Il maglio giudiziario, di Giuseppe Germinario

Il caso Amara e il caso Palamara, nella loro rapida successione, hanno portato alla luce del sole l’evidenza di quanto sino ad ora intuito: anche la magistratura è campo di azione politico, oggetto di scontro politico per il suo esercizio; è costituita da soggetti politici partecipi non solo nel loro ambito operativo ma anche attivi nell’agone politico generale sia con strutture istituzionali ed associative formalmente riconosciute che per il tramite di gruppi informali. Sul criterio della separazione dei poteri sembra ormai prevalere quello della divisione e della compartecipazione soprattutto in questa fase di crisi e ristrutturazione degli assetti.

Prima però di dilungarsi su questo tema così delicato e su di un aspetto particolare ma cruciale di esso occorrono però alcune precisazioni necessarie a contestualizzare il merito di quanto scritto:

  • l’azione della magistratura nell’esercizio delle sue funzioni è per sua natura destabilizzante e distruttiva in quanto agisce su singoli attori o al massimo su gruppi o settori della società, segno tra l’altro che non sempre l’azione del magistrato è individuale, ma spesso e volentieri orientata e coordinata; costringe quindi gli attori politici con funzioni “costruttive” a riposizionarsi negli spazi, nei comportamenti e nei rapporti di forza diversamente disposti

  • la magistratura è organizzata secondo il criterio dell’ordinamento, in assenza quindi di una rigida struttura gerarchica. Ragion per cui il singolo magistrato, tuttalpiù le singole procure e strutture giudicanti godono almeno formalmente di “completa autonomia e indipendenza”

  • in ambito penale l’attività giudiziaria è regolata dall’obbligatorietà dell’azione; criterio che vieterebbe la selezione gerarchica, nei tempi e nei mezzi utilizzati, dei vari procedimenti

  • l’attività del magistrato, specie nella fase inquirente, è resa possibile ed è inevitabilmente condizionata dagli input forniti da soggetti politici “costruttivi” quali sono gli organi di informazione, organi di polizia, servizi di intelligence, uomini di apparato e singoli cittadini motivati in senso lato politicamente. Di solito nelle fasi di normalità o di gestione controllata delle dinamiche tale influenza si esercita con isolate eccezioni sotto traccia e discretamente; in quelle di crisi acuta o marcescenti emergono nella loro invasività e virulenza. Un esempio tra i tanti, gli evidenti e ormai conclamati legami e condizionamenti di settori dei servizi di intelligence nazionali e americani operati su alcuni magistrati propedeutici allo scoppio di Tangentopoli, alla defenestrazione di un intero ceto politico governativo e di potere, alle dismissioni e privatizzazioni gestite scelleratamente da quello surrogato in posizione servile e raffazzonata.

Gli indirizzi espressi nel secondo e terzo punto hanno lo scopo dichiarato di garantire al meglio l’imparzialità del magistrato e la parità di trattamento del cittadino; in effetti in particolari ambiti e tempi ci si è avvicinati a questo obbiettivo che più che di imparzialità si potrebbe definire di maggiore considerazione delle parti più deboli individualmente della società.

Al pari di qualsiasi sistema di relazioni e di apparati anche quello della magistratura ha conosciuto fasi ascendenti di funzionamento e fasi discendenti di decadenza e progressiva degenerazione. Le sue modalità di funzionamento ed organizzazione non possono certo impedire l’esercizio dell’impegno e del conflitto politici, proprio per la funzione di indirizzo e di collante che consustanzialmente il “politico”deve esercitare nei vari ambiti di azione umana; ne condizionano certamente però le modalità di esercizio, specie nella magistratura inquirente, sia all’interno, sia all’esterno di essa, sia ancora nelle intricate interrelazioni.

La gerarchizzazione approssimativa dell’ordinamento, la mancanza di un esplicito prevalente rapporto di indirizzo esterno dell’attività giudiziaria, in particolare di quella inquirente, ha determinato al suo interno la formazione e frammentazione di centri di potere e decisionali ostentatamente autonomi e sempre più in conflitto tra di essi, con per di più un armamentario di strumenti disponibili peculiari della categoria, ma così dirompenti nei loro effetti; ha consentito a questi nuclei di tessere, di inserirsi o di essere assorbiti più autonomamente in reti di relazioni e centri decisionali; ha creato infine le condizioni per assumere un ruolo e una capacità di influenza abnormi ormai consolidato e difficilmente scalfibile.

L’esercizio fluido del potere esige il funzionamento corretto e coordinato dei vari centri di potere, in particolare di quelli istituzionali, nella diversità delle loro funzioni; l’incisività dei vari centri strategici in conflitto e cooperazione tra di essi dipende soprattutto dalla capillarità della loro presenza in quelli istituzionali. Quando per un qualche motivo l’equilibrio dinamico viene sconvolto, mettendo per lo più in crisi il funzionamento di uno o più di questi centri di potere, in qualche modo si sopperisce alla crisi sovraccaricando altri settori con tutte le distorsioni che ne conseguono specie in caso di protrazione indefinita delle condizioni di emergenza. È quello che sta avvenendo negli Stati Uniti con l’avvento e la defenestrazione di Trump; è quello che sta avvenendo in Italia sino ad incancrenirsi da ormai circa trenta anni con la crisi focalizzata nel ceto politico governativo e progressivamente nel ceto di controllo e gestione degli apparati.

La crisi al e del CSM (Consiglio Superiore della Magistratura) è il portato di queste dinamiche. Sequenze dettate dagli imprevisti e dalle incognite di uno scontro politico così acceso e cadenzate da soggetti non necessariamente consapevoli viste le modalità altamente sofisticate di condizionamento e influenza delle azioni.

Ma passiamo al punto centrale di questo articolo.

Se esiste un ambito di azione dell’attività dei magistrati dove sono più evidenti queste implicazioni, questo è l’agone internazionale. Non è un caso quindi che la crisi sia deflagrata sui procedimenti giudiziari a carico di dirigenti dell’ENI impegnati nelle attività all’estero, nella fattispecie in Nigeria, risoltisi con l’assoluzione.

Certamente il punto centrale della crisi non riguarda il carattere informale dei comportamenti nel CSM al riguardo. A qualunque livello dell’attività politica, compreso gli organi della magistratura, i rapporti informali sono altrettanto se non più importanti di quelli formali nel preparare e portare avanti le decisioni, nel determinare le posizioni di potere. Né lo sono le rivalità personali legate al consolidamento o alla minaccia alle posizioni di potere stesse nelle procure e nel CSM.

Le stesse rivalità in seno alla dirigenza dell’ENI, in particolare tra gli amministratori delegati Scaroni e Descalzi, le quali avrebbero alimentato e fornito pretesti al proseguimento dell’inchiesta, sono il portato di dinamiche molto più grandi e complesse che vedono esposta una azienda a caccia sempre più in proprio di coperture internazionali data la crescente evanescenza del peso geopolitico dello Stato che dovrebbe tutelarla, coprirla ed indirizzarla.

L’attività legale, i procedimenti giudiziari, la stessa giurisdizione internazionali hanno delle implicazioni e godono di una aleatorietà tali da innescare pesanti dinamiche geopolitiche e politiche che prescindono dall’esito stesso delle sentenze. Quello geopolitico è un ambito privilegiato per cercare di individuare al meglio il ruolo della giustizia e dei magistrati; ambito che va esaminato sulla base di alcune premesse.

Parlare intanto di diritto internazionale è improprio in quanto il fondamento di queste, ad eccezione parziale dell’ambito dei diritti umani, sono i trattati e non un corpo di leggi; l’adesione a questi e agli organismi internazionali preposti alla gestione, l’applicazione e il rispetto delle norme sono continuamente oggetto di trattative, deroghe e violazioni in realtà difficilmente sanzionabili universalmente; laddove si è riusciti a istituire delle corti, come nell’ambito dei diritti umani, queste corti non hanno potestà su tutti i paesi e paradossalmente viene utilizzato il loro dispositivo da paesi, come gli Stati Uniti, che non vi aderiscono, almeno sino a quando utili al loro esercizio di potenza. L’ultimo esempio clamoroso in tal senso è stato il processo a Milosevic, conclusosi tra l’altro con qualche dubbio sulle cause di morte dell’imputato. Si tratta in realtà di una coperta corta utilizzata dagli stati egemoni al momento in auge a sanzione dei rapporti di forza e degli interventi intromissori. Una aleatorietà che lascia ampi margini di azione agli Stati e alla pletora di associazioni e ONG che fungono da complemento. Ai dispositivi giudiziari internazionali manca comunque il supporto fondamentale di una forza di polizia alle dirette dipendenze, impossibile da realizzare per l’assenza di un governo e di una organizzazione statuale mondiale, al momento scritta solo nel libro dei sogni.

Più interessante è la valutazione dell’azione dei corpi giudiziari nazionali nell’agone internazionale.

L’ambito penale e dirittoumanitarista è quello che si presta maggiormente alla manipolazione indiretta tesa a logorare e condizionare la collocazione geopolitica di un paese. Il caso Regeni è emblematico da questo punto di vista per la direzione unilaterale delle indagini, sia per la permeabilità alle manipolazioni esterne e alle campagne propagandistiche, nella fattispecie di matrice anglosassone. Azioni che tendono a pregiudicare e delimitare ulteriormente il nostro ruolo nel Mediterraneo.

Molto più diretto ed articolato è l’uso del diritto in ambito geoeconomico sino a diventare un vero e proprio sofisticato strumento di guerra economica e confronto geopolitico. Soprattutto in ambito economico l’adozione di un modello giurisprudenziale, nella fattispecie quello anglosassone, rappresenta la sanzione della superiorità egemonica di un paese e il tentativo di protrazione di questa per inerzia anche in una fase di incrinatura e di relativa decadenza della sua capacità di dominio. L’adozione di tali modelli apre la strada al radicamento di studi professionale avvezzi a quelle procedure, alla individuazione di sedi di definizione di controversie solo apparentemente neutrali, alla formazione di gruppi lobbistici sempre più influenti, alla circolazione di conoscenze, dati riservati e quant’altro le quali regolarmente affluiscono nelle case madri degli studi legali e da esse verso i centri di potere politici e politico-economici. La proliferazione di studi legali americani nel modo, specie nell’area occidentale, non è certo casuale e politicamente neutra; è sufficiente analizzare il corollario sviluppatosi attorno alle controversie di giganti come Airbus e Bayer per avere una idea delle dimensioni del fenomeno. La corruzione, la violazione delle regole della concorrenza, il mancato rispetto dei vincoli finanziari e debitori, la violazione dei brevetti sono le costanti di tali azioni.

Il principio della extraterritorialità è invece il fattore decisivo in grado di far compiere il salto di qualità alla efficacia delle azioni giudiziarie dei paesi. In senso masochistico ai paesi scarsamente in grado di applicarlo, in senso proattivo agli altri. L’Italia primeggia, manco a dirlo, tra i primi, gli Stati Uniti in assoluto, con la Cina come neofita ed aspirante, tra i secondi.

La base di questo principio viene posta dal lontano caso Lockeed che investì negli anni ‘70 numerosi paesi, tra i quali gli Stati Uniti, l’Italia, il Giappone, l’Olanda. Sull’onda di indignazione sollevata dallo scandalo, gli Stati Uniti in prima battuta, seguiti pedissequamente con grande solerzia da gran parte degli stati europei e dal Giappone, vararono leggi che penalizzavano le proprie imprese implicate in azioni di corruttela. Con il passare del tempo, ma in pochissimi anni, i centri decisionali americani si accorsero della discriminazione e del danno arrecato alle proprie aziende con un intervento in esclusiva. Estesero così progressivamente il campo sanzionatorio a tutte le imprese intrattenitrici di rapporti con paesi implicati in casi di corruzione, ma anche con quelli vittime di provvedimenti anche unilaterali di sanzioni per violazione dei diritti umani, per fomentazione del terrorismo (Iran), per minaccia alla “coesistenza pacifica” o per insolvenza debitoria (Argentina), comprese quelle straniere che in qualche maniera utilizzassero servizi e componenti produttivi americani. A cotanto zelo non hanno saputo resistere molti paesi, prima fra tutti l’Italia. Ma quello che per gli Stati Uniti è diventato via via uno strumento offensivo temibile e sempre più perfezionato nel conflitto geoeconomico e geopolitico, per l’Italia si è rivelato uno zelo autolesionistico di rara efficacia e perseveranza. Agli Stati Uniti è bastato ostacolare l’accesso ai propri servizi finanziari, al proprio bagaglio tecnologico e al proprio mercato interno per “correggere” i comportamenti riottosi e allineare le politiche governative e aziendali ai propri disegni; l’Italia non ha questa capacità geopolitica e nemmeno quella di determinare o contribuire a fissare gli standard di mercato e commerciali. La conseguenza è che gli Stati Uniti hanno concentrato in casa altrui le attenzioni e affibbiato l’80% dei provvedimenti sanzionatori ad aziende straniere riuscendo in qualche maniera a condizionare a proprio favore i comportamenti generali all’interno della propria sfera di influenza e a condizionare pesantemente quella dei competitori ed degli avversari dichiarati; l’Italia ha concentrato tutte le sue attenzioni verso le proprie aziende e a rivolgere gli strali più pesanti verso le proprie aziende pubbliche. La pletora di indagini e provvedimenti giudiziari ai danni di ENI, Leonardo e Finmeccanica per le loro attività estere, spesso conclusi con un nulla di fatto dopo anni di indagini e processi, hanno sconvolto le strategie aziendali in settori strategici, hanno minato profondamente la credibilità e l’affidabilità internazionale di queste e del paese stesso, hanno arrecato danni economici e politici enormi specie nell’area operativa mediterranea e subsahariana, hanno spinto queste aziende ad intensificare per proprio conto i legami politico-economici con paesi stranieri geopoliticamente più attivi indebolendo quelli con la casa madre. Tanto per non farci mancare niente, non è nemmeno l’unico campo dove si è entrati giudiziariamente con la grazia di un elefante in un negozio di cristalli sino a scombussolare assetti e reti operative: basterebbe seguire le peregrinazioni giudiziarie di tanti vertici dei servizi di informazione in quest’ultimo trentennio. In questo quadro, azzardare l’ipotesi di una particolare permeabilità degli ambienti giudiziari a questi disegni e a queste dinamiche ed esercizi di influenza e manipolazione non è poi così peregrina, a prescindere dalla consapevolezza e dalla correttezza di comportamento dei singoli magistrati. Servirebbe anche ad inquadrare con maggior respiro conflitti istituzionali gravissimi e feroci presentati dagli organi di informazione per lo più come deplorevoli beghe di bottega dal sapore corporativo. Queste naturalmente esistono, ma assumono l’aspetto del contenzioso tra i polli di Renzo, se non peggio.

NON INDURRE IN TENTAZIONE…, di Teodoro Klitsche de la Grange

NON INDURRE IN TENTAZIONE…

Al fine di giudicare la complessa vicenda – o almeno la parte di essa più rilevante –Palamara – CSM non è inutile quell’invocazione del paternoster all’Onnipotente: non c’indurre in tentazione. Nei due fatti di “deviazione” della giustizia ai fini politici che occupano le prime pagine dei giornali: la sentenza contro Berlusconi di anni fa e la recente richiesta di processare Salvini, un ruolo di grande rilievo hanno le innovazioni legislative e costituzionali successive a Tangentopoli, in particolare, da ultimo, la legge “Severino” del non rimpianto governo Monti.

Presupposto delle quali è la pretesa lesione del diritto di uguaglianza, che avrebbe provocato o comunque incentivato il malaffare dei politici. Questo è difficilmente perseguibile perché la giustizia “politica” – cioè con oggetto e/o soggetto politico – è (per sua natura) derogatoria sia delle competenze che delle procedure ordinarie, onde le deroghe apparivano (e sono viste) come vulnera del principio d’uguaglianza dei cittadini. I quali così, anche ai fini penali, sono distinti in governati e governanti: i primi soggetti alla legge, i secondi alle di essa “eccezioni”. A cui si aggiunge anche la lesione dei principi dello “Stato di diritto”.

Non è così: sin dai primi teorici (e dalle disposizioni delle costituzioni) degli Stati borghesi – risulta che la giustizia politica non può che essere derogatoria di quella ordinaria.

Scriveva Constant circa due secoli orsono per sostenere, nelle accuse ai ministri, la deroga della competenza dei Tribunali ordinari a favore della pairie che “La messa sotto accusa dei ministri è, di fatto, un processo tra il potere esecutivo e il potere del popolo. Occorre dunque, per condurlo a termine, ricorrere a un Tribunale che abbia un interesse parimenti distinto da quello del popolo e da quello del governo e che tuttavia sia unito da un altro interesse sia a quello del governo sia a quello del popolo” che individuava nella camera dei pari; ciò perché “La Camera dei pari è dunque, per l’indipendenza e la neutralità che la caratterizzano, il giudice adatto dei Ministri”, e così a decidere della pubblica accusa (cioè di iniziare l’azione penale) i più adatti sono i rappresentanti della Nazione (altra deroga); mentre i “tribunali ordinari, possono e debbono giudicare i ministri colpevoli di attentati contro gli individui; ma i loro membri sono poco adatti a pronunciare su cause che sono piuttosto politiche che giudiziarie; sono più o meno estranei alle conoscenze diplomatiche,, alle combinazioni militari, alle operazioni finanziarie: conoscono solo imperfettamente la situazione dell’Europa, hanno studiato soltanto i codici delle leggi positive, sono costretti dai loro doveri abituali a consultare soltanto la lettera morta e a chiederne soltanto la stretta applicazione”. Non aveva pensato Constant, al fatto che anche i tribunali ordinari possono essere sedotti dallo spirito partigiano, e giudicare secondo il medesimo, come rimproverato anche da alcuni magistrati nelle conversazioni intercettate. E se si considerano le opinioni dei giuristi negli ultimi due secoli, divergono poco o punto da quella di Constant.

Il carattere derogatorio è giustificato dai quei pensatori, sia dalla possibilità di sottrarre i ministri a vendette politiche, sia ad applicazioni di norme senza tener conto dell’interesse generale, sia all’indipendenza superiore di organi speciali rispetto ai tribunali ordinari. Non s’immaginava che gli organi giudiziari (ordinari) si trasformassero in soggetti politici, interloquenti e contrattanti con altri soggetti, politici a tutto tondo, come parlamentari, leaders, componenti del governo. E non solo per l’attività amministrativa del CSM, come la nomina dei dirigenti degli uffici o la giustizia disciplinare. Ma per la condanna o l’accusa giudiziaria di uomini di governo, cioè per la perversione del fine della giustizia, strumentalizzato ai fini della lotta politica.

Ma per riuscire compiutamente a ciò occorre che l’esito dell’azione giudiziaria intrapresa si traduca in risultato istituzionale: cioè nell’allontanamento/perdita delle cariche rivestite del politico condannato.

E questa è la prima tentazione alla perversione della giustizia e del pari il punto di frizione tra principi dello Stato borghese e principi di forma politica. Perché se da una parte trattare diversamente chi è giudicato è lesivo dell’isonomia, rimuovere dall’incarico chi è stato nominato dal potere politico – in una democrazia dal popolo – è lesivo sia della distinzione dei poteri (cioè di uno dei principi dello Stato borghese) che dell’essenza e supremazia del “politico”. Come scrive Schmitt “la democrazia è una forma essenzialmente politica, mentre la giurisdizione invece è essenzialmente non politica, poiché dipende dalla legge generale… in uno Stato democratico il giudice è indipendente, se deve essere un giudice e non uno strumento politico. Ma l’indipendenza dei giudici non può mai essere qualcosa di diverso dall’altro aspetto della loro dipendenza dalla legge”.

Proprio il carattere derogatorio della giustizia politica serve a garantire sia la distinzione dei poteri che la superiorità del politico e l’indipendenza del giudice. Ma per far questo occorre che sentenze e altri provvedimenti del giudice non incidano sulle decisioni politiche (e democratiche), in particolare sulle cariche elettive, e soprattutto degli organi rappresentativi. Se l’organo competente a mantenere (o esautorare) un eletto è un ufficio giurisdizionale (come nelle conseguenze alla legge Severino) questo diventa (quanto agli effetti) un organo di direzione politica. Come mi è capitato di scrivere tempo fa “Avendo il potere di carcerare chi governa – nei fatti rimuovendolo – a decider chi deve governare sarebbero i Tribunali e non i governati che li hanno eletti.

Per ovviare a questo evidente inconveniente un giurista francese, Duguit, riteneva che l’organo di governo (nella specie il Capo dello Stato) potesse continuare a svolgere le proprie funzioni pur in stato di detenzione.

A questa soluzione Orlando replicava ironicamente: come avrebbe fatto il Presidente detenuto a ricevere un ambasciatore o anche un altro capo di Stato invece che all’Eliseo, «in una cella della prigione della Santé»?

E il giurista siciliano continuava qualificando impostazioni come quelle “aberrazioni, contro cui resiste la forza delle cose” cioè la realtà dell’istituzione politica, nella quale, con riguardo al problema, occorre conciliare il principio di responsabilità  con la necessità dell’inviolabilità (assoluta o relativa) di determinati organi dello Stato. Cosa che si realizza nella democrazia, rimettendo il giudizio sul governante ai governati, cioè al corpo elettorale, che come ha il potere di eleggerlo, così quello di rimuoverlo (direttamente o indirettamente)” (v. Giudici e governo, Italia e il mondo 19/02/2019).

Per questo incolpare solo i giudici o solo il dr. Palamara della “perversione” è parziale e…ingeneroso. La realtà è che, proprio a quel fine distorto, sono stati predisposti da tempo gli strumenti adatti. E i peccati di oggi sono le conseguenze di quelle tentazioni, predisposte proprio al fine di farli commettere. In nome dell’uguaglianza e dello Stato di diritto, per di più.

Teodoro Klitsche de la Grange

PRESCRIZIONE E FINE DELLE GARANZIE COSTITUZIONALI, di Augusto Sinagra

PRESCRIZIONE E FINE DELLE GARANZIE COSTITUZIONALI

Il rifiuto di una realtà folle porta a negare quella realtà ma la realtà esiste per come è.
Mi riferisco alla riforma della prescrizione in materia penale e ho riflettuto a lungo.
La conclusione è che l’ignoranza unita ad un giustizialismo forcaiolo è un mix esplosivo.
Anche questa demenziale e criminale riforma del regime della prescrizione sarà sanzionata dalla Corte costituzionale (se la Corte non decide, viceversa, di fare la manutengola di una falsa democrazia e di una falsa legittimità, ma non lo penso).
L’ignoranza è indubitabilmente quella dei seguaci del guitto genovese. Il giustizialismo forcaiolo è quello di Piercamillo Davigo, il Saint-Just dei rigatoni alla carbonara, per riprendere in parte una felice espressione di Marcello Veneziani.
Il soggetto in questione, all’apice di un contorsionismo argomentativo, è giunto ad affermare in sostanza che è meglio un innocente in carcere che un colpevole in libertà.
Signori, questo fa il giudice ed è pure Consigliere al CSM!
Gli ha fatto eco il DJ di Castellammare del Golfo che, ha affermato che non ci sono innocenti in carcere. La figlia di Enzo Tortora ne sa qualcosa!
Signori, questo fa il Ministro della Giustizia. E mi ha fatto veramente senso sentirlo sproloquiare all’inaugurazione dell’anno giudiziario a Roma.
Già i processi penali e civili in Italia sono eterni. Ricordo che quando facevo il giudice fino al 1980 era ancora presente nei fascicoli giudiziari la carta bollata con i Fasci Littorii. Cioè ancora dopo 35 anni.
L’eliminazione della prescrizione in materia penale, salvo che l’imputato venga assolto in primo grado, significa che esso tale potrebbe rimanere – cioè condannato – fino alla sua morte! E nessuno osi dire che i giudici lavorano in misura corrispondente allo spropositato stipendio che percepiscono. Non è vero. E lo sanno tutti: con questa riforma la già inesistente corrispondenza si tramuterà in una forbice aperta.
Questa demenziale riforma non solo contrasta con l’art. 6 della Convenzione di Roma del 4 novembre 1950 relativo alla “ragionevole durata” del processo come diritto fondamentale dell’individuo (Convenzione che la Corte di Cassazione ritiene di rango “paracostituzionale”) ma contrasta altresì con l’art. 111 della Costituzione che riproduce il citato art. 6 della Convenzione.
Io non ce l’ho con il figlio di Bernardo Mattarella. Anzi, avverto nei di lui confronti un sentimento di umana comprensione nel constatare come egli non sia libero nelle sue decisioni e dunque non possa essere arbitro.
Ma non posso pensare che egli, pur nella sua discutibile competenza in materia giuridica, non si sia reso conto e dunque sia stato consapevole di avere promulgato, con la sua firma, una legge non solamente ingiusta ma incostituzionale.
Perché lo abbia fatto non lo so. È un problema che riguarda la sua coscienza, non il Popolo italiano che di lui ha già preso le giuste “misure”.
AUGUSTO SINAGRA

Il regno dell’accusa, di Caroline B. Glick

In Israele dinamiche politiche sorprendentemente analoghe a quelle italiane_Giuseppe Germinario

tratto da https://www.israelhayom.com/opinions/the-reign-of-the-prosecution/?fbclid=IwAR3EDe8ElnwocYexy8IJ3CpCHlptCjV5AdhlQ9TujIkUHtp19XPqVUQ3BWc

In Israele giovedì mattina, i politici erano la grande narrazione. Il presidente di Israele Beitenu, Avigdor Lieberman, era il cattivo che aveva tenuto in ostaggio il paese per quasi un anno mentre nutriva il suo disturbo narcisistico della personalità.

L’ultimo fiore all’occhiello della sinistra, il Partito Blu e Bianco, è tutta la prospettiva politica un tempo vibrante che può mettere insieme ora che ha perso la sua ideologia. Con il suo Dio della pace ucciso da attentatori suicidi e missili e le sue statue di socialismo schiacciate dal peso delle società governative fallite, tutto ciò che resta della sinistra è Blu e Bianco. Il partito poggia su due assi: distruggere il primo ministro Benjamin Netanyahu ed eternizzare il regime dei burocrati non eletti di Israele.

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La polena del partito – Benny Gantz – era tentata di unirsi a un governo di unità con Netanyahu che le avrebbe garantito l’incarico di primo ministro in un accordo di avvicendamento. Ma i suoi compagni non glielo avrebbero permesso. Unirsi a un governo con Netanyahu sarebbe un tradimento della loro vera ragione di esistere. Quindi, purtroppo, se ne è andata.

E poi c’era Netanyahu stesso. Giovedì mattina, i suoi sostenitori hanno scosso la testa frustrati e i suoi nemici hanno battuto le mani in allegria alla vista del più grande statista israeliano, il leader che il pubblico vuole mantenere in carica, incapace di formare un governo.

La conversazione sui politici israeliani è durata meno di 24 ore.

Alle quattro del pomeriggio, l’ufficio del procuratore generale Avichai Mandelblit annunciò che alle 7:30 di sera avrebbe annunciato la sua decisione di incriminare Netanyahu. Il messaggio di fondo era cristallino: il giorno dopo Gantz restituì il suo mandato per formare un governo al presidente Reuven Rivlin dopo che non era riuscito a ottenere un numero sufficiente di partner della coalizione per costruire un governo; Mandelblit disse che non aveva senso parlare se Israele andrà alle nuove elezioni a marzo.

Gli elettori non decidono nulla. Lo fanno gli avvocati. I politici sono irrilevanti. Le uniche persone che contano in Israele oggi sono gli avvocati non eletti che gestiscono il paese.

Ma allora lo sapevamo già. E il fatto che – come previsto – Mandelblit abbia annunciato solennemente che stava accusando Netanyahu con tre accuse di violazione della fiducia e un’accusa di corruzione era nella migliore delle ipotesi destabilizzante. Il gioco era finito, se mai fosse stato giocato, a febbraio.

Lo scorso febbraio, al culmine della prima campagna elettorale dell’anno, quando Netanyahu e i suoi partner della coalizione di destra stavano conducendo in tutti i sondaggi con ampio margine, Mandelblit ha preso il passo senza precedenti – e legalmente dubbioso – di annunciare la sua intenzione di accusare Netanyahu di tali reati – in attesa di udienza preliminare. Nel momento in cui ha fatto il suo annuncio, la destra ha iniziato a scivolare nei sondaggi. Il leader aveva parlato. E non avevamo il diritto di interrogarlo. Il fulcro della campagna di Blue and White convergeva attorno alla “raccomandazione” di Mandelblit. La sinistra aveva un grido di battaglia e un motivo per votare. Il collo di Netanyahu era sul ceppo.

Da quando Mandelblit ha proferito le sue “raccomandazioni”, lui e i suoi compagni sono stati gli unici attori politici con qualsiasi facoltà di parola. I nostri attuali leader eletti sono diventati attori del regime degli avvocati. L’annuncio di Mandelblit giovedì lo ha appena reso ufficiale.

Con il plauso dei media corrotti di Israele, negli ultimi tre anni i nostri signori legali hanno eroso tutti gli aspetti del potere politico in Israele, e nel processo – non che a loro importasse – hanno corrotto il sistema legale di Israele da cima a fondo. Dall’inizio alla fine, la loro persecuzione criminale contro Netanyahu è stata una parodia di ogni norma nelle società democratiche governate dallo stato di diritto. Registrazioni e trascrizioni sapientemente curate e completamente distorte degli interrogatori ad opera della polizia di Netanyahu, sua moglie, suo figlio e i suoi consulenti sono state sistematicamente diffuse ai media. Il fatto che ogni simile falla fosse un’azione criminale non aveva importanza. Gli avvocati di Netanyahu hanno presentato richiesta dopo richiesta di Mandelblit per ordinare un’indagine sulle fughe criminali di informazioni. Tutte furono sommariamente e con disprezzo respinte.

Mentre le indagini proseguivano in crescendo, sotto la supervisione del procuratore Shai Nitzan, gli investigatori della polizia hanno coartato i consiglieri più stretti di Netanyahu per costringerli a diventare testimoni contro il primo ministro di maggior successo e ammirato che Israele abbia mai avuto. Gli investigatori hanno minacciato l’ex portavoce di Netanyahu Nir Hefetz che avrebbero distrutto la sua famiglia e lo avrebbero fatto fallire se non avesse accusato Netanyahu. Alla fine sono riusciti a romperlo dopo averlo incarcerato in una cella di prigione infestata da pulci per 15 notti, negandogli il sonno e le cure mediche e portando una giovane donna che conosceva in una stanza degli interrogatori accanto a lui e poi minacciando di distruggere la sua famiglia.

Nelle prime fasi delle indagini, l’allora ispettore generale della polizia Roni Elshech ha lanciato teorie cospirative demenziali, prive di fondamento e francamente pazze su Netanyahu, inclusa l’affermazione di aver assunto investigatori privati ​​per seguire gli investigatori della polizia. Elshech ha quindi fatto di tutto per impedire al governo di nominare un suo successore mentre si avvicinava alla fine del suo mandato. Ancora oggi, più di un anno dopo, Israele non ha un ispettore generale di polizia.

Quindi, naturalmente, c’è Mandelblit stesso. Mandelblit, che afferma di non aver saputo dell’abuso dei testimoni, ha quindi rifiutato di indagare sulle accuse. E Mandelblit che ha promesso – dopo aver pubblicato le sue “raccomandazioni” per l’accusa al culmine della campagna elettorale – che si sarebbe avvicinato all’udienza pre-processuale di Netanyahu con una mente aperta. Quella promessa si è rivelata una falsità quando il procuratore capo Liat Ben Ari lasciò l’udienza due giorni prima per portare la sua famiglia in un safari in Sudafrica. Non vorrebbe che una piccola cosa come il destino legale del Primo Ministro le rovinasse la possibilità di vedere gli elefanti.

Lo stesso Mandelblit ha rifiutato di indagare su Ben Ari quando sono emerse le registrazioni il mese scorso che mostravano che aveva presentato una falsa deposizione a un tribunale in relazione a una causa intentata contro di lei da un ex avvocato subordinato.

Quindi, naturalmente, c’è la sostanza delle accuse stesse. L’accusa che Netanyahu abbia accettato una bustarella si basa sull’idea inventata che la copertura mediatica positiva di un politico è corruzione. L’idea che la copertura della stampa possa essere considerata corruzione non esiste da nessuna parte nel mondo democratico. Nessun pubblico ministero al mondo ha mai accusato – o indagato – un politico o un’organizzazione mediatica di aver commesso corruzione con la fornitura di una copertura positiva. Gli alti giuristi americani sono apparsi davanti a Mandelblit nell’udienza di accusa di Netanyahu (evidentemente poco seria) per avvertirlo che perseguire accuse di corruzione contro i politici per aver ricevuto una copertura positiva è una ricetta per distruggere la libertà di stampa e la democrazia stessa.

Ma poi, questo è il punto cruciale di tampinare Netanyahu con i crimini inventati. Ora che Netanyahu è stato accusato di corruzione – e per inciso, non ha mai nemmeno ricevuto una copertura positiva dall’organo mediatico concentrato su di lui – ogni politico che si schiera dalla parte cattiva degli avvocati suderà freddo ogni volta che un giornalista scrive qualcosa di carino su di lui .

Dopo che Mandelblit fece il suo annuncio in prima serata, Netanyahu si impegnò a lottare per la sua libertà e per il ripristino della democrazia israeliana e dello stato di diritto. Nel suo discorso di giovedì sera, ha lanciato un appello appassionato ai suoi “dignitosi” rivali politici per unirsi a lui in questa lotta.

Se alcuni politici dubitano che la lotta di Netanyahu sia la loro lotta, non dovrebbero guardare oltre l’annuncio della procura della scorsa settimana che stava aprendo una revisione, prima di un’indagine penale – del ruolo di Gantz nel cosiddetto “Affare di quinta dimensione”. La Quinta Dimensione era una start-up diretta da Gantz. La sua vendita per $ 14 milioni presumibilmente violò le procedure standard.

Forse Gantz non ha fatto nulla di male. Ma poi, Netanyahu viene accusato di crimini che in realtà non esistono. Quindi non importa. Il messaggio è chiaro Ogni politico è in balia dei pubblici ministeri. Esci dalla linea e diventerai un sospetto criminale prima di poter dire “abuso della giustizia”.

È certamente vero che la sinistra condivide l’odio dei procuratori nei confronti di Netanyahu. Blue and White esiste per distruggerlo. Ma tutti i politici di sinistra – e Liberman – che stanno celebrando oggi devono capire che il Netanyahu che amano odiare è il loro migliore amico e difensore oggi. Se Netanyahu viene dichiarato colpevole di crimini inventati allo scopo di distruggerlo, la loro oca verrà cucinata insieme alla sua.

I politici possono renderci felici o tristi, frustrati o infuriati. Ma oggi, nell’Israele post-democratica, non importa. La scorsa notte Netanyahu ha chiesto una “indagine sugli investigatori”. A meno che i nostri funzionari eletti non uniscano le forze per seguire la sua chiamata, loro – e gli elettori che li hanno eletti – non saranno mai più rilevanti.

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Una scomoda verità: Foti sarà (probabilmente) assolto, di Giuseppe Masala

Più leggo e rifletto sul caso #Bibbiano e più mi persuado di una tragica verità. Foti, il Dottor Stranamore, il Cattivo (ma cattivo per davvero) Maestro sarà assolto.

Provo a spiegarmi. Il caso Bibbiano a grandi linee è il seguente: un gruppo di persone insinuate a vario titolo nella Pubblica Amministrazione sottraeva i figli alle famiglie naturali con varie scuse. Il gruppo era mosso da furore ideologico da un lato e dall’altro lato dall’interesse economico. Ecco, però non tutti in questo gruppo di persone avevano le medesime responsabilità. Da un lato abbiamo “i soldati” – come per esempio l’assistente sociale lesbica e femminista – che hanno agito compiendo degli atti materiali illegali. Per esempio hanno modificato i disegni dei bambini inducendo in maniera fraudolenta i giudici in errore e facendogli emettere sentenza di sottrazione dei figli alle famiglie naturali. E’ chiaro ed evidente che qui c’è un atto materiale doloso che giustamente verrà sanzionato.

Ma Foti il grande guru che cosa ha fatto? Materialmente nulla. Ha solo pensato. Lui pensa (lo si deduce anche da un suo post di avanti ieri sulla sua pagina facebook) che nella famiglia naturale (o patriarcale, come dicono loro) vige la seguente regola rivolta ai figli: “io t’ho fatto, io ti distruggo”. Un retroterra violento rappresentato dal padre. Fosse per lui – ripeto, basta leggere quello che ha scritto – tutti i figli andrebbero sottratti alle famiglie naturali. Lui vuole rivoluzionare la società imponendo altri paradigmi.

Ecco, io posso pensare che il pensiero del Foti sia un pensiero delirante, fondamentalmente nazista, violentissimo e direi mostruoso. Ma il suo è un pensiero. Il suo è un sistema valoriale. Il suo è peraltro un sistema valoriale che non nasce dal nulla ma è figlio di una ben precisa scuola e di un ben preciso orientamento culturale. Anzi, molti orientamenti, variamente intrecciati tra loro:il postmodernismo, il costruttivismo, il freudo-marxismo (in difesa di Marx, sempre ricordiamo che giustamente morì dicendo di non essere marxista e probabilmente se avesse conosciuto questi ignobili filestei li avrebbe scuoiati vivi), la microfisica del potere, la biopolitica, la macchina desiderante, l’Antiedipo, l’esaltazione del perverso polimorfo,l’anarchismo libertario fino ad arrivare – secondo me – all’ultrauomo nietzscheiano.
Ecco, processare Foti significa processare Derrida, Deleuze, Guattari, Foucault, Nietzsche. Per certi versi anche Sartre e Simone de Beauvoir e molti, molti altri.
Ma le idee non si processano. E non si processa neanche chi ha creato una costruzione intellettuale delirante miscelando molte idee come secondo me ha fatto il Foti. Le Corti di Giustizia sono attrezzate – secondo me – per sanzionare reati, non per dibattere idee per quanto sbagliate, pericolosissime e deliranti.

Ecco, pur non essendo un giurista, non riesco a capire come possano condannare un uomo (pericolosissimo) per aver prodotto delle idee che io posso anche definire (come ho sempre definito) la peste del pensiero. Non risultando che Foti abbia commesso atti contrari alla legge ed essendo difficile dimostrare che lui era al corrente (e dunque era il mandante diretto) dei comportamenti delittuosi posti in essere dai “soldati” della congrega agente a Bibbiano (e temo non solo a Bibbiano, viste le ramificazioni in tutta Italia) mi sembra difficile che venga condannato.

Ecco, se un giorno, tra qualche anno, non si vorrà vedere questa persona santificata e beatificata appare sempre più necessario scindere la vicenda giudiziaria dalla battaglia delle idee. Le idee sbagliate si combattono dialetticamente con le idee non con le forche e le manette.

L’unica cosa che si può fare è pretendere che venga rotto quel meccanismo perverso dove l’interesse economico si somma alle idee ottenendo il risultato di rafforzarle grazie al potere del danaro. Poi bisogna leggere, studiare e scrivere dimostrando la perversione malefica di un certo apparato culturale. Insomma bisogna fare esattamente quello che ha fatto questa gente in questi cinquant’anni arrivando ad occupare tutti i gangli del potere culturale. Insomma bisogna fare egemonia per dirla con il buon Antonio Gramsci.

Sperare che questa battaglia la combattano i giudici con le loro armi spuntate sarebbe un errore tragico che alla lunga rafforzerebbe quello che non esito a definire il Nemico Antiumano.

Scusate la predica non richiesta.

Conflitto politico e conflitti di poteri. Ne parla il professor Augusto Sinagra

Si torna ancora una volta sulla vicenda della gestione dei flussi di immigrati clandestini. Con l’insediamento di Matteo Salvini al Ministero degli Interni si è cominciato, nel caso Diciotti, con una contestazione della Procura di Agrigento e un tentativo di mettere sotto inchiesta il Ministro. Si è proseguito, nel caso di sbarchi successivi, con uno stillicidio di provocazioni da parte soprattutto del Ministro della Difesa e di una componente del M5S favorevoli alla raccolta di profughi addirittura in acque libiche o di altra nazionalità. L’azione giudiziaria verso i “soccorritori compiacenti” superstiti si è dissolta intanto in una bolla di sapone. Il terzo atto ha conosciuto un vero e proprio atto di imperio di un magistrato in opposizione alla volontà politica di un Ministro. Ne discutiamo con il professor Augusto Sinagra_Giuseppe Germinario

Salvini, Di Maio e il Terzo_di Giuseppe Germinario

La conferenza stampa del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte con oggetto il caso Armando Siri è stata un piccolo capolavoro di sottili argomentazioni tese a giustificare la decisione di dimissionamento del sottosegretario. http://www.governo.it/articolo/conferenza-stampa-del-presidente-conte/11474La prevedibile accalorata reazione dei due esponenti politici maggiormente interessati alle implicazioni dell’affare, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, non ha colto e centrato il punto focale di quella prolusione. Nella costruzione logica del discorso l’effetto scatenante sono state ovviamente le indagini giudiziarie, ma il motivo della defenestrazione riguarda il comportamento politico di un esponente di governo impegnato a difendere retroattivamente, consapevolmente o meno che fosse, interessi particolari piuttosto che l’interesse generale, non tanto il suo coinvolgimento giudiziario.

Il merito degli argomenti è però tanto efficace nella rappresentazione mediatica, quanto debole nella consistenza.

La gestione degli incentivi e delle agevolazioni ai consumi, atori e soprattutto alle imprese impegnate nel settore delle energie alternative, in particolare eolica e solare, è il frutto avvelenato del fondamentalismo ambientalista delle politiche energetiche perpetuate negli ultimi due decenni soprattutto dai governi di centrosinistra, parallelamente alla liberalizzazione del settore e bruscamente interrotte da un paio di anni.

Una mole spropositata di incentivi, introdotti repentinamente che hanno indotto enormi investimenti su tecnologie ancora poco efficienti, suscettibili solo nel tempo di migliorie significative; un ambito nel quale era del tutto assente sia l’industria di produzione degli utensili che l’artigianato competente nell’installazione e manutenzione. Il risultato ottenuto fu un notevole incremento della quota di energia verde prodotta al prezzo però di massicce importazioni di pannelli e tecnologie dalla Cina e installatori dalla Spagna. In poco tempo si assistette alla fioritura di numerose aziende di produzione e distribuzione nonché di intermediari nell’acquisizione di terreni per i parchi di produzione; attività rese profittevoli esclusivamente dall’entità degli incentivi, ma entrate immediatamente in crisi con l’altrettanto repentino scemare degli stessi. Attività di tipo speculativo nelle quali sono implicate, oltre alle scontate cosche mafiose, figure imprenditoriali ben più importanti dei tal Arata, ben ammanicate con il vecchio establishment.

Deve essere stato evidentemente uno dei servizi resi al paese e all’umanità, tra i tanti, del verde Pecoraro Scanio; servizi che gli hanno garantito un posto in prima fila alle europee in quota M5S; ma anche una scelta che ha creato l’humus adatto alla proliferazione di corruzione, parassitismo ed assistenzialismo da una parte e a interventi riparatori dall’altro.

Con questa puntualizzazione l’intervento di Conte assume ben altra caratteristica e ben altra durezza, se non proditorietà, stando almeno allo stato attuale delle indagini e della posizione giudiziaria di Siri.

Giuseppe Conte è diventato Presidente del Consiglio in quota 5Stelle, ma in virtù del contratto di governo e del protagonismo dei due vice ha potuto assumere, almeno in apparenza, la figura di terzo.

Come Schmitt, Freund e pochi altri hanno insegnato, quella del terzo è una posizione fondamentale ed indispensabile nel gioco politico. Può assumere di volta in volta la veste di mediatore, di arbitro e giudice pur essendo il più delle volte parte in causa.

Nella fattispecie Giuseppe Conte ha assunto, nell’ordinaria amministrazione, la funzione di mediatore. Nella ripartizione dei beni disponibili, quindi, l’onore della prima fila spetta ai beneficiari Salvini e Di Maio. In almeno un paio di occasioni, in questi dieci mesi, la figura di Conte si è però elevata al rango di arbitro: la gestione delle trattative con la Commissione Europea sulla Finanziaria e la gestione della conferenza internazionale sulla Libia. Si tratta però ancora di una funzione il cui esercizio è possibile grazie al riconoscimento delle parti in causa. Quando esso manca, lo vediamo nelle partite di calcio, all’arbitro non resta che la fuga e il riparo in luogo sicuro.

Con il caso Siri si è verificato il salto di qualità. Non ostante le esortazioni salomoniche alla calma rivolta ai due contendenti l’avvocato Giuseppe Conte ha assunto la veste di giudice. Di fatto un intervento a gamba tesa col fine di ripristinare e mantenere un equilibrio, un rapporto di forze in via di alterazione.

Il Presidente rischia di cadere nella tentazione ricorrente al quale cede il terzo. Quella di diventare esplicitamente parte in causa del conflitto e di trarne il massimo vantaggio specie nel momento di debolezza di entrambe i contendenti. Per il momento il bersaglio designato è Salvini. Il varco che si è cercato invano di aprire con il caso Diciotti, potrà determinarsi sfruttando la crepa del caso Siri entro la quale ancora una volta potrà agire la magistratura, parti di essa, per delimitare l’agone politico. Il moltiplicarsi delle azioni giudiziarie lasciano intravedere che sarà ancora una volta questa la modalità per tentare di ridisegnare e ripristinare lo scenario politico. Per il resto, ad alimentare i dissidi e il senso di impotenza, ci penserà la risicatezza del bottino disponibile grazie ai vincoli-capestro sottoscritti da tutti in sede comunitaria.

A Giuseppe Conte, però, manca una referenza fondamentale per esercitare compiutamente questa ultima funzione di terzo: la disponibilità delle leve di potere e di una forza propria, giacché la forza è un atout imprescindibile in politica. Lo ha dimostrato nel prosieguo delle due occasioni nelle quali ha potuto emergere: in Libia con il chiaro ridimensionamento della funzione mediatrice del Governo Italiano, in Europa con l’intangibilità dei parametri che regolano le politiche economiche degli stati europei.

L’ambiguità e la opacità di questo suo ruolo deriva dalla discrepanza netta tra la rappresentazione del conflitto e delle divisioni sullo scenario pubblico e le divisioni e i contrasti effettivi che agiscono nell’ombra e dietro le quinte. Lo scenario ci offre la contrapposizione tra Salvini e Dimaio, la Lega e i Cinque stelle.

Il Governo in realtà è composto da tre attori, una delle quali, la componente “tecnica”, rappresenta il vero giudice. Una componente composta in parte da figure autonome, in parte da figure cooptate nel seno dei due partiti, specie dai 5Stelle, per mancanza di una propria classe dirigente. È pervaso, altresì, da due anime, queste sì in fondamentale conflitto tra di esse. Una apertamente europeista, pedissequamente atlantista, ben disposta verso l’umanitarismo e il politicamente corretto; ben salda nel controllo delle leve di potere, ma incapace di offrire una prospettiva accettabile per quanto ingannevole. L’altra con aspirazioni di indipendenza politica, incapace però di tradurle in strategie e tattiche politiche adeguate con il risultato di ricadere continuamente nel trasformismo più becero. Due anime che attraversano entrambe i partiti al governo anche se sotto mentite spoglie di diversa foggia. Quella restauratrice in uno si manifesta con il progressismo dei diritti, nell’altro con quello della persistenza di una classe dirigente più preparata e navigata, addestrata da venti anni di esperienza amministrativa, ma legata ad una visione localistica e regionalista sostanzialmente compatibile con le attuali opzioni europeiste e con la attuale insignificanza nell’agone geopolitico. Una mistura particolarmente deleteria e mistificante per il paese. Il resto, comprese le migrazioni incontrollate di adepti nei partiti, di fatto nel partito, è un corollario per quanto rischioso

In questo contesto e con queste dinamiche la funzione di Giuseppe Conte rischia di apparire inesorabilmente più che di Terzo per “conto terzi”. Una funzione che potrà portare al drastico ridimensionamento, se non al dissolvimento di uno, dell’ultimo arrivato quindi tra i partiti e al pieno rientro nei ranghi dell’altro. Gli osanna mediatici a Mario Draghi e la posizione di attesa del PD lasciano intendere questi propositi. Tra il dire e il fare, fortunatamente, c’è di mezzo un vecchio ceto politico troppo screditato ed incapace e un contesto geopolitico, compreso il presunto asse franco-tedesco, sempre più mutevole e meno stabile nella stessa Europa. Per ora può essere ancora una opportunità; tra non molto potrà rivelarsi, se procrastinata, una vera e propria iattura e catastrofe per l’intera Europa e soprattutto per l’Italia; senza nemmeno il palliativo del declino languido conosciuto dall’Italia postrinascimentale.

 

NÉ POLITICA NÉ GIUSTIZIA, di Teodoro Klitsche de la Grange

NÉ POLITICA NÉ GIUSTIZIA

A distanza di poche settimane l’una dall’altra tre notizie hanno riproposto il problema del rapporto tra poteri (politico e giudiziario): l’assoluzione (in Cassazione) dell’ex Sindaco di Roma Marino, le dimissioni della Presidente della Regione Umbra, Marini e le non dimissioni del sottosegretario Siri, ambedue quest’ultime a seguito delle indagini delle competenti procure. Dalla combinazione e comparazione di tali vicende emerge quale potrebb’essere un ragionevole bilanciamento delle rispettive esigenze della politica e della giustizia, punto dolente dello stato di diritto.

Politica e giustizia hanno principi d’azione (e scopi) differenti. La prima si fonda sul detto salus rei publicae suprema lex; ne consegue che esigenze e vincoli “giuridici” cedono se è in gioco l’interesse dello Stato e l’autonomia della politica, organizzata di guisa da rispondere – almeno nelle democrazie – alla volontà popolare, onde i rappresentanti sono eletti dal popolo direttamente (Parlamento, Presidenti di Regione, Sindaci) o indirettamente nominati dagli eletti (governo, Presidente della Repubblica). La seconda in base al principio fiat justitia, pereat mundus, ed è organizzata (prevalentemente) con il reclutamento di personale burocratico con metodi burocratici (in sostanza una cooptazione).

Dato che sono pochi i casi in cui l’ordinamento esclude del tutto la responsabilità (giudiziaria) comune di soggetti pubblici (come i capi dello Stato), per gli altri rappresentanti occorre elaborare – per equilibrare i principi – delle norme derogatorie in vario modo alla giurisdizione ordinaria: Tribunali e accusatori “speciali”, autorizzazioni a procedere, divieto di determinati atti d’indagine e così via. La giustizia politica è tutta una fioritura di deroghe a quella penale comune, e non potrebbe essere diversamente  – a parte l’opportunità o meno di questa o quella norma. Il perché è agevole da intendere. E proprio il caso Marino ne fornisce l’esempio. Il Sindaco di Roma era stato eletto dai cittadini della capitale; non era un Cavour o un Bismarck, ma comunque aveva ottenuto la (sufficiente) maggioranza dei consensi. Data la non eccessiva popolarità di cui godeva, qualche “svarione” amministrativo, e forse un rapporto difficile con l’allora Presidente del Consiglio, il PD, per toglierlo di mezzo, faceva dimettere la maggioranza dei consiglieri comunali. Da ciò conseguiva la nomina del Commissario e la convocazione di nuove elezioni, vinte dalla Raggi. Dato che non era possibile manifestare, almeno in parte, le ragioni reali (tutte politiche) della decisione, la stampa iniziò a sbandierare l’apertura di un processo per avere, il Sindaco, pagato, con la carta di credito comunale, pranzi (ed altro) di carattere del tutto privato. Che la circostanza non toccasse granché i romani (preoccupati e) afflitti da decenni di cattiva amministrazione  (dalla “monnezza” ai trasporti, alla fiscalità locale) era cosa che non sembrava (né sembra) interessare  granché i giustizialisti in servizio permanente effettivo. A distanza di qualche anno la Cassazione ha assolto Marino. Risultato: un Sindaco eletto è stato dimissionato dalla strumentalizzazione politico-mediatica di un preteso reato e del relativo processo. Col risultato (voluto) che l’unico effetto del processo e della strumentalizzazione del quale non è stato quello (di giustizia) di punire un reo, ma solo quello (politico) di eliminare un avversario. Effetto che la vicenda Marino condivide con tanti altri casi di “giustizia politica” degli ultimi trent’anni (e non solo).

Si dice che c’è la presunzione d’innocenza e chi non è condannato con sentenza definitiva dovrebbe continuare a svolgere la sua funzione: ma a parte il fatto che non sempre è così (v. legge c.d. Severino), è ancora peggio che per una bandiera di onestà e di illibatezza si pretendano le dimissioni (preventive) di soggetti come la Marini o Siri che sono solo indagati. Vero è che la moglie di Cesare dev’essere al di sopra di ogni sospetto, ma ad esercitare pubbliche funzioni per volontà del popolo era Cesare e non la di lui signora. Il quale ripudiò la moglie  ma conservò la carica (e, notoriamente, fece carriera).

E ad essere troppo sensibili all’onestà, si finisce con l’essere più giustizialisti della pubblica accusa, con il risultato, sovente, di strumentalizzare (il funzionamento) della giustizia a scopo politico. Né vera giustizia né sana politica. Cioè proprio quello che, a parole, si vorrebbe evitare.

Teodoro Klitsche de la Grange

Magistrati e politica. Con i piedi nel piatto, due chiacchiere con Augusto Sinagra

Il 28 febbraio si terrà il XXII congresso di Magistratura Democratica. Un buon osservatorio su cosa si muove negli ambienti giudiziari, su quale tipo di investitura intendono attribuirsi e su come intendono influire sulle vicende politiche del paese. Qui il link della relazione del segretario. Un testo particolarmente illuminante  http://www.magistraturademocratica.it/congresso/2019/relazione-guglielmi

Augusto Sinagra, già magistrato ed accademico, ora avvocato, con il suo consueto acume ci offre il suo punto di vista su un ruolo così controverso e determinante delle vicende del nostro paese. I magistrati e la magistratura in qualche maniera partecipano sempre del gioco politico tra centri decisionali. Le modalità con le quali però intervengono da almeno trenta anni contribuiscono a destabilizzare sin dalle fondamenta il paese sino ad ostacolare la formazione di una nuova classe dirigente. Intanto l’orologio giudiziario prosegue intermittente. Un nuovo avviso ha raggiunto il Ministro Salvini. Questa volta per vilipendio. Buon ascolto Giuseppe Germinario

GIUDICI E GOVERNO, di Teodoro Klitsche de la Grange

GIUDICI E GOVERNO

A valutare la vicenda della Diciotti secondo i parametri (prevalenti nei commenti sui media) dell’ “uno vale uno” e della legalità (egualitaria) si perde solo tempo in discussioni senza senso e senza base. Meglio ragionare in termini a un tempo più realistici e più ordinamentali, e tener conto del pensiero politico-giuridico qualitativamente prevalente.

La questione è se Salvini (ma ormai mezzo governo) debba essere giudicato per aver tenuto la Diciotti e i suoi migranti “a bagno maria” non permettendone lo sbarco. A seconda dell’angolo visuale da cui si guarda la vicenda il tutto può costituire un reato (approccio giuridico-causidico-forenzese) ovvero una misura per la tutela di un interesse azionale (visione politico-ordinamentale). E può essere – e tante volte nella storia lo è stato – entrambi: un reato cioè, ma, al tempo. una misura politicamente opportuna. Scriveva Vittorio Emanuele Orlando (il quale da giurista e statista se ne intendeva)  che se avesse dovuto essere processato per tutti i passaporti falsi che aveva rilasciato da Ministro, avrebbe trascorso in galera tutta la vita. Solo che quei passaporti falsi “s’avevano da dare” per raccogliere le informazioni opportune per vincere la guerra. Ossia a rispettare la legge avrebbe compromesso l’interesse nazionale. E dato che salus rei publicae surtema lex, la via “retta” era (ed è) evidente.

Ciò non toglie che debba esserci un rimedio per conciliare le opposte conseguenze che derivavano dalla prospettiva (visuale) diversa.

Dato che lo Stato democratico-liberale è uno status mixtus che si regge sia sui principi di forma politica che su quelli dello stato borghese, il sistema per conciliare i punti di frizione è stato particolarmente sviluppato. E la giustizia penale sui politici è quella che ha raccolto più interesse anche “mediatico” da qualche secolo. Anzi già da prima Machiavelli scriveva che la giustizia “politica” è opportuna in una repubblica: ma di stare attenti alla composizione dell’organo giudicante “perché i pochi sempre fanno a modo de’ pochi”. Dalla riflessione dei teorici dello Stato borghese (Constant per primo) si desume che la giustizia “politica” non può che essere derogatoria: non cioè uguale a quella ordinaria. Ne deriva che secondo Carl Schmitt “il carattere politico della questione o l’interesse politico all’oggetto della controversia può venire così fortemente in risalto che anche in uno Stato borghese di diritto deve essere presa in considerazione la caratteristica politica di questi casi…per specie particolari di vere controversie giuridiche è previsto a causa  del loro carattere politico un procedimento speciale o una speciale istanza (in cui)… deriva sempre il caratteristico allontanamento dalla forma giurisdizionale tipica dello Stato di diritto, la considerazione del carattere politico attraverso particolarità organizzatorie o d’altro genere con le quali si attenuta il principio tipico dello Stato di diritto della giurisdizione generale”.

Se però tali deroghe e particolarità non sono poste in essere le conseguenze sono:

1) che l’organo competente a decidere diventa un’istanza politica o addirittura l’organo reale di direzione politica (così da ufficio giudiziario diventa autorità politica). Lo Stato non è più uno Stato democratico-rappresentativo, ma uno Justizstaat, ossia uno Stato giurisdizionale. E l’organo deputato alla giustizia politica è quello politicamente più influente come, un tempo il Consiglio dei dieci a Venezia.

2) che se i magistrati costituiscono una burocrazia reclutata per concorso – come avviene, per lo più, nelle democrazie moderne – il carattere democratico-rappresentativo dello Stato va perso. Avendo il potere di carcerare chi governa – nei fatti rimuovendolo – a decider chi deve governare sarebbero i Tribunali e non i governati che li hanno eletti.

Per ovviare a questo evidente inconveniente un giurista francese, Duguit, riteneva che l’organo di governo (nella specie il Capo dello Stato) potesse continuare a svolgere le proprie funzioni pur in stato di detenzione.

A questa soluzione Orlando replicava ironicamente: come avrebbe fatto il Presidente detenuto a ricevere un ambasciatore o anche un altro capo di Stato invece che all’Eliseo, “in una cella della prigione della Santé”?

E il giurista siciliano continuava qualificando impostazioni come quelle “aberrazioni, contro cui resiste la forza delle cose” cioè la realtà dell’istituzione politica, nella quale, con riguardo al problema, occorre conciliare il principio di responsabilità  con la necessità dell’inviolabilità (assoluta o relativa) di determinati organi dello Stato. Cosa che si realizza nella democrazia, rimettendo il giudizio sul governante ai governati, cioè al corpo elettorale, che come ha il potere di eleggerlo, così quello di rimuoverlo (direttamente o indirettamente).

Teodoro Klitsche de la Grange