Gli Stati Uniti e lo spettro della Russia, di Luigi Longo

 

 

 

Chi governa l’Europa orientale comanda la zona centrale [ la Russia, il cuore della terra, ndr]; chi governa la zona centrale comanda la massa euroasiatica; chi governa la massa euroasiatica comanda il mondo intero.

Halford Mackinder*

 

Chi controlla il Rimland ( ossia il territorio costiero dell’Eurasia) governa l’Eurasia; chi governa l’Eurasia controlla i destini del mondo.

Nicholas John Spykman**

 

 

L’inizio del declino e il bivio storico

 

 

Il declino di una potenza mondiale egemone inizia a presentarsi quando esplodono le contraddizioni interne (conflitti tra agenti strategici delle diverse sfere sociali, fratture sociali e territoriali, degrado totale, eccetera); tale declino è altresì in relazione alle dinamiche di crescita di altre potenze sia regionali sia mondiali che mettono in discussione quella egemonia dominante(1).

Gli strateghi USA, potenza mondiale egemone, sono consapevoli di questo processo, così Zbigniew Brzezinski: << Come la sua epoca di dominio globale finisce, gli Stati Uniti hanno bisogno di prendere l’iniziativa di riallineare l’architettura del potere globale […] La prima di queste verità è che gli Stati Uniti sono ancora l’entità politicamente, economicamente e militarmente più potente del mondo, ma, dati i complessi cambiamenti geopolitici negli equilibri regionali, non sono più la potenza imperiale globale […] quell’epoca sta ormai per finire […] >> (2). Il declino USA è relativo perché è ancora decisiva la sua egemonia in tutte le istituzioni mondiali. La sua capacità di dominio, attraverso il soft power e l’hard power, è ancora grande in rapporto alle potenze mondiali emergenti, come la Russia e la Cina, in questa fase di multicentrismo (3).

Gli statunitensi si trovano ad un bivio storico dove lo spazio-tempo della decisione si fa sempre più stretto e dovranno scegliere quale strada intraprendere. Questa diramazione prospetta paesaggi mondiali diversi: 1. Una potenza mondiale che rivendica la sua egemonia (G7, FMI, BM, NATO, ONU, WTO) e il suo dominio con la supremazia militare indiscussa (4), ma nel ri-lanciare il suo dominio mondiale monocentrico non si preoccupa delle contraddizioni strutturali interne né, ricerca un nuovo modello di sviluppo o una nuova visione di società; 2. Una potenza mondiale che ri-vede il suo modello sociale, fa i conti con le sue contraddizioni strutturali che rischiano di accelerare il declino e ri-lancia la sua egemonia confrontandosi con le altre potenze.

La prima strada accelera la fase multicentrica e prepara la fase policentrica: il conflitto mondiale; la seconda strada ritarda la fase policentrica e rimane in una fase multicentrica che potrebbe portare ad una condivisione e ad un rilancio di nuove relazionali mondiali nel rispetto delle diversità ( storiche, culturali, sociali, politiche, territoriali, eccetera): parafrasando Karl von Clausewitz si può dire che la guerra cessa di essere la continuazione della politica con altri mezzi.

E’ mia opinione che prevarrà la prima strada, per le seguenti ragioni.

La prima. Gli USA credono di essere la nazione indispensabile e hanno la cultura monocentrica del dominio mondiale. Vale per tutti il seguente pensiero di Henry Kissinger. << La sfida in Iraq non era solo vincere la guerra quanto [mostrare] al resto del mondo che la nostra prima guerra preventiva è stata imposta dalla necessità e che noi perseguiamo l’interesse del mondo [ corsivo mio], non esclusivamente il nostro […] La responsabilità speciale dell’America [ USA, mia specificazione], in quanto nazione più potente del mondo, è di lavorare per arrivare a un sistema internazionale che si basi su qualcosa di più della potenza militare, ovvero che si sforzi di tradurre la potenza in cooperazione […] Un diverso atteggiamento ci porterà gradualmente all’isolamento e finirà per indebolirci. >> (5).

La seconda. La piramide sociale statunitense non reggerà più, la base sta scricchiolando e si arriverà alla implosione della nazione e con essa alla fine dell’idea della grande nazione imperiale. Si stanno indebolendo la struttura e il legame sociale della società, che sono il fondamento della potenza imperiale. Gli agenti strategici dominanti sono incapaci di una nuova visione, di un nuovo modello di sviluppo sociale, di nuovi rapporti sociali che potrebbero emergere dalla cosiddetta società capitalistica. Gli strateghi delle sfere egemoniche ( politica, militare, istituzionale, economica-finanziaria,), portatori della visione classica della logica di funzionamento imperiale, agiscono con la convinzione che il dominio, con la coercizione ( la forza militare imperiale) e il denaro ( il dollaro imperiale), sia l’unica strategia per continuare a mantenersi, come grande nazione imperiale, sulle spalle del resto del mondo (le economie dei diversi capitalismi).

Alcuni strateghi, soprattutto delle sfere militare e politica, con i loro gruppi di pensiero (think tank) e i loro centri e istituti di ricerca strategica, si sono resi conto della strada di non ritorno del declino USA, una strada, per dirla con David Calleo, di egemonia sfruttatrice (6), e hanno cercato di deviare, invano (si vedano le elezioni che hanno portato Trump alla Casa Bianca), verso una visione del Paese incentrata sull’economia reale, sul legame sociale da rafforzare, sulla ri-definizione dei rapporti sociali sistemici, sull’apertura di una fase multicentrica; ma realizzare tutto questo significava derogare alle regole della potenza mondiale, cioè ri-collocare gli USA quale potenza mondiale di confronto e condivisione con altre potenze mondiali emergenti: non più come la grande nazione imperiale.

La terza. La lezione della storia, a prescindere dal modo di produzione e riproduzione del legame sociale della società storicamente data, è questa: schiacciando esseri umani sessuati e natura, oltre il limite strutturale sociale e naturale, si rischiano grossi guasti. La forbice tra ricchezza illimitata e povertà assoluta non può divaricarsi all’infinito. Non è un discorso pauperistico del limite superato, ma un ragionamento di modello di sviluppo, di una idea nuova del legame sociale e del rapporto sociale ( sia dentro sia fuori il Capitale, ovviamente inteso come relazione sociale) e di rottura dell’equilibrio dinamico del blocco egemone degli agenti strategici dell’insieme delle sfere sociali del Paese (7).

 

 

Le citazioni scelte come epigrafi sono tratte da:

*Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera, Longanesi, Milano, 1998, pag.55.

**Davide Ragnolini, Geopolitica ed euroasiatismo nel XXI secolo. Intervista a Claudio Mutti, www.eurasia-rivista.com, 7/3/2017.

 

 

NOTE

 

 

  1. Su questi temi rinvio a Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo. Denaro, potere e le origini del nostro tempo, il Saggiatore, Milano, 1996; Giovanni Arrighi, Beverly J. Silver, Caos e governo del mondo, Bruno Mandadori, Milano, 2003; Gianfranco La Grassa, Gli strateghi del capitale, Manifestolibri, Roma, 2005; Gianfranco La Grassa, Finanza e poteri, Manifestolibri, Roma, 2008.
  2. Zbigniew Brzezinski, Toward a global realignmente in “ The American Interest” ( www.the-american-interst.com) , n.6/2016. Stralci dell’intervista sono compresi anche nell’articolo di Mike Whitney, La scacchiera spezzata. Brzezinski rinuncia all’impero americano, www.megachip-globalist.it, 28/8/2016.
  3. Joseph S. jr Nye, Fine del secolo americano?, il Mulino, Bologna, 2016; con una lettura critica si veda anche Etienne Balibar, Populismo e contro-populismo nello specchio americano, www.ariannaeditrice.com, 27/4/2017.
  4. Per un’analisi storica, geopolitica, militare, finanziaria si rimanda alla rivista “Limes”, n.2/2017, “Chi comanda il mondo”, in particolare gli articoli di Dario Fabbri (La sensibilità imperiale degli Stati Uniti è il destino del mondo), di Alberto De Sanctis (Gli Stati Uniti tengono in pugno il tridente di Nettuno), Giorgio Arfaras (Il dollaro resta imperiale). Per un’analisi del consolidamento delle potenze mondiali emergenti e delle transizioni egemoniche si veda Giovanni Arrighi, Capitalismo e (dis)ordine mondiale, a cura di, Giorgio Cesarale e Mario Pianta, Manifestolibri, Roma, 2010. Per un’analisi sulla supremazia militare si rimanda ai lavori puntuali di Manlio Dinucci pubblicati sul sito www.voltaire.org e sul quotidiano “il Manifesto” e ai Rapporti SIPRI ( e non solo) ( www.sipri.org) . E’ interessante sottolineare quanto detto da Noam Chomsky in una recente intervista concessa a “il Manifesto” del 20/4/2017:<< L’Atomic Bulletin of Scienctists nel marzo scorso ha pubblicato uno studio sul programma di ammodernamento dell’arsenale nucleare messo in atto con l’amministrazione Obama ed in mano ora di Trump, dal quale risulta che il sistema dell’arsenale atomico statunitense ha raggiunto un livello di strategia atomica avanzata e radicale, tale da poter annientare la deterrenza dell’arsenale atomico russo. Questo non è all’oscuro di Mosca. Ma con l’intensificarsi della tensione diretta, specialmente nei paesi Baltici ai confini della Russia, determina il rischio di un confronto nucleare diretto con la Russia >>.
  5. La citazione del pensiero di Henry Kissinger è tratta da Robert Kagan, Il diritto di fare la guerra, il potere americano e la crisi di legittimità, Mondadori, Milano, 2004, pp. 59-60.

6.Così David Calleo:<< [il] sistema internazionale crolla non solo perché nuove potenze non controbilanciate e aggressive cercano di dominare i loro vicini, ma anche perché le potenze in declino, invece di adattarsi e cercare una conciliazione, tentano di cementare la loro vacillante predominanza trasformandola in una egemonia sfruttatrice >>. La citazione è tratta da Giovanni Arrighi, Beverly J. Silver, op. cit., pp.335-336.

  1. Utilizzo il termine dominio per delineare una egemonia sociale ( nell’accezione gramsciana, cioè consenso e coercizione) da parte degli agenti strategici dominanti o sub-dominanti costituitosi in blocco sociale come supremazia sugli agenti strategici delle diverse sfere sociali. La filiera del potere è diversa nelle singole sfere sociali e il dominio dell’insieme sociale di una nazione è diverso, è altro dal potere delle sfere sociali. Le sfere sociali sono astrazioni che ci costruiamo per interpretare la realtà che sta sempre avanti. Le sfere sociali possono essere diverse a seconda delle ipotesi di ragionamento per costruire il campo di stabilità. Per esempio Gianfranco La Grassa ne utilizza tre ( politica, economica e culturale), David Harvey ne utilizza sette, eccetera. Nelle sfere sociali è ipotizzabile parlare di potere non di dominio. Cfr il mio, La nazione e lo stato: una grande illusione dei popoli. La rottura teorica del conflitto strategico. Tempo e spazio della ricerca, www.conflittiestrategie.it, 5/7/2016 e www.italiaeilmondo.com, 26/12/2016.

 

PODCAST N°3 – A DUE PASSI DALLE ELEZIONI IN SUD-COREA, di Gianfranco Campa

La trama del confronto con la Corea del Nord si svolge secondo un canovaccio sempre più complesso. Il confronto coinvolge certamente alcuni stati (USA, Corea del Nord, Cina e Russia) come attori principali, altri come comprimari. Le dinamiche, in realtà, si svolgono tra centri di potere all’interno degli stati in cooperazione e conflitto tra di essi all’interno e all’esterno. Il focus si sta concentrando su entrambe le Coree. Al Sud  gli Stati Uniti vorrebbero scongiurare l’eventualità di un successo delle forze politiche favorevoli ad un riavvicinamento tra le due Coree nelle prossime elezioni del 9 maggio. Al Nord la possibile destabilizzazione del regime mette in allarme la Cina, timorosa di perdere il controllo politico di quel paese. Una situazione quindi precaria che rischia di trasformare i destabilizzatori in destabilizzati e viceversa. A questo punto, un intervento diretto di una superpotenza, rischia di legittimare la reazione dell’altra. Come dice giustamente Campa, le parole vanno interpretate alla luce dei comportamenti. I comportamenti più discreti, dietro le quinte, si intuiscono sulla base degli eventi e delle loro concatenazioni. In una fase di conflitto multipolare è un’impresa sempre più difficoltosa_Giuseppe Germinario

SOVRANO È CHI DECIDE SULLO STATO DI ECCEZIONE – di Massimo Morigi (scritto il 2 dicembre 2013)

SOVRANO È CHI DECIDE SULLO STATO DI ECCEZIONE – di Massimo Morigi
“Sovrano è chi decide sullo stato di eccezione.” (Carl Schmitt, Teologia politica, in Le categorie del ‘politico’, a cura di G. Miglio, e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972, p. 33). Tutta la costruzione giuridica dell’UE invece di concentrarsi su questo elementare dato di fondo rilevato dal giuspubblicista di Plettenberg, ha preferito muoversi lungo la linea Kelsen di rimozione del problema della sovranità. Si è così ottenuto che il popolo, che è il titolare della sovranità democratica, ha di fatto perso sempre più potere (gli sono state sottratte quote sempre più crescenti di ‘Dominio Repubblicano Diffusivo’ per esprimerci nei termini del Repubblicanesimo Geopolitico), essendo che questo potere era basato su una base giuridica sempre più svuotata (la sovranità, appunto) mentre il potere stesso ha subito una sorta di translatio loci dal popolo alla burocrazia e alla finanza (nazionali e/o transnazionali che siano), la cui azione non è giustificata da una forma defunta di sovranità (quella democratica) ma in base a puri criteri di efficacia. E così, nonostante la sua rimozione dalla dottrina giuspubblicista prevalente, la sovranità si è ricostituita avendo nuovi titolari: la burocrazia e la finanza. Come si è visto nella ultima crisi finanziaria dove a decidere in Europa sullo stato di eccezione (cioè sui provvedimenti da prendere per farvi fronte) non è stata la politica ma questi luoghi in cui era migrata la sovranità. Rispondendo quindi a Stefanini in merito a quale sia l’interesse italiano oggi, si può dire che l’interesse italiano – anche se con maggiore urgenza che nelle altre nazioni europee dove la politica non ha raggiunto l’indecenza del nostro paese – è “ritraslare” il potere e la sovranità verso il popolo. Fra pochi mesi avranno luogo le elezioni per il parlamento europeo. Pur con il dovuto disgusto verso la retorica e la disinformazione “democratica” (di fatto totalmente autoritaria) che da sempre accompagna la costruzione di questa Europa e i suoi appuntamenti elettorali, non sarebbe il caso di pensare di approfittare di questa occasione per uscire dal campo della pura analisi per cominciare ad avventurarci nella prassi? E in Italia non potrebbero essere
protagonisti di questo tentativo coloro che non da ieri ma ancor quando si pensava che questo sistema fosse in grado di dispensare libertà e benessere hanno sempre sostenuto che il potere del nostro paese è meno che altrove in mano al popolo ma di coloro che pretendono di agire in loro nome e loro conto sequestrandone di fatto la sovranità?

2 DICEMBRE 2013

PODCAST nr 2 _ ESCALATION IN COREA, di Gianfranco Campa

Il secondo podcast di Italia e il mondo. Il gioco in Corea. (cliccare sul cursore dell’immagine in basso)

Una partita giocata ormai al rialzo. Se va bene, scopriremo chi tra i due contendenti sta bluffando; uno dei due contendenti, comunque, è destinato ad una rovinosa caduta di immagine e credibilità. Se va male si rischia un conflitto dalle conseguenze imprevedibili nella loro gravità. I motivi contingenti che stanno portando a questo alto livello di tensione sono numerosi, non ultimo la delega in bianco lasciata da Trump ai militari all’interno dello staff presidenziale, senza poter rinunciare alla propria responsabilità politica. Il Presidente, ormai, è destinato a rimanere in ostaggio e il suo destino è in mano ai suoi avversari di appena otto mesi fa. La posta strategica è ancora più decisiva. Si tratta di determinare il livello di autonomia decisionale che, nel bene e nel male, possono avere paesi e potenze regionali, tra questi oltre alla Corea del Nord, Egitto, Turchia ed Iran, i quali aspirano a mantenere un ruolo attivo meno subordinato alle strategie delle grandi potenze, in primis degli Stati Uniti; una autonomia, purtroppo, che dipende sempre più, ormai, anche dalla capacità di deterrenza nucleare. Anche le tensioni regionali spingono di per sé verso questo tipo di riarmo. Ma una grande responsabilità ricade su chi ha chiuso entrambi gli occhi sul riarmo nucleare di paesi alleati, come Israele, osteggiando gli altri; soprattutto ricade sulle potenze che hanno fomentato la destabilizzazione e distruzione di paesi e stati (Iraq, Jugoslavia, Libia, Siria tra questi) sprovvisti di armamento strategico, favorendo e legittimando così i propositi di riarmo di altri. Si vedrà se questa politica in particolare statunitense riuscirà a trovare sponde ed uditori sensibili nelle fila delle altre due potenze di rango, Cina e Russia. Con l’attuale gruppo dirigente russo pare improbabile, perché la Russia ha bisogno di questi paesi per compensare lo scarto di potenza che la separa dagli Stati Uniti e perché con Putin, dal famoso discorso di Monaco nel 2007, ha inaugurato una linea diplomatica di maggior rispetto delle entità statuali. Il gruppo dirigente cinese sembra apparentemente più permeabile alle pressioni americane per tante ragioni, impossibili da enumerare in questo commento. Intanto, però, i cinesi hanno schierato due corpi d’armata (500.000 uomini) alla frontiera nordcoreana e i russi stanno rafforzando a loro volta il loro presidio. Vedremo se questi schieramenti sono rivolti solo contro la coalizione statunitense oppure nascondono qualche gioco più complesso rivolto anche verso i nordcoreani_ Giuseppe Germinario

Il progetto messianico degli USA e la deriva del nostro Paese, a cura di Luigi Longo_ 3a parte

Passo al terzo punto dopo aver ripresentato il prologo

A Giuseppe Germinario, responsabile del blog “ItaliaeilMondo”.

 

Chiedo la pubblicazione dei seguenti tre interventi che riguardano:

1.Gli scenari che si aprono con la fine della brevissima apertura multipolare di Trump segnata dall’aggressione alla Siria. Un multipolarismo tattico, appunto, non strategico, perché gli USA amano dominare il mondo in maniera unilaterale per adempiere il loro Progetto Messianico ( << di avere una missione speciale da compiere e di essere pertanto l’unica nazione indispensabile del mondo >>). Questo significa prendere l’iniziativa di riallineare l’architettura del potere globale, nonostante l’epoca del grande giocatore (allo stesso tempo più ricco e militarmente più potente) stia ormai per finire.

E’ uno scritto di Paul Craig Roberts, Trump si è arreso, il prossimo sarà Putin?, www.libreidee.org, 9 aprile 2017.

 

2.Il ruolo importante che assume il territorio italiano nelle strategie USA nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. L’Italia è stato lo spazio di coordinamento USA per l’aggressione alla Siria: Napoli ( Comandi: quartiere generale Napoli-Capodichino e Napoli Lago Patria), Gaeta (base Sesta Flotta), Sigonella ( base aeronavale), Niscemi (Sistema Muos).

E’ uno scritto di Manlio Dinucci, Dall’Italia l’attacco USA alla Siria, www.voltairenet.org, 11 aprile 2017.

 

  1. Il ruolo del G7; dello scritto mi interessa far rilevare le trasformazioni delle città italiane (aree urbane e rurali) in hotspot (centri decisi dalla UE per la detenzione, identificazione ed espulsione manu militari dei richiedenti asilo), in centri disumani di immigrati e in città strategiche per i comandi USA-NATO.

E’ uno scritto di Antonio Mazzeo, Il vertice G7 di Taormina, in www.sbilanciamoci.org, 10 aprile 2017.

 

Grazie                                                                                   Cordialità

 

Luigi Longo

Terzo. Nella fase multipolare le città e i territori si militarizzano sempre di più.

 

Antonio Mazzeo, Il vertice G7 di Taormina.

 

La Sicilia ha assunto un ruolo chiave nelle strategie di guerra mondiali a partire dall’installazione a Niscemi del terminale terrestre del Muos, il nuovo sistema di telecomunicazione satellitare delle forze armate Usa.

Un territorio duramente segnato dal dissesto idrogeologico, le frane dopo ogni temporale, la progressiva erosione delle coste. Si presenta così il comprensorio ionico compreso tra le città di Messina e Catania, per lungo tempo una perla del turismo per le sue straordinarie bellezze paesaggistiche e il patrimonio storico-culturale, da alcuni anni vittima della crisi di un modello economico insostenibile e dell’incapacità o inettitudine delle classi politiche e di governo locali. Gli investimenti per la messa in sicurezza dei territori o per il rilancio di attività socio-culturali ed economiche ecocompatibili sono inesistenti, così per uscire illusoriamente dalla crisi, il governo Renzi prima, quello Gentiloni poi, hanno pensato bene di “rilanciare” internazionalmente l’immagine di Taormina elevandola a sede del prossimo G7, il vertice dei capi di stato delle sette maggiori potenze economiche, politiche e militari occidentali (Usa, Canada, Francia, Germania, Giappone, Gran Bretagna e Italia). Il 26 e 27 maggio 2017 il comune siciliano ospiterà più di mille delegati, tremila persone fra security, intelligence e fornitori, 2.500 giornalisti, 6.400 tra poliziotti, carabinieri e appartenenti alle forze armate. L’ennesimo “grande evento” che come ormai accade puntualmente in Italia non potrà non avere devastanti impatti socio-ambientali, con ricadute pari a zero in termini occupazionali, mentre di contro enormi flussi di denaro pubblico andranno alle aziende private dei soliti noti.

In vista del G7 di Taormina, il governo ha stanziato 45 milioni di euro “per l’attuazione degli interventi relativi all’organizzazione e allo svolgimento del vertice”: di questi, 30 andranno per la gestione diretta dell’evento e “solo” 15 milioni per le opere infrastrutturali nella località ospitante. Ancora una volta le modalità per la scelta delle opere prioritarie e della gestione dei bandi di gara sarà quella “emergenziale”, così da poter bypassare le procedure previste dalle normative di legge in materia di appalti e prevenzione dell’infiltrazione mafiosa. Il prefetto Riccardo Carpino è stato nominato commissario straordinario per l’evento con delega alle infrastrutture e solo da poco più di un mese è stata messa in moto la macchina organizzativa vera e propria con l’affidamento dei primi lotti di gara. A Taormina si è dato il via agli interventi che più preoccupano per i loro effetti ambientali e paesaggistici, due grandi eliporti per i decolli e gli atterraggi delle delegazioni dei capi di stato (lavori affidati all’Aeronautica militare) e l’allestimento “scenico” del teatro Greco. Affidati pure i lavori di “manutenzione ordinaria e straordinaria” di alcune strade interne al territorio comunale (in verità appena 991mila euro nonostante il grave degrado in cui versa la rete viaria locale), mentre a giorni andrà in gara il lotto per “l’abbellimento floreale” e il “miglioramento del decoro e dell’arredo urbano”, come suggerito dalla sottosegreteria Boschi nel corso della sua recente visita in Sicilia. Di ben altro spessore la tranche riservata ai “servizi” del G7 (pasti, alberghi, servizi, trasporti, ecc.), oltre 25 milioni di euro che la Consip – come denunciato in due speciali de L’Espresso e della Gazzetta del Sud – sono già stati divisi “in gran parte tra imprese e imprenditori extra-collaudati da anni di rapporti con la politica”. Come riporta il giornalista Sebastiano Caspanello, tra i vincitori dei lotti di gara “ci sono il catering ufficiale di Eataly, già saggiato nelle cene di raccolte fondi del Pd, e l’agenzia di comunicazione che ha gestito budget milionari all’Expo; ci sono l’azienda monopolistica dei grandi eventi (il G8 di Genova e L’Aquila) e con consolidate amicizie nei salotti della Capitale e il gruppo di società organizzatrici di meeting, con più di un volto noto gravitante nell’orbita del famoso giglio magico”.

Intanto cresce in tutta l’isola la mobilitazione dei soggetti e delle realtà che si oppongono al modello economico dominante e alle politiche di guerra e di devastazione dell’ambiente perpetuate dai governi G7. La parola d’ordine è di ritrovarsi tutti a Taormina il 26 e 27 maggio per manifestare contro i “Sette Grandi” e contro il “pensiero unico” che legittima alcune transnazionali a decidere sulla vita e sulla morte di 8 miliardi di abitanti della terra. “Il vertice G7 formalizza annualmente le misure di austerità neoliberiste da applicare internazionalmente o gli interventi di guerra planetaria sempre più spesso subappaltate all’organizzazione della NATO”, si legge in un appello condiviso durante le due giornate di mobilitazione internazionale Fora u G7, tenutosi a Palermo a fine febbraio.

Secondo le prime indiscrezioni, il summit di Taormina affronterà alcuni dei conflitti più sanguinosi scatenati nell’area mediterranea e mediorientale (in primis Siria, Libia, Yemen, ma con un occhio anche ai conflitti in corso nel continente africano) e l’immancabile “lotta al terrorismo (islamico)”. Altro tema caldo sarà quello delle relazioni-pressing sulla Russia dove si confronteranno due visioni opposte: da una parte chi chiede d’intensificare l’accerchiamento militare contro Mosca e suoi principali alleati nell’Est Europa e nel Caucaso (Germania e altri paesi chiave Ue); dall’altra chi vorrebbe riagganciare al G7 la potenza guidata da Putin (le lobby politiche energetiche dominanti in Italia e alcuni settori della nuova amministrazione Trump). Il G7 di Taormina sarà importante anche per comprendere chi e come avrà la guida dei comandi NATO, mentre è probabile che i nuovi piani di riamo nucleare globale e di rafforzamento delle componenti di guerra più moderne (droni, unità navali e terrestri del tutto automatizzate, cyber war, ecc.) saranno “socializzati” a tutti i paesi G7 e ai loro più stretti alleati.

In agenda poi il tema delle “emergenze” prodotte dalle migrazioni mondiali, in vista di un rafforzamento delle alleanze politico-militari per contrastare la fuga di milioni di persone dalle guerre e dai crimini socio-ambientali. Scelte scellerate che avranno innanzitutto ricadute dirette sulla vita e le libertà dei cittadini dei paesi membri del G7: dalla ipermilitarizzazione di punti strategici interni (aree metropolitane di interesse finanziario e culturale, porti, aeroporti, punti di confini) ad una sempre maggiore restrizione dei diritti di espressione e utilizzo di social network, media-strumenti informatici (è in atto una vera e propria campagna globale che enfatizza la cosiddetta cyber security, nuova frontiera del capitale finanziario e del complesso militare-industriale).

La decisione di svolgere in Sicilia il G7 non è del resto casuale. L’Isola ha assunto ormai un ruolo chiave nelle strategie di guerra mondiali: l’installazione a Niscemi del terminale terrestre del MUOS, il nuovo sistema di telecomunicazione satellitare delle forze armate USA; la trasformazione della grande base di Sigonella in uno dei maggiori centri per la operazioni dei droni USA, NATO e UE; l’uso costante degli scali aerei di Trapani-Birgi e Pantelleria per i bombardamenti e le attività di spionaggio top secret in Nord Africa; i devastanti processi di militarizzazione che hanno investito Augusta (hub navale Usa e NATO), Lampedusa, ecc., testimoniano la portata altamente distruttiva delle infrastrutture belliche realizzate e ampliate in Sicilia negli ultimi anni. A ciò si aggiunge il ruolo di vera e propria fortezza assunto dalla Sicilia per conto dell’Unione europea e della famigerata agenzia di controllo delle frontiere esterne Frontex nelle politiche di contrasto delle migrazioni, con l’uso dei porti e degli aeroporti da parte dei mezzi militari Ue-NATO impegnati a far la guerra ai migranti nel Mediterraneo o la trasformazione di sempre maggiori aree urbane ed extraurbane in hotspot e centri-lager dove detenere in condizioni disumane chi è scampato ai naufragi e ai bombardamenti (a Trapani-Milo, Lampedusa, Pozzallo e presto anche a Messina e Mineo). “Pseudo modalità di accoglienza che rispondono esclusivamente a logiche di controllo sicuritario e che contribuiscono a dilapidare sempre più ingenti risorse pubbliche, alimentando gli affari di grandi e piccoli operatori economici (che sempre più spesso si intrecciano con i circuiti dell’economia criminale) e la precarietà per i lavoratori”, denunciano i No G7 siciliani.

Il progetto messianico degli USA e la deriva del nostro Paese, a cura di Luigi Longo_ 2a parte

Passo al secondo punto dopo aver ripresentato il prologo

A Giuseppe Germinario, responsabile del blog “ItaliaeilMondo”.

 

Chiedo la pubblicazione dei seguenti tre interventi che riguardano:

1.Gli scenari che si aprono con la fine della brevissima apertura multipolare di Trump segnata dall’aggressione alla Siria. Un multipolarismo tattico, appunto, non strategico, perché gli USA amano dominare il mondo in maniera unilaterale per adempiere il loro Progetto Messianico ( << di avere una missione speciale da compiere e di essere pertanto l’unica nazione indispensabile del mondo >>). Questo significa prendere l’iniziativa di riallineare l’architettura del potere globale, nonostante l’epoca del grande giocatore (allo stesso tempo più ricco e militarmente più potente) stia ormai per finire.

E’ uno scritto di Paul Craig Roberts, Trump si è arreso, il prossimo sarà Putin?, www.libreidee.org, 9 aprile 2017.

 

2.Il ruolo importante che assume il territorio italiano nelle strategie USA nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. L’Italia è stato lo spazio di coordinamento USA per l’aggressione alla Siria: Napoli ( Comandi: quartiere generale Napoli-Capodichino e Napoli Lago Patria), Gaeta (base Sesta Flotta), Sigonella ( base aeronavale), Niscemi (Sistema Muos).

E’ uno scritto di Manlio Dinucci, Dall’Italia l’attacco USA alla Siria, www.voltairenet.org, 11 aprile 2017.

 

  1. Il ruolo del G7; dello scritto mi interessa far rilevare le trasformazioni delle città italiane (aree urbane e rurali) in hotspot (centri decisi dalla UE per la detenzione, identificazione ed espulsione manu militari dei richiedenti asilo), in centri disumani di immigrati e in città strategiche per i comandi USA-NATO.

E’ uno scritto di Antonio Mazzeo, Il vertice G7 di Taormina, in www.sbilanciamoci.org, 10 aprile 2017.

 

Grazie                                                                                   Cordialità

 

                                                                                               Luigi Longo

 

Secondo. Quando parliamo di sovranità del Paese di cosa parliamo?

 

Manlio Dinucci, Dall’Italia l’attacco USA alla Siria.

 

Dopo l’attacco missilistico Usa alla Siria, il ministro degli esteri Alfano ha dichiarato che l’Italia è preoccupata della «sicurezza e stabilità della regione mediterranea». In che modo vi contribuisce lo dimostrano i fatti.

Le due navi da guerra statunitensi, la USS Porter e la USS Ross, che hanno attaccato la base siriana di Shayrat, fanno parte della Sesta Flotta la cui base principale è a Gaeta in Lazio. La Sesta Flotta dipende dal Comando delle forze navali Usa in Europa, il cui quartier generale è a Napoli-Capodichino. Il Comando, che ha diretto da Napoli l’attacco deciso dal presidente Trump, è agli ordini dell’ammiraglia Michelle Howard, la quale comanda allo stesso tempo la Forza congiunta della Nato con quartier generale a Lago Patria (Napoli). L’operazione bellica è stata appoggiata dalle basi Usa in Sicilia: quella aeronavale di Sigonella e la stazione di Niscemi del sistema Muos di trasmissioni navali, affiancate dalla base di Augusta dove le navi della Sesta Flotta e quelle Nato vengono rifornite di carburante e munizioni, compresi missili da crociera Tomahawk, gli stessi usati contro la Siria.

La USS Porter e la USS Ross sono dotate di lanciatori verticali Aegis con missili intercettori, installati anche nella base terrestre di Deveselu in Romania e in un’altra che si sta costruendo in Polonia. Fanno parte del cosiddetto «scudo antimissili» schierato dagli Usa in Europa in funzione anti-Russia. Ma i lanciatori Aegis —documenta la stessa Lockheed Martin che li costruisce— possono lanciare «missili per tutte le missioni, tra cui missili da crociera Tomahawk». Questi possono essere armati anche di testate nucleari. Le quattro navi lanciamissili Aegis, dislocate nella base spagnola di Rota sull’Atlantico, vengono inviate a rotazione dal Comando di Napoli nel Baltico e Mar Nero a ridosso della Russia. La USS Porter aveva partecipato a una esercitazione nel Mar Nero, prima dell’attacco alla Siria. Il ministro Alfano l’ha definito «azione militare proporzionata nei tempi e nei modi, quale deterrenza verso ulteriori impieghi di armi chimiche da parte di Assad».

Ha quindi convocato oggi a Lucca, collateralmente al G7 esteri, «una riunione speciale per rilanciare il processo politico sulla Siria, allargata ai ministri degli esteri di Arabia Saudita, Emirati Arabi, Qatar, Turchia e Giordania», ossia quei paesi che, nel quadro di una rete internazionale organizzata dalla Cia, hanno fornito miliardi di dollari, armi, basi di addestramento e vie di transito ai gruppi terroristi, compreso l’Isis, che da anni attaccano la Siria dall’interno.

Proprio mentre stava fallendo tale operazione, cui l’Italia partecipa tramite gli «Amici della Siria», e si stava per aprire un negoziato per mettere fine alla guerra, il governo siriano è stato accusato di aver fatto strage di civili, compresi molti bambini, con un deliberato attacco chimico.

Un’ampia documentazione —riportata dal Prof. Michel Chossudovsky nel sito GlobalResearch [1]— dimostra invece che è stato il Pentagono, a partire dal 2012, a fornire tramite contractor armi chimiche e relativo addestramento a gruppi terroristi in Siria. Questi le hanno usate, come ha provato nel 2013 la Commissione d’inchiesta Onu guidata da Carla Del Ponte.

Prove ignorate dall’Italia che, per «rilanciare il processo politico sulla Siria», convoca coloro che sono più impegnati a demolire lo Stato siriano attaccandolo dall’interno. Mentre l’ammiraglia Howard, dopo aver diretto dal quartier generale di Napoli —ponte di comando della portaerei Italia— l’attacco missilistico alla Siria, lo definisce «esempio della nostra forza e capacità di proiettare potenza in tutto il globo».

Il progetto messianico degli USA e la deriva del nostro Paese, a cura di Luigi Longo_ 1a parte

A Giuseppe Germinario, responsabile del blog “ItaliaeilMondo”.

 

Chiedo la pubblicazione dei seguenti tre interventi che riguardano:

1.Gli scenari che si aprono con la fine della brevissima apertura multipolare di Trump segnata dall’aggressione alla Siria. Un multipolarismo tattico, appunto, non strategico, perché gli USA amano dominare il mondo in maniera unilaterale per adempiere il loro Progetto Messianico ( << di avere una missione speciale da compiere e di essere pertanto l’unica nazione indispensabile del mondo >>). Questo significa prendere l’iniziativa di riallineare l’architettura del potere globale, nonostante l’epoca del grande giocatore (allo stesso tempo più ricco e militarmente più potente) stia ormai per finire.

E’ uno scritto di Paul Craig Roberts, Trump si è arreso, il prossimo sarà Putin?, www.libreidee.org, 9 aprile 2017.

 

2.Il ruolo importante che assume il territorio italiano nelle strategie USA nel Mediterraneo e nel Medio Oriente. L’Italia è stato lo spazio di coordinamento USA per l’aggressione alla Siria: Napoli ( Comandi: quartiere generale Napoli-Capodichino e Napoli Lago Patria), Gaeta (base Sesta Flotta), Sigonella ( base aeronavale), Niscemi (Sistema Muos).

E’ uno scritto di Manlio Dinucci, Dall’Italia l’attacco USA alla Siria, www.voltairenet.org, 11 aprile 2017.

 

  1. Il ruolo del G7; dello scritto mi interessa far rilevare le trasformazioni delle città italiane (aree urbane e rurali) in hotspot (centri decisi dalla UE per la detenzione, identificazione ed espulsione manu militari dei richiedenti asilo), in centri disumani di immigrati e in città strategiche per i comandi USA-NATO.

E’ uno scritto di Antonio Mazzeo, Il vertice G7 di Taormina, in www.sbilanciamoci.org, 10 aprile 2017.

 

Grazie                                                                                   Cordialità

 

Luigi Longo

 

 

 

Primo. Il Progetto Messianico degli USA e la sua incapacità di ri-lanciare la sua egemonia con una nuova visione di società per un Progetto Relazionale.

Craig Roberts: Trump si è arreso, il prossimo sarà Putin?.

 

«Trump si è arreso. Il prossimo sarà Putin?». Se lo domanda Paul Craig Roberts, uno dei più autorevoli osservatori indipendenti della scena internazionale, all’indomani del raid missilistico sulla Siria ordinato dal capo della Casa Bianca senza prima acquisire prove sulle responsabilità di Assad nell’attacco a Idlib con il gas Sarin. «L’establishment di Washington ha ripreso il controllo», scrive sul suo blog l’ex viceministro di Ronald Reagan. «Prima Flynn e ora Bannon», via le “colombe” che avevano trainato la campagna elettorale di Trump, lasciando intravedere il disgelo col resto del mondo. «Tutto ciò che hanno lasciato nell’amministrazione Trump – afferma Roberts – sono i sionisti e i generali impazziti che vogliono la guerra con la Russia, la Cina, l’Iran, la Siria e la Corea del Nord. E non c’è nessuno, alla Casa Bianca, capace di fermarli». Questo è il «bacio d’addio alla normalizzazione delle relazioni con la Russia: il conflitto siriano è impostato per essere riaperto». Incidente gravissimo, strategico: data «l’assenza di qualsiasi prova» sulle responsabilità di Assad, «è del tutto evidente che l’attacco chimico è un evento orchestrato da Washington».

Il segretario di Stato americano Rex Tillerson ha messo in guardia la Russia: è scattata l’operazione per rimuovere Assad, e purtroppo Trump è d’accordo, continua Craig Roberts. Conseguenza: «La rimozione di Assad permette a Washington di imporre un altro burattino americano su popoli musulmani». Obiettivo sostanziale:«Rimuovere un altro governo arabo con una politica indipendente da Washington, per eliminare un altro governo che si oppone al furto di Israele della Palestina». Per Tillerson, storico patron della Exxon, far cadere il governo siriano significa anche «tagliare il gas russo destinato all’Europa con un gasdotto controllato degli Stati Uniti, che dal Qatar raggiunga l’Europa attraverso la Siria». Brutte notizie per Mosca, che – combattendo seriamente contro l’Isis – sperava davvero, con Trump, di raggiungere una partnership con Washington attraverso uno sforzo comune contro il terrorismo. Speranze che Craig Roberts oggi definisce «del tutto irrealistiche». Un’idea addirittura «ridicola», visto che «il terrorismo è l’arma di Washington». Un’accusa frontale, dunque: sono gli Usa i mandanti diretti dell’Isis, accusa l’ex stratega di Reagan.

Una volta messa fuori gioco la Russia, continua Craig Roberts, «il terrorismo verrà poi diretto contro l’Iran su larga scala». E quando l’Iran dovesse a sua volta cadere, sempre il terrorismo “amico” della Cia, quello che oggi è targato Isis, «inizierà a lavorare sulla Federazione Russa e con la provincia cinese che confina con il Kazakhstan». Possibile? Senz’altro: «Washington ha già dato alla Russia un assaggio del terrorismo sostenuto dagli Usa in Cecenia. E il più è deve ancora arrivare». Craig Roberts rimprovera ai russi una sorta di fatale ingenuità: speravano, davvero in Donald Trump. Per questo, sostiene, hanno evitato di stravincere, dopo aver conquistato il cruciale ovest della Siria, paese che oggi è invece, ancora, a rischio di spartizione, dopo la brutale defenestrazione di Assad. I russi, «ipnotizzati dal sogno di cooperare con Washington, hanno messo la Siria (e se stessi) in una posizione difficile». Avevano «sorpreso il mondo», accettando di difendere la Siria dall’Isis, e allora «Washington era impotente». In pochi mesi, l’intervento russo ha sbaragliato l’Isis. «Poi, all’improvviso, Putin si è fermato: ha annunciato il ritiro, affermando, come Bush sulla portaerei: missione compiuta».

Ma la missione non era compiuta, sottolinea Craig Roberts: la Russia è stata costretta a tornare in campo, «nella vana convinzione che Washington si sarebbe messa finalmente a collaborare con la Russia per eliminare l’ultima roccaforte Isis». Al contrario, invece, «gli Stati Uniti hanno inviato forze militari per bloccare i progressi russi sulla scena siriana». Il ministro degli esteri Lavrov ha protestato, ma – ancora una volta – la Russia «non ha usato il suo potere superiore sulla scena per battere le forze americane e portare a termine il conflitto». Ora Washington dà “avvertimenti” a Mosca, a suon di missili: riuscirà il Cremlino a capire che può scordarsi ogni cooperazione e, semmai, prenotarsi per un ruolo di vassallo? Si avvicina una trappola pericolosa, continua Craig Roberts: «La Russia non permetterà a Washington di rimuovere Assad», ma a Mosca esiste una “quinta colonna” «che è alleata con l’Occidente». Per Putin e l’indipendenza della Russia come potenza sovrana, si tratta del pericolo più insidioso, tale da metter fine al ruolo di Mosca come attore euroasiatico capace di imporre stabilità geopolitica, a cavallo dei due continenti.

Collaboratori infedeli: spesso si è accennato, in quei termini, al gruppo che fa capo all’ex presidente Dmitrij Medvedev. Questa “quinta colonna”, sostiene Craig Roberts, «insisterà dicendo che la Russia potrà finalmente ottenere la collaborazione di Washington solo se “sacrificherà” Assad». Sarebbe un suicidio: l’acquiescenza di Putin «distruggerebbe l’immagine del potere russo», e sarebbe utilizzata «per privare la Russia di valuta estera dalle vendite di gas naturale verso l’Europa». Putin ha detto che la Russia non può fidarsi di Washington? «Si tratta di una deduzione corretta dai fatti», conclude Craig Roberts. E quindi, perché mai la Russia dovrebbe cedere, in cambio del miraggio della mitica cooperazione con Washington, cioè con il potere che sostiene sottobanco i terroristi dell’Isis? «La cooperazione ha un solo significato: significa arrendersi a Washington». Per il grande analista americano, Putin ha “ripulito” la Russia solo in parte: «Il paese rimane pieno di agenti americani, ed è straordinario vedere quanto poco, i media russi, capiscono il pericolo nel quale la Russia si trova». E dunque: «Sarà Putin il prossimo a cadere vittima dell’establishment di Washington, come è appena accaduto a Trump?».

«Trump si è arreso. Il prossimo sarà Putin?». Se lo domanda Paul Craig Roberts, uno dei più autorevoli osservatori indipendenti della scena internazionale, all’indomani del raid missilistico sulla Siria ordinato dal capo della Casa Bianca senza prima acquisire prove sulle responsabilità di Assad nell’attacco a Idlib con il gas Sarin. «L’establishment di Washington ha ripreso il controllo», scrive sul suo blog l’ex viceministro di Ronald Reagan. «Prima Flynn e ora Bannon», via le “colombe” che avevano trainato la campagna elettorale di Trump, lasciando intravedere il disgelo col resto del mondo. «Tutto ciò che hanno lasciato nell’amministrazione Trump – afferma Roberts – sono i sionisti e i generali impazziti che vogliono la guerra con la Russia, la Cina, l’Iran, la Siria e la Corea del Nord. E non c’è nessuno, alla Casa Bianca, capace di fermarli». Questo è il «bacio d’addio alla normalizzazione delle relazioni con la Russia: il conflitto siriano è impostato per essere riaperto». Incidente gravissimo, strategico: data «l’assenza di qualsiasi prova» sulle responsabilità di Assad, «è del tutto evidente che l’attacco chimico è un evento orchestrato da Washington».

Il segretario di Stato americano Rex Tillerson ha messo in guardia la Russia: è scattata l’operazione per rimuovere Assad, e purtroppo Trump è d’accordo, continua Craig Roberts. Conseguenza: «La rimozione di Assad permette a Washington di imporre un altro burattino americano su popoli musulmani». Obiettivo sostanziale:«Rimuovere un altro governo arabo con una politica indipendente da Washington, per eliminare un altro governo che si oppone al furto di Israele della Palestina». Per Tillerson, storico patron della Exxon, far cadere il governo siriano significa anche «tagliare il gas russo destinato all’Europa con un gasdotto controllato degli Stati Uniti, che dal Qatar raggiunga l’Europa attraverso la Siria». Brutte notizie per Mosca, che – combattendo seriamente contro l’Isis – sperava davvero, con Trump, di raggiungere una partnership con Washington attraverso uno sforzo comune contro il terrorismo. Speranze che Craig Roberts oggi definisce «del tutto irrealistiche». Un’idea addirittura «ridicola», visto che «il terrorismo è l’arma di Washington». Un’accusa frontale, dunque: sono gli Usa i mandanti diretti dell’Isis, accusa l’ex stratega di Reagan.

Una volta messa fuori gioco la Russia, continua Craig Roberts, «il terrorismo verrà poi diretto contro l’Iran su larga scala». E quando l’Iran dovesse a sua volta cadere, sempre il terrorismo “amico” della Cia, quello che oggi è targato Isis, «inizierà a lavorare sulla Federazione Russa e con la provincia cinese che confina con il Kazakhstan». Possibile? Senz’altro: «Washington ha già dato alla Russia un assaggio del terrorismo sostenuto dagli Usa in Cecenia. E il più è deve ancora arrivare». Craig Roberts rimprovera ai russi una sorta di fatale ingenuità: speravano, davvero in Donald Trump. Per questo, sostiene, hanno evitato di stravincere, dopo aver conquistato il cruciale ovest della Siria, paese che oggi è invece, ancora, a rischio di spartizione, dopo la brutale defenestrazione di Assad. I russi, «ipnotizzati dal sogno di cooperare con Washington, hanno messo la Siria (e se stessi) in una posizione difficile». Avevano «sorpreso il mondo», accettando di difendere la Siria dall’Isis, e allora «Washington era impotente». In pochi mesi, l’intervento russo ha sbaragliato l’Isis. «Poi, all’improvviso, Putin si è fermato: ha annunciato il ritiro, affermando, come Bush sulla portaerei: missione compiuta».

Ma la missione non era compiuta, sottolinea Craig Roberts: la Russia è stata costretta a tornare in campo, «nella vana convinzione che Washington si sarebbe messa finalmente a collaborare con la Russia per eliminare l’ultima roccaforte Isis». Al contrario, invece, «gli Stati Uniti hanno inviato forze militari per bloccare i progressi russi sulla scena siriana». Il ministro degli esteri Lavrov ha protestato, ma – ancora una volta – la Russia «non ha usato il suo potere superiore sulla scena per battere le forze americane e portare a termine il conflitto». Ora Washington dà “avvertimenti” a Mosca, a suon di missili: riuscirà il Cremlino a capire che può scordarsi ogni cooperazione e, semmai, prenotarsi per un ruolo di vassallo? Si avvicina una trappola pericolosa, continua Craig Roberts: «La Russia non permetterà a Washington di rimuovere Assad», ma a Mosca esiste una “quinta colonna” «che è alleata con l’Occidente». Per Putin e l’indipendenza della Russia come potenza sovrana, si tratta del pericolo più insidioso, tale da metter fine al ruolo di Mosca come attore euroasiatico capace di imporre stabilità geopolitica, a cavallo dei due continenti.

Collaboratori infedeli: spesso si è accennato, in quei termini, al gruppo che fa capo all’ex presidente Dmitrij Medvedev. Questa “quinta colonna”, sostiene Craig Roberts, «insisterà dicendo che la Russia potrà finalmente ottenere la collaborazione di Washington solo se “sacrificherà” Assad». Sarebbe un suicidio: l’acquiescenza di Putin «distruggerebbe l’immagine del potere russo», e sarebbe utilizzata «per privare la Russia di valuta estera dalle vendite di gas naturale verso l’Europa». Putin ha detto che la Russia non può fidarsi di Washington? «Si tratta di una deduzione corretta dai fatti», conclude Craig Roberts. E quindi, perché mai la Russia dovrebbe cedere, in cambio del miraggio della mitica cooperazione con Washington, cioè con il potere che sostiene sottobanco i terroristi dell’Isis? «La cooperazione ha un solo significato: significa arrendersi a Washington». Per il grande analista americano, Putin ha “ripulito” la Russia solo in parte: «Il paese rimane pieno di agenti americani, ed è straordinario vedere quanto poco, i media russi, capiscono il pericolo nel quale la Russia si trova». E dunque: «Sarà Putin il prossimo a cadere vittima dell’establishment di Washington, come è appena accaduto a Trump?».

EUROPA UNITA = EUROPA SOTTOMESSA, di Gianfranco La Grassa

EUROPA UNITA = EUROPA SOTTOMESSA

Tratto dal sito http://www.conflittiestrategie.it/europa-unita-europa-sottomessa

Il saggio rappresenta un breve consuntivo dell’elaborazione di analisi politica dell’autore. In particolare la ricostruzione seguita al secondo dopoguerra e la costruzione comunitaria in Europa sono il frutto anche di una elaborazione collettiva portata avanti dal sito negli ultimi sei anni cui www.italiaeilmondo.com intende riferirsi

 Qui

Il nord industriale Usa schiaccia il sud “cotoniero” nella guerra civile (o di secessione) e il paese si avvia così a divenire quella grande potenza che sarà nel XX secolo. Inizia subito l’allargamento della sua sfera d’influenza e innanzitutto batte l’ormai nettamente decaduta potenza spagnola a fine secolo XIX sottraendole Cuba e soprattutto le Filippine (1898), dove tuttavia insorsero forze indipendentiste, sconfitte a loro volta nella guerra condotta tra il 1899 e il 1902, con code fino al 1906 e poi ancora, molto debolmente, fino al 1913. Con quell’azione gli Usa si lanciano alla conquista della primazia in Asia e si scontreranno perciò a lungo con il Giappone, paese pure lui in forte crescita, che divenne una delle grandi potenze in conflitto nella prima metà del ‘900 (assieme a Inghilterra, Usa e Germania), soprattutto dopo aver vinto contro la Russia nel 1904-5 (sconfitta russa all’origine della prima grande rivoluzione antizarista del 1905, immortalata da Eisenstein ne “La corazzata Potemkin”).
Nella prima guerra mondiale, il Giappone entra al fianco della “Triplice Intesa” (Gran Bretagna, Francia, Russia) già nel 1914. Un impegno assai limitato, più che altro per togliere ai tedeschi quei pochi insediamenti da essi avuti in Asia (tipo Isole Marianne e Caroline). In ogni caso, quando gli Usa entrano in guerra nel 1917, il Giappone è ufficialmente loro alleato. In realtà, vi sarà sempre contrasto tra le due potenze per l’area del Pacifico. Ben noto è l’attacco “proditorio” giapponese del 7 dicembre 1941 a Pearl Harbor, che spinse gli Stati Uniti all’entrata nella seconda guerra mondiale. Attacco provvidenziale poiché il Congresso americano si opponeva costantemente, e pressoché all’unanimità, all’intervento in guerra, fortemente voluto invece da Roosevelt; il presidente “buono”, quello del New Deal, atto per null’affatto risolutore della crisi del ’29-’33 (come raccontano storici ed economisti), dato che dopo un paio d’anni d’attenuazione della stessa, nel 1936 (proprio quando esce la keynesiana “Teoria generale”) si è di nuovo in stagnazione; solo la seconda guerra mondiale risolverà il problema. Anche qui, le solite superficialità sull’importanza della domanda enormemente accresciuta per fini bellici, mentre l’uscita dalla stagnazione (accompagnata da intensi progressi in tema d’energia e tecnologici) dipende dalla netta supremazia statunitense conquistata in tutta l’area del capitalismo più avanzato, con coordinamento generale di tali sistemi capitalistici da parte del “centro” statunitense.
Comunque, l’attacco a Pearl Harbor viene condotto dopo una lunga serie di tensioni nippoamericane e non certo tutte dovute ai giapponesi. Inoltre, è meno noto che pochi giorni prima dell’“imprevista” aggressione, tutte le portaerei americane (e credo anche alcune corazzate) avevano abbandonato il porto poi bombardato. Difficile ormai sapere la verità. Certamente è sorprendente (comunque, qualunque sia la verità) che i giapponesi non sapessero dell’allontanarsi delle principali navi da battaglia americane e, se lo sapevano, abbiano attaccato egualmente. In ogni caso, non si sfugge all’impressione che il gruppo dirigente Usa fosse ben conscio (e lieto) dell’aggressione, l’abbia favorita in tutti i modi, per superare l’ostilità del Congresso all’entrata in guerra. E così, sacrificando i 2400 soldati uccisi a Pearl Harbor – e certamente con un numero ben più alto di altri morti, non però per bombardamenti sulla popolazione civile americana, specialità lasciata al teatro europeo e asiatico – si concluse il confronto pluridecennale per la supremazia nell’area del Pacifico.
Ancora più complicato decifrare l’andamento degli eventi nell’area europea. Fu solo un errore (e madornale) l’aggressione tedesca all’Urss nel giugno del 1941? Gli “storici dei vincitori” (quasi tutti) raccontano di una decisiva “Battaglia d’Inghilterra” (nel 1940, di carattere aereo), in cui la RAF vinse sulla Lutwaffe e così bloccò l’invasione tedesca dell’Inghilterra. Credo si tratti di un’altra grossa balla. Dopo la rapida vittoria in Francia (dove si creò inoltre la Repubblica di Vichy, che non fu proprio contrastata dall’intera popolazione francese come poi hanno raccontato i soliti storici), la Germania si sentiva sicura della vittoria. E’ facile che invece di sbarazzarsi subito dell’Inghilterra, indubbiamente boccone più difficile da “ingoiare”, abbia iniziato (ma credo soprattutto per iniziativa dell’Inghilterra) segreti contatti onde arrivare ad una qualche intesa; e in questo sappiamo che aveva qualche carta da giocare il Duca di Hamilton. E penso che lo stesso Churchill, magari senza esporsi troppo, sia stato al gioco.
Infine, nel maggio del ’41 Rudolf Hess vola in Scozia e tenta di raggiungere il Castello del Duca di Hamilton. Certo, viene arrestato e poi sempre detenuto senza che mai sia stato rivelato (nemmeno dal “viaggiatore”) il reale motivo di quella “intemerata”, attribuita a malattia mentale dell’autore o a una sua caduta in disgrazia presso Hitler (e altre menzognere chiacchiere). Nel giugno dello stesso anno parte appunto l’Operazione Barbarossa contro l’Urss, con qualche ritardo (dovuto fra l’altro al colpo di Stato in marzo a Belgrado dove presero il potere dei militari favorevoli alla Gran Bretagna, causando così l’attacco tedesco). Sarebbe iniziata l’aggressione antisovietica senza contatti tra inglesi e tedeschi? E ben precedenti al viaggio di Hess che comunque – pur messo in galera per motivi evidenti, dato che la popolazione inglese non doveva affatto sapere di “strane trattative” in corso – potrebbe aver avuto egualmente abboccamenti di rilievo. Naturalmente, l’ipotesi più semplice da avanzare è che Churchill, direttamente o meno vista la non piacevole situazione dell’Inghilterra, abbia fatto credere a Hitler la possibilità di una trattativa che avrebbe messo fine alla guerra fra loro con soddisfazione tedesca e qualche concessione al suo paese insulare.
Eppure vorrei avanzarne una in po’ differente e forse ardita. Gli Stati Uniti, per null’affatto sconvolti (parlo dei dirigenti, non della popolazione) dalla “grande crisi”, erano ormai consci d’essere il nuovo capitalismo vincente; un capitalismo senza alcun ascendente “nobiliare” con cui fare ancora i conti, in assenza completa di ogni scrupolo morale o di senso dell’onore, strettamente imbricato alla criminalità, ecc. Del resto, vorrei ricordare che nel grande documentario sovietico di Vertov (“La sesta parte del mondo” del 1926!), il paese capitalistico per antonomasia sono appunto gli Stati Uniti. In Urss l’avevano già capito; mentre in Europa no. In particolare, nemmeno Germania e Italia avevano afferrato questo epocale mutamento. E Inghilterra e Francia ancora “giocavano” ai grandi protagonisti, pur dopo la misera figura fatta alla Conferenza di Monaco del settembre 1938.
Roosevelt (cioè il gruppo dirigente americano degli anni ’30) afferra che è possibile iniziare un reale confronto per il predominio pure nell’area europea; e non solo in Asia dove, come già considerato, ci si scontra con il Giappone. Sono dunque probabilmente gli Usa – consci dell’approssimarsi della loro entrata in guerra, resa difficile dal comportamento del Congresso, ma evidentemente già si stava lavorando ad una occasione infine arrivata con Pearl Harbor – a “consigliare” Churchill circa la necessità di prendere tempo, facendo inoltre credere a Hitler che poteva scatenarsi contro l’Urss, ma senza affatto arrivare ad alcun reale accordo. E scrivo consigliare tra virgolette perché ho la sensazione che il governo inglese, se avesse deciso da solo, avrebbe magari potuto intavolare – con gradualità e metodi tali da non crearsi vasta impopolarità presso una popolazione bombardata, ormai accesa nemica dei tedeschi, ecc. – qualche trattativa pregnante. Questo avrebbe impedito agli americani di arrivare da “liberatori” in Europa e avrebbe limitato la loro egemonia all’area asiatica.
No, ormai gli Stati Uniti erano maturi per ben altro: quindi inganno, spinta all’aggressione tedesca all’Urss, ma nessuna sospensione di ostilità di alcun genere; questo pretesero probabilmente gli Usa dall’Inghilterra, promettendo il loro decisivo aiuto assai presto. Ed infatti, a fine anno, giunge la sospirata occasione dell’aggressione giapponese e il convincimento del Congresso alla guerra. E credo che si siano andati accentuando anche gli “incidenti”, ormai in atto da tempo, con navi tedesche in modo da ottenere perfino la dichiarazione di guerra da parte della Germania quattro giorni dopo Pearl Harbor. E pure in tale occasione, comunque, si constata un decisivo errore di valutazione del governo tedesco, evidentemente convinto che il Giappone avesse distrutto una buona parte della potenza statunitense e si fosse portato in posizione di vantaggio. Inoltre, lo ripeto, penso proprio che Hitler, non meno di Mussolini, considerasse ancora troppo importante l’Inghilterra, non avendo capito con che tipo di nuovo capitalismo assai potente avesse a che fare; lo spirito eurocentrico ha giocato un brutto scherzo

*****************

Questo lungo preambolo, e tuttavia succinto nei suoi punti salienti, voleva ricordare con quale paese predominante abbiamo a che fare ormai dalla metà del secolo scorso. Si tratta di qualcosa che, non so quanto appropriatamente (ma non vedo altra scelta), possiamo definire un neocapitalismo assai più efficiente di quello borghese, prevalente nell’Inghilterra ottocentesca (e che Marx prese a modello della forma capitalistica di società), ormai in fase di sostituzione all’epoca della prima guerra mondiale. Non a caso, la teoria marxista, divenuta ideologia della “rivoluzione proletaria”, confuse quella fine con il superamento del capitalismo tout court (“imperialismo, ultima fase del capitalismo”), mentre ne veniva avanti, vittorioso, un altro ben più duraturo. L’ho denominato provvisoriamente “dei funzionari del capitale” solo in parte influenzato dall’analisi di Burnham, comunque vicino alla realtà e che parlò di “rivoluzione manageriale”. Il “funzionario del capitale” non è però semplicemente il manager – pur privo della proprietà dei mezzi di produzione, che per Marx era invece decisiva nel designare il reale dominante, il borghese capitalista – figura direttiva dei vari processi in svolgimento soprattutto nell’impresa, ma certo anche negli altri apparati non soltanto economici della società. I funzionari del capitale non sono semplici direttori, bensì più precisamente strateghi di quel conflitto mirante alla supremazia sia nel contesto dei gruppi sociali attivi in un paese sia nel rapporto con altri paesi in date aree territoriali e, in ultima analisi, nel mondo intero.
Parleremo in altra sede dell’errore commesso da Marx – e ancor più da coloro che trasformarono la sua teoria scientifica in una sclerotizzata ideologia creduta sempre più per fede – nell’ignorare la funzione sociale decisiva (e dominante) svolta dai “non proprietari dei mezzi produttivi” e strateghi d’un conflitto, da cui derivava immediatamente la “non funzione rivoluzionaria” dei non proprietari e fornitori di plusvalore (vedremo meglio altrove questo problema); errore che non è certo causa minore del fallimento definitivo della sedicente “costruzione del socialismo” con crollo dei regimi politici ostinatamente attaccati a quell’ideologia. Per il momento, limitiamoci a sottolineare come il capitalismo americano – sottovalutato pure dai regimi che tentarono di sostituirsi al capitalismo borghese, senza tuttavia mettere definitivamente fine alle sue pratiche e mire ormai storicamente superate; mi riferisco principalmente a fascismo e nazismo che di questo tentativo sono a mio avviso stati artefici – abbia avuto in ultima analisi la via aperta alla supremazia mondiale, impropriamente contrastata dal presunto “campo socialista” e soprattutto dal centro di quest’ultimo, l’Urss. Si è parlato di mondo bipolare, e di “guerra fredda” tra i centri dei due poli. Malgrado la durata di quel bipolarismo (un po’ meno di mezzo secolo, che storicamente è un “fiat”), non vi è stato affatto vero equilibrio; l’Urss non riusciva a contrastare realmente gli Usa (malgrado certe pretese vittorie, come quella così sopravvalutata e incompresa in Vietnam). E anche su questi eventi cruciali manchiamo di una qualsiasi seria analisi con gli storici contemporanei che abbiamo avuto (e abbiamo) e che hanno occupato (e occupano tuttora) i posti salienti nelle Università e in altri luoghi culturali, annientando ogni decente valutazione del XX secolo.
Resta il fatto che gli Stati Uniti hanno indubbiamente mostrato una notevole abilità e flessibilità nel dare vita alla loro mitica “grande democrazia”, che semmai ha qualche rassomiglianza con il modello elitistico-competitivo di Weber-Schumpeter; e tuttavia non può essere ridotta nemmeno a questo. In ogni caso, si formano nell’agone della politica due schieramenti (in certi casi anche di più, ma due è senz’altro meglio per una reale efficacia nell’azione) decisamente contrapposti nei progetti e aspettative che suscitano nella popolazione. La contrapposizione è in genere più violenta a parole che nei fatti; talvolta però si deve anche passare dalle prime ai secondi. Nel contrasto non possono non venire forgiandosi ed enucleandosi due vertici dirigenti (vere élites), in grado di formare attorno a loro una costellazione di organismi addetti agli svariati bisogni e modalità del conflitto; alcuni organismi devono spesso essere molto appariscenti per la conquista dei favori popolari, altri devono agire in segreto, sempre pronti a quelle circostanze in cui è necessario passare, come già ricordato, dalle parole ai fatti (magari con qualche assassinio mascherato da incidente o da azione di un pazzo, ecc.).
I due schieramenti (o talvolta più, ma con efficienza in calando quanto più aumenta il numero) entrano in contrasto acuto, esacerbandolo se e quando necessario per convincere la popolazione che, scegliendo tra i due, si effettua una vera decisione di primaria importanza. Ovviamente, la scelta non è tra gli schieramenti, ma tra i vertici degli stessi; e dunque tra i vari organismi, appariscenti o segreti, che questi hanno già creato in un lungo processo storico di formazione. La popolazione viene chiamata a esprimersi, senza effettiva conoscenza della struttura organizzativa delle parti per cui opta; essa è sicura che i progetti dichiarati saranno poi mantenuti, mentre a volte proprio mutamenti imprevisti degli equilibri, sia interni che verso l’estero, impongono altre decisioni, prese necessariamente (anche per la velocità con cui devono essere prese) dalle élites e dai nuclei strategici da esse messi in piedi proprio per cogliere simili modificazioni delle situazioni.
Le popolazioni sono soddisfatte e anche chi resta in minoranza attende la possibilità successiva di rovesciare le posizioni. Per intanto, la minoranza deve accettare le scelte di quella élites maggiormente votata. Tuttavia, non vige il famoso “centralismo democratico” dei partiti comunisti, che è indubbiamente meno gradito e dunque di fatto errato, salvo che in momenti cruciali quali un grande, rapido e squassante rivolgimento politico-sociale. La minoranza (in realtà l’élite meno votata) può continuare a darsi da fare e a criticare, cercando di dimostrare gli errori avversari e la maggiore congruità delle sue proposte (pur esse in gran parte di facciata, soprattutto perché non dovendo decidere, è più facile dedicarsi all’agitazione parolaia). In ogni caso, una delle più grandi menzogne di tutti i tempi è quella che racconta come le “libere elezioni” esprimano la volontà popolare nella scelta di coloro che dirigeranno gli affari interni e mondiali dai cui esiti dipenderà la vita e la sorte dei popoli.

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Come già detto, dopo la seconda guerra mondiale, i veri vincitori sono gli Usa. Ad essi si contrappone per un certo periodo l’altra vincitrice della guerra, l’Unione Sovietica, che però sarà sempre in tono minore malgrado varie apparenze. Gli altri pretesi vincitori tipo Inghilterra e Francia (sull’Italia stendiamo il classico pietoso velo) sono in realtà perdenti e lo dimostreranno diminuendo via via d’importanza e confondendosi con le altre nazioni nella sedicente “comunità europea”: prima quella occidentale e, dopo il crollo sovietico, tutto l’insieme. Nell’aprile 1949 nasce il patto militare, la Nato, che già sancisce la subordinazione europea agli Stati Uniti, pur se vanno concessi indubbi meriti al governo francese durante il periodo gollista, che tuttavia non è servito ad impedire il definitivo servaggio anche di questo “illustre” paese. Iniziano subito dopo la guerra le mene per l’unità d’Europa che arrivano infine alla creazione della UE (Unione Europea) nel 1993. Si potrebbero spendere molte parole umoristiche su questa unione; mi basterà ricordare che essa nel 2012 (l’anno dopo la “primavera araba”, l’aggressione alla Libia con barbara uccisione di Gheddafi, ecc.) riceve il premio Nobel per la pace, da unire, nel ridicolo, a quello assegnato ad Obama nel 2009. Con la differenza che Obama è il presidente dei “padroni”, la UE è l’unione dei “servi”.
Ho sopra ricordato che negli anni ’30, all’avvicinarsi della guerra, gli Usa di Roosevelt già compresero di poter essere i dominatori della nostra area così come di quella asiatica. E nel dopoguerra, si servirono dei cosiddetti “padri dell’Europa”, uno più vergognoso dell’altro (e non starò a ricordarli per nome, perché sono accomunati nella stessa miseria). Nel 2000 (e di anni ne sono passati da allora) un meritevole ricercatore, evidentemente diverso dagli usuali “storici dei vincitori”, Joshua Paul della Georgetown University, ha portato alla luce molteplici documenti che dimostrano come tutti questi “Padri” emeriti, e i più importanti uomini di governo europei del dopoguerra, siano stati ampiamente finanziati appunto per giungere intanto all’unione di quei paesi europei non conquistati dai sovietici, sotto il predominio statunitense. E più tardi, altri servitorelli, ancora più scadenti e meschini, hanno continuato la loro opera; la creazione della UE è solo il perfezionamento della servitù, cui si sono prestati questi ignobili europeisti ben finanziati per divenire sempre più proni agli Usa. Lasciamoli festeggiare; la loro turpitudine verrà sempre più alla luce con il passare del tempo poiché la nostra decadenza sarà sempre più evidente. E l’ultima farsa (tragica), l’accoglimento di masse di migranti – che escono dai loro paesi grazie alle malefatte americane – sarà la tomba di questi asserviti. Purtroppo, però, solo storicamente parlando; ancora per un bel po’ di tempo, questa inesistente unione europea – poiché la UE è semplice organismo collaterale alla Nato e comunque nettamente influenzata dall’esterno – continuerà ad indirizzarci verso il disfacimento della nostra civiltà e costumi.
E’ vero che adesso si sono verificati alcuni eventi nuovi e persino imprevisti – tipo la brexit, l’elezione di Trump, ecc. – che sembrano indicare una notevole stanchezza e irritazione delle stesse popolazioni, non proprio consapevoli di quanto accade, nei confronti della politica svolta dagli Stati Uniti e dai loro scherani europei in questi ultimi decenni, soprattutto dopo la fine dell’Urss e del “campo socialista”. Tuttavia, è ancora troppo presto per comprendere se e quando il percorso storico fin qui seguito dall’“occidente” muterà direzione. Per il momento, UE e governi europei continuano a svolgere la stessa politica e ad essere legati al vecchio establishment Usa, ancora ben vivo e in continuo attacco alla nuova presidenza. E’ del tutto evidente, intanto, che i dirigenti europei non sono in grado di decidere politiche diverse da quelle eterodirette. Inoltre, appare poco chiara anche la politica trumpiana; da una parte, viene contrastata in modo aperto come non mai negli stessi Usa (e con lo strumento di Cia e Fbi, i fondamentali apparati dei Servizi) perché sarebbe troppo amichevole verso la Russia; dall’altra, Trump aumenta a dismisura la spesa militare, rafforza il settore nucleare, si permette adesso di criticare, in nome della falsa “democrazia”, la politica interna russa, tesa a disarmare i gruppi che vorrebbero rovesciare l’attuale dirigenza. E in questo comportamento ostile sembra dunque in linea con il già citato vecchio establishment.
E allora? Cerchiamo anche qui di andare un po’ oltre le apparenze che ci ammanniscono questi falsificatori dell’informazione in campo “occidentale”. Come al solito, partiamo da lontano ma per veloci cenni. Dopo il crollo dell’Urss, con la fine del bipolarismo, per qualche anno sembrò in atto una tendenza al monocentrismo americano, solo contrastato – ma molto più nella propaganda avversaria, in questo unita alla stupidità degli “orfani del socialismo” – dallo sviluppo cinese. In realtà, soprattutto con l’avvento del nuovo secolo, si chiarì una precisa tendenza al multipolarismo con rinascita più che discreta della Russia (anche se ridotta di dimensioni e potenza bellica rispetto all’Urss) e della suddetta Cina; alcuni troppo ottimisti vi hanno aggiunto l’India (abbastanza legata agli Usa, pur se si vi sono stati alcuni accordi con la Russia), il Brasile (oggi in notevole crisi) e perfino il Sud Africa (qui siamo ben lontani dalla realtà). Semmai, ma nel medio periodo, farei attenzione al Giappone, per il momento comunque in qualche difficoltà e che gioca un ruolo ancora assai subordinato agli Stati Uniti.
Quando infine si compilerà un serio bilancio della storia del bipolarismo, e della conseguente “guerra fredda”, si constaterà che quella situazione mondiale assicurò al campo occidentale un periodo di notevole tranquillità e di ottimo sviluppo; e con la completa centralità statunitense, che indubbiamente riorganizzò quest’area tuttora decisiva negli affari mondiali malgrado le tante chiacchiere fatte in contrario. Se vogliamo fare un paragone storico, dobbiamo rifarci alla centralità dell’Inghilterra tra il Congresso di Vienna (1814-15) e la nascita delle grandi potenze: Usa (dopo la guerra civile nel 1861-65), Germania (dopo la vittoria della Prussia sulla Francia nel 1970-71), mentre il Giappone seguirà a fine secolo e inizio del XX (quando vincerà la Russia nel 1904-5). E anche allora quella centralità fu caratterizzata dal completamento della prima rivoluzione industriale in Inghilterra e dalla sua impetuosa continuazione in Continente, con però il seguito della “grande depressione” (1873-95) quando iniziò ad affermarsi il multipolarismo.
Il bipolarismo – decisamente imperfetto grazie al lento declino dell’Urss dopo la seconda guerra mondiale, declino in crescita negli anni ‘50 e precipitato con Gorbaciov – è stato un periodo di rafforzamento continuo degli Stati Uniti; e che sarebbe stato ancora più veloce se la dirigenza americana non avesse manifestato notevoli divergenze negli intenti strategici (salvo il comune perseguimento del predominio mondiale), come si mise in evidenza sia nei contrasti seguiti a certi accordi (ancor oggi rimasti nascosti) tra Kennedy e Krusciov sia nell’aver contrastato l’intelligente mossa di Kissinger-Nixon con “apertura” alla Cina (non caratterizzata da spirito veramente amichevole come solitamente raccontato). In ogni caso, il bipolarismo è stato un periodo florido per il “campo occidentale” centrato sugli Usa. In seguito al crollo e fine di tale “stato del mondo”, si è creduto da parte statunitense – e questa è ancora l’opinione prevalente, che guida la forte malevolenza di democratici e forti settori repubblicani nei confronti della neopresidenza – di poter passare finalmente al predominio aperto e dichiarato del proprio paese.
Il caos creato non ha prodotto i risultati sperati. Allora, si può leggere l’apparente inversione di tendenza come un tentativo di ripristinare un nuovo bipolarismo, addirittura migliore del precedente poiché adesso tutta l’Europa è sotto il tallone statunitense e la sua parte orientale è perfino più accanita in senso antirusso. Si è inoltre riusciti a creare forti tensioni contro il paese eurasiatico in Ucraina; e anche in Georgia, ecc. Si è tentato pure con le Repubbliche centrasiatiche, ma lì al momento le mosse compiute non sembrano molto riuscite. La parte “trumpiana” (con il solito suggeritore Kissinger) cerca di creare qualche maggiore ostilità nei confronti della Cina; e probabilmente tale politica vuole anche giocare sulla notoria scarsa simpatia tra questa e la Russia, che fu in piena evidenza nel passato maoista. Un periodo di nuovo bipolarismo – con la Russia decisamente meno potente dell’Urss, non però in declino e anzi, almeno a mio avviso, in rafforzamento graduale – consentirebbe, secondo l’opinione dei centri rappresentati da Trump, di meglio studiare una nuova strategia “non caotica” pur sempre tesa al conseguimento dell’agognato predominio mondiale centrato sul proprio paese.

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Se quanto ipotizzato dovesse rivelarsi anche parzialmente esatto, ne risulterà abbastanza complicata la strategia che dovranno approntare le forze oggi in contrasto netto con questa Europa comunque in difficoltà e fortemente degradata. Non ci si deve fidare troppo di un Trump, poiché persegue, come finalità di fondo, la solita supremazia americana agognata da sempre, direi fin dalla guerra civile di un secolo e mezzo fa; e comunque affermata con particolare brutalità a partire dalla seconda guerra mondiale. Nello stesso tempo, però, la politica del nuovo presidente ha la possibilità di scompaginare e mettere in crisi l’establishment della UE, che è al servizio di tale supremazia, ma si è strutturato secondo gli intendimenti dei centri strategici in auge con le ultime presidenze statunitensi seguite al crollo del mondo bipolare (i due Bush, Bill Clinton, Obama) e che la Clinton intendeva ulteriormente rafforzare.
Le cosiddette sinistre europee – inutile ricordare che ormai la distinzione storica destra/sinistra ha poco a che vedere con quanto oggi esistente in un mondo politico in totale disfacimento; e non parliamo dei partiti detti di “centro” (tipo quello “diccì” della Germania oggi guidato dalla Merkel), ben poco distinguibili dalle “sinistre” – si sono dimostrate le più adatte a servire gli interessi statunitensi negli ultimi decenni. Mi sembra comunque ancora carente la conoscenza dei percorsi tramite cui si sono formate queste fantomatiche forze politiche dette di sinistra. Quanto alle destre, vi sono quelle che si distinguono appena, quanto a politica perseguita, rispetto ai loro avversari, da cui differiscono solo in merito a certe questioni di costume e di tradizione: sulla famiglia, sui gay, sul femminismo e via dicendo. Quanto alla politica (interna ed estera), a corruzione massima, a occupazione con metodi subdoli o corruschi delle varie posizioni di privilegio negli organismi politici, economici, nell’informazione e presunta cultura (che più degenerata di così non si è mai riscontrata in nessun’altra epoca), non ci sono grandi differenze tra presunte sinistre e altrettanto presunte destre.
Vi sono però oggi, e sembrano in crescita (ma difficoltosa), alcune forze, per la maggior parte assegnate alla destra, che vanno considerate parzialmente positive per il loro atteggiamento fortemente critico nei confronti della UE. Alcune manifestano anche attenzione ai rapporti amichevoli con la Russia che, lo ripeto, benché decisamente meno potente della defunta Urss è in crescita e non in declino com’era la (multi)nazione sovietica. Occorrerà tuttavia una lucidità d’analisi che ancora ci manca (e manca secondo me a tutti) per non cadere dalla padella nella brace, favorendo il progetto degli attualmente instabili nuovi centri strategici Usa con la loro probabile tendenza a creare un secondo mondo bipolare, nuovamente cristallizzato in senso tutto sommato favorevole agli americani. Anche perché, se poi questa instabilità della neopresidenza Usa dovesse favorire il ritorno dei vecchi “marpioni”, ci troveremmo nuovamente rafforzata questa ignobile organizzazione europea, il nostro autentico nemico, con le “sinistre” da tenere quale obiettivo principale della lotta anti-UE.
Abbiamo per fortuna, come già rilevato, la Russia in crescita di forza e d’influenza e non in declino come l’Urss. Lasciamo stare la crisi economica che l’attanaglia, problema principe per tutti i limitati economisti che non vedono al di là di tale orizzonte. Gli Stati Uniti della “grande crisi” (per nulla vinta e superata con il New Deal come si narra da sempre) si dimostrarono il capitalismo vincente e, con la seconda guerra mondiale, si lanciarono verso la supremazia mondiale. La Russia odierna può farcela a crescere progressivamente; non è cosa sicura e definitiva, ma piuttosto probabile. Quanto alla Cina, ben venga il suo rafforzamento se ciò implicasse una tensione futura con gli Usa nell’area del Pacifico; questo non potrebbe che indebolire tale paese prepotente. A noi interessa però l’area europea ed è qui che non mi sembrano ancora adeguate le forze anti-UE. Bisogna far perdere di popolarità – il che implica la capacità, al momento minima, di avere in mano importanti strumenti di informazione e di creazione di consenso presso le “imbambolate” popolazioni europee – a tutti i manipolatori di tale consenso per conto dell’UE e dei governi dei paesi ad essa aderenti.
La strategia del caos, messa in atto dall’ultima Amministrazione americana (quella di Obama), ha provocato la massiccia migrazione dall’Africa e dal Medioriente verso l’Europa. Probabilmente, si è trattato, ma solo in parte, di un processo sfuggito di mano; oggi non è solo ampiamente sfruttato da autentici banditi (tipo le ONG e l’Associazione che si fa risalire a Soros) per lucro economico (e che po’ po’ di lucro). Indubbiamente le “sinistre” al governo in Europa cercano di utilizzarlo pure per mantenere il loro potere che sembra in crisi. Come detto in altra occasione, non escluderei nemmeno la segreta intenzione di formare in futuro delle bande criminali in grado di intimorire popolazioni sempre più scontente della crisi, che si va accentuando con simile afflusso a volte somigliante ad un’invasione. Tuttavia, la “mistica” dell’accoglimento, cui si sta prestando anche la nuova dirigenza ecclesiastica cattolica, è causa di divisioni fra i vari governi europei e va corrodendo il consenso un tempo goduto da certe “sinistre”.
Vedremo se nasceranno forze in grado di approfittare del momento per certi versi favorevole. Alle “sinistre” si dovrebbero riservare trattamenti “speciali”, per il momento loro risparmiati da organizzazioni politiche di debole opposizione, ancora rimbecillite dalla lunga stagione in cui si è inseguito semplicemente il favore elettorale, essendo incapaci di comprendere che oggi sarebbero indispensabili ben altri metodi di ottenimento del consenso; non della maggioranza delle popolazioni scisse al loro interno dall’attuale crisi e in cui esiste sempre una grossa quota di indecisi e di inconsapevoli, bensì della parte più incattivita delle stesse, quella in grado di giungere a sufficiente grado di consapevolezza del degrado in atto. La migrazione odierna può ben essere un detonatore di una qualche forza e tuttavia non è sufficiente. Inoltre, non ci si deve fissare sul problema dei migranti in se stesso considerato, ma farne solo motivo di accentuata ostilità contro i “buonisti” di ogni ordine e orientamento.
Per rientrare nell’alveo di una nuova “normalità” finalmente favorevole allo sviluppo (e all’autonomia) dei nostri paesi – ma andando per gradi, conquistando posizioni di potere in alcuni di essi e da lì facendo leva per aggredire le attuali organizzazioni “servili” dell’intera UE – è necessario attraversare un’epoca di violento e distruttivo attacco a queste ultime e a chi le supporta. Non si chiedano voti per traccheggiare con meschino opportunismo; si disgreghino invece le forze politiche (e quelle di manipolazione ideologica) degli avversari (anzi nemici) con il supporto deciso e privo di mediazioni di coloro che non le sopportano più. E’ indispensabile che si entri, come in altre epoche, nello stato d’animo del “o noi o loro”. E deve cadere ogni pietismo più o meno falso, devono rinascere caratteri forgiati all’uso di metodi e strumenti “non gentili” e non adusi a compromessi. Gli attuali establishment dei governi europei, asserviti alla politica americana degli ultimi 70 anni, sono pronti ad impiegare simili metodi, magari con la loro solita ipocrisia e facendo strame della nostra antica civiltà e costumi. La risposta deve essere meno ipocrita e più netta poiché deve ripulire appunto tutta la me…lma accumulata in così tanti anni e decenni. Non si appoggi comunque alcuna lotta “clandestina”, sempre utilizzata dal nemico come gli anni ’70 e ’80 hanno dimostrato. Occorre una furia aperta, un autentico ciclone che tutto spazzi via. Come al solito bisogna concludere: staremo a vedere. Molti sono i dubbi in proposito.

LE RIPERCUSSIONI GEOPOLITICHE DEL BREXIT NEL MEDITERRANEO di Antonio de Martini

LE RIPERCUSSIONI GEOPOLITICHE DEL BREXIT NEL MEDITERRANEO di Antonio de Martini

tratto da https://corrieredellacollera.com/2017/03/30/le-ripercussioni-geopolitiche-del-brexit-nel-mediterraneo-di-antonio-de-martini/#more-33036

Seguendo la logica miserabile che ha contraddistinto questo scorcio di secolo, la maggior parte degli analisti europei si è concentrata sugli aspetti mercantili del divorzio tra Gran Bretagna e l’Europa Continentale e nessuno ha affrontato i nodi geopolitici, specie mediterranei.

Non è la prima volta che l’Inghilterra sceglie la sua strada in contrapposizione al resto dell’Europa. Lo fece al tempo del Magnifico isolamento, Lo ha ripetuto al tempo di Napoleone e di Hitler.

Poiché non siamo in guerra, l’esempio più calzante da esaminare sarebbe quello del Magnifico isolamento,( non a caso i loro giornali titolano “Magnificent moment”) ma senza trascurare il vezzo tutto inglese di fomentare movimenti di secessione e guerriglia o della incentivazione della pirateria, anche con titoli nobiliari che ne hanno sempre caratterizzato le azioni di ampio respiro.

Il Carlyle scrive nel suo “Past and Present” che ” tra tutti i popoli del mondo, presentemente, gli inglesi sono i più sciocchi per la parola e i più saggi per l’azione”.

Cito autori inglesi perché essere tacciati di anglofobia oggi  è come essere accusati di antisemitismo.

In effetti, la Geopolitica inglese ha sempre lavorato sul lungo periodo e utilizzando come agenti principali geografi e antropologi.

Ian Fleming e le bravate di James Bond non hanno mai saputo farle, mentre il fratello di Ian Fleming, Victor, antropologo di valore ha sempre lavorato per l’MI6 in America Latina. Serviva ” uno di famiglia” per rincominciare a rinverdire il blasone, fin dagli anni sessanta.

Le Brigate rosse attinsero a arsenali ex inglesi, non americani. Lo scandalo P2 travolse la massoneria filo americana, ma non sfiorò nemmeno quella di obbedienza inglese.

A via Caetani, il cadavere di Moro fu ritrovato di fronte al numero civico che ospitava   una sede dell’Intelligence Service (la moglie era inglese, di questo parla il senatore Pellegrino nel suo libro su Moro, ma non lo ha detto nessuno.                                                                                                                    Hanno dirottato l’attenzione su Henry Kissinger, ma l’umiliazione di essere battuta al vertice UE di Venezia sul delicato tema palestinese la subì Margaret Tatcher, non l’americano.

Questo, per dire che quel che sto per proporre di analizzare, viene da lontano.

UN PO DI STORIA: STOCCOLMA CONTRO ROMA

Quando, nel 1956, i sei paesi europei continentali decisero di creare la Comunità Economica Europea ( CEE), l’Inghilterra non si limitò a non aderire, ma poco dopo diede vita nel 1960 a una comunità economica concorrente ( EFTA) cui aderirono originariamente Austria, Danimarca, Norvegia,Portogallo, Svezia, Svizzera e, naturalmente il Regno Unito.Furono seguiti, nel 1986, da Islanda e Finlandia. L’atto fu firmato a Stoccolma.

Nel 1961, La G.B. chiese per la prima volta di entrare nel Mercato comune assieme a Irlanda e Danimarca. Dopo un paio di anni di negoziato, nel 1963, De Gaulle espresse i suoi dubbi circa l’effettiva volontà di adesione inglese e i negoziati naufragarono.

La seconda richiesta inglese data dal 1967, anno in cui la Francia negò il suo consenso e i negoziati fallirono. ATTENZIONE: l’anno successivo si verificarono i moti del ’68 miranti a far cadere De Gaulle.

Nel 1969, L’Inghilterra reiterò la richiesta per la terza volta e, Pompidou, succeduto a De Gaulle, accettò, i negoziati durarono tre anni. Il 1 gennaio 1973 l’Inghilterra entra nel MEC e la scelta è confermata nel 1975 da un referendum.

Dopo l’adesione della Gran Bretagna alla Unione Europea, l’EFTA non si sciolse, ma alcuni paesi aderirono e altri mantennero in vita l’organizzazione che ha vivacchiato con sede in Svizzera, accettando l’adesione del granducato del Liechtenstein.

Come paventato da De Gaulle, l’Inghilterra divenne il cavallo di Troia degli USA in Europa( in questo sta la lamentela di perdita di sovranità).                 Poi, preceduta dal “Guardian” che aprì la sua redazione americana ben più grande della casa madre, l’UK iniziò a guardare sempre più agli USA.

Nei tre anni che hanno preceduto il referendum sul Brexit, è scattata l’offensiva del sorriso inglese verso il Mediterraneo  a base di film sulla famiglia reale, la guerra coi turchi ( in cui i turchi fanno sempre bella figura), la regina ormai veneranda che viene a visitare il suo vecchio amico Napolitano snobbando il Papa dove registra un inedito ritardo di mezz’ora; l’ambasciata inglese ospita in contemporanea Grillo e Renzi ecc. Insomma si pone al centro della scena.

Nel 2001 partecipa all’invasione Afgana.

Nel 2003 è lo ” sparring partner” degli USA nell’attacco all’Irak e condivide il bottino.

Nel 2011 partecipa alla campagna libica ” soffiandoci” le risorse petrolifere e ottenendo dal governo fantoccio la prospezione del mar di Cirenaica; Fa nascere il caso Regeni per impedire rapporti conclusivi tra Italia e Egitto, fino a che l’ENI non accetta di spartire la concessione che ha trovato  nelle acque profonde di fronte al delta del Nilo; assume una posizione defilata nella crisi Greca e rinnova le basi di Cipro ( una aerea e di intercettazioni, l’altra navale).

ADESSO CON LA BREXIT L’INGHILTERRA RITORNA NEL MEDITERRANEO

  1. il primo problema a porsi sarà Gibilterra: quale sarà la posizione della Unione Europea verso questo contenzioso? Si schiererà con il partner spagnolo o sosterrà Albione?
  2. La “Secessione Catalana”: sarà certamente una carta in mano agli inglesi che hanno creato e finanziato questa iniziativa condotta da gentucola, ma che rappresenta una poderosa arma di ricatto anche a fronte della possibilità che lo Spagnolo – parlato nel mondo da 440 milioni di persone- possa scalzare l’inglese, parlato da 445.                     Nel settembre 2017 la regione catalana vorrebbe fare un referendum…
  3. Il terrorismo Il TIMES di oggi ha reso chiaramente il pensiero della signora May che ha condizionato la lotta al terrorismo alla stipula di un accordo commerciale preferenziale.
  4. Israele: A Ginevra è di ieri un distinguo dell’ambasciatore inglese contro l’ONU con la dichiarazione che ” le nazioni Unite hanno un partito preso abituale ” sulla questione palestinese.
  5. Egitto e Turchia: L’Inghilterra ha accuratamente evitato di partecipare a tutte le azioni che avrebbero potuto irritare Erdogan e si sta attivando per proteggere  i suoi tradizionali alleati i ” fratelli Mussulmani”anche in Egitto, dove è di fatto alleata con Sissi e coi suoi nemici: A Sissi mostra l’esca della Cirenaica dove l’uomo forte è il suo candidato Haftar e ai fratelli mussulmani offre la mediazione col regime.                                         Ai turchi lo specchietto delle allodole è Cipro e/o le sue risorse promesse a troppi. Come al solito.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                        LA PROSSIMA CRISI MEDITERRANEA SARA’ L’ALGERIA                                                                                                                                                              Gli americani non hanno dimenticato che per tutti gli anni settanta l’Algeria ha dato rifugio a Timothy Leary il professore universitario scopritore dell’LSD che sottrasse al monopolio CIA e alle Pantere Nere ( Eldridge Cleaver, Roger Holder, Melvin MCNair, tra gli altri) ricercate negli Stati Uniti  e che costituirono un serio pericolo per il governo americano.  Lo scorso anno la Russia ha minacciato di rendere pan per focaccia agli USA e sono risorte le ” Nuove Pantere Nere ” a seguito delle numerose uccisioni di gente di colore da parte delle forze dell’ordine.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              L’Algeria è il nostro ultimo rifugio di rifornimento indipendente di GAS ed è in costruzione un gasodotto bis che passi per la Sardegna e rifornisca l’Europa.  Poi saremo completamente sottomessi.                                                                                                                                                           La Francia non può partecipare all’attacco per parcellizzare l’Algeria, che è il paese più grande dell’Africa dopo che il Sudan è stato dimezzato,   a causa del gran numero si algerini sul suo territorio. Gli inglesi, si.          Un altro passo avanti nella marcia di integrazione con gli USA dove ormai regnano numerosi borsisti della fondazione Rodhes sostenitore della superiorità della razza anglosassone e del suo predominio nel mondo. Altro che quei microbi di Soros e Gates.

NATURA MORTA 2a parte, di Giuseppe Germinario

link della 1a parte http://italiaeilmondo.com/2017/02/26/natura-morta-di-giuseppe-germinario/

documento congressuale citato: http://www.partitodemocratico.it/congresso-2017/avanti-insiememozione-congressuale-matteo-renzi/

Ci siamo lasciati un mese fa nel bel mezzo del viaggio di riflessione di Renzi negli States con una sospensione di giudizio circa le sue frequentazioni. Si può confermare con ragionevole sicumera che la spregiudicatezza esibita sinora dal personaggio abbia superato da tempo ormai il suo acme; tutto si è risolto e racchiuso nella ristretta cerchia di consiglieri, sostenitori e mentori che ha facilitato la sua sfolgorante ascesa, incapace però di indirizzare proficuamente con sapienza la sua energia prorompente.

Da qui una prima considerazione. Non è sufficiente la lucidità e la chiarezza di obbiettivi individuati da uno staff destinato necessariamente a rimanere nell’ombra e avulso dal contesto politico del paese se non si dispone poi sul campo dell’indispensabile personale politico in grado di tessere appropriate relazioni, di muovere le necessarie energie, di tradurre in strategie e tattiche adeguate tese a scompaginare e ricomporre gli schieramenti e i gruppi di interesse in campo sino a ricostruire una formazione sociale sufficientemente solida, tanto più in un contesto di risorse e di margini economici decisamente ristretti.

Si ripropone in maniera sempre più acuta il problema delle modalità di formazione di una classe dirigente sempre più espressione dei poteri orizzontali dispersi nel paese e formatasi nelle varie realtà amministrative e gestionali locali piuttosto che alimentata da centri e da strutture verticali di potere sempre più logorate ed incapaci di elaborare strategie autonome; queste ultime sempre più mera espressione di indirizzi e strategie esterne al paese nel caso di centri di potere e gestionali, sempre meno in grado di elaborare indirizzi ed obbiettivi generali unificanti nel caso delle grandi associazioni nazionali.

È una delle tante conseguenze deleterie della campagna di smobilitazione della grande industria pubblica, della faciloneria con la quale si è consentita la cessione all’estero della quasi totalità della pur scarna grande industria privata e di buona parte della struttura finanziaria, della dissennatezza con la quale sono stati introdotti principi di federalismo grazie ai quali si è accentuata la disarticolazione dello Stato Centrale e l’infiltrazione delle strutture comunitarie nelle articolazioni periferiche senza la necessaria mediazione e l’indispensabile indirizzo dei centri nazionali.

Assieme al degrado del sistema universitario e all’indebolimento delle scuole nazionali di Pubblica Amministrazione e alla supina integrazione di buona parte delle strutture di comando specie militari, sono tutti fattori che contribuiscono al progressivo inaridimento del bacino da cui attingere personale in grado di elaborare ed operare secondo una visione politica generale con modalità adeguate.

Argomenti per altro già trattati in articoli di alcuni anni fa e che riproporrò su questo sito nel tempo.

A complicare ulteriormente la posizione del nostro è sopraggiunta la serie di indagini giudiziarie che sta intaccando la credibilità del cosiddetto “Giglio Magico”.

Non entrerò nel merito di come l’attuale ordinamento giudiziario, specie nei settori più permeabili della fase istruttoria, agisca pesantemente nel confronto politico, né mi soffermerò sull’evidente protagonismo di alcuni di essi, anche se in parte ridimensionati dalle recenti avocazioni. Preme sottolineare, piuttosto, come tali iniziative siano ormai un preciso segnale dell’indebolimento e del declino di un determinato gruppo dirigente e, soprattutto, evidenzino ancora di più la estrema fragilità degli attuali partiti. L’attuale sommatoria di nuclei dirigenti localistici in perenne competizione impedisce una netta separazione dell’azione politica dall’opera di reperimento e gestione più o meno trasparenti delle risorse, specie economiche. Una separazione che era particolarmente efficace ai tempi dei grandi partiti di massa della prima repubblica; una commistione ed una prossimità invece le quali rendono gli attuali gruppi dirigenti particolarmente esposti a ricatti e scorribande.

Paradossalmente il PD, proprio perché rimane l’unico partito strutturato in buona parte secondo criteri classici e con un radicamento nazionale, sembra ormai soffrire maggiormente di questi limiti, di questa permeabilità e di questa esposizione.

A mio avviso l’attuale dibattito interno, lo scontro politico in atto per la prossima rielezione del segretario vanno collocati in tale contesto.

L’esame delle tre mozioni congressuali interne al partito e dei documenti delle nuove formazioni in via di costituzione alla sua sinistra offrono alcuni spunti di riflessione al riguardo.

Inizio dalla mozione di sostegno a Renzi, a meno di qualche clamoroso incidente di percorso il predestinato alla vittoria nella battaglia politica, per lo meno quella interna al partito.

È l’unica mozione che ribadisce convintamente la necessità di una riorganizzazione istituzionale tesa a rideterminare una gerarchia funzionale delle competenze dello Stato; manca, nel contempo, altresì una qualsivoglia analisi delle ragioni del fallimento della riforma istituzionale legate anche alle contraddizioni intrinseche di quel progetto; un fallimento che rischia di rendere vacua la parziale riorganizzazione delle strutture amministrative comunque in corso. Una carenza di analisi quindi assolutamente non casuale, vista la particolare retorica che impregna l’intero documento.

Si parte dallo scontato atto di accusa rivolto ai “populisti”, entro i quali si accomunano indistintamente e opportunisticamente sovranisti, nazionalisti, razzisti, antiliberisti, comunitaristi e via dicendo, di costruire muri e di perseguire il modello della “chiusura”.

Un espediente retorico tanto semplicistico quanto ormai inefficace visto che non si riconosce attività umana, tanto più quella dell’agire politico, in grado di operare senza delimitazioni e “muri”. Più che dell’esistenza degli stessi, il dibattito risulterebbe meno pleonastico se si riuscisse a discutere concretamente del tipo di “porte” e del tipo di filtri da schierare agli ingressi e alle uscite. Un equivoco in cui l’estensore rischia di rimanere invischiato quando parla di contrapposizione tra limite ed integrazione; ma un limite appunto del quale l’estensore sembra intuire l’esistenza quando parla di “alleanza tra libertà e protezioni” e del “nuovo bisogno di sicurezza e di appartenenza” da soddisfare.

Si tenta quindi un recupero del riconoscimento dell’importanza del principio di identità nel garantire la coesione e la dinamicità di una comunità; un’azione congiunta di promozione dal basso, tesa alla valorizzazione delle comunità locali e dall’alto mirante alla costruzione di una identità europea. Cosa potrebbe essere l’identità europea se non il tentativo di costruzione di una nuova identità nazionale l’autore è lungi dal determinarlo; ciò che risalta alla fine, nella sua assenza, è l’elusione dell’esistenza delle identità e degli stati nazionali vigenti. Non più, quindi, il disconoscimento aperto così pervasivo nella retorica europeista più oltranzista, ma l’aggiramento del problema, tanto più paradossale in quanto dovrebbero essere gli stati nazionali stessi, stando alla nuova prassi instaurata obtorto collo da Renzi, a condurre il processo di proprio esautoramento. Un escamotage che inibirà ancora una volta il pieno utilizzo delle leve statali quantomeno per contrattare una condizione meno supina nell’ambito comunitario e per assumere almeno la consapevolezza del proprio stato di subordinazione; in realtà l’ennesima cortina fumogena che consentirà lo sviluppo del processo funzionalista di polarizzazione condotto attraverso i due livelli, regionale-locale ed eurocomunitario, già in atto da decenni.

L’EUROPA

Secondo il documento ad ogni buon conto si tratterebbe di recuperare, in polemica con i populisti appiattiti sulle pulsioni e con “la miopia di una classe dirigente succube del pensiero tecnocratico”, il valore della politica, la capacità quindi del politico-intellettuale di comprendere, non solo di analizzare freddamente, e di agire collettivamente sulla base di tale comprensione.

A dispetto degli inaspettati richiami gramsciani l’ennesimo disconoscimento della legittimità politica di due correnti di pensiero, populista e tecnocratico, impedisce un corretto confronto politico. Tende, in particolare, al netto delle inerzie proprie delle burocrazie, a sopravalutare l’autonomia politica di questi centri e a evitare il confronto diretto con i reali interlocutori che li indirizzano; attori assolutamente politici.

L’obbiettivo sarebbe la realizzazione di “una convergenza che faccia perno sulle tre più grandi democrazie dell’Eurozona, su un modello originale che concili integrazione e democrazia” adottando “un modello con due livelli di governo distinti, uno federale con un adeguato bilancio da gestire e regole comuni per dare una dimensione davvero europea ai nostri mercati, e uno rinviato alla responsabilità degli Stati, singoli o in forma associata nel Consiglio europeo”; “restituire quindi anima e respiro alle quattro libertà europee – la libera circolazione delle persone, dei prodotti, dei capitali e dei servizi – ritrovando in esse un orizzonte comune, di progresso e crescita”. Per concludere si deve realizzare “il principio di fondo della nostra visione; quello di un’Europa politica e democratica e anche di un’Europa sociale”.

Fine, quindi, della politica di austerità, investimenti in sicurezza, ricerca e cultura svincolati dai tetti di spesa, spesa fiscale comune attraverso una assicurazione europea contro la disoccupazione e per investimenti contro la povertà educativa. Torna in auge la funzione cruciale e prioritaria per la sinistra dell’investimento nel sociale, termine salvifico che giustifica la propria esistenza, ma che innalzata a funzione taumaturgica non fa che relegare ad una pura funzione redistributiva la sua azione politica; una funzione tutt’al più complementare incapace il più delle volte di determinare strategie in grado di preservare la forza e l’autonomia politica di un paese e lo sviluppo e la coesione sociale stessi nel lungo periodo.

Le ricadute nell’economicismo mi sembrano evidenti; lo spirito del documento equivale al tentativo di librarsi di un uccello troppo pesante per poter volare.

L’aspetto puramente politico, la sicurezza stessa dei confini vengono d’altronde giustapposti e ridotti al problema della gestione della immigrazione; a questa, ipocritamente, pare vincolata la proposta di difesa comune “partendo dal nucleo dei grandi paesi fondatori e individuando alcuni obiettivi concreti: rafforzare la collaborazione e la cooperazione; mettere in comune competenze e risorse, sulla base di un modello  condiviso e di un accordo costitutivo per stabilire finalità e modalità operative, al fine di realizzare una forza europea multinazionale, con funzioni e mandato stabiliti insieme, dotata di una struttura di comando e di meccanismi decisionali ed economici comuni; investire in una dimensione europea di integrazione dell’industria della difesa europea; dirigere risorse, umane ed economiche, verso settori strategici quali ad esempio la difesa cyber, il sistema di difesa satellitare e la logistica”.

 Si tratterebbe quest’ultimo in realtà di un passaggio epocale, sempre che non si riveli una rischiosa velleità. Tanto impegno sarebbe legato ad un obbiettivo politico tangibile: “una politica estera europea che, grazie al contributo fondamentale dell’Italia, investa su due aree d’importanza strategica: gestione dei processi migratori e Mediterraneo”.

 

Le lacune e le incongruenze presenti nel documento a mio avviso si infittiscono.

Assegnare un valore strategico alla gestione dei processi migratori e al Mediterraneo porta a confondere le cause con gli effetti. Negli ultimi anni appare evidente l’emersione di un conflitto sempre più manifesto tra Stati Uniti e Russia e sempre meno latente tra i primi e la Cina. All’interno di questo si inseriscono le dinamiche di emersione di potenze regionali, l’esplosione di conflitti regionali, l’avvio di potenti processi di riorganizzazione sociale ed economica che inducono tra l’altro a colossali movimenti migratori che si incanalano lungo corridoi resi più agibili dalla dissoluzione per lo più indotta di alcuni stati nazionali. La Libia, la Siria, l’Ucraina, il Sudan, la Bosnia sono gli esempi e le vittime più lampanti. Il terreno di confronto tra Russia ed USA vede l’Europa come teatro principale e all’interno di esso i vari paesi europei, in particolare i loro centri dominanti, hanno trovato accomodamenti più o meno convenienti. La Germania ha trovato il modo di conciliare con l’establishment americano le proprie ambizioni di estensione dell’area di influenza nella regione balcanica e nell’Europa Orientale, sacrificando al momento e per una lunga fase una prospettiva di politica più autonoma del tutto impraticabile senza una riconciliazione con la Russia; i paesi scandinavi e gran parte dei paesi dell’Europa orientale e nord-orientale hanno rispolverato ambizioni ed ostilità russofobe, sopite per quasi due secoli e assecondato di conseguenza l’espansionismo americano; l’Italia tra i paesi mediterranei ed in gran parte la Francia hanno sacrificato anche i propri interessi immediati in nome della pedissequa fedeltà atlantica con la prima ridotta ormai a terra di conquista dei propri amici alleati. L’avvento di Trump avrebbe dovuto rappresentare una occasione di recupero di rapporti accettabili con la Russia e di un’opportunità di recupero di una maggiore autonomia dagli Stati Uniti. Tanto l’aperta ostilità della Merkel verso il nuovo Presidente americano, invece, rivela la solidità degli interessi di breve periodo di quella classe dirigente e la sua speranza di un rapido ripristino del vecchio ordine nel paese egemone quanto il significativo silenzio del nostro rivela invece la debolezza e la subordinazione costosa per il nostro paese della nostra classe dirigente all’ordine precedente. Non si vede, quindi, come si possa ambire ad una difesa comune senza aver definito una altrettanto area comune di interesse e conduzione politica che ponga fine, in primo luogo, alla destabilizzazione di impronta preminentemente americana dei numerosi stati ai bordi delle aree di influenza. La stessa creazione di un unico complesso militare-industriale è quanto di più lontano si possa immaginare dalla dinamica di un libero mercato e presuppone un ruolo attivo e potente di concertazione dei vari stati nazionali.

Gli investimenti cosiddetti sociali ed una politica adeguata di investimenti infrastrutturali comunitari, altro cavallo di battaglia ricorrente, presuppongono una capacità fiscale almeno quindici volte maggiore dell’attuale senza che nessuno evidenzi le implicazioni di questo eventuale enorme trasferimento di risorse dai bilanci degli stati nazionali, data l’impraticabilità di un ulteriore incremento massivo del carico fiscale.

Basterebbe ricordare che gli Stati Uniti raggiunsero la piena condizione di stato federale dopo oltre un secolo dall’indipendenza, dopo una sanguinosa guerra civile e con il repentino passaggio del carico fiscale dall’otto a quasi il trenta per cento del prodotto interno a fine ottocento.

Gli stessi investimenti strutturali europei tra l’altro, così come concepiti sull’altare del tabù della concorrenza, secondo una letteratura ormai consolidata ma poco considerata in Italia, sono un’arma ambivalente che può accentuare anziché ridurre gli squilibri, desertificare piuttosto che ripopolare gli insediamenti produttivi, inibire lo sviluppo di una imprenditoria locale radicata.

Un dibattito aperto sul merito farebbe vacillare un altro totem indiscusso della retorica europeista.

Sono tutte ambiguità e rimozioni che servono a glissare sul peccato originale dell’attuale costruzione europea. Il suo carattere prettamente economicista e velleitariamente federalista offusca il dato che l’Unione Europea è nata sulle ceneri di una sconfitta militare dei paesi europei e sulla base di una alleanza militare che sancisce il predominio americano su di essa, così come esplicitamente definito per altro nei trattati; nasconde surrettiziamente le dinamiche di competizione e di prevalenza tra stati comunque presenti all’interno di essa; rimuove l’unica possibilità di costruzione europea che renda più trasparenti questi rapporti e agevoli un processo di emancipazione dalla sudditanza scaturita dagli esiti della seconda guerra mondiale e dalla fine della Guerra Fredda: quella confederale limitata ad un numero più ristretto di attori europei.

La ristrettezza del cerchio di frequentazioni di Renzi non è quindi casuale; rappresenta l’indice dei rigidi vincoli entro cui intende e può muoversi.

 

IL PAESE

 

La rigidità dei vincoli non è però sinonimo di immobilismo, tutt’altro. L’agenda del candidato è fitta di appuntamenti e di propositi riformatori che comunque godono di una dinamica insolita rispetto al passato.

Il welfare di cittadinanza piuttosto che di settori e di corporazioni, l’intervento assistenziale attivo, teso all’inserimento produttivo, la garanzia di reddito minimo, in particolare pensionistico, di fatto contrapposto al sistema contributivo delle pensioni, l’attenzione dichiarata e sancita al cosiddetto terzo settore legato in prevalenza ai servizi alla persona, gli investimenti nella logistica, la riforma scolastica ed universitaria sono programmi, buona parte dei quali in fase di attuazione, che stanno rivoluzionando gli assetti organizzativi e sociali e di conseguenza modificando le modalità di aderenza e di controllo pervasivo del ceto politico sulle strutture e negli apparati. Lo stesso riconoscimento di cittadinanza ai ceti professionali autonomi finalmente acquisito politicamente nel PD è un altro segno evidente della svolta, tradottosi anche nella recente legge

Si tratta di una dinamica cui Renzi ha dato una spinta decisiva, anche se scomposta, ma che aveva cominciato a delinearsi chiaramente già da sette anni, a partire dai seminari di Todi del 2011 promossi dalla Conferenza Episcopale con i quali aveva preso forma compiuta in Italia il processo di esautoramento del Governo Berlusconi. Una spinta che avrebbe dovuto portare alla creazione di una nuova DC; fallita miseramente quell’ipotesi il baricentro di quella iniziativa si è riposizionato prontamente nel PD.

Una dinamica potenzialmente ambivalente ma che rischia di assumere sempre più le caratteristiche di uno nuovo sistema di servizi di tipo parassitario e assistenziale di supporto ad un assetto sociale ed economico più precario e meno autonomo nella determinazione delle strategie. Tutto dipende dalla collocazione internazionale che si intende accettare e dalle strategie economiche che si intende perseguire. Delle prime ho accennato sopra; sulle seconde ho già accennato in altri articoli.

Le dinamiche del conflitto interno al PD sono per altro il riflesso di questo rischio.

Le tesi sostengono di puntare su turismo, edilizia ed esportazioni, qualcosa di non molto diverso dall’impronta Einaudiana data al sistema economico italiano degli anni ‘50; in realtà lo schema, già in fase avanzata di realizzazione, prevede il parziale controllo dei presidi sul territorio e la cessione a terzi esterni al paese del controllo strategico di gran parte delle reti e non fa che assecondare e accentuare le tendenze del cosiddetto libero mercato.

Come si possa essere “artefici del proprio destino” delegandone la supervisione ad altri rinunciando per altro alle leve necessarie a contrattare una compartecipazione resta un mistero.

Sindacare sul rigore di un documento può sembrare pedante e poco generoso rispetto ad una situazione talmente intricata e complessa. La coerenza di fondo può rivelarne però i limiti e le finalità effettive che possono anche prescindere dalle intenzioni soggettive.

La contingenza politica, per di più, sta costringendo Renzi al tentativo di bloccare l’erosione a sinistra, snaturando e paralizzando i propri propositi riformatori.  I richiami a Gramsci, la rivendicazione ostentata del carattere di sinistra della sua azione sono una manifestazione evidente del peso dei retaggi. Dopo le rivisitazioni subite nella sinistra latino-americana, in Podemos e in Siriza, all’intellettuale e politico sardo tocca subire anche questo ulteriore scempio, seguito alle persecuzioni fasciste.

Il PD rischia alla fine di diventare per Renzi più che un veicolo, una gabbia che rischia di soffocarlo definitivamente contribuendo in tal modo al sorgere di una terza fase più convulsa della battaglia politica. Gran parte del personale politico raccolto da Renzi, del resto, è stato coltivato dalle tre precedenti gestioni del partito sulla base di esperienze prevalentemente territoriali e localiste.

Nella terza parte dell’articolo vedremo quindi come gran parte dei suoi oppositori interni ed esterni della sinistra rappresentino un fattore di freno ulteriore e di impaludamento della situazione; in particolare vedremo come lo schema classista, quello che oppone sfruttati e sfruttatori, ricchi e poveri, forti e deboli alla base della loro azione politica offra una chiave esclusiva di lettura che impedisce di individuare le dinamiche di conflitto e cooperazione e la composizione delle forze in campo; ostacola la difesa stessa delle condizioni di vita degli strati più popolari impedendo il loro inserimento consapevole in un blocco sociale più dinamico e promettente.

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