il monolite, di Giuseppe Masala

La logica è un monolite ineludibile. E nella questione dei piani di salvataggio dei paesi mediterranei dell’euro questo fatto emerge in tutta la sua stringente drammaticità.
La Spagna ha margini per agire dal punto di vista del debito pubblico ma ha il sistema bancario che è un colabrodo sovraesposto nei confronti dei paesi emergenti e potrebbe essere necessaria (io direi che sarà necessario senza dubbio) un salvataggio del sistema bancario da parte dello stato che a quel punto avrebbe bisogno di ricorrere al Mes (tutto questo si è già verificato nel 2011), la Grecia ad andar bene farà un -10% di Pil ed è già debitrice del Mes ma con il calo di gettito per pagare le rate del Mes dovrebbe procedere ad ulterirori tagli dal bilancio dello stato acuendo la crisi oppure richiedendo un nuovo finanziamento dal Mes per pagare le rate del prestito del Mes già ottenuto. L’Italia se farà un -10% (ma potrebbe andare peggio) sarà al bivio: o non fa piani di salvataggio ed accettare la distruzione di parte del suo tessuto produttivo e finanziario oppure dovrà ricorrerrere al Mes. Potrei continuare parlando di Portogallo e Irlanda ma tralascio per brevità.
C’è anche il problema che il Mes ha capitale versato che è una parte del capitale sottoscritto. Il primo che farà richiesta prenderà i soldi, ma quando il secondo, il terzo e forse il quarto chiederà i soldi e questi non ci sono e sarà necessario chiamare le cifre sottoscritte ma non versate dai paesi aderenti che succede? Il primo che ha preso i soldi dovrà rifinanziare il Mes? Per esempio se l’italia prende 100 per prima poi dovrà riversare 40 quando la Spagna chiederà i soldi e a loro volta Spagna e Italia dovranno riversare altri 10 a testa quando sarà la Grecia a chiedere i soldi al Mes (peraltro per poter ripagare le rate del Mes acceso nel 2011)?
Non basta. Poi c’è il Recovery Fund che deve essere finanziato se nascerà: dunque i paesi che richiedono il Mes dovranno versare parte di quanto preso per finanziare il Recovery Fund per poter prendere a prestito soldi dal Recovery Fund che poi verranno – ironizzo – ripagare magari facendo un altro prestito al Mes che però non ha i soldi che dovranno essere versati dagli stati tramite un aumento di capitale che gli stati in crisi non possono sostenere e dovranno magari utilizzare i fondi del Recovery Fund oppure tramite l’accensione di un prestito al Fondo Monetario Internazionale che però a quel punto farebbe intervenire la sezione psichiatrica dell’Organizzazione Mondiale della Sanità per andare a Bruxelles – possibilmente al suono della Fiera dell’Est di Branduardi -, prenderli e rinchiuderli tutti in un manicomio. Amen.

La logica è ineludibile e qui stiamo parlando di un delirio di gente totalmente pazza oppure di cinici che hanno preso tempo con un piano senza capo ne coda in attesa degli eventi.

 

S&P conferma il rating dell’Italia a BBB. Gli americani continuano a tenderci la mano e peraltro si confermano onesti. Di che aggiustamento strutturale può mai aver bisogno un paese che è in avanzo di Bilancia Commerciale e di Saldo Partite Correnti per decine di miliardi e con un Niip in pareggio. Colpevole solo di essere prigioniero di trattati deliranti – senza capo ne coda – che pongono la misura debito pubblico in rapporto al pil come parametro per valutarne la stabilità finanziaria non considerando che se abbiamo un Niip in pareggio significa che la Repubblica Italiana ha un debito nei confronti dei suoi cittadini che però sono la Repubblica Italiana stessa. Senza contare il fatto che se valutassero il debito pubblico dovrebbero degradare a spazzatura il debito degli Usa, del Giappone e dell’Uk per dare l’ambitissima AAA al Congo che ha un invidiabile (sic) rapporto debito/pil del 30%.

Tutto il mondo sta dicendo che i nordeuropei sono o completamente pazzi o dei criminali.

Commentario all’intervista ad Antonio de Martini. Contro la superstizione.., di Massimo Morigi

Commentario all’intervista ad Antonio de Martini di Giuseppe Germinario. Contro la superstizione ed oltre il coronavirus per un nuovo posizionamento internazionale dell’Italia

 

Di Massimo Morigi

 

In data 17 aprile 2020 il blog di geopolitica “L’Italia e il Mondo” ha pubblicato la videointervista Conversazione fra Giuseppe Germinario e Antonio de Martini. Crisi epidemica, implicazioni, conseguenze, opzioni politiche. L’URL dell’ “Italia e il Mondo” presso il quale si può prendere visione dell’intervista è http://italiaeilmondo.com/2020/04/17/le-nuove-strade-aperte-dal-coronavirus-con-antonio-de-martini/#disqus_thread come è pure possibile visionare il documento presso YouTube all’URL https://www.youtube.com/watch?time_continue=5937&v=lEMtpmevFJU&feature=emb_logo.  Nell’augurio che l’ “Italia e il Mondo” protragga in saecula saeculorum la sua opera di risveglio del pensiero geopolitico e che la prima piattaforma commerciale di condivisione di documenti audiovisivi tenga a bada la sua natura commerciale, cioè non decida di punto in bianco di eliminare quei documenti che possono vantare meno contatti e quindi di scarsa potenzialità pubblicitaria, ma anche alla luce di un elementare principio di cautela, vista la fondamentale importanza dell’intervista per lo sviluppo del dibattito e (si spera) dell’azione per raddrizzare la schiena del nostro paese, piegata per ultimo dal coronavirus ma della cui tragica condizione  questo agente patogeno è solo la classica goccia che fa traboccare il vaso, dopo  scaricamento dell’intervista si è provveduto al suo ricaricamento presso il maggiore e più prestigioso archivio senza scopo di lucro di raccolta di documentazione digitale, generando così gli URL di Internet Archive  https://archive.org/details/y-2mate.com-le-nuove-strade-aperte-dal-coronavirus-con-antonio-de-martini-l-emtpmev-fju-360p-1  e https://ia801401.us.archive.org/5/items/y-2mate.com-le-nuove-strade-aperte-dal-coronavirus-con-antonio-de-martini-l-emtpmev-fju-360p-1/y2mate.com%20-%20Le%20nuove%20strade%20aperte%20dal%20coronavirus%2C%20con%20Antonio%20de%20Martini_lEMtpmevFJU_360p%20%281%29.mp4, presso i quali non solo l’intervista può essere ugualmente apprezzata ma soprattutto, si spera, il fondamentale documento possa superare quella marxiana “critica rodente dei topi”, nel presente caso non più i piccoli roditori che metaforicamente assalirono l’ Ideologia tedesca ma i ben più temibili e reali roditori dell’universo internettiano che fanno sì che, o per ragioni di sfinimento personale di chi mantiene ed organizza pur fondamentali siti in Rete (e lo ripetiamo per l’ennesima volta, cento di questi giorni all’ “Italia e il Mondo” uno dei pochissimi siti che nel panorama Italiano ed internazionale sappia senza estremismi ma anche senza timidezze dare diffusione ad una concreta cultura politica realista) o per ragioni di bieco tornaconto commerciale (i. e. YouTube e fratellini imitatori) questi documenti, non importa il loro valore, in media abbiano una aspettativa di vita di non più di cinque anni. Tuttavia, siccome dello spirito della Conversazione fra Giuseppe Germinario e Antonio de Martini tutto si può dire (e dal nostro punto di vista non se ne può dire che bene) tranne che sia animata da un malintesa ambizione di passare ai posteri ma è, invece, tutta protesa a fornire concrete indicazioni per il presente, noi che invece ben volentieri gli accordiamo la qualità definita dall’oraziano Exegi monvmentvm aere perennivs, veniamo ora ad enuclearne i  passaggi principali. Se si volesse dare una definizione filosofico-politica della conversazione, definizione che con questo attributo iniziale immaginiamo desti già un moto di ripulsa allo spirito concretissimo (ed acutissimo) di de Martini, si potrebbe dire che essa, al di là della contingenza del coronavirus, non è altro che un dialogo contro la superstizione. Giustificheremo fra poco questa affermazione, apparentemente sorprendente visto che la parola ‘superstizione’ non viene pronunciata una sola volta nel corso del lungo scambio di battute, più di un’ora e tre quarti, fra Antonio de Martini e Giuseppe Germinario. L’intervista inizia con un excursus storico di de Martini sulle epidemie medievali del Vecchio continente, resoconto di de Martini del quale non facciamo il sunto completo perché non si vuole togliere il piacere a chi lo voglia conoscere di apprenderlo dalle vive (ed espressivamente vivaci, il che non guasta) parole dell’intervistato ma dalle quali si nota già dal breve accenno che segue  l’abissale scarto rispetto alle attuali narrazioni sul coronavirus che ad ogni piè sospinto ci vengono giornalmente propinate dall’attuale tristo sistema di informazione di massa. Ma come, al posto del parere dell’immancabile versipelle virologo e/o epidemiologo di turno, de Martini ci riferisce di un Visir di Granada  che nel XIV secolo aveva riconosciuto la natura contagiosa della peste e che alla luce di questa consapevolezza aveva preso opportune ed efficaci misura di quarantena. Ma come, al posto delle supercazzole e delle c…te sesquipedali sui cambiamenti climatici  che avrebbero favorito la diffusione e persino la nascita dell’attuale morbo (sempre a cura dei soliti superesperti virologi e/o epidemiologi da pronto intervento di rimbambimento delle masse, corpi  d’ élite e d’assalto del thumberghismo di massa) sempre de martini ci riferisce che un tal’altro Visir coevo al primo pensava invece alla peste come una sorta di punizione divina e si rifiutava di prendere provvedimenti efficaci (oggi,  ci permettiamo noi di integrare il ragionamento di de Martini ma senza tema di stravolgerlo nella sua saggezza storicistica,  siccome siamo definitivamente secolarizzati, caduta la punizione divina, c’è invece la punizione di Gea, il pianeta vivente, una bella mossa à la Thumberg per installare fra le masse un senso di colpa in versione anticonsumista e oscurare la realtà di una peste sorta per una globalizzazione senza regole e favorita dal sempre più marcato infiacchimento dello Stato nella sua capacità di controllo del territorio e della salute pubblica, una senso di colpa anticonsumistico  le cui irrazionali involuzioni psicologiche   non sono più le classiche espiazioni corporali medievali o l’inettitudine  del secondo Visir  ma la sotterraneamente esaltata dai mass media come momento catartico tragica compressione dei consumi tramite le odierne apparentemente scientifiche italiche quarantene generalizzate – in realtà,  e per fortuna, solo una tragica parodia di quelle ben più serie e totalitarie made in China –  che assieme al morbo rischiano anche di fare scomparire il paziente, ma tant’è).  Ma, il gustosissimo excursus storico di de Martini che, proprio per la sua mentalità storico-storicista, fa intrinsecamente piazza pulita di un approccio alla situazione espertocentrica, non è altro che la premessa al nucleo duro dell’intervista, che non ruota attorno a considerazioni epidemiologiche, virali (o presunte tali) ma vuole svolgere una radicale riflessione in merito all’attuale collocamento internazionale dell’Italia, argomento, in ultima analisi, assai più importante dell’attuale crisi sanitaria e dall’impostazione del quale dipendono – questo il parere di de Martini e, modestamente anche il nostro – anche gli esiti della fuoruscita più o meno positiva dell’Italia dall’attuale crisi sanitaria. Detto in estrema sintesi. De Martini ritiene che sia giunta l’ora di prendere il toro per le corna ed approfittare dell’attuale crisi dell’Unione europea, evidenziata come non mai dalla crisi del coronavirus, per cercare di stringere un’alleanza sempre più stretta, economica, monetaria, politica e militare, con coloro che hanno girato le spalle alla UE, cioè con il Regno Unito (in questa nuova alleanza foriera di uno spacchettamento in direzione atlantica di parte del Vecchio continente – ma, grande novità rispetto all’egemonismo monocratico statunitense nato nel secondo dopoguerra, via quella che de Martini continua icasticamente, e con grande realismo politico,  a chiamare la “perfida Albione” – delle nazioni meridionali del Vecchio continente, l’Italia, sempre sue icastiche e colorite parole, «deve mettere la trippa e l’Inghilterra le ossa» e dove la trippa dovrebbe essere e la posizione strategica dell’Italia nel Mediterraneo e, soprattutto, la sua capacità –  per la verità allo stato solo potenziale e derivante dalla sua  grande tradizione di realismo politico unita ad una fine ed unica mentalità dialettico-universalistica di marca cattolica e dalle sue realizzazioni risorgimentali ma non altrettanto, purtroppo, dagli ultimi settant’anni di vita repubblicana andanti in senso diametralmente opposto a questi grandi lasciti – di recitare, anche se di concerto con gli altri paesi del sud Europa, un ruolo egemonico e di traino in questo riorientamento strategico; mentre le ossa britanniche sarebbero  le sue capacità e pulsioni imperialistiche mai sopite, “perfida Albione”, appunto: non si potrebbe immaginare linguaggio ed approccio mentale più lontani dall’odierna “pappa del cuore” che impera nell’attuale pensiero politico, diffuso poi a rincoglionimento delle masse dai grandi mezzi di informazione). Si può essere più o meno d’accordo con questa radicalità di pensiero, ma quello che qui conta è che, contrariamente alla informazione massificata, questa intervista si presenta come una delle rarissime occasioni non sprecate di cui sono a conoscenza per riflessioni politiche e strategiche  sul coronavirus  che non facciano perno sui soliti esperti d’avanspettacolo, che poi, come si è visto, esperti non lo sono per niente (in primis, ovviamente, i soliti virologi, ma last but not the least, anzi, i soliti pensatori mainstream di destra o sinistra non importa che ora non sanno far altro che  tacere o dare a ragione a questo o a quel virologo a seconda che questi sia più o meno favorevole ad un più o meno radicale blocco delle attività produttive, blocco plaudito dal pensatore di sinistra, avversato da quello più a destra: ma come si diceva una volta, il problema è politico e non certo tecnico-sanitario, e ora  come non mai l’attuale occupazione della  carica di Presidente del Consiglio da parte di un  personaggio che esprime lo zero assoluto del ‘politico” e la perfetta incarnazione, attraverso i suoi Dpcm sanitari, dello schmittiano “legislatore motorizzato” dimostra la verità di questo assunto). Ed affermando che, a scanso di equivoci, io sono personalmente totalmente d’accordo anche con questa parte più direttamente politica dell’intervista a de Martini, vengo per ultimo a giustificare l’affermazione  iniziale che l’intervista è un dialogo adversus suspertitionem. Lasciando ai lettori il piacere di completare tutti i passaggi del ragionamento, limitiamoci qui ad affermare che il significato etimologico di ‘superstizione’ ci indica la credenza che vi siano momenti e/o istanze superiori –  o, meglio, presunte tali –  di fronte al quale l’uomo, soprattutto quello comune e non vicino ai misteri, sacri o profani che siano, deve chinare la testa. L’intervista a de Martini è un potentissimo farmaco contro la moderna superstizione scientifica essendo formata ed informata al superiore pensiero storico-strategico, l’unica forma mentis ed agendi che diede inizio all’ evoluzione da ominide a homo sapiens e, nello specifico, l’unica Weltanschauung-filosofia della prassi che non solo  può permettere al nostro paese di non uscire completamente distrutto dall’attuale morbo ma anche di liberarsi dai morbi ideologici democraticistici  degli ultimi settant’anni (verso i quali, vedi sempre l’intervista,  de Martini nutre, e a ragione, una profondissima avversione). Sulle forme politiche ed organizzative di come questo pensiero storico-strategico certamente all’altezza di un mondo sempre più violentemente policentrico e dinamico possa concretamente prendere la direzione indicata da Antonio de Martini, come da consolidata esortazione di prammatica, si dichiara aperto il dibattito (e  ancora più auspicabilmente l’azione)  e, per ora, proprio per questo de hoc satis

 

Massimo Morigi – 26 aprile 2020

 

 

 

 

 

 

 

Essere, avere e potere nella crisi, di Dominique Strauss-Kahn, a cura di Roberto Buffagni

Qui sotto la traduzione di un importante saggio di Dominique Strauss-Kahn, già direttore del FMI ed influente opinionista, liquidato da quell’incarico per uno scandalo sessuale appositamente costruito. La sua prospettiva è distante dal punto di vista del blog; cionondimeno l’analisi e gli spunti che offre sono molto interessanti per individuare i mutamenti di paradigma in corso nei centri decisionali_Giuseppe Germinario

https://www.leclubdesjuristes.com/blog-du-coronavirus/libres-propos/letre-lavoir-et-le-pouvoir-dans-la-crise/?fbclid=IwAR2Hz9MV49hy-11KvemmoULZR-2jCeMhKCZw_tzv1-jX7j8djpZuPtDR2aI

Essere, avere e potere nella crisi, di Dominique Strauss-Kahn

di Dominique Strauss-Kahn, ex ministro dell’Economia e delle finanze, ex amministratore delegato del Fondo monetario internazionale

 

Questo importante articolo è stato scritto da Dominique Strauss-Kahn, ex capo del FMI, per l’influente rivista Politique Internationale, che lo pubblicherà nel prossimo numero (numero di primavera). Un ringraziamento speciale a Patrick Wajsman per aver autorizzato la sua distribuzione e Dominique Strauss-Kahn che lo accetta a beneficio dei lettori del blog del Club des juristes.

 

La crisi sanitaria che stiamo vivendo è diversa da qualsiasi altra conosciuta dalle generazioni precedenti. Le rievocazioni della grande peste nera del 1348 o dell’influenza spagnola del 1918-1919 sono interessanti in quanto ci consentono di ripensare le conseguenze delle pandemie. Ma non dicono nulla sulla resilienza di una società la cui economia è integrata a livello globale e che ha perso quasi tutta la memoria del rischio di infezione.

 

Anzitutto, se la crisi attuale è diversa, è per la velocità di diffusione di questa malattia. Tre mesi dopo l’inizio della crisi sanitaria, quasi la metà della popolazione mondiale è chiamata in isolamento. Anche se la contagiosità del virus ha probabilmente avuto un ruolo in questo passaggio, dallo stadio epidemico a quello della pandemia, la globalizzazione, contrassegnata dall’accelerazione della circolazione delle persone, è al centro del processo di propagazione (1). Anche i tempi di reazione dei paesi sviluppati, i cui sistemi sanitari sono stati rapidamente sommersi, devono senza dubbio essere incolpati. Attesta la mancanza di lungimiranza e una – infondata – fiducia nella capacità dei sistemi sanitari di proteggere in maniera massiccia la loro popolazione, ottenendo al contempo dispositivi di protezione e test di monitoraggio da  fornitori esteri, principalmente cinesi. Non c’è dubbio che questo non fosse inevitabile. Taiwan, con la sua esperienza in precedenti epidemie, aveva molti dispositivi di protezione (2), le sue capacità di produzione e un dipartimento dedicato alla gestione delle malattie infettive in grado, in particolare, di gestione rapida, e applicazioni di condivisione dei dati sui pazienti infetti. È senza dubbio normale che un sistema sanitario non sia realizzato per far fronte a un’esigenza brutale e temporanea. Ma, in questo caso, è importante che sia reattivo, cioè capace di reindirizzare la sua offerta e mobilitare riserve predefinite e identificate. Questa agilità sembra mancare.

 

L’altra differenza strutturale tra questa crisi sanitaria e le crisi precedenti è la sua entità. Molte persone hanno prima cercato di mettere in prospettiva la gravità della situazione ricordando il numero di decessi dovuti all’influenza stagionale, alle epidemie di HIV ed Ebola e persino alle conseguenze sulla salute di pratiche di dipendenza come l’alcool o tabacco. Oltre a non conoscere le conseguenze letali di Covid-19 fino a quando non avremo interrotto la sua trasmissione, avanzare questo tipo di argomento equivale a ignorare la natura globale e assoluta di questa pandemia. Globale in quanto nessuna area geografica è più risparmiata e perché la pandemia attraversa una demografia mondiale che non ha paragoni con quella del 1919: il semplice numero di individui chiamati a rimanere a casa è oggi il doppio del la popolazione mondiale totale durante l’episodio di influenza spagnola. Assoluto, perché è ovvio che nessuno può considerarsi al sicuro dal rischio di contaminazione.

 

Ed è quest’ultima specificità della crisi sanitaria che la distingue da tutti gli episodi precedenti: il suo carattere altamente simbolico colpisce e sconvolge una popolazione mondiale che aveva quasi dimenticato il rischio di infezione. In questo, mina l’accogliente comfort in cui i paesi economicamente sviluppati si sono gradualmente accomodati. La morte non solo era diventata distante a causa della maggiore aspettativa di vita, ma era anche diventata intollerabile, come dimostrato dalla riluttanza a ingaggiare truppe di terra nei conflitti più recenti. Il “valore” della vita umana è aumentato considerevolmente, nell’inconscio collettivo dei paesi più ricchi. Oggi stiamo realizzando la precarietà dell’essere. Questa crisi dell’essere avrà certamente conseguenze considerevoli che potrebbe essere troppo presto per affrontare qui, ma è anche indicativa di una crisi di avere e una crisi di potere la cui analisi è necessaria per guidare le decisioni da prendere.

 

Una crisi di avere

Abbiamo conosciuto crisi economiche. Ma questa è diverso. Questa recessione è solo in parte molto simile a quella che abbiamo vissuto, perché che mescola uno shock all’offerta e un altro alla domanda.

 

Uno shock sull’offerta e uno shock sulla domanda.

 

Difficilmente possiamo evitare le conseguenze in termini di impieghi dello shock sull’offerta. Ciò deriva dalle istruzioni di confinamento che, per impostazione predefinita, si sono rivelate essenziali dal punto di vista sanitario. Con una parte della forza lavoro confinata per un periodo indefinito, è inevitabile che la produzione diminuisca. Le aziende ridimensioneranno, altre chiuderanno. Questi lavori vanno persi, probabilmente per molto tempo. Questo è ciò che accade in caso di catastrofe naturale, ma di solito colpisce solo una parte dell’economia.

 

Alcune di queste compagnie potrebbero essere salvate dallo stato. E il ricorso a “nazionalizzazioni temporanee”, che io non immaginavo se non in rari casi in cui fosse in gioco l’indipendenza nazionale (3), può salvarne alcune, ma non tutte.

 

Lo shock alla domanda ha ovviamente diverse cause cumulative. Il reddito di una parte della popolazione che sta svanendo, il consumo ritenuto non essenziale che viene rinviato, ciò che è reso impossibile dal confinamento e, poiché “le mie spese sono le tue entrate”, la domanda si indebolisce ulteriormente. Questo è il noto ciclo della recessione.

 

A questo si aggiunge la fusione degli attivi finanziari. In una recessione classica, la gestione più saggia delle attività finanziarie è attendere il ritorno alla normalità, se non è necessario vendere per un motivo o per l’altro. Qui, il ritorno alla normalità non sarà come prima. Alcuni attivi finanziari scenderanno a zero perché le società che rappresentano chiuderanno in proporzioni maggiori rispetto alle crisi precedenti. Questa fusione degli attivi  finanziari rinvia a comportamenti precauzionali che deprimono ulteriormente la domanda complessiva. Questo “rischio di rovina” di alcuni risparmiatori era in gran parte scomparso dalla Grande Depressione, e qui è tornato.

 

È questa simultaneità di shock di domanda e offerta che rende la situazione attuale così eccezionale e così pericolosa.

 

A breve termine, le perdite sono inevitabili.

Negli Stati Uniti, ci sono volute solo due settimane per disoccupare quasi 10 milioni di americani. In Europa, 900.000 spagnoli hanno già perso il lavoro. In Francia, l’INSEE stima che un mese di reclusione dovrebbe costarci 3 punti del PIL. Nessuno è stato risparmiato. E a sentire il FMI: “Non abbiamo mai visto l’economia mondiale fermarsi. È molto peggio della crisi del 2008 “. Queste cifre terribili portano alcuni ad adottare una griglia di letture marziali della nostra crisi. I governi, le Nazioni Unite, il FMI, parlano tutti di una “guerra” contro Covid-19. Tuttavia, un conflitto armato non sembra necessariamente riflettere la natura della paralisi economica che ci colpisce. Più che una distruzione di capitale, è un’evaporazione della conoscenza, specialmente quella nascosta nelle aziende che andrà necessariamente in bancarotta, il che deve essere temuto. Più che un reindirizzamento della produzione verso un’economia di guerra, stiamo assistendo a un coma organizzato e una disintegrazione sostenuta ma probabilmente duratura delle catene di approvvigionamento.

 

Per i paesi più fragili, la pandemia promette di essere catastrofica. Un certo numero di esportatori di materie prime, in primo piano i produttori di petrolio, stanno entrando in crisi con un livello insufficiente di riserve valutarie. Il prezzo di un barile è sceso sotto i $ 20 e il prezzo del rame, del cacao e dell’olio di palma è precipitato dall’inizio dell’anno. Per i paesi che beneficiano in gran parte delle rimesse dall’estero (4), il 2020 potrebbe registrare un netto calo dei consumi e degli investimenti. Per quanto riguarda le destinazioni turistiche, queste dovranno sopravvivere a una cessazione quasi totale dell’attività economica nella prima parte dell’anno (5).

 

Questa battuta d’arresto economica rischia di riportare milioni di persone della “classe media emergente” in condizioni di estrema povertà. Tuttavia, più povertà implica anche più morti. I paesi africani sono più giovani, ma anche più fragili, con i più alti tassi di malnutrizione, infezione da HIV o tubercolosi nel mondo, il che potrebbe rendere il coronavirus ancora più letale. Inoltre, dove i paesi sviluppati possono adottare drastiche misure di confinamento, ciò è spesso impossibile nei bassifondi urbani sovraffollati, dove è difficile accedere all’acqua corrente e dove smettere di lavorare o andare al mercato per comprare cibo non è un’opzione. L’esperienza di Ebola ha dimostrato che la chiusura delle scuole – adottata da 180 paesi in tutto il mondo – spesso si traduce in abbandono permanente, gravidanza non intenzionale e istruzione sacrificata per una generazione di studenti

 

Potremmo evitare queste drammatiche conseguenze? Senza dubbio non del tutto, ma sicuramente in parte sì, se siamo in grado di evitare gli effetti cumulativi della recessione combattendo il collasso della curva della domanda aggregata.

 

I limiti dell’azione monetaria

La risposta è iniziata e le banche centrali stanno facendo la loro parte per inondare il mercato di liquidità. A differenza della crisi del 2008, questi ultimi sono stati particolarmente rapidi e coordinati. A partire dal 3 marzo, la Fed ha abbassato i tassi di 50 punti base, seguita dalla Banca d’Inghilterra l’11 e il 19 marzo. Il 15 marzo, i tassi della Fed scendono a zero. Allo stesso tempo, vengono implementati interventi non convenzionali utilizzando gli strumenti sviluppati dal 2008. Il 18 marzo la BCE ha annunciato un programma per l’acquisizione di titoli per una dotazione totale di 750 miliardi di euro. Il coordinamento delle banche centrali, sotto la guida della FED, contrasta con la risposta sconclusionata della Casa Bianca. Il 15 marzo, la Fed ha esteso i suoi swap a nove nuovi paesi che devono fronteggiare una evaporazione del dollaro prima di aprire un meccanismo di pronti contro termine per le banche centrali che desiderano scambiare i loro buoni del tesoro statunitensi con dollari (6).

 

Ma ciò influenzerà solo indirettamente le economie emergenti che non hanno una banca centrale in grado di svolgere questo ruolo. D’altro canto, è possibile utilizzare un meccanismo che ha già dimostrato la sua efficacia nella crisi finanziaria globale: i diritti speciali di prelievo dell’FMI (7). Niente impedisce di riattivarli; niente, tranne l’allergia americana a qualcosa che assomiglia all’azione multilaterale, un’allergia che la tiepidezza degli europei non aiuta a controbilanciare (8). La riduzione del debito per i paesi a basso reddito e la massiccia emissione di DSP sono ora un passo necessario per contribuire a evitare una catastrofe economica, le cui conseguenze si estenderanno oltre le sponde del Mediterraneo.

 

Prima dell’attuale crisi, l’Europa stava già lottando per far fronte all’afflusso di alcune centinaia di migliaia di migranti che si sono abbattuti sulle sue porte. Cosa succederà quando, spinti dal crollo delle loro economie nazionali, ci saranno milioni di persone che tenteranno di farsi strada? Sebbene ciò possa sembrare molto lontano dall’attuale emergenza, anche se l’opinione pubblica ha altre preoccupazioni da affermare, è dovere di chi è al potere anticipare le crisi dopo la crisi. Per gli europei, unire le forze per estendere l’efficacia delle misure monetarie che adottano per i paesi emergenti, a cominciare dall’Africa, è una necessità assoluta.

 

Tuttavia, l’azione monetaria ha i suoi limiti e, come nel caso di qualsiasi calamità naturale, è necessario mobilitare il sostegno di bilancio. In parte lo sono stati, e meccanismi di supporto come l’estensione della disoccupazione parziale in Francia sono un passo nella giusta direzione. Ma sono insufficienti di fronte all’entità dello shock. Non si può sostenere l’offerta finanziando solo l’offerta ed è probabilmente la più grande debolezza del piano di sostegno originale di Trump (9). Inoltre, mentre nel 2009 la Cina aveva lanciato un titanico piano di ripresa per sostenere la sua economia e guidare la crescita globale, il paese sembra per il momento più circospetto. È vero che il margine di manovra cinese oggi è più debole: la crescita si è indebolita e il debito totale del paese, pubblico e privato, supera il 300% del PIL, contro il 170% prima della crisi “subprime”. Tanto che le misure annunciate da Pechino non superano attualmente l’1,2% del PIL.

 

Naturalmente, parte di questo supporto provocherà un rialzo dei prezzi. Quando l’offerta è limitata dal contenimento, la capacità di produzione è necessariamente limitata. Ma questa pressione al rialzo sui prezzi, oltre a non essere sgradita altrove, costituirà un supporto per il sistema produttivo tanto efficace quanto le misure finanziarie che gli verranno offerte.

 

Questo è mostrato nel grafico I. In questa presentazione classica delle curve della domanda e dell’offerta aggregata con uno shock sulla domanda probabilmente più forte di quello sull’offerta, vediamo come parte delle perdite di produzione è impossibile da evitare a breve termine, ma anche come il danno può essere limitato da un’adeguata azione politica sulla domanda. Inoltre, il rischio di non fare nulla può peggiorare notevolmente la situazione. Il calo della domanda, non compensato da misure di sostegno, creerà un secondo shock dell’offerta e così via. La spirale deflazionistica è quindi in corso con le sue conseguenze funeste.

 

Inevitabilmente, queste misure di sostegno alla domanda non saranno pienamente efficaci fino a quando il contenimento non sarà gradualmente rimosso, consentendo di riavviare la produzione. Ma devono essere immediatamente al lavoro, da un lato per essere in atto quando arriva il momento, dall’altro per combattere l’ansia dei consumatori, che può soltanto spingerli a tesaurizzare quel che possiedono, l’esatto contrario di ciò che è desiderabile.

 

 

A medio e lungo termine, sparigliamento delle carte

a /La globalizzazione degli scambi è stata ovviamente accompagnata da una nuova divisione internazionale di produzione. Il costo del lavoro relativamente basso nelle economie emergenti combinato con lo sviluppo dei media è stato la fonte di una crescita senza precedenti nel commercio internazionale. Questo vale per quasi tutti i settori, a partire dall’industria automobilistica ed elettronica.

 

Oggi è in gioco questa divisione internazionale del lavoro. Le critiche non sono nuove e la crisi sanitaria agisce principalmente come rivelatore. C’erano molti detrattori.

 

Per alcuni, considerati idealisti, era messa in questione l’assurdità ecologica di transitare merci venti volte da un’estremità all’altra del pianeta, in particolare per le catene del valore degli alimenti. Per gli altri, considerati dottrinari, si trattava della denuncia di un sistema che consentiva agli abitanti dei paesi ricchi di continuare a trarre profitto della rendita coloniale. La globalizzazione è la “fase suprema del capitalismo”, in un certo senso. Altri, considerati pessimisti, erano interessati alla sicurezza dell’approvvigionamento. Stiamo ovviamente pensando alla sicurezza sanitaria; Il 90% della penicillina consumata nel mondo è prodotta in Cina. Ciò vale anche per le terre rare, per le quali la Cina ha di fatto il monopolio della produzione, sebbene si tratti di componenti essenziali per l’intero settore dell’elettronica e delle comunicazioni.

 

Tutti avevano in parte ragione ed è molto probabile che la crisi porterà a forme di trasferimento della produzione, regionali se non nazionali.

 

La globalizzazione in questione non è l’apertura al mondo né la coscienza di un’umanità planetaria, questa progredisce lentamente per molto tempo, è ciò che Hubert Védrine chiama la globalizzazione americana di questi ultimi decenni: “Quello iniziato nel dopoguerra, che ha accelerato con il riorientamento della Cina verso il mercato da parte di Deng nel 1979, poi con la coppia Thatcher-Reagan nei primi anni ’80 e la deregolamentazione finanziaria sotto l’influenza della Scuola di Chicago, e che alla fine si diffuse negli anni successivi alla scomparsa dell’URSS alla fine del 1991, una scomparsa che gli occidentali interpretarono – a torto! – come la fine della storia. (10) ”

 

Questa globalizzazione non ha solo fatto perdenti. I dipendenti dei paesi emergenti che lavorano nei settori di esportazione (e di rimbalzo gli altri) hanno ovviamente beneficiato di un aumento del loro tenore di vita legato a salari più elevati. Per quanto riguarda i consumatori dei paesi sviluppati, non hanno esitato a lungo prima di a rivolgersi a questi prodotti importati, per la rendita che contenevano.  E questo consumatore non rinuncerà facilmente a una parte significativa del suo potere d’acquisto.

 

Il trasferimento di parte della produzione avrà un costo, ma la crisi che stiamo vivendo potrebbe essere sufficiente per renderla pedagogica.

 

b / Al di là delle forme che la globalizzazione prenderà, la crisi potrebbe consentire alle economie sviluppate di sbloccare lo stallo in cui si è persa la crescita economica.

 

Il dibattito è noto ed è stato ripreso da Larry Summers nel 2014 (11). Usando il termine introdotto da Hansen nel 1939, descrive un ritorno alla stagnazione secolare che aveva alimentato così tanto il dibattito dopo la crisi del 1929: è un equilibrio di sottoccupazione da cui le economie non sono in grado di emergere, a causa di un basso tasso di interesse associato a un’inflazione pressoché inesistente nei mercati dei beni e dei servizi quando il prezzo degli attivi finanziari è, al contrario, significativamente aumentato. Il progresso tecnico rilascia pochi nuovi prodotti, le innovazioni portano principalmente al risparmio di capitale, gli investimenti rallentano ed è impossibile ripristinarli perché i tassi di interesse sono già a zero. I risparmi sono quindi sovrabbondanti. Rallenta la crescita economica a causa della mancanza di significativi investimenti pubblici, limitati dal debito già considerato eccessivo in termini di rapporti debito / PIL considerati insostenibili. Negli ultimi decenni, l’ingegneria finanziaria ha risolto l’equazione causando ricorrenti crisi finanziarie che mascherano la realtà dell’economia reale.

 

Di fronte a questa situazione di stagnazione più o meno sperimentata da tutte le economie sviluppate, la crisi economica, distruggendo capitale, può fornire una via d’uscita. Le opportunità di investimento create dal crollo di parte dell’apparato produttivo, come l’effetto del prezzo delle misure di sostegno, possono rilanciare il processo di distruzione creativa descritto da Schumpeter. Il suo imprenditore vincerebbe così sul campo la battaglia teorica che aveva intrapreso molto tempo fa, sia contro stagnazionisti ottimisti come Keynes, sia contro i pessimisti come Marx.

 

Questo rinnovo dell’offerta è reso possibile da uno shock tanto violento da giustificare le misure adottate dai governi a favore del settore produttivo. Esse saranno risibili senza misure a breve termine di sostegno alla domanda, ma essenziali per la ricostruzione dell’apparato produttivo.

 

c / Un altro elemento deve essere preso in considerazione: quello delle disuguaglianze.

 

A livello nazionale, alcune professioni possono lavorare – almeno in parte – a casa, per altre è molto più difficile se non impossibile. Ma questo non influisce su diverse parti della popolazione allo stesso modo. Il grafico II (12), che riguarda gli Stati Uniti, illustra questa situazione che giustifica un maggiore sostegno a favore dei dipendenti meno qualificati.

 

 

 

A livello internazionale, negli ultimi anni è stata posta molta enfasi sul fatto che, mentre la crisi dei subprime aveva comportato un notevole aumento delle disparità tra individui, d’altra parte le disuguaglianze tra i paesi stavano diminuendo costantemente. L’attuale crisi rischia di mettere completamente in discussione questa osservazione. A breve termine, a causa delle possibili, e purtroppo probabili, conseguenze della crisi sulle economie di molti paesi a basso reddito. A medio termine, perché il trasferimento di determinate attività, che è molto probabile che accada, sarà a loro spese. Questo è ciò che rende ancora più essenziale il supporto a queste economie che già menzionato.

 

d / Il futuro economico, difficile in ogni caso, è in gran parte nelle nostre mani.

 

I governi hanno già iniziato ad agire come mostrato nella Figura II (13). Ma questo grafico mostra diversi punti deboli.

 

 

Innanzitutto, l’entità molto diversa degli stimoli già decisi (in rosso). Quindi, la parte preponderante presa dalle garanzie sui prestiti, che è certamente utile, ma si riferisce solo in modo molto indiretto al sostegno della la domanda dei più poveri. Infine, la mancanza di coordinamento nella risposta, mentre ciò che aveva reso un successo il rilancio 2009 è l’ampio coordinamento tra i principali attori (14).

 

L’Unione Europea ha la possibilità, e per me il dovere, di fornire elementi di risposta, ma la molle risposta del Consiglio europeo del 26 marzo e la pantomima dell’Eurogruppo non portano all’ottimismo. Il punto principale è quello della messa in comune del bilancio tra gli Stati membri al fine di poter realizzare azioni significative (15).

 

Tre strumenti sono in discussione all’interno dell’Eurogruppo:

 

sostegno di circa 100 miliardi di euro per meccanismi di sostegno parziale della disoccupazione a breve termine;

un mandato più forte conferito alla BEI che può prestare o garantire prestiti;

un adattamento all’attuale situazione del meccanismo europeo di stabilità (16).

Tuttavia, ognuna di queste opzioni manca dell’argomento centrale che è una risposta di bilancio aggregata per non compromettere la sostenibilità del debito dei paesi più fragili. Ovviamente, tutto ciò ci riporta al dibattito sulla creazione di coronabond e, più in generale, sulla capacità di indebitamento dell’Unione, la cui assenza si fa crudelmente avvertire oggi. È anche una questione politica: la BCE non sarà in grado di mutualizzare i debiti per lungo tempo attraverso operazioni di mercato senza che si manifesti un esplicito sostegno politico.

 

Sono possibili due modi. La prima sarebbe una richiesta esplicita degli Stati di monetizzare l’eccedenza di debiti; ma è rimettere in causa l’indipendenza della banca centrale. Il secondo è andare avanti con coloro che vogliono emettere congiuntamente nuovi debiti al fine di finanziare sia i costi della risposta sanitaria immediata, della solidarietà internazionale che sarà necessaria, in particolare verso l’Africa, sia infine un piano di risanamento massiccio una volta superata l’emergenza sanitaria. La scelta è quindi semplice, l’uno o l’altro di questi due tabù deve essere spezzato: l’indipendenza della banca centrale o l’unanimità degli Stati membri.

 

Perché ciò di cui abbiamo bisogno in questo momento è:

 

  • richiedere piani di sostegno nell’ordine di grandezza della produzione persa (diversi punti del PIL solo per il 2020). Questi devono basarsi, sia per le famiglie che per le imprese, su un reale sostegno alla loro liquidità attraverso misure fiscali e di bilancio;
  • coordinamento di tali politiche con le azioni svolte dalle banche centrali in materia monetaria;
  • uno strumento per mobilitare risorse di bilancio e debito congiunto in Europa. Senza mutualizzazione, la risposta di bilancio sarà insufficiente;
  • un’azione concertata a livello internazionale, compresa l’estensione di questa liquidità oltre i paesi sviluppati.

Una crisi di potere

È forse la più inquietante. Crisi della sovranità, che pertiene all’autonomia degli Stati in un mondo in cui le istituzioni multilaterali stentano a organizzare il processo decisionale necessario su scala globale. Crisi rappresentativa, colpisce anche per l’esercizio del potere, la garanzia delle libertà pubbliche e la legittimità delle autorità, in particolare nelle democrazie. Ma non sono la crisi sanitaria e l’epidemia di Covid-19 a creare queste crisi. Rivelano solo punti deboli che già esistono ampiamente.

 

La crisi getta una luce dura sulla relatività della nostra sovranità.

 

Sottolinea una dipendenza tecnologica che, per ignoranza o orgoglio nazionale, tendiamo a sottovalutare.

 

Questo ovviamente vale in campo sanitario. Scopriamo, sbalorditi, che gran parte della nostra offerta di medicinali dipende dalla Cina. Lasciando che questo paese diventi la “fabbrica del mondo” non ci siamo arresi in aree essenziali per garantire la nostra sicurezza?

 

Ci sono segnali allarmanti anche all’interno di un insieme molto integrato come l’Unione Europea. La carenza di curaro necessaria per l’intubazione di persone in gravi condizioni sembra in parte dovuta all’origine italiana e spagnola degli ingredienti. È chiaro che nell’Unione, in futuro questa situazione potrebbe trovare soluzioni. Ciò è meno semplice quando si tratta di materiali, tra cui tecnologie avanzate in cui è evidente la dipendenza dagli Stati Uniti.

 

Ma questa dipendenza sanitaria rinvia a una più grave dipendenza tecnologica. L’opinione pubblica è consapevole, ma forse noncurante, della scarsa sicurezza delle comunicazioni e in particolare degli smartphone. Che cosa sa dei contratti tra i nostri servizi di intelligence e Palantir, la società fondata da Peter Thiel? L’intelligenza artificiale fa paura, a ragione o in torto, ma senza dubbio i cittadini preferirebbero che le garanzie fornite dai funzionari che avevano eletto non fossero così dipendenti dal potere straniero e, quanto meno, è probabile che vorrebbero essere informati. Che dire dell’uso di Windows al Ministero della Difesa? Non potendo ritrovare una sovranità digitale ormai perduta, potremmo almeno indirizzare i nostri investimenti verso il software libero, che offre una garanzia di indipendenza. L’Europa, e anche la sola Francia, se non seguita, potrebbe rapidamente contribuire in modo significativo a questo bene comune digitale. Questo punto va ben oltre i soli problemi di sicurezza. Daniel Cohen (17) sottolinea giustamente un’evoluzione verso il capitalismo digitale che questa crisi può accelerare. L’indipendenza nazionale o europea non può essere misurata solo dall’esistenza di una capacità nucleare.

 

La crisi sanitaria alimenta i vecchi impulsi nazionalisti. Per evitarlo, non possiamo accontentarci delle tradizionali esplosioni liriche sugli orrori del fascismo, da un canto, e sull’universalità della condizione umana dall’altro. Se noi, sulla scala delle nostre nazioni, siamo troppo deboli per competere, allora l’Unione europea riacquista il suo pieno significato. Lungi dal riconoscere la sua morte, come alcune persone si sforzano di proclamare, il nuovo interesse mostrato dai popoli europei per il concetto di sovranità può dare all’Europa una seconda possibilità.

 

La frammentazione della globalizzazione che la crisi è suscettibile di causare costituisce un’opportunità inaspettata per riprendere in mano le redini. Ci vuole una volontà popolare, ed essa era diventato così debole che nulla sembrava possibile in questa Unione appesantita dall’allargamento, ostacolata dalla burocrazia e delegittimata dal suo presunto carattere non democratico. Il graduale ritorno dell’egoismo nazionale stava lentamente uccidendo i sogni dei fondatori. I sovranisti di ogni genere ci sono andati a nozze, omettendo di  dire alla gente che non c’è ritorno alla sovranità se non condividendola con altri europei, come ha dimostrato la creazione dell’euro. Ma l’impossibile contabilità dei benefici della costruzione europea non è riuscita a convincere  cittadini sempre più dubbiosi di averne ottenuti.  Così che in questa crisi, l’inefficacia dell’azione europea ha dato argomenti a tutti i suoi detrattori. Nel settore sanitario come in quello economico, l’assenza di una visione politica ha impedito qualsiasi azione preventiva e il potere dell’egoismo nazionale sta ritardando le misure necessarie.

 

Ci voleva uno shock perché riemergese la vera natura dell’Unione; quella del rifiuto di abbandonare i valori collettivi e un modello di società che definisce un’identità. È questa identità che si è fusa nella globalizzazione, e che può rinascere dalla sua frammentazione. Questo shock, ora lo abbiamo. Una rinascita è possibile a due condizioni: che la solidarietà europea si affermi nella risposta alla crisi sanitaria, che uomini e donne portino e incarnino un risveglio dell’Europa politica. I prossimi giorni, settimane e mesi ci diranno se queste condizioni sono state soddisfatte. La sfida è grande, poiché l’Europa ha perso la sua credibilità. Sarà necessario convincere proponendo un metodo Monnet del dopoguerra sanitaria, capace di risultati visibili da tutti, che giustifichino trasferimenti calibrati di sovranità.

 

La crisi pone anche la questione democratica in termini nuovi.

 

Il nostro modello democratico, derivante dalla rivoluzione industriale, ha già subito molti danni. È fondamentalmente un modello di democrazia rappresentativa: si basa sul consenso a delegare il potere che dà il diritto di voto a uomini e donne che lo eserciteranno per nostro conto. Eleggiamo rappresentanti che riteniamo in grado di attuare la politica a cui aspiriamo e di cui ci fidiamo. Tuttavia questo consenso, come questa fiducia, è sempre più sotto attacco, l’aria del tempo è meno nell’interesse generale che nell’accumulo di interessi particolari (18).

 

C’è voluta una combinazione di diversi fattori per arrivarci. Innanzitutto, e soprattutto, la delusione legata ai risultati meno felici del previsto; ma anche lo sviluppo di social network che danno a tutti la sensazione fallace di sapere meglio di chiunque altro cosa fare; il lento passaggio da un mandato di rappresentanza a un mandato imperativo a causa della pressione diretta e talvolta fisica che questi stessi social network consentono; infine, la lenta scomparsa di organi intermedi come sindacati e partiti politici. Tutto ha contribuito alla lenta decrepitudine della democrazia rappresentativa.

 

È questa cachettica democrazia parlamentare, nata due secoli fa, che la crisi sanitaria ha colpito in pieno.

 

La gestione della crisi sanitaria ha quindi causato una crisi rappresentativa. Se, come afferma Max Weber, “uno stato è una comunità umana che rivendica il monopolio sull’uso legittimo della forza fisica su un determinato territorio” (19), questo monopolio trova la sua legittimità in quella della rappresentazione. Questo era già in questione prima della crisi. È stato messo alla prova dalla crisi.

 

Può essere facilmente ammesso Il principio che, in tempi di crisi, le democrazie possano ricorrere a misure coercitive “su una base eccezionale”, ma la questione dei limiti non manca di essere sollevata da parte dell’opinione. Ovunque, la domanda che sta al cuore del pensiero di Giorgio Agamben: “Possiamo sospendere la vita per proteggerla?” Ho trovato una risposta temporanea: vale a dire la vita (e persino l’economia) prima delle libertà pubbliche. Ma sarà lo stesso in futuro se le misure autoritarie, a partire dal contenimento, dovessero durare o essere rinnovate?

 

La democrazia deriva dal modo di salire al potere più che dal suo esercizio (20). Tuttavia, queste misure di emergenza hanno due conseguenze. Il primo è che la linea di demarcazione tra democrazie e regimi autoritari è confusa. Il secondo è che i governi eletti democraticamente potrebbero essere tentati di usare la crisi per una varietà di scopi: cercare di passare a un regime meno democratico (Ungheria) o gestire altri problemi interni (India, Algeria). In molti paesi, la vita democratica è sospesa dal rinvio delle elezioni come in Polonia o in Bolivia, con il caso particolare della Francia.

 

I tempi di crisi hanno spesso portato a una forma di unità nazionale. In una certa misura, il senso di urgenza e la necessità di sopravvivere hanno provocato un’esplosione di lealtà tra i cittadini. Il più delle volte, le persone hanno sostenuto le forti decisioni prese dal loro governo con consenso / accettazione se non con entusiasmo (21), (22). Tuttavia, nella maggior parte dei regimi democratici, le decisioni sono messe in discussione, le istruzioni sono disattese e, in generale, la pertinenza delle misure raccomandate dagli esperti che, in altri periodi, sarebbero state date per scontate, è ampiamente messa in discussione.

 

Tanto che ci si può legittimamente domandare se la nozione di programma politico abbia ancora un significato. Poiché i funzionari eletti non sono in grado di fare ciò che hanno promesso, i cittadini non si fidano più di loro e intendono intervenire in qualsiasi momento nel processo decisionale; ci allontaniamo molto dalla democrazia rappresentativa per tendere verso forme più o meno organizzate di democrazia diretta. Il rischio è quindi quello di tutto il populismo; verità e ragione contano meno dell’azione anche quando si basa solo sulla passione. Benda ci ha insegnato a quali drammi questo ha portato inesorabilmente  (23).

 

Al contrario, nella maggior parte dei regimi non democratici, la legittimità del potere è conferita dalla capacità dei leader di proteggere il loro popolo e mantenere l’ordine sociale piuttosto che garantire le loro libertà. Nella maggior parte di questi paesi, le autorità hanno imposto una risposta forte e rapida alla crisi e in cambio vediamo una certa sensazione di sostegno e unità nazionale tra la popolazione (Cina, Vietnam, Giordania, ecc.). In altre parole, non solo la fine della crisi potrebbe segnare un indebolimento della legittimità delle autorità pubbliche nelle democrazie, ma allo stesso tempo un rafforzamento del potere nelle autocrazie.

 

Per la rapidità della sua insorgenza e l’impetuosità della diffusione del virus, la crisi sanitaria ha imposto misure legislative e regolamentari di una portata senza precedenti nelle nostre democrazie. In molti paesi, l’esecutivo si è sentito autorizzato a prendere misure di sorveglianza di massa o liberticide utilizzando tecnologie finora riservate all’intelligence militare o antiterroristica! In generale, queste misure in deroga alle libertà pubbliche sono piuttosto ben accolte, persino acclamate dai cittadini che lo vedono come un arsenale che protegge la loro sicurezza.

 

Il fatto che i governi favoriscano l’efficienza non è una specificità della crisi sanitaria. Il fatto che i cittadini siano meno attenti alla salvaguardia dei loro diritti fondamentali riflette senza dubbio l’ansia di fronte al nuovo flagello dopo decenni di assenza di avversità collettive. Queste misure eccezionali e temporanee devono assolutamente rimanere tali. Tuttavia, negli ultimi anni, va detto che altre misure prese in nome della lotta al terrorismo sono passate, quasi nell’indifferenza generale, dallo status di misure eccezionali e temporanee a quello della legge ordinaria.

 

Dobbiamo stare attenti a non indebolire permanentemente lo stato di diritto in nome dell’urgenza di combattere il virus. Lo scorso autunno (ma sembra già così lontano), François Sureau ha ricordato che “lo stato di diritto, nei suoi principi e nei suoi organi, è stato progettato in modo tale che né i desideri del governo né le paure del popolo” potranno travolgere le basi dell’ordine pubblico, e prima di tutto la libertà ”(24).

 

All’indomani della crisi, le questioni politiche saranno quindi numerose. Quali schemi saranno percepiti come capaci di gestire bene la crisi? Quale transizione dovrebbe essere attuata per tornare da misure eccezionali alla vita normale? Se durante la crisi sanitaria non hanno agito all’unisono, quale credibilità avranno i regimi democratici, nella gestione di altre crisi come la sfida climatica o la migrazione?

 

E se gli egoismi nazionali dominano durante la gestione della crisi sanitaria, come impedire all’ondata di populismi nazionali di travolgere tutto sul suo cammino? Inoltre, la cooperazione internazionale non è solo un elemento di un’efficace gestione della crisi, ma una condizione di sopravvivenza democratica dopo di essa.

 

Senza dubbio stiamo entrando in un altro mondo

Un’altra economia: il ritorno dei regolamenti?

 

L’attuale periodo è di disordine, e ovviamente si pone la questione di quale direzione prenderemo quando la crisi sanitaria sarà terminata. Negli ultimi trenta anni, la causa è stata ascoltata. Stavamo assistendo alla vittoria sfrenata del liberalismo economico alla fine della storia di Francis Fukuyama (25). Ma quelli che guardano alla storia tenendo presente il lungo termine oggi trovano motivo per tornare all’idea che il liberalismo ha sicuramente vinto. La lezione tenuta da Karl Polanyi (26) tre quarti di secolo fa è che il liberalismo economico è una fase di disorganizzazione tra due periodi più regolati. Ciò si afferma periodicamente, come parentesi, fino a quando non viene imposta la necessità di nuovi regolamenti, perché i fenomeni economici non sono indipendenti dal resto dell’evoluzione della società.

 

In 150 anni abbiamo conosciuto tre grandi cicli di regolazione del capitalismo. Quello che, proveniente dal XIX secolo, termina con la prima guerra mondiale, dà il via a un altro regolamento basato sulla produzione di massa in un mondo lacerato dal risveglio del nazionalismo e abitato dalla costruzione della democrazia. E poi è arrivata una terza fase perché, contrariamente a quanto previsto da Polanyi, il mercato non è crollato con la crisi del 29 o dopo la seconda guerra mondiale. È che dopo il 1945, la generalizzazione dello stato sociale, l’emergere del dominio americano e la cancellazione del fascismo modellarono le nuove norme dei decenni successivi. Verso la fine degli anni ’70, iniziò una nuova rottura. Colpisce il mondo della produzione, le idee politiche e la scena internazionale. L’emergere della tecnologia dell’informazione, l’ondata liberale di rifiuto delle imposte e il crollo del comunismo hanno segnato la fine del periodo socialdemocratico.

 

Pertanto, abbiamo conosciuto per quasi due secoli un susseguirsi di fasi organiche durante le quali domina un modo di organizzazione dell’economia e della società e fasi critiche durante le quali questi regolamenti restano senza fiato e poi svaniscono , per lasciare il posto ad altri. L’ultima grande regolamentazione collettiva è stata quella dello stato sociale. Non c’è più alcun dubbio che sia finita. E nonostante un lieve balbettio all’indomani della crisi dei subprime, nulla è venuto a sostituirlo.

 

Tra queste fasi di regolazione, i vecchi schemi stanno crollando, l’organizzazione collettiva è in ritirata, gli individualismi ritrovano diritto di cittadinanza. Fino a quando uno shock enorme consentirà alla storia di riguadagnare i propri diritti e gli uomini scolpiranno il quadro della nuova società. Sono queste le strutture  che dobbiamo ricostruire oggi.

 

Questi regolamenti non risparmiano alcuna attività umana, ma al di là del tradizionale spazio di cooperazione economica, ci sono diverse aree in cui la necessità di una regolamentazione è essenziale.

 

Innanzitutto, ovviamente, nel campo dell’organizzazione sanitaria. Paradossalmente, è in quest’area che la cooperazione internazionale ha iniziato a svolgersi nel 1851 con il primo Regolamento sanitario internazionale. La riforma del 2005 ha rafforzato l’indipendenza del direttore generale dell’OMS, ma è necessario fare molto di più, in particolare nel suo coordinamento con l’OMC.

 

Il ruolo dell’OMS può in particolare essere importante nell’attuazione di politiche di prevenzione più attive. Non appena le pandemie non compaiono più come rischi trascurabili, “Black Swans” per usare l’espressione usata nel campo dei rischi finanziari, si afferma fortemente la necessità di tenere conto di queste politiche nelle scelte pubbliche.  Lo smantellamento, da parte di Donald Trump, della cellula responsabile della sicurezza sanitaria alla Casa Bianca dimostra che non ci siamo ancora arrivati.

 

La crisi sanitaria può anche creare l’opportunità di una nuova mobilitazione per combattere i cambiamenti climatici. Al di là dei legami tra clima e salute pubblica, le misure adottate nel contesto della lotta contro la pandemia stanno trasformando il dibattito sui vincoli di bilancio che ci imponiamo come sul controllo del comportamento individuale. Ma esiste anche un collegamento con altre aree di conservazione ambientale e in particolare la conservazione della biodiversità. La distruzione degli ecosistemi da parte dell’inquinamento, la progressiva limitazione dei luoghi in cui vivere o le imprese proibite favoriscono le zoonosi (trasmissione delle patologie dall’animale all’uomo), come hanno dimostrato molti esempi recenti.

 

Ma anche se accettiamo la plausibile ipotesi di una frammentazione della globalizzazione, queste diverse politiche possono essere solo globali. Poi arriva la domanda fastidiosa che attraversa qualsiasi interrogativo sulle conseguenze della crisi sanitaria: c’è un posto per il multilateralismo? E oltre, possiamo concepire un’azione multilaterale che non riguardi solo gli Stati ma che si svilupperebbe tra le regioni o anche le grandi metropoli?

 

Un altro paradigma

 

a / Un cambiamento nel rapporto tra gli Stati: quale nuovo equilibrio geopolitico?

 

Se resta da sperare che la crisi sia la fonte di una rinnovata cooperazione a livello globale ed europeo, è importante esaminare le sue conseguenze più immediate per le relazioni internazionali.

 

Il primo deriva dal vuoto di potere che l’attenzione sulla crisi sanitaria dei principali governi renderà ogni giorno più visibile. Finché sono, come tutti, sommersi dalla pandemia, i gruppi armati sembrano aver scelto di ritirarsi. Ma non appena le condizioni lo consentiranno, non vi è dubbio che i conflitti ricominceranno proprio mentre i principali attori si occuperanno principalmente della loro situazione interna. Si teme che sia così in Siria come in Libia, nel Sahel come nello Yemen. Tanto più che molti Stati scossi dalla crisi troveranno ancora più difficile che in passato esercitare le loro responsabilità sovrane.

 

In questo contesto, è probabile che vi sia una forte tentazione, per alcuni Stati, di aumentare la loro influenza internazionale. La Cina, la Russia in misura minore, hanno già colto questa opportunità distribuendo aiuti medici principalmente ai paesi europei. Alla fine della crisi sanitaria, la competizione ideologica riprenderà con forza in una situazione in cui le popolazioni avranno voglia di intervento statale e di potere forte. Intrappolati tra la loro riluttanza verso qualsiasi azione multilaterale e il loro confronto con Pechino, gli Stati Uniti faranno fatica a evitare una ridistribuzione delle carte, ma ovviamente molto dipenderà dalle elezioni di novembre. La Cina non è in grado di esercitare la leadership mondiale, ma non è certo che gli Stati Uniti ne siano ancora capaci.

 

È quindi chiaramente una frammentazione della globalizzazione che è ragionevole aspettarsi, e potrebbe essere l’occasione per l’Europa, se riuscirà a mettersi insieme.

 

b / La crisi dell’essere porterà a un cambiamento nel rapporto tra uomini?

 

Perché sia possibile un rimescolamento delle carte, il rischio di pandemia deve permeare profondamente, ma soprattutto durevolmente, la sensibilità globale collettiva. La metafora della guerra, che è stata ampiamente utilizzata, può essere applicata solo durante il periodo della mobilitazione: la maggior parte degli studi (27) suggerisce che non può esserci armistizio, né tanto meno una liberazione. Non è quindi solo uno sforzo bellico a lungo termine, ma anche un reinserimento nella coscienza collettiva, la permanenza di un rischio di pandemia infettiva. Di fronte a una tale minaccia strutturante e universale, è probabile che vedremo un profondo cambiamento nelle preferenze collettive.

 

Prima probabile evoluzione delle nostre preferenze collettive: il rapporto con la temporalità. Entrare in un mondo caratterizzato da un pericolo infettivo implica la correzione delle nostre carenze e la realizzazione della nostra incapacità, soprattutto in Europa, di dare realtà al principio di precauzione e coltivare l’approccio preventivo. L’ embolizzazione dei sistemi sanitari dei paesi sviluppati è solo il sintomo di una visione politica a breve termine che si crede premunita contro eventi reali imprevisti grazie alla sola esistenza di mercati interconnessi e reattivi di beni e servizi. Le decisioni future non potranno esonerarsi dall’iscrivere, anzitutto nei bilanci, misure a lungo termine, né da un approccio strategico sistematizzato ai vari settori prioritari della vita delle persone.

 

Al di là di questo primo aspetto, il rischio di infezione ci ricorda con forza l’evidenza dell’interdipendenza tra individui. Questo è l’intero paradosso dell’attuale confinamento: isolati in casa, gli individui non hanno mai lavorato così tanto per il ripristino del collettivo. La salute di tutti non è più, come nel caso delle malattie cardiovascolari e degenerative, la conseguenza del comportamento individuale: dipende dalla responsabilità di ciascuno nei confronti del collettivo e, al contrario, dalla capacità del collettivo di prendersi cura della salute del minimo dei suoi membri. La caratteristica dei virus che questa pandemia ci ricorda, è di non riconoscere confini, né sociali né politici: nessuna barriera, nessun muro proteggerà durevolmente le società da un rischio di contagio, da un “cluster” pronto sciamare.

 

Oltre al necessario rafforzamento del ruolo dell’OMS nell’attuazione delle politiche di prevenzione attiva, questa ricomparsa del sentimento di interdipendenza deve essere accompagnata, in modo che non emerga una società di sfiducia generale. Un recente sondaggio (28) sull’accettabilità di un’applicazione telefonica per tracciare i contatti dei gestori Covid-19 mostra che quasi il 75% degli intervistati installerebbe probabilmente questo tipo di applicazione, se esistesse. Quale apprezzamento sociale verrebbe fatto di un individuo che rifiuta di installare una tale applicazione? Questo rifiuto dovrebbe essere semplicemente autorizzato quando rischia di mettere in pericolo il collettivo? È probabile che questa crisi sanitaria e la sua penetrazione nell’immaginario collettivo stimolino l’emergere di una società di trasparenza medica: è quindi possibile che in futuro il movimento delle persone sia soggetto alla produzione di test di immunità, come la carta di vaccinazione internazionale attualmente richiesta al confine di molti stati. Ma c’è tutto un mondo, tra un semplice taccuino di cartone e i dati del tuo telefono cellulare. Affinché il sistema di trasparenza individuale che si raccomanda di adottare non si trasformi in una società della sfiducia, le autorità pubbliche devono svolgere un ruolo attivo, al fine di garantire non solo l’anonimato degli utenti, ma anche la cancellazione dei set di dati (29). Questo fermo posizionamento pubblico deve costituire la base di un nuovo “sistema provvidenziale” sul quale costruire la fiducia e un rinnovato patto civile.

 

 

 

[1] Jin Wu, Weiyi Cai, Derek Watkins e James Glanz, “Come è uscito il virus”, The New York Times, 22 marzo 2020

 

[1] Anche la Francia ha un vasto stock strategico. Creato nel 2007, lo stabilimento per la preparazione e la risposta alle emergenze sanitarie nel 2009, nel contesto dell’epidemia di H1N1, un miliardo di maschere anti-proiezioni, destinate ai malati, e 900 milioni di maschere di protezione, chiamata “FFP2”. Nel 2013 è stata modificata la dottrina della gestione degli stock strategici, con il trasferimento della protezione dai lavoratori ai datori di lavoro. Nel 2016, le missioni dell’EPRUS sono state integrate in un nuovo istituto di sanità pubblica francese.

 

(3) Cfr. Fondazione Jean Jaurès .

 

(4) Come Haiti, ad esempio, di cui il 32% del PIL nel 2018 proviene da questi trasferimenti

 

(5) Alle Maldive, in casi estremi, il 75% del PIL dipende direttamente e indirettamente dal turismo e le riserve valutarie non superano i 2 mesi di importazioni.

 

(6) Di cosa potrebbe beneficiare la Cina, che non ha accesso agli swap.

 

(7) Aumentano le riserve delle banche centrali

e consentire ai paesi in via di sviluppo di ottenere “valute forti”.

 

(8) La Francia ha finalmente presentato una proposta in tal senso

 

(9) Da allora, l’assegno per $ 1.500 per tutte le famiglie ha migliorato la situazione.

 

(10) Terra Nova, marzo 2020

 

(11) Larry Summers “Prospettive economiche statunitensi: stagnazione secolare, isteresi e limite inferiore zero”, Economia aziendale, 49, pagg. 65-73, 2014

 

(12) Paolo Surico e Andrea Galeotti, “L’economia di una pandemia: il caso di Covid-19”, London School of Economics, 2020

 

(13) Paolo Surico e Andrea Galeotti, ibidem.

 

(14) Già nel gennaio 2008, il FMI aveva annunciato a Davos la necessità di uno stimolo fiscale globale. Prenderà forma al G20 del 2009 a Londra e ha salvato milioni di prevedibili disoccupati.

 

(15) Su questi punti, vedi Shahin Vallée “Nota macro: opzioni per l’Eurogruppo e un possibile percorso graduale verso coronabond”, 2 aprile 2020

 

(16) Questo meccanismo, creato nel 2012, può mobilitare fino a 700 miliardi di euro. Talvolta viene erroneamente descritto come un FMI europeo. La principale differenza con l’FMI deriva dal fatto che le risorse del MES stanno prendendo in prestito risorse e non risorse monetarie. Non è un Fondo monetario europeo ma un Fondo di bilancio europeo.

 

(17) Daniel Cohen, “La crisi del coronavirus segnala l’accelerazione di un nuovo capitalismo, il capitalismo digitale”, Le Monde, 2 aprile 2020

 

(18) Max Weber, in Economia e società, insiste sul fatto che la sottomissione volontaria specifica a qualsiasi forma di socializzazione dipende dalle qualità che il dominato presta a chi lo comanda.

 

(19) Max Weber, “Politik als Beruf”, 1919

 

(20) Se ciò che caratterizza la democrazia è la modalità di acquisizione del potere e non il suo esercizio (Adam Przeworski et al., “Democrazia e sviluppo: istituzioni politiche e benessere nel mondo, 1950-1990”, vol.3, Cambridge Univ. Press, 2001) quindi il carattere democratico delle nostre società non è in discussione.

 

(21) “Nelle democrazie, il rapporto tra cittadini e governo si basa sul triumvirato di conformità, consenso e legittimità”. Hardin, “Conformità, consenso e legittimità”, in Boix & Stokes, Politica comparata

 

(22) Chi avrebbe potuto immaginare che quando, 18 mesi fa, la rivolta dei giubbotti gialli in Francia nacque tra l’altro da indignazione contro il limite di velocità a 80 km / h, considerato liberticida.

 

(23) Julien Benda, “La trahison des clercs”, 1927, ristampa Les cahiers rouges, Grasset, 2003

 

(24) François Sureau “Senza libertà”, Tract, Gallimard, 2019

 

(25) Francis Fukuyama, “La fine della storia e l’ultimo uomo”, The Free Press, 1992

 

(26) Karl Polanyi, “La grande trasformazione. Le origini politiche ed economiche del nostro tempo “, Gallimard, 1944

 

(27) Gideon Lichfield, “Non torneremo alla normalità”, MIT, 2020

 

(28) https://045.medsci.ox.ac.uk/user-acceptance, Università di Oxford, 31 marzo 2020

 

(29) Ciò che l’Europa è stata in grado di attuare con l’adozione precursore del GDPR

 

AQUIS-GRANA, di Pierluigi Fagan

AQUIS-GRANA. Come va la trattativa europea sul fare fronte all’emergenza economica e poi sociale procurata dal virus? Per i dettagli tecnici che tanto appassionano i lettori del mondo con occhiali economici, avrete di che saziarvi altrove. Mi permetto solo di aggiungere una lettura fatta da chi segue quello che succede nei vari paesi europei e nei vari principali giornali di quei paesi. Quindi niente MES, SURE, Conte, Salvini-Bagnai, condizionalità, Grillo folgorato sulla via di Bruxelles et similia. Segnalo solo che:

A. L’asse Parigi, Madrid, Roma esiste. Credo che, contrariamente a quanto detto da Conte, l’idea sia stata di Macron. E credo che sia stato fissato dati i rapporti tra Macron e Sanchez che sono ottimi da lunga data e dato il viaggio che Macron ha fatto in Italia, il c.d. “Patto di Napoli” del 27 febbraio. L’asse era pensato anche precedentemente la pandemia e rispondeva ad un semplice logica di peso nella relazione di Aquisgrana. La Francia ha molto meno peso della Germania in quella relazione e così come oltretutto la Germania si presenta con dietro il codazzo nordico, la Francia ha pensato opportuno presentarsi con un proprio codazzo che in via naturale è quello latino-mediterraneo.

B. Qualche giorno fa, Macron ha rilasciato una intervista a FT, in cui la buttava giù dura “o si risolvono i problemi di Spagna ed Italia o l’UE è finita”, naturalmente in linguaggio trasversale. Ma solo uno sprovveduto da facebook, può immaginare davvero le cose stiano così in termini di amicizia disinteressata e fronti, la faccenda è immancabilmente “più complessa”.

C. Il punto che a molti sfugge è che Macron non sta messo per niente bene. Le previsioni di punti persi di Pil francese fatte da IMF, non sono poi molto migliori di quelle fatte per l’Italia. Alcuni avranno letto di prime “sommosse” qui e lì in Francia e sappiamo che i gilet gialli sono pronti a “tamponare” l’esecutivo nella fase 2 che inizierà, forse, una settimana dopo la nostra.I francesi, che si sa sono piuttosto nazionalisti, pare non stiano prendendo per niente bene le frizioni al confine tra Alsazia-Lorena e Saarland-Renania. Nei sondaggi, dopo un primo momento di “stringiamoci a coorte” di cui hanno beneficiato tutti leader, Macron ora sembra al’inizio di una discesa libera e ricordo che il giovane ha preso poco più del 20% al primo turno. Solo la nostra italica mania di auto-svalutazione può spiegare il fatto che nessuno qui sappia delle polemiche sul disastro logistico francese. La Francia ha 3500 morti meno di noi ma, ammesso li abbia contati tutti e per bene, sopratutto quelli delle RSA, ha una settimana di ritardo nello sviluppo del’epidemia. Ha ancora 5000 persone in TI (di cui “in genere” un terzo muore) e noi la metà. in più proprio perché aveva una settimana di anticipo rispetto a noi, ci si domanda perché non si sia organizzata meglio e per tempo. Segnalo che la Francia ha fatto ad oggi 7.000 tamponi per milione di abitanti, noi 26.000. La Spagna sta messa anche peggio.

D. Il gioco delle parti, ha previsto che Conte facesse “Ivan il pazzo” ovvero “coronabond o morte!”. Nel mentre, è toccato a Sanchez avanzare l’idea di un fondo molto simile al Recovery bond di cui ora si tratta, in cui si noti la clausola di “debito perpetuo” su cui ci sarebbe da scendere in dettaglio ma qui non possiamo. Ieri su le Monde c’era un elogio di Conte. Macron, ha parlato di alta strategia al FT, in quanto caposquadra e mediatore ultimo non può esporsi su i particolari, ovvio.

E. Segnalo che i ben informati transalpini, dicono che il nuovo consigliere speciale dell’inquilino dell’Eliseo, sia Strauss Khan e chissà che la giravolta copernicana di M.me Lagarde alla guida della BCE non sia un nuovo “usami come vuoi” a cui la signora parigina pare sia stata dedita anche in passato.

F. Infine, chi s’immagina che la Merkel voglia finire nei libri di storia come colei che ha distrutto l’euro e l’UE, mi sa che farebbe bene a sospendere un attimo la sua attività di commentatore politico su facebook. Come saprete il prossimo 5 maggio, giorno triste per i napoleonici e gli interisti, si pronuncia verdetto a Karlsruhe sull’ipotetico conflitto tra Grundgesetz e QE tra cui la novità BCE di accettare anche la spazzatura.

Quindi, non so come andrà a finire, chi tratterà più di qui e chi più di là. Sia Parigi che Madrid potrebbero nel frattempo finanziarsi sul mercato ma sopratutto Parigi potrebbe veder lievitare oltre il desiderato il rapporto deficit/Pil, non bello per una aspirante potenza, magari perdendo una A per strad … . In più, “perdere Roma” non conviene a nessuno. Di contro, ognun penserà a sé e non regalerà niente e cercando di “fare il massimo” in realtà cercherà di imporrà condizioni sottilmente capestro all’altro, a seconda dei rapporti di forza.

La “grana” alla fine si troverà il modo di tirarla fuori, ma quanta ed a che condizioni sarà tutto da vedere, la partita è ancora lunga. Infine, appunto, la partita è ancora lunga nel senso che i danni della questione virus non si esauriscono con le cifre di cui oggi si sta parlando.

tratto da facebook

38° podcast_Il bersaglio grosso, di Gianfranco Campa

Quando, ormai quattro anni fa, apparve sulla scena politica statunitense un personaggio politico apparentemente estraneo ai circoli che ci avevano assuefatti ormai per decenni, le sue filippiche contro il multilateralismo, il globalismo e il principale beneficiario degli assetti mondiali ad essi conseguenti, la Cina, apparivano ancora come fastidiose e rozze dissonanze. Eppure già allo scadere della presidenza Obama qualche disorientamento e la crescente situazione di stallo già spingevano per un cambio di paradigma. Quelle affermazioni apparentemente estemporanee avevano però un limite nella loro vulgata o sottintendevano qualcosa di più essenziale. Puntavano l’attenzione sul dito piuttosto che sulla luna; probabilmente nascondevano la luna dietro il dito; ancora meglio, il lato luminoso della luna impediva di conoscere quello più oscuro e intrigante. Il problema di fondo non era l’emersione di un rivale temibile, la Cina, quanto il fallimento del progetto egemonico mondiale americano e gli enormi scompensi nelle formazioni sociali, nella fattispecie quella americana, creati dai processi di globalizzazione ad esso connessi. Il successo duraturo di Trump, a prescindere dalla stessa eventualità di una sua rielezione, non è altro che la constatazione dell’avanzare di un mondo multipolare, dell’emersione quindi di più potenze. “L’America prima di tutto” comporta quindi la rinnovata capacità di una nuova classe dirigente statunitense di giostrare tra queste contraddizioni e tra le logiche e gli interessi di questi paesi emergenti per riaffermare e mantenere la propria potenza e, soprattutto, consolidare la propria coesione sociale e politica. L’esito positivo non è ancora scritto nel finale di spartito, ma la posta in palio inizia ad essere più definita e circoscritta. Il podcast di Gianfranco Campa si presta a due interpretazioni. Uno più emotivo e forse semplicistico, tende a ridurre il confronto ai due giganti riservando al resto il ruolo di comparse o figuranti. L’altra, di più difficile lettura, è che, comunque, l’emersione di nuovi soggetti crea situazioni di rivalità, di conflitto e di affinità mutevoli tra tutti i protagonisti prima che il processo arrivi a consolidarsi e cristallizzarsi in sodalizi più stabili. Gli scompensi, i dissesti, le tragedie e le riconformazioni riguarderanno tutte le formazioni sociali, non solo quella americana. La Cina, quindi, oltre ad essere un soggetto assoluto di competizione, inizia ad apparire anch’essa un oggetto. Il prevalere di una o dell’altra interpretazione non dipende dall’autore ma dall’atteggiamento manicheo, dogmatico o pragmatico del lettore. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Le turbolenze della vita continuano, di Giuseppe Germinario

La crisi pandemica del coronavirus ha portato ad una netta accelerazione ed intensificazione del confronto geopolitico e delle trasformazioni politiche ed economiche delle formazioni sociali. Ha conquistato, però, la pressoché totale esclusiva attenzione dell’opinione pubblica sia istituzionale che informale. Passano in secondo piano o vengono del tutto ignorate notizie come questa del Presidente statunitense Trump il quale, attraverso due tweet, annuncia di aver dato ordine alla flotta presente nel Golfo Persico di aprire il fuoco e colpire le imbarcazioni e i barchini che dovessero avvicinarsi alle navi americane.

 

La attività di controllo e spesso di provocazione dei navigli iraniani non è in realtà mai cessata, anche se ultimamente sta registrando una relativa intensificazione. Quali possono essere, quindi, i motivi che hanno spinto Trump ad una decisione così allarmante? Non tutto è riconducibile direttamente a l’asprezza del confronto iraniano-statunitense. Corrono voci di un crescente distacco e insofferenza tra le gerarchie dell’esercito iraniano e la suprema autorità politico-religioso Khamenei. Un più alto livello di allarme potrebbe servire a rinserrare i legami. Nel versante statunitense l’azione potrebbe servire a destabilizzare l’area petrolifera del Medio Oriente e bloccare la corsa al ribasso dei prezzi del petrolio, particolarmente nefasta per le sorti della produzione petrolifera americana, resa già precaria dalla esposizione debitoria di gran parte dei produttori di petrolio da “fracking”. I timori e le inquietudini americani circa la possibilità di un accordo tacito tra sauditi e russi mirante a destabilizzare l’industria petrolifera americana, ormai loro diretta concorrente e a rendere nuovamente dipendente la potenza statunitense dalle importazioni, senza averne peraltro più il totale controllo dei flussi, sono sempre più manifesti. Emergono addirittura voci di un possibile blocco del greggio saudita ai porti texani a esso esclusivamente dedicati. In sostanza due conferme: gli Stati Uniti sono sempre meno il deus exmachina delle dinamiche geopolitiche e geoeconomiche, ma ne rimangono ancora il principale attore; da questa dinamica di relativizzazione della potenza ci sarà da aspettarsi una reazione sempre più vivace piuttosto che una rassegnata constatazione. Una vastissima gamma di opzioni del resto è ancora disponibile e non è detto che il fronte degli avversari sia in realtà così solido e compatto.

Giuseppe Germinario

 

Istituzioni e sovranità! La funzione dell’Esercito Italiano. Ne discutiamo con il Generale Marco Bertolini

Da troppi decenni l’Esercito Italiano fatica a godere di quella considerazione indispensabile a garantire nel migliore dei modi l’esercizio della sovranità nazionale, la cura degli interessi nazionali stessi e la costruzione di una identità e coesione più solida del popolo italiano. Sempre presente nelle ricorrenti situazioni di emergenza interna al paese e costantemente impegnato in numerosi teatri operativi internazionali, questi ultimi a volte giustificati dalla presenza di interessi nazionali, a volte trascinato da strategie estranee, spesso viene relegato al riconoscimento di una funzione ausiliaria. Un atteggiamento che inibisce il peso politico di una istituzione fondamentale nella costruzione di una coesione nazionale lungi dall’essere ancora compiuta. La crisi dell’ideologia globalista sta riproponendo nella giusta dimensione il ruolo degli stati nazionali e la affermazione delle prerogative loro proprie. Le classi dirigenti italiane non sembrano ancora consapevoli delle implicazioni di questo cambio di paradigma. Ne discutiamo con il Generale Marco Bertolini_Giuseppe Germinario

*Il Generale di Corpo d’Armata (ris.), Marco Bertolini, è nato a Parma il 21 giugno 1953. Figlio di Vittorio, reduce della battaglia di El Alamein, dal 1972 al 1976, Marco Bertolini ha frequentato l’Accademia Militare di Modena e la Scuola di Applicazione d’Arma di Torino. Nel 1976, con il grado di Tenente, è stato assegnato al il IX Battaglione d’Assalto Paracadutisti Col Moschin – una delle unità di elite delle Forze Armate italiane – del quale, per ben due volte (dal 1991 al 1993 e dal 1997 al 1998), è stato comandante.

Già comandante, dal 1999 al 2001, del Centro Addestramento Paracadutismo, dal 2002 al 2004 è stato posto al comando della Brigata Paracadutisti Folgore per poi assumere il comando interforze per le Operazioni delle Forze Speciali (COFS) e, successivamente, quello del Comando Operativo di vertice Interforze (COI). Dal luglio del 2016 Marco Bertolini ha cessato il suo servizio attivo nelle Forze Armate. Attualmente è Presidente dell’Associazione Nazionale Paracadutisti d’Italia.

L’intervista ha preso spunto dall’articolo apparso sul sito www.ordinefuturo.it , link https://www.ordinefuturo.it/2020/04/14/considerazioni-in-tema-di-forze-armate/?fbclid=IwAR1-mMCh4_OTj74yS8-gPHsw7oYi9qHcsfmTY3iVCmX_dpwd0N9CbGnDYcY , a sua volta ripreso dal nostro sito il 15 aprile scorso

le nuove strade aperte dal coronavirus, con Antonio de Martini

La conversazione è lunga; la segregazione in casa aiuterà certamente all’ascolto. Il titolo è un po’ paradossale. Il resto lo farà la pacatezza delle argomentazioni offerte da Antonio de Martini. E’ tempo di scelte. Dall’esterno le pressioni, le sollecitazioni a compierle si intensificano. Ad un quadro sempre più dinamico si contrappone una classe dirigente tremebonda ed arruffona, abbarbicata all’attesa e alla conferma di vecchi schemi e sistemi di relazione ormai deleteri. La crisi epidemica in corso si sta rivelando un vero e proprio acceleratore delle dinamiche in corso della geopolitica, quindi anche della geoeconomia. Una posizione di attesa o, nel peggiore dei casi, abbarbicata agli schemi classici della diplomazia e delle relazioni internazionali è il modo migliore per un paese di diventare oggetto piuttosto che protagonista. Rimane, purtroppo, la cieca propensione della nostra classe dirigente. Ne discutiamo con Antonio de Martini. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

 

Il fantasma di Westphalia, di Giuseppe Masala

Il fantasma di Westphalia

tratto da facebook

Alla fine il peccato originale dell’Europa nata con Maastricht (quella del Trattato di Roma e del Mercato Unico andava benissimo) è il fatto che lede tutti i precetti sui quali si fonda l’Europa moderna e contemporanea stabiliti nel Trattato di Westphalia(1648): (a) pluralismo, (b) principio di sovrantà nazionale, (c) non-interferenza nei fatti altrui, (4) equilibrio tra le potenze. E’ stata creata una moneta unica imponendo dei parametri tecnici che premiavano gli stati che gestivano le finanze pubbliche sotto l’aspetto nominale (per esempio la Germania) e punendo con ferocia belluina quelli che gestivano le finanze pubbliche sul piano reale (per esempio l’Italia) e già in radice così si è creato un sistema che non rispetta l’equilibrio tra potenze di Westphalia. Anzichè correggere l’errore con la crisi del 2008 si è deciso di percorrere questa strada con maggior violenza introducendo il Fiscal Compact, il Mes, il Patto di Stabilità e Crescita rendendo sempre più inaccettabili le violazioni del principio di non ingerenza. In altri termini, non è che a Roma sono tutti stupidi, è certo che gli faceva venire l’ulcera vedere Dombrovski che faceva il maestrino e che pretendeva sull’unghia rientri dello 0,1% calcolati su un modello econometrico. Un umiliazione inaccettabile, a maggior ragione se data dal rappresentante di un paese che vive di contributi EU (di cui l’Italia è contributore netto), di investimenti esteri e dove – addirittura – anche il pattugliamento aereo è garantito (con costi a carico) dall’aviazione militare dei paesi Nato compresa quella di quel paese sottoposto a pubblica gogna contabile in sede europea.
Poi è arrivata la crisi greca dove alla logica eterna secondo la quale è vero che il debitore inadempiente deve essere punito lo deve essere anche il creditore incauto si è preferito legare la Grecia al Mes ledendone la sovranità platealmente. Tutto questo per consentire ai creditori incauti (soprattutto tedeschi e francesi) di rientrare di tutta la cifra dovuta.
Da lì è scattato un meccanismo inesorabile, dettato dalle leggi ferree della storia europea: la Gran Bretagna è entrata nell’orbita USA con relativa uscita dalla UE avendo capito che questa non è un consorzio tra pari ma un meccanismo infernale a vantaggio dei paesi centrali.
Ora c’è il problema italiano. Se verrà legata alla UE tramite il Mes, ovvero ingerendo nel suo processo democratico, si esacerberanno gli animi della Gran Bretagna, degli USA e della Russia che certamente non vogliono un Italia ridotta a semicolonia a vantaggio dei tedeschi. Se invece l’Italia uscirà dalla UE causandone la disgregazione rimarranno inimicizie e rancori che dio solo sa in cosa sfoceranno. Servirebbero dei grandi politici che smontino questa pazzia prima che sia troppo tardi. Servirebbero soprattutto a Berlino, dove dovrebbero accettare pacificamente il ridimensionamento geopolitico ed economico. Non vedo nessuno all’orizzonte in grado di fare questo.

L’unica cosa chiara è che affidare un delicatissimo trattato come quello di Maastricht (e seguenti) a degli economisti convinti di sorpassare le ferree leggi storiche europee con idiozie quali il rapporto debito/pil e deficit/pil (peraltro indici privi di qualsiasi fondamento scientifico anche in economia) è stata la più grande follia degli ultimi cinquanta anni. Follia figlia peraltro di un’epoca che si è caratterizzata – sbagliando – per l’egemonia della techne (dove c’è anche l’economica) sulla psiche (dove senz’altro c’è la Storia).

L’Europa è una religione?, di Donika Chiaramonte

L’Europa è una religione?

 

Se c’è qualcosa che può spiegare l’ostinazione italiana di continuare a far parte dell’Unione Europea, questo qualcosa ha di certo a che fare con la sfera dei sentimenti e non della ragione.

È pacifico, lo dicono e scrivono tutti, che la pandemia da Covid 19[1] è una guerra, che chi è in prima linea sta combattendo con poche armi e scarse munizioni e che avremmo risparmiato tempo e morti, se fossimo stati più attrezzati[2]. Se si aggiunge la conta mediatica giornaliera dei tamponi positivi e dei decessi, si ha tutta la gamma dei contenuti della narrazione giornalistica italiana di queste settimane.

La gestione europea del virus Covid 19 sta mostrando i limiti dell’istituzione Europa, oltre ai danni che la sua legislazione ha perpetrato in anni di austerity e di pesanti limitazioni alla spesa pubblica[3]. Purtroppo, l’opinione pubblica non viene chiamata a riflettere sulla causa da cui originano gli attuali problemi; in altre parole, stimolare negli italiani la logica induttiva non è tra le finalità dell’informazione di questo tempo. Si preferisce invece dedicare tutto lo spazio possibile a fornire, in dettaglio, dati e circostanze sul  contagio (ancorché approssimativi o addirittura errati[4]), per alimentare quella giusta dose di paura che renda accettabile, se non addirittura acclamata, la limitazione della libertà personale e le restrizioni poliziesche che, come in ogni stato di emergenza che si rispetti, sono comminate attraverso la decretazione d’urgenza.

Non stupisce, anzi conferma il buon cuore degli italiani, il fatto che essi stiano accettando di buon grado tali restrizioni, avvertendo la necessità di proteggere sé stessi e soprattutto gli altri[5], ma sconforta il pensiero che questo impegno civico resti, in questo particolare momento storico, la principale occupazione della coscienza pubblica che, concentrandosi sui bisogni contingenti, non è chiamata a riflettere sul come e perché siamo arrivati a questo punto.

Non è difficile collegare i tagli alla Sanità – la principale voce di spesa del nostro Paese, essendo la Sanità in Italia pubblica – con le richieste di spending review che l’Europa chiede al nostro paese ogni anno, da 10 anni. Il settore sanitario non è il solo ad aver beneficiato dell’efficace ricetta europea che si chiama, in linea con gli edulcorati neologismi di matrice europea,  Patto di Stabilità[6]; l’elenco è lungo e certamente ne fanno parte l’Istruzione Scolastica e Accademica, la Ricerca, il Mercato del Lavoro. Moltissimi sono gli italiani che, direttamente o indirettamente, fanno esperienza della difficoltà, se non addirittura dell’impossibilità, di trovare un’occupazione e, quando la trovano, essa è per lo più precaria e sottopagata; molti giovani istruiti e volenterosi emigrano; chi resta, per il proprio sostentamento, trova conforto nel risparmio dei genitori se non addirittura dei nonni[7].

Eppure gli italiani, quel sistema statale che ha consentito di poter fare quel risparmio tanto vitale oggi, non lo ricordano più; gli italiani non pensano che quello Stato può ancora esistere; che il benessere, la prosperità e la piena occupazione dipendono dalle scelte economiche di un ordinamento e che, da una ricetta economica sbagliata, possono scaturire malessere sociale, conflittualità, inoccupazione e … morte.

Al contrario, gli italiani difendono l’appartenenza all’Europa, ne riconoscono dogmaticamente i vantaggi e pronunciano frasi enfatiche, come “fuori dall’Europa saremmo morti”, “da soli siamo troppo piccoli”, “non saremmo in grado di sostenere da soli la globalizzazione”, “se usciamo dall’euro, la nostra moneta sarebbe carta straccia” anche se, in pochi, si avventurano a sostenere gli argomenti a favore di tali, astrattamente legittime, considerazioni.  Preoccupa osservare come, attraverso un vero e proprio ribaltamento della realtà, taluni definiscano fatale l’uscita dell’Italia dall’Europa e dall’Euro, ma non considerano quanto dannoso sia stato, e continua ad essere, applicare i dettami dell’Europa.

Questo è il dilemma: cosa può essere così potente, da far superare la forza dell’evidenza, la consapevolezza del disagio sociale, la visione della povertà, il senso di precarietà che sperimentiamo?

Esistono diverse possibili risposte: molte attingono dalla psicologia, le altre dall’ “arte” della comunicazione.

Non c’è dubbio che la cooperazione e la pace fra gli Stati usciti dalla seconda guerra mondiale, siano le finalità che gli europeisti più ortodossi attribuiscono all’Europa. Ed in effetti, l’Europa trae origine dai postumi della guerra: la minaccia sovietica, che ha contribuito alla coesione fra i paesi europei; la spinta americana, favorevole all’integrazione e, soprattutto, la debolezza degli Stati nazionali, in particolare della Germania e dell’Italia, che escono dal secondo dopoguerra prostrate dalle rispettive dittature e, consapevoli degli errori commessi, più disponibili ad abbandonare le posizioni nazionali, per favorire la creazione di istituzioni sovranazionali. La nascita della Comunità Europea accrebbe, nell’immaginario degli italiani, l’idea in base alla quale, la limitazione di sovranità dello Stato Italiano, fosse a ragione ripagata dalla partecipazione ad un organismo sovranazionale, che avrebbe significato protezione, un sicuro argine di fronte a spinte nazionalistiche, la possibilità che persone e merci potessero, liberi da frontiere e dogane, liberamente circolare, in uno spazio comune e amico[8].

Tuttavia, con l’Unione Europea e l’Euro, cominciarono a manifestarsi, sin da subito, i limiti e i grossi pericoli di tenuta di un’area monetaria comune tra Paesi centrali e periferici, proprio in ragione delle diverse velocità delle rispettive economie[9].

La bontà dell’Euro e dell’Unionismo Europeo si sono radicati con la stessa forza della fede per un credente, come un dogma incontrovertibile; l’adesione è totale e rafforzata da un sentimento di inevitabile necessità che rende impari la battaglia con la ragione. Ed è così che l’italiano, plagiato dalla politica nazionale (di tutti i colori) e dall’Informazione, fedele ancella delle forze dominanti, accetta i sacrifici imposti in nome dell’austerity, come si accettano le penitenze. I peccati sono quelli che i Paesi Centrali, di impostazione calvinista, imputano a quelli periferici cattolici[10]: l’avere esagerato con la spesa pubblica e generato un deficit che va drasticamente ridotto. Così l’Italia, con i politici assurti a burattini, in nome dell’Europa unita, comincia a tagliare, anno dopo anno, le pensioni, la Ricerca  (generando l’effetto noto come “fuga dei cervelli”), l’Istruzione a tutti i livelli (ormai insegnante è diventato sinonimo di “precario”), il Mercato del Lavoro (più tasse, meno investimenti pubblici = deflazione) e la Sanità, come ormai tristemente noto.

L’italiano accetta la purga nella convinzione, neanche troppo sotterranea, di meritarsela perché “i politici sono incompetenti” e “stiamo pagando per la loro corruzione”.

Ancora una volta gli organi di informazione mainstream fanno la loro parte e concorrono nello spostare il focus dell’opinione pubblica su qualche faccenda interna o di natura microeconomica, quindi ben lontano dai veri interrogativi[11]. Perché, per uno Stato è sano fare austerity? Perché la spesa pubblica, se serve a fare investimenti, a vantaggio dei cittadini, va contenuta nei limiti del Patto di Stabilità?

Sono interrogativi che non parlano alla ragione, scalzata dall’ideale immaginario e impoverita dall’ignoranza. Si,  perché la partita vera con l’Europa si dovrebbe giocare sul piano della legislazione e delle regole economiche previste nel suo ordinamento. Peccato però che tale legislazione rimanga sconosciuta ai più. Un tempo, in tutte le case degli italiani, accanto alla Bibbia non mancava la Costituzione Italiana, e i principi fondanti dallo Stato venivano spiegati nelle scuole. Ci veniva insegnato che essi rappresentano i valori a cui lo Stato e i cittadini si ispirano, per orientare il comportamento di ciascuno. Oggi, buona parte di quei principi fondamentali è stata tradita dallo Stato, per asservirsi alle regole dell’Europa, i cui trattati, oltre a non essere stati sottoposti al referendum popolare[12], sono ignoti alla maggioranza dei cittadini europei.

Il bisogno di protezione, l’illusione ingannevole di un’unione tra Stati, che esiste solo come ideale immaginario, e l’ignoranza alimentata dai mezzi di informazione, espressione delle forze dominanti di questo tempo, sono le ragioni profonde che impediscono il disvelamento della verità. Ma c’è un altro aspetto da considerare, di cui tutti noi nella nostra esistenza facciamo spesso esperienza. Si tratta del mantenimento dello status quo, l’istinto ancestrale dell’essere umano di essere conservativo, anche quando versa in una situazione sfavorevole, per paura di avventurarsi nel cambiamento e nell’ignoto che esso porta con sé[13]. Siamo conservativi nel rapporto di coppia, quando decidiamo di non voler vedere il fallimento di un progetto comune o persino un tradimento; è conservativa la vittima di una violenza che ha paura di denunciare e spera che l’aguzzino possa ravvedersi. Si tratta di una dinamica istintiva frequente nel mondo animale: la gazzella, sotto il mirino del leone, rimane immobile e tremante, accettando la fine inevitabile, anche se la separano parecchi metri dal suo predatore e, con il suo scatto, potrebbe salvarsi.

In una società liquida, mutevole, delocalizzata e globale, dove la politica e i mezzi di informazioni ci forniscono messaggi contrastanti e si assiste ad una totale assenza di codici di comportamento univoci, il pensarci dentro l’Unione Europea ci fornisce certezza e stabilità; al contrario ipotizzarne l’uscita ci procura una percezione inconscia di pericolo che ci impedisce di prendere in considerazione, in modo razionale, i vantaggi che una soluzione di questo tipo potrebbe avere[14].

A ciò si aggiunge la sempre più pervasiva sfiducia per la Politica che si percepisce come assente o distante dai bisogni della società, presenzialista solo in fase elettorale, ma incapace di garantire spazi protettivi di statalità che costruiscano, attorno al cittadino – uomo contemporaneo, un argine di socialità garantita. In un mondo globalizzato, che ha scardinato la certezza del lavoro e della famiglia, l’uomo fa i conti con una progettualità precaria e fragile che, se da un lato, lo inducono a intraprendere nuove formule di socialità, dall’altro, lo fanno sentire solo e disorientato. Ciò determina la difficoltà, per la persona, di sentirsi parte di una comunità stabile, orientata al bene comune e, al contrario, ne limita gli orizzonti alla propria dimensione privata, producendo bisogni sempre più individualistici ed egoistici[15].

Ed è così che gli italiani reagiscono esterrefatti alle parole della Lagarde, senza capirne il valore di “smascheramento” che quella “gaffe” ha avuto sul vero ruolo della BCE[16]; sperano che l’Europa accetti l’emissione di Eurobond, ma constatano l’amaro veto che gli stati centrali dell’Unione vi hanno posto e adesso attendono, come chiede il Capo del Governo, ancora 10 giorni per verificare l’esito degli ulteriori negoziati con l’Europa che sarebbe disposta ad aprire una linea di credito (con relativo piano di rientro e interessi) tramite il MES e le sue condizionalità.

Tutto questo accade mentre il Covid 19 continua a fare le sue vittime; mentre gli Stati Centrali d’Europa, in barba ai vincoli europei, inondano di liquidità i loro Paesi, per fronteggiare l’emergenza e arginare già i danni del post pandemia e, intanto,  Stati sovrani , come USA e Hong Kong, con il così detto elycopter money, fanno giungere denaro direttamente sui conti correnti di aziende e privati, disastrati dalla crisi economica che è e sarà forse più grave di quella sanitaria, se non la si saprà affrontare rapidamente.

Se usassimo la ragione, invece della paura, capiremmo di essere al capolinea di questa unione illusoria. La pandemia costituisce  la grande occasione – “divina” o “satanica” chi può dirlo – per un cambiamento necessario, guidato da una nuova consapevolezza. Perché, solo la consapevolezza è in grado di illuminare le coscienze, indirizzando le menti all’analisi e alla valutazione, per imprimere una svolta epocale alla storia ed illuminare il futuro con la luce del progresso[17].

Diversamente, ci aspetterà un nuovo lungo periodo in cui, ancora per un po,’ ci tureremo naso e occhi; poi, cominceremo a sentire i morsi della fame e quando, solo quando avremo perso tutto, allora arriverà il cambiamento, attraverso una rivoluzione, una rivoluzione cieca e manipolabile[18].

 

Pavia, 6 aprile 2020

 

 

 

[1]  Il COronaVIrus Disease 19 o COVID 19 è una malattia dell’apparato respiratorio causata dal virus SARS-CoV-2. Le prime manifestazioni della malattia si fanno risalire agli inizi del dicembre 2019 nella città di Wuhan, capoluogo della provincia cinese dell’Hubei, da cui si è successivamente diffusa in diverse nazioni del mondo. In Italia, l’inizio dell’epidemia si attesta il 31 gennaio 2020, quando due turisti cinesi sono risultati positivi al SARS-CoV-2 a Roma ed il Presidente del Consiglio Conte, sospesi tutti i collegamenti diretti con la Cina, ha dichiarato lo stato di emergenza. Tuttavia questo intervento non è stato sufficiente a fermare la corsa del virus che si è velocemente diffuso in tutto il Paese, con focolai e picchi particolarmente violenti in Lombardia ed Emilia Romagna. Inizialmente le città e le regioni più colpite sono state poste in quarantena, ma dal 9 marzo 2020 la quarantena è stata estesa a tutta l’Italia e tutte le attività pubbliche nonché le attività produttive sono state sospese, al di fuori dei negozi di generi alimentari , farmacie e attività fornitrici di beni di prima necessità. Le misure di contenimento del contagio hanno ridotto al minimo le possibilità di spostamento dei cittadini, ai quali è stato chiesto di restare presso le proprie abitazioni e di uscire esclusivamente per necessità primarie, e paralizzato l’economia del Paese.

[2]      Il Report dell’Osservatorio GIMBE n. 7/2019 documenta come nel decennio 2010-2019 tra tagli e definanziamenti, al Servizio Sanitario Nazionale (SSN) siano stati sottratti circa € 37 miliardi, mentre il Fabbisogno Sanitario Nazionale (FSN) è aumentato di soli € 8,8 miliardi (https://www.gimbe.org/osservatorio/Report_Osservatorio_GIMBE_2019.07_Definanziamento_SSN.pdf). Inoltre, il Documento di Economia e Finanzia (DEF) 2019 ha certificato che gli aumenti del FSN previsti per il 2020 e 2021 sono utopistici sia perché la crescita economica del Paese è stata drammaticamente ridimensionata, sia perché il rapporto spesa sanitaria/PIL rimane stabile sino al 2020 per poi ridursi dal 2021 http://www.upbilancio.it/wp-content/uploads/2019/01/Rapporto-politica-di-bilancio-2019-_persito.pdf). In questo scenario, da un lato il Ministro della Salute non può offrire alcuna garanzia sull’aumento delle risorse previste per il 2020-2021, dall’altro per esigenze di finanza pubblica il Governo sarà libero in qualsiasi momento di operare tagli (o mancati aumenti) alla sanità.

[3] Nel 2018 l’Italia ha speso per il Sistema Sanitario Nazionale il 6,5% (investimenti pubblici). In numeri assoluti ciò si traduce in un esborso per lo Stato di 2.326 euro a persona (2000 euro meno della Germania) e complessivamente 8,8 miliardi più rispetto al 2010. Una tasso di crescita in circa 10 anni dello 0,90% annuo, che compensato da un aumento dell’inflazione (ndr leggasi: diminuzione del potere di acquisto) media annua all’1,07%,  si traduce in un definanziamento di 37 miliardi. La Fondazione Gimbe calcola che il grosso dei tagli sia avvenuto tra il 2010 e il 2015 (governi Berlusconi e Monti), con circa 25 miliardi di euro trattenuti dalle finanziarie del periodo, mentre i restanti 12 miliardi sono serviti per l’attuazione degli obiettivi di finanza pubblica tra il 2015 e il 2019 (governi Letta, Renzi, Gentiloni, Conte). Nella sua relazione annuale per il 2019 (dati 2018), la Corte de Conti documenta che nel 2018 “l’Italia ha versato all’Unione, a titolo di risorse proprie, la complessiva somma di 17 miliardi (+23,1% rispetto all’anno precedente) . Ciò porta l’ammontare dei versamenti italiani al secondo valore più alto dal 2012, con una notevole differenza rispetto all’importo registrato nell’anno 2017”. Osservando invece le risorse che l’Europa destina all’Italia, “l’Unione ha accreditato complessivamente al nostro Paese nel 2018 la somma di 10,1 miliardi. Come si nota, la forbice tra contributi ed accrediti è significativa (17 miliardi a fronte dei cennati 10,1) (omissis). Il “saldo netto negativo” si accentua quindi sensibilmente: il valore cumulato dei saldi netti negativi per l’Italia, nel settennio 2012-2018, è pari a -36,3 miliardihttps://www.corteconti.it/Download?id=7d88336e-1125-487a-988b-f6b6bf8120a3. Come si legge nell’annuale relazione della Corte dei Conti, la frenata più importante è arrivata dagli investimenti degli enti locali (-48% tra il 2009 e il 2017) e dalla spesa per le risorse umane (-5,3%), una combinazione che in termini pratici si ripercuote sulla quantità e sull’ammodernamento delle apparecchiature, oltre che sulla disponibilità di personale dipendente, calato nel periodo preso in considerazione, di 46mila unità (tra cui 8mila medici e 13mila infermieri). I mancati investimenti si fanno sentire soprattutto nel sud Italia, dove tutte le regioni spendono meno della media nazionale.

[4]  Dalle colonne del New York Times in un articolo dal titolo  “We’re Reading the Coronavirus Numbers Wrong” pubblicato il 18 febbraio 2020, il matematico John Allen Paulos, docente della Temple University di Philadelphia avverte che seppure le cifre fornite ogni giorno sono importanti per le autorità sanitarie e gli epidemiologi, che devono valutare l’efficacia delle politiche di contenimento dei contagi, esse possono risultare fuorvianti per l’opinione pubblica, soprattutto se sono presentante con poche informazioni di contesto. La principale causa di incertezza dei dati è dovuta al fatto che i test non vengono effettuati a tappeto, pertanto, il numero dei contagiati rispetto al quale si misura la percentuale di mortalità, si riferisce a coloro che sono risultati positivi al tampone, anche se è noto che vi è un’estesa platea di Covid positivi con sintemi lievi o assenti ai quali il test non viene somministrato.  Se ci ponessimo in una condizione fattuale ex ante e il numero totale degli infetti, inclusi i puacisintomatici,  aumentasse osserveremmo diminuire la percentuale di decessi. Questo diverso calcolo matematico non cambierebbe il numero dei morti, ma di certo allieverebbe la percezione della letalità del virus (https://www.nytimes.com/2020/02/18/opinion/coronavirus-china-numbers.html).

[5] Con i decreti di marzo (2020), il Governo Italiano ha prescritto ai cittadini forti limiti agli spostamenti, consentiti esclusivamente in presenza di giustificazioni tipiche, pena l’applicazione di sanzioni pecuniarie e/o personali. Sono allo studio anche in Italia forme tecnologiche di controllo già adottate in altri paesi, come la Corea del Sud, in particolare la società valtellinese Webtek  sta per avviare la sperimentazione di un’applicazione che consentirà di tracciare, tramite tecnologia Gps, gli spostamenti degli utenti e di avvertirli in caso di contatto con soggetto positivo al virus. L’assessore della Regione Umbria, Michele Fioroni, dove questa sperimentazione verrà effettuata, ne ha già illustrato i vantaggi, più che nel brevissimo periodo, nel post emergenza, quando la gente ricomincerà a circolare e i dati verranno trasmessi all’Autorità Sanitaria per contenere eventuali contagi. Non sfugge ai più saggi il timore che le restrizioni alla libertà personale introdotte e accettate in nome del buon senso e dello stato di necessità durante l’emergenza Covid 19 possano radicarsi nell’ordinamento degli Stati; questo per effetto dell’opportunità che il Potere intravede nei contesti emergenziali di legittimare l’aumento di controllo sui cittadini. Un esempio è l’USA Patriot Act, la legge federale che George W. Bust, nell’ottobre successivo al crollo delle Twin Towers (11 settembre 2001), istituì con la finalità di rafforzare il potere dei corpi di polizia e di spionaggio statunitensi, CIAFBI e NSA, e il dichiarato scopo di ridurre il rischio di attacchi terroristici negli Stati Uniti. Le misure, nate per fronteggiare l’emergenza e che consistevano, fra l’altro, nel potenziamento del ricorso alle intercettazioni telefoniche, l’accesso a informazioni personali e il prelevamento delle impronte digitali nelle biblioteche, sono state confermate; quattordici disposizioni su sedici sono tuttora in vigore e costituiscono un vulnus permanente alla privacy dei cittadini americani. Sull’argomento, lo storico israeliano Yuval Noah Harari ha rilasciato al Financial Times del 20 marzo 2020 un interessante contributo dal titolo “The world after coronavirus: this storm will pass. But the choices we make now could change our lives for years to come”. Per Harari il Potere tende a strumentalizzare la paura delle persone, ponendole davanti ad un aut aut tra l’interesse alla protezione (tutela della salute evitando il contagio) e la difesa della propria libertà personale (tutela della privacy) facendo apparire inevitabile e primario per coscienza dell’individuo  scegliere il primo interesse a scapito del secondo. Tuttavia, secondo Harari, il governo di decisioni che coinvolgono beni parimenti essenziali non può essere affidato ad una scelta binaria, ma richiede il bilanciamento di entrambi gli interessi al fine di non determinare mai la rinuncia ad uno di essi con l’effetto di condannare questa scelta all’irreversibilità e quell’interesse all’oblio  https://www.ft.com/content/19d90308-6858-11ea-a3c9-1fe6fedcca75, pubblicato in italiano dalla rivista Internazionale: https://www.internazionale.it/notizie/yuval-noah-harari/2020/04/06/mondo-dopo-virus

[6] Il Patto di Stabilità e Crescita (PSC) è un accordo internazionale sottoscritto nel 1997 dai paesi membri dell’Unione Europea, che si prefigge come finalità il controllo delle rispettive politiche di bilancio pubbliche, al fine di mantenere fermi i requisiti di adesione all’Unione economica e monetaria dell’Unione europea (Eurozona). Il PSC, richiamandosi agli articoli 99 e 104 del Trattato di Roma istitutivo della Comunità europea, così come modificato dal trattato di Maastricht (1992) e dal trattato di Lisbona (2008), si attua attraverso il rafforzamento delle politiche di vigilanza sui deficit ed i debiti pubblici, nonché attraverso un particolare tipo di procedura di infrazione, la “procedura per deficit eccessivo” (PDE). In particolare, i parametri di  Maastricht  prevedono i seguenti vincoli: 1) un deficit pubblico non superiore al 3% del PIL (rapporto deficit/PIL < 3%); 2) un debito pubblico al di sotto del 60% del PIL (o, comunque, un debito pubblico tendente al rientro; rapporto debito/PIL < 60%). Il PDE è previsto all’articolo 104 del Trattato e consta di tre fasi: avvertimento, raccomandazione e sanzione: se a seguito della raccomandazione lo Stato interessato non adotta sufficienti misure correttive della propria politica di bilancio, esso può essere sottoposto ad una sanzione che assume la forma di un deposito infruttifero, da convertire in ammenda dopo due anni di persistenza del deficit eccessivo,  pari a una componente fissa dello 0,2% del PIL ed una variabile pari ad 1/10 dello scostamento del disavanzo pubblico dalla soglia del 3%.

[7] In base alla Costituzione Italiana: “La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto (omissis)” (art. 4); “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”. Neppure un’interpretazione programmatica della Costituzione basterebbe a giustificare lo scenario esistente in Italia, con una disoccupazione per la fascia d’età compresa tra i 15 e i 34 anni del 17, 8 % e una media nazionale (15 – 64 anni) del 9,8% (dati Istat trimestre luglio – settembre 2019 https://www.istat.it/it/files/2019/12/Nota-Trimestrale-Occupazione-III.pdf#page=6. Tra le fila degli occupati, che non figurano nelle statistiche, i lavoratori con voucher (Deliveroo, Glovo, Just Eat, Foodora, Amazon), gli stagionali, i precari come gli assegnisti e gli eterni collaboratori coordinati e continuativi.

[8] La Comunità Economica Europea (CEE) istituita con il Trattato di Roma del 25 marzo 1957, soppressa con l’adozione nel 2009 del Trattato di Lisbona e confluita nell’Unione Europea,  aveva nei suoi obiettivi principalmente l’unione economica dei suoi membri (BelgioFranciaItaliaLussemburgoPaesi Bassi, e Germania Ovest) ed in secondo luogo, quale conseguenza di ciò, un’eventuale unione politica. La CEE infatti si adoperò moltissimo per il libero movimento dei beni, dei servizi, dei lavoratori e dei capitali, per l’abolizione dei cartelli e per lo sviluppo di politiche congiunte e reciproche nel campo dell’agricoltura, dei trasporti, del commercio estero. Per queste ragioni più di un economista ed intellettuale definisce già dalle sue origini l’Unione Europea come una tecnocrazia: con essa si è generato un apparato di rigide regole economiche, commerciali e, con l’avvento dell’euro, anche monetarie, inadatte ad essere applicate a Paesi con economie, storia e culture profondamente differenti,  con l’effetto che l’Europa non ha prodotto un unione di intenti politici, ma un coacervo di forze sparse ad alto tasso di competitività.

[9] Che obbligare Paesi diversi ad adottare la stessa moneta, peraltro agganciandola ad un tasso di cambio fisso, fosse una scelta, potremmo dire, non intelligente lo aveva, con altre parole, sostenuto anche Mario Draghi, già Presidente della Banca Centrale Europea (BCE) negli anni 2011 – 2019, il quale, prima di abbandonare la visione keynesiana per sposare la corrente liberistica, aveva persino dedicato la propria tesi di laurea all’argomento. Nella tesi intitolata “Integrazione economica e variazione dei tassi di cambio” Draghi,  come ammetterà in seguito nel libro della Tamburello (Il Governatore, Rizzoli, 2011, pag. 23), sosteneva “che la moneta unica era una follia, una cosa assolutamente da non fare”. E se le considerazioni di Draghi possono apparire relegate al passato adolescenziale, faranno allora comodo alla comprensione le opinioni di una serie di premi Nobel dell’Economia (di tutte le correnti), come il neo-liberista Milton Friedman, il keynesiano Paul Krugman, Joseph Stiglitz, Amartya Sen, che sono sinteticamente riportati nell’articolo di Alessandro Montanari pubblicato il 13 novembre 2017 alla pagina https://www.interessenazionale.net/blog/leuro-e-follia-diceva-anche-draghi-dicono-tutti, dalle quali emerge una sostanziale concordanza di contenuto: l’eurozona è un progetto fragile e destinato a fallire.

[10] La pervicacia manifestata in queste settimane di crisi pandemica, dagli Stati del Nord Europa e soprattutto dall’Olanda nel porre il veto alle richieste avanzate dai paesi del Sud Europa (Italia, Spagna e Portogallo) che chiedono di fronteggiare la terribili crisi economica causata dal Covid 19 ottenendo strumenti di finanziamento garantiti direttamente dalla Banca Centrale, come gli eurobond, e non invece attraverso prestiti a interessi e altre condizionalità come sarebbe invece il Fondo Salva Stati (anche conosciuto come Meccanismo Europeo di Stabilità, MES), ha riportato alla luce un antico dibattito, nato a seguito della pubblicazione nel 1905 del testo di Max Weber “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” sulle origine calvinistiche o meno del capitalismo. Questa tesi è stata smentita sulla scorta dell’evidenza storica dell’esistenza di forme di capitalismo precedenti a Calvino e geograficamente collocabili nell’Italia del ‘500. Tuttavia, ciò che è utile dell’analisi weberiana è quanto lui stesso scriveva: esistono delle “affinità elettive” tra l’etica protestante e il capitalismo, non intendendo con ciò attribuire una connotazione negativa a questa circostanza. In altre parole,  il pensiero di Calvino, a differenza di quello di Lutero, avrebbe per Weber contribuito allo sviluppo di una nuova concezione della vita terrena, secondo la quale il successo nel lavoro e l’arricchimento personale possono essere interpretati come un segno della benevolenza e del favore di Dio. Per entrambi i pensatori protestanti l’uomo riceve una predestinazione da Dio e a nulla vale il libero arbitrio perché l’l’umanità, colpevole del peccato originale, è sottoposta all’insindacabile giudizio del Creatore. A differenza di Lutero, però, Calvino propone più convintamente una visione dell’esistenza basata sul concetto di “ascetismo mondano”: ogni uomo, pur essendo predestinato, riesce comunque a instaurare un rapporto con Dio (ascesi) se, e solo se, nella vita terrena (cioè nella mondanità) si impegna a diventare uno strumento attivo dei programmi e dei disegni divini. Calvino trasferisce dunque alla mondanità il concetto di vocazione, che nel cattolicesimo è riservato soltanto a coloro che scelgono di entrare a far parte dell’ordine religioso. Per l’etica calvinista e protestante, invece, ogni individuo può seguire la propria vocazione professionale con lo stesso rigore e ascetismo che caratterizzano l’esistenza monacale. Inoltre, mentre per i cattolici il prestito di denaro con interessi costituiva usura e dunque peccato, Calvino si dimostrò più aperto allentando le prescrizioni morali dell’epoca e giustificando il pagamento degli interessi.  Certamente, gli aspetti teologici non bastano da soli a spiegare il passaggio da un capitalismo industriale al capitalismo finanziario dei nostri giorni, né a collegare le origini di quest’ultimo necessariamente ad un Paese o ad un gruppo di Paesi piuttosto che ad altri giacché il mondo globalizzato odierno sembra essere pervaso tutto della stessa impostazione. Ma se si considerano quei fattori ereditari stabili di Le Bon-niana memoria che informano la storia e il sentire di un popolo, è possibile affermare che si assiste in Europa a due visioni del mondo: uno realista fino al darwinismo  – il “sopravviva il migliore” o, di questi tempi,  l’”immunità di gregge” di Boris Johnson –  pragmatico fino al cinismo. L’altro, su cui si avverte forte l’influenza del Vaticano, solidale fino all’assistenzialismo e derogatorio delle regole.

[11] Già nel 1928, Edward Bernays in Propaganda, rilevava che la manipolazione cosciente, intelligente delle opinioni e delle abitudini organizzate delle masse gioca un ruolo importante nella società democratica. Coloro che manipolano questo impercettibile meccanismo sociale formano un governo indivisibile che dirige veramente il paese.

[12] L’Italia non ha mai sottoposto a referendum l’adesione ai trattati Europei, ancorché nel trattato di Maastricht del 1999 sia stata ceduta parte della sua sovranità nazionale e con il trattato di Lisbona, ratificato nel 2008, siano state rafforzate le “deleghe” all’Unione Europea, includendo anche la ripartizione diseguale di poteri fra gli Stati aderenti. Giova qui ricordare che anche nei pochi Paesi in cui il referendum è stato fatto ed è stato sfavorevole alla ratifica, l’approvazione finale sia stata in ogni caso ottenuta ripetendo una seconda volta il referendum. È il caso della Danimarca (referendum sfavorevole al Trattato di Maastricht nel 1992, poi favorevole nel 1993), dell’Irlanda (referendum sfavorevole al Trattato di Lisbona nel 2008, poi favorevole al secondo che si tenne lo stesso anno, esattamente stesso iter che nel 2001 era già accaduto per il Trattato di Nizza), della Francia e dell’Olanda che nel 2003 votarono “no” alla Costituzione Europea, le cui previsioni vennero poi fatte confluire nel Trattato di Lisbona e infine accettate nel 2008.

[13] Noto nelle scienze psicologiche come Bias o Pregiudizio dello Status Quo. Si tratta di un errore cognitivo che consiste nella preferenza per la situazione attuale rispetto ad altre possibili ed è determinato da una istintiva resistenza al cambiamento: il cambiamento spaventa e si tenta di mantenere le cose così come stanno. La parte più dannosa di questo pregiudizio è l’ingiustificata supposizione che una scelta diversa potrà far peggiorare le cose.

[14] Per il sociologo e filosofo polacco, Zygmunt Bauman, noto per aver coniato la definizione di “società liquida” e per la capacità di condensare in concetti vividi i cambiamenti della società di cui si ha ancora una percezione confusa, il presente è schiavo della paura. Per Bauman l’origine delle paure che percorrono il nostro presente è il declino, la scomposizione e la scomparsa dell’organizzazione sociale, politica ed economica che andava sotto il nome di «fordismo», da intendersi come il sostrato industriale che reggeva l’intero edificio. Questa base irradiava sicurezze e solidità nel corpo sociale. E ciò avveniva, sì, anche grazie alla redistribuzione della ricchezza ad opera di uno Stato capace di provvedere alla copertura di molti bisogni, ma il «nucleo centrale» di quella forza irradiante era sopra ogni altra cosa la «protezione» che esso forniva, in forma di assicurazione collettiva contro le disgrazie individuali.

[15]Oggi i lavoratori, imprenditori di sé stessi, sono dominati da forze psichiche inconsce, installate dalla propaganda neoliberista, che agiscono da virus del pensiero, da truppe di occupazione, che distorcono in modo sistematico la lettura della realtà interna ed esterna. Questa distorsione produce alienazione dal vero sé relazionale e sociale, e costruisce un falso sé insocievole con sé stesso e con gli altri, competitivo, arrogante, individualista, narcisista. (omissis). Il narciliberismo si genera, non solo in famiglia, ma soprattutto socialmente collettivamente, nelle pubbliche scuole e nelle università, attraverso l’interiorizzazione di idee mitiche sotterranee, implicite in modo pervasivo nella propaganda mediatica e nelle pratiche disciplinari di controllo sociale, che sfuggono ad ogni analisi critica da parte dell’io che governa la personalità. Queste idee contaminano non solo l’inconscio, amplificando la propensione al conflitto tra pulsioni aggressive e socievoli, ma l’io stesso che dovrebbe gestire il conflitto” (Prof. Mauro Scardovelli, Economia e Psiche, 13).

[16] Ci si riferisce alla frase shock pronunciata dalla neo Presidente della Banca Centrale Europea (BCE), Christine  Lagarde che, intervistata il 12 marzo 2020 sugli strumenti che la BCE avrebbe attivato per fronteggiare la gravissima crisi economica causata dalla pandemia, rispondendo a una domanda a proposito dell’Italia, ha affermato: “Non siamo qui per ridurre gli spread, non è compito nostro”.

[17] “Dobbiamo ammetterlo, dobbiamo riconoscerlo: siamo stati distratti, superficiali, assenti. Dove eravamo quando ci hanno sottratto giorno dopo giorno quei diritti e libertà che erroneamente davamo ormai per acquisite e naturali, ma che naturali non sono affatto? Ci eravamo dimenticati che dietro quelle libertà c’erano i corpi mutilati. Torturati e uccisi di tanti resistenti (omissis). Scoraggiarsi, chiudersi in sé stessi, deprimersi fa solo il gioco dell’avversario. La storia ci insegna che nessuno può continuare ad opprimere un popolo che si fa consapevole e che progressivamente si unisce nella dedizione al bene comune e alla giustizia” (Prof. Mauro Scardovelli, Economia e Psiche, 28-29). “ I cittadini, per tutelare i loro diritti costituzionali, così gravemente messi in pericolo, oggi devono impegnarsi in una estrema difesa. Difesa che non può prescindere da una diffusa consapevolezza culturale dei presupposti storici e socio – economici della forma di repubblica democratica prevista dalla Costituzione del ‘48” (Luciano Barra Caracciolo, citato in  Economia e Psiche, 29, Prof. Mauro Scardovelli),

[18] Torna attuale l’osservazione che Gustave Le Bon in Psicologia delle folle fa a proposito dello sradicamento delle idee fondamentali di un popolo o, come le definisce anche Le Bon, delle credenze stabili. Queste si posso definire come l’insieme dei fattori ereditari, dei sentimenti, delle opinioni e degli orientamenti di una razza (ndr leggasi: nazione) che difficili e lunghe a radicarsi, sono altrettanto difficili ad essere abbandonate. Di norma, osserva Le Bon, questo accade con una violenta rivoluzione, tuttavia avverte il fondatore della Psicologia Sociale, “ le rivoluzioni acquisiscono un vero potere solo quando la credenza ha perso quasi del tutto la sua presa sulle anime. Le rivoluzioni servono allora a eliminare definitivamente ciò che era praticamente già abbandonato del tutto. Le rivoluzioni che cominciano sono in realtà credenze che finiscono (omissis). Il giorno preciso in cui una credenza è destinata a morire è quello in cui si comincia a discuterne il valore”(pag. 126).

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