conflitti periferici, ecc.) al terreno economico e commerciale (rivalità tra poteri sulle risorse, lotta per la quota di mercato, ecc.). Secondo Luttwak, ” in futuro sarà forse la paura delle conseguenze economiche a regolare le controversie commerciali, e certamente più gli interventi politici motivati ​​da potenti ragioni strategiche [1]  ”. Mentre probabilmente Luttwak sottovalutava l’importanza che avrebbero mantenuto le questioni geopolitiche, ha puntato il dito sulla nuova dimensione della nostra globalizzazione: quella della competizione tra le nazioni. Lungi dal pensare come gli uomini dell’Illuminismo che il commercio ammorbidisce i costumi, crede che il commercio sia solo una delle modalità della guerra quando il suo lato armato si indebolisce.

La dichiarazione di guerra

Vincitori della guerra fredda, gli Stati Uniti sono stati i primi a fare il punto sul cambiamento che il mondo stava attraversando. E’ vero, avevano praticato nei decenni precedenti il ​​versamento di parte del capitale militare verso le proprie aziende per promuovere la ricerca e lo sviluppo e per meglio armarle nella competizione internazionale. Fondamentalmente, la guerra fredda ha dato loro l’opportunità di sovvenzionare interi segmenti della loro economia per le migliori ragioni.

All’inizio degli anni ’90, l’argomento geopolitico è crollato; il discorso economico rimane in tutta la sua purezza. Carla Hills, rappresentante commerciale degli Stati Uniti, non dice allora: “Apriremo i mercati esteri con il piede di porco, se necessario”? Quanto a Bill Clinton, appena eletto, crede che ogni nazione sia ormai in competizione con le altre sui mercati mondiali. Nello stesso anno, il Segretario di Stato Warren Christopher dichiarò ufficialmente che la “sicurezza economica” doveva essere elevata al primo posto della politica estera degli Stati Uniti.

In altre parole, i vincitori della Guerra Fredda hanno ufficialmente dichiarato guerra economica al resto del mondo. La prospettiva è certamente ampiamente liberale; ognuno ha le sue possibilità e può vincere a questa partita, ma il discorso è ambiguo perché si tinge di difesa degli interessi nazionali. Alla fine mescola una retorica che è sia liberale che mercantilista, principi che sono difficilmente compatibili agli occhi degli economisti ma perfettamente legittimi per i politici.

Lo stato , comandante in capo della guerra economica

Su questo punto Bernard Esambert non ha dubbi. Perché un Paese possa combattere nella guerra economica, ha bisogno di uno Stato, “un signore della guerra risoluto, che conosca il mestiere delle armi e che ridia morale e spirito di conquista all’economia”.

Eppure negli anni ’80 e ’90, nell’era del neoliberismo e del consenso di Washington, lo stato era stato malmenato; era visto come un ostacolo allo sviluppo economico, quindi il presidente Reagan non aveva paura di affermare che “il problema è lo Stato”. La globalizzazione finanziaria, la transnazionalizzazione delle imprese, l’intensificazione del commercio internazionale hanno suonato la campana a morto per questa reliquia del passato. Tuttavia, è quasi una logica freudiana di ritorno del represso a cui stiamo assistendo oggi, ancor di più dalla crisi economica del 2008: nel 2009, The Economist non ha esitato a coprire ”  The Return of the Nazionalismo economico“. Non solo lo stato ha resistito alla pozione neoliberista, ma ora sta tornando in auge. Lo Stato ha continuato a svolgere il suo ruolo di supervisione dello spazio privato creando un ambiente legale, fiscale e infrastrutturale favorevole alla promozione dell’economia. Nel contesto attuale, gli Stati hanno, inoltre, assunto il ruolo di leader militare, nella conquista dei mercati e delle risorse, sia per assicurare il loro potere sia per l’arricchimento delle loro imprese e dei loro concittadini.

Questo perché lo Stato ha un certo numero di prerogative o capacità di cui le aziende sono prive per natura. Lo Stato, per usare l’espressione di Philippe Delmas, è un “maestro degli orologi [2]  “: solo può pensare a lungo termine, finanziare a lungo termine quando le aziende prediligono il breve o il medio termine. Inoltre può predisporre costosi strumenti al servizio delle proprie aziende per distinguere i settori del futuro, i campi in cui hanno interesse ad investire; in breve, lo stato ha una visione molto migliore del campo di battaglia di qualsiasi delle sue truppe. L’esempio giapponese del MITI, spesso qui citato, ha un valore paradigmatico. Ma la Commissione di pianificazione creata per la liberazione in Francia aveva ambizioni simili.

 

È anche lo Stato che guida le dinamiche di domani fissando degli obiettivi: così, la strategia di Lisbona che i paesi membri dell’UE hanno adottato nel 2000 intende fare dell’Unione “la prima economia della conoscenza” entro il 2010 collegando esplicitamente questo obiettivo a quello della piena occupazione. Solo uno Stato può affrontare questo tipo di compiti, la cui portata supera di gran lunga le capacità di finanziamento e le motivazioni di un’impresa. Aggiungiamo a questo che i capi di stato, generali in capo della guerra economica, talvolta guidano le operazioni sotto le spoglie di un VRP: si ricorda come Margaret Thatcher fosse personalmente impegnata nella negoziazione di un contratto aeronautico con Arabia Saudita negli anni ’80, pochi anni prima che Bill Clinton adottasse la stessa strategia di vendita nei confronti di Riyadh. È ovvio che il peso di un capo di Stato o di governo può essere decisivo in questo tipo di trattativa.

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Compagnie, semplici soldati?

Gli stati non fanno guerre senza truppe. Queste sono imprese, grandi e piccole. Bernard Esambert vede in esso “  i combattenti della guerra economica […] se sono al fronte esportando in maniera massiccia, dietro difendendo un mercato regionale o se attraversano i confini atterrando su territorio “ nemico ” come le multinazionali  ”. Se l’immagine è attraente, lascia da parte alcuni elementi fondamentali del dibattito sulla guerra economica.

Il primo riguarda una questione semplice ma allo stesso tempo tremendamente delicata in un’epoca di globalizzazione: la nazionalità delle aziende. Non è illusorio dire che sempre più società multinazionali, di proprietà di capitali stranieri, siano francesi? Nel 2012, più della metà del capitale del CAC 40 era detenuta da residenti stranieri. Si può immaginare un esercito i cui soldati sarebbero stati pagati dal campo di fronte? Aiutare le società cosiddette “nazionali” ha ancora senso in questo contesto?

Infatti, gli economisti hanno dimostrato che, nonostante la logica della transnazionalizzazione, l’idea di “nazionalità delle imprese” non era obsoleta [3]. Primo, perché un certo numero di società strategiche sono tutelate dagli Stati: direttamente quando sono azionisti – nel caso di Areva, Thalès o anche Dassault in Francia – indirettamente quando sono garanti della loro indipendenza dalle società estere. Ricordiamo quindi che nel 2006 l’amministrazione Bush ha costretto la compagnia Dubai Port World a vendere ad AIG International la gestione dei sei maggiori porti americani effettuata dalla compagnia P&O che DPW aveva acquistato. Allo stesso modo, nel 2005 è stato impedito alla società pubblicitaria China National Offshore Corporation di acquistare la società americana Unocal. Cosa significa questo se non che gli Stati riconoscono facilmente le società nazionali, anche se la loro capitalizzazione è ormai internazionale?

Quindi, anche nell’era dei ”  Global Players  “, si può parlare di nazionalità delle imprese. Se ci limitiamo ad alcuni esempi francesi, il tasso di partecipazione degli investitori francesi nel 2010 è stato il seguente: totale, 30%; Vivendi, 36%; Universale, 45%; Danone, 49%; BNP-Paribas, 39%; Crédit Agricole 44%, ecc. Questi esempi sono sufficienti a dimostrare che i titolari nazionali, se sono effettivamente in minoranza, costituiscono nondimeno la base dell’azienda. Quanto a manager e direttori, quasi tutti sono francesi. La capitale è internazionale ma l’azienda resta francese sia agli occhi dei suoi manager, dei suoi dipendenti che dei suoi azionisti stranieri.

Infine, possiamo assimilare le attuali grandi compagnie, a maggior ragione le FMN, alle legioni del tardo impero romano  ; misti, variegati, composti da quadri romani e truppe barbare, sono comunque l’esercito dell’Impero. Le aziende attuali, nonostante la loro natura globale, mantengono comunque un punto d’appoggio nazionale. Inoltre, il recente salvataggio di Peugeot intorno a un’alleanza tra la famiglia, lo Stato francese e il produttore cinese Dongfeng dimostra che l’idea di un’azienda nazionale non è morta con la globalizzazione, è solo  più complessa che in passato.

I nuovi obiettivi della guerra economica

La guerra economica contemporanea può essere letta come un conflitto tradizionale, con i suoi obiettivi di guerra. Il primo è simile per le vecchie potenze industriali a un imperativo difensivo: salvare posti di lavoro nell’industria. Questa sfida è diventata un’ossessione poiché le delocalizzazioni o il subappalto in paesi con bassi costi salariali stanno dissanguando i nostri paesi industrializzati.

 

Perché questa ossessione per i lavori industriali nel nostro mondo terziarizzato? Questo perché le nostre società postindustriali, nel senso che la maggior parte del PIL non proviene più dal settore secondario, sono tuttavia industrializzate come non lo sono mai state. Non solo i lavori industriali generano posti di lavoro terziario ma, inoltre, ce ne sono molti che richiedono una qualifica. Bernard Esambert parla di una “simbiosi industria-servizio” per designare questa coppia formata dall’industria high-tech e dal settore dei servizi che l’accompagna. Perdere le prime a vantaggio delle nuove potenze industriali significa perdere le seconde e rischiare di regredire, per non parlare del rischio di disoccupazione o sottoccupazione, che nessuna democrazia può sopportare a lungo termine. I sostenitori della guerra economica quindi ritengono che l’occupazione industriale debba essere difesa e persino mantenuta. Al di là dei dibattiti economici sul loro rapporto costi-benefici, la distruzione di posti di lavoro è difficile da accettare agli occhi degli elettori e, quindi, dei responsabili delle decisioni. Comprendiamo quindi lo zelo, almeno a parole, di Nicolas Sarkozy per salvare la fabbrica Gandrange o quella di François Hollande a Florange.

L’altro obiettivo della guerra, decisivo per gli Stati, non è più la difesa, ma la conquista dei mercati e delle scarse risorse. Bernard Nadoulek ha chiaramente dimostrato l’intensificazione della guerra per il controllo delle risorse naturali [4] , principalmente gli idrocarburi.

Niente forse di meglio di questo esempio illustra agli occhi dei suoi sostenitori l’evidenza della guerra economica: il petrolio è una risorsa scarsa e limitata. Ogni goccia guadagnata da uno viene persa dall’altra. Pertanto, poiché è la base dello sviluppo, è necessario che ogni Stato garantisca un approvvigionamento sicuro e continuo. La feroce lotta che Stati Uniti e Cina stanno conducendo per il petrolio africano ma anche per le altre risorse del sottosuolo di questo continente ne è un esempio. Assente dall’Africa 25 anni fa, la Cina è ora il suo terzo partner commerciale dietro Stati Uniti e Francia; per due terzi importa petrolio, ma anche metalli, cotone e pietre preziose.

Guerra economica per risorse scarse

Questa guerra per le risorse naturali è teatro di un’inversione dei rapporti di forza tra i paesi occidentali da un lato e paesi emergenti e / o in via di sviluppo dall’altro. L’ascesa della Cina , dei BRICS, l’ascesa dei fondi sovrani nei paesi arabi esportatori di petrolio lo dimostrerebbero. Nella guerra economica, le risorse sono potenti munizioni. E tutto suggerisce che questo conflitto si intensificherà.

L’Agenzia internazionale dell’energia stima che il fabbisogno energetico aumenterà del 50% entro il 2030, in particolare a causa della crescita indiana e cinese. La ricerca delle materie prime diventerà, infatti, un tema cruciale per gli Stati. Già nel 2007, il Committee on Critical Mineral Impacts on the US Economy ha pubblicato un rapporto in cui elenca undici minerali che sono particolarmente cruciali per l’economia americana a causa della loro scarsità, del loro bisogno nelle industrie ad alta tecnologia … il più ambito, è il rodio, utilizzato in particolare nei convertitori catalitici, e trovato in Russia ma anche in Sud Africa, un alleato molto migliore di Mosca. Metallo raro, è oggi oggetto di lotte in cui Stati e multinazionali combattono fianco a fianco. Garante dell’economia nazionale,

 

Sotto la “scarsità di risorse” compaiono anche le aziende che stanno diventando oggi, più che mai, preda non solo delle controparti private ma anche degli Stati. In quanto tale, la crisi ha facilitato l’ingresso nel capitale di aziende molto grandi dei paesi del sud via i potenti fondi sovrani. I grandi fondi di investimento degli Emirati Arabi Uniti, in particolare Dubai e Abu Dhabi, hanno ampiamente investito a favore della crisi economica in prestigiose società in difficoltà: EADS, AMD, Sony, Citigroup … Il fondo sovrano cinese detiene quanto a lui quasi il 10% di Morgan Stanley. Quanto al fondo Singapore, è entrato allo stesso livello nel capitale di Merril Lynch. Qui troviamo l’idea di rivoluzione nella gerarchia Nord / Sud, cara a Bernard Nadoulek; essere un vincitore nella guerra economica non è dato in eredità. I nuovi arrivati ​​stanno scuotendo la vecchia gerarchia. Si stima generalmente che l’Arabia Saudita sia responsabile del 5% del PIL degli Stati Uniti grazie alla creazione di ricchezza resa possibile dall’uso del petrolio arabo.

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Infine, c’è una merce rara e strategica che costituisce un obiettivo relativamente nuovo della guerra: l’informazione. Ora è importante che le aziende e gli Stati conoscano i loro avversari, il loro esatto livello tecnologico, la loro strategia, al fine di essere in grado di anticiparli. A volte parliamo di guerra cognitiva per designare l’arma principale della guerra economica. Éric Delbecque, specialista in intelligenza economica, afferma che “in un gioco competitivo duro che impone uno stile di gestione strategico reattivo e preciso, anche l’acquisizione di informazioni ad alto valore aggiunto si rivela essenziale per lo sviluppo dell’attività economica. che l’accumulazione di capitale finanziario e il coordinamento delle competenze umane [5] “. Se gli Stati vogliono oggi aiutare le loro imprese a conquistare quote di mercato, devono dotarsi di programmi di intelligence economica, pena il rimanere notevolmente indietro in una forma di lotta che appare sempre più cruciale.

Nel commercio multilaterale, oppositori multilaterali

Il nostro tempo è tessuto di contraddizioni; da un lato, gli Stati tengono un discorso ufficiale sostenendo, a volte con sfumature, un multilateralismo sostenuto dalle principali istituzioni internazionali come l’ONU, l’OMC, il FMI … Dall’altro, tutti vedono chiaramente che gli Stati si stanno sviluppando ragionamenti abbastanza diversi. L’imperativo della solidarietà in campo finanziario, auspicato dal G20, risponde alla necessità di non perdere quote di mercato in un contesto di tensione. Nel pieno della crisi, i Quaderni della Competitività titolava: “Alla conquista dei mercati esteri. Approfitta della globalizzazione e recupera la crescita ”. Inoltre, lo Stato sostiene i suoi imprenditori attraverso Ubifrance, l’Agenzia francese per lo sviluppo internazionale delle imprese, che riporta direttamente alla Segreteria per il commercio estero. Basti dire che la logica mostrata e assunta è proprio quella di una guerra economica.

Uno stato schizofrenico quindi? Diciamo piuttosto uno Stato emerso dalla logica della Guerra Fredda in cui l’appartenenza a un blocco implicava un comportamento almeno benevolo, se non unito, nei confronti dei suoi partner. Spetta a Christian Harbulot aver meglio mostrato questo passaggio dal manicheismo della Guerra Fredda alla guerra economica multilaterale che gli Stati stanno conducendo oggi. Secondo lui, la coppia alleato / avversario ha sostituito quella partner / concorrente. Questa trasformazione di possibili alleanze è accoppiata, secondo Harbulot, con una riorganizzazione del campo dei partner e dei concorrenti in termini geografici. I due blocchi della Guerra Fredda sarebbero succeduti a tre blocchi: il primo è l’area degradata del mondo occidentale da cui si possono eventualmente estrarre gli Stati Uniti, il secondo è lo spazio di manovra ampliato delle nuove potenze, il terzo, infine, è lo spazio di sopravvivenza di altri paesi. Ciascuno di questi spazi segue strategie di potere molto diverse. Inoltre, i membri di ogni blocco non sono necessariamente alleati come abbiamo appena visto.

Pertanto, qualsiasi affermazione perentoria diventa impossibile. Gli Stati Uniti e la Cina stanno conducendo una guerra implacabile per le risorse dell’Africa. Ma la Cina, attraverso l’acquisto di titoli del Tesoro USA, è il Paese che permette agli Stati Uniti di vivere di credito. Per quanto riguarda gli IDE americani, svolgono un ruolo significativo nella crescita cinese. Un altro esempio, Cina e Taiwan sono nemici politici ma partner economici… Christian Harbulot ha proposto un’immagine della guerra economica mondiale che riproduciamo qui. Fornisce una migliore comprensione delle ragioni e dei problemi che strutturano questo conflitto agli occhi delle persone coinvolte.

Armi e parate di guerra economica

Se la guerra economica è una lotta, si basa sulle armi e sulle parate. Nel contesto di una guerra coperta, un gran numero di strumenti sono utili come armi. Il primo di tutto è senza dubbio l’allenamento; nelle nostre società in costante cambiamento, la formazione iniziale aiuta a creare una forza lavoro o manager preparati al cambiamento.

Allo stesso modo, l’importanza data alla ricerca è fondamentale. Dal 2010 la Cina ha più ricercatori degli Stati Uniti, anche se questi ultimi godono, grazie alla pratica della fuga dei cervelli , delle menti più acute del pianeta. In questo ambito è fondamentale la collaborazione pubblico-privato; negli Stati Uniti, il Bayh-Dole Act del 1980 prevede che i brevetti finanziati con fondi pubblici – da università o centri di ricerca pubblici – siano assegnati principalmente sotto forma di diritti esclusivi a società private americane.

In altre parole, agli occhi degli Stati in guerra economica, la ricerca dei brevetti è davvero un affare nazionale, una garanzia di produttività, un’arma decisiva nella prospettiva di una lotta commerciale tra le nazioni. Questi strumenti si mettono al servizio della competitività, questa capacità di affrontare la concorrenza sui mercati esterni ed interni. Non c’è dubbio in questo campo che l’Agenda 2010 proposta dal Cancelliere Schröder dal 2003 al 2005 abbia restituito alla Germania il vantaggio che le consente di raccogliere favolosi avanzi commerciali, compreso quello del 2013 che, con quasi 200 miliardi di euro, è il più grande mai registrato nella sua storia… a scapito dei suoi vicini europei, Francia compresa.

 

L’ultima arma della guerra coperta si basa sull’intelligence economica. È simile sia a un’arma, a uno stivale segreto – che anticipa il movimento del nemico per sorprenderlo e rubargli la vittoria – ma anche a una tattica di difesa – anticipando un rischio di alleanza, praticando disinformazione, proteggiti dalla concorrenza conoscendo i progressi dei tuoi principali avversari. Gli Stati Uniti sono gli attori principali di questa guerra dell’informazione. Ora sappiamo che la NSA, inizialmente creata in una logica di controspionaggio durante la Guerra Fredda, avrebbe utilizzato la rete Echelon per conoscere la posizione dell’Unione Europea nel 1994 durante i negoziati finali dell’Uruguay Round. Nel 2014, il New York Times ha rivelato che l’Agenzia aveva spiato uno studio legale americano che difendeva un paese straniero in una controversia commerciale con gli Stati Uniti … L’informazione è diventata una delle questioni chiave nella guerra economica .

Dalla guerra coperta alla guerra aperta

Man mano che gli stati passano dalla guerra coperta alla guerra aperta, le armi cambiano. Questi attacchi possono assumere la forma di ritorsioni geoeconomiche in risposta a una crisi geopolitica; questo è attualmente il caso dell’embargo su frutta e verdura tra Unione europea e Russia.

Anche le restrizioni volontarie all’importazione sono simili a misure di ritorsione. Il noto esempio delle restrizioni imposte dagli Stati Uniti alle auto giapponesi negli anni ’80 testimonia la violenza del conflitto. Di fronte alla crescita delle vendite di auto giapponesi, Washington ha cercato di proteggere i ”  Tre Grandi  “. Piuttosto che procedere unilateralmente, il governo statunitense ha chiesto ai giapponesi di limitare le loro esportazioni. Tokyo ha preferito negoziare questa misura perfettamente anti-liberale piuttosto che correre il rischio di imporre restrizioni ancora più sfavorevoli: questo è l’ accordo di restrizione volontaria del 1980.

Un certo numero di controversie tra Stati portano all’adozione di picchi tariffari come ritorsione; gli Stati Uniti hanno quindi deciso nel gennaio 2009 di triplicare i dazi doganali sul Roquefort in risposta al divieto di esportazione in Europa di carne bovina contenente ormoni. In ognuno di questi casi, il miglior attacco è stato la difesa.

Quando si preoccupano di evitare conflitti frontali, gli Stati preferiscono un approccio alternativo che consiste nel facilitare l’assalto delle loro aziende sui mercati esteri. Per questo il potere politico è l’ardente promotore delle sue imprese. Questa vecchia pratica è stata sistematizzata negli Stati Uniti sotto forma di “diplomazia commerciale”. Ciò si basa su tre principi: preparare il terreno liberalizzando il commercio con il paese di destinazione; utilizzare l’intelligence economica, l’intelligence industriale e commerciale per fornire alle aziende americane tutti i dati sul campo da conquistare; infine, allestire strutture ad hoc come la War room. Questa strategia pubblica offensiva è interamente al servizio delle società private che sono la forza degli Stati Uniti. È nello stesso spirito che Washington sta ora aumentando la firma di trattati bilaterali di libero scambio: con la maggior parte dei paesi dell’America centrale negli anni 2000, con il Marocco nel 2006, la Corea del Sud nel 2010. Ma le due questioni principali che li occupano ora sono il trattato transpacifico da un lato e il trattato transatlantico con l’UE dall’altro.

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Infine, c’è un’ultima arma che, singolarmente, è oggi quasi prerogativa di pochi paesi emergenti: i fondi sovrani. Anche se lo negano, questi fondi prendono piede in gruppi a volte strategici e aiutano a guidare la loro strategia.

Strategie di difesa

Per affrontare questi pericoli, coloro che sono coinvolti nella guerra economica hanno sviluppato politiche simili a scudi o persino contrattacchi. In un contesto in cui le barriere doganali sono storicamente basse, ci sono altri mezzi per preservare il suo mercato: sussidi all’esportazione, standard, favoritismi dati alle aziende nazionali in una forma o nell’altra (pensiamo allo Small Business Act che riserva -United alcuni appalti pubblici alle PMI) … tutti i mezzi sono buoni.

È il caso del denaro, che è stato a lungo e continua ad essere un’arma difensiva nelle mani degli Stati, in particolare sotto forma di svalutazione. Il Regno Unito ci ha fornito un recente esempio dell’uso geoeconomico che si potrebbe fare di una valuta: nel pieno della crisi, Londra si è lasciata sfuggire la sterlina mentre l’euro è rimasto forte. In questo modo, le esportazioni britanniche sono state stimolate. Potremmo riprodurre l’analisi per lo yuan o anche per lo yen in un momento in cui Shinzo Abe ha lanciato una politica di espansionismo monetario.

Per i grandi Stati occidentali si tratta prima di tutto di proteggere i propri mercati in un momento in cui il protezionismo di vecchio tipo è quasi bandito. Per i paesi emergenti, la posta in gioco è diversa: aumentando il numero delle fonti normative (statali, internazionali, private, pubbliche, ecc.), Indeboliscono il sistema giuridico universale progettato dagli Stati dominanti. Paradossalmente, il desiderio di unificare il commercio mondiale ha portato a una frammentazione giuridica di quest’ultimo.

 

Le regole del commercio sono diventate in pochi decenni un campo di battaglia. Ne è testimone l’emergere in Francia della nozione di “patriottismo economico”. Diffusa nel 2005 da Dominique de Villepin, allora Primo Ministro, la dottrina del patriottismo economico si basa sull’idea che spetterebbe allo Stato difendere le aziende considerate appartenenti a settori strategici. In pratica, il successo è misto: se Suez si era sposata con GDF nel 2008 per far fronte a un potenziale acquisto da parte dell’italiana Enel, Arcelor è stata assorbita da Mittal.

Ma colpisce il fatto che l’idea trascenda le divisioni politiche: Arnaud Montebourg, durante il suo breve soggiorno a Bercy, fece adottare un “decreto Alstom” che estendeva il decreto Villepin a nuovi settori, sottoponendo così gli investimenti stranieri in Francia a autorizzazione del governo. Non è esclusa la Germania di Angela Merkel, che ha anche indicato di voler vigilare sugli investimenti di fondi sovrani in società tedesche. Attraverso questi esempi, troviamo il tradizionale antagonismo tra economisti e politici: i primi insistono sul costo economico e sociale della guerra economica e sul protezionismo che essa genera, i secondi sottolineano l’indipendenza e il potere nazionale.

Considerando il pianeta nel 2014, si è tentati di concludere che la guerra ha un futuro radioso; guerra economica, ovviamente, ma anche guerra tradizionale. Forse più grave, è possibile che le guerre economiche di domani degenerino in conflitti armati. Il “dolce mestiere” caro a Montesquieu sembra lontano. Forse più che mai il mondo assomiglia alla descrizione di Nietzsche in The Will to Power  : “Un mare di forze in tempesta e flusso perpetuo, eternamente mutevole, eternamente declinato con giganteschi anni di ritorno regolare. ”

 


  1. Edward Luttwak, Il sogno americano in pericolo , op. cit., p. 40.
  2. Philippe Delmas, The Master of Clocks: Modernity of Public Action , Parigi, Odile Jacob, 1991.
  3. A questo proposito si veda Elie Cohen, La Tentation hexagonale: sovereignty put to test of globalization , Paris, Fayard, 1996.
  4. Bernard Nadoulek, L ‘ É popée des civilisations , Parigi, Eyrolles, 2005. Possiamo anche fare riferimento, dello stesso autore, a “La guerra economica mondiale per il controllo delle risorse naturali”, Géoéconomie , n ° 45, p. 23-32.
  5. Éric Delbecque, Economic Intelligence , Parigi, PUF, 2007, p. 29.    https://www.revueconflits.com/guerre-economique-histoire-mondialisation-entreprises-etats-frederic-munier/

Teorici della guerra economica, di David Colle

Il campo dei teorici della guerra economica è stranamente deserto se paragonato a quello dei liberali. In questo (quasi) vuoto spicca un nome, quello di Friedrich List. Ma il numero non fa il valore di una teoria …

24 novembre 2020 In Economia, energie e imprese , Idee Lettura di 8 minuti

Come il suo (quasi) omonimo compositore Franz Liszt, che ha tirato fuori l’arpeggi di pianoforte e ottave détonnèrent al momento della Chopin, Schumann e Brahms, Friedrich List spinto all’inizio del XIX °  secolo, che lo considera – anche per essere una scuola  : classica, di libero scambio, troppo poca cura secondo lui del passato come del futuro delle nazioni.

Una semplice idea riassume il suo pensiero e lo avvicina a Marx: la produzione precede lo scambio. Prima di poter consumare, devi produrre. List rompe con una scuola che accusa di “vago cosmopolitismo”, a cui si oppone “la natura delle cose, gli insegnamenti della storia, i bisogni delle nazioni”. L’analisi dello scambio deve piegarsi a quella della produzione, il cosmopolitismo alla politica, la teoria alla storia.

Tuttavia, nulla sembra più lontano dal suo punto di vista che considerare il Sistema nazionale di economia politica come un pretesto per la guerra. Nemmeno il conflitto. Piuttosto in competizione. Se List è in guerra, è contro l’ideologia dominante del suo tempo.

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Concepito in America, scritto in Francia, pubblicato in Germania

Fu alla scuola del vasto laboratorio americano in cui List visse a lungo, ancora sotto l’influenza del Report on Manufactures scritto da Alexander Hamilton nel 1791, che fu concepito il Sistema nazionale di economia politica . Ma è in Francia che è per la maggior parte scritto, e in Germania che viene pubblicato nel maggio 1841. Che cosa c’è in gioco? La teoria dominante del vantaggio comparato.

David Ricardo formulò questa teoria della specializzazione e del libero scambio nel 1817 per estendere ma anche modificare quella di Adam Smith. Senza volerlo, e probabilmente senza secondi fini (?), Porta in pratica a stabilire il potere industriale inglese. Il Portogallo, dimostra, deve specializzarsi nella produzione del vino, l’Inghilterra in quella dei tessuti. Mentre i tessuti sono il motore della rivoluzione industriale in movimento!

 

Forse List ha visto nel libero scambio offerto dall’Inghilterra alla Francia, agli Stati Uniti o alla Germania una trappola – un complotto? – destinato a mantenere questi paesi indietro . Nel 1846, List era a Londra quando le Corn Laws furono abrogate . Fu alla fine di quello stesso anno, tornato nel continente, che List si suicidò: si spera che il suo atto non fosse correlato a questo momento chiave dell’evoluzione verso il libero scambio.

Industria e concorrenza

L’elenco dovrebbe essere letto, avendo cura di far risuonare i termini che usa: protezione delle industrie nascenti , protezionismo educativo . Il protezionismo non è giustificato né per le nazioni che non hanno ancora iniziato il loro sviluppo economico e industriale, né per le nazioni che questo sviluppo ha portato ad avere industrie che ora sono armate nella concorrenza internazionale. Viene fatto solo per educare nella fase di transizione. E se durante questa fase le industrie protette da tariffe fino al 60% non riescono a prosperare, allora la concorrenza sta facendo il suo lavoro… Darwiniana.

List resta dunque a favore del libero scambio, ma solo tra nazioni che hanno raggiunto la fase che lui chiama “economia complessa” e che diremmo “sviluppata”. “Tra due paesi molto avanzati, la libera concorrenza può essere vantaggiosa solo per entrambi, se hanno all’incirca lo stesso livello di istruzione industriale, e per una nazione indietro, da un Sorte sfortunata (…) chi (…) possiede le risorse materiali e morali necessarie al suo sviluppo, deve (…) rendersi capace di sostenere la lotta con le nazioni che l’hanno preceduta. “

Ciò che gli interessa è “il graduale sviluppo dell’economia dei popoli”. L’economico, come mezzo per sperare di distogliere l’attenzione dalla volontà di potere. Come se, ai suoi occhi, fosse il libero scambio ingenuamente cosmopolita e la negazione della storia e delle culture a portare alla guerra economica, mentre il protezionismo illuminato avrebbe unito gli stati-nazione attorno a una storia universale di sviluppo. .

Intermezzo keynesiano

Si potrebbe essere sorpresi di trovare Keynes in una rapida panoramica degli autori che hanno frequentato il concetto di guerra economica. Eppure, forse è lui che si è avvicinato di più. In effetti, le conseguenze economiche della pacea lui sono dedicate, pubblicate nel 1919: in sintesi, Keynes ritiene che la pace ottenuta a Versailles non sia altro che una guerra economica imposta alla Germania per spirito di vendetta. Vede in esso un desiderio di catturare, un desiderio di esaurire, un desiderio di impedire alla Germania di sfruttare e anche di salvaguardare le fonti del suo potere. Keynes considera il perdono economicamente redditizio, mentre la riparazione rischia di essere formidabile sia per la dinamica disincentivante che avrà per i vincitori sia per il contagio deflazionistico e recessivo che implica per tutti. Senza contare che questa guerra economica imposta alla Germania rischierà di costituire un alibi per il risentimento nazionale e la base per la vendetta.

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Nel 1933, nell’autosufficienza nazionale , Keynes non temeva tanto il libero scambio quanto la libera circolazione dei capitali. Non ci sono più politiche economiche nazionali indipendenti ed efficaci non appena il capitale è mobile. Un secolo e mezzo prima, Ricardo già temeva per una nazione i cui capitalisti avrebbero perso, per ragioni di redditività, la preferenza per gli investimenti nazionali: “riluttanza naturale” e “paura” limitano ancora l’emigrazione di capitali, “Sentimenti” che sarebbe stato, ha detto “mi dispiace vedere indebolirsi [1]  “. Una preoccupazione che è diventata di grande attualità.

Dalla strategia microeconomica alla guerra macroeconomica

Nel 1944, il matematico John von Neumann e l’economista Oskar Morgenstern, unirono le forze per pubblicare Theory of Games and Economic Behavior, che segna il punto di partenza di un nuovo modo di analizzare le interazioni strategiche tra gli attori. La polemologia, la scienza della guerra, si svilupperà su nuove basi. La teoria dei punti focali, in particolare, estende l’analisi dell’equilibrio strategico del potere e ha guadagnato Thomas Schelling, autore nel 1960 di The Strategy of Conflict , il Premio Nobel per l’economia.

Questi contributi teorici fondamentali per la scienza economica aiutano a fondare analisi che, a poco a poco, si discosteranno dal comportamento microeconomico e dall’analisi della razionalità verso il macro-potere. Lester Thurow con Testa a testa , The Coming Economic Battle between Japan, Europe and America (1993), Edward Luttwak autore nello stesso anno di The Endangered American Dream: How to Stop the United States from Being a Third World Country and How to Win the Lotta geo-economica per la supremazia industriale (un bel programma), Paul Kennedy e il suo The Rise and Fall of the Great Power: Economic Change and Military Conflict dal 1500 al 2000 (1987) lo testimoniano: la nozione di guerra economica sembra sempre più legata alla paura, da parte delle grandi potenze, di mettersi al passo con nuove potenze.

Un concetto di perdenti irritati?

Il premio Nobel francese per l’economia Maurice Allais, partecipante alla fondazione della microeconomia comportamentale, sostiene che l’analisi liberale, di cui afferma di aver trascurato troppo il tempo concentrandosi sul passaggio da un equilibrio all’altro . Sono queste le difficoltà incontrate dalla Francia che Christian Stoffaës mette in luce su La Grande Menace Industrielle nel 1978, una somma ragguardevole in cui analizza le strategie difensive e offensive nella “battaglia per il mercato mondiale”. Oggi Bernard Esambert è senza dubbio il principale difensore francese della guerra economica dal suo saggio del 1991, La guerra economica mondiale .

Questi tre autori hanno una cosa in comune: tutti e tre sono politecnici e ingegneri minerari. Il che può sollevare alcune domande, come una provocazione. Il concetto di guerra economica, se può aver avuto una leggera popolarità in Germania, un paese di aziende molto competitive, oggi ha poco o niente. Il concetto è più di moda negli Stati Uniti e in Francia, due paesi che mostrano lunghe fasi di deficit commerciale e colpiti da una reale ma forse esagerata deindustrializzazione.

La guerra economica è una preoccupazione prevalentemente americana e francese?

Maurice Allais contro il “laissez-fairism”

Maurice Allais, da tempo il nostro unico premio Nobel per l’economia (nel 1988), non usa la formula della “guerra economica”. Le analisi che ha sviluppato a partire dagli anni ’90, tuttavia, forniscono un valido supporto a tutti i critici di ciò che lui chiama “laissez-fairism”.

Maurice Allais è tuttavia un liberale che ha criticato aspramente il sistema socialista. È anche un sostenitore della costruzione europea, o meglio è stato un sostenitore perché crede che il sistema sia stato pervertito dall’inizio degli anni ’70 con l’ingresso del Regno Unito nella Comunità. Da quel momento per lui non si tratta più di Europa, ma di “organizzazione di Bruxelles”.

Paradossalmente, Allais si definisce anche un socialista. Questo perché per lui lo scambio non è fine a se stesso ma un mezzo per elevare il tenore di vita di tutta la popolazione. Non è un caso che il suo libro principale dedicato a questi temi, La Mondializzazione [2] , sia dedicato “alle innumerevoli vittime, in tutto il mondo, dell’ideologia globalista del libero scambio”.

A suo avviso, il libero scambio può realmente esistere solo tra paesi con un livello di sviluppo, costi salariali e protezione sociale comparabili. Era il caso della CEE degli anni 60. Non è più il caso dell’integrazione dei paesi dell’Est. Lo è ancora di meno quando si apre al mondo intero, rinunciando al principio di preferenza comunitaria e accettando senza precauzioni i prodotti fabbricati in paesi con salari molto bassi. I trasferimenti e l’aumento della disoccupazione sono quindi inevitabili. Come soluzione, Allais sostiene… il trasferimento di Pascal Lamy, commissario europeo e poi direttore dell’OMC. Più seriamente, chiede un protezionismo misurato che controlli le importazioni senza vietarle.

https://www.revueconflits.com/theoriciens-guerre-economique-friedrich-list-david-colle/

Dalla guerra economica all’intelligence economica, di Alain Jullet

Dalla guerra economica all’intelligence economica

Che la guerra sia convenzionale o non convenzionale, sappiamo dai tempi di Sun Tzu che l’attacco o la difesa più efficace dipende direttamente dalla qualità dell’intelligence. Nella guerra delle corse i corsari più famosi non attaccarono una nave qualsiasi. Di recente e in modo simile, i pirati somali erano ben consapevoli dei loro obiettivi. In entrambi i casi ciò presupponeva l’esistenza di informatori nel cuore del nemico con i mezzi necessari per comunicare sul reale interesse delle barche in partenza. I sottomarini tedeschi dell’ammiraglio Dönitz che siluravano i mercantili nei convogli di rifornimenti alleati conoscevano le rotte che seguivano.

Utilità a colpo d’occhio

Ma sia nel contesto della guerra che per realizzare le sue conquiste, tutte queste azioni erano estremamente costose in termini di uomini e materiale. Questo spiega perché stiamo assistendo a un’evoluzione molto chiara delle concezioni strategiche. L’esercito diventa il complemento mirato di un’azione economica su vasta scala in cui la conoscenza dell’avversario mediante le tecniche dell’intelligence economica diventa la chiave del successo.

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Gli Stati Uniti, che non hanno più i mezzi per imporre le proprie visioni egemoniche al mondo attraverso il rapporto di potere, lo hanno capito prima di molti altri. L’affare BNP può essere compreso solo integrando il desiderio americano di assicurarsi la supremazia nei negoziati commerciali con l’Iran. Impone regole esclusive attraverso il dollaro per garantire le proprie transazioni. Allo stesso modo, tutti sanno che l’acquisizione americana di una partecipazione in Peugeot ha costretto il marchio del leone a lasciare immediatamente l’Iran … il che ha permesso agli americani di sostituirlo con un mercato di ricambi di successo.

La procedura Discovery consente a un giudice statunitense di rivendicare tutti i documenti di una transazione eseguita altrove da uno straniero, se l’ha fatta in dollari o se utilizza la Borsa di New York. Il rifiuto di ottemperare comporta il divieto di attività sul territorio americano. Più che discutibile dal punto di vista del diritto internazionale, fornisce informazioni utili per lo Stato e le imprese. In questo ambito, l’affare Snowden ha mostrato a chi dubitava di quanto la raccolta di informazioni di ogni tipo consentisse di costruire strategie vincenti sia a livello politico che economico. Smettiamola di essere ingenui: nella competizione mondiale come nel bridge, una buona occhiata è meglio di un brutto vicolo cieco.

 

L’intelligenza economica attraverso la sua pratica di monitoraggio e analisi consente a qualsiasi azienda e qualsiasi Stato di ottenere dati utili sull’avversario o sul concorrente. Nel nostro mondo ipermediale, attraverso i social network e con l’ausilio dei motori di ricerca, la maggior parte delle informazioni su un argomento è legalmente a disposizione di chiunque sappia ricercarlo. La tecnica di benchmarking , che prevede di ottenere preventivamente i rapporti della controparte, permette di confrontarsi, di individuarne i punti deboli e di forza e quindi di fissare gli obiettivi di miglioramento richiesti. Lo sviluppo di un’efficienza mirata creerà un divario invalicabile per il concorrente che consentirà, anticipando o negoziando, di evitare una costosa guerra economica frontale.

Conosci l’avversario e il campo

Il miglior posizionamento prezzo-qualità, la migliore innovazione in relazione alle aspettative del mercato prevarrà senza che l’azienda debba davvero lottare. Se il concorrente è più efficiente e non è sospettoso, una campagna di influenza ben mirata sui suoi difetti ne limiterà l’impatto o, meglio, lo destabilizzerà agli occhi del suo mercato e dei consumatori abituali o potenziali. Così, paradossalmente, possiamo allontanarci dalla guerra economica attraverso la pratica congiunta del monitoraggio alla ricerca di informazioni, sicurezza per proteggere la propria e influenza per trasformare il consumatore o l’utente in un promotore convinto di il marchio o il prodotto.

I moderni strumenti di ricerca, selezione ed elaborazione dati devono essere aggiornati ogni giorno con la crescita esponenziale delle capacità delle tecnologie digitali e del cyberspazio. Siamo solo all’inizio di una rivoluzione dei processi che si svilupperà nei prossimi anni. In questo sconvolgimento permanente, chi trae vantaggio dalle migliori armi del momento ha un vero vantaggio competitivo. La crescente disponibilità di dati nei big data , il tracciamento degli oggetti da parte dei chip rfyd, l’uso di apparecchiature collegate ovunque ci si trovi cambia il trattamento dei conflitti competitivi. Se la strategia globale rimane essenziale perché dà l’asse dello sforzo, l’arte operativa cara al maresciallo Ogarkov e la tattica diventano inutili poiché sappiamo molto precisamente dove stiamo andando e come. È il più efficiente, il più veloce, il meglio posizionato che vince; può diventarlo solo attraverso la pratica permanente dell’intelligenza economica con strumenti costantemente aggiornati. Evitiamo la guerra ma questo ha un costo perché, in questo tipo di competizione, non si vince con uno sconto.

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La vittoria è pensabile solo avendo, durante tutto il corso del metodo, la volontà di avere permanentemente una perfetta conoscenza dell’avversario e del suo comportamento. Lungi dall’accontentarci di restare sulla difensiva, dobbiamo tornare all’adagio che la miglior difesa è l’attacco. Nella guerra in movimento l’importante è fissare l’avversario, se possibile in una posizione sfavorevole, che presuppone una perfetta conoscenza del nemico e del terreno. Lo stesso vale nel mondo economico.

 

La pratica dell’intelligence economica, pur permettendo che venga svolta nelle migliori condizioni, riduce la guerra alla sua forma più semplice. Ma ciò implica prima una perfetta conoscenza di se stessi, poi acquisire quella dei suoi concorrenti e partner, amici o nemici. È il confronto delle catene del valore specifiche di ogni persona che ci permetterà di creare la differenza costruendo un vantaggio competitivo nel tempo abbastanza forte da portare l’altro a rinunciare alla guerra perché sa che è persa in anticipo.

Come in una corsa campestre, chi corre in testa non può essere preso, se non in caso di incidente, negli ultimi chilometri.

https://www.revueconflits.com/guerre-economique-intelligence-renseignement-entreprises-alain-juillet/

Antonino Galloni L’altra moneta Womanesimo e Natura, recensione di Teodoro Klitsche de la Grange

Antonino Galloni L’altra moneta Womanesimo e Natura (dall’avere all’essere), Ed. Arianna 2019, pp. 159 € 15,00

È inconsueto leggere nel “proemio” del libro che “Al liceo e all’Università mi hanno insegnato che la guerra è la continuazione della politica, con altri mezzi; adesso insegno che l’economia può essere la continuazione della guerra, con vari mezzi”. Il che significa: a) che la politica – e il politico – è determinante; b) che l’economia riproduce – e spesso serve – le stesse distinzioni e finalità del politico. Cioè crea (e supporta) inimicizia ed amicizia, situazioni di comando ed obbedienza. Cosa ovviamente nota al pensiero moderno da Marx a Weber, Schmitt o Wittvogel, ma dimenticata da quello contemporaneo per cui l’economia (lo sviluppo economico) dovrebbe avere come effetto di eliminare il dominio, pacificare, e così subordinare il politico.

L’esprit de commerce limita l’esprit de comquete: che la considerazione di Constant non fosse una regolarità, ma solo una possibilità, più probabile dopo la rivoluzione francese che qualche secolo prima, lo provano, dopo la morte del pensatore di Losanna, le guerre imperialistiche che hanno connotato – in parte – il XIX e XX secolo. Nello stesso periodo, il raggruppamento amico/nemico è stato, almeno fino al collasso del comunismo, determinato (per lo più) da una scriminante economica: la proprietà o meno dei mezzi di produzione.

In tale prospettiva è chiaro che servirsi sempre di moneta a debito – com’è quella che l’istituto d’emissione presta allo Stato – può non essere opportuno, specie in situazioni di crisi. Ricorda Galloni “durante la Prima Guerra Mondiale il Ministro del Tesoro del Regno Unito, trovandosi in difficoltà, scelse di emettere sterline non a debito (non fornite dalla Banca d’Inghilterra), così risolvendo un enorme problema per il suo Paese (e non si può negare che ciò abbia contribuito alla conclusione positiva delle belligeranze per il suo Paese … eppure funzionò” e potrebbe ancora funzionare.

Onde l’economista propone di emettere moneta a sola circolazione nazionale, non convertibile, come mezzo per uscire dalla crisi. Mesi fa, polemizzando con Draghi il quale aveva sostenuto – mal applicando l’albero di Porfirio (la c.d. “divisione esauriente”) e riferendosi ai mini-Bot proposti dalla Lega che questi o sono illegali o generano ulteriore debito – che non era vero né l’uno né l’altro. Infatti perché fossero illegali occorrerebbe che fossero vietati da una legge o un Trattato: ma il Trattato di Lisbona non li vieta. Che aumentino lo stock di debito non è neanche vero, nella proposta leghista, perché da un lato sono liberamente accettati dal creditore, il quale lo fa perché opta di essere pagato subito con quelli e non anni dopo con l’euro. D’altra parte se il creditore li gira in pagamento a qualche (proprio) creditore, anche in tal caso il terzo può liberamente accettarli o meno. Il tutto fu (ampiamente) sperimentato in Germania negli anni ’30 con un mezzo simile: le cambiali MEFO (garantite dallo Stato). Scriveva Schacht, il quale tale sistema aveva ideato e realizzato, che data la garanzia del Reich e il buon saggio d’interesse, gran parte delle cambiali finirono per essere girate a terzi o detenute in attesa della scadenza, piuttosto che presentate per lo sconto alla Reichsbank.

L’effetto (anche) delle cambiali Mefo fu di finanziare gli enormi investimenti pubblici del Terzo Reich (compreso il riarmo). Anche in tal caso “funzionò”. Ma contro tali strumenti alternativi si ricorre ad ogni genere di esorcismo anche a quello della logica.

Dimenticando quello che l’Europa (tanto amata) ci ricorda sempre, da ultimo con la sentenza della Corte UE del 28 gennaio: che i debiti vanno pagati. e alla scadenza. L’inverso di quanto praticato dalla finanza (piddina soprattutto) della seconda repubblica.

Peraltro nascondendo che di tali – o simili – mezzi alternativi d’estinzione delle obbligazioni si era fatto uso con risultati positivi. Dato però che l’assetto di potere economico oggi prevalente è diverso, occorre non intaccarlo. E con buona pace dell’ “ottimo” economico, torniamo così al rapporto di dominio.

Teodoro Klitsche de la Grange

ARIANE 6: L’INIZIO DELLA FINE PER L’INDUSTRIA SPAZIALE EUROPEA?, di Hajnalka Vincze

ARIANE 6: L’INIZIO DELLA FINE PER L’INDUSTRIA SPAZIALE EUROPEA?

Nota IVERIS – 01 gennaio 2016
Studio e analisi

Hajnalka Vincze

Una risorsa strategica per eccellenza, il lanciatore Ariane è il simbolo stesso dello spazio Europa. Fatto piuttosto raro, è un successo politico, tecnologico e commerciale. Tuttavia, oggi rischia di essere svilito, a seguito di un trasferimento senza precedenti di controllo e poteri dallo Stato ai produttori privati.

 

Il progetto del nuovo lanciatore, successore dell’attuale Ariane 5, è stato approvato nel dicembre 2014 dai ministri europei. Per affrontare la concorrenza internazionale, in particolare l’American SpaceX e i suoi lanci a basso costo, hanno accettato, dalla A alla Z, un progetto proposto dagli industriali. Piuttosto che favorire l’innovazione tecnologica, questo progetto si basa sul controllo di questi ultimi su tutto il settore. Prevede una riorganizzazione-privatizzazione dall’alto verso il basso per avvicinarsi a un modello, presumibilmente più competitivo, importato dagli Stati Uniti; ma senza la garanzia di impegni statali che, in realtà, lo fanno vivere dall’altra parte dell’Atlantico.

In tal modo, i governi europei, principalmente la Francia, stanno assumendo seri rischi. Oltre agli aspetti finanziari (che fanno apparire lo spettro di un’immensa cattiva gestione), è soprattutto la modifica dell’equilibrio di potere tra industriali e autorità pubbliche che si prospetta molto problematica. Fornire le chiavi di questo programma altamente strategico agli industriali come Airbus, con scopi dubbi e fedeltà malleabile, mostra, da parte dello Stato, un atteggiamento quanto meno irresponsabile.

Presupposti sbagliati

Innanzitutto si deve notare che il razzo, così come la società che lo gestisce e lo commercializza, Arianespace, è un successo indiscusso e indiscutibile. Nelle parole di Stéphane Israël, CEO di Arianespace, recentemente ascoltato al Senato, Ariane è “sul punto di battere un doppio record operativo e commerciale”, pur essendo un orgoglio europeo e nazionale, avendo come compito principale ” garantire un accesso europeo indipendente allo spazio ”. Sorprendentemente, in questi giorni, il signor Israël non dimentica di ricordare lo sforzo collettivo dietro questi straordinari risultati. Alcuni mesi prima, davanti ai deputati, aveva sottolineato che “i sistemi di lancio che la società gestisce, in particolare Ariane, non esisterebbero senza la volontà e gli investimenti pubblici. Quindi questo razzo è anche un po’ tuo. ”

Tuttavia, è chiaro che la decisione dei governi europei riguardo al proseguimento dell’avventura solleva più domande di quante ne risolva. La causa è semplice: partono da ipotesi ideologiche piuttosto che attenersi ai fatti e preferiscono guadagni commerciali immediati (altrimenti incerti) alla strategia e alla visione politica a lungo termine. Le due fonti d’ispirazione alla base di questa scelta, approvata nel dicembre 2014 dai ministri dell’Agenzia spaziale europea, erano la Germania e i produttori stessi. Come ha spiegato all’epoca il ministro Fioraso, fu Berlino a sostenere “una maggiore integrazione industriale, una maggiore assunzione di rischi da parte dell’industria”, sostenendo che “se l’industria correre più rischi, è normale che essa partecipi alla concezione e alle strategie

 

Gli industriali lo stavano aspettando. Avevano persino sopravanzato i governi e le agenzie spaziali. Airbus, l’appaltatore principale, e Safran, il produttore di motori, avevano lavorato nel massimo segreto, per mettere le autorità pubbliche davanti al fatto compiuto, presentando il loro progetto nel giugno 2014. Oltre al design del razzo, hanno annunciato la loro intenzione di unire le loro rispettive risorse, creando una joint venture. Tutto ciò accompagnato da una condizione considerevole: la vendita delle azioni del governo francese in Arianespace. Due settimane dopo, lo stesso François Hollande dà il via libera, durante una colazione che riunisce tutti i principali attori al palazzo presidenziale.

La joint venture Airbus Safran Launchers (ASL) d’ora in poi avrà autorità sui lanciatori in tutti i segmenti. Oltre allo sviluppo attuale, questo include quindi il design (finora la prerogativa delle agenzie, ora ridotta alla definizione delle linee principali), nonché il marketing. Ecco che a giugno 2015 il governo francese, infatti, ha ratificato la vendita del 34% di Arianespace detenuta da CNES ad ASL, quest’ultima diventando così il maggiore azionista con il 74% del capitale. Ricordiamo ancora una volta che sullo sfondo di questa ristrutturazione-privatizzazione senza precedenti ci sarebbe la volontà di “ottimizzare” il settore al fine di ridurre i costi, per affrontare la sfida della concorrenza internazionale.

Paradossalmente, i punti interrogativi sul futuro di Ariane sono meno legati alla concorrenza globale che alle scelte fatte presumibilmente dai governi europei per farvi fronte. A un esame più attento, il tanto temuto American SpaceX non sembra di per sé causare un pericolo esistenziale per Ariane. Pur riconoscendo i talenti del suo creatore Elon Musk (gli dobbiamo anche il servizio di pagamento online PayPal e le auto elettriche Tesla), va sottolineato, come ha fatto l’amministratore delegato di Arianespace, che le principali attività di SpaceX vivono del pubblico, nella misura in cui il sostegno indiretto da parte del governo federale è molto vantaggioso, sia in termini di mercato vincolato (garanzie per lanci nazionali) sia in termini di prezzo.

In effetti, per citare l’ex segretario di Stato responsabile del fascicolo, “le autorità pubbliche americane sono molto coinvolte”. E Geneviève Fioraso ha dichiarato che “la NASA sta acquistando a $ 130 milioni da SpaceX ciascun volo che la compagnia venderà per $ 60 milioni nelle esportazioni. Puoi chiamarlo supporto ma è dumping! Curiosamente, il capo di Airbus Group, ignora completamente questo aspetto quando dice che vuole prendere ispirazione da SpaceX, lodando in particolare il loro “dinamismo”. Fedele al suo dogma liberal-atlantista, Tom Enders ha utilizzato SpaceX per chiedere una completa ristrutturazione del settore con, di conseguenza, più potere per gli industriali e la riduzione del campo di controllo delle autorità pubbliche.

Incertezze persistenti

La riorganizzazione in corso non è senza difficoltà e comporta serie incertezze per Ariane. Tanto per cominciare, l’annuncio fragoroso del lancio del nuovo programma e il conseguente contratto quasi oscurava il fatto che i tedeschi avevano ottenuto un momento di riflessione (va / no, in altre parole semaforo verde). o stop), a metà 2016. Tuttavia, se Berlino è stata la grande sostenitrice dell’opzione “industriale” scelta per Ariane 6 (ristrutturazione-privatizzazione piuttosto che innovazione tecnologica), è soprattutto perché considera il progetto da un punto di vista mercantile. È probabile che il suo supporto evapori se, invece della prevista riduzione dei costi del progetto, l’operazione termina, il che è molto probabile, aumentando i costi.

Oltre alla proliferazione di fatture impreviste presentate dai produttori, l’altro punto interrogativo a livello finanziario riguarda le possibili riserve di clienti attuali e potenziali. In effetti, i produttori di satelliti rivali di Airbus (uno dei rami di attività della società) potrebbero non apprezzare troppo questa nuova disposizione. Il Gruppo Airbus vuole essere rassicurante: per loro “il nostro obiettivo è vendere il maggior numero possibile di lanciatori, incluso il lancio dei satelliti dei nostri concorrenti. Niente giustifica la minima preoccupazione al riguardo ”. Finché i clienti condividono questo sentimento. Perché anche se promettiamo loro una divisione impenetrabile tra satelliti e razzi fatti in casa, è difficile impedire che una volta o l’altra sorgano dubbi.

Per finire, oltre alla commercializzazione dei razzi, Arianespace svolge anche una funzione di competenza che gli consente di accedere a informazioni tecniche riservate dei produttori di satelliti rivali di Airbus. Prima del lancio, la procedura “prepara analisi di missione, che mirano in particolare a garantire che il lanciatore sia compatibile con il satellite che dovrà mettere in orbita”. Ciò richiede una conoscenza esatta dei dati tecnici dei satelliti. Per l’amministratore delegato di Arianespace, una divisione tra le due funzioni (commerciale e di competenza) sarebbe inconcepibile, dal momento che i due insieme rendono il successo dell’azienda, posizionando Arianespace come garante della massima affidabilità del razzo. Resta da vedere come la nuova joint venture si destreggerà tra questi diversi aspetti.

A queste domande di natura finanziaria e commerciale si aggiungono questioni politiche. Non sorprende che il primo riguardi l’annosa questione della preferenza europea. In altre parole, se i governi del vecchio continente sarebbero finalmente pronti a impegnarsi a favorire i propri prodotti, come fanno e giustamente gli Stati Uniti. Per Ariane 6, saranno garantiti solo cinque lanci istituzionali, secondo il ministro. Certo, ci sono gli stessi numeri di oggi, ma “questo significa tacitamente che ogni paese membro accetta il principio della preferenza europea. Non puoi scrivere l’obbligo, a causa delle regole europee ”.

L’amministratore delegato di Arianespace ha voluto vedere lì, a maggio, “una sorta di” Buy European Act “, sapendo che il nostro concorrente americano beneficia già, nel frattempo, di un mercato garantito negli Stati Uniti: la legge americana richiede che I satelliti americani vengono messi in orbita da un lanciatore costruito principalmente negli Stati Uniti. “Cinque mesi dopo, ha dovuto affrontare i fatti:” Oggi, il “Buy European Act” non esiste. È vero che gli stati europei possono scegliere un lanciatore diverso da quelli di Arianespace ”. Quello che fanno, infatti, senza remore. Come la Germania, che non ha esitato ad affidare a SpaceX il lancio di alcuni dei suoi satelliti.

Tuttavia, avverte il ministro francese: “Se non saremo la riserva dell’Europa, ci indeboliremo e, alla fine, perderemo il settore dei lanciatori europei. E oltre a ciò, stiamo perdendo il nostro vantaggio competitivo nelle telecomunicazioni, in termini di accesso a dati scientifici, ambientali, climatici e di sicurezza e difesa. Ma come ci si può aspettare che i governi giochino la carta dell’Europa in termini di lancio se anche Airbus non lo fa? Il gruppo, che ora avrà il controllo sull’intero settore e quindi rivendica la garanzia di cinque lanci istituzionali, ha voluto affidare al suo concorrente americano il lancio di un satellite per telecomunicazioni all’avanguardia dell’Agenzia spaziale europea (ESA), semplicemente per renderla più conveniente …

Abbandoni colpevoli

Inizialmente, l’attuale riorganizzazione è stata presentata come conforme a due criteri di base. Da un lato, la necessità di ridurre i costi, attraverso una maggiore responsabilità da parte dei produttori, dall’altro il mantenimento, comunque, della posizione degli Stati. Su quest’ultimo punto il Ministro Fioraso è stato molto chiaro: “Lo Stato rimarrà presente nella governance e controllerà”. Solo che il perimetro di questa presenza si ritrae come una pelle di zigrino, portando sulla sua scia il potere del controllo. Per il CEO di Arianespace, “i giocatori di minoranza che rappresentano un legame con i governi (…) devono ricevere garanzie”. In altre parole, questo non è immediatamente il caso.

Anche la questione dei costi rimane opaca. Se gli industriali affermano di correre più rischi, questo è lungi dall’essere ovvio. Per cominciare, non sappiamo ancora chi sarà responsabile di eventuali guasti. Tuttavia, secondo Stéphane Israël, “nulla costa più di un fallimento ed è importante specificare gli impegni reciproci”, ma “ad oggi, nulla è congelato come evidenziato dalle discussioni in corso tra l’Agenzia spaziale europea e Airbus Safran Launcher ”. Inoltre, i produttori continuano a rosicare il lato finanziario dell’accordo. Come sottolinea Michel Cabirol de La Tribune, a volte chiedono un’estensione di un miliardo, a volte si rifiutano di contribuire al mantenimento in condizioni operative della piattaforma di lancio in Guyana, a volte chiedono per loro la totale gratuità dell’uso del Centro spaziale.

È chiaro che in quest’area altamente strategica, rischiamo di trovarci di fronte a uno schema stranamente simile a quello degli Stati Uniti. Un modello caratterizzato da grandi aziende private, supportato da immensi sprechi di fondi pubblici. Con la differenza che, a differenza del caso americano, le autorità pubbliche in Europa non possono nemmeno essere sicure, a lungo termine, della lealtà delle aziende che sostengono – in assenza di un gigantesco mercato pubblico che garantirebbe un lealtà di interesse e in assenza di norme europee vincolanti in grado di imporre, come dall’altra parte dell’Atlantico, lealtà giuridico-istituzionale.

A proposito di Ariane, va tenuto presente che il lanciatore condiziona la sostenibilità, la credibilità, la redditività / competitività e l’autonomia dell’intero settore spaziale. Ricordiamo le origini stesse della creazione di Ariane: nel 1973, non avendo a disposizione un lanciatore europeo, i francesi e i tedeschi dovettero chiedere l’elemosina agli americani per poter mettere in orbita il loro satellite per le telecomunicazioni. “Gli americani”, ricorda Frédéric d’Allest, ex direttore generale del National Center for Space Studies (CNES), ha dichiarato di voler lanciare Symphonie ma a condizione che si limitasse a funzioni sperimentali “. Approfittando del loro monopolio, gli americani hanno quindi vietato qualsiasi uso a fini commerciali.

Una vera umiliazione, secondo i testimoni dell’epoca; il diktat americano ha finalmente permesso di rimuovere gli ostacoli politici, tra gli europei, alla costruzione di questo formidabile strumento di sovranità che è il lanciatore di Ariane. In effetti, la lezione è stata chiara: senza un accesso indipendente allo spazio, semplicemente non esiste una politica spaziale. Oggi giocare all’apprendista stregone, effettuando una ristrutturazione in condizioni e con impegni opachi, a rischio di indebolimento della posizione dello Stato e a beneficio di industriali il cui passato, bilancio e profilo sono lungi dall’essere irreprensibili – ciò che merita almeno un dibattito …

https://hajnalka-vincze.com/list/etudes_et_analyses/365-ariane_6__le_debut_de_la_fin_pour_lindustrie_spatiale_europeenne_

Una nuova tipologia di guerra : la guerra economica 3a parte, di Giuseppe Gagliano

Le armi della guerra economica
La presente sezione sarà dedicata all’analisi dettagliata delle armi utilizzate
dagli Stati nella guerra economica per vincerla e affermare la loro potenza. Le
prime che prenderemo in considerazione sono le armi di tipo indiretto, che
agiscono nelle retrovie e contribuiscono a plasmare il dispositivo di una “guerra
coperta”.
All’interno di questo insieme molto particolare di strumenti di guerra
economica, quello che più agisce a monte di tutti è sicuramente la formazione, che
contraddistingue soprattutto i Paesi sviluppati e ha contribuito in larga misura ai
loro successi economici. Basti pensare, a questo proposito, all’importanza data
dall’Unione Europea a questo fattore, tanto che due degli otto obiettivi della
strategia Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva
riguardano proprio l’istruzione (riduzione dei tassi di abbandono scolastico
precoce al di sotto del 10% e aumento al 40% dei 30-34enni con un’istruzione
universitaria). Andando poi a verificare la correlazione di formazione e sviluppo
economico, esempi di Paesi come la Germania, il cui sistema di istruzione e
formazione è riconosciuto come uno dei migliori al mondo, o il Giappone, dove il
tasso di conclusione degli studi secondari si aggira intorno al 95%, confermano
quanto finora affermato, soprattutto se si considera le modalità con cui questi due
Paesi sono presenti sui mercati internazionali. Naturalmente qui non si tratta solo
della formazione di base, per quanto questa sia importante nel porre le basi e dare
l’impronta di un certo modo di progredire anche in ambito economico, ma ci si
riferisce in maniera particolare alla formazione continua, che dà a coloro che la
ricevono le necessarie doti di flessibilità e polivalenza che permettono di essere
costantemente aggiornati e mai impreparati ai cambiamenti. A questo proposito,
un altro buon esempio sono le scuole di commercio francesi, delle quali le più
prestigiose si classificano ai primi posti in ambito europeo e il cui successo si deve
in gran parte a un modello nazionale che prevede una formazione biennale di base
ad alto contenuto generalista, quindi non solo scientifico ma anche umanistico,
propedeutico alla successiva specializzazione. Una caratteristica peculiare delle
élite che si formano in questo tipo di scuole moderne è la loro propensione
internazionale, aspetto ben distinto dal carattere marcatamente sciovinista della
preparazione militare dei secoli passati di cui tali scuole, se si segue il filo
conduttore della guerra economica come versione attuale degli antichi scontri
bellici, dovrebbero essere la naturale continuazione.
A complemento del discorso sulla formazione iniziale, è necessario parlare
del ruolo svolto dalla formazione specialistica e dalla ricerca, cruciali ai fini
dell’affermazione della potenza economica. Non è un caso, lo ribadiamo, che
l’Unione Europea abbia affermato fin dall’inizio del millennio di voler diventare la
prima “economia della conoscenza” e che, ad esempio, la sola Francia conti
160.000 ricercatori, un numero più che raddoppiato nel giro di settant’anni. Il
sapere è infatti diventato l’arma suprema della guerra economica e il potenziale
della ricerca risulta essere il motore delle trasformazioni del nostro tempo. È per
questo che Paesi emergenti come la Cina e l’India, che hanno compreso
perfettamente quale sfida cruciale si giochi intorno alla produzione di sapere, sia
esso di base o applicato, non rimangono indietro in questa sorta di “corsa alla
conoscenza”: se da Pechino arrivano forti e chiare le dichiarazioni di uomini di
punta come il Primo Ministro Wen Jiabao, che nel 2005 si spingeva a proclamare il
XXI come “il secolo asiatico delle alte tecnologie”; nel subcontinente indiano ogni
anno prestigiosi istituti tecnologici costruiti negli anni Sessanta sul modello del
MIT sfornano un esercito di 170.000 diplomati. Nell’ambito della ricerca è poi
fondamentale la cooperazione fra università, scuole e settore privato, il quale si
aspetta precisi e puntuali ritorni dal lavoro dei ricercatori; cooperazione che al
giorno d’oggi si presenta sotto forma di “cluster” o “poli di competitività”, spazi
dove convivono luoghi di ricerca, scuole d’ingegneria e imprese di alta tecnologia e
che sono incubatori di una potenza economica straordinariamente innovativa e
all’avanguardia. A questo proposito, lo Stato francese si è fatto promotore, dal
2005, di questo tipo di realtà che rappresentano un elemento fortemente attrattivo
per il territorio in cui sono insediati, realizzando attività di alta formazione
assolutamente all’avanguardia. Ad ogni modo, si registrano ancora divari enormi
nelle politiche effettive in favore della ricerca attuate dai diversi Paesi, anche
all’interno del gruppo delle nazioni leader: è quasi scontato, purtroppo, riferire a
questo proposito il caso dell’Italia dove, pur riconoscendo a parole l’importanza
capitale di una ricerca solida, anche finanziata dal settore privato, per poter dotare
le imprese di tecnologie a elevate prestazioni e consentire loro, di conseguenza, di
essere concorrenziali sui mercati internazionali, il numero di ricercatori impiegati
nelle aziende è cinque volte inferiore a quello di Stati Uniti, Giappone e Svezia. Per
non parlare poi della fuga di cervelli, che decidono di lasciare l’Italia per trovare
migliori opportunità di lavoro e stipendi più alti oltreché la valorizzazione di
merito e competenze a scapito di raccomandazioni, burocrazia e scarso turnover.
Per ogni “cervello che fugge”, però, c’è senz’altro un Paese pronto e ben felice di
accoglierlo e ve ne sono alcuni che fanno dell’attrazione del personale altamente
qualificato e specializzato una vera e propria arma di guerra economica: è il caso
degli Stati Uniti, che a più riprese nel corso del XX secolo sono stati un porto
d’approdo delle menti migliori dei quattro angoli del globo, a cominciare dalle élite
ebraiche in fuga dall’Europa nazifascista, proseguendo con le decine di fisici e
matematici ex sovietici arrivati negli anni Novanta e, infine, arrivando fino ai giorni
nostri, in cui le università statunitensi sono popolate di ingegneri ed economisti
indiani e cinesi. Se si considera il fatto che tre quarti di loro si stabiliscono
definitivamente negli Stati Uniti una volta terminati i loro studi, si può dedurre
facilmente il vantaggio che ne deriva per l’economia americana.
Direttamente collegata con la ricerca è l’innovazione, motore propulsivo di
fondamentale importanza per le imprese e su cui lo Stato ha tutto l’interesse di
investire. L’esempio dei brevetti mostra quanto la collaborazione fra questi due
attori possa rivelarsi fruttuosa. La classifica mondiale delle potenze in termini di
deposito di brevetti certifica il primato cinese, il cui ufficio brevetti dal 2013 è
ormai il primo al mondo con un quarto del totale delle richieste, seguito a ruota
dagli Stati Uniti, mentre il ruolo dell’Europa perde progressivamente di rilevanza a
discapito di una massiccia presenza asiatica, dato che le altre prime posizioni sono
occupate da Giappone, Corea e India. La maggior parte dei brevetti depositati in
tutto il mondo è a opera di imprese del settore privato (Matsushita, Philips,
Siemens, Huawei, Bosch, Toyota, Microsoft, solo per citarne alcune) che però senza
l’azione dello Stato – soprattutto in epoche passate (ci riferiamo qui al ruolo
decisivo in termini di ricerca e sviluppo dei comandi militari americani, o del MITI
giapponese) – non avrebbero mai potuto raggiungere i risultati odierni. È pur
sempre opera dello Stato perfino la predisposizione di un ambiente normativo
favorevole e sufficientemente tutelato in questo settore, per cui la ricerca dei
brevetti può essere considerata a tutti gli effetti un affare nazionale, una garanzia
di produttività, insomma: un’arma decisiva per gli scontri commerciali fra nazioni.
Passando dall’ampio campo della gestione della conoscenza nelle sue
diverse forme quale strumento di guerra economica a quello della competitività,
possiamo affermare che su questo terreno lo Stato può giocare a pieno tutte le sue
carte. È nel suo massimo interesse, d’altronde, far sì che le sue imprese siano
dotate il più possibile della capacità di affrontare la concorrenza sui mercati
esterni e interni. In un momento storico come quello che si sta attraversando, in
cui i travolgimenti nell’ambito delle posizioni di potenza sono di notevole portata,
vediamo come a fronte dell’avanzamento imponente di alcuni Stati sui mercati
internazionali (negli scambi a livello globale, la percentuale cinese è passata dal
2% al 9% nel giro di poco più di vent’anni) altri, storicamente ben piazzati,
indietreggiano (è il caso della Francia, che nello stesso arco di tempo è passata dal
6% a circa il 4%), mentre altri ancora mantengono le proprie posizioni (la
Germania è esempio di notevole continuità, dal momento che mantiene saldamente
il primo posto con una quota che si aggira intorno al 10%). Il ruolo dello Stato è qui
quello di coordinatore, di fornitore di strumenti di lettura, comprensione e
interpretazione del terreno degli scambi internazionali, possibile grazie alle
conoscenze nei più disparati ambiti che almeno una parte dei suoi funzionari
dovrebbe avere degli altri Stati. Prendendo l’esempio della Francia, questo ruolo
viene svolto in gran parte dal Segretariato di Stato per il Commercio estero,
impegnato in questi anni di crisi economica soprattutto a contenere l’erosione
della quota francese sui mercati mondiali la quale, seppur imputabile a
cambiamenti per lo più inevitabili e che coinvolgono tutti i grandi Paesi occidentali,
resta tuttavia preoccupante per la bilancia economica nazionale. A questo scopo, è
stata recentemente riformata l’Agenzia nazionale di promozione dell’esportazione,
Ubifrance, incaricata di promuovere le esportazioni grazie all’apporto delle proprie
competenze ed expertise nei confronti delle imprese francesi. In Italia, l’organismo
con funzioni praticamente sovrapponibili a quelle di Ubifrance è l’Agenzia ICE, che
ha il compito di agevolare, sviluppare e promuovere i rapporti economici e
commerciali italiani con l’estero, in particolare delle piccole e medie imprese, e che
opera per incentivare l’internazionalizzazione delle imprese italiane nonché la
commercializzazione dei beni e servizi nazionali sui mercati internazionali. Anche
il ruolo attivo dello Stato nella negoziazione di grossi contratti di produzione
rientra nella più generale promozione della competitività e concretizza quella
cooperazione con le imprese spesso invocata ma sempre di difficile attuazione: il
partenariato fra gli Stati Uniti e le imprese di armamenti e del settore
dell’aeronautica è un buon esempio di questo aspetto.
La competitività è un indice applicabile alle imprese; l’attrattività invece è
una caratteristica propria dei territori: attirare investimenti esteri diretti significa
produrre occupazione nazionale e beneficiare di un ritorno fiscale. Politica fiscale,
gestione del territorio e cultura ne sono le componenti. Per quanto riguarda la
politica fiscale, abbiamo già visto in precedenza come questo sia un nodo dolente
dell’attrattività italiana, anche se altri Stati europei, in particolare il Belgio e la
Francia, hanno tassi d’imposta sulle società non molto distanti. Al contrario, il caso
dell’Irlanda è esemplificativo del fatto che una politica fiscale “leggera” nei
confronti delle imprese funge fortemente da incentivo agli investimenti diretti
esteri: con una tassazione che si aggira intorno al 15%, peraltro fortemente
osteggiata dall’UE, la “tigre celtica” è riuscita così ad attirare soprattutto imprese
straniere nel settore delle alte tecnologie e informatico (da Adobe a eBay, passando
per Yahoo!), sostenendo in gran parte la propria crescita economica. La Cina
invece, in questo ambito, ha sviluppato una politica di istituzione di aree
economiche speciali nelle province di Guangdong, Fujian e Hainan e di sviluppo di
regimi fiscali particolarmente attraenti da applicare proprio in queste aree alle
imprese straniere che scelgono di insediarvisi. Per quanto riguarda la gestione del
territorio, si intende qui il livello di sviluppo delle infrastrutture necessarie alle
imprese per rifornirsi di materie prime, per portare ai quattro angoli del mondo i
risultati della produzione e per comunicare fra di loro: collegamenti aerei, ferrovie
ad alta velocità, strade e porti, connessioni internet ad alta velocità e copertura per
la telefonia mobile, che ha ormai quasi ovunque soppiantato la rete di telefonia
fissa e in intere parti del mondo, ad esempio nell’Africa subsahariana, dove ne
rende addirittura inutile l’estensione. Per quanto riguarda, infine, la cultura, si
tratta dell’elemento più impalpabile ma non per questo meno sfruttabile del soft
power, come lo definisce Joseph Nye. A differenza di molti altri elementi analizzati,
questo è indubbiamente una caratteristica che l’Italia possiede pienamente e da cui
può trarre profitto, come ripetutamente si è prodigato a ripetere e promuovere il
suo attuale Primo Ministro e come ha saputo dimostrare in occasione di Expo
2015, dove l’“Italian way of life” fondato su un benessere alleato del gusto e della
bellezza non ha mancato di attrarre una vasta platea di potenziali investitori.
L’ultima arma strategica che prendiamo in considerazione qui, nell’ambito
della guerra coperta, è l’intelligence economica, che l’Alto Responsabile presso il
Segretariato Generale della Difesa francese Alain Juillet definisce come una
modalità di governance focalizzata sul controllo dell’informazione strategica e che
mira alla competitività e la sicurezza sia dell’economia che delle imprese. Altri due
grandi esperti di guerra economica, Christian Harbulot ed Éric Delbecque, hanno
proposto le loro definizioni di intelligence economica. Il primo l’ha definita come la
costante ricerca e interpretazione delle informazioni accessibili a tutti, con
l’intento di decifrare le intenzioni degli attori e intuire le capacità. Il secondo
invece l’ha individuata nella cultura di lotta economica, ossia nella competenza –
intesa come l’insieme di metodi e di strumenti di sorveglianza, di sicurezza e di
influenza–enella politica pubblica, che mira ad accrescere la potenza tramite
l’elaborazione e l’attuazione di strategie geo-economiche, oltre che tramite azioni
in favore del controllo collettivo dell’informazione strategica. L’intelligence viene
qui naturalmente intesa nella sua accezione originaria di derivazione
anglosassone, ossia come raccolta di informazioni per sapersi muovere meglio sul
terreno, qualunque esso sia, e non tanto negli aspetti esacerbati dello spionaggio e
degli agenti segreti tipici dell’epoca della Guerra Fredda, in cui ciò che si
privilegiava era una cultura dell’informazione ad appannaggio di pochi, oscuri
esperti e incurante dell’illegalità dei mezzi utilizzati (trasferimenti di tecnologia,
furti di materiale informatico, licenziamenti di quadri strategici, ecc.). Analizzando
più nel dettaglio in cosa consista l’intelligence economica, ossia le applicazioni
concrete di quella che a volte viene definita impropriamente “guerra
dell’informazione”, possiamo distinguere tre campi d’azione: la veglia, la
protezione dell’informazione e la realizzazione di lobby. La prima, in particolare, si
concretizza nella sorveglianza dell’ambiente economico di riferimento in modo da
individuare con una certa prontezza eventuali minacce da cui difendersi o
occasioni da cogliere; si divide nelle sette tipologie di veglia concorrenziale,
commerciale, tecnologica, geografica, geopolitica, legislativa e societaria. Tutto ciò
a favore di una crescita di influenza, e quindi di potenza, di quegli Stati in grado di
mettere in campo un tale dispositivo. Il punto di vista che qui si propone, infatti,
privilegia la capacità dello Stato di usare quest’arma strategica, piuttosto che
quella delle singole imprese che la usano allo scopo di ampliare il proprio giro
d’affari e di aumentare i profitti. Contemporaneamente strumento offensivo e
difensivo, come quando viene usato per prevedere un’alleanza fra concorrenti o
praticare la disinformazione, l’intelligence economica è il fiore all’occhiello delle
politiche di guerra economica, vista l’importanza assunta dall’informazione nelle
economie moderne. È su questo terreno, peraltro, che si rende maggiormente
necessaria una stretta collaborazione fra Stato e imprese, sul modello sviluppato in
Giappone nell’immediato dopoguerra, quando la fondazione della Japan External
Trade Organization si affiancò al lavoro del già citato MITI. L’intensificazione dei
legami commerciali con gli altri Stati veniva perciò supportata dagli ampi poteri
assegnati a quest’ultimo, in una realtà non solo economica ma anche culturale dove
la partecipazione allo sforzo di rendere grande la propria nazione attraverso i
primati in termini di innovazione tecnologica e proiezione commerciale è un
dovere morale di ogni singolo cittadino. Non a caso, dell’intero budget nazionale
destinato a ricerca e sviluppo, una cifra compresa fra il 10 e il 15% viene destinata
in Giappone all’informazione scientifica e tecnica. Qualcosa di analogo avviene
anche negli Stati Uniti, anche se ancora formalmente mascherato da un discorso
ufficiale di competizione leale. L’amministrazione americana ha infatti messo in
piedi un servizio di “contro-intelligence”, derivato da un ampliamento delle
prerogative della CIA che in questo modo svolge un ruolo attivo nello spionaggio
industriale, per fornire alle proprie imprese informazioni segrete relative ai loro
concorrenti stranieri.
Dopo aver analizzato ampiamente le armi utilizzate nella guerra economica
coperta (formazione dei quadri dirigenziali, politiche di competitività e di
attrattività, dispositivi di intelligence economica), conviene ora passare in rassegna
le diverse armi offensive a disposizione degli Stati.
Nel corso del presente contributo si sono già citate le sanzioni quale forma
di guerra economica condotta con finalità politico-strategiche. Una modalità che
risulta ancora più soffocante per l’avversario è quella del boicottaggio, quando non
del blocco alle vendite: ne sono esempi l’arma alimentare usata dal presidente
Carter nel 1979 per bloccare le vendite di cereali all’URSS in occasione
dell’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Armata Rossa, l’attuale minaccia di
chiusura dei rubinetti del gas da parte della Russia nei confronti dell’Europa, o
ancora il boicottaggio a danno dei prodotti francesi in Cina nel 2008 causato dal
sostegno dato da Parigi al Tibet, questione peraltro scoppiata alla vigilia dei giochi
olimpici di Pechino anche in molti altri Paesi occidentali in seguito alla repressione
cinese della ribellione dei monaci tibetani. Un’altra misura che potrebbe essere
interpretata come ritorsione è il contingentamento delle importazioni: vietato
nell’Unione Europea, è invece ampiamente usato dagli Stati Uniti nei settori più
disparati, che vanno dal formaggio alle automobili, misura quest’ultima volta a
tutelare le grandi società produttrici americane a detrimento dei prodotti
giapponesi, con Tokyo che ha preferito negoziare in questo senso piuttosto che
correre il rischio di essere soggetto a restrizioni ancora più sfavorevoli. Vi sono poi
i picchi tariffari, ovvero dazi doganali superiori al 100%, spesso applicati sui
prodotti agricoli provenienti da determinati Paesi (si vedano ad esempio le
condizioni di adesione all’OMC imposte all’Afghanistan nel 2014, alla fine dei
negoziati).
A queste armi dirette si affiancano, come si vede ora, altrettante armi
offensive indirette della guerra economica aperta. Innanzitutto la cosiddetta
“diplomazia degli affari” che, pur essendo una pratica dalla lunga tradizione, è stata
perfezionata dall’amministrazione Clinton: essa consiste in una sorta di assalto
massiccio delle imprese sui mercati esteri, supportata da un’attenta preparazione
del terreno (liberalizzazione degli scambi con il Paese interessato), da
un’approfondita conoscenza del campo dello scontro (informazione industriale e
commerciale) e da una sapiente regia statale (nel caso degli Stati Uniti degli anni
Novanta, l’Advocacy Center informalmente chiamato “War room”, incaricato di
sorvegliare costantemente i mercati industriali mondiali). Se si affronta più nel
dettaglio il primo di questi elementi, la liberalizzazione degli scambi, vediamo
come e quanto sia stato usato soprattutto dagli Stati Uniti come una vera e propria
arma. I trattati di libero scambio da essi conclusi, infatti, hanno sempre rivelato la
loro potenza offensiva in quanto strumenti di relazione diseguale tra uno Stato
forte, da un lato, e uno Stato debole, dall’altro, asimmetria che ha sempre
penalizzato quest’ultima controparte, naturalmente. È il caso, ad esempio, delle
relazioni commerciali mantenute con gli Stati dell’America centrale (la cui quasi
totalità dei Paesi ha concluso simili accordi con Washington): nient’altro che
un’evoluzione post-Guerra Fredda dell’idea di manifest destiny, della dottrina
Monroe e del corollario Roosvelt. Questi accordi sono spesso molto più
intransigenti degli standard dell’OMC ai quali tutti appartengono: la supremazia
statunitense si afferma gioco forza per l’importanza rivestita nella bilancia
commerciale di questi Stati, di cui sono il primo partner commerciale, e permette
di imporre unilateralmente norme sbilanciate in loro favore, ad esempio sui
brevetti (allungamento della durata di protezione dei brevetti, oppure
allargamento delle condizioni di brevettabilità, che permettono di porre dei
brevetti su prodotti già commercializzati) e, di conseguenza, di conservare la
leadership. Gli Stati Uniti, dunque, non schiacciano il loro avversario economico
con la forza, ma si accontentano in qualche modo di definire regole del gioco
favorevoli ai propri interessi.
L’ultima evoluzione in termini di armi offensive nella guerra economica
sono i fondi sovrani che hanno fatto la loro irruzione sullo scenario finanziario
mondiale negli ultimi vent’anni e che, per la portata del loro impatto sull’economia
internazionale, ci si potrebbe arrischiare a paragonare a vere e proprie armi di
distruzione di massa. Si tratta di fondi d’investimento internazionale del risparmio
nazionale che, essendo difficilmente depositabile nei circuiti bancari classici per
l’eccezionalità del loro importo (le stime indicano una cifra di più di 16.000
miliardi di dollari solo per i Paesi dell’Asia orientale), viene direttamente
controllato dagli Stati o dalle banche centrali. Sono stati pensati in origine come
strumenti finanziari destinati a valorizzare un capitale rilevante dello Stato e
destinato alle generazioni future (è questo il caso del fondo sovrano norvegese). La
maggior parte di questi fondi è stata costituita da Stati esportatori di petrolio, da
un lato, e da Paesi dell’Asia orientale la cui bilancia corrente registra saldi
dell’ordine del 6,5% del PIL, dall’altro, per investire le loro ingenti eccedenze
commerciali e si sono configurati come potente mezzo di intervento negli equilibri
economici mondiali soprattutto in seguito alla crisi dei subprime, quando un certo
numero di essi è entrato nel capitale di gruppi prestigiosi (Citigroup, Merrill Lynch,
Morgan Stanley) allo scopo di salvarli con iniezioni di liquidità. Esemplificativo è il
caso di Citigroup: primo gruppo finanziario mondiale fino al 2007, di fronte ai
problemi di liquidità derivati dalle speculazioni dei subprime ha fatto appello a
diversi fondi fra cui quelli di Singapore, del Kuwait e di Abu Dhabi. Il salvataggio c’è
effettivamente stato, ma a condizioni dettate naturalmente dai nuovi investitori:
garanzia di rendimenti elevati delle azioni (dal 9 all’11% annuo), prezzi minimi
garantiti anche in caso di crollo dei valori e decisioni prese non più nella sede della
casa madre negli Stati Uniti, bensì nel palazzo di uno degli emiri proprietari del
fondo sovrano, elemento territoriale puramente simbolico ma molto eloquente di
qual è lo Stato che ora ne detiene il controllo. Risulta quindi evidente come un tale
massiccio intervento non sia affatto neutro e che, di conseguenza, sia a tutti gli
effetti una forma di controllo da parte degli Stati di cui tali fondi sono emanazione.
Il sospetto è che, anche grazie a politiche e gestioni non esattamente trasparenti,
essi servano interessi politici e geopolitici dei Paesi emergenti e vengano perciò
percepiti come una minaccia economica importante dai Paesi occidentali. Basti
pensare che il fondo di Abu Dhabi da solo avrebbe potuto acquisire, prima della
crisi, le prime nove imprese quotate nel più importante indice della piazza parigina
e che la China Investment Company, fondata nel 2007, si posiziona già al 6° posto
mondiale per quantità di capitale. La miglior prova del fatto che sono percepiti
come una minaccia è la recente adozione di misure destinate a ostacolarne la
capacità di acquisizione. Questo dispositivo ha una certa tradizione negli Stati
Uniti, dove il Committee on Foreign Investments può consigliare al Presidente di
rifiutare un investimento straniero che minaccerebbe un’impresa americana
giudicata strategica.
Accanto alle armi, vi sono i dispositivi di protezione e di difesa.
Naturalmente, attacco e difesa sono strumenti che concorrono insieme a definire
una stessa strategia e perciò il loro uso ha pari importanza all’interno della guerra
economica. Libero scambio sì, dunque, ma a patto di poter adeguatamente tutelare
il tessuto industriale interno e le ricadute che la sua tenuta ha in ambito politico e
sociale; se dunque le varie teorie elaborate dagli specialisti non soddisfano questo
principio pragmatico, gli Stati non si fanno alcuna remora a ignorarle e ad agire nel
senso protettivo appena indicato. È il motivo per cui non bisognerà meravigliarsi
che certi mezzi di difesa presentati qui siano già stati annoverati nella categoria
delle armi appena presentate: gli stessi strumenti della guerra economica possono
rivelarsi contemporaneamente armi potenti e scudi resistenti in funzione del
contesto. I dispositivi di protezione e di difesa che vedremo sono: la moneta,
l’unfairtrade, le barriere doganali e tariffarie, le quote d’importazione, le
sovvenzioni alle esportazioni, il patriottismo economico sotto forma di consumo
patriottico e il soft power normativo.
Per quanto riguarda la moneta, la svalutazione è un potente mezzo di
stimolo alle esportazioni in periodo di recessione, come hanno dimostrato le azioni
della Bank of England fra il 2008 e il 2009 in favore della sterlina nei confronti
dell’euro e la svalutazione di yen e yuan. La moneta svolge così il doppio ruolo di
strumento difensivo, poiché diminuisce la competitività dell’avversario, e di arma,
in quanto consente una più facile penetrazione dei mercati esteri.
La questione dell’unfairtrade si richiama a una legge statunitense del 1962,
la cosiddetta “301”, che aveva lo scopo di sanzionare Stati e imprese appartenenti
al proprio blocco che si rendessero colpevoli di comportamento sleale ovvero,
concretamente, commerciassero con l’URSS o con Cuba, e autorizzava il Presidente
in persona a rispondere agli atti “ingiustificabili”, “immotivati” o “discriminatori” di
questo tipo. Se ciò è facile da comprendere in un contesto di Guerra Fredda, in cui
le alleanze politico-strategiche regolavano abbastanza rigidamente le relazioni
internazionali, risulta forse meno accettabile in un contesto di distensione e
multilateralismo come quello odierno, eppure si tratta di atteggiamenti tutt’altro
che desueti. Negli anni Novanta il Presidente Clinton, che in più occasioni si è
dimostrato come un forte sostenitore della logica di guerra economica, ha
rinnovato la cosiddetta “super-301” emanata nel 1984 allo scopo di individuare gli
ostacoli alle importazioni americane e combatterli con misure di ritorsione. Il caso,
citato in precedenza in merito al boicottaggio, delle misure di tutela delle grandi
case automobilistiche a scapito dei prodotti giapponesi, accettate da Tokyo per non
correre il rischio di essere soggetto a restrizioni ancora più sfavorevoli, nacque
proprio a causa della minaccia americana di ricorrere alla “super-301”, con
sovrattasse anche del 100%. L’istituzione dell’OMC e del relativo organismo di
regolazione delle controversie, sorta di arena giuridica dove si affrontano le
potenze per far valere i loro diritti, dovrebbe prevenire il ricorso a questo tipo di
misure. Il funzionamento dell’Organo di Conciliazione si basa su norme precise e su
una serie di scadenze predefinite per l’esame di ciascun caso. La procedura dura in
totale al massimo un anno e tre mesi (solo un anno in assenza di appello): le
decisioni iniziali sono prese da un gruppo speciale, previa consultazione di
entrambe le parti cui viene anche presentato il rapporto finale (entro sei mesi), e
approvate o rifiutate dall’insieme dei membri dell’OMC. Tuttavia l’obiettivo
dell’organismo, più che essere l’emissione di un giudizio, sarebbe di conciliare, per
l’appunto, le controversie e arrivare a una negoziazione consensuale della
risoluzione da parte delle due parti in causa; un’eccezione a questa funzione
particolare, che peraltro normalmente si realizza nei fatti, è stata la cosiddetta
“guerra delle banane” che ha contrapposto i Paesi ACP a quelli dell’America Latina.
Negli ultimi tempi, l’Organo di Conciliazione ha registrato un aumento del numero
di ricorsi, segno per i suoi funzionari della fiducia che gli Stati riporrebbero nelle
sue procedure e decisioni. Tuttavia, in un contesto di competizione sempre
maggiore, esso potrebbe anche essere uno fra i tanti mezzi di cui gli Stati si
servono per vincere le battaglie economiche che li oppongono e, per questo, un
rivelatore particolarmente paradigmatico della situazione di guerra economica al
tempo della globalizzazione.
Per quanto riguarda le barriere doganali o tariffarie, si tratta dei mezzi
difensivi più antichi di cui gli Stati dispongono per tutelarsi contro le strategie
offensive sviluppate dai loro avversari. Sono un tipo di misura attuata soprattutto
dai Paesi in via di sviluppo, che la adottano per proteggersi dalle importazioni
provenienti dalle nazioni industrializzate (l’economista tedesco propone la
definizione, in questo caso, di “protezionismo educativo”). Dal canto loro, i Paesi
occidentali si servono delle tariffe doganali per proteggere l’occupazione
industriale, il che, se da un lato ha costi elevati in termini economici, dall’altro è
politicamente molto favorito in ragione della sua influenza sugli equilibri sociali.
D’altra parte, è doveroso ricordare come dalla fine della Seconda Guerra Mondiale
le tariffe doganali siano costantemente scese, passando dal 44% degli anni Trenta
del Novecento all’attuale valore inferiore al 5%.
Già si è parlato del contingentamento delle importazioni, con cui sono
strettamente imparentate le quote di importazione, la forma più importante di
barriera non tariffaria. Delimitando direttamente la quantità di prodotti di un certo
tipo che possono essere importati, esse vengono usate per proteggere determinati
settori nazionali oppure per equilibrare la bilancia dei pagamenti. Anche in questo
caso, sono gli Stati Uniti a fornirci un buon esempio con la loro quota
d’importazione sulle importazioni di zucchero: a fronte di una limitazione ben
definita della quantità di zucchero importato e di una conseguente maggiorazione
del prezzo sul prodotto finale venduto al consumatore, il settore zuccheriero
statunitense, piccolo in termini di numeri di occupati, non conosce crisi. Le quote
derivano appunto da una scelta politica, quella di conservare l’occupazione in
determinati settori: la razionalità economica liberale imporrebbe la soppressione
delle quote per abbassare il prezzo del prodotto finale e diversificare il consumo,
ma in guerra economica qualunque teoria non funzionale al mantenimento di una
logica di potenza e di indipendenza risulta sostanzialmente inapplicabile.
Questa sorta di “nuovo protezionismo” si manifesta, oltre che nelle
importazioni, anche nelle esportazioni, sotto forma di sovvenzioni pubbliche a una
determinata impresa o settore di produzione. Conosciute anche con il nome di
dumping, sono ufficialmente illegali (si veda ad esempio quanto stabilito dal
regolamento CE n. 1225/2009 del Consiglio dell’UE), ma spesso vengono attuate in
maniera indiretta. In questo senso, rivestono particolare importanza le
sovvenzioni agricole: sia l’Unione Europea che gli Stati Uniti erogano consistenti
aiuti di Stato ai rispettivi agricoltori, a detrimento di tutti quei Paesi, soprattutto
africani, la cui economia si regge sul settore primario ma che, non detenendo alcun
potere sullo scacchiere economico internazionale, sono fortemente penalizzati e
non riescono neppure ad accedere al mercato mondiale delle derrate alimentari.
C’è da dire che, almeno formalmente, sia l’UE che gli USA si sono impegnati a
rivedere PAC e varie Farm Bill ma, non essendo stati fissati dei tempi per farlo, la
partita non è ancora neppure aperta.
Quando si parla di patriottismo economico si fa riferimento a un famoso
discorso del 2005 dell’allora Primo Ministro francese Dominique de Villepin, nel
quale si affermava la necessità da parte dello Stato di difendere le imprese
nazionali strategiche, soprattutto in settori di punta o comunque considerati parte
del patrimonio industriale nazionale. In realtà, tale concetto sarebbe nato già negli
anni Novanta, sempre in territorio francese, in concomitanza con la fase successiva
alla fine della Guerra Fredda di massima espansione della globalizzazione, che
rappresentava una potenziale minaccia per le imprese dalla capitalizzazione
fragile. La definizione usata da Villepin si rifarebbe invece a un rapporto
presentato nel 2003 dal deputato Bernard Carayon su “Intelligence economica,
competitività e coesione sociale”, dalla fortuna altalenante (condiviso da politici e
imprenditori, ma ritenuto insufficiente nelle sue analisi da molti economisti). In
esso viene ampiamente esposta e dimostrata l’esigenza di dare una connotazione
maggiormente patriottica alla politica economica francese, definendo a tal
proposito tutta una serie di obiettivi da raggiungere: definizione di interessi
comuni fra Stato e settore privato, la tutela di questi interessi come misura di
legittima difesa dall’assunzione di controllo da parte di capitali stranieri, la
successiva conquista di porzioni di mercato mondiale promuovendo l’eccellenza di
determinati settori e aumentandone la competitività. È proprio seguendo le idee
presenti in questo rapporto che è emanato il decreto del 31 dicembre 2005, voluto
da Villepin, sulla protezione della produzione di settori quali la difesa, le tecnologie
dell’informazione, la sicurezza privata e i sistemi di intercettazione delle
informazioni. D’altra parte, la Francia non è la sola a fare ricorso a questo
strumento di difesa nella guerra economica: l’Unione Europea stessa, con
l’istituzione nel 2004 della forma giuridica della “società europea”, persegue
chiaramente l’obiettivo di consolidare la dimensione europea di queste imprese a
discapito di possibili assunzioni di controllo da parte di entità straniere nei loro
confronti. Per non parlare poi degli Stati Uniti, dove il Committee on Foreign
Investment ha diritto di veto sulle operazioni d’acquisto di imprese americane da
parte di società straniere, o ancora della Germania, dove nel 2010 il governo della
cancelliera Merkel ha impedito l’acquisizione di Opel da parte di Fiat-Chrysler.
Per quanto riguarda il soft power normativo, l’esempio principe che merita
di essere preso in considerazione è quello delle negoziazioni commerciali
multilaterali. L’OMC è quindi diventata teatro di scontri contrapposti per
promuovere e ampliare sempre più il libero scambio, da un lato, e proteggere il
vantaggio tecnologico dei Paesi industrializzati, dall’altro. È ovvio che ad esserne
svantaggiati risultano soprattutto i Paesi in via di sviluppo del Sud del mondo,
perché la mancata liberalizzazione di determinati brevetti in campo medico, ad
esempio, impedisce a questi Stati di produrre medicinali a basso costo. Un’OMC
ostaggio dei Paesi occidentali, che ha portato fra le altre cose al fallimento nel 2011
del Doha Round dopo dieci anni di negoziati, non è altro che una misura di difesa
contro quei Paesi emergenti – India in testa con il suo potenziale di produzione
nelle biotecnologie – che potrebbero così aspirare non solo all’indipendenza
economica in determinati settori, ma anche a imporsi come leader sui mercati
internazionali. Altro terreno su cui si disputa un’importante partita intorno al soft
power è senza dubbio il Partenariato Transatlantico per il Commercio e gli
Investimenti (TTIP): non un semplice accordo commerciale di libero scambio per
la libera circolazione di merci e servizi, ma anche un accordo di tipo normativo,
volto a rimuovere le molte differenze in regolamenti tecnici, norme e procedure di
omologazione, standard applicati ai prodotti e regole di sicurezza e sanitarie
presenti fra Unione Europea e Stati Uniti, che hanno ancora alcune carte da
giocarsi in merito. Questo partenariato, qualora e quando entrasse in vigore,
creerebbe l’area di libero scambio più grande del pianeta, equivalente a circa la
metà del PIL e un terzo degli scambi commerciali globali: tutto il mondo ne
gioverebbe e sarebbe ipotizzabile imboccare nuovamente la strada del
multilateralismo nella liberalizzazione commerciale, che attraversa un momento di
stallo nonostante la volontà di unificare il commercio mondiale. La
frammentazione giuridica attuale, infatti, favorisce la costruzione del teatro della
guerra economica, con la regola del più forte (del più potente) a prevalere su
qualsiasi altra logica razionale.
Infine, fra gli strumenti difensivi citati in apertura di questa sezione vi è il
consumo patriottico, che consiste semplicemente nel privilegiare l’acquisto di
prodotti nazionali, piuttosto che stranieri, nei più disparati settori. Esso può essere
incentivato dallo Stato oppure no, ma in entrambi i casi fornisce una difesa efficace
contro gli attacchi della guerra economica. Il primo caso è rappresentato dagli Stati
Uniti, dove una misura protezionistica adottata in piena Grande Depressione, il
Buy American Act promosso da Roosevelt e approvato nel 1933 come una delle
misure volte a risollevare il Paese dalla recessione economica, è ancora in vigore a
giustificare una politica che accorda ufficialmente la preferenza alle imprese
americane. In questo quadro si inserisce, ad esempio, il conflitto fra Boeing e
Airbus per la fornitura di una commessa all’aviazione statunitense: l’impresa
europea era stata selezionata per le sue migliori prestazioni, ma il Pentagono ha
comunque deliberato di annullare l’offerta e di rimetterla alla decisione della
prima amministrazione Obama all’indomani del suo insediamento, favorendo così
implicitamente Boeing in questa partita. In Giappone, invece, le modalità di
consumo patriottico sono completamente diverse: lo Stato non ne ha alcuna
responsabilità, ma sono di fatto i consumatori a preferire per la stragrande
maggioranza i prodotti nazionali. Ne sono un esempio il mercato dell’automobile,
detenuto per il 95% da marchi nipponici, o il recente blocco della
commercializzazione di prodotti elettronici targati Samsung nel Paese del Sol
Levante, dovuto a una penetrazione difficilissima del mercato giapponese che
lasciava all’azienda coreana un misero 1% dell’intero mercato dell’elettronica.
Conclusioni
Questo contributo era iniziato con gli auspici dei grandi pensatori
dell’Ottocento circa la realizzazione di uno scenario di pace perpetua dove il libero
scambio delle merci e delle idee avrebbe sostituito gli scontri militari fra nazioni
per la supremazia politica ed economica. Nonostante le apparenti promesse del
multilateralismo degli anni Novanta e una globalizzazione che teoricamente
poneva le basi perché questo progetto si avverasse, le lotte a tutto campo per il
controllo dei mercati e delle risorse continuano a infuriare.

http://italiaeilmondo.com/2019/11/26/una-nuova-tipologia-di-guerra-la-guerra-economica_2a-parte-di-giuseppe-gagliano/

http://italiaeilmondo.com/2019/11/22/una-nuova-tipologia-di-guerra-la-guerra-economica_1a-parte-di-giuseppe-gagliano/

Una nuova tipologia di guerra : la guerra economica_2a parte, di Giuseppe Gagliano

Soggetti e tipologie della guerra economica

Dopo aver descritto le tre rivoluzioni della geopolitica, l’idea di potenza e la teoria del commercio, meritano di essere analizzati nel dettaglio i protagonisti e le forme assunte dagli scontri geo-economici. La nuova centralità dello Stato nelle relazioni internazionali, soprattutto quelle di tipo economico, è funzionale alla delimitazione del concetto di “guerra economica”, definibile come lo scontro fra nazioni mediante e ai fini dell’economia e non come competizione economica tout court, che riguarda piuttosto le imprese. Il rinnovato ruolo centrale dello Stato nell’economia è una tendenza recente, evidenziabile con il passaggio del millennio e ancora di più in seguito alla grande recessione causata dalla crisi finanziaria dell’agosto 2007, mentre negli anni Ottanta e Novanta il neoliberalismo imperante considerava lo Stato esclusivamente come un ostacolo allo sviluppo economico, alla globalizzazione finanziaria, alla transnazionalizzazione delle imprese e all’intensificazione degli scambi internazionali (restano celebri, a questo proposito, le parole del Presidente Reagan: “il problema è lo Stato”). Lo Stato, con le sue prerogative anche in campo economico, è però resistito a questa svalutazione e, continuando a favorire lo sviluppo delle proprie imprese tramite la costruzione di un ambiente giuridico, fiscale e infrastrutturale adeguato, ha posto solide basi per l’assunzione del suo ruolo odierno, quasi di “capo militare” risoluto che conosce il “mestiere delle armi”, ridonando morale e spirito di conquista all’economia e guidando le proprie truppe alla conquista di mercati e risorse. Esempi di amministrazioni statali che hanno incarnato o tuttora incarnano questo ruolo possono essere considerati il Ministero per il Commercio Internazionale e l’Industria giapponese, emblema della potenza economica nipponica, e in Francia l’unione di Presidenza della Repubblica, Presidenza del Governo e Ministero delle Finanze. Le truppe, invece, non sarebbero altro che le stesse imprese del settore privato, anche se i critici della guerra economica insistono nell’affermare che tale gerarchia di ruoli sia impossibile da realizzare, dato che la logica di potenza dello Stato e la logica di
profitto delle imprese non coinciderebbero. Tali critiche, d’altra parte, vengono screditate nel momento stesso in cui si considera che ciò che si verifica non è tanto un’alleanza diretta fra Stato e imprese, quanto piuttosto una ripercussione indiretta della forza di queste ultime sullo Stato in cui sono stabilite. S’intendono qui soprattutto le grandi multinazionali: un rapido sguardo ai principali Paesi d’origine delle prime 1.000 aziende manifatturiere mondiali nel 2007 dà conto in maniera piuttosto evidente, per non dire scontata, delle dinamiche appena evidenziate. Stati Uniti e Giappone, con rispettivamente 305 e 209 società multinazionali, distaccano di gran lunga gli altri Paesi occidentali (Francia, Germania, Regno Unito, Canada, Svizzera, Italia, Finlandia, Svezia, Paesi Bassi, Spagna, Norvegia e Lussemburgo) e i mercati emergenti (Corea del Sud, Taiwan, Cina, Brasile, India e Russia), i quali evidenziano però tassi di crescita nettamente superiori che potrebbero rovesciare, nei prossimi anni, questa classifica. Si tratta, naturalmente, di un impianto strategico che va a discapito delle istituzioni multilaterali, sviluppatesi soprattutto negli anni Novanta, con gli Stati occidentali che oggi preferiscono gli accordi bilaterali, lasciando il campo più libero a una dinamica di alleanze e di rapporti di forza, secondo quanto afferma Bernard Nadoulek. Di fatto, quello che è avvenuto è che lo Stato si è messo a capo di quelle tre rivoluzioni indicate nella sezione precedente del presente contributo, che sono state il motore del passaggio da una logica di Guerra Fredda a quella di guerra economica, piuttosto che svolgere un mero ruolo di garante delle regole del gioco, di controllore della correttezza dello stesso o di strumento di salvataggio in caso di sconfitta. Questo perché esso possiede delle prerogative che non sono alla portata delle imprese, per quanto grandi esse siano, soprattutto in termini di finanziamento a lungo termine e di investimenti lungimiranti in tecnologie costose e settori all’avanguardia. Non solo il finanziamento, ma anche la pianificazione di lunga durata è appannaggio dello Stato piuttosto che delle aziende: è il caso del Commissariato per la Pianificazione Economica in Francia, in vigore dal 1946 al 2006, e a livello europeo delle due strategie decennali rispettivamente di Lisbona, adottata nel 2000 dai Paesi membri dell’UE allo scopo di rendere l’Unione Europea
“la prima economia della conoscenza”, ed Europa 2020 per una crescita intelligente, sostenibile e inclusiva. Vi è poi il caso di capi di Stato e di governo che incarnano personalmente ruoli di tipo economico: emblematici sono gli esempi carismatici di Margaret Thatcher e Bill Clinton, entrambi impegnatisi in prima persona in particolare con l’Arabia Saudita per la stipula di contratti di fornitura, e quello decisamente più duro di Putin, che usa deliberatamente il gas russo come arma allo stesso tempo di dissuasione e di pressione. Il ruolo delle imprese, in questo contesto di guerra economica, sarebbe dunque quello di “truppe”, al fronte se esportano in maniera consistente, nelle retrovie se mantengono saldamente il controllo di nicchie del mercato interno, di sfondamento se svolgono una parte consistente della loro attività in terra straniera. In quest’ultimo caso ci riferiamo soprattutto alle grandi industrie multinazionali, il cui peso e importanza economica vengono stabiliti non tanto in funzione del loro fatturato annuale, bensì sul grado di globalizzazione, cioè sulla loro capacità di conquistare mercati esteri. Questa abilità si può misurare considerando i valori che costituiscono l’indice di transnazionalità di un’azienda, nonché gli attivi detenuti al di fuori del Paese dove ha sede la casa madre, la percentuale di vendite realizzate all’estero e il numero di dipendenti che lavorano all’estero. Vi sono però alcuni elementi che non rendono quest’identificazione di tipo militare così automatica come sembrerebbe. Innanzitutto, la questione della nazionalità delle imprese, soprattutto le multinazionali: analizzando i listini dei principali indici borsistici degli Stati occidentali, ciò che salta immediatamente all’occhio è la quantità di capitali detenuta da residenti stranieri, che molto spesso supera la metà del totale delle società quotate nei listini stessi; in questi casi risulta quindi controverso affermare un’unica nazionalità per queste imprese. Eppure, il concetto di nazionalità è fondamentale per la definizione di guerra economica, poiché quest’ultima cessa di esistere se non vi è nessuna esigenza di difendere delle proprietà interne alla nazione stessa, sia in maniera diretta – con il possesso di quote azionarie da parte dello Stato, ad esempio –, sia in maniera indiretta – garantendone l’indipendenza nei confronti di imprese straniere. Gli Stati Uniti si
confermano, anche in questo caso, in prima linea nella difesa dei propri interessi interni, come hanno dimostrato due interventi dell’amministrazione Bush, rispettivamente nel 2005 e nel 2006, per impedire l’acquisto di Unocal (azienda del settore petrolifero) da parte della China National Offshore Corporation e per costringere la Dubai Port World alla vendita della gestione di sei grandi porti americani a favore di AIG International, una società di servizi finanziari e assicurativi. D’altronde, vi sono almeno tre fattori che permettono di considerare nazionali imprese che, a tutti gli effetti, si fondano invece su capitali internazionali: in primo luogo il territorio dove originariamente la società è stata fondata e ha sviluppato la propria attività, costruendo legami con fornitori e clienti e operando sulla base di prassi non scritte derivanti da una determinata cultura nazionale; in secondo luogo, le norme e i rapporti istituzionali che permettono lo sviluppo dell’impresa, anch’essi dipendenti dal Paese in cui la stessa ha la sede principale; infine, l’ubicazione del centro decisionale, la cultura d’impresa e la nazionalità dei proprietari del capitale. Il secondo elemento che rende problematica l’identificazione automatica delle imprese come “truppe” della guerra economica è la convergenza d’interessi di Stati e imprese. Come già anticipato in precedenza, la logica di potenza degli Stati differisce dalla logica di profitto delle imprese, che spesso si dimostrano indifferenti alle necessità degli interessi nazionali. In realtà, al giorno d’oggi l’economia è forse la preoccupazione principale degli Stati, come pure i suoi operatori i quali, con la conquista di segmenti di mercato su cui vendere le merci prodotte, garantiscono il mantenimento di livelli adeguati di occupazione ed entrate costanti e sicure nelle casse dello Stato sotto forma di imposte, contribuendo così alla gestione degli equilibri sociali e al finanziamento dei servizi pubblici (sanità, istruzione, giustizia, difesa, ecc.). Il fatto che alcune imprese generano occupazione e versano imposte in Stati esteri concorre però, almeno indirettamente, al controllo di un mercato straniero da parte di interessi nazionali ed è a servizio della politica di potenza dello Stato. Questa convergenza d’interessi spiega, in ogni caso, perché gli Stati cercano di promuovere e consolidare le
aziende leader a livello nazionale e internazionale nei diversi settori. Gli Stati Uniti si confermano al primo posto in varie classifiche: con il primato in settori quali quello aerospaziale e della difesa (Boeing Co.), quello farmaceutico e nella grande distribuzione (con Walmart che da diversi anni si conferma come la prima multinazionale mondiale per fatturato), sono lo Stato con il più alto numero di multinazionali di punta, seguiti dalla Germania, che detiene il primato nei settori automobilistico (Volkswagen) e chimico (BASF) e Cina, le cui imprese statali dominano soprattutto il settore petrolifero (Sinopec Group e China National Petroleum Corporation); l’Italia, grazie al primato di Exor, gode di una posizione di rilievo nel settore dei servizi finanziari. È palese, anche agli occhi della sempre più informata opinione pubblica, che l’apertura di filiali all’estero da parte delle multinazionali o la delocalizzazione della produzione – anche da parte di imprese di dimensioni inferiori – in virtù dei minori costi sostenuti non favorisce l’occupazione interna, indicatore di potenza economica (nonché di controllo sociale) tanto caro agli Stati. Partendo da questa constatazione, gli Stati hanno sviluppato due tipi di atteggiamento in merito: il più diffuso è cercare di incentivare le società straniere a investire sul proprio territorio con politiche fiscali e normative più vantaggiose (ambito in cui l’Italia è fanalino di coda fra i Paesi occidentali, a causa delle inefficienze della triade burocrazia, fiscalità e giustizia civile), mentre il secondo è un tipo di approccio attuato, ancora una volta, dagli Stati Uniti della prima presidenza Clinton, con la proposta di sostenere le imprese presenti sul territorio statunitense a prescindere dalla loro nazionalità, allo scopo di creare o mantenere l’occupazione nazionale. La conclusione che si può trarre da quanto analizzato finora è dunque quella di uno scenario in cui imprese e Stati si muovono nell’arena della competizione economica non collaborando strettamente (anche perché si tratterebbe di una constatazione ingenua), ma utilizzando le rispettive armi e carte vincenti che, in taluni casi, contribuiscono e favoriscono le logiche di intervento delle une e degli altri. Considerato, d’altra parte, il ruolo che lo Stato sempre più deve assumere nel contesto delle relazioni economiche internazionali, destabilizzando l’impianto
liberale finora prevalente a livello globale, si può immaginare un futuro in cui Stati e imprese dovranno, a tavolino, trovare un equilibrio che tenga conto delle reciproche prerogative. La grande recessione causata dalla crisi finanziaria dell’agosto 2007, a motivo della sua eccezionale gravità che coinvolge tutti i Paesi e per cui è impensabile che vi sia qualcuno che ne uscirà vincitore a discapito degli altri, favorisce nelle relazioni internazionali una dialettica in cui vengono rimesse al centro le logiche multilaterali dei grandi organismi, FMI e Unione Europea in testa, ma anche OMC e ONU. I Paesi del G20, che sostituirà gradualmente il G8 come principale forum economico delle nazioni più sviluppate, mantengono ufficialmente il dialogo come metodo di regolamentazione delle difficoltà economiche, anche perché l’urgenza della situazione economica sembra richiedere una risposta collettiva per salvare la finanza ed evitare la contrazione degli scambi, senza ricadere perciò in quel cortocircuito di natura economica generatosi negli anni Trenta del Novecento che portò agli avvenimenti storici mondiali e soprattutto europei che ben si conoscono. Tuttavia, la contraddizione è dietro l’angolo: se questo è, infatti, il discorso ufficiale mantenuto dagli Stati, la realtà dei fatti dimostra come la necessità di conservare le porzioni di mercato acquisite sia preponderante rispetto all’imperativo di solidarietà nel settore finanziario, aumentando così le tensioni già abbastanza elevate a causa della crisi. Quest’ultima, d’altra parte, se nella percezione generale è connotata esclusivamente in senso negativo, si rivela spesso una grossa opportunità per le imprese che le sopravvivono di conquistare nuovi “territori” rimasti sprovvisti di fornitori (in Francia, esse sono sostenute in questo tipo di attività da Ubifrance, l’Agenzia francese per lo Sviluppo Internazionale delle Imprese, di cui il corrispettivo italiano è l’Agenzia ICE). Ecco che torna dunque la logica di guerra economica, che ci aiuta ancora una volta a comprendere atteggiamenti che potrebbero sembrare discordanti, se non addirittura schizofrenici, e che devono invece essere letti come l’evoluzione dei rapporti postGuerra Fredda, dove le alleanze non più militari consentono di non sentirsi
vincolati a costo della vita ai propri partner, ma addirittura di considerarli dei concorrenti commerciali e di trattarli di conseguenza. Il mondo post-bipolarismo, quindi, non è più un unico scacchiere dove solo due giocatori muovono di volta in volta le loro pedine, ma è composto di numerosi scacchieri sovrapposti dove si conducono partite spesso legate le une alle altre. Si potrebbe affermare che resta valido il concetto di multipolarismo adottato per definire le relazioni internazionali successive alla fine della Guerra Fredda, benché non vada interpretato in senso idilliaco e come orizzonte di una definitiva concordia fra i popoli, bensì in senso di guerra economica e come scena su cui gli Stati-attori assumono sempre più i ruoli ambivalenti di partner/concorrente e sempre meno quelli di alleato/avversario, che si escludono a vicenda. Secondo questa lettura, ai due blocchi della Guerra Fredda sarebbero succeduti tre blocchi: il primo sarebbe lo spazio di potenza ancora teorica ma in via di erosione progressiva del mondo occidentale, eccezion fatta forse per gli Stati Uniti; il secondo sarebbe l’ampio spazio di manovra delle nuove potenze, in continua (anche se al giorno d’oggi rallentata) espansione anche per quanto riguarda il numero dei Paesi che ne farebbero parte; il terzo, infine, corrisponderebbe allo spazio di sopravvivenza dei Paesi non compresi nei due blocchi precedenti, un nuovo ipotetico Terzo Mondo. L’analisi che i due esperti Christian Harbulot e Didier Lucas conducono a proposito delle strategie di potenza fino al 2020 conferma tuttavia la generale crisi del multilateralismo e la riaffermazione della sovranità e della potenza degli Stati nazionali. È opportuno ribadire che le alleanze interne ai tre nuovi blocchi di cui abbiamo appena presentato la proposta non hanno il carattere necessario delle passate alleanze, anzi vi sono collegamenti anche molto stretti fra Paesi che integrano blocchi diversi. Si pensi, ad esempio, alla complessità del rapporto CinaUSA: rivali nell’Africa subsahariana, dove si affrontano in una guerra per le risorse senza esclusione di colpi, ma reciprocamente dipendenti a causa del finanziamento del debito pubblico statunitense tramite l’acquisto di buoni del Tesoro americano, da un lato, e dei consistenti investimenti diretti all’estero su cui si sostiene la
crescita del gigante asiatico, dall’altro. Le analisi, in questo senso, sono ambivalenti: c’è chi sostiene che la Cina non si accontenterà del secondo posto a livello mondiale e che fin d’ora, tramite la dipendenza economica e il trasferimento di tecnologia, mostra ciò di cui sarà capace nelle offensive di una futura, probabile guerra del Pacifico; c’è chi invece legge con maggiore preoccupazione l’alleanza strategica con l’India sulle alte tecnologie, che potrebbe mettere in scacco le potenze occidentali sprovviste di una simile arma. Nonostante tutto, anche tenendo conto di questi scenari in cui i Paesi emergenti avrebbero finalmente la meglio sul vecchio Occidente, gli Stati Uniti restano ancora l’incontestabile leader della globalizzazione, anche in virtù della loro sapiente difesa degli interessi nazionali.La guerra economica come mezzo al servizio delle strategie di potenza degli Stati, siano esse di natura geopolitica o geo-economica, può assumere tre diverse tipologie: guerra economica con finalità economiche; guerra economica con finalità politico-strategiche; guerra economica con finalità militari. La prima forma è l’oggetto di tutti i discorsi fatti finora, sarà ulteriormente approfondita nella sezione seguente e non è altro che l’indebolimento degli avversari sui mercati internazionali attraverso l’espansione della forza economica dei singoli Stati. La seconda forma si esplicita principalmente nelle sanzioni intese come danni economici imposti a un Paese affinché cambi politica. Si tratta di un’arma antica della guerra economica, di cui molti sono gli esempi recenti e contemporanei: le sanzioni economiche imposte dalla Società delle Nazioni contro l’Italia in seguito alla guerra d’Etiopia, quelle contro il Sudafrica al tempo dell’apartheid e le più recenti e ancora in vigore “misure restrittive”, come vengono definite nel gergo dell’UE, a danno della Russia in risposta alla crisi in Ucraina, di carattere diplomatico (sospensione del G8), finanziario (congelamento dei beni e restrizioni di viaggio) e più specificamente economico (divieti di importazione e di esportazione in settori specifici). La terza forma di guerra economica, dal momento che per lo più assume le forme della seconda, se ne differenzia esattamente per il fine; in questo caso, ne sono esempi le sanzioni economiche contro l’Iraq di
Saddam Hussein negli anni Novanta (successive alla prima guerra del Golfo ma interrotte con la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite 1483 del 2003), l’embargo sulle armi imposto su tutti i territori dell’ex Jugoslavia pochi mesi dopo l’inizio della guerra in Croazia (determinante per l’andamento della guerra in Bosnia-Erzegovina) e l’attuale embargo sulle armi nei confronti della Siria, causato dalle violente repressioni del governo che nel 2011 hanno dato avvio alla guerra civile ancora in corso. Sarebbe auspicabile pensare, come alcuni teorici sostengono, che la prima forma di guerra economica abbia soppiantato quasi completamente gli scontri bellici diretti, almeno fra le grandi potenze del pianeta. Tuttavia, la guerra cosiddetta tradizionale non si è davvero ritirata in favore della sua forma meno virulenta (e sicuramente meno sporca di sangue), come auspicano i liberali da ormai due secoli. Gli scenari di alcuni importanti conflitti degli ultimi vent’anni dimostrano piuttosto come ciò che avviene sia una sostanziale sovrapposizione e un intreccio fra guerra classica e guerra economica. Questa constatazione può essere verificata in quasi tutti i continenti: in Africa, ad esempio, le guerre che insanguinano la regione dei Grandi Laghi sono contemporaneamente lotte per il potere e per il controllo delle risorse naturali. Il caso della Repubblica Democratica del Congo è emblematico con le regioni del Nord e Sud Kivu che, dopo il genocidio del Ruanda nel 1994, sono state il teatro di atrocità belliche permanenti causate da conflittualità di tipo etnico (scontro plurisecolare fra nilotici e bantu, esacerbato ma tenuto a bada in epoca coloniale ed esploso in seguito all’indipendenza dei Paesi dell’area) intrecciate a questioni territoriali (alcune etnie rivendicano le terre di grandi proprietari appartenenti ad altre etnie) e a ragioni di tipo economico (per il controllo delle zone di estrazione di rame, cobalto, diamanti, oro, zinco e altri metalli di base). In Europa, le motivazioni politiche della già citata crisi ucraina (opposizione russa all’Accordo di Associazione con l’Unione Europea, annessione della Crimea e proteste filorusse nelle altre regioni dell’Ucraina orientale) sono legate a doppio filo con motivazioni economiche più o meno evidenti, come la necessità per la Russia di mantenere il controllo del porto di Sebastopoli
(fondamentale per i suoi traffici commerciali), l’importanza di Kiev sul mercato internazionale dei cereali (secondo esportatore mondiale nel 2014) e la sua posizione strategica come corridoio di importanti gasdotti diretti verso il continente europeo. Il caso siriano, infine, è esemplificativo di quanto sul quadrante geopolitico mediorientale pesino considerazioni di tipo economico legate principalmente alle risorse energetiche: all’origine del mancato intervento occidentale in una guerra che infiamma ormai da cinque anni ci sarebbe la relativa povertà di idrocarburi e gas naturale dei giacimenti controllati da Damasco, che non motiverebbe quindi i costi ingenti di una mobilitazione

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