La complessità di un mondo multipolare. Videointervista a Pierluigi Fagan_3a parte

Qui sotto il link della terza ed ultima parte dell’intervista. Pierluigi Fagan ha svolto per oltre venti anni la professione di imprenditore e manager. Da oltre tredici si è dedicato intensamente allo studio in vari campi, privilegiando in particolare l’ambito filosofico e teorico-politico. Nel 2016 ha pubblicato un libro edito da Fazi dal titolo: VERSO UN MONDO MULTIPOLARE, il gioco di tutti i gioche nell’era Trump. Buon ascolto

La complessità di un mondo multipolare. Videointervista a Pierluigi Fagan_2a parte

Qui sotto il link della seconda delle tre parti dell’intervista. Pierluigi Fagan ha svolto per oltre venti anni la professione di imprenditore e manager. Da oltre tredici si è dedicato intensamente allo studio in vari campi, privilegiando in particolare l’ambito filosofico e teorico-politico. Nel 2016 ha pubblicato un libro edito da Fazi dal titolo: VERSO UN MONDO MULTIPOLARE, il gioco di tutti i gioche nell’era Trump. Buon ascolto

SENTIMENTO OSTILE, ZENTRALGEBIET E CRITERIO DEL POLITICO, di Teodoro Klitsche de la Grange

SENTIMENTO OSTILE, ZENTRALGEBIET E CRITERIO DEL POLITICO

Scrive Clausewitz, nelle prime pagine del Vom Kriege, che la guerra, sotto l’aspetto delle di essa tendenze principali si presenta come un triedro composto: “1. Della violenza originale del suo elemento, l’odio e l’inimicizia, da considerarsi come un cieco istinto;

  1. del giuoco delle probabilità e del caso, che le imprimono il carattere di una libera attività dell’anima;
  2. della sua natura subordinata di strumento politico, ciò che la riconduce alla pura e semplice ragione.

La prima di queste tre facce corrisponde più specialmente al popolo, la seconda al condottiero ed al suo esercito, la terza al governo. Le passioni che nella guerra saranno messe in giuoco debbono già esistere nelle nazioni”[1].

E poco prima sostiene che “Quanto più grandiosi e forti sono i motivi della guerra, quanto maggiormente essi abbracciano gli interessi vitali dei popoli, quanto maggiore è la tensione che precede la guerra, tanto più questa si avvicina alla sua forma astratta, tanto maggiore diviene la collimazione fra lo scopo politico e quello militare”[2].

Da questi e da altri passi del Vom Kriege emerge che il “sentimento ostile” e la violenza originale dell’odio e dell’inimicizia è del “triedro” l’elemento che più contribuisce all’intensità e alla determinazione dello sforzo bellico.

2.0 Secondo Carl Schmitt “I concetti di amico e nemico devono essere presi nel loro significato concreto, esistenziale, non come metafore o simboli; essi non devono essere mescolati e affievoliti da concezioni economiche, morali e di altro tipo, e meno che mai vanno intesi in senso individualistico-privato”[3], perché “Nemico è solo un insieme di uomini che combatte almeno virtualmente, cioè in base ad una possibilità reale, e che si contrappone ad un altro raggruppamento umano dello stesso genere”. Il nemico è solo pubblico come già era scritto nel Digesto. La contrapposizione politica è la più intensa ed estrema[4]; non è limitata all’esterno dell’unità politica, anche se all’interno è relativizzata ossia è lotta e non guerra; se diviene questa mette in forse l’unità politica[5]. La guerra è in se un mezzo politico e non può che essere tale “sarebbe del tutto insensata una guerra condotta per motivi «puramente» religiosi, «puramente» morali, «puramente» giuridici o «puramente» economici”[6].

Tuttavia “contrasti religiosi, morali e di altro tipo si trasformano in contrasti politici e possono originare il raggruppamento di lotta decisivo in base alla distinzione amico-nemico. Ma se si giunge a ciò, allora il contrasto decisivo non è più quello religioso, morale od economico, bensì quello politico”[7]; e prosegue “Ogni contrasto religioso, morale, economico, etnico o di altro tipo si trasforma in un contrasto politico, se è abbastanza forte da raggruppare effettivamente gli uomini in amici e nemici”.

Nello scritto L’epoca delle neutralizzazioni e delle spoliticizzazioni[8] Schmitt sostiene (e ciò presenta interesse anche per il “contenuto” del politico) che l’Europa ha cambiato dal XVI secolo più volte il proprio centro di riferimento[9]; il quale è passato dal teologico al metafisico, da questo al morale-umanitario e poi all’economico.

Il centro di riferimento determina di volta in volta il significato dei concetti specifici. Ciò che più rileva “Una volta che un settore diviene il centro di riferimento, i problemi degli altri settori vengono risolti dal suo punto di vista e valgono ormai solo come problemi di secondo rango la cui soluzione appare da sé non appena siano stati risolti i problemi del settore centrale”[10]. Così anche per lo Stato e per i raggruppamenti amico-nemico: “lo Stato acquista la sua realtà e la sua forza dal centro di riferimento delle diverse epoche, poiché i temi polemici decisivi dei raggruppamenti amico-nemico si determinano proprio in base al settore concreto decisivo. Finché al centro si trovò il dato teologico-religioso, la massima cujus regio ejus religio ebbe un significato politico”[11].

Mutato il centro di riferimento, cambia la concezione dello Stato e il contenuto o la discriminante del politico, che assume altro significato e criterio e può determinare un diverso raggruppamento amico-nemico e così: “Quello che fino allora era il centro di riferimento viene dunque neutralizzato nel senso che cessa di essere il centro e si spera di trovare, sul terreno del nuovo centro di riferimento, quel minimo di accordo e di premesse comuni che permettano sicurezza, evidenza, comprensione e pace. In tal modo si afferma la tendenza verso la neutralizzazione e la minimalizzazione”[12].

Tuttavia neppure l’approdo “neutrale” cui gli europei sono arrivati nel XX secolo e cioè la tecnica può realizzare l’aspirazione all’eliminazione della conflittualità; sia perché “la tecnica è sempre soltanto strumento ed arma e proprio per il fatto che serve a tutti non è neutrale. Dall’immanenza del dato tecnico non deriva nessuna decisione umana e spirituale unica, men che meno quella nel senso della neutralità”[13] sia perché “La speranza che dal ceto degli inventori tecnici possa svilupparsi uno strato politico dominante non è finora giunta a compimento”[14].

  1. La correlazione – anche se non sempre necessaria e inderogabile – tra centro di riferimento e scriminante amico/nemico persuade solo in parte.

Ciò in primo luogo perché occorre coordinarla con ciò che Schmitt ha tanto spesso ripetuto, ossia che a determinare il nemico è la situazione concreta.

Per la quale non vi è solo la coppia degli opposti riferentesi al centro di riferimento, ma vi sono altre contrapposizioni, talvolta più importanti e così decisive (o almeno percepite come tali) che determinano situazioni di lotta e ostilità.

Ad esempio nel secolo breve e in particolare dopo la conclusione della seconda guerra mondiale l’opposizione tra democrazie liberali (con annessi) e stati comunisti ripartiva quasi tutto il mondo sviluppato in due campi l’un contro l’altro armati, organizzati in sistemi d’alleanza (e relative organizzazioni) contrapposte e pronte alla reciproca distruzione; malgrado ciò non impediva né stati d’intensa ostilità fino alla guerra all’interno sia dei “due” campi, sia tra “clienti” degli stessi, per lo più non indotte dalla discriminante amico/nemico principale.

Infatti vi sono state guerre nello stesso “campo”: Cina/Vietnam; Vietnam/Cambogia; Cina/Russia; (gli “incidenti” sull’Ussuri) per quello comunista; Gran Bretagna/Argentina (per le Falklands/Malvine) nonché l’occupazione turca di parte di Cipro con le forti tensioni tra Grecia e Turchia.

Peraltro le guerre arabo-israeliane non avevano affatto il contenuto e la scriminante ideologica dei campi che, in maggiore o minore misura aiutavano l’uno e l’altro dei contendenti, ma il carattere “tradizionale” di contese per il possesso della terra tra popoli diversi.

Anche le guerre civili non sono (sempre) guerre ideologiche (anche se spesso ciò è capitato negli ultimi due secoli).

Come scriveva Montherlant nel prologo del suo dramma “La guerra civile”, dando la parola a questa “Io sono la guerra civile… Io non sono la guerra delle trincee e dei campi di battaglia. Sono la guerra della piazza inferocita, la guerra delle prigioni e delle strade, del vicino contro il vicino, del rivale contro il rivale, dell’amico contro l’amico”. Quell’ “amico contro l’amico” mostra come il drammaturgo vedesse nella dissoluzione del rapporto amicale la causa della guerra civile. Contro questa non vale (sempre) l’aggregazione derivante dalla comunanza di leggi, tradizioni, storia e lingua, che comunque produce coesione; a questa si deve aggiungere la volontà d’esistere insieme e di un futuro comune. Il venir meno della quale induce la fine della sintesi politica, la quale, come scriveva Renan, è un “plebiscito di tutti i giorni”.

Nella realtà politica la costante del dominio e le sue determinanti, in particolare geo-politiche, così ben enunciata da Tucidide nel famoso dialogo tra i Meli e gli ambasciatori ateniesi[15]; le opposizioni tra popoli abituati a combattere e ad affermare la propria identità rispetto ai vicini (come, spesso, nei Balcani – e non solo); gli interessi degli Stati, come la politica di De Gaulle nei confronti del mondo comunista, rendono non decisiva l’opposizione principale (ed epocale)[16].

La decisività dell’opposizione va ricondotta all’influenza sull’esistenza della comunità politica, sia in senso assoluto (la distruzione della comunità o dell’istituzione che le da forma), sia relativa (la modificazione radicale del modo d’esistenza della stessa).

Il conflitto politico è così determinato in primo luogo dall’esigenza d’esistenza della comunità: se è percepito un altro gruppo umano come nemico – nel senso d’essere un pericolo (concreto) per l’esistenza della comunità minacciata – le stesse “differenze” religiose, ideologiche, economiche passano in secondo piano. I “valori” e la correlativa “tavola”, per lo più dichiarata, negli Stati moderni, nelle Costituzioni, passano in second’ordine nel momento in cui è in gioco l’esistenza della comunità. Il tutto avviene sia dal lato interno (la decisione sullo stato d’eccezione) che su quello esterno (la decisione sul nemico), in omaggio alla massima salus rei publicae suprema lex. Il nemico è colui che è tale per la salus dell’istituzione statale (e della comunità). È la concreta situazione ed il pericolo per l’esistenza collettiva e il sentimento ostile che ne consegue più che il contrasto sul modo d’esistenza di un popolo a designare il nemico; così appartiene ad ogni comunità la decisione su chi sia tale, e se l’opposizione epocale sia più o meno importante delle altre opposizioni, che hanno il carattere non solo della concretezza, ma anche della particolarità. Come scriveva Freund            “Cadere in errore sul nemico per stordimento ideologico… è esporsi a mettere, presto o tardi, in pericolo la propria esistenza”[17].

  1. Scriveva Gentile che “è il sentimento politico l’humus in cui affonda le sue radici l’albero dello Stato”[18]; tale affermazione è complementare a quella di Clausewitz sulla tendenza/componente/costante della guerra costituita dal cieco istinto – e con ciò dal sentimento politico – che “corrisponde” al popolo.[19]

Senza sentimento politico non c’è né guerra né Stato vitale. Quella ha così la possibilità di essere condotta e, nel caso, vinta; in questo si risolve nel relativizzare le opposizioni e conflitti, in particolare quello tra governanti e governati nel consenso dei secondi ai primi, in un idem sentire de republica[20].

Il problema della legittimità del consenso e dell’integrazione, che i giuristi contemporanei spesso risolvono nella legalità, senza considerare che questa si fonda sulla convinzione della legittimità di chi esercita il potere, e non viceversa; onde – scriveva Gentile – non c’è polizia che possa provvedervi se l’ordine sociale non è condiviso[21].

  1. Un’analisi fenomenologica del rapporto amico/nemico deve partire dall’osservazione fattuale che il conflitto è in se insopprimibile sia all’interno che all’esterno della sintesi politica. Una società, così armoniosa da non conoscere conflitti interni è frutto d’utopismo, di quella variante cioè del pensiero utopico volto ad immaginare fantasie impossibili perché opposte al dato fattuale.

Quel che, invece fa parte dell’esperienza (ed è costante) storica è che le sintesi politiche esistono come tali fin quando riescono a relativizzare i contrasti interni, ricomponendoli e decidendoli; conflitti relativizzati dal consenso ad un’autorità superiore riconosciuta (dai governati) a prendere le decisioni (inappellabili) per l’ordine che assicura. Ove questo non avvenga il risultato è che quei conflitti passano da relativi ad assoluti: in cui posta in gioco è l’esistenza e, gradatamente, la forma di governo, il regime della sintesi politica e non più dissidi interni. Ne consegue che tra tutti gli innumerevoli conflitti che possano esistere all’interno della sintesi politica depotenziarne uno, sicuramente presente, è presupposto necessario del rapporto amicale: quello tra governanti e governati. Perché consente di ricomporre tutti gli altri.

Autorità, ordinamento e regole hanno come esigenza fondamentale di dirimere e decidere i conflitti, e quindi la lotta che inevitabilmente ne consegue, limitandola e degradandola a competizione agonale.

Ancora di più, la relativizzazione dei dissidi interni si fonda sul ruolo pacificatore del terzo, interno alla sintesi politica, cioè, in linea di massima, il potere sovrano. In linea di massima perché l’attività del terzo (anche interno) può non essere svolta da un organo dello Stato e, il risultato politico (la composizione del dissidio), comunque conseguito. Ma il ruolo del “terzo” può non essere limitato ai conflitti interni e, soprattutto la sua azione, essere rivolta a suscitare dissensi, non a ricomporli.

  1. Si è spesso pensato, nell’era post-atomica e a seguito della debellatio della Germania e del Giappone (il caso dell’Italia è diverso), che la fine della guerra s’identifichi con l’occupazione militare di un paese previamente distrutto dal vincitore, e quindi posto nell’impossibilità materiale di difendersi; i terribili effetti di una guerra nucleare nell’immaginario collettivo hanno fatto il resto.

Nella realtà una guerra finisce quando una delle parti non ha più la volontà di combattere. La guerra è uno scontro di volontà, come scrivevano, tra gli altri, Clausewitz e Gentile. Presuppone quindi che ambo i contendenti abbiano la volontà di farla e proseguirla: se uno dei due si arrende, la guerra cessa.

Giustamente de Maistre notava che una battaglia persa è quella che immaginiamo di avere perso[22].

La guerra assoluta sta alla guerra reale come la pace (perpetua? universale?) della debellatio ad un trattato (o anche “dettato”) di pace reale. È essenziale piegare la volontà di combattere del nemico e quindi il sentimento di (appartenenza comunitaria ed) ostilità. A tale scopo tutti i mezzi sono buoni: sia la prospettiva di castighi e danni superiori sia l’opposta di benefici, vantaggi o clemenze. L’armistizio con cui si concluse (sul piano militare) la prima guerra mondiale, con la Germania ancora padrona di gran parte dell’Europa centrorientale ne è uno dei casi.

Pressioni economiche (gli effetti del blocco), l’armistizio dell’Austria-Ungheria e le prospettive strategiche di questo e dell’aumento dell’intervento americano contribuiscono a depotenziare la volontà di combattere.

Ma anche nel XX secolo, nell’epoca della guerra tecnica e totale, spesso armate partigiane decise e motivate, hanno sopportato e vinto in condizioni di (abissale) inferiorità materiale, a prezzo di perdite enormemente superiori a quelle dei nemici ipertecnologici. Lo squilibrio materiale era compensato dall’intensità del sentimento ostile e così del morale. I nemici non riuscivano a sopportare gli (assai inferiori) sacrifici, per cui preferivano concludere la pace o comunque rinunciare alla guerra[23]. Il sentimento ostile è, per il più debole, il fattore che può consentire di condurre e vincere la guerra, pur connotata da una notevolissima asimmetria materiale.

È proprio la guerra asimmetrica nelle sue diverse forme a connotare i conflitti contemporanei, a partire dal crollo del comunismo e dalla conseguente rottura del condominio bipolare che aveva caratterizzato la seconda metà del XX secolo.

Del pari l’ostilità tra gruppi umani, che condivide la natura camaleontica del suo prodotto più intenso, la guerra (caratterizzata dall’uso della violenza), prende forme intermedie (per lo più mistificate o del tutto occultate). Influenzate da derivazioni (nel senso di Pareto) pacifiste; queste consistono nel negare ad interventi armati il carattere di guerra, in nome d’intenzioni ireniche e soprattutto perché intraprese al fine di mantenere la pace[24].

Ma la panoplia dell’ostilità non si limita alle guerre mascherate.

Altre forme ne sono quelle azioni che tendono allo stesso scopo della guerra – piegare la volontà dell’avversario – con mezzi non militari (blocco economico, attacchi informatici, scorribande finanziarie, fino alle invasioni pacifiche); ovvero condotte da soggetti non aventi lo status di legittimi belligeranti (justi hostes), mezzo ben noto anche ai secoli passati. Il connotato comune di tutti questi tipi di atti ostili è che, avendo lo stesso scopo della guerra “classica” mancano di uno (o più) dei requisiti individuati dalla teologia cristiana perché vi fosse una guerra giusta (justum bellum): qui manca la recta intentio, lì l’auctoritas, altrove una justa causa belli. Onde (forse) non possono essere considerate guerre in senso proprio, ma quasi sempre non possono essere ricondotte al concetto di guerra giusta elaborato dai teologi.

Proprio in tali guerre – non guerre assume un rilievo forse maggiore che in quelle classiche l’esigenza di annichilire la volontà di resistere (e di combattere) del nemico; perché l’avversario sa bene, come scriveva de Gaulle, che la forza risiede nel di esso ordine e che rompendo questo si distrugge quello.

  1. Nelle forme “atipiche” di guerra che connotano il XXI secolo questo è possibile in vari modi e i mezzi devono essere congrui rispetto agli obiettivi. Decisivo appare comunque provocare la perdita della coesione politica del nemico. I gradi dell’azione possono essere differenti: si va, in crescendo, dalla sostituzione del governo ostile all’abolizione del regime politico fino alla distruzione della sintesi politica oggetto dell’intervento ostile[25].

Connotato comune è che il mezzo usato e lo scopo lo rendono più prossimo alla rivoluzione che alla guerra: anche se il fine non è sempre rivoluzionario consiste nella sovversione e il rovesciamento dell’ordine (e così  almeno del governo) ostile. Dato che gli interventi ostili contemporanei hanno – come d’altra parte tante guerre – obiettivi limitati, spesso è sufficiente la sostituzione del governo per realizzarli.

Malgrado il non uso di mezzi militari, ciò lo rende assai più lesivo dei principi del diritto internazionale di quanto lo sia uno justum bellum: suscitare la sovversione (fino alla rivoluzione) negli altri Stati ha, secondo molti costituito un illecito internazionale, spesso vituperato e altrettanto praticato.

  1. Il pensiero politico si è interrogato da millenni su chi sia il nemico, e le risposte al quesito sono state le più varie e neppure escludentesi tra loro. Si è ritenuto che ci fossero nemici per natura[26], o più spesso per divergenze d’interessi, o anche per costumi[27], per religione (fonte di tanti contrasti). Ancor più su chi sia il nemico giusto[28].

Come sostenuto da Schmitt (e non solo) il secolo XX ha visto il riconoscimento dello Stato di nemico giusto anche a soggetti politici altri degli Stati (in particolare movimenti rivoluzionari); così una legittimazione delle guerre giuste prevalentemente in base al criterio della justa causa belli.

Sul piano fenomenologico il tutto ha portato non alla riduzione, ma all’accrescimento del ruolo del sentimento ostile: in particolare l’attività bellica svolta da organizzazioni non statali relativamente (poco) istituzionalizzate[29] ha comportato un aumento del ruolo attivo della popolazione nella guerra, secondo la concezione di Mao-dse-Dong, e così del sentimento politico.

La debole istituzionalizzazione ha reso del pari meno rilevante il ruolo del personale “tecnico” e specialistico. Il comando – e i quadri – dei movimenti partigiani sono solo occasionalmente (e raramente) dei tecnici e dei burocrati militari: per lo più o non posseggono esperienza di guerra o ne hanno poca. Già agli albori del  partigiano moderno, troviamo il cardinale Ruffo, il quale non era un militare, ma un religioso ed amministratore civile. In compenso sapeva benissimo come suscitare ed avvalersi del sentimento ostile antigiacobino delle popolazioni meridionali. Così gran parte dei suoi seguaci, cosa ripetutasi in tutti (o quasi) i movimenti rivoluzionari moderni. Fra Diavolo il capo partigiano faceva il sellaio per poi arruolarsi (qualche tempo) nell’esercito regolare borbonico; Empecinado l’agricoltore.

E, sotto tale profilo, occorre ritornare alla concezione di Schmitt, prima cennata, del ruolo della tecnica e della tecnocrazia, relativamente al sentimento politico, sia che si tratti dell’avversione al nemico che della coesione con l’amico.

La tecnica è in se uno strumento e un mezzo, non un fine.

Anzi il passaggio dalla concezione della tecnica (della prima metà del secolo scorso) di cui scrive Schmitt come “fiducia in una metafisica attivistica, la fede in una potenza e in un dominio sconfinato dell’uomo sulla natura, e quindi anche sulla physis umana, la fede nell’illimitato «superamento degli ostacoli naturali», nelle infinite possibilità di mutamento e di perfezionamento dell’esistenza naturale dell’uomo in questo mondo”,  per cui non può dichiararlo “semplicemente una morta mancanza di anima, senza spirito e meccanicistica” ha rafforzato la nulla (o scarsa) idoneità a suscitare “sentimento politico”.

Se la tecnica all’epoca era concepita in una dimensione (e funzione) prometeica, ora è percepita come soddisfazione di bisogni (per lo più privati) di una società di consumatori pantofolai, i quali comunque hanno abdicato a dare un senso all’esistenza collettiva, che non sia quello di produrre e consumare.

Il quale si coniuga assai bene con la profezia di Tocqueville sul dispotismo mite[30]; mentre secondo il giurista di Plettemberg “Tutte le scosse nuove e poderose, tutte le rivoluzioni e le «riforme», tutte le nuove élites provengono dall’ascesi e da una più o meno volontaria povertà, nel che la povertà significa soprattutto il rifiuto della sicurezza garantita dallo status quo”.

  1. Ciò nonostante dato che ogni scelta, come è anche quella di servirsi della tecnica (o di tecniche), può suscitare una contrapposizione amico-nemico è il caso di vedere se anche questa (e/o quelle) può costituire fondamento aggregante/discriminante.

In primo luogo bisogna ricordare che il rifiuto di certe (soluzioni) tecniche è, il più delle volte, solo il riflesso di una scelta di valori; nel mondo contemporaneo è evidente per le (nuove) tecniche riconducibili a orientamenti bioetici[31]. La dipendenza di queste da quelli le rende irrilevanti o, tutt’al più, secondarie.

In secondo luogo il rifiuto totale (o quasi) della tecnica, quale risultante/componente di una scienza e di una civiltà altra è stato più volte ripetuto nella storia.

In particolare Toynbee lo ritiene uno dei tipi di comportamento tenuti dalle comunità umane non facenti parte della civiltà (del cristianesimo) occidentale di fronte all’espansione planetaria di questa.

Del rifiuto (opposto all’assimilazione/accettazione) riteneva “campioni” (tra gli altri rifiutanti) il Giappone ante-rivoluzione Meiji e l’Abissinia; dell’accettazione (modernizzazione) considerava le più tipiche figure storiche Pietro il Grande, Mehmet Alì e gli statisti giapponesi dell’epoca Meiji[32]. Ma il rifiuto della tecnica e della tecnologia era la conseguenza/risultanza dal rifiuto dell’intera civiltà occidentale, nei suoi valori come nell’organizzazione sociale (diritto compreso), oltre che della tecnologia, e quindi, in parte, coincide con il primo tipo di scelta.

Anche se è ipotizzabile teoricamente un’opposizione sulla tecnica, questa non appare in concreto, quale determinante reale del conflitto, e neppure può costituire, se non in ruolo ancillare[33], un fattore decisivo e legittimante del potere. Ogni situazione conflittuale e non conflittuale, di inimicizia o di amicizia; il dissenso o il consenso di valori od interessi è rimessa alla volontà umana, mentre la scelta tecnica (e la validità di questa) non è preferenza di volontà, ma di congruità ed opportunità.

La situazione contemporanea, a seguito del collasso del comunismo (e delle istituzioni-alleanze che ne determinavano il campo) ha fatto cessare l’opposizione borghese/proletariato che ha connotato (quanto meno) il “secolo breve”. Le recenti affermazioni elettorali di movimenti e candidati non riconducibili al vecchio Zentralgebiet, in Europa innanzitutto, e, come appare dall’elezione di Trump, anche negli USA, fanno emergere una nuova opposizione amico/nemico, ideologicamente meno definita, ma, almeno potenzialmente, virulenta. Appare evidente che tale contrapposizione, come mi è capitato di scrivere di recente, è quella tra nazione (identità nazionale) e globalizzazione[34]; (o internazionalismo “diretto”). Rispetto ai vecchi  “Zentralgebiet”, specialmente quello generante l’opposizione borghesia/proletariato, ha in comune il carattere di essere divisiva sul piano interno non meno che su quello esterno: genera partiti populisti che si contrappongono all’élite interne ed internazionali, rappresentate dai vecchi partiti in decadenza, la cui strategia di sopravvivenza è spesso coerente con l’emergere della nuova opposizione (che rende secondaria e poco rilevante la vecchia): tendono all’arroccamento, al fare blocco tra loro (la vecchia destra e la vecchia sinistra), per impedire la presa del potere alla nuova “coppia” amicus-hostis[35].

Anche se, spesso, più che di arroccamento è il caso di parlare di divergenze parallele. Ma le divergenze parallele sono una delle fonti delle alleanze tra soggetti differenti su tanto o tutto (o tanto) ma uniti dal nemico.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

[1] V. op. cit., trad. it. Milano 1970, p. 40.

[2] Op. cit., p. 38.

[3] Il concetto del politico in Le categorie del politico, Bologna 1972, p. 110.

[4] Op. cit., p. 114 (il corsivo è mio)

[5] V. “L’equivalenza ‘politico’ = ‘politico-di partito’ è possibile allorché l’idea di unità politica (lo «Stato») comprende tutto e in grado di relativizzare tutti i partiti politici al suo interno e le loro conflittualità…Quando all’interno di uno Stato i contrasti fra i partiti politici sono divenuti «i» contrasti politici tout-court, allora viene raggiunto il grado estremo di sviluppo della «politica interna», cioè diventano decisivi per lo scontro armato non più i raggruppamenti amico-nemico di politica estera, bensì quelli interni allo Stato”, op. cit., p. 115.

[6] E prosegue “Da queste contrapposizioni specifiche di questi settori della vita umana non è possibile far discendere il raggruppamento amico-nemico e perciò neppure la guerra. La guerra non ha bisogno di essere né religiosa, né moralmente buona né redditizia”, op. cit., p. 119.

[7] Op. loc. cit., e prosegue “Il problema continua dunque ad essere sempre lo stesso: se cioè un raggruppamento amico-nemico di tal genere esista oppure no come possibilità reale o come realtà, senza che importi quali motivi umani sono forti abbastanza da provocarlo”.

[8] V. in Le categorie del politico, cit. p. 167 ss.

[9] V. “L’umanità europea ha compiuto, dal XVI secolo, parecchi passi da un centro di riferimento all’altro e che tutto ciò che costituisce il contenuto del nostro sviluppo culturale si trova sotto l’influsso di quei passi. Negli ultimi quattro secoli della storia europea la vita spirituale ha avuto quattro centri diversi, e il pensiero dell’élite attiva, che costituiva il gruppo di punta nei diversi momenti, si è mosso, nei diversi secoli, intorno a centri di riferimento diversi”, op. cit., p. 169.

[10] Op. cit., p. 173; e prosegue “Così per un’epoca teologica tutto procede da sé, una volta ordinate le questioni teologiche; su tutto il resto allora gli uomini «saranno d’accordo». Lo stesso per le altre epoche” (il corsivo è mio).

[11] Op. cit., p. 174 (il corsivo è mio).

[12] Op. loc. cit.

[13] Op. cit., p. 178.

[14] Op. cit., p. 179, e prosegue “Le costruzioni di Saint-Simon e di altri sociologhi che aspettavano una società «industriale» sono o non tecniche allo stato puro, bensì mescolate in parte cpon elementi morale-umanitari, in parte con elementi economici, oppure semplicemente fantastiche. Neppure una volta la guida e la direzione dell’economia odierna è stata nelle mani dei tecnici e finora nessuno è ancora riuscito a costruire un ordine sociale guidato da tecnici in modo diverso da come avrebbe costruito una società senza guida e senza direzione”.

[15] “Le nostre opinioni sugli Dei, la nostra sicura scienza degli uomini ci insegnano che da sempre, per invincibile impulso naturale, ove essi, uomini o Dei, sono più forti, dominano, Non siamo noi ad aver stabilito questa legge, non siamo noi che questa legge imposta abbiamo applicata per primi. Era in vigore quando ce l’hanno trasmessa, e per sempre valida la lasceremo noi che la osserviamo con la coscienza che anche voi, come altri, ci imitereste se vi trovaste al nostro grado di potenza” La guerra del Peloponneso, V, 105.

[16] A proposito di de Gaulle l’Europa, dall’Atlantico agli Urali, rivelava chiaramente l’aspirazione a relativizzare l’ostilità tra Nato e Patto di Varsavia e così la scriminante.

[17] Essence di Politique, Paris 1965 p. 496

[18] V. G. Gentile, Genesi e struttura della società, rist. Firenze 1987, p. 125.

[19] Scrive Gentile che lo Stato vivo (cioè vitale) ha necessità del sentimento politico “Questa struttura dev’essere viva; come può essere soltanto se è un sentire: sentimento politico, segreta scaturigine di ogni passione con cui si dispiegherà l’attività politica dell’individuo; inaridita la quale, l’azione politica, priva di sincerità e calore, si vuoterà d’ogni energia costruttiva, e decadrà a semplice velleità dilettantesca” e prosegue “Quanto più vigoroso tale sentire, tanto più potente ed efficace l’azione politica” op. cit. p. 126

[20] Questo appare il significato che al consenso da Gentile “Come il diritto positivo è negato nell’attualità dell’azione etica, così ogni opposizione di Governo e governati cade nel consenso di costoro, senza del quale il Governo non si regge. Questo consenso sarà spontaneo, o sarà coatto. E la moralità dello Stato, in cui il Governo esercita la sua autorità, richiede un massimo di spontaneità ed un minimo di coazione; senza che l’una possa mai star da sé, scompagnata dall’altra…perché nessuno dei due termini può stare senz’altro; e la necessità della loro sintesi deriva dalla profonda natura sintetica dell’atto spirituale” op. cit. p. 60

[21] Scrive Gentile “La pace si determina e definisce in un sistema, che è l’ordine sociale, il cui mantenimento è il primo assunto in ogni Stato; e alla conservazione, a tale essenziale e fondamentale e fondamentale bisogna, nessuno potrà pretendere mai che basti a provvedere la polizia. La quale potrà aiutare a tal fine; ma se l’ordine regni negli animi per virtù del sentimento politico in cui lo Stato s’impianta e da cui soltanto può ricavare le sue linfe vitali. La polizia è una medicina. Ma come non c’è medicina che possa mantenere im vita un organismo minato da un interno principio di disfacimento, non c’è polizia che possa restituire la sanità del corpo dello Stato da cui sia sfuggitala vis medicatrix naturae”op. cit. pp.124-125

[22] In effetti De Maistre scrive che “è l’immaginazione che perde le battaglie”, ma, in certa misura, vale anche per le guerre Soirées de Saint-Petersbourg, trad. it. p. 407, Milano 1970. A tale proposito tale conclusione ne era tratta da Gustave Le Bon il quale sosteneva che spesso “La disfatta non è evidentemente che il risultato di un impressione meramente psicologica e nient’affatto un’ineluttabile necessità” (v. Psicologia politica, Roma 1997, p. 93).

[23] Questa è stata la conclusione di molte guerre di liberazione: da quella vietnamita a quella d’Algeria, alla sovietico-afgana (e molte altre).

[24] Spesso tali esternate intenzioni corrispondono allo scopo reale, ma, almeno altrettante volte, non è così.

[25] Quali esempi nella storia moderna, si possono ricordare, per il primo tipo, la caduta dei governi (e poi dei regimi) di socialismo reale nell’est-europeo; anche se, nel caso, l’intervento dell’antagonista (gli USA e la NATO) è stato poco rilevante e del tutto indiretto. Infatti la causa endogena, ovvero l’impopolarità dei regimi che rendeva problematico il rapporto amicale tra governanti e governati, è stato totalmente (o quasi totalmente) determinante. Ciò conferma tuttavia che il rapporto amicale è decisivo: senza questo, alla lunga, qualsiasi regime politico crolla, anche senza l’intervento di altri soggetti poilitici. Altro caso, dello stesso tipo anche se ottenuto in parte con mezzi militari è la crisi di Cipro nel 1974 e la caduta del governo Joannides; del secondo, la fine del regime è stato il crollo zarista e la presa del potere da parte dei bolscevichi; del terzo la fine della Cecoslovacchia nel 1939 con l’assorbimento nel Reich di Boemia e Moravia e la nascita della repubblica slovacca di mons. Tiso. In tutti questi (ed altri) casi i mezzi militari non sono stati usati per nulla o, se usati, non sono stati decisivi. A esserlo è stata l’attenuazione o la scomparsa del rapporto amicale e del sentimento ostile.

[26] A. Gentili op. cit. p. 78 o anche nel discorso di Cromwell citato da Carl Schmitt “[Perché infatti il vostro grande nemico è lo Spagnolo. Egli è un nemico naturale. Ed è naturalmente così, a causa di quell’inimicizia  che è in lui o contro tutto ciò che è di Dio. Tutto ciò che di Dio è in voi, o potrebbe essere in voi]. Poi egli ribadisce: lo spagnolo è il vostro nemico, la sua «enmity is put into him by God» [inimicizia è posta in lui da Dio], egli è «the natural enemy, the providential enemy» [il nemico naturale, il nemico provvidenziale], che lo ritiene un «accidental enemy» [nemico accidentale] non conosce la Scrittura e le cose di Dio, il quale ha detto: «Io porrò inimicizia  fra il tuo seme e il suo seme» (Genesi, III, 15)” V. C. Schmitt in Der begriff des politischen rad. It. ne Le categorie del politico (cit. p. 154).

[27] Sempre A. Gentili sostiene che “Se esistessero davvero delle cause dipendenti dalla natura, la guerra che ne conseguirebbe sarebbe sicuramente giusta. Ma cause  di questo genere non esistono Gli uomini non sono nemici tra di loro per natura; sono le attività e i costumi che, a seconda della loro compatibilità o incompatibilità, li inducono alla concordia o alla discordia” op. cit. p. 80.

[28] Sulla scorta di due noti frammenti di Digesto è normalmente escluso che possa esserlo chi non è sovrano (e per cause non pubbliche) Dig. L, 16, 118 (Pomponio) e Dig. XXXXVIIII, 15,24 (Ulpiano)

[29] Sul punto v. Santi Romano voce Rivoluzione in Frammenti di un dizionario giuridico, cit. p. 224.

[30] V. La democrazia in America, trad. it. Torino 1968, p. 811 ss.; si può anche ricordare, quale integrazione al giudizio di Tocqueville quanto scrive Schmitt “Grandi masse di popoli industrializzati aderiscono ancora oggi ad una cupa religione del tecnicismo poiché esse, come tutte le masse, cercano la conseguenza radicale e credono di aver trovato qui la spoliticizzazione assoluta che si rincorre da secoli e con la quale cessa la guerra ed inizia la pace universale. Eppure la tecnica non può far nulla quanto a facilitare la pace o la guerra, essa è pronta ad entrambe le soluzioni allo stesso modo e non muta nulla richiamare o scongiurare la pace. Ormai siamo in grado di penetrare la nebbia dei nomi e delle parole con le quali lavora la macchina psicotecnica della suggestione di massa”.

[31] Anche se oggi, come nei secoli passati per lo più contrasto del genere non hanno dato luogo a conflitti tra simbiosi politiche, la contrapposizione nella lotta politica interna anche se minore è sempre riconducibile alla coppia amico-nemico.

[32] “Esempi notevoli di statisti di stampo occidentale nel primo secolo dopo l’inizio della Rivoluzione industriale in Inghilterra sono Ranjit Singh (sul trono dal 1799 al 1839), il fondatore dello stato sikh epigone dell’impero afghano degli Abdali, nel Punjab; Mehmet Alì, viceré del padishah ottomano in Egitto dal 1805 al 1848; il padishah ottomano Mahmud II (che regnò dal 1808 al 1839) il re Mongkut di Thailandia… Questi Stati occidentaleggianti ebbero sulla storia dell’Ecumene conseguenze più importanti di qualunque altro stato loro contemporaneo d’Occidente: avevano contenuto l’egemonia dell’Occidente e avevano realizzato questa impresa proprio attraverso la diffusione, nelle terre non occidentali, del suo moderno sistema di vita”, v. Il racconto dell’uomo, Garzanti 1977, p. 574; e per il rifiuto “Nel 1632 gli Abissini (gli odierni Etiopi) espulsero i Portoghesi e anche i gesuiti di ogni nazionalità, per isolarsi dal resto dell’Ecumene, senza ricorrere ad alcun aiuto straniero. Quasi contemporaneamente, i Giapponesi seguivano l’esempio: Hideyoshi aveva ordinato già dal 1587 l’espulsione dei missionari cristiani, e nel 1614 il governo tokugawa promulgava un editto che metteva al bando in Giappone la pratica del cristianesimo”, op. cit., p. 539

[33] Anche se talvolta la funzione ancillare riveste un ruolo, anche se secondario, comunque rilevante

[34] V. Nazione e globalizzazione in Nova Historica anno 15, n. 56 2016, pp. 39 ss.

[35] Il fatto si è ripetuto con le regionali francesi, ossia con la “desistenza” tra socialisti e gaullisti per impedire che il Front national governasse delle regioni francesi; con lo sbarramento nelle presidenziali austriache ad Hofer, manifestatosi nell’invito dei socialisti e dei popolari a votare Van der Bellen al secondo turno ed anche nella recente elezione di Trump che ha dovuto lottare prima con lo scarso gradimento dei repubblicani, poi con la candidata democratica manifestamente preferita dall’establishment. Anche se in questo caso più che di arroccamento è il caso di parlare di divergenze parallele. Ma le divergenze parallele sono una delle fonti delle alleanze tra soggetti differenti su tutto (o tanto) ma uniti dal nemico.

La complessità di un mondo multipolare. Videointervista a Pierluigi Fagan_1a parte

Qui sotto il link della prima delle tre parti dell’intervista. Pierluigi Fagan ha svolto per oltre venti anni la professione di imprenditore e manager. Da oltre tredici si è dedicato intensamente allo studio in vari campi, privilegiando in particolare l’ambito filosofico e teorico-politico. Nel 2016 ha pubblicato un libro edito da Fazi dal titolo: VERSO UN MONDO MULTIPOLARE, il gioco di tutti i gioche nell’era Trump. Buon ascolto

REPLICA    DI MASSIMO MORIGI A “CIRCA IDENTITÀ E UNIVERSALISMO: DIALOGHI REPUBBLICANI” DI ALESSANDRO VISALLI

REPLICA DI MASSIMO MORIGI A “CIRCA IDENTITÀ E UNIVERSALISMO: DIALOGHI REPUBBLICANI” DI ALESSANDRO VISALLI

(AGLI URL http://italiaeilmondo.com/2018/03/20/circa-identita-e-universalismo-dialoghi-repubblicani-di-alessandro-visalli/ E https://tempofertile.blogspot.it/2018/03/circa-identita-e-universalismo-dialoghi.htmlWebCite: http://www.webcitation.org/6y9MwYd6S E http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F03%2F20%2Fcirca-identita-e-universalismo-dialoghi-repubblicani-di-alessandro-visalli%2F&date=2018-03-24)

Caro Visalli, in questa mia ulteriore  replica alle tue ultime stimolanti considerazioni sul problema identitario mi permetto di citarti iniziando dal finale del tuo articolo dove vi si afferma: «l’idea di libertà come egoismo non limitato, spesso connessa internamente con lo scientismo, è strutturalmente e geneticamente connessa con l’inibizione dell’azione collettiva e milita contro quella che Taylor chiama la “libertà pubblica”. La “libertà privata” atomistica impedisce l’affermazione della “libertà pubblica”, l’autorealizzazione individualista con la lealtà collettiva. La questione è dunque politica.» Sono d’accordo in tutto e per tutto, specialmente nell’ultima frase dove si dice che il problema dell’identità ruota totalmente intorno alla politica. Ma, come si dice, “il diavolo è nei dettagli” ed è quindi necessario chiarire molto bene cosa si intende per ‘politica’ e come si intende la natura della ‘politica’. Ora la mia forte impressione è che per politica nel tuo ultimo contributo s’intenda un’attività culturale  che si contrappone alla naturalità dell’uomo, la quale naturalità umana, sovente agonistica e violenta, se ben diretta da una “buona politica” riesce a mettere la sordina agli spiriti belluini dell’uomo (fra i quali primeggia l’autoriconoscersi dei gruppi umani con specifiche identità); se invece eccitata da una “cattiva politica” funge da tragico moltiplicatore di queste tendenze violente e distruttive. Su questo punto dissento radicalmente. Non è questa la sede per ripercorrere partitamente l’epistemologia che sotto la definizione di ‘Repubblicanesimo Geopolitico’ è stata sviluppata per contestare alla radice la suddivisione, originata in primo luogo dalla rivoluzione scientifica galileana, fra natura e cultura, due punti di vista di conoscenza della realtà che possono venire unificati alla luce del modello dell’azione dialettico-conflittuale-strategica (modello dell’azione dialettico-conflittuale-strategica per il quale si rimanda, per chi ne voglia  per sommi capi ripercorrere la teoria,  a Repubblicanesimo Geopolitico Anticipating  Future Threats. Dialogo sulla moralità del Repubblicanesimo Geopolitico più breve nota all’intervista del CSEPI a La Grassa (di Massimo Morigi), agli URL https://archive.org/details/MARXISMO_345  e https://ia601909.us.archive.org/4/items/MARXISMO_345/MARXISMO.pdf ; WebCite:    http://www.webcitation.org/6o8vF7WLt  e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia601909.us.archive.org%2F4%2Fitems%2FMARXISMO_345%2FMARXISMO.pdf&date=2017-02-09; ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/309427489_Repubblicanesimo_Geopolitico_Anticipating_Future_Threats_Dialogo_sulla_Moralita_del_Repubblicanesimo_Geopolitico_piu_Breve_Nota_all%27Intervista_del_CSEPI_a_La_Grassa_di_Massimo_Morigipdf: DOI: 10.13140/RG.2.2.11532.72320  e  a Dialecticvs Nvncivs. Il punto di vista del Repubblicanesimo Geopolitico attraverso i Quaderni del Carcere e Storia e Coscienza di Classe per il rovesciamento della gerarchia della spiegazione meccanicistico-causale e dialettico-conflittuale, per il rinnovamento degli studi marxiani e marxisti e per l’Aufhebung della gramsciana   e   lukacsiana   Filosofia   della  Praxis, agli URL https://archive.org/details/DialecticvsNvncivs_201701  e https://ia801509.us.archive.org/26/items/DialecticvsNvncivs_201701/Dialecticvs%20Nvncivs.pdf; WebCite:  http://www.webcitation.org/6o8wW4znJ e http://www.webcitation.org/query?url=https%3A%2F%2Fia801509.us.archive.org%2F26%2Fitems%2FDialecticvsNvncivs_201701%2FDialecticvs%2520Nvncivs.pdf&date=2017-02-09; ResearchGate: https://www.researchgate.net/publication/313278043_Dialecticvs_Nvncivs_Il_punto_di_vista_del_Repubblicanesimo_Geopolitico_attraverso_i_Quaderni_del_Carcere_e_Storia_e_Coscienza_di_Classe_per_il_rovesciamento_della_gerarchia_della_spiegazione_meccanici: DOI: 10.13140/RG.2.2.29749.47842. Dialecticvs Nvncivs è stato inoltre pubblicato anche sul presente  blog  “L’Italia e il Mondo”,  agli URL   http://italiaeilmondo.com/2016/12/13/dialecticus-nuncius-di-massimo-morigi/ e http://italiaeilmondo.com/category/agora/; WebCite: rispettivamente http://www.webcitation.org/6oBwn5kXP e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2016%2F12%2F13%2Fdialecticus-nuncius-di-massimo-morigi%2F&date=2017-02-11 e http://www.webcitation.org/6oBx5xZNt e http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2Fcategory%2Fagora%2F&date=2017-02-11), e non è nemmeno la sede per argomentare che non solo la cultura politica ma anche la cosiddetta cultura scientifico-naturalistica devono ripartire dallo Zoòn Politikòn  aristotelico dove, almeno per rimanere alle scienze umane, è di tutta evidenza che per lo stagirita il ‘politico’ (o il sociale a seconda dalla traduzione, ma è altrettanto chiaro che si tratta di un problema di traduzione tutto nostro, perché per Aristotele evidentemente tale distinzione non avrebbe avuto senso) è tutto fuorché non naturale e non costitutivo della naturalità (e quindi della politicità e/o della socialità) dell’uomo, ma forse non è inutile sottolineare che a modesto giudizio dello scrivente questa artificiosa suddivisione fra natura e cultura (e quindi, per diretto riflesso, fra natura e politica), è responsabile della discutibile affermazione che «Quel che possiamo provare a nominare come ‘i popoli’ (che poi a grandi linee sono solo le loro élite e le clientele ad esse connesse in vario modo, e quindi facenti parte del ‘modo di produzione’ tributario ad esse) hanno sempre sviluppato una loro specificità, e quindi ciò che oggi chiamiamo una loro ‘identità’, ma quanto ad avvertirla il passo non è sempre automatico», dove l’elemento discutibile non è tanto la giusta sottolineatura del fatto che «le élite e le clientele», detto in parole povere, “ci marciano” sul sentimento identitario dei gruppi umani ma quello che sembra sottintendere il passaggio testé citato, e cioè che il senso – e il bisogno – di identità dei gruppi umani sia un prodotto di pretta natura  “culturale” ed essendo come tale politico, cioè frutto di una “cattiva politica”, può essere curato e domato da una “buona politica” che ponga ai vari gruppi umani altri obiettivi che non siano identitari, vale a dire la ricerca all’interno di questi gruppi di una maggiore giustizia. Ora su questo punto occorre essere molto chiari. Non c’è bisogno di ricorrere ad esempi storici per mostrare che le élite sul bisogno identitario ci abbiano “marciato” ma è un terribile errore prospettico affermare che le élite abbiano ad arte creato questo bisogno del quale, mi scuso per il gioco di parole, non c’era alcun bisogno e che in natura sarebbe addirittura inesistente. Non è qui il caso di fare un corso di antropologia culturale in sessantottesimo ma è di tutta evidenza non solo che l’evoluzione dell’homo sapiens (per limitarci alla specie che per ovvie ragioni conosciamo meglio ma il discorso è per lo meno estendibile anche ad altre specie animali che hanno sviluppato strategie di sopravvivenza di gruppo, cioè in pratica tutte, e non escludiamo le specie vegetali) sia dal punto di vista biologico che culturale è avvenuta all’interno di gruppi che avevano sviluppato linguaggi specifici e quindi identità escludenti gruppi concorrenti dotati di altre espressioni linguistiche e/o di trasmissione di informazioni ma è anche altrettanto evidente che senza questo presa di coscienza di alterità rispetto agli altri gruppi umani (coscienza di alterità culturale e naturale al tempo stesso) non ci sarebbe stata alcuna evoluzione umana (sull’inestricabile nesso fra l’evoluzione culturale, la sua trasmissione di generazione in generazione e su come questa  evoluzione-trasmissione culturale abbia fortissime ricadute anche nella modificazione del genotipo non solo della specie umana ma anche delle altre specie animali, in uno schema che riprende,  integra e sviluppa dialetticamente sul modello darwiniano di pura selezione meccanica il precedente schema lamarkiano dove l’organismo ed il gruppo in cui questo organismo è collocato svolgono un ruolo attivo e culturalmente mediato e non solo passivo come nel darwinismo, si consigliano, oltre al Dialectical Biologist di Richard Lewins e Richard Lewontin – Richard Lewins, Richard Lewontin, The Dialectical Biologist, Harvard University Press, 1985 –  i fondamentali lavori di Eva Jablonka sull’epigenetica, in particolare Eva Jablonka, Marion J. Lamb,  Evolution in Four Dimensions: Genetic, Epigenetic, Behavioral, and Symbolic Variation in the History of Life, Bradford Books/The MIT Press. 2005). Concludo  con Hannah Arendt citando il suo  Sulla rivoluzione dove la filosofa politica tedesca esule negli Stati uniti per ragioni razziali e assunta  poi la cittadinanza statunitense, parlandoci del   miracolo non miracolo dell’azione (non miracolo perché evento totalmente terreno, miracolo perché l’azione consente all’uomo di vincere la sua mortalità sia attraverso il lustro che gli può conferire una grande e gloriosa azione ma, soprattutto, perché l’agire dà inizio ad una catena infinita di eventi che va oltre la vita dell’uomo), lega quest’azione al principio naturale della generazione vitale e della  crescita, generazione vitale e crescita  che a loro volta sono hic et nunc possibili solamente qualora si instauri, di generazione in generazione, una  consapevole  tradizione di passaggio  di queste possibilità creative e di azione. In questo discorso Hannah Arendt sovrapponeva il paradigma culturale dell’antica Roma all’azione dei padri fondatori degli Stati uniti, e in questa sorta di anacronismo non si fa molta fatica ad intravedere il problema identitario di un’ebrea tedesca che aveva perso la sua patria e doveva trovarsene e crearsene un’altra. Ma nonostante l’anacronismo di paragonare in On Revolution (Hannah Arendt, On Revolution, The Viking Press, 1963) Roma antica agli Stati unti, queste parole  di Hannah Arendt, volendo andare al di là delle peculiari  situazioni storiche  che vi vengono trattate  e comparate, la tradizione culturale-religiosa della Roma antica e  la rivoluzione americana, costituiscono uno dei più grandi contributi in merito alle dinamiche identitarie (indubbiamente autoperformative, quindi culturali, ma non per questo innaturali, anzi esattamente il suo contrario) e all’errore che si  commette qualora queste dinamiche vengano considerate come una sorta di epifenomeno culturale trattabile con giuste politiche piuttosto che come un bisogno naturale e culturale dell’uomo e indispensabile non solo per la sua evoluzione ma anche perché la sua natura rimanga una natura umana e quindi in grado di crescere, generare e creare, contrapponendosi quindi alla meccanizzazione della sua cultura e della sua psiche; una meccanizzazione che, sia detto per inciso, non è iniziata con la rivoluzione industriale ma è l’inevitabile portato, verificatosi in tutte le epoche dell’uomo, dell’azione delle elite, ma non in quanto queste intendono “marciare” sui problemi indentitari ma quando questi gruppi ristretti, in nome di astratti principi, intendono annullare e gettare nel bidone della storia il naturale e culturale bisogno identitario  dei gruppi umani: «Nella persona dei senatori romani continuavano ad essere presenti i fondatori di Roma, e con loro era presente lo spirito della fondazione, il cominciamento, il principium e il principio di quelle res gestae che da quel momento in poi formeranno la storia del popolo romano, giacché l’auctoritas, la cui radice etimologica è augere, accrescere e aumentare, dipendeva dalla vitalità dello spirito di fondazione, in virtù della quale era possibile aumentare, accrescere ed ampliare le fondamenta che erano state gettate dai progenitori. L’ininterrotta  continuità di questo accrescimento e l’autorità insito in esso potevano realizzarsi solo attraverso la tradizione, ossia attraverso la trasmissione, lungo la linea ininterrotta di successori, del principio stabilito all’inizio. Essere in questa ininterrotta linea di successori significa a Roma possedere autorità; e restare legati al principio dei progenitori in pio ricordo e con spirito conservatore significava avere pietas romana; essere “religioso” ovverossia “legato” alle proprie radici.» (Hannah Arendt, Sulla rivoluzione, Torino, Einuadi , 2006, pp. 230-231). Se si vuole uscire  da una visione meccanicista dell’uomo e della politica (espressione politico-ideologica della quale, il liberalismo-liberismo che vede la possibilità dell’espressione della creatività dell’uomo solo entro uno pseudo libero mercato dove operano liberamente  pseudo individualità: individualismo metodologico, ed espressione scientista della stessa nella c.d.  sociobiologia  che chiude gli occhi di fronte al legame dialettico fra organismo, gruppi di organismi e l’ambiente che viene modificato, oltre a modificare, dagli organismi stessi ) e, nel contempo, non ricadere nella “pappa del cuore” del politicamente corretto dei “sacri” principi politici universalistici nati dalla rivoluzione dell’ ’89 del Secolo decimo ottavo ma senza per questo rifugiarsi stolidamente in un reazionarismo da alleanza fra trono e altare e degli allegri compagni del pensiero controrivoluzionario (e sui rischi di una frequentazione troppo entusiasta dei quali, Joseph-Marie de Maistre, Louis de Bonald, Juan Donoso Cortés,  la paradigmatica vicenda politica ed umana  del giuspubblicista fascista Carl Schmitt ha molto da insegnarci), penso che queste parole di Hannah Arendt costituiscano un perfetto viatico e, perché no? non per mettere irenicamente d’accordo ma per fornire una medesima “fusione d’orizzonti” fra le posizioni espresse dal sottoscritto  e quelle magistralmente illustrate dall’amico Alessandro Visalli.

 

P.S.  Per completezza di comprensione di questa mia ultima risposta ad Alessandro Visalli, non è forse inutile ripercorrere i primi passi di questo dibattito teorico sul problemi identitari avvenuto sull’ “Italia e il mondo”. Ovviamente, per brevità e per non iniziare un altro intervento, si tratta di un andare a ritroso solamente bibliografico, lasciando i commenti e le riflessioni ai lettori. Tutto è iniziato con l’ottimo contributo di Roberto Buffagni sui tragici fatti di Macerata per poi continuare fra commenti e risposte del sottoscritto e di altri lettori dell’ “Italia e il mondo” – che hanno toccato anche il tema del malefico mito identitario che va sotto il nome di antifascismo –  sino all’odierna mia risposta ad Alessandro Visalli (non si danno i titoli dei vari interventi e contributi ma solo gli URL e i “congelamenti” su WebCite): http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://www.webcitation.org/6x87pr86F; http://www.webcitation.org/6x886y1nC;http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://www.webcitation.org/6x9EFQqT4;http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://www.webcitation.org/6xCnA0lmK; http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/#comments; http://www.webcitation.org/6xInS3p6S; http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F02%2F07%2Fintorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni%2F%23comments&date=2018-02-17; http://italiaeilmondo.com/2018/02/07/intorno-ai-fatti-di-macerata_-non-ce-piu-religionedipende-di-roberto-buffagni/; http://www.webcitation.org/6xJAwBIIo;http://www.webcitation.org/6xJBK3kDc;http://italiaeilmondo.com/2018/02/20/letture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli/;http://www.webcitation.org/6xQLEqyD5;http://italiaeilmondo.com/2018/02/20/letture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli/#comments; http://italiaeilmondo.com/2018/02/20/letture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli/#comments;http://www.webcitation.org/6xWZB8SPD;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F02%2F20%2Fletture-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni-di-alessandro-visalli%2F%23comments&date=2018-02-26; http://italiaeilmondo.com/2018/02/23/considerazioni-a-margine-di-lettura-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni_-di-massimo-morigi/; http://www.webcitation.org/6xcbBIQNN;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F02%2F23%2Fconsiderazioni-a-margine-di-lettura-sul-dramma-di-macerata-lo-scontro-delle-secolarizzazioni_-di-massimo-morigi%2F&date=2018-03-02; http://italiaeilmondo.com/2018/03/01/identita-e-universalismo-un-dialogo-di-alessandro-visalli/; http://www.webcitation.org/6xcaJuM6L; http://italiaeilmondo.com/2018/03/04/replica-a-identita-e-universalismoun-dialogo-dal-punto-di-vista-del-repubblicanesimo-geopolitico-di-massimo-morigi/; http://www.webcitation.org/6xfajD50m;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F03%2F04%2Freplica-a-identita-e-universalismoun-dialogo-dal-punto-di-vista-del-repubblicanesimo-geopolitico-di-massimo-morigi%2F&date=2018-03-04;http://italiaeilmondo.com/2018/03/10/a-proposito-delle-elezioni-del-4-marzo-di-massimo-morigi/; http://www.webcitation.org/6xqFvZtVo;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F03%2F10%2Fa-proposito-delle-elezioni-del-4-marzo-di-massimo-morigi%2F&date=2018-03-11;http://italiaeilmondo.com/2018/03/18/dal-xxi-podcast-di-gianfranco-campa-suggestioni-sullodierna-natura-della-democrazia-e-sul-mito-dellantifascismo-di-massimo-morigi/;http://www.webcitation.org/6y1nzhUck;http://www.webcitation.org/query?url=http%3A%2F%2Fitaliaeilmondo.com%2F2018%2F03%2F18%2Fdal-xxi-podcast-di-gianfranco-campa-suggestioni-sullodierna-natura-della-democrazia-e-sul-mito-dellantifascismo-di-massimo-morigi%2F&date=2018-03-19.

 

 

Massimo Morigi – 24 marzo 2018

 

 

 

 

 

NOTE SU DIPENDENZA DEGLI STATI E GLOBALIZZAZIONE, di Teodoro Klitsche de la Grange

NOTE SU DIPENDENZA DEGLI STATI E GLOBALIZZAZIONE

Indice:

1) Posizione del problema; 2) Dipendenza giuridica e politica; 3) Forme e regolarità politiche; 4) Sovranità e indipendenza: Bodin 5) Transizione di epoche e idee della globalizzazione; 6) Loro inconvenienti; 7)  Fini della politica; 8) Conclusione.

1.0 Il pianeta è diviso tra tanti Stati sovrani, i quali formalmente – ossia sul piano giuridico – sono uguali, ma la cui differenza di potere reale ne riduce – correlativamente – la possibilità di esercitare (parzialmente) prerogative e diritti, in applicazione del detto di Spinoza per cui tantum juris quantum potentiae.

Santi Romano (tra i tanti) scriveva che «essendo la comunità internazionale, di regola, paritaria, nel senso che i suoi membri non dipendono l’uno dall’altro, ciascuno di essi… si dice che ha una sovranità perché non è in una posizione subordinata verso altri soggetti»[1]. Tuttavia, proseguiva, tale regola non è assoluta[2]; ma derogarne è sicuramente un’eccezione[3]. Ed occorre distinguere «l’appartenenza ad un’unione amministrativa o alla Società delle nazioni, tanto meno una semplice alleanza, non significa da per sé perdita della sovranità. Viceversa, gli Stati soggetti a protettorato o alla tutela della Società delle nazioni sono eccezionalmente degli Stati internazionalmente non sovrani, cioè subordinati agli Stati protettori o alla Società medesima, che, rispetto ad essi, sono quindi sovrani». Secondo il giurista siciliano, contrariamente all’opinione di altri «la verità è invece che lo Stato protetto, come quello tutelato, non assume solo obbligazioni singole e determinate, ma entra in un complesso “status subiectionis”, si sottomette ad altri soggetti per una sfera più o meno ampia della sua personalità, e tutto ciò riguarda non la sua libertà nel campo dei rapporti veramente obbligatorii, ma la sua posizione d’indipendenza, la sua sovranità e, come conseguenza, anche la sua capacità».

Effetto della mancanza di sovranità è «la limitazione della capacità internazionale degli Stati protetti o tutelati: limitazione che si ha anche…. verso i terzi, il che conferma (trattarsi)… di una posizione personale»[4].

Tale limitazione di capacità non è incompatibile con la personalità internazionale[5]; come conferma, scrive Santi Romano, la condizione degli Stati vassalli (dell’Impero ottomano).

Diverso era il regime giuridico delle colonie, in particolare perché la presenza dello Stato colonizzatore si estendeva anche all’amministrazione interna e diffusa dei territori coloniali.

Tutte tali classificazioni hanno il connotato comune di essere giuridiche – e non solo politiche – e di tradursi in modificazioni degli ordinamenti (e dei collegamenti tra questi) e della normativa conseguente.

Tuttavia, vi sono altre forme di dipendenza assai note, che rispettano formalmente il carattere sovrano dello Stato dipendente[6].

Così ad esempio all’epoca della Guerra Fredda si parlava di «Stati-satellite» in relazione agli Stati dell’Est europeo a regime comunista, quali nazioni egemonizzate da una grande potenza, ma formalmente sovrane (tale carattere era, di rimando, attribuito da oltre cortina a Stati facenti parte della Nato, come Italia e Germania Ovest). Tenuto conto che il dominio politico della potenza egemone nell’Est europeo era esercitato attraverso «partiti fratelli» (comunisti) più che regolamentato in istituti giuridici (i quali comunque, non mancavano) il termine era adeguato alla realtà politica. Com’era naturale, il crollo del comunismo fu anticipato dalla de-comunistizzazione di alcuni di tali Stati e la regolamentazione giuridica dello stato di «satellite», seguì la fine politica dei partiti comunisti.

Stato-fantoccio è un concetto assai prossimo a quello di Stato-satellite. Per lo più l’espressione è usata per Stati – o regimi politici – che devono la loro esistenza a un soggetto più potente, quasi sempre un altro Stato. Spesso è un modo per esercitare l’occupazione militare: in altri casi, anche se il rapporto di «filiazione» tra Stato fantoccio e sconfitta – occupazione militare è (quasi) una regolarità, lo Stato-fantoccio subentra all’occupazione. Non è detto tuttavia che tale carattere implichi una subordinazione giuridica (anzi in genere non esiste) ma è dovuto a motivi politici e militari. Stati-fantoccio hanno ottenuto spesso anche il riconoscimento non solo delle potenze occupanti (o ex-occupanti) ma anche di Stati terzi.

2.0 La distinzione tra l’una e l’altra categoria di Stati per così dire «a sovranità limitata»  (o a indipendenza relativa) consiste sotto il profilo giuridico, dalla assenza, nel primo caso (protettorati, colonie) di una (completa) capacità internazionale, e sul piano interno dalla presenza di organi di «controllo»            (in effetti di governo o meglio – secondo i casi – di sorveglianza del governo) nominati dallo Stato protettore (ovvero dominante); nella seconda invece la capacità internazionale è piena e l’intromissione nelle attività di governo interne è esercitata (quasi) sempre per influenza politica sull’attività e spesso sulla nomina delle cariche di governo e/o di (alta) rilevanza politica.

Ovviamente in tale ultima classe, vale quanto scriveva Santi Romano per il protettorato (v. sopra): la forma e gli istituti concreti che il dominio politico può assumere non consente di tracciare confini netti; in astratto la differenza degli uni e degli altri è distinguibile agevolmente, in concreto no. Questo soprattutto perché il concetto di dipendenza politica è più ampio e determinante, ovvero è difficile che una dipendenza giuridica non si traduca in politica; nonché – e anche come conseguenza, perché le forme che il dominio assume possono cambiare senza che ne muti la sostanza. L’Egitto moderno ad esempio fu giuridicamente un protettorato della Gran Bretagna solo per pochi anni durante il primo conflitto mondiale, e poi fino al 1922. Ciò non toglie che prima e dopo la Gran Bretagna ne condizionava la politica in modo determinante, di guisa che l’Egitto «indipendente» fu teatro di battaglie tra potenze dell’Asse ed alleati nella seconda guerra mondiale, a quasi vent’anni dalla concessa «indipendenza».

3.0 Le forme (giuridiche) di dipendenza tra gli Stati (o tra Stati ed altri territori) costituiscono un reperto archeologico dopo la fine della seconda guerra mondiale e la decolonizzazione. È difficile trovare un trattato di diritto internazionale, di recente pubblicazione, che li prenda in esame. In qualche modo è comprensibile, atteso che di Stati protetti e di colonie (in senso giuridico, ben s’intende) non risulta che ne esista uno.

Peraltro l’esistenza di unità politiche «dipendenti» si riscontra costantemente nella storia. Lo erano la Giudea, l’Arabia Nabatea, l’Armenia (e altri) ai tempi dell’Impero romano. La Cipro dei Lusignano dipendeva da Venezia, la Transilvania dall’Ungheria nel Medioevo. Le repubbliche rivoluzionarie e poi i regni napoleonici dopo la rivoluzione francese dalla Francia. E così fino alla seconda guerra mondiale (ed oltre).

Tuttavia tale (apparente) assenza – a noi contemporanea – non significa che il rapporto di dominio sia venuto meno. Vale pur sempre la regolarità del politico esposta da Tucidide nel famoso dialogo tra gli ambasciatori ateniesi e i maggiorenti di Melo[7]. Pertanto il dominio (e la differenza tra rapporti di forza che presuppone) si esercita in modo diverso. Ciò per varie ragioni.

In primo luogo perché così viene occultato: non traducendo in istituti giuridici il rapporto di comando-obbedienza, questo è meglio nascosto. Si ubbidisce meglio e con minor resistenza a chi non comanda palesemente e con frastuono di «grida». Inoltre così è attenuata anche la responsabilità: uno Stato sovrano – anche se satellite o fantoccio – è responsabile pienamente dei propri atti (e omissioni), una colonia o un protettorato no (o non pienamente).

4.0 I giuristi, come Santi Romano, pongono il problema in termini giuridici (capacità-personalità); a un pensiero politico realista occorre qualcosa di diverso: più sein che sollen. Si può definire – com’è stato fatto – la sovranità come «competenza sulle competenze»; la si può denotare in un elenco di attività e funzioni (le vraies marques di Bodin); o come decisione sull’idea di diritto che debba valere nella comunità, o semplicemente negandola come fa Kelsen.

Ma, a basarla sul dato reale e concreto, la migliore definizione la si ricava da Sieyés, nelle sue considerazioni sulla Nazione, applicabili alla sovranità «La Nazione esiste prima di ogni cosa, essa è l’origine di tutto. La sua volontà è sempre conforme alla legge, essa è la legge stessa. Prima di essa e al di sopra di essa non c’è che il diritto naturale… una nazione non può né alienare né interdire a se stessa la facoltà di volere; e qualunque sia la sua volontà, non può perdere il diritto di mutarla qualora il suo interesse lo esiga»[8]. È il volere libero, il connotato sostanziale del sovrano.

La stessa impostazione che dava Bodin della sovranità ruota intorno alla volontà del sovrano ed ai suoi limiti, ovvero se sia obbligato dai trattati con gli Stati esteri; o dalla legge; o dalla costituzione; o dal diritto naturale[9].

Bodin si pone anche il problema se possa dirsi sovrano un principe che sia feudatario o tributario e inizia affermando «Abbiamo detto poc’anzi che si può dire sovrano solamente chi non dipende, eccezione fatta per Dio, altro che dalla sua spada. Se uno dipende da altri non è più sovrano»[10].

Nel capitolo successivo, dopo aver dato una soluzione così semplice (sovranità = non dipendenza da altri) Bodin espone quali sono le vraies marques de la souveraineté. E scrive: «Infatti, chi non riterrebbe sovrano colui che possa dettar legge a tutti i suoi sudditi, decidere la guerra e la pace, nominare tutti gli ufficiali e magistrati del paese, levare taglie e affrancare chi meglio creda, dar la grazia a chi abbia meritato la morte? Che altro ancora si può richiedere per considerare sovrano un principe?»[11]; ma subito dopo ritorna sullo stretto rapporto sovranità/indipendenza «come potrebbe essere sovrano chi riconosca la giurisdizione di un superiore il quale possa annullare i suoi giudizi, modificare le sue leggi, castigarlo se commette abusi?»[12] e aggiunge, in sostanza, che il tutto è un principio d’ordine[13].

Anche quando scrive della prima marque (cioè del potere di dare, modificare, abrogare le leggi) specifica «Perciò possiamo concludere che la prima prerogativa sovrana è il potere di dare la legge a tutti in generale e a ciascuno come singolo; ma ancora questo non è sufficiente, se non si aggiunge: “senza il bisogno del consenso di nessuno”. Se il principe dovesse attendere e osservare il consenso di un superiore, non sarebbe che un suddito; se di un uguale, avrebbe un compagno di potere; se dei sudditi, del senato o del popolo, non sarebbe sovrano».

Quando poi scrive di un’altra marque, quella di nominare gli alti magistrati, afferma: «Ma ho parlato di ufficiali più alti o di primi magistrati, perché in realtà non vi è Stato ove non sia permesso ai più alti magistrati e a certi corpi e collegi di eleggere qualche ufficiale minore»[14]; così quando tratta del potere di giudicare in ultima istanza (cioè – anche – di annullare le sentenze) sostiene «Ma, al contrario, quando il principe sovrano lascia il suo suddito o vassallo il potere del diritto di giudizio in ultima istanza, o addirittura delle prerogative sovrane che apparterrebbero a lui, egli fa del suddito un principe sovrano»[15].

Bodin doveva cercare di ricondurre alla propria teoria dello Stato (moderno) proiettata nell’avvenire, istituti e rapporti giuridici esistenti in un’età di transizione tra il vecchio ordine feudale (policratico) e il nuovo ordinamento statale; peraltro, forse perché era un giurista, finiva in qualche misura, anche nel cadere in un eccesso di giuridificazione della sovranità[16].

5.0 La teoria di Bodin elaborata, come scritto, in un’epoca di transizione (Hauriou chiamava epoche le diverse fasi di una civiltà o «era»; così l’epoca medievale o quella del rinascimento[17]), può essere rivisitata per valutare la situazione contemporanea anch’essa di transizione (assai avanzata) tra l’ordine westphaliano e uno futuro di cui si percepiscono i contorni.

All’uopo le maggiori differenze tra il vecchio e nuovo ordine sono:

1) Il carattere della globalizzazione. Ovviamente questa non è nata con la fine dell’ordine di Yalta (o con internet), come spesso creduto. Va avanti almeno dalle gradi «scoperte» dei navigatori europei dell’inizio dell’età moderna. La differenza tra il tempo di Filippo II e Elisabetta I e l’attuale è che, fino a qualche decennio fa la globalizzazione era «gestita» o meglio «regolata» e «limitata» dagli Stati (dalla politica): tutela cui si sta sottraendo (o meglio si è già in notevole misura) sottratta.

Il primato dell’economia nella politica si sviluppa riducendo la capacità ordinatrice della seconda e quindi degli Stati.

2) La diffusione dei soggetti «politici».  Non sono solo partiti e movimenti partigiani, ma anche lobbies e centri di potere economico e finanziario, sette e chiese. Qualcuno potrebbe obiettare: nulla di nuovo. E in effetti una situazione del genere ha più punti di contatto con l’assetto policratico dei feudatari, delle gilde e degli ordini monastico-militari che con l’età moderna.

3) Le ideologie pacifiste e la diffusione di forme di guerra «alternativa». Ossia non violente o comunque a «bassa intensità».

Il lavoro che ne tratta è l’ormai «classico» «Guerra senza limiti» dei colonnelli cinesi Quiao Liang e Wang Xiangsui. Quel che ne consegue è che simili forme di guerra rientrano facilmente nella disponibilità di soggetti non-politici (nel senso sopra precisato). Come scrivono i colonnelli suddetti «Quando la gente comincia ad entusiasmarsi e a gioire proponendo per la riduzione di forze militari come mezzo per la risoluzione dei conflitti, la guerra è destinata a rinascere in altre forme e su di un altro scenario, trasformandosi in uno strumento di enorme potere nelle mani di tutti coloro che ambiscono ad assumere il controllo di altri paesi o aree. In tal senso esistono fondate ragioni per sostenere che l’attacco finanziario di George Soros all’Asia Orientale, l’attacco terroristico di Osama Bin Laden all’ambasciata militare in Sudan, l’attentato chimico alla metropolitana di Tokyo da parte dei discepoli  di Aum Shiri Kyo e i disastri perpetrati ai danni della rete da personaggi come Morris Jr., il cui livello di distruzione non è certo secondario a quello di una guerra, rappresentano una “semi-guerra”, una “quasi-guerra” e una “sotto-guerra”, vale a dire la forma embrionale di un altro genere di guerra»[18].

4) Il potere indiretto. Diversamente dagli imperi europei dell’era moderna dove la potenza colonizzatrice (e dominante) aveva responsabilità per la gestione dei territori soggetti, nel caso delle forme di dominio contemporanee, proprio perché esercitato più con strumenti politici che formalizzate giuridicamente, la responsabilità della potenza (o del potere) egemone non è giuridicamente configurabile. Anche se poi è chiaro che dietro a certi belligeranti e a certe guerre, vi sono potenze che «tirano i fili». Ma è una situazione estremamente comoda quella di uno Stato (o altro soggetto) che esercita un potere senza assumerne la responsabilità. Per questo è molto ricercata e sviluppata in questo tempo di pacifismo imperante (e d’ipocrisia diffusa), anche se non sconosciuta nei secoli passati.

5) Il consenso di terzi nell’esercizio di prerogative sovrane. È questo, come scrive Bodin che de-sovranizza il principe (v. sopra citato rif. nota 11). Nella realtà la dipendenza politica di uno Stato da un altro si è sviluppata, nel corso del XX secolo, in forme diverse, prima sconosciute o comunque meno frequentate.

Tipica è la dipendenza «ideologica» (a partire dalle repubbliche giacobine), dopo la pausa del XIX secolo, è aumentata nel secolo passato; il fattore d’incremento principale è stato il partito (e quindi lo Stato) totale, in effetti anche transnazionale. Com’è evidente nel comunismo «organizzato» prima nel Comintern e poi nel Cominform, ma anche nella diffusione, già nel secondo anteguerra, di partiti fascisti, giunti per lo più al potere nei rispettivi Stati a seguito dell’occupazione militare delle potenze dell’Asse.

La stessa dipendenza economica è incrementata (ideologicamente). Se si reputa ottimale un assetto libero-scambista, questo, in generale è preferibile: ma se si vuole negare che uno Stato abbia il diritto d’imporre limitazioni alla circolazione di merci, servizi e persone, anche nei casi di necessità estrema (eccezione), non lo è. Al contrario: il tutto riduce drasticamente la legittimità del  potere politico, il quale istituito per il conseguimento del bene comune, trova in questo la propria regola di comportamento.

Altri tipi di dipendenza – spesso correlativi alla «permeabilità» degli Stati, si possono sviluppare attraverso il progresso tecnologico: se i due bravi colonnelli sopra citati configurano un atto di guerra con attacchi informatici, il relativo mezzo può essere utilizzato come strumento d’influenza e quindi di dipendenza.

Il potere mediatico può ottenere lo stesso risultato: anche in tal caso la corrispondente forma di guerra, ossia la guerra psicologica può convertirsi, in periodo di pace, in un’influenza/dominio sull’opinione pubblica di un popolo, determinandone scelte e orientamenti.

6) La negazione del nemico. L’aspirazione diffusa alla pace, convertita in «dottrina» dalle ideologie pacifiste che hanno come connotato comune di aver trovato l’elisir per eliminare la lotta (i mezzi sono diversi secondo l’una o l’altra)[19] comporta anche la negazione del nemico; ma la lotta è una condizione generale della politica, e l’ostilità (attuale o potenziale) ne è il corollario (e il presupposto).

La negazione del nemico è l’altra faccia di quella della guerra (convenzionale o meglio, tradizionale): solo assai più radicale. Per cui si crede che evitando la prima venga meno anche il secondo; nella realtà anche mancando quella la competizione per il potere tra diversi gruppi umani rivali continua ad esistere, e a generare altre forme di lotta per il potere: quelle, sopra ricordate, dei «bravi colonnelli» cinesi.

7) Pluralismo e responsabilità. Il pluralismo e le creazioni di aree – per lo più riferibili al diritto privato (quello che Hauriou chiamava droit commun – internazionale per natura) – attraverso Tribunali internazionali, costituiscono altre occasioni appetibili di rendere permeabili gli Stati. Ancor di più quando norme e decisioni internazionali divengono vincolanti attraverso meccanismi appositi, previsti anche per disposizione costituzionale (come l’art. 10 della nostra Costituzione). La responsabilità del sovrano è così dispersa – come il potere – nell’organizzazione policratica e nelle riserve di competenza correlate. Un’esigenza e assetto condivisibile ma che crea delle ghiotte opportunità di influenza.

Nella realtà il diritto, sia che consista in trattati che in decisioni di Corti interne o internazionali, secondo il pensiero politico (e giuridico) classico non poteva prevalere sulla politica e sulla necessità di protezione della comunità che la connota. Vale in generale ciò che diceva Bismarck dei trattati «Nessuna grande nazione potrà essere indotta a sacrificare la propria esistenza sull’altare della fede nei patti».

8) L’economia cosmopolitica e l’economia politica. Scriveva Friedrich List che i primi economisti come «Quesnay, che fece sorgere per primo l’idea della libertà universale del commercio, fu il primo ad allargare le ricerche su tutto il genere umano, senza però tener conto del concetto di nazione»[20].

In realtà List capiva assai bene come tra economia «cosmopolitica» e «politica» il fundamentum distinctionis era proprio l’insopprimibilità della politica come essenza (à la Freund) e come protezione dell’esistenza e conseguimento del bonum commune. Se le idee di Adam Smith sono astrattamente fondate, sono del tutto applicabili solo in un contesto senza guerra e senza volontà di dominio (cioè nel collodiano paese dei balocchi o qualche utopia del genere). Infatti scrive di Smith «Anche se, qua e là, parla della guerra, succede solo di passaggio e assai raramente. Tutti i suoi argomenti si basano sulla pace eterna…Evidentemente Adam Smith ha concepito la pace come pace eterna al modo dell’abate di St. Pierre». E lo stesso J. B. Say, il quale «chiede esplicitamente, per poter concepire l’idea della libertà di commercio, che si ammetta l’esistenza di una Repubblica Universale»[21]; e che se avesse scritto di economia politica (e non cosmopolitica) «difficilmente avrebbe potuto fare a meno di partire dal concetto e dalla natura della nazione e di dimostrare quali cambiamenti essenziali l’economia del genere umano deve subire per il solo fatto che il genere umano è suddiviso in nazionalità distinte, formanti un fascio di forze e di interessi, e poste, nella loro libertà naturale, di fronte ad altre società simili a loro»[22].

E List sostiene che «Tutti gli scrittori teorici hanno ripetuto questo errore. Anche Sismondi chiama l’economia politica “la science qui se charge du bonheur de l’espèce humaine”». Differente è la politica. Questa ha il compito di proteggere l’esistenza (particolare) di una comunità umana e come conseguire il bene comune della stessa[23].

Ed è perciò concettualmente e (spesso) oggettivamente contrapposta al principio cosmopolitico. List ricorda che Thomas Cooper «nega perfino l’esistenza della nazionalità. Egli chiama la nazione “una invenzione grammaticale fatta solo per evitare perifrasi, una cosa inesistente (a non entity) che esiste solo nelle teste degli uomini politici”»[24] affermazione che l’economista tedesco considera coerente «perché è chiaro che se si ammette l’esistenza della nazione, con la sua natura ed i suoi interessi, si presenta anche la necessità di modificare l’economia della società umana in relazione a questi interessi speciali»[25].

E proseguiva insistendo sugli inconvenienti, per l’economia di una nazione, che possono derivare dal differente grado di sviluppo con le altre; onde per beneficiare realmente di un sistema di libero scambio internazionale occorre che le comunità nazionali raggiungano «un uguale grado di civiltà, di formazione politica e di potenza»[26]; per cui «Perché la libertà di commercio possa agire liberamente e naturalmente, occorre prima di tutto che i popoli meno progrediti vengano portati, mediante interventi  di vario genere, allo stesso livello di sviluppo al quale è pervenuta l’Inghilterra»[27].

List, che è considerato spesso un avversario del laissez-faire, appare più esattamente come un realista difensore delle insopprimibili esigenze e presupposti della politica (e del politico).

9) I diritti umani. Che dei diritti umani e delle loro violazioni si sia fatto un uso improprio (per l’intervento negli affari – un tempo interni – degli Stati sovrani) è cosa spesso affermata e nota. Già Hobson stigmatizzava l’analogo uso, da parte della Gran Bretagna nel XIX secolo dell’affermazione che «la nostra politica imperiale e coloniale è animata dalla volontà di diffondere in tutto il mondo le arti del libero autogoverno di cui godiamo in patria» e la contestava affermando che «alla vasta maggioranza dei popoli del nostro impero noi non abbiamo attribuito alcun vero potere di autogoverno, né abbiamo alcuna seria intenzione di farlo, né d’altra parte crediamo seriamente che sia possibile farlo» dato che «dei trecentosessantasette milioni di sudditi che vivono fuori dalle isole britanniche, non più di undici milioni, ossia uno su trentaquattro, hanno una qualche forma di autogoverno per quanto riguarda la legislazione e l’amministrazione»[28] e che «da quando le prime luci del nuovo imperialismo negli anni settanta hanno dato piena coscienza politica all’impero, è divenuto un vero luogo comune del pensiero liberale sostenere che la missione imperiale dell’Inghilterra è quella di diffondere l’arte del libero governo»[29].

Un giudizio simile mutatis mutandis, merita l’uso strumentale dei diritti umani.

  1. Le idee sopra elencate sono le principali giustificazioni ideologiche di una globalizzazione che cerca di eliminare (o ridurre) i limiti che la politica e gli Stati possono porle.

In effetti le controindicazioni che una situazione del genere possa provocare sono già indicate nel pensiero politico (ed economico) di cui gli autori sopra ricordati costituiscono una (quantitativamente) piccola parte.

Il primo di tali inconvenienti è che l’ordine mondiale globalizzato non si pone – o non lo fa adeguatamente – il presupposto e la conseguenza che si accompagnano a quello: ossia il potere e la responsabilità.

Maurice Hauriou sosteneva che «il potere è una libera energia della volontà che si fa carico d’intraprendere il governo di un gruppo umano attraverso l’ordine ed il diritto»[30]. In tale definizione, proseguiva, vi sono tre elementi essenziali: 1) che il potere è una libera energia della volontà; 2) che il potere è un imprenditore di governo; 3) e che lo fa con la creazione dell’ordine e del diritto. Nelle concezioni globalizzatrici, a parte il richiamo all’idea d’impero, d’altra parte non meglio precisata, questa è soprattutto di assai dubbia praticabilità. Infatti in primo luogo si pone il problema di chi è lo Stato imperiale. Forse gli USA? E allora perché, malgrado guerre umanitarie e interventi di peace-keeping, non riescono a «normalizzare» i popoli (e gli Stati) occupati dalla NATO (o da coalizioni di Stati membri della NATO)[31]. E Cina e Russia che fanno?

Per cui l’idea d’impero – data la scarsa probabilità che la «testa» ne siano gli USA, diventa evanescente, ma più realistica. Così nel notissimo saggio di A. Negri e M. Handt, «Impero» in cui la forma di governo dell’Impero è una galassia formata da organizzazioni di Stati, Banca             mondiale, clubs vari e multinazionali[32]. È chiaro che un sistema siffatto, in effetti policratico, è «governabile» solo a prezzo di guerre, talvolta «tradizionali» (anche se mascherate da «operazioni di polizia internazionale»), più spesso asimmetriche (nel senso dei colonnelli cinesi più volte ricordati): a regolarlo sono assai più i rapporti di forza che il diritto.

Per cui come un governo siffatto possa garantire un’impresa di governo attraverso l’ordine e il diritto è difficile da immaginare. Di fatto non c’è un governo nel senso di un centro di riferimento in fatto e in diritto irresistibile; non c’è neppure una volontà, che richiede di essere personale (o pluripersonale) di un organo deputato a decidere (parlamento, consiglio dei ministri, Capo dello Stato), ma solo procedure informali riconducibili ad accordi, evidentemente fondati sui rapporti di forza; non c’è neanche un ordine, intesto nel senso di ordine sotto un’autorità (e una gerarchia) riconosciuta[33]; ne è configurabile un diritto – almeno completamente – perché questo va comunque distinto – come scriveva Hauriou – in droit disciplinaire (quello emanato dall’istituzione e basato sul rapporto di comando-obbedienza) e droit commun (quello fondato sulla socievolezza umana e quindi internationale)[34]. E il droit disciplinaire qui  manca (il che non significa che non vi sia il rapporto comando-obbedienza).

  1. Scrive Freund peraltro che il bene comune – scopo dell’azione politica – si distingue, secondo il presupposto dell’amico/nemico (e del comando/obbedienza) nei due aspetti della sicurezza esterna e della concordia interna. Ma, in una società globalizzata la prima ha un senso depotenziato, almeno se la globalizzazione è intesa, come generalmente ritenuto, quale percorso per eliminare guerra e ostilità. Una volta che si fantastica di toglierle di mezzo, il problema (si immagina) è risolto. Quindi niente Stati (in senso westphaliano) né «politica» in un mondo globalizzato.

Quanto alla concordia interna, fondata più sul presupposto del comando-obbedienza, che su quello dell’amico-nemico, questo appare un obiettivo ancor più difficile da conseguire per un potere globalizzatore. Alla base di quella c’è il romano idem sentire de re publica, cioè la condivisione in un gruppo umano della fiducia in istituzioni, valori, interessi nonché la consapevolezza di una comune appartenenza (per lingua, tradizione, religione). Ovviamente tutti tali elementi determinano la particolarità e la specificità del gruppo politico, come tale già contrapposto ad un potere che si pretende universale[35].

Peraltro, nel processo di formazione delle unità politiche è l’idem sentire, o per dirla alla Payne, il common sense comunitario che favorisce e determina il costituirsi dell’unità politica e non viceversa (o per lo meno è questo il percorso normale e maggiormente praticato).

Questo in una società planetaria manca o è carente e inidoneo a costituire una base di consenso e condivisione a un potere universale, mentre fondamentalisti, nazionalisti, gruppi etnici (e così via) tuttora hanno la capacità di costituire sintesi politiche. Finché le identità delle varie comunità saranno così diverse è bizzarro pensare che, nella modestia di un sentire comune «universalista» si possa costituire (qualcosa che somigli a) una unità politica.

In Europa le ultime costituite, cioè Italia e Germania, a parte i fattori unificanti (lingua, territorio, «razza», consuetudini, e per l’Italia la religione cattolica), hanno richiesto un’opera di convinzione dello spirito pubblico durata oltre mezzo secolo (almeno: dall’età napoleonica a oltre metà dell’800); e comunque diverse guerre. Pretendere di costruirne anche solo un surrogato a tavolino e con la collaborazione di banche e burocrazie è frutto di aspirazioni scambiate per realtà possibili.

  1. Senza le condizioni possibili per realizzare l’unità politica, come può fondarsi un ordine internazionale «globalizzato»?

Machiavelli nel Principe scriveva che «Dovete adunque sapere come e’ sono dua generazioni di combattere: l’uno, con le legge; l’altro, con la forza. Quel primo è proprio dello uomo; quel secondo, delle bestie. Ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo: pertanto ad uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e lo uomo»[36]. Tale passo è stato interpretato in più modi e d’altra parte il pensiero denso e la scrittura efficace e concisa del Segretario fiorentino esprimono spesso meno parole che giudizi: uno dei quali è quello, ripreso secoli dopo da de Maistre che dove non c’è sentenza c’è lotta. Istituzioni (politiche) leggi, sentenze e ciò che presuppongono (cioè consenso, idem sentire, tradizione e così via) sono sistemi per produrre ordine e decisioni alternativi alla lotta. Giudizio che anche nei tempi presenti appare confermato. Dopo la caduta dell’ordine di Yalta – che era un ordine di sistemi politici «regionali» (occidente, comunismo, e – al massimo – «terzo mondo») le guerre convenzionali e «innovative» appaiono aumentate, ed estese a regioni del pianeta prima risparmiate, come l’Europa orientale, il Caucaso e parte del Medio Oriente. Dei soggetti «guerreggianti» oltre agli Stati e ai movimenti di liberazione nazionale, abbiamo un po’ di tutto.

D’altra parte la stessa invocazione alla «pace» e alla riduzione degli armamenti appare diventata uno strumento di guerra. Se la deterrenza della guerra consiste nel fatto che i contendenti possono arrecarsi danno reciproco, il limitare giuridicamente la possibilità di reazione è il tentativo di usare del diritto per impedire – nella maggior parte dei casi – la resistenza alla forza, e così cristallizzare i rapporti di potere, mantenendone le ineguaglianze.

Il che è soprattutto temibile nel caso di guerre condotte con mezzi non violenti, come quelle descritte dai «bravi colonnelli». Il tutto finisce col somigliare ad una rivisitazione attualizzata alla situazione contemporanea dei Trattati ineguali tra potenze europee ed asiatiche dell’800.

Con in più due caratteri specifici: che – per lo più, ciò serve a ridurre i rischi dell’aggressore, il quale, se sa di non dover subire una reazione violenta, può tranquillamente esercitare l’azione non violenta. E la seconda, usuale, che il tutto più che nei trattati è sancito attraverso la persuasione dell’opinione pubblica. La pace (intesa come non-violenza) è così mezzo di dominio.

Che «forza» e «legge» siano modi di combattere, come scrive Machiavelli, ossia d’imporre la propria volontà, è spesso dimenticato; così del pari, è – anche se in misura minore – trascurato che forza e legge sono anche modi di governare, non (totalmente) alternativi, ma piuttosto complementari. La «legge» senza forza è inutile: la forza senza legge è arbitrio violento.

Nella realtà occorrono entrambi. Se la combinazione di forza e regola è la normalità del governo dei gruppi umani, così come il potere responsabile è l’ordinatore ideale, quello che si profila nel mondo globalizzato appare tra i meno preferibili. Perché si risolve nell’affidare prevalentemente alla forza e all’astuzia (del potere esistente) il massimo della potenza disponibile senza la prospettiva che possa riuscire a creare un ordine che sia veramente tale.

Teodoro Klitsche de la Grange

 

 

[1] V. Corso di diritto internazionale, Padova 1933, p. 115.

[2] V. «poiché la regola dell’indipendenza internazionale dei soggetti, non è assoluta, ma ha delle eccezioni, ne viene che un soggetto può assumere una posizione di superiorità verso un altro, in base allo stesso diritto internazionale, e quindi si possono avere degli Stati che sono titolari di una potestà sovrana di mero diritto internazionale su Stati che, per la loro posizione sempre internazionale, sono subordinati ai primi e per ciò non sovrani. Così, p. es., nel protettorato» op. loc. cit.

[3] V. «Come si è visto, che un soggetto sia per diritto internazionale sovrano rispetto ad un altro non sovrano, nel senso che su questo eserciti una potestà, non è la regola, ma l’eccezione» op. cit.

[4] Op.cit., p. 117; e conclude «data la grande varietà che il protettorato può assumere, è difficile formulare principii generali, ma si può affermare che essi implicano sempre una limitazione della capacità di diritto e inoltre la perdita in taluni casi, o la diminuzione in altri, della capacità di agire».

[5] Op. cit., p. 118

[6] Anche giuridicamente, ma solo fino a un certo punto. Diversamente dallo «status» dei protettorati, le limitazioni vi sono, ma a parte la minore entità, non si traducono in una condizione stabile e regolata da dipendenza, ma a modifiche secondarie, ma talvolta significative, dei diritti degli stessi. Così le collaborazioni tra amministrazioni civili e militari.

[7] «Le nostre opinioni sugli Dei, la nostra sicura scienza degli uomini ci insegnano che da sempre, per invincibile impulso naturale, ove essi, uomini o Dei, sono più forti, dominano» v. La guerra del Peloponneso trad. it. di P. Sgroj V, 105/110.

[8] Qu’est-ce le tiérs État trad. it. di G. Troisi Spagnoli, in Opere Tomo I, Milano 1993, pp. 255-257.

[9] Scrive Bodin «Se dunque il principe sovrano è per legge esente dalle leggi dei predecessori, ancor meno egli sarà obbligato a osservare le leggi e le ordinanze fatte da lui stesso: si può ben ricevere la legge da altri, ma non è possibile comandare a se stesso, così come non ci si può imporre da sé una cosa che dipende dalla propria volontà, come dice la legge: nulla obligatio consistere potest, quae a voluntate promittentis statum capit; ragione necessaria, che dimostra in maniera evidente come il re non possa essere soggetto alle leggi» Six livres de la République, trad. it. di M. Isnardi Parenti, Torino 1988, p. 360.

[10] Op. cit., p. 407 (il corsivo è nostro).

[11] Op. cit., p. 480.

[12] Op. cit., p. 481.

[13] «E in breve abbiamo dimostrato le assurdità intollerabili che conseguirebbero se i vassalli fossero sovrani, anche nel caso che non abbiano nulla che non dipenda da altri; e che cosa avverrebbe se si considerassero uguali il padrone e il servitore, il signore e il suddito, chi presta giuramento di fedeltà e chi lo riceve, chi comanda e chi è obbligato all’obbedienza» (il corsivo è nostro) op. loc. cit.

[14] Op. cit., p. 503.

[15] Op. cit., p. 511 (il corsivo è nostro).

[16] V. J. Freund secondo cui «i giuristi, seguiti da certi filosofi della politica, hanno cercato di spogliare della sovranità il comando. E Bodin è in parte responsabile di questa opera» L’essence du politique, Paris 1965, p. 117.

[17] V. La science sociale traditionnelle, rist. in Ecrits sociologiques, Dalloz, Paris 2008, p. 233 ss.

[18] Guerra senza limiti, L.E.G., Gorizia 2001, p. 39 e i colonnelli aggiungono «Comunque si scelga di definirla, questa nuova realtà non può renderci più ottimisti che in passato. Ciò perché la riduzione delle funzioni della guerra in senso stretto non implica affatto che quella guerra abbia cessato di esistere. Anche nella cosiddetta era postmoderna e post-industriale la guerra non sarà mai eliminata del tutto. E’ solo tornata a invadere la società in modi più complessi, più estesi, più nascosti e sottili», op. loc. cit. (il corsivo è nostro).

[19] V. Sul pacifismo e sulla pace le considerazioni di Freund, op. cit., pp. 620 ss; v. A. Salvatore, Il pacifismo, Roma 2010. In genere sull’incompatibilità tra sovranità dei popoli e globalizzazione v. l’attento studio di Alain de Benoist, Oltre la sovranità, Arianna Editrice, Bologna 2012, in particolare pp. 97-106.

[20] Das nationale system der Politischen Ökonomie, trad. it. Di H. Avi e P. Tinti Milano 1972, p.149 (il corsivo è nostro); e prosegue «Quesnay tratta evidentemente dell’economia cosmopolitica, cioè di quella scienza che insegna come tutto il genere umano può raggiungere il benessere, mentre per contro l’economia politica ed altre scienze si limitano ad insegnare come solo una data nazione possa raggiungere il benessere, la civiltà e la potenza, nelle condizioni mondiali date e per mezzo della sua agricoltura, industria e commercio. Adamo Smith diede alla sua dottrina la medesima estensione, ponendosi il compito di giustificare l’idea cosmopolitica dell’assoluta libertà del commercio mondiale… Adamo Smith non si pose il compito di trattare dell’oggetto dell’economia politica, vale a dire della politica che ogni paese deve seguire per fare dei progressi nelle sue condizioni economiche. Egli intitola la sua opera: Della natura e delle cause della ricchezza delle nazioni, cioè di tutte le nazioni delle quale si compone il genere umano. In una parte speciale della sua opera egli parla dei diversi sistemi dell’economia politica, ma solo con l’intenzione di dimostrare la loro vanità e per provare che al posto dell’economia politica o nazionale deve subentrare l’economia universale».

[21] E prosegue «Quei principi, però, che riguardano gli interessi di nazioni intere come tali ed in rapporto alle altre nazioni, formano invece l’economia pubblica (économie publique). Mentre l’economia politica tratta gli interessi di tutte le nazioni, di tutta la società umana in generale», op.cit., p. 50 (i corsivi sono nostri).

[22] Op. loc. cit. (il corsivo è nostro).

[23] Come scrive Freund: «qual è il bene specifico dell’attività politica… come Hobbes non cessa di ripetere il bene comune dello Stato e quello del popolo che formano insieme una collettività politica. In effetti se gli uomini continuano a vivere in collettività politiche, è perché vi trovano un interesse. Ci sono forti probabilità che se la natura umana non trovasse alcuna soddisfazione (bien) in tale genere di vita nessuna unità politica potrebbe essere stabile e durevole», v. Qu’est ce-que la politique, Paris 1965,p. 38.

[24] Op. cit., p. 151.

[25] Op. loc. cit..

[26] Op. cit., p. 155.

[27] Op. cit., p. 159.

[28] V. Imperialism. A study, trad. it., di L. Meldolesi, Milano 1974, p. 102.

[29] Op. cit., p. 105.

[30] Précis de droit constitutionnel, Sirey, Paris 1929, p. 14.

[31] Volutamente ho rispolverato il termine di «normalizzazione» di bresneviana memoria, perché, malgrado tutto, l’intervento del 1968 in Cecoslovacchia del patto di Varsavia (cioè di un vero impero regionale) riuscì a ricondurre all’«obbedienza» una nazione riottosa, senza che ciò degenerasse in guerre civili o partigiane: fu un intervento di successo, come, in passato, molti del XIX secolo. Che poi il comunismo sia imploso è un fatto che trascende la dimensione politica e strategica dell’ordine nell’impero sovietico: il crollo del comunismo è dovuto all’incompatibilità del sistema con i presupposti del politico e, più in generale, con le innate tendenze dell’uomo.

[32] Il carattere informale e non strutturato del potere globalizzatore è stato notato da molti. Tra i quali ricordiamo F. Cardini, La Globalizzazione, Rimini 2004; G. Ferrara, Derubati di sovranità, Vicenza 2014.

[33] Che è poi il senso agostiniano di ordine e di pace «la pace della città è l’ordinata concordia dei suoi cittadini nel comandare e nell’obbedire; la pace della città celeste è la più perfetta e armoniosa concordia nel gioire di Dio e nel godere vicendevolmente in Dio; la pace di tutte le cose è la tranquillità dell’ordine. E l’ordine è la disposizione degli esseri uguali e disuguali che assegna a ciascuno il posto che gli conviene» v. De civitate Dei, trad. it., Roma 1979, p. 1161.

[34] V. M. Hauriou, op. cit., p. 97 ss.

[35] Come scrive M. Veneziani Comunitari o liberali, Laterza, Bari 2006,p. 105 «Da una parte la globalizzazione congiunta all’internazionalismo porta a superare i confini territoriali; ma può esistere una comunità illimitata, che coincide alla fine con l’umanità? Puoò esistere cioè una comunità che non riconosce tratti specifici, provenienze condivise, tradizioni comuni ma solo la comune appartenenza al genere umano? Più giusto in questo caso è parlare di cosmopolitismo e non di democrazia comunitaria»; il che pone il problema del politico e della sua pretesa estinguibilità.

[36] Principe XVIII (il corsivo è nostro).

Circa identità e universalismo: dialoghi repubblicani, di Alessandro Visalli

Prosegue il dibattito tra identità e universalismo con tutte le sue implicazioni riguardanti le scelte politiche strategiche di questi ultimi decenni. Un confronto che ha coinvolto in particolare, oltre all’autore dello scritto in calce e indirettamente il professor de la Grange, Roberto Buffagni e Massimo Morigi. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Circa identità e universalismo: dialoghi repubblicani.

https://tempofertile.blogspot.it/2018/03/circa-identita-e-universalismo-dialoghi.html

Su Italiaeilmondo, un dialogo con Roberto Buffagni, prima, e dopo con Massimo Morigi si sta sviluppando sulla linea del confronto tra tradizioni culturali e punti di vista diversi ma capaci di reciproco riconoscimento. La cosa era partita da un commento ai fatti di Macerata di Roberto Buffagni che avevo riletto nella mia tradizione come “scontro di secolarizzazioni”, dal quale è nata un’altra linea di dibattito interessante sulle pagine di Sinistrainrete (l’ultima puntata è questa); questo dibattito incrocia quello sulle “due Europe”, anche esso avviato da Buffagni, cui replicai con “lo scontro tra due europe” e quindi le repliche dello stesso Buffagni (qui e qui).

Ciò che è in questione nell’intreccio dei tre dialoghi è la questione della forma di universalismo verso la quale manifestare lealtà, entro il sistema di tensioni non risolte della nostra cultura e valutando le forze in campo, e la sua concrezione geopolitica nel progetto europeo e mondiale, da una parte, e nella risposta alla crescita (per ragioni interne che riassumo nello schema delle “due economie politiche”) della mobilità della ‘forza lavoro’, dall’altra. Si tratta di questioni dirimenti per il posizionamento politico contemporaneo.

Sulla linea dello “scontro di secolarizzazioni”, dunque sul registro dell’immigrazione, Massimo Morigi replica in “Considerazioni al margine” attraverso una densa lettura della tradizione politica italiana imperniata sul momento risorgimentale e nella fattispecie la figura di Mazzini. Commentando questo pezzo avevo quindi scritto “Identità e universalismo”, nel quale venivano richiamati pochi momenti della grande questione tra autenticità e autonomia che struttura il pensiero politico europeo dei moderni nella sua formazione (attraverso snodi come Rousseau, Kant, Herder ed Hegel, per dire), e viene ripresa ed attualizzata nel dibattito sul multiculturalismo negli anni novanta e in quello sul comunitarismo. Nella chiusa, in quelli che necessariamente anche per il mezzo possono essere solo pochi appunti volanti, avevo scritto che oggi l’unica teoria della giustizia possibile, dunque, è quella che è in qualche modo progettata (rischiosamente) a partire dalle caratteristiche che lo sviluppo storico concreto ha depositato nell’oggi, per come queste si sono date, cioè, dal sedimento dei conflitti e dei successi o fallimenti nell’ottenere riconoscimento da parte delle diverse soggettività.

Probabilmente anche l’unica possibile pratica politica.

Massimo Morigi risponde con un pezzo che riprende questi temi dal punto di vista del “repubblicanesimo geopolitico” e sceglie di manifestare “l’estrema e multilaterale debolezza” del mio argomento giudicato centrale: l’interpretazione di Charles Taylor della tensione tra autenticità e autonomia nella nostra cultura. E soprattutto la tesi del nostro che vi sia una discontinuità tra la lettura dell’autenticità come progetto, sia pure costantemente sfidato da eteronomia (in quanto è autentico in effetti chi non sottopone a riflessione l’essere in cui si trova collocato), dei moderni e quella delle generazioni precedenti. In altre parole, che l’identità sia da leggere in modo diverso per un moderno e per un uomo colto premoderno. Con le parole di Morigi:

Il passo di Visalli testè citato sembra quindi suggerire, assieme a tutto il tono del suo intervento, che il problema dell’identità dei popoli, e di riflesso degli individui che questi popoli compongono, ha inizio in epoca moderna, legato prevalentemente ai fenomeni di secolarizzazione e di progressiva riduzione della dimensione del sacro.

L’obiezione è che, se pure di nazione e della relativa identità si cominciò a parlare con un tono diverso anche a seguito della sfida napoleonica e in ambiente tedesco prima con Herder e poi con i “Discorsi alla nazione tedesca” di Fichte, in evidente polemica con l’universalismo illuminista (che con Napoleone era imperialismo, se visto dall’alto lato delle baionette), l’identità nazionale agonistica preesiste, e di molto. Gli esempi di Morigi sono i greci contro i persiani, gli ebrei, i romani, e quindi dell’idea di Italia che emerge nel medioevo (sia pure tra pochi intellettuali, tra i quali cita Dante e Baldassar Castiglione, o, ovviamente, Machiavelli).

D’altra parte l’interlocutore finisce per concordare con la conclusione:

Scrive Visalli in conclusione del suo pregevole commento al mio articolo: «L’unica teoria della giustizia possibile, dunque, è quella che è in qualche modo progettata (rischiosamente) a partire dalle caratteristiche che lo sviluppo storico concreto ha depositato nell’oggi, per come queste si sono date, cioè, dal sedimento dei conflitti e dei successi o fallimenti nell’ottenere riconoscimento da parte delle diverse soggettività. Probabilmente anche l’unica possibile pratica politica.» Per quanto da indegno erede del  crociano storicismo assoluto io sia del tutto hegelianamente diffidente verso ogni teoria, anche se sotto forma di ‘teoria della giustizia’, calata sulla “realtà effettuale”, non ho alcuna difficoltà a riconoscermi nello spirito di questa affermazione, il cui nucleo è il sacro rispetto che si deve avere di quell’ “astuzia della ragione” che consiste nel secolare deposito storico di aspirazioni e tradizioni apparentemente contraddittorie ma che proprio nella loro contraddittorietà – ed anche mutua violenza e volontà nel passato e, purtroppo, anche odierna, di sopprimersi – formano oggi, del tutto analogamente a come avviene per gli altri popoli, la nostra identità come individui e come popolo.

Tenendo per buono questo finale accordo, probabilmente conviene però spendere qualche parola sul contesto nel quale viene individuata la discontinuità tra moderni e classici che ha colpito Morigi. Sostiene infatti questi che sia “assolutamente da respingere come storicamente inesatta l’idea che i popoli per sviluppare ed avvertire una propria identità, …, abbiano dovuto aspettare il XVIII secolo”, e specificamente “di una identità avvertita come agonistica rispetto alle altre”.

Ora, ci sono molti modi di reagire a questa osservazione:

  •   – da una parte ‘l’agonismo’ tra le organizzazioni più o meno statuali e le nazioni è ovviamente un fatto della storia. Ma entrambi i termini sono anacronistici, se utilizzati prima della modernità nella quale si forma lo Stato-nazione, in riferimento alle entità politiche e società preesistenti.
  • Dall’altra la specie umana è sempre stata formata da individui, ma non sempre questi hanno concepito se stessi e i gruppi nei quali erano immersi nello stesso modo. Il legame sociale è sempre mutato e ancora muta portando con sé l’insieme delle istituzioni, dei valori e delle norme sociali, quindi anche le identità rese possibili da queste. Anche parlare di ‘popolo’, al singolare, prima della modernità contemporanea, con la potenza dei suoi mezzi di comunicazione, per dirne una, rischia di proiettare esperienze contemporanee sul passato in modo indebito.

Quel che possiamo provare a nominare come ‘i popoli’ (che poi a grandi linee sono solo le loro élite e le clientele ad esse connesse in vario modo, e quindi facenti parte del ‘modo di produzione’ tributario ad esse) hanno sempre sviluppato una loro specificità, e quindi ciò che oggi chiamiamo una loro ‘identità’, ma quanto ad avvertirla il passo non è sempre automatico. Parlare dei ‘greci’ (una realtà molto più fratturata di quanto ci piaccia sapere, e la cui tradizione ci viene trasmessa da pochissime fonti, quasi tutte ateniesi, relative a poco più di un secolo e praticamente tutte di parte aristocratica, a partire dalla linea principale dei filosofi e dei drammaturghi) come di un ‘popolo’ opposto ai ‘barbari’ (prendendo per buona la retorica imperiale ateniese e poi macedone) richiede una certa distanza, avvicinandosi l’immagine si frammenta. Egualmente per i ‘romani’, il non-stato più multiforme, politicamente, giuridicamente, etnicamente e culturalmente, dell’antichità.

Diciamo che bisognerebbe entrare molto dettagliatamente nel merito, ed interrogare le fonti con occhio ed orecchio attento alle differenze, che spesso baluginano nei dettagli, più che alle presunte somiglianze (che possono facilmente essere proiezioni).

Ma anche l’osservazione di Charles Taylor va ascoltata nel suo proprio contesto, ovvero entro l’ambiente di discorso al quale il filosofo e storico canadese reagisce. Intanto dalla disciplina principale nella quale interviene: filosofia morale. All’ambiente culturale: Oxford prima USA, dopo. Quindi al periodo: anni settanta per gli studi hegeliani, ottanta per la teoria del linguaggio e dell’azione, l’epistemologia, e poi teoria dell’identità moderna al finire degli anni ottanta, e storia delle idee negli anni a cavallo del millennio. I suoi libri più famosi sono “Hegel”, 1975, “Radici dell’Io”, del 1989, e “L’età secolare”, del 2009.

Si tratta di un autore che avvia la sua riflessione sulla scorta di quell’evento epocale che fu la pubblicazione di “Una teoria della giustizia” di John Rawls del 1971. La ripresa della più antica tradizione contrattualista, in aperta polemica con l’allora egemone teoria morale utilitarista, nel libro epocale di Rawls determina infatti negli anni seguenti una completa ridefinizione del campo. La teoria politica liberale ne viene del tutto riscritta; quella linea genealogica che aveva Hobbes e Locke come padri, poi Kant e J.S. Mill, è riaggiornata da Rawls tenendo fermi i suoi caposaldi: concezione naturalistica dei diritti, libertà individuale come non interferenza, autonomia in senso personale e non collettivo, eguaglianza di principio, democrazia. Ma viene creata anche una coerente cornice intellettuale per far posto a quelle modifiche che il novecento aveva imposto a partire dal new deal: le libertà positive e la redistribuzione, quindi per fare spazio alla ‘questione della giustizia’. Il liberalismo di Rawls fa infatti perno sulla questione dell’eguaglianza, la determina come problema, mentre il liberalismo utilitarista classico si limitava a porre la questione della ‘libertà’ (negativa). Le questioni che diventano rilevanti sono a questo punto soprattutto due: la neutralità o meno dello Stato rispetto a diverse visioni del bene; la natura dei beni che vanno redistribuiti. Del primo problema la discussione si sviluppa con Dworkin, Ackerman, Nagel, Scanlon, ma anche Nozick. Del secondo si discute con i proceduralisti, ad esempio con Ackerman e Habermas (ne avevamo parlato qui).

Ma su questo terreno nasce anche una diversa controversia che esce dal campo liberale, e in alcune versioni attacca direttamente l’impostazione neo-kantiana di Rawls facendo uso di argomenti neo-hegeliani. È un attacco dall’esterno (mentre il primo era dall’interno), ed impegna gli anni tra ottanta e novanta. Si tratta della ripresa di motivi classici, della teoria della virtù, o comunque non liberali, da parte di una nuova famiglia di critici che sono stati etichettati come ‘comunitari’. Gli autori più rilevanti sono Alasdair MacIntyre, di cui leggeremo “Dopo la virtù”, del 1981; Michael Walzer, di cui leggeremo “Sfere di giustizia”, del 1983; Michael Sandel, “Il liberalismo e i limiti della giustizia”, 1982. La tesi a grandissime linee è che non si può presumere, se si pone la questione della giustizia, che lo stato si mantenga neutrale tra opposte concezioni del bene, o della vita buona, perché queste costituiscono gli individui che sono sempre situati ed incarnati in esse.

Charles Taylor è un esponente di seconda generazione di questa reazione all’astratto proceduralismo liberale. Ciò che scrive sulle radici dell’io e la storia delle idee che lo hanno costituito nella modernità va quindi necessariamente inquadrato in questa polemica.

Per il nostro l’identità in senso moderno si caratterizza dall’avere contemporaneamente tre caratteristiche: la percezione dell’interiorità, l’affermazione della vita come comune ed in comune, l’idea della moralità come naturale. Nello spazio morale si determina quindi un ‘io’ quando riusciamo a comprendere che cosa sia per noi di importanza cruciale e quindi in un certo senso quando sappiamo ‘dove’ siamo. Quando diventa possibile assumere una posizione e trovarsi in un orizzonte nel quale possiamo stabilire, di volta in volta, e caso per caso, che cosa è da tenersi per buono, quindi cosa dobbiamo fare o avversare. In altre parole noi siamo in quanto ci stanno a cuore delle questioni e non altre, in quanto siamo dotati di autointerpretazioni che non sono completamente esplicite, e in quanto siamo immersi in relazioni. Nessuno può essere descritto senza fare riferimento a quelli che lo circondano (T., “Radici dell’io”, p. 52). Dunque l’io esiste solo all’interno di ‘reti di interlocuzione’, e non nell’astratto e disincarnato vuoto immaginato dai ‘diritti civili’ liberali. E non esiste staticamente, ma solo narrativamente, sapendo non solo ‘dove siamo’ ma anche ‘dove andiamo’ e ‘da dove’.

Anche Taylor, in effetti, sviluppa una critica allo scientismo di cui è imbevuto il liberalismo naturalista (e le scienze economiche) e valorizza la strategia di Aristotele (come MacIntyre), tendente a definire come ‘vita buona’ quella che “combina nel più alto grado possibile tutti i beni cui aspiriamo” (idem, p.93).

Ecco che la ‘meglior forma’ evocata da Morigi trova una possibile cornice: la ragion pratica evocata ha a che fare con il racconto biografico, con la possibilità, esercitando una forma narrativa di ragione, di mostrare che una data soluzione tiene insieme meglio ciò che ci è caro, risolve meglio le contraddizioni presenti, dissolve confusioni ricorrenti.

Nel capitolo dodicesimo del suo libro sulle radici dell’io Taylor compie una digressione sulla spiegazione storica che direttamente chiarisce il dubbio che Morigi avanza. Il percorso ricostruttivo nel quale indulge (parlando di Cartesio, Locke, Montaigne e via dicendo) non è né una spiegazione ‘idealista’ né una spiegazione storica strictu sensu. Non cerca di dimostrare causazioni diacroniche, come propone ad esempio il marxismo, ma cerca solo di enucleare quali caratteristiche siano state capaci di far affermare la nuova idea di identità (p.256). La relazione tra le idee-forza (ovvero capaci di motivazione e di emergere come parte della autointerpretazione narrativa) e i meccanismi di causazione, è dunque riconosciuta come complessa e passante per pratiche sociali concrete, per l’applicazione di ciò che si può o non può fare. L’ambizione non è di risolverla.

Il seguito vede un ampio racconto che passa per la razionalizzazione del cristianesimo, esemplificata e condensata da Locke e poi le teorie dei sentimenti morali della scuola scozzese, Shaftesbury, Hutcherson, dalla quale emerge la categoria ‘dell’economico’ come ordine provvidenziale (gioverebbe anche ricordare Genovesi) che si autoregola. Quindi per gli orizzonti frantumati della perdita di dio (cui dedica il ben più ponderoso “L’età secolare”) e l’illuminismo radicale nel quale si afferma una idea di ragione autoresponsabile, strettamente connessa con la nuova ragione scientifica (Newton) e con l’affermazione dell’utilitarismo (p.410). Per il ‘controilluminismo’ di Rousseau e la nozione di ‘autonomia’ messa a fuoco da Kant fissa l’ideale di essere razionali, ma anche per la svolta espressivistica di Herder (p. 459) e l’idea di avere in effetti delle profondità interiori.

Da Darwin muove quindi la definitiva affermazione di un ordine senza ordinatore che mette a sistema la visione morale dello scientismo, affermando la secolarizzazione, che si può riassumere nell’enunciato “non si deve credere ciò di cui non si hanno prove sufficienti”. Un concetto di drammatica importanza, nel definire ciò che può essere e ciò che invece deve recedere, che si fonda su due idee-forza per Taylor: la libertà come razionale autoespressione e l’eroismo dell’incredulità. Da qui emerge una sorta di esigenza morale rovesciata: quella di non credere.

Il passo successivo è l’espressionismo postromantico di Schiller, Baudelaire, Schopenauer e Kierkegaard, ma anche Dostoevskij e Nietzsche. E la ricerca di una via di uscita dal mondo meccanico in Husserl, Heidegger, Adorno.

Il punto per Taylor, nel contesto non di una ricerca storica ma di una rimemorazione delle radici dell’io (anche se la relazione causale è incerta e la stessa composizione multiforme) è che “una società di persone tese [solo] all’autorealizzazione e le cui affiliazioni vengono considerate sempre più come revocabili non può sostenere quell’identificazione forte con la comunità politica che la libertà pubblica richiede” (p.617).

Insomma, il punto è precisamente quello evocato nel post “Ripensare i fondamenti: ‘libertà’”: l’idea di libertà come egoismo non limitato, spesso connessa internamente con lo scientismo, è strutturalmente e geneticamente connessa con l’inibizione dell’azione collettiva e milita contro quella che Taylor chiama la “libertà pubblica”. La “libertà privata” atomistica impedisce l’affermazione della “libertà pubblica”, l’autorealizzazione individualista con la lealtà collettiva.

La questione è dunque politica.

BUFALE E BUFALOTTI, di Gianfranco Campa

BUFALE e BUFALOTTI

 

I mass media Italiani, compiacenti portavoci dello stato ombra americano, hanno inondato i canali digitali e terresti, rilanciando e riportando le bufale d’oltreoceano costruite ad arte per screditare Trump. Un lavoro metodico, un meccanismo ben oliato che si attiva puntualmente ogni volta che lo stato ombra viene colpito da una torpedine. Nella fattispecie è stato il licenziamento di Andrew McCabe.

L’accusa dei media è la seguente: il licenziamento di McCabe è un attacco alla FBI e alla figura, al ruolo del procuratore speciale sul Russiagate Robert Muller. Inoltre McCabe avrebbe mantenuto un pro-memoria sugli incontri con Trump e queste note sarebbero state ora consegnate a Muller. L’impressione conseguente è che Trump abbia fatto licenziare McCabe per il timore legato al suo ruolo sul Russiagate.

Il vicedirettore dell’FBI Andrew McCabe è stato licenziato, venerdì notte, dal procuratore generale Jeff Sessions, due giorni prima del pensionamento. Il licenziamento gli preclude l’accesso alla pensione. McCabe però non ne avrà bisogno, perché tra lui e la moglie, il patrimonio in comune è stimato in milioni di dollari. Per chi non avesse ascoltato i nostri podcast su Italia Il Mondo, McCabe era già stato sospeso dall’FBI alla fine di Gennaio per le vicende riguardanti il suo coinvolgimento nelle fughe di notizie riservate, rilasciate furtivamente ai mass media e dopo essere stato scoperto; nell’aver mentito, sotto giuramento, agli investigatori dell’ispettore generale Michael Horowitz (nominato da Obama) sul suo ruolo in questi cosidetti leaks (fughe). Questa vicenda fa parte in generale delle manovre condotte dallo stato ombra nel tentativo di screditare e neutralizzare Donald Trump. Lo stato ombra, l’establishment, il potere delle stanze di Washington, che con il licenziamento di McCabe si vedono minacciati direttamente nella loro propria esistenza; ecco quindi il motivo della reazione  negativamente viscerale a questa decisione presa da Jeff Sessions.

Quello che non si dice quindi nei media è la verità  sul licenziamento di McCabe. Come ho detto, Mccabe si è reso responsabile di un serio crimine, di essere accusato di fughe di notizie secretate. Le indagini di Horowitz hanno anche scoperto il potenziale ruolo da co-cospiratore degli agenti Peter Strzok and Lisa Page nel fabbricare le infondate accuse contro il generale  Michael Flynn. Non è stato nè Trump, nè Jess Sessions a consigliare il licenziamento di McCabe, bensì  l’ufficio della Responsabilità Professionale dell’FBI, l’ente del FBI che si occupa delle violazioni etiche all’interno dell’agenzia stessa, sempre che nell’ambiente sia rimasto qualcosa che assomigli alla parola etica.  In altre parole sono stati gli stessi colleghi dell’Agenzia a raccomandare il licenziamento di McCabe. Ci sono voci che sussurrano che molti dei cosiddetti “rank and file”, cioè i dipendenti dell’FBI non amministrativi, sono contenti di questo licenziamento. James Kallstrom, ex vice direttore dell’FBI, 27 anni di servizio, ora in pensione, ha dichiarato durante un’intervista, che molti semplici agenti tirano un sospiro di sollievo ed esprimono la loro silenziosa approvazione al licenziamento di McCabe. Si sentono quindi vendicati dal fatto che un ramo all’interno dell’FBI stesso abbia raccomandato il licenziamento di questo corrotto personaggio.

Ci sono molti altri punti oscuri nella losca figura di McCabe; andrebbero studiati, analizzati in dettaglio, per esempio, il suo ruolo nelle indagini sullo scandalo delle emails di Hillary Clinton, la quale poi fu esonerata da ogni colpa. Se, per sua dichiarazione, McCabe ha tenuto un registro delle conversazioni con Trump, dov’è di conseguenza quello contenente le sue conversazioni con Clinton? Come mai contestalmente alle indagini su Hillary Clinton, la moglie di McCabe, Jill McCabe era in corsa in qualità di rappresentate del partito democratico alle elezioni al Senato della Virginia ? Jill McCabe avrebbe ricevuto 700.000 dollari dall’ufficio politico di Clinton e dal partito democratico.

McCabe era sotto inchiesta dell’ufficio etico dell’FBI per altri tre specifici accertamenti; il suo  coinvolgimento in discriminazioni sessuali, in improprie attività politiche e nella violazione della Hatch Act. Altro che licenziamento, McCabe dovrebbe essere sotto processo e pronto per una bella cella con vista sbarre di ferro.

Quello che realmente colpisce è stata la viscerale reazione al licenziamento di McCabe da parte di molti repubblicani dell’Establishment, dei democratici e dei rappresentanti dello stato ombra, i quali come scarafaggi sotto l’acqua sono usciti allo scoperto. Su Twitter molti di loro si sono addirittura permessi di minacciare direttamente il Presidente. Eric Holder, James Comey, Samantha Powers, John Brennan e via dicendo hanno usato parole forti e minacciose contro Trump; segno che un certo panico sta cominciando a insinuarsi fra questi personaggi. In particolare Brennan ha dichiarato su Twitter: “Quando si scoprirà l’estensione della tua venalità, della tua turpitudine morale e della corruzione politica, prenderai il tuo giusto posto  come demagogo caduto nella spazzatura della storia. Hai trovato come capro espiatorio Andy McCabe, ma non distruggerai l’America … l’America trionferà su di te. “ . Samantha Powers ha rincarato la dose spalleggiando Brennan: “Donald, non e` una buona idea far arrabbiare Brennan.” Una minaccia non di poco conto visto il carattere pericoloso di Brennan. Consiglio tutti di andarsi ad ascoltare il mio podcast su la morte del giornalista Michael Hasting per capire chi sia realmente questo personaggio. Ricordo anche che Brennan nel 2014 è stato accusato, come capo della CIA, di aver mentito al Senato Americano sui programmi di assassinio con droni , tortura e spionaggio illegale. Brennan fu costretto a scusarsi con i senatori americani per le sue menzogne.  Il giornale britannico The Guardian nel 2014 scriveva su Brennan che “Le scuse private non sono sufficienti ad assolvere un difensore della tortura, l’architetto del programma di droni americani e il bugiardo più talentuoso di Washington. La top spia della nazione deve dimettersi” Che Brennan ora si permetti di pontificare sulla ”Turpitudine morale e sulla corruzione politica” di Trump è a dir poco paradossale.

https://www.theguardian.com/commentisfree/2014/jul/31/cia-director-john-brennan-lied-senate

PODCAST nr 9_ ACCELERAZIONI INSPIEGABILI. LO SCATTO IMPROVVISO DI MICHAEL HASTINGS VERSO LA MORTE 2a parte, di Gianfranco Campa

PODCAST nr 8_ ACCELERAZIONI INSPIEGABILI. LO SCATTO IMPROVVISO DI MICHAEL HASTINGS VERSO LA MORTE 1a parte, di Gianfranco Campa

E così ora ci ritroviamo ad assistere  l’ignobile spettacolo dei media intenti a prostrarsi nella venerazione di queste potenze oscure, di queste pericolosissime entità; tutto per un odio viscerale verso Trump che annebbia loro il cervello e consuma quel poco che è rimasto di onesta`e professionalità giornalistica. Tutto ciò però impallidisce di fronte alla sfacciata arroganza dello Stato Ombra finalmente uscito quasi del tutto allo scoperto. La loro reazione equivale all’attraversamento del Rubicone; dovessero continuare su questa strada il punto di non ritorno sarebbe la rimozione di Trump. In quel momento si innescherebbe un meccanismo che difficilmente potranno controllare o fermare. Saranno le stanze del potere ad innescare la seconda guerra civile americana; a porne fine saranno però i patrioti armati fino ai denti che popolano il vasto spazio dell’America di mezzo. Di questo argomento parlerò nei miei prossimi podcast ed articoli;  i tempi purtroppo sono ormai maturi…

 

dal XXI podcast di Gianfranco Campa suggestioni sull’odierna natura della democrazia e sul mito dell’antifascismo Di Massimo Morigi

Leviathan, Behemoth, Giobbe, Giovenale, Schmitt, Kelsen, Neumann e Thomas Hobbes: dal XXI podcast di Gianfranco Campa suggestioni sull’odierna natura della democrazia e sul mito dell’antifascismo

Di Massimo Morigi

Quis custodiet ipsos custodes? è la chiusa del podcast n. 21 (Parte II) – Chi per primo chiuderà il cerchio? di Gianfranco Campa e con questa citazione prima dalle Satire di Giovenale e poi divenuta paradigmatica del confronto Kelsen-Schmitt in merito al Custode della Costituzione del giuspubblicista fascista di Plettenberg (Carl Schmitt, Der Hüter der Verfassung, Duncker u. Humblot, 1931) nel quale Kelsen molto acutamente mostrò la contraddizione schmittiana di far poggiare la tutela della costituzione (nello specifico la Costituzione della repubblica di Weimar) sull’organo monocratico del presidente della Repubblica (e da qui la domanda di Kelsen “chi controllerà i custodi stessi?”), si ha il singolare e straniante effetto, non solo letterariamente assai suggestivo ma anche molto potente dal punto di vista euristico, che dall’attuale feroce lotta di potere politico-giudiziaria in corso oggi negli Stati uniti per rovesciare Donald Trump si viene trasportati nel clima dell’epoca della Repubblica di Weimar con i suoi altrettanto feroci scontri fra gli agenti strategici politici ed economici e che vedevano il popolo tedesco come massa di manovra per alimentare questi scontri. Sappiamo come andò a finire: nessuno riuscì a custodire niente e nessuno e prevalse un potere apparentemente monolitico e, come già si poteva dire allora usando un lessico preso a prestito dalla politologia fascista italiana, totalitario. Ma a questo punto del nostro ragionamento sovviene un’altra suggestione, non presa direttamente a prestito dalle parole del podcast n. 21 di Gianfranco Campa, ma dalla situazione che questo podcast magistralmente rappresenta, e cioè la situazione di assoluto caos che regna fra i poteri della Res publica degli Stati uniti d’America, una repubblica che una scienza politica immolatasi al formalismo giuridico descrive come improntata e forgiata sul principio della divisione dei poteri ma che, in realtà, è basata sullo scontro anarchico e feroce fra questi poteri. E questa situazione di feroce ed anarchico scontro di poteri ha profondissime analogie, solo se si voglia scavare più a fondo di quello che dolosamente non fanno le odierne scienza politica e filosofia politica mainstream, con la dinamica reale dello scontro di potere nel regime nazista secondo la magistrale interpretazione datane da Franz Leopold Neumann, il quale nel suo Behemoth. The Structure and Practice of National Socialism (Franz Neumann, Behemoth. The Structure and Practice of National Socialism, London, Victor Gollancz, 1942), sovvertendo la vulgata che il potere nazionalsocialista era caratterizzato da una ferrea monoliticità al cui vertice stava il Führer, affermava che questo era caratterizzato da una situazione di caotica policrazia, insomma era caratterizzato da una feroce lotta di potere fra i vari organi dello stato e i vari potentati nazisti, una lotta di potere nella quale Hitler non era il feroce burattinaio manovratore di tutti i fili ma, bensì, una specie di terribile e venerato idolo ai piedi del quale si svolgevano autonome e feroci lotte di potere. Sul solco della tradizione ebraica, in particolare il libro di Giobbe, poi anche ripresa da Thomas Hobbes nel Leviathan e nel Behemoth (rispettivamente, Thomas Hobbes, Leviathan or The Matter, Forme and Power of a Common-Wealth Ecclesiasticall and Civil, 1651 e Id. Behemoth: the history of the causes of the civil wars of England, and of the counsels and artifices by which they were carried on from the year 1640 to the year 1660, 1681), e sulla traccia della quale il filosofo inglese utilizza l’immagine del leviatano per rappresentare l’ordine politico da instaurare contro il disordine rappresentato dalla bestia Behemoth, Beemoth rappresenta il caos e volendo terminare con le suggestioni letterarie ma che ritengo abbiano più forza euristica e dialettica delle mille fregnacce che ci vengono propalate dall’attuale scienza politica, è veramente forse qualcosa di più di un’anacronistica analogia affermare che Behemoth possa essere la mitica bestia che contemporaneamente meglio rappresenta il nazismo e l’attuale lotta di potere negli Stati uniti. E questo non per dire, come da stanca vulgata da agit-prop, che gli Stati uniti, popolo tutto e sue istituzioni, sono nazisti ma per dire, molto più semplicemente, una più elementare verità, che vale anche per tutti gli altri paesi del perimetro delle moderne democrazie industriali ed in particolare per l’Italia e che è la seguente: qualora la retorica sulla democrazia e sui diritti umani non sia seguita da una reale maturazione a livello di massa della consapevolezza sull’intrinseca natura di scontro strategico della politica, questa politica, o meglio questa natura strategica, come vera e propria pulsione repressa, assume manifestazioni caotiche violente, non produttive perché razionalmente non riconosciute, e, in ultima istanza, con esiti totalitari, e che alla fine, come nel nazismo, assumono formalmente veste tetragona e compatta (nel nazismo e nel fascismo un riconosciuto e dispiegato diretto totalitarismo del potere, nelle democrazie, sempre un totalitarismo del potere ma formalmente mediato dalle forme istituzionali dell’esercizio del potere, ma forme istituzionali considerate indiscutibili per ogni luogo, tempo e circostanza, e quindi in sé totalitarie), ma che in realtà, sotto la veste dell’uniformante – e reale in entrambi i casi – totalitarismo, non sono altro che il pieno dispiegamento delle caotiche pulsioni conflittuali che le retoriche democratiche ed universalistiche hanno cercato inutilmente di rimuovere e camuffare. In Italia fino all’altro ieri vigeva il Behemoth della retorica antifascista. Il fatto che ora sembra che di questo antifascismo non si sappia ormai più cosa farne, non è certo nostalgia per un ritorno ad una vecchia tragedia ma bensì il tentativo, magari in forme non teoricamente mature, di uscirne definitivamente, avendo percepito che il vecchio caos fascista aveva trovato nella retorica dell’ apparente anticaos antifascista, forma italica degenerata della retorica dirittoumanistica e democraticistica, il suo modo di sopravvivere. Oltre che per la puntuale ed iconoclasta ricostruzione – autenticamente rivoluzionaria ed iniziatica rispetto ai media informativi mainstream – della feroce lotta di potere attualmente in corso nella grande “democrazia” americana, anche di queste suggestioni dobbiamo essere grati dalle cronache americane di Gianfranco Campa. Massimo Morigi – 18 marzo 2018

Geopolitica dell’acqua: verità controcorrente di Aymeric Chauprade (traduzione di Roberto Buffagni)

Geopolitica dell’acqua: verità controcorrente

di Aymeric Chauprade

Conferenza tenuta l’8 febbraio 2013 alla Webster University (USA) di Ginevra, come introduzione al Forum dedicato all’acqua come fattore nelle relazioni internazionali.

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Quando Alexandre Vautravers mi ha chiesto di introdurre questo colloquio sull’acqua e la sicurezza, confesso che sulle prime ho sentito una piccola reticenza ad accettare, non perché a chiedermelo era Alexandre (che è uno spirito libero, impossibile da incasellare), tutt’al contrario: ma perché con il passare degli anni, ho imparato a non mettere acqua nel mio vino, e dunque a non mettere acqua… nella mia geopolitica!

Come molti, ho cominciato con le idee dominanti e alla moda sul tema, quelle che si sentono dappertutto, nei dibattiti, nei media, e che è facile riassumere con semplicità: “nel pianeta mancherà l’acqua e per l’acqua gli uomini si faranno la guerra.” Ma voi lo sapete come funziona il mondo: quando non se ne sa un gran che, si seguono le idee dominanti, ma poi, quando si conduce uno studio personale sull’argomento, si scoprono cose che non vanno necessariamente nella stessa direzione. Tra i numerosi libri che ho letto, ce n’è uno che vi raccomando particolarmente: Pour en finir avec les histoires d’eau1 di Jean de Kervadoué e Henri Voron.

Stamattina nuoterò di nuovo controcorrente, e spero che il mio intervento sarà utile introduzione a un dibattito che si vuole esigente, alieno dalle mode, e libero nelle sue conclusioni. Il mio intento sarà quello di rammentare alcune verità idrogeologiche che bisognerà tenere ben presenti in questa giornata di lavori.

Mentre nelle opinioni pubbliche si alimenta l’idea che il problema sarà la rarefazione dell’acqua, dobbiamo cominciare a constatare che oggi, e senza dubbio ancor più domani, è l’eccesso d’acqua che uccide e ucciderà, ben più della sua scarsità.

La catastrofe ecologica che ha mietuto più vite umane negli ultimi tre anni non è stato lo tsunami di Fukushima, ma una inondazione in Pakistan che ha ucciso più di 20.000 persone, ha causato profughi a milioni e sommerso una superficie di 200.000 km, il 40% del territorio francese.

Prendete l’Indo, che da solo misura 1.081.000 kmed è lungo 3.180 km. La sua portata media annua alla foce è di 4.000 m3/s, cioè 120 miliardi di m3 l’anno. La precipitazione di 100 mm di pioggia sulla metà a monte del suo bacino (500.000 km2) genera un volume d’acqua pari a 50 miliardi di m3 in pochi giorni, cioè a dire la metà della portata lorda annuale media. Le inondazioni catastrofiche diventano inevitabili, e la portata della piena abituale nel mese d’agosto può moltiplicarsi fino a 10 volte, da 4.000 a 40.000m3/s. L’acqua può salire molto in alto, e inondare superfici considerevoli.

Nelle gole dello Yangzi Jiang, che un tempo si chiamava Fiume Azzurro, l’altezza delle acque ha avuto variazioni di più di 60 mt. Nel Douro inferiore, in Portogallo, nel dicembre 1990, le acque sono salite a più di due metri sopra gli argini. In Francia, i livelli record in rapporto allo zero delle scale ufficiali hanno raggiunto, per la Garonna 8,32 mt. a Tolosa e 11,70 ad Agens, per la Loira i 7,52 a Tours, per la Senna gli 8,60 al ponte d’Austerlitz a Parigi, per il Rodano gli 8,30 ad Avignone.

Ma non è nulla, a paragone del Mississippi, che a valle di Cairo, nel 1882 ha sommerso più di 9 milioni di ettari, cioè una superficie maggiore dei territori di Belgio e Olanda insieme.

Lo Yangzi Jiang ha allagato superfici paragonabili nel 1931 e 1954, e in quelle occasioni pare abbia distrutto le abitazioni di più di 20 milioni di persone. Per la sola alluvione del 1931, si sarebbe dovuta piangere la morte di più di 100.000 persone.

L’acqua è una risorsa minacciosa, e in realtà, è più facile lottare contro la siccità che contro le inondazioni. Le piene sono improvvise, mentre la siccità è lenta e progressiva. Le piene distruggono abitazioni, riserve di grano e di fieno, uomini e bestiame, quando la siccità al massimo li costringe a spostarsi.

Ora che ho ricordato questa realtà, che secondo gli idrologi rischia addirittura d’aggravarsi, vorrei dare qualche cifra, anche in questo caso per smentire dei miti troppo diffusi.

Esistono tre grandi serbatoi d’acqua sulla Terra: il mare, la terra e l’aria (l’atmosfera).

Il Mare è il serbatoio di gran lunga più voluminoso, 1.338 milioni di miliardi di m3 (o tonnellate d’acqua): il mare, che è la principale fonte di evaporazione, e dunque delle piogge.

Poi c’è la Terra, che rappresenta 48 milioni di miliardi di m3, cioè il 3,5% della massa di acqua marina.

E qui, facciamola finita con i miti a proposito di certi ghiacciai in fusione.

Sulla Terra, ci sono 33 milioni di miliardi di m3 d’acqua immobilizzata sotto forma di ghiaccio; e tenete presente che su questi 33, ce ne sono già 32,6 che costituiscono l’Antartico e la Groenlandia, che non sono ghiaccio, ma che si possono considerare una forma di roccia fissa sul posto da 15 milioni di anni, la temperatura media della quale è di – 70°, e che è diversissima dal ghiaccio dei ghiacciai alpini e dell’Himalaya, i quali rappresentano soltanto 600.000 miliardi di m3.

E’ vero che secondo alcuni questi ghiacciai continentali si ritirano, a causa del riscaldamento climatico osservato a partire dal 1850; ciononostante, l’errore del grande pubblico è credere che a causa del ritiro di certi ghiacciai, diminuisca il volume d’acqua disponibile nei fiumi a valle di essi. E’ falso. Nel caso del Rodano, ad esempio, da 150 anni non si osserva alcuna riduzione della portata media.

E’ importante tenere presente che l’immagazzinamento provvisorio d’acqua, in un lago o sotto forma di ghiaccio, non cambia per nulla il ciclo dell’acqua.

Con o senza ghiacciai, le montagne del mondo sono dei castelli d’acqua. Anche senza ghiacciai, tutte le montagne immagazzinano acqua nei periodi umidi per restituirla nei periodi secchi. Nessun ghiacciaio alimenta il Rio delle Amazzoni, il fiume più possente al mondo, o l’Orinoco, o il Rio de la Plata in Argentina; lo stesso vale per il Nilo, il fiume più lungo del mondo, il Congo, lo Zambesi, i grandi fiumi siberiani, il Mississippi o il San Lorenzo.

Ritorniamo dunque ai nostri 48 milioni di miliardi di m3 d’acqua dolce, dai quali toglieremo i 33 di ghiacci; ci resteranno 15 veri milioni di miliardi di acqua dolce (laghi, fiumi, falde freatiche, zone umide) ciò che risulta, per 7 miliardi di esseri umani, in uno stock di acqua dolce personale di 2 milioni di m3; sapendo che ogni francese consuma in media 100 m3 d’acqua all’anno, se anche vivesse 100 anni, il suo consumo sarebbe di 10.000 m3 su un potenziale di 2 milioni: vale a dire, lo 0,5%.

E’ importante ricordare queste cifre, perché anche se sappiamo che le cose sono più complicate, questo ci porta a relativizzare il peso relativo della presenza umana nel ciclo dell’acqua a livello planetario, e soprattutto a distinguere bene il cosiddetto problema globale dell’acqua dai problemi locali legati all’acqua, problemi che non voglio affatto sottovalutare.

Per riassumere la mia filosofia sul problema dell’acqua: i problemi sono locali, ma la menzogna è globale.

Proseguo sui serbatoi. Ho parlato del mare, della terra, ma non dimentichiamo il terzo serbatoio, l’atmosfera, che è il meno ricco dei tre, 1700 miliardi di m3 sotto forma di vapore, di goccioline d’acqua e ghiaccio che formano le nubi.

Sorvolo sui dettagli, ma negli scambi tra questi tre serbatoi consiste quel che si chiama il ciclo dell’acqua, che, naturalmente, è equilibrato: ecco perché il livello dei mari è costante.

Fatti tutti i calcoli, tenendo conto dell’acqua che cade, di quella che evapora, di quella che torna al mare con i fiumi, si arriva a quella che chiamo l’abbondanza lorda mondiale, cioè a dire la quantità disponibile per l’Umanità nel suo insieme: 47.000 miliardi di m3 all’anno, cioè a dire 6700 m3 per ciascuno dei 7 miliardi di esseri umani. Questi 6700 m3 sono una media, perché per un francese, la disponibilità è di 2800 m3 per abitante; e di questi 2800 m3 a testa, il francese medio (non solo lui, ma anche le sue industrie, i suoi servizi, etc.) ne consuma solo 100 m3 all’anno.

E qui, di nuovo torniamo alla realtà, e tiriamo il collo alle false idee veicolate dall’ideologia mediatica.

Bisogna tenere presente che le famiglie, le industrie, i servizi, le città di tutte le dimensioni restituiscono all’ambiente naturale praticamente il 100% dell’acqua che usano. L’acqua non fa che scorrervi, per essere poi sottoposta a nuovo trattamento: dunque, ad essere consumato non è l’acqua, ma un servizio di distribuzione dell’acqua potabile. Non bisogna confondere l’acqua e il servizio di fornitura dell’acqua: non sono la stessa cosa.

Il solo vero consumo d’acqua, quella che non torna al mare, è l’irrigazione, perché in questo caso l’acqua evapora, e non torna più allo stato liquido nel suo bacino. Ora, tutti sanno che oggi, l’irrigazione ha soltanto un piccolo ruolo nell’agricoltura mondiale.

Eppure, vengono continuamente spacciate delle falsità. Prendiamo questa affermazione di Claude Allègre: “Se tutti gli uomini del pianeta consumassero tanta acqua di fiume quanta ne consumano gli europei, questo prelievo costituirebbe la metà della portata media dei fiumi. Se poi la popolazione mondiale aumentasse del 50%, passando a 9 miliardi, e il livello di vita si elevasse dappertutto al livello di vita europeo, allora l’uomo preleverebbe l’80% della portata dei fiumi.”

Da queste affermazioni traspaiono, oltre alla sempiterna colpevolizzazione dell’europeo, e all’ideologia malthusiana conforme alla quale la crescita demografica è necessariamente un flagello, parecchi errori scientifici. Si lascia credere, anzitutto, che i fiumi siano l’unica risorsa idrica, ciò ch’è inesatto, poiché il 60% delle acque continentali viene dalle falde freatiche. Poi, queste affermazioni lasciano credere che tutta l’agricoltura sia irrigata, che l’allevamento non esiste, che un miglioramento dei livelli di vita comporti necessariamente un aumento proporzionale dei consumi d’acqua. Ora, il consumo dei fiumi francesi è modesto rispetto alla loro portata (3%), e il prelievo non aumenterà, perché l’irrigazione non si svilupperà che in misura molto marginale. D’altronde, da una ventina d’anni i consumi domestici di acqua in Francia diminuiscono, mentre il tenore di vita è raddoppiato. Anche qui vi rimando alle notevoli analisi di Jean de Kervasdoué e Henri Voron.

E’ assolutamente impossibile che l’umanità consumi l’80% dell’acqua dei fiumi e faccia evaporare 47.000 miliardi di m3 all’anno. Per riuscirci, si dovrebbero irrigare 4 miliardi di ettari supplementari, cioè a dire 80 volte la superficie della Francia, per una media di consumo d’acqua per ettaro di 10.000 m3. Ne conseguirebbero raccolti supplementari per 20 miliardi di tonnellate di cereali, quando oggi l’umanità ne produce e consuma soltanto 2,5 miliardi. D’altronde, ad oggi le terre arabili coprono solo 1,4 miliardi di ettari, cioè il 10% delle terre emerse. Non si vede come si potrebbero moltiplicare per 2,5.

I continenti non sono abbastanza grandi per accogliere più di 5,4 miliardi di ettari di terre arabili!

Dunque, se vogliamo affrontare il problema geopolitico dell’acqua, del quale non mi sogno di negare l’esistenza, bisogna cominciare a non massacrare la verità scientifica (idrologica, in questo caso), e anche a diffidare di questo pensiero globalizzante che ha il solo scopo di ficcare in testa alla gente che “per i problemi globali ci vuole un governo globale”.

Globalmente, l’accesso all’acqua non è un problema e non lo sarà, anche con la tensione demografica. Lo ripeto: il problema futuro saranno piuttosto le alluvioni che le siccità. Quanto alla fusione di certi ghiacciai, essa non minaccia in alcun modo il ciclo dell’acqua. Il BRGM2 ci dice che il volume delle falde freatiche mondiali è di 10 milioni di miliardi di m3, cioè a dire 1,5 milioni di m3per abitante nelle sole falde freatiche. Queste acque sotterranee costituiscono il 60% delle acque continentali; e le falde più profonde, a debole capacità di rinnovo, restano dove sono da più di 70.000 anni.

Un’altra impostura nel modo di trattare il problema dell’acqua è che si presenta la diga come un problema, una fonte di conflitti fra gli Stati a monte e gli Stati a valle. Anche qui, il peso dell’ideologia: la diga è come la frontiera, è un muro, e ai nostri giorni i muri non piacciono; l’ideologia dominante ama solo la circolazione senza vincoli, la circolazione degli uomini, la circolazione delle merci, la circolazione delle acque, anche quando sono alluvioni… Il sogno preferito dell’ideologia dominante, subito dopo il meticciato, è proprio la circolazione.

Ora, al contrario di quel che si afferma di solito, le dighe per la produzione di energia idroelettrica non consumano acqua. La diga viene attraversata dal volume totale d’acqua, che transita sia attraverso le turbine, sia attraverso il canale di scarico delle piene. Le perdite per evaporazione, in dighe di questo tipo, sono modestissime o nulle, perché a quelle altitudini fa freddo, anche nelle zone tropicali.

Non solo le dighe non consumano acqua, ma recuperano la sua energia e lottano contro l’erosione. Contribuiscono al contenimento delle piene. La diga non sbarra la via all’acqua, la trattiene provvisoriamente.

Ciononostante, gli Stati a valle non tollerano che gli Stati a monte facciano delle dighe, come l’Egitto e il Sudan che vogliono impedire all’Etiopia di costruire dighe sul Nilo Azzurro, come il Laos, la Cambogia e la Tailandia che si preoccupano dei progetti cinesi sul Mekong. O come l’Uzbekistan che si irrita contro il Tagikistan.

Il vero oggetto di questi conflitti non è l’acqua, è l’elettricità, perché lo Stato a valle non vuole vedere lo Stato a monte produrre la sua propria elettricità, che poi dovrà pagargli a prezzo di mercato. E’ una classica gelosia tra vicini.

Allora fa fine saltare addosso alla Cina e criticarla per la sua diga delle Tre Gole3.

Si dimentica che le Tre Gole sono sul fiume Yangzi Jiang, il più lungo fiume dell’Asia, e senz’altro il più pericoloso del mondo. La verità è che la diga delle Tre Gole ha migliorato la situazione, pur senza annullare il rischio di piene catastrofiche. La capacità della diga, disgraziatamente, è insufficiente a un’efficacia preventiva del 100%. Raccoglie soltanto 34 miliardi di m3, cioè meno del 4% dell’acqua convogliata alla sua imboccatura ogni anno. Gli sversamenti possono ancora superare i 100.000 m3/s, e raggiungere, a valle, i 17 metri di altezza dal livello del suolo. Nel settembre 1998, prima della costruzione della diga, al centro di Wuhan l’onda di piena ha raggiunto i 29 metri, causando la morte di migliaia di persone. Ma la diga regola le piene medie, il che è già molto, e produce 85 miliardi di kWh, l’equivalente di 20 centrali nucleari o di 50 milioni di tonnellate di carbone all’anno.

Bisognerà che un bel giorno i radical-chic4 d’occidente, installati nei loro comfort dopo due secoli di domesticazione dei fiumi e di progressi in materia di trattamento delle acque, autorizzino finalmente i popoli di Asia, d’America Latina e persino d’Africa ad apportare gli stessi miglioramenti. Proprio gli stessi radical-chic d’Europa che si attestano su posizioni dogmatiche in quasi tutti i campi scientifici, che si tratti del gas di scisto, degli OGM o di tutte le altre possibilità che la scienza degli ingegneri ci offre, e che ha costruito la potenza dell’Occidente e la sua superiorità sulle altre civiltà dal XVI secolo in poi. Com’è come non è, gli unici progressi scientifici che si augura questa gente sono quelli che permetterebbero di distruggere lo statuto della famiglia come base della nostra civiltà.

Qualche anno fa, come molti studiosi di geopolitica, sono stato sensibile al tema dell’acqua. Come tutti, amo la Natura, e mi sono detto che forse, qui c’era un vero problema ecologico. Ma bisogna fare, anzi rifare dell’idrogeologia, prima di fare dell’idropolitica, come bisogna rifare la climatologia prima di impegnarsi a testa bassa nell’ideologia del riscaldamento globale di origine antropica. Nel 2009, alla frontiera che separa la repubblica Dominicana da Haiti, nelle piantagioni di banani inondate dal lago salato Enriquillo (che fa da frontiera tra i due paesi vicini) ho scoperto che non esistevano soltanto mari chiusi in via di prosciugamento come il mare d’Aral, del quale si parla sempre, ma che questo lago immenso, invece, si estendeva ogni giorno di più. Insomma, tale e quale ai ghiacciai. Certi si riducono, mentre altri si estendono. Eppure, ai miei figli si parla solo dei primi.

Il professor Aron Wolf, citato da Bjorn Lomborg, faceva notare, dopo aver analizzato le crisi mondiali del XX secolo, che su 412 conflitti catalogati tra il 1918 e il 1994, solo 7 avevano l’acqua come causa parziale, e che in 3 casi su quei 7 non è stato sparato un solo colpo. Un po’ pochino per annunciare la prossima “guerra dell’acqua”.

Insomma, l’acqua è certamente una fonte di conflitto geopolitico, e oggi bisognerà chiedersi che ruolo ha l’acqua nel conflitto israelo-palestinese, nelle relazioni Turchia/Siria/Iraq, interrogarsi sull’acqua in Asia centrale, sul Nilo Bianco, il Nilo Azzurro e tanti altri casi, ma appena cominciate a interessarvi seriamente dei problemi idrogeologici, comprenderete che praticamente tutti questi casi hanno soluzioni scientifiche, e che una guerra costerà sempre molto più cara di parecchi impianti di dissalazione.

Spingiamo più oltre la riflessione. Perché si fa credere alle opinioni pubbliche che qualcosa di essenziale alla loro vita (che cosa c’è di più essenziale dell’acqua?), d’insostituibile, che può suscitare violente reazioni dell’istinto di sopravvivenza, si sta rarefacendo, quando è falso?

Credo che proprio qui la questione dell’acqua in quanto “problema globale” coincida con quella del terrorismo come “problema globale”, e con tutti i “problemi globali”.

Da un canto si spingono alla guerra i popoli confinanti facendo loro credere che sono investiti da un problema geopolitico, quando invece obiettivamente (scientificamente) non è affatto così, dall’altra gli si spiega che la soluzione è globale, e che dunque ci vuole una potenza globale, un potere mondiale, per spegnere questo conflitto.

Da un canto si spinge verso la guerra, dall’altro si spinge verso l’estinzione della sovranità statale.

Chi ha interesse, insomma, a creare disordine per installare più facilmente il suo nuovo ordine globale? Chi ha interesse a destabilizzare i paesi emergenti, a sbarrare la via al multipolarismo che si sta costruendo, a mettere i bastoni fra le ruote a chi vuole incamminarsi sulla via del progresso scientifico e della domesticazione delle forze della Natura che l’Occidente ha imboccato tre secoli fa?

1 Jean de Kervasdoué, Henri Voron, Pour en finir avec les histoires d’eau : L’imposture hydrologique, Paris: Plon 2012

 

2 Bureau de Recherche Géologiques et Minières : http://www.brgm.fr/ [N.d.T.]

 

4 Traduco così l’espressione usata dall’Autore, che in Italia non è di uso corrente: “bobos”. “Radical-chic” non indica esattamente la stessa cosa: in francese, “bobos” cioè “bourgeois-bohéme” designa le persone relativamente agiate e istruite che professano valori “di sinistra” soprattutto nel campo dei diritti delle minoranze, della libertà sessuale, etc. In Italia, il “bobo” corrisponde con una certa precisione al lettore ideale di “la Repubblica”. [N.d.T.]

testo originale non più disponibile on line

Publié par Aymeric Chauprade le 16 août 2013 dans Articles – 6 commentaires

Une conférence donnée à la Webster University (USA) de Genève, le 8 février 2013, en introduction au Forum consacré au facteur de l’eau dans les relations internationales.

Quand Alexandre Vautravers m’a demandé de venir introduire ce colloque sur l’eau et la sécurité, j’avoue d’abord avoir eu une petite réticence, non parce que c’était Alexandre (c’est un esprit inclassable et libre), bien au contraire, mais parce qu’avec le temps j’ai appris à ne pas mettre d’eau dans mon vin, et donc pas d’eau… dans ma géopolitique !

Comme beaucoup, j’ai commencé avec les idées dominantes et à la mode sur ce thème, celles que l’on entend partout dans les colloques, les médias, et qui peuvent se résumer de manière simple : « la planète va manquer d’eau et les hommes se feront la guerre pour l’eau ». Mais vous savez comme le monde fonctionne : quand on ne sait pas grand-chose, on suit les idées dominantes, puis quand on travaille soi-même le sujet, on découvre des choses qui ne vont pas forcément dans le même sens. Parmi les nombreux livres que j’ai lus, il y a en un un que je vous recommande en particulier : Pour en finir avec les histoires d’eau de Jean de Kervasdoué et Henri Voron.

Ce matin je vais encore nager à contre-courant et j’espère que mon intervention sera une introduction utile pour un colloque qui se veut exigeant, loin des modes, et libre dans ses conclusions. Mon but sera de rappeler quelques vérités hydrologiques qu’il faudra garder en tête durant cette journée.

Crédit photo : Kingbob86 via Wikimedia (cc)

Alors que l’on développe dans les opinions publiques cette idée que la raréfaction de l’eau sera le problème, il faut commencer par constater qu’aujourd’hui, et sans doute demain plus encore, c’est l’excès d’eau qui tue et tuera encore beaucoup plus que le manque d’eau.

La catastrophe écologique la plus meurtrière de ces 3 dernières années n’a pas été le tsunami de Fukushima, mais une inondation au Pakistan qui a tué plus de 20 000 personnes, en a déplacé des millions et noyé une surface représentant 40% de la superficie de la France soit 200 000 km2.

Prenez le bassin versant de l’Indus qui mesure à lui seul 1 081 000 km2 et qui une longueur de 3180 km. Son débit moyen annuel à l’embouchure est de 4000 m3/s soit 120 milliards de m3 par an. Le ruissellement intégral de 100 mm de pluies sur la moitié amont du bassin versant, à savoir 500 000 km2, génère un volume d’eau de 50 milliards de m3 en quelques jours, soit la moitié de l’abondance brute annuelle moyenne. L’inondation catastrophique est inévitable et le débit de crue habituel habituel au mois d’août peut alors être multiplié par 10 fois, de 4000 m3/s à 40000m3/s. L’eau peut alors monter très haut et inonder des surfaces considérables.

Dans les gorges du Yangzi Jiang, l’ancien fleuve Bleu, en Chine, la hauteur des eaux a varié de plus de 60 m. Dans le Douro inférieur, au Portugal, en décembre 1909, les eaux ont monté de plus de 26 m au-dessus de l’étiage. En France, les niveaux records par rapport aux zéros des échelles officielles ont atteint, pour la Garonne 8,32 m à Toulouse et 11,70 à Agen, pour la Loire, 7,52 à Tours, pour la Seine 8,60 au pont d’Austerlitz à Paris, pour la Rhône, 8,3 à Avignon.

Mais cela est rien à côté du Mississipi qui, à l’aval de Cairo, a submergé en 1882, 9 millions d’ha soit plus que la surface de la Belgique et de la Hollande réunies.

Le Yangzi Jiang s’est répandu sur des étendues comparables en 1931 et 1954 et, en ces circonstances, aurait détruit les habitations de plus de 20 millions de personnes. Pour la seule crue de 1931, on aurait déploré plus de 100 000 morts.

Crédit photo : KoS (cc)

L’eau est une ressource menaçante et il est en réalité plus facile de lutter contre la sécheresse que contre les inondations. Les crues sont soudaines et violentes et la sécheresse est lente et progressive. Les crues détruisent les habitations, les réserves de grain et de paille, les hommes et le bétail, alors qu’au pire la sécheresse les déplace.

Maintenant que j’ai rappelé cette réalité qui risque même de s’aggraver d’après les hydrologues, je voudrais maintenant donner quelques chiffres, là encore pour casser quelques mythes trop répandus.

Il y a trois grands réservoirs d’eau sur terre : la mer, la terre et l’air (l’atmosphère).

La Mer est le réservoir de loin le plus volumineux, 1338 millions de milliards de m3 (ou de tonnes d’eau). Cette mer qui est donc la principale source d’évaporation et donc de pluies.

Et puis il y a la Terre qui représente 48 millions de milliards de m3 ce qui représente 3,5% de la masse de l’eau de mer.

Tordons ici le coup à quelques mythes à propos de la fonte de certains glaciers.

Il y a 33 millions de milliards de m3 immobilisés sous forme de glace sur Terre et gardez bien à l’esprit que sur ces 33 il y en a déjà 32,6 qui sont l’Antarctique et le Groenland et qui ne sont pas de la glace mais que l’on peut considérer comme une forme de roche en place depuis 15 millions d’années, dont la température moyenne est de -70% et qui est très différente de la glace des glaciers alpins et Himalaya lesquels ne représentent que 600 000 milliards de m3.

Oui ces glaciers continentaux reculent pour certains, du fait du réchauffement climatique observé depuis 1850; mais, pour autant, l’erreur souvent faite par le grand public est de croire que parce que certains glaciers reculent alors le volume d’eau disponible dans les fleuves à l’aval de ces glaciers baisse. C’est faux. Dans le cas du Rhône par exemple, on n’a observé aucune réduction du débit moyen depuis 150 ans.

Il est important d’avoir en tête que le stockage provisoire de l’eau dans un lac ou sous la forme d’un glacier ne change rien au cycle de l’eau. 

Avec ou sans glacier, les montagnes du monde sont des châteaux d’eau. Même sans glaciers, toutes les montagnes stockent de l’eau pendant les périodes humides pour la restituer en périodes plus sèches. Il n’y a pas de glacier pour alimenter l’Amazone, le fleuve le plus puissant du monde, pas plus que l’Orénoque ou le Rio de la Plata en Argentine ; c’est aussi le cas du Nil, le fleuve le plus long du monde, du Congo, du Zambèze, des grandes fleuves sibériens, du Mississipi et du Saint-Laurent.

Donc revenons à nos 48 millions de milliards de m3 d’eau douce sur lesquels on retirera nos 33 de glace et il nous reste quand même 15 vrais millions de milliards d’eau douce (lacs, rivières, fleuves, nappes phréatiques, sols humides) ce qui fait quand même, pour 7 milliards d’être humains, un stock d’eau douce personnel de 2 millions de m3 sachant qu’un Français consomme en moyenne chaque année 100 m3, même s’il vit 100 ans, cela représente 10 000m3 de consommation sur un potentiel de 2 millions soit 0,5%.

Il est important de rappeler ces chiffres car même si nous savons que les choses sont plus compliquées, cela nous amène à relativiser la trace humaine dans le cycle de l’eau, au niveau global (planétaire) et surtout à bien différencier le soit-disant problème global de l’eau des problèmes locaux liés à l’eau, problèmes que je ne veux surtout pas minorer.

Pour résumer ma philosophie sur le problème de l’eau : les problèmes sont locaux mais le mensonge est global.

Je continue sur les réservoirs. J’ai parlé de la mer, de la terre, n’oubliez pas le troisième réservoir, l’atmosphère, qui est le moins doté des trois réservoirs, 17000 milliards de m3 sous forme de vapeur, de fines gouttelettes d’eau et de glace et qui forment les nuages.

Je passe les détails, mais le jeu entre ces trois réservoirs est ce que l’on appelle le cycle de l’eau, il est équilibré évidemment, ce qui fait que le niveau de la mer est constant.

Quant on a fait tous les calculs, en prenant en compte l’eau qui tombe, celle qui s’évapore, celle qui retourne à la mer par les fleuves, on arrive à ce que l’on appelle l’abondance brute mondiale, c’est à dire finalement la disponibilité pour l’Humanité et elle est de 47 000 milliards de m3 par an soit 6700 m3 par an pour chacun des 7 milliards d’être humains. Ces 6700 m3 sont une moyenne car pour un Français, la disponibilité est de 2 800m3par habitant et si je vous dis que ce que ce Français (c’est-à-dire lui-même mais aussi, ses industries, ses services…) consomme c’est seulement 100 m3 par an sur ces 2 800m3.

Là encore revenons aux réalités et tordons le cou aux fausses idées véhiculées par l’idéologie médiatique.

Il faut avoir en tête que les ménages, l’industrie, les services, les villes de toutes tailles rendent au milieu naturel pratiquement 100% de l’eau qu’ils utilisent. L’eau ne fait que passer ; elle est retraitée ; donc ce qui est consommé ce n’est pas l’eau mais un service de distribution d’eau potable. Il ne faut pas confondre l’eau et le service de l’eau. Ce n’est pas la même chose.

La seule vraie consommation d’eau, celle qui ne retourne pas à la mer, c’est l’irrigation, car dans ce cas l’eau est alors évaporée et ne se retrouve pas à l’état liquide dans son bassin versant. Or tout le monde sait que l’irrigation constitue aujourd’hui une petite part dans l’agriculture mondiale.

Pourtant des contre-vérités sont sans cesse colportées. Prenons cette affirmation de Claude Allègre : « Si tous les hommes de la planète consommaient autant d’eau des fleuves que les Européens, ce prélèvement constituerait la moitié du débit des fleuves en moyenne. Si en outre, la population mondiale augmentait de 50%, passant à 9 milliards, et que le niveau de vie s’améliorait partout pour se mettre à niveau des Européens, alors l’homme prélèverait 80% de l’eau des fleuves ».

De ces propos transparaissent, outre la sempiternelle culpabilisation de l’Européen, et l’idéologie malthusienne selon laquelle la croissance démographique est nécessairement un fléau, plusieurs erreurs scientifiques. Ils laissent d’abord croire que les fleuves sont les seules ressources en eau, ce qui n’est pas exact puisque 60% de l’eau des continents tient aux nappes phréatiques. Ensuite, ces propos laissent penser que toute agriculture est irriguée, que l’élevage n’existe pas, que la hausse des niveaux de vie s’accompagne nécessairement d’une hausse parallèle des consommations d’eau. Or les consommations dans les fleuves français, sont faibles par rapport à leur débit (3%) et ces prélèvements n’augmenteront pas car l’irrigation ne se développera que très marginalement. D’ailleurs, depuis une vingtaine d’années, les prélèvements domestiques d’eau baissent en France alors que le niveau de vie a doublé. Là encore je vous renvoie aux analyses remarquables de Jean de Kervasdoué et Henri Voron.

Il est absolument impossible que l’humanité consomme 80% de l’eau de ses fleuves et évapore 47 000 milliards de m3 d’eau par an. Pour cela il faudrait irriguer 4 milliards d’ha supplémentaires soit 80 fois la surface de la France sur une base de consommation en eau de 10 000 m3 par ha. On pourrait y récolter 20 milliards de tonnes de céréales supplémentaires alors que l’humanité ne produit et consomme aujourd’hui que 2,5 milliards de tonnes. Par ailleurs, les terres arables ne couvrent que 1,4 milliards d’ha à ce jour soit environ 10% des terres émergées. On ne voit pas comment les multiplier par 2.5

Les continents ne sont pas assez grands pour accueillir plus de 5,4 milliards de terres arables!

Donc si nous voulons aborder les problèmes géopolitiques de l’eau, que je ne nie pas évidemment, il faut commencer par ne pas massacrer la vérité scientifique (hydrologique en la matière) et même par se méfier de cette pensée globalisante qui n’a d’autre but, que de mettre dans la tête des gens « qu’à problème global il faut gouvernement global ».

Globalement, l’accès à l’eau n’est pas un problème et ne le sera pas, même avec la tension démographique. Je le répète, le problème à venir sera davantage la crue que la sécheresse. Quant à la fonte de certains glaciers, elle ne menace en rien le cycle de l’eau. Le BRGM nous dit que le volume des nappes phréatiques mondiales est de 10 millions de milliards de m3 soit 1,5 million de m3 dans les nappes pour chaque habitant. Ces eaux souterraines constituent 60% des eaux continentales et les nappes les plus profondes à faible capacité de renouvellement sont là depuis 70000 ans.

Une autre imposture du traitement du problème de l’eau est celui du barrage que l’on présente comme un problème, une source de conflits entre États amont et État aval. Là encore, le poids de l’idéologie joue, le barrage, c’est comme la frontière, c’est un mur, et l’on n’aime pas les murs de nos jours ; l’idéologie dominante n’aime que la circulation sans contrainte, la circulation des hommes, la circulation des biens, la circulation des eaux, même quand il s’agit d’eaux en crues… Plus que la circulation l’idéologie ambiante ne rêve que de métissage.

Or contrairement à ce qui est souvent affirmé, le barrage hydroélectrique ne consomme pas d’eau. Il est traversé par la totalité du volume d’eau qui transite soit par les turbines, soit par l’évacuateur de crues. Les pertes par évaporation sur le plan d’eau de ce type de barrages sont faibles, voire nulle, car il fait froid en altitude, même en zones tropicales.

Non seulement les barrages ne consomment pas d’eau mais ils récupèrent son énergie et luttent contre l’érosion. Ils participent à la maîtrise des crues. Le barrage ne barre pas l’eau, il la retient provisoirement.

Pourtant, les États aval ne supportent pas que les États amont fassent des barrages, tels l’Égypte et le Soudan qui veulent empêcher l’Ethiopie de construire des barrages sur le Nil bleu, tels le Laos, le Cambodge et la Thaïlande qui s’inquiètent des projets chinois sur le Mékong. Comme encore l’Ouzbékistan qui se fâche contre le Tadjikistan.

Le vrai sujet de ces querelles ce n’est pas l’eau, c’est l’électricité, l’État aval n’ayant pas envie de voir l’État amont produire sa propre électricité qu’il devra payer lui au prix du marché. C’est une jalousie classique de voisin.

Alors il est de bon ton de tomber sur le dos de la Chine et de la critiquer pour son barrage des Trois Gorges.

On oublie ce qu’est le fleuve Yangzi Jiang, plus long fleuve d’Asie et sans doute le fleuve le plus dangereux du monde. La vérité c’est que le barrage des Trois Gorges a amélioré la situation, sans avoir supprimé le risque de crues catastrophiques. Sa capacité est malheureusement insuffisante pour être efficace à 100%. Il ne stocke que 34 milliards de m3, soit moins de 4% de l’eau charriée à l’embouchure chaque année. Les débits peuvent encore dépasser 100 000 m3/S et atteindre en aval une côte de 17 m au dessus du niveau de la plaine. En septembre 1998, avant la construction du barrage, la côte de 29 m a été atteinte au centre de Wuhan, causant la mort de milliers de personnes. Mais il régule les crues moyennes et c’est déjà beaucoup et il a produit 85 milliards de kWh, l’équivalent de 20 tranches de centrales nucléaires ou de 50 millions de tonnes de charbon par an.

Il faudra un jour que les bobos d’Occident, installés dans leur confort après deux siècles de domestication des fleuves et de progrès en matière de retraitement des eaux, autorisent enfin les peuples émergents d’Asie, d’Amérique Latine et même d’Afrique à procéder aux mêmes améliorations. Ces bobos d’Europe qui campent sur des positions dogmatiques dans presque tous les domaines scientifiques, qu’il s’agisse du gaz de schiste, des OGM ou de toute autre possibilité que la science des ingénieurs nous apporte et qui a fait la puissance de l’Occident et sa supériorité sur les autres civilisations depuis le XVIème siècle. Bizarrement, les seuls progrès scientifiques que souhaitent ces gens sont ceux qui permettraient de détruire le statut de la famille comme socle de notre civilisation.

La mer d’Aral en 2003. Crédit photo : Staecker (cc)

Il y a quelques années, comme beaucoup de géopolitologues, j’ai été sensible au thème de l’eau. J’aime la Nature comme nous tous, et je me suis dit qu’il y avait peut-être un vrai problème écologique de ce côté-là. Mais il faut refaire de l’hydrologie avant de faire de l’hydropolitique, comme il faut refaire de la climatologie avant de s’engager tête baissée dans l’idéologie du réchauffisme d’origine anthropique. En 2009, à la frontière séparant la République dominicaine et Haïti, dans les bananeraies inondées du lac salin Enriquillo (qui fait frontière entre les deux pays voisins), j’ai découvert qu’il n’y avait pas que des mers fermées en voie de rétraction comme la mer d’Aral, dont on parle tout le temps, mais que ce lac immense, lui, s’étendait chaque jour davantage. Comme pour les glaciers donc. Certains rétrécissent, pendant que d’autres s’étendent. Pourtant, à mes enfants on ne parle que des premiers.

Le professeur Aaron Wolf cité par Bjorn Lomborg faisait remarquer, après avoir analysé les crises mondiales du XXème siècle, que sur 412 conflits répertoriés entre 1918 et 1994, seulement 7 eurent l’eau comme cause partielle et que dans 3 cas sur 7 aucun coup de feu ne fut même tiré. Cela fait quand même léger pour nous annoncer “la guerre de l’eau” à venir.

Alors bien sûr, l’eau est une source de litige géopolitique et il faudra s’interroger aujourd’hui sur la place de l’eau dans le conflit israélo-palestinien, sur les relations Turquie/Syrie/Irak, sur l’eau en Asie centrale, sur le Nil bleu et le Nil blanc et tant d’autres cas, mais à partir du moment où vous vous penchez sur les problèmes hydrologiques, vous comprenez que pratiquement tous les cas considérés ont des solutions scientifiques et qu’une guerre coûtera toujours beaucoup plus cher que plusieurs usines de désalement.

Poussons la réflexion plus loin. Pourquoi fait-on croire aux opinions publiques que quelque chose d’essentiel à leur vie (quoi de plus essentiel que l’eau ?), d’incontournable, qui peut susciter des réactions violentes de survie, va se raréfier alors que c’est faux ?

Je crois que c’est là que la question de l’eau en tant que “problème global”, rejoint celle du terrorisme comme “problème global”, et de tous les problèmes globaux.

D’un côté on pousse des peuples voisins à la guerre en leur faisant croire qu’ils ont un problème géopolitique alors qu’objectivement (scientifiquement) ils n’en ont pas, de l’autre on leur explique que la solution est globale, qu’il faut donc une puissance globale, un pouvoir mondial, pour éteindre ce conflit.

D’un côté on pousse à la guerre, de l’autre on pousse à l’extinction de la souveraineté étatique.

Qui aurait donc intérêt à créer ainsi du désordre pour mieux installer son nouvel ordre global ? Qui donc a intérêt à déstabiliser les émergents, à barrer la route à la multipolarité qui se met en place, à gêner ceux qui veulent emprunter le chemin du progrès scientifique et de la domestication des forces de la Nature que l’Occident commença à emprunter il y a trois siècles?

Aymeric Chauprade

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