Malesia! La tigre asiatica e il pachiderma cinese, con Giuseppe Malgeri

Le nazioni del sudest asiatico hanno conosciuto e sperimentato i tre modelli sinora conosciuti di sperimentazione di sortita dal sottosviluppo: quello autarchico ispirato al modello socialista e ad alcune dittature satrapo-militari; quello aperto e dogmaticamente liberista; infine quello pragmatico che ha cercato e saputo dosare l’apertura selettiva dei mercati, l’accettazione selettiva degli investimenti esteri in un quadro di compartecipazione nelle società, l’incentivazione delle esportazioni, le opportunità legate alla globalizzazione. La Malesia può essere considerato un esempio di livello intermedio tra quello modesto della Cambogia e del Laos e quello più brillante di Singapore e di seguito della Thaynlandia e del Vietnam in un contesto di crescente predominio economico cinese ed equilibrio geopolitico sinoamericano. Una esperienza da cui trarre qualche insegnamento per il nostro paese ormai avviato verso un mesto e remissivo declino. Buon ascolto_Giuseppe Germinario

Teorici della guerra economica, di David Colle

Il campo dei teorici della guerra economica è stranamente deserto se paragonato a quello dei liberali. In questo (quasi) vuoto spicca un nome, quello di Friedrich List. Ma il numero non fa il valore di una teoria …

24 novembre 2020 In Economia, energie e imprese , Idee Lettura di 8 minuti

Come il suo (quasi) omonimo compositore Franz Liszt, che ha tirato fuori l’arpeggi di pianoforte e ottave détonnèrent al momento della Chopin, Schumann e Brahms, Friedrich List spinto all’inizio del XIX °  secolo, che lo considera – anche per essere una scuola  : classica, di libero scambio, troppo poca cura secondo lui del passato come del futuro delle nazioni.

Una semplice idea riassume il suo pensiero e lo avvicina a Marx: la produzione precede lo scambio. Prima di poter consumare, devi produrre. List rompe con una scuola che accusa di “vago cosmopolitismo”, a cui si oppone “la natura delle cose, gli insegnamenti della storia, i bisogni delle nazioni”. L’analisi dello scambio deve piegarsi a quella della produzione, il cosmopolitismo alla politica, la teoria alla storia.

Tuttavia, nulla sembra più lontano dal suo punto di vista che considerare il Sistema nazionale di economia politica come un pretesto per la guerra. Nemmeno il conflitto. Piuttosto in competizione. Se List è in guerra, è contro l’ideologia dominante del suo tempo.

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Concepito in America, scritto in Francia, pubblicato in Germania

Fu alla scuola del vasto laboratorio americano in cui List visse a lungo, ancora sotto l’influenza del Report on Manufactures scritto da Alexander Hamilton nel 1791, che fu concepito il Sistema nazionale di economia politica . Ma è in Francia che è per la maggior parte scritto, e in Germania che viene pubblicato nel maggio 1841. Che cosa c’è in gioco? La teoria dominante del vantaggio comparato.

David Ricardo formulò questa teoria della specializzazione e del libero scambio nel 1817 per estendere ma anche modificare quella di Adam Smith. Senza volerlo, e probabilmente senza secondi fini (?), Porta in pratica a stabilire il potere industriale inglese. Il Portogallo, dimostra, deve specializzarsi nella produzione del vino, l’Inghilterra in quella dei tessuti. Mentre i tessuti sono il motore della rivoluzione industriale in movimento!

 

Forse List ha visto nel libero scambio offerto dall’Inghilterra alla Francia, agli Stati Uniti o alla Germania una trappola – un complotto? – destinato a mantenere questi paesi indietro . Nel 1846, List era a Londra quando le Corn Laws furono abrogate . Fu alla fine di quello stesso anno, tornato nel continente, che List si suicidò: si spera che il suo atto non fosse correlato a questo momento chiave dell’evoluzione verso il libero scambio.

Industria e concorrenza

L’elenco dovrebbe essere letto, avendo cura di far risuonare i termini che usa: protezione delle industrie nascenti , protezionismo educativo . Il protezionismo non è giustificato né per le nazioni che non hanno ancora iniziato il loro sviluppo economico e industriale, né per le nazioni che questo sviluppo ha portato ad avere industrie che ora sono armate nella concorrenza internazionale. Viene fatto solo per educare nella fase di transizione. E se durante questa fase le industrie protette da tariffe fino al 60% non riescono a prosperare, allora la concorrenza sta facendo il suo lavoro… Darwiniana.

List resta dunque a favore del libero scambio, ma solo tra nazioni che hanno raggiunto la fase che lui chiama “economia complessa” e che diremmo “sviluppata”. “Tra due paesi molto avanzati, la libera concorrenza può essere vantaggiosa solo per entrambi, se hanno all’incirca lo stesso livello di istruzione industriale, e per una nazione indietro, da un Sorte sfortunata (…) chi (…) possiede le risorse materiali e morali necessarie al suo sviluppo, deve (…) rendersi capace di sostenere la lotta con le nazioni che l’hanno preceduta. “

Ciò che gli interessa è “il graduale sviluppo dell’economia dei popoli”. L’economico, come mezzo per sperare di distogliere l’attenzione dalla volontà di potere. Come se, ai suoi occhi, fosse il libero scambio ingenuamente cosmopolita e la negazione della storia e delle culture a portare alla guerra economica, mentre il protezionismo illuminato avrebbe unito gli stati-nazione attorno a una storia universale di sviluppo. .

Intermezzo keynesiano

Si potrebbe essere sorpresi di trovare Keynes in una rapida panoramica degli autori che hanno frequentato il concetto di guerra economica. Eppure, forse è lui che si è avvicinato di più. In effetti, le conseguenze economiche della pacea lui sono dedicate, pubblicate nel 1919: in sintesi, Keynes ritiene che la pace ottenuta a Versailles non sia altro che una guerra economica imposta alla Germania per spirito di vendetta. Vede in esso un desiderio di catturare, un desiderio di esaurire, un desiderio di impedire alla Germania di sfruttare e anche di salvaguardare le fonti del suo potere. Keynes considera il perdono economicamente redditizio, mentre la riparazione rischia di essere formidabile sia per la dinamica disincentivante che avrà per i vincitori sia per il contagio deflazionistico e recessivo che implica per tutti. Senza contare che questa guerra economica imposta alla Germania rischierà di costituire un alibi per il risentimento nazionale e la base per la vendetta.

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Nel 1933, nell’autosufficienza nazionale , Keynes non temeva tanto il libero scambio quanto la libera circolazione dei capitali. Non ci sono più politiche economiche nazionali indipendenti ed efficaci non appena il capitale è mobile. Un secolo e mezzo prima, Ricardo già temeva per una nazione i cui capitalisti avrebbero perso, per ragioni di redditività, la preferenza per gli investimenti nazionali: “riluttanza naturale” e “paura” limitano ancora l’emigrazione di capitali, “Sentimenti” che sarebbe stato, ha detto “mi dispiace vedere indebolirsi [1]  “. Una preoccupazione che è diventata di grande attualità.

Dalla strategia microeconomica alla guerra macroeconomica

Nel 1944, il matematico John von Neumann e l’economista Oskar Morgenstern, unirono le forze per pubblicare Theory of Games and Economic Behavior, che segna il punto di partenza di un nuovo modo di analizzare le interazioni strategiche tra gli attori. La polemologia, la scienza della guerra, si svilupperà su nuove basi. La teoria dei punti focali, in particolare, estende l’analisi dell’equilibrio strategico del potere e ha guadagnato Thomas Schelling, autore nel 1960 di The Strategy of Conflict , il Premio Nobel per l’economia.

Questi contributi teorici fondamentali per la scienza economica aiutano a fondare analisi che, a poco a poco, si discosteranno dal comportamento microeconomico e dall’analisi della razionalità verso il macro-potere. Lester Thurow con Testa a testa , The Coming Economic Battle between Japan, Europe and America (1993), Edward Luttwak autore nello stesso anno di The Endangered American Dream: How to Stop the United States from Being a Third World Country and How to Win the Lotta geo-economica per la supremazia industriale (un bel programma), Paul Kennedy e il suo The Rise and Fall of the Great Power: Economic Change and Military Conflict dal 1500 al 2000 (1987) lo testimoniano: la nozione di guerra economica sembra sempre più legata alla paura, da parte delle grandi potenze, di mettersi al passo con nuove potenze.

Un concetto di perdenti irritati?

Il premio Nobel francese per l’economia Maurice Allais, partecipante alla fondazione della microeconomia comportamentale, sostiene che l’analisi liberale, di cui afferma di aver trascurato troppo il tempo concentrandosi sul passaggio da un equilibrio all’altro . Sono queste le difficoltà incontrate dalla Francia che Christian Stoffaës mette in luce su La Grande Menace Industrielle nel 1978, una somma ragguardevole in cui analizza le strategie difensive e offensive nella “battaglia per il mercato mondiale”. Oggi Bernard Esambert è senza dubbio il principale difensore francese della guerra economica dal suo saggio del 1991, La guerra economica mondiale .

Questi tre autori hanno una cosa in comune: tutti e tre sono politecnici e ingegneri minerari. Il che può sollevare alcune domande, come una provocazione. Il concetto di guerra economica, se può aver avuto una leggera popolarità in Germania, un paese di aziende molto competitive, oggi ha poco o niente. Il concetto è più di moda negli Stati Uniti e in Francia, due paesi che mostrano lunghe fasi di deficit commerciale e colpiti da una reale ma forse esagerata deindustrializzazione.

La guerra economica è una preoccupazione prevalentemente americana e francese?

Maurice Allais contro il “laissez-fairism”

Maurice Allais, da tempo il nostro unico premio Nobel per l’economia (nel 1988), non usa la formula della “guerra economica”. Le analisi che ha sviluppato a partire dagli anni ’90, tuttavia, forniscono un valido supporto a tutti i critici di ciò che lui chiama “laissez-fairism”.

Maurice Allais è tuttavia un liberale che ha criticato aspramente il sistema socialista. È anche un sostenitore della costruzione europea, o meglio è stato un sostenitore perché crede che il sistema sia stato pervertito dall’inizio degli anni ’70 con l’ingresso del Regno Unito nella Comunità. Da quel momento per lui non si tratta più di Europa, ma di “organizzazione di Bruxelles”.

Paradossalmente, Allais si definisce anche un socialista. Questo perché per lui lo scambio non è fine a se stesso ma un mezzo per elevare il tenore di vita di tutta la popolazione. Non è un caso che il suo libro principale dedicato a questi temi, La Mondializzazione [2] , sia dedicato “alle innumerevoli vittime, in tutto il mondo, dell’ideologia globalista del libero scambio”.

A suo avviso, il libero scambio può realmente esistere solo tra paesi con un livello di sviluppo, costi salariali e protezione sociale comparabili. Era il caso della CEE degli anni 60. Non è più il caso dell’integrazione dei paesi dell’Est. Lo è ancora di meno quando si apre al mondo intero, rinunciando al principio di preferenza comunitaria e accettando senza precauzioni i prodotti fabbricati in paesi con salari molto bassi. I trasferimenti e l’aumento della disoccupazione sono quindi inevitabili. Come soluzione, Allais sostiene… il trasferimento di Pascal Lamy, commissario europeo e poi direttore dell’OMC. Più seriamente, chiede un protezionismo misurato che controlli le importazioni senza vietarle.

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Christian Harbulot – Siamo in guerra economica

Intervista a Christian Harbulot – Siamo in guerra economica

Uno dei pionieri dell’intelligence economica, Christian Harbulot è a capo della School of Economic Warfare di Parigi dal 1997 ed è il direttore di Spin Partners. Ha coordinato la stesura del manuale di Intelligence Economica presso i PUF.

 

Conflitti: perché ti sei interessato alla guerra economica?

Christian Harbulot: Può sembrare paradossale. Da adolescente ero un attivista di estrema sinistra. Eppure sono sempre rimasto un patriota. Nato a Verdun, ho immerso tutta la mia infanzia in un’atmosfera patriottica. Non potevo essere insensibile alla parola “Francia”, alla massa di morti e drammi che mi circondavano. Ho persino sognato di diventare un paracadutista. Ma gli eventi in Algeria mi hanno deluso, non mi vedevo entrare nell’esercito del generale Ailleret. Questo spiega il mio passaggio all’estrema sinistra. Ma non tra i trotskisti, tra i maoisti, insisto, la realtà patriottica non mi ha mai abbandonato. I primi sono internazionalisti, i maoisti insistono sul rapporto tra una popolazione e un territorio. Mao Zedong vince con tutti contro di lui, Washington e Mosca, ma sa come mobilitare la sua gente intorno a lui.

In effetti, ciò che è stato decisivo è stato il mio tempo a Sciences-Po dal 1973 al 1975. Non da quello che ho imparato lì, ma da quello che non ho imparato lì. Nessuno si è dato da pensare al futuro della Francia, al potere della Francia. Non ho trovato nessun mentore che stimolasse la mia mente sul futuro del mio paese, su cosa lo potesse sconvolgere, su come una nazione come la nostra potesse non solo preservare i suoi successi ma svilupparli. Nessuno che mi dia griglie di lettura. E questo in un contesto in cui il gioco dell’opposizione tra i blocchi ha portato a nascondere le divergenze che potevano esistere all’interno di ogni blocco. Sciences-Po aveva scelto il suo campo, combatteva il comunismo, era quasi totalmente sotto l’influenza americana.

Questa legge del silenzio che prevaleva a Sciences-Po non poteva soddisfarmi. Una vera omertà .

 

Conflitti: è così che hai creato la School of Economic Warfare.

Christian Harbulot: Tutto è iniziato con discussioni con i militari. Il generale Pichon-Duclos, soprattutto che ho conosciuto nel 1993 dopo aver letto i suoi articoli. Poi i generali Courmont e Merment, un gruppo che lavorava all’interno di un think tank chiamato Stratos. La nascita è stata lunga, quasi cinque anni. Pensavamo di sviluppare le nostre attività in un’università o in una grande scuola, ma si è rivelato difficile. Affrontare il problema della guerra economica, svelandone la realtà, che rischiava di essere poco apprezzata al di là dell’Atlantico. Tuttavia, i professori della Superiora temevano di dispiacere e di essere banditi dalla pubblicazione sulle riviste americane. Quindi hanno frenato quattro ferri. Un pioniere come Le Bihan, che voleva introdurre questo insegnamento all’HEC, fu costretto ad arrendersi.

Alla fine ho trovato il supporto di ESCA e EGE iniziato nel 1998.

 

Conflitti: è qui che inizia a emergere il tema della guerra economica. Perché in questo momento?

Christian Harbulot: Il fenomeno essenziale è proprio la fine della Guerra Fredda e la fine dei blocchi, e quindi dell’omertà che proibiva la pubblicità delle rivalità tra i paesi occidentali e metteva in discussione la solidarietà atlantica. Ciò che una volta era nascosto lo è sempre di meno. Allo stesso tempo, vengono rilasciate nuove forze e emergono nuovi paesi. Ma la fine della guerra fredda non pone fine alla minaccia nucleare. La bomba atomica rende impossibile pensare a grandi conflitti tra grandi potenze in termini di guerra militare, almeno se restiamo razionali. Ciò spiega in parte la trasformazione della guerra sulla base di scontri economici.

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Un evento significativo mostra quanto è cambiato. Nel 1967, il generale de Gaulle chiese la conversione dei dollari detenuti dalla Banque de France in oro. Questo fatto è spesso trascurato, nella migliore delle ipotesi è considerato molto meno importante della costruzione della forza d’attacco nucleare. Eppure de Gaulle ha osato attaccare le fondamenta del potere americano. È stata una sfida incredibile e questa politica verrà abbandonata dai suoi successori. Oggi i BRICSContestando apertamente la supremazia del biglietto verde, V. Poutine chiede di porre fine al suo ruolo predominante e Pechino, più discretamente, sta mettendo in atto tutta una serie di misure per poterne, domani, farne a meno. Tuttavia, gli Stati Uniti non possono tirarsi indietro su questo argomento, è la chiave del loro potere, ma ancor di più del loro sistema. Quella che una volta era considerata la sfida folle di un uomo sta diventando la sfida di tutte le nazioni emergenti.

Quindi quello che potremmo nascondere o minimizzare in passato non può più essere oggi.

 

Conflitti: come definisci la guerra economica?

Christian Harbulot: È l’espressione estrema delle lotte di potere non militari. Se proviamo a dare la priorità all’equilibrio di potere, i due che mi sembrano i più importanti nella storia dell’umanità riguardano la guerra e l’economia. Questo non significa che non ce ne siano altri – culturali, religiosi, diplomatici… Ma sono questi due che contano di più se guardiamo alla lunga storia, gli altri passano in secondo piano. , le loro conseguenze sono meno gravi.

 

Conflitti: questa guerra è l’azione degli stati?

Christian Harbulot: Sì, certo, sono loro che hanno le risorse materiali e la visione a lungo termine necessaria.

 

Conflitti: che dire delle imprese?

Christian Harbulot: Hanno un ruolo, ma subordinato. Il loro posto è limitato da un fattore essenziale, il fattore tempo. Gli azionisti favoriscono l’utile a breve termine; i manager generalmente rimangono a capo della loro azienda per un breve periodo. Fernand Braudel ha dimostrato che a lungo termine lo Stato vince sul mercato. Perché costruire un territorio richiede investimenti pesanti che richiedono uno sforzo a lungo termine. La sostenibilità del potere non è un business, per quanto potente possa essere, ma una costruzione territoriale la cui durata sarà molto più lunga.

L’azienda può disporre di mezzi finanziari considerevoli, superiori a quelli di alcuni Stati. Ma dipende dal mercato, dai suoi rapidi cambiamenti. Nessuna azienda può dire: “Sono qui, resto lì. La vastità dell’Impero russo è stata inscritta nel tempo per secoli; nessuna impresa privata può pretendere di ottenere questo risultato.

 

Conflitti: la guerra economica sta spingendo le aziende a rivolgersi agli Stati?

Christian Harbulot: Sì, naturalmente. L’abbiamo visto con il subprime crisi . I movimenti di capitali che seguirono hanno dimostrato una cosa, che è stata mappata: il capitale è andato dove si sentiva protetto, spesso il suo paese di origine. Le nazionalità, descritte da alcuni economisti come sciocchezze, riacquistarono importanza.

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Conflitti: visto che stiamo parlando di guerra, ci sono aziende che “tradiscono”?

Christian Harbulot:È un dibattito completamente oscurato nel nostro Paese. Questo mi ricorda un caso che mi sembra essenziale nella storia del nostro paese, il piano informatico del generale de Gaulle per l’IT. Pensava in termini di sovranità, facendoci sfuggire agli Stati Uniti dalla dipendenza dalla tecnologia informatica, ma ancor più in termini di potere, in termini di conquista dei mercati. Peyrefitte lo mostra chiaramente quando riporta una discussione con lui sulla concorrenza tra i sistemi PAL e SECAM; per de Gaulle si tratta di prendere quote di mercato. Cosa ha fatto fallire questo piano? Molte cose, ovviamente, ma soprattutto l’azione di Ambroise Roux. Pensava solo agli interessi della General Electricity Company che dirigeva. Non parlerò di tradimento,

 

Conflitti: come si può dire che la visione dello Stato sia superiore a quella delle aziende? Affermano anche di servire il bene comune, producendo dove costa meno e fornendo al consumatore prodotti economici e vari? In che modo lo Stato impedirebbe loro di farlo?

Christian Harbulot: Prima di tutto, ricordiamoci che non siamo solo consumatori, ma anche produttori. Quello che ognuno di noi guadagna da una parte, rischiamo di perdere dall’altra.

Ma non è questa la radice del problema, non sto entrando nel dibattito sulle virtù e sui limiti del liberalismo economico. Economia e politica non sono proprio sullo stesso piano. Ciò che conta sono i rapporti di potenza. È un’idea che mi sta a cuore; per avere un divenire, dobbiamo pensare al potere. Questa è la ragion d’essere degli stati, non delle imprese.

Vedere. Negli anni ’20 e all’inizio degli anni ’30 le aziende americane investirono massicciamente in Germania; questo non ha impedito agli Stati Uniti di entrare in guerra contro di essa – anche se notiamo che i bombardamenti americani hanno sorprendentemente aggirato le fabbriche di questi gruppi …

Gli interessi economici privati ​​non dettano sistematicamente gli interessi del potere. Un caso attuale è rivelatore: le società energetiche americane hanno davvero interesse a sfruttare il gas di scisto che compete con il “loro” petrolio e contribuisce all’attuale caduta del prezzo del barile? E domani, cosa succederà se inizieranno ad esportare in Europa? Lo venderanno a un prezzo elevato, che è nel loro interesse? O a un prezzo basso per rendere l’Europa meno dipendente dal gas russo e più dipendente dagli Stati Uniti? Nel primo caso prevarrebbero gli interessi delle società; nel secondo, la logica del potere dello Stato americano. In ogni caso, sarà un ottimo test, se queste esportazioni avranno luogo, per verificare chi sta imponendo il suo punto di vista (tra interesse privato e interesse di potere).

La questione di chi detiene le chiavi del potere è al centro della trama della famosa serie americana House of Cards. In questa finzione un po ‘simbolica, un uomo d’affari americano è alla disperata ricerca di una raffineria in Cina, senza prestare il minimo interesse alle tensioni geopolitiche sino-americane. Interessi privati ​​a breve termine da un lato, interessi collettivi incarnati dallo Stato dall’altro. Alcuni dicono che lo sviluppo del commercio è il modo migliore per rendere difficile uno scontro tra Stati Uniti e Cina. Ma di questo dovrebbe essere convinto anche lo Stato cinese! E che non prenda iniziative che possano minare il potere, ma anche la competitività degli Stati Uniti. Torna al dollaro. Se i paesi emergenti riescono a ridurne l’utilizzo, tutti gli americani ne risentiranno e tutte le imprese di questo paese.

Le aziende che non giocano il gioco collettivo si comportano come clandestini. Approfittano del sistema, beneficiano di tutti i beni che lo Stato americano dà loro, e soprattutto delle facilitazioni che il dollaro porta loro, ma rafforzano i potenziali avversari del loro Paese. Ecco perché un giorno o l’altro sono chiamati all’ordine dal potere statale che fischia la fine del gioco.

 

Conflitti: il problema è che le aziende non sono dalla parte del potere.

Christian Harbulot: Sì, su questi argomenti non hanno alcun controllo. Non sono le aziende che possono mantenere il dollaro come strumento duraturo del potere economico americano. L’equilibrio economico del potere non è il risultato dell’aggiunta dell’avviamento delle aziende.

 

Conflitti: che rapporto instauri tra guerra economica e guerra?

Christian Harbulot: Questo è un argomento molto importante. Alcune guerre sono spiegate da motivazioni economiche, soprattutto quando si tratta di impossessarsi di risorse vitali. Lo vediamo oggi in Africa. Ma questo è il modo più semplicistico per farlo.

L’esperienza insegna che la guerra non è il modo migliore per garantire la sostenibilità del potere e della ricchezza di un paese – sottolineo la parola sostenibilità. L’esempio più convincente è il Regno Unito che esce incruento dalla seconda guerra mondiale.

Lo scopo della guerra economica è aumentare la ricchezza e quindi aumentare il potere. La guerra in sé non è il modo migliore per ottenere questo risultato, è spesso il modo migliore per perderlo.

 

Conflitti: ma ci sono gli Stati Uniti che non hanno chiuso le porte della guerra dal 1941.

Christian Harbulot: Sì, gli Stati Uniti. È vero. Hanno riconciliato la guerra con la ricchezza e il potere. Per il momento. E trovano sempre più difficile mobilitare pesanti risorse per questi conflitti. Stanno entrando in un periodo in cui fare la guerra sarà sempre più difficile per loro.

 

Conflitti: tutti i paesi sono consapevoli della realtà della guerra economica?

Christian Harbulot: distinguo tre tipi di paese. Coloro che hanno una logica per aumentare il loro potere e la loro ricchezza: Stati Uniti, Cina, Germania, la maggior parte dei paesi emergenti. Coloro che sono sulla difensiva come la Francia e molti altri paesi europei. E quelli che sono solo posta in gioco.

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Conflitti: in guerra come in politica, è prima necessario sapere chi è il nemico. Se ti dessi la possibilità di scegliere tra tre paesi, Stati Uniti, Germania, Cina, quale definiresti il ​​nostro principale nemico economico?

Christian Harbulot: Tutti e tre, da diverse angolazioni. Il principale potrebbe essere la Germania che ha una vera strategia di potere che ci manca. Quello che ci impedisce di pensare al potere sono gli Stati Uniti. Quello che mina le basi del nostro potere è la Cina.

 

Conflitti: non è possibile un’alleanza con la Germania?

Christian Harbulot: È desiderabile. L’aggiunta delle due culture strategiche, così diverse, gioverebbe a entrambe. La Germania dovrebbe comunque accettare di vedere in noi qualcosa di diverso dai potenziali collaboratori.

Ricordo che un originale, tedesco, che insegnava in organizzazioni prestigiose come Sciences-Po o INSEAD, venne a trovarmi per offrirmi un testo il cui titolo era: “Il ripristino della nozione di collaborazione”. La sua ingenuità mi ha incantato, ma l’ho rimandato a casa.

Se ci atteniamo all’idea della supremazia di una cultura su un’altra, non accadrà nulla.

 

Conflitti: sembra che tu stia pianificando i tuoi colpi più duri negli Stati Uniti. Di cosa li biasimi? I valori liberali di cui si vantano o i metodi che li rendono i principali protagonisti della guerra economica?

Christian Harbulot: Entrambi, o meglio il divario tra i due. Si basano su un discorso che non è verificato nella pratica, perché scollegato dalla realtà, e improvvisamente agiscono al contrario dei valori che pretendono di incarnare.

Espandiamoci alla geopolitica. Il generale de Gaulle una volta ha definito gli Stati Uniti una “potenza pericolosa”. Penso che si riferisse alla guerra d’Indocina dove inizialmente sostenevano il Vietminh per “scoprire” nel 1950, quando scoppiò la guerra di Corea, che erano comunisti e che lui Bisognava combatterli prima dai francesi interposti, poi direttamente intervenendo in Vietnam. Sono molto bravi a creare mostri che si rivoltano contro di loro, i talebani in Afghanistan, gli islamisti dell’ISIS contro Assad… È una forma di schizofrenia. E all’improvviso non possono rivendicare il ruolo di potere che rassicura e protegge. Le basi della loro legittimità sono scosse.

 

Conflitti: quale sarebbe per te la recente battaglia economica più significativa?

Christian Harbulot: la politica del gas di Putin. Questa lezione è la dimostrazione più illuminante di come possiamo giocare su un equilibrio economico di potere e mettere i paesi europei in uno stato di dipendenza. Nel caso della Russia, il gas è un’arma economica al servizio del potere.

 

Conflitti: questo non ha impedito all’Unione Europea di votare sanzioni contro la Russia durante la crisi ucraina?

Christian Harbulot: Ma possiamo vedere chiaramente l’imbarazzo della Germania su questo argomento. Gli accordi economici bilaterali che ha firmato con Putin, in particolare sull’energia, riflettono una visione etnocentrica sui suoi interessi immediati e non il desiderio di giocare la coesione europea su una questione vitale a lungo termine al fine di limitare la dipendenza nel campo energetico. Anche altri paesi hanno i propri interessi da difendere in questo caso. È il caso della Francia con l’esportazione di due navi della classe Mistral. Queste contraddizioni spiegano perché le sanzioni europee sono rimaste limitate.

 

Conflitti: in conclusione, quale valutazione trae da questi diciassette anni alla guida dell’EGE?

Christian Harbulot: Molte ragioni di orgoglio quando vedo il successo dei miei ex studenti e la qualità della formazione che ho fornito loro. Ma la cosa più importante è che, ora, possiamo parlare di guerra economica in questo paese. Non è solo o anche principalmente grazie a me, ovviamente, ma alla fine ho portato la mia pietra nell’edificio, o se preferite le mie macerie al muro.

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Dalla guerra economica all’intelligence economica, di Alain Jullet

Dalla guerra economica all’intelligence economica

Che la guerra sia convenzionale o non convenzionale, sappiamo dai tempi di Sun Tzu che l’attacco o la difesa più efficace dipende direttamente dalla qualità dell’intelligence. Nella guerra delle corse i corsari più famosi non attaccarono una nave qualsiasi. Di recente e in modo simile, i pirati somali erano ben consapevoli dei loro obiettivi. In entrambi i casi ciò presupponeva l’esistenza di informatori nel cuore del nemico con i mezzi necessari per comunicare sul reale interesse delle barche in partenza. I sottomarini tedeschi dell’ammiraglio Dönitz che siluravano i mercantili nei convogli di rifornimenti alleati conoscevano le rotte che seguivano.

Utilità a colpo d’occhio

Ma sia nel contesto della guerra che per realizzare le sue conquiste, tutte queste azioni erano estremamente costose in termini di uomini e materiale. Questo spiega perché stiamo assistendo a un’evoluzione molto chiara delle concezioni strategiche. L’esercito diventa il complemento mirato di un’azione economica su vasta scala in cui la conoscenza dell’avversario mediante le tecniche dell’intelligence economica diventa la chiave del successo.

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Gli Stati Uniti, che non hanno più i mezzi per imporre le proprie visioni egemoniche al mondo attraverso il rapporto di potere, lo hanno capito prima di molti altri. L’affare BNP può essere compreso solo integrando il desiderio americano di assicurarsi la supremazia nei negoziati commerciali con l’Iran. Impone regole esclusive attraverso il dollaro per garantire le proprie transazioni. Allo stesso modo, tutti sanno che l’acquisizione americana di una partecipazione in Peugeot ha costretto il marchio del leone a lasciare immediatamente l’Iran … il che ha permesso agli americani di sostituirlo con un mercato di ricambi di successo.

La procedura Discovery consente a un giudice statunitense di rivendicare tutti i documenti di una transazione eseguita altrove da uno straniero, se l’ha fatta in dollari o se utilizza la Borsa di New York. Il rifiuto di ottemperare comporta il divieto di attività sul territorio americano. Più che discutibile dal punto di vista del diritto internazionale, fornisce informazioni utili per lo Stato e le imprese. In questo ambito, l’affare Snowden ha mostrato a chi dubitava di quanto la raccolta di informazioni di ogni tipo consentisse di costruire strategie vincenti sia a livello politico che economico. Smettiamola di essere ingenui: nella competizione mondiale come nel bridge, una buona occhiata è meglio di un brutto vicolo cieco.

 

L’intelligenza economica attraverso la sua pratica di monitoraggio e analisi consente a qualsiasi azienda e qualsiasi Stato di ottenere dati utili sull’avversario o sul concorrente. Nel nostro mondo ipermediale, attraverso i social network e con l’ausilio dei motori di ricerca, la maggior parte delle informazioni su un argomento è legalmente a disposizione di chiunque sappia ricercarlo. La tecnica di benchmarking , che prevede di ottenere preventivamente i rapporti della controparte, permette di confrontarsi, di individuarne i punti deboli e di forza e quindi di fissare gli obiettivi di miglioramento richiesti. Lo sviluppo di un’efficienza mirata creerà un divario invalicabile per il concorrente che consentirà, anticipando o negoziando, di evitare una costosa guerra economica frontale.

Conosci l’avversario e il campo

Il miglior posizionamento prezzo-qualità, la migliore innovazione in relazione alle aspettative del mercato prevarrà senza che l’azienda debba davvero lottare. Se il concorrente è più efficiente e non è sospettoso, una campagna di influenza ben mirata sui suoi difetti ne limiterà l’impatto o, meglio, lo destabilizzerà agli occhi del suo mercato e dei consumatori abituali o potenziali. Così, paradossalmente, possiamo allontanarci dalla guerra economica attraverso la pratica congiunta del monitoraggio alla ricerca di informazioni, sicurezza per proteggere la propria e influenza per trasformare il consumatore o l’utente in un promotore convinto di il marchio o il prodotto.

I moderni strumenti di ricerca, selezione ed elaborazione dati devono essere aggiornati ogni giorno con la crescita esponenziale delle capacità delle tecnologie digitali e del cyberspazio. Siamo solo all’inizio di una rivoluzione dei processi che si svilupperà nei prossimi anni. In questo sconvolgimento permanente, chi trae vantaggio dalle migliori armi del momento ha un vero vantaggio competitivo. La crescente disponibilità di dati nei big data , il tracciamento degli oggetti da parte dei chip rfyd, l’uso di apparecchiature collegate ovunque ci si trovi cambia il trattamento dei conflitti competitivi. Se la strategia globale rimane essenziale perché dà l’asse dello sforzo, l’arte operativa cara al maresciallo Ogarkov e la tattica diventano inutili poiché sappiamo molto precisamente dove stiamo andando e come. È il più efficiente, il più veloce, il meglio posizionato che vince; può diventarlo solo attraverso la pratica permanente dell’intelligenza economica con strumenti costantemente aggiornati. Evitiamo la guerra ma questo ha un costo perché, in questo tipo di competizione, non si vince con uno sconto.

Leggi anche:  L’intelligenza economica, una cultura dell’intelligenza applicata all’azienda

La vittoria è pensabile solo avendo, durante tutto il corso del metodo, la volontà di avere permanentemente una perfetta conoscenza dell’avversario e del suo comportamento. Lungi dall’accontentarci di restare sulla difensiva, dobbiamo tornare all’adagio che la miglior difesa è l’attacco. Nella guerra in movimento l’importante è fissare l’avversario, se possibile in una posizione sfavorevole, che presuppone una perfetta conoscenza del nemico e del terreno. Lo stesso vale nel mondo economico.

 

La pratica dell’intelligence economica, pur permettendo che venga svolta nelle migliori condizioni, riduce la guerra alla sua forma più semplice. Ma ciò implica prima una perfetta conoscenza di se stessi, poi acquisire quella dei suoi concorrenti e partner, amici o nemici. È il confronto delle catene del valore specifiche di ogni persona che ci permetterà di creare la differenza costruendo un vantaggio competitivo nel tempo abbastanza forte da portare l’altro a rinunciare alla guerra perché sa che è persa in anticipo.

Come in una corsa campestre, chi corre in testa non può essere preso, se non in caso di incidente, negli ultimi chilometri.

https://www.revueconflits.com/guerre-economique-intelligence-renseignement-entreprises-alain-juillet/

FORSE NON LA STIAMO PRENDENDO PER IL VERSO GIUSTO, Pierluigi Fagan

FORSE NON LA STIAMO PRENDENDO PER IL VERSO GIUSTO. L’altro ieri, la missione di analisti dell’IMF, di ritorno dal suo soggiorno americano, ha pubblicato questo rapporto su stato e prospettive dell’economia americana che da sola vale un quarto di quella planetaria.

Nel secondo trimestre (A-M-G), il Pil USA ha fatto -37% (lo ripeto per i distratti e coloro che saltano i dati di quantità a priori perché preferiscono le parole: “meno trentasette per cento”). Si prevede che l’economia USA tornerà ai livelli di Pil fine 2019, solo a metà 2022, forse. IMF segnala che gli USA erano già un sistema con una forte componente di povertà interna, la crisi è destinata ad allargare e sprofondare questa parte addensata nelle etnie afro-americana ed ispanica. Al momento sono 15 milioni i disoccupati ed è appena iniziata la catena di fallimenti di esercizi commerciali ed imprese che accompagnerà la lenta ma costante caduta. Ed aggiunge: “il rischio che ci attende è che una grande parte della popolazione americana dovrà affrontare un importante deterioramento degli standard di vita e significative difficoltà economiche per molti anni a venire.”.

“Molti anni a venire” , come riportato in post precedenti, viene da Nouriel Roubini e dai “miliardari invocanti tasse”, quotato sulla prospettiva del decennio, magari non saranno proprio dieci anni, ma al momento le prospettive sono di crisi profonda e lunga. “Larga parte della popolazione” significa più che la maggioranza. Il “deterioramento dello standard di vita” è l’esatto opposto del contratto sociale americano basato sull’espansione continuata, ciò che tiene in piedi un sistema assai variegato e pieno di contraddizioni e pluralità problematiche. Tutto questo, nonostante gli eccezionali sforzi di pronto intervento messi in campo dall’Amministrazione e dal FED (che noi in Europa ci sogniamo) e nonostante lo sbandierato +8% dei consumi a maggio. Si stima un rapporto debito/Pil al 160% nel 2030 (reggerà la credibilità dell’unità di conto, scambio e valore internazionale di un paese che ha il 160% di debito pubblico/Pil?) , ma si teme che poiché grande parte dei costi di assistenza sanitaria, educazione e disoccupazione sono nei bilanci degli stati federati già per altro al limite o oltre il limite, l’intera situazione possa ulteriormente peggiorare. Ne segue una lunga ricetta di interventi che però è politicamente improbabile per via delle diverse priorità che le élite americana in genere hanno (o l’una o l’altra poco importa) e soprattutto di cui non si vede né la sostenibilità finanziaria, né il certo effetto ristoratore. Ironia della sorte, giusto il giorno prima, il governo cinese annunciava un +3,2% su aspettative del +2,5% per la crescita del proprio Pil nello stesso periodo.

Tutto ciò, mentre gli USA continuano a macinare record di contagi. Gli USA hanno tre volte i contagiati che abbiamo avuto noi (a parità di popolazione) ma per via del fatto che hanno iniziato dopo e si sono potuti avvalere di qualche parziale miglioramento nelle cure e nei trattamenti, nonché una popolazione decisamente più giovane della nostra, la mortalità è al momento a 430 per milione di abitanti, contro i 580 nostri. Sono però al limite di capienza alcune strutture sanitarie tra cui la Florida ed il Texas, ma non sono i soli. Il conflitto capitale-salute-libertà continua a dilaniare gli americani stante che quando si sceglie il capitale, peggiora la salute ma sopratutto non sembra neanche migliorare il capitale. C’è infatti la psicologia umana in mezzo che valuta il rischio non secondo pura logica statistica.

Tutto ciò potrebbe avere una svolta col vaccino ma al momento non si sa bene quando potrà esser operativo, a che condizioni, come verrà preso dalla popolazione, quanto sarà efficace. Non si è mai trovato un vaccino per i coronavirus che pure si conoscono da decenni. Questi tipi di virus hanno una strategia adattativa molto basica: grande semplicità (è un filo di RNA corto) e grande cambiamento (molte mutazioni per darsi più condizioni di possibilità), cambia molto ed in fretta per ingannare i sistemi immunitari. I virus sono qui sulla Terra da forse 3,5 miliardi di anni e sono le entità biologiche più diffuse sul pianeta, evidentemente la strategia ha i suoi perché. Noi invece non solo geneticamente ma soprattutto socialmente, siamo molto complessi e cambiamo poco e molto, molto lentamente.

Credo che noi non si stia capendo bene in che tipo di problema siamo capitati, un problema che non è italiano o americano ma quantomeno occidentale prima e mondiale poi. Molti si impegnano ad interpretare il virus, la sua genesi, gli interessi in gioco, le pratiche sanitarie, il rumore dei media, criticare il governo, l’Unione europea. Ognuno di questi punti è interessante ma perde il quadro d’insieme ed il quadro d’insieme è un lento armageddon economico e quindi sociale cui saremo soggetti, forse, per anni. E’ desolante il fatto che tra le tante analisi che si leggono, quelle mainstream non meno di quelle alternative, sembra non comprendersi la profondità della crisi cui siamo condannati. Poco o nulla importa se il virus è così o colà, come e da dove è venuto, se i suoi effetti sono esagerati e da chi e perché, poco importa prevedere catastrofi biopolitiche o incolpare i cinesi o Big Pharma. Questi sono intrattenimenti info-culturali. Il fatto crudo e duro è che nella misura in cui la gente teme di ammalarsi e forse morire, i suoi comportamenti sociali abituali o tali ritenuti, cioè i precedenti, non torneranno a sostenere la vita associata per lungo tempo. In tutto il mondo. Con questo avremo a che fare e per questo non sembra esserci medicina di pronto intervento. Questo minerà il funzionamento della società radicalmente. Molto ma molto più radicalmente di qualsiasi Recovery fund o MES, Trump o Biden, ricetta economica a base di interventi generici e consueti. Manca cioè, a mio avviso, consapevolezza dell’eccezionalità e radicalità del problema.

Per adattarsi a questo quadro d’insieme mancano tre cose essenziali. Una è il tempo, il tempo semplicemente non c’è, siamo in ritardo cronico. Qualsiasi intervento risulterà parziale, ci vorrà molto tempo a metterlo in essere e impiegherà molto tempo a dare gli effetti sperati, se li darà. Il secondo è la comprensione del fatto che dovrebbe portare ad una comprensione dell’intervento. Da tempo posto articoli su tassazioni ridistributive straordinarie e diminuzioni immediata dell’orario di lavoro con ridistribuzione dello stesso. Non son le uniche ricette possibili, forse neanche le migliori, ma danno il tono di quanto dovrebbero esser fuori norma gli interventi necessari. Non si può pensare normale in tempi eccezionali. Il terzo è la sistematica rimozione della realtà. Ci vuole un massa critica importante per spingere una società ad una mossa adattiva così importante e seria, qualcosa intorno ad un 60% del corpo sociale, non certo meno. Soprattutto, faccio notare quel “una grande parte della popolazione […] dovrà affrontare un importante deterioramento degli standard di vita e significative difficoltà economiche per molti anni a venire”. C’è da riformulare il contratto sociale, cosa di non poco conto in tutta evidenza, cosa necessaria e di attualità già da tempo prima, ora con una specifica urgenza conclamata. Siamo molto lontano ed in ritardo dall’affermarsi tale consapevolezza nei grandi numeri ma, mi pare, anche nei piccoli.

Scusate per quello che a voi, una domenica di fine luglio, apparirà pessimismo ma che per me è semplice realismo consapevole. Mi sentivo di allarmare sul fatto che forse non la stiamo prendendo per il verso giusto. Anche a livello teorico, penso si dovrebbe mettere in campo più pensiero radicale concreto, non narrativo o contro-narrativo e neanche critico, la critica non cambia il reale. C’è da modificare la realtà il prima possibile in quanti più è possibile, con idee semplici e forti. Forse non ci si riuscirebbe comunque, ma sarebbe sano vederne almeno il tentativo, la discussione, ci sarebbe da provar ad imporre un dibattito pubblico più serio e tra adulti non compromessi da rimozione nevrotica della realtà. Nella misura in cui la gente pensa che questa sia la realtà, questa sarà la realtà e se questa sarà la realtà come sembra, a lungo, gli effetti saranno quelli annunciati. Toccherebbe darsi una regolata …

https://www.imf.org/en/News/Articles/2020/07/17/mcs-071720-united-states-of-america-staff-concluding-statement-of-the-2020-article-iv-mission?fbclid=IwAR2Q0TOBoyweogopmS4Sy4ZTXWbzyqW7tKM9PF3CMB7FA3dgVTmGu6AlnfA

United States of America: Staff Concluding Statement of the 2020 Article IV Mission July 17, 2020 A Concluding Statement describes the preliminary findings of IMF staff at the end of an official staff visit (or ‘mission’), in most cases to a member country. Missions are undertaken as part of reg…

Europa e Turchia in rotta di collisione sullo sfruttamento del Gas Naturale nel Mediterraneo Orientale? – di Piergiorgio Rosso

Europa e Turchia in rotta di collisione sullo sfruttamento del Gas Naturale nel Mediterraneo Orientale? – di Piergiorgio Rosso

Nel luglio 2019 i ministri degli esteri della UE hanno deciso di sanzionare la Turchia qualora continuasse le attività di perforazioni esplorative al largo di Cipro, considerate dall’UE “illegali”. Le sanzioni non sono ancora state attivate. Da notare che le prime analisi sismiche eseguite dai turchi nella zona di interesse economico (EEZ) cipriota risalgono al 2014 (!!) La Turchia ha risposto che le sue operazioni si svolgono in acque appartenenti alla sua piattaforma continentale o in zone di interesse dei Turco-Ciprioti.

La UE non ha oggettivamente molte frecce al suo arco: si consideri che la Turchia ospita ca. 3,5 milioni di rifugiati e che l’UE paga la Turchia per evitare che questi proseguano il loro viaggio verso l’Europa. Senza dimenticare che Istanbul è un partner NATO.

Peraltro anche la Turchia non ha molte strade per assicurarsi lo sfruttamento dei giacimenti che dovesse trovare: carente di tecnologia propria e non potendosi affidare alle società occidentali del settore oil&gas, dovrebbe rivolgersi ai russi. Mosca sarebbe però riluttante verso una collaborazione che la costringerebbe a rompere con i ciprioti con i quali ha storici rapporti di tipo economico e culturale-religioso. E’ dunque probabile che si arrivi ad un compromesso che permetta alla Turchia di godere di una parte della ricchezza energetica che il Mediterraneo Orientale promette di contenere. La questione vera si giocherà dunque sul percorso che il gas naturale cipriota – ma anche quello israeliano – seguirà.

Abbiamo già discusso ampiamente qui e qui le implicazioni industriali e geopolitiche del progetto di gasdotto EastMed. Di nuovo c’è che Turchia e Libia – o meglio il governo riconosciuto di Al Sarraj (GNA) appoggiato dalla Fratellanza Musulmana – hanno stipulato proprio nel novembre 2019 un Memorandum d’Intesa che definisce i reciproci confini marittimi (vedi figura 1).

Figura 1 – Piattaforma continentale libica e turca

Se non fosse chiaro il “disegnino” – che si sovrappone al percorso dell’EastMed – il Ministro degli esteri turco ha dichiarato: “ …questo accordo rappresenta anche un messaggio politico per il quale la Turchia non può essere esclusa nel Mediterraneo Orientale e nessun progetto potrà essere portato a termine in questo settore senza la partecipazione turca …”. In pratica un blocco al progetto se non il definitivo de profundis.

Sembra evidente che la Turchia stia perseguendo in modo determinato i suoi interessi strategici per esercitare nella zona influenza ed egemonia al di là della questione del gas naturale cipriota.

Reindirizzare sulla penisola anatolica – sfruttando il gasdotto esistente TANAP – il gas che in futuro si potrebbe estrarre nel Mediterraneo Orientale rappresenta un ovvio obiettivo sia per soddisfare il fabbisogno energetico interno sia per guadagnare una posizione di hub, cioè di intermediario fra paesi produttori – Azerbajan, Cipro, Israele – e consumatori dell’Europa Centro-Orientale.

D’altra parte è altrettanto evidente che con il Memorandum e con l’intervento militare decisivo in Libia, la Turchia potrà inserirsi nel gioco esteso che vede competere nel Mediterraneo Orientale USA, Russia, Israele, Egitto, Arabia Saudita, Emirati, tagliando fuori UE, Grecia e Cipro praticamente impotenti nella zona.

E l’Italia? Non pervenuta …

Terre rare, la green tech è solo un’illusione di Giuseppe Gagliano

Un breve articolo che riesce a ricondurre e richiamare in termini realistici tematiche tanto in voga come quelle dell’ecologismo e dell’economia circolare che rischiano spesso e volentieri di cadere in schematismi semplicistici e dal sapore messianico_Giuseppe Germinario

L’errore grossolano che viene commesso quando ci si approccia alla green tech è quello di pensare che la transizione energetica digitale sia indipendente dal suolo e cioè dei metalli rari. L’analisi di Giuseppe Gagliano

 

Secondo una delle migliori indagini giornalistiche sul ruolo dei metalli rari nel contesto della politica attuale condotte dal giornalista francese Guillaume Pitron — collaboratore di Le Monde Diplomatic e del National Geographic — nel saggio edito in italiano con il titolo La Guerra dei metalli rari (Luiss, 2020), contrariamente all’opinione comune la tecnologia informatica richiede lo sfruttamento di rilevanti quantità di metalli. Pensiamo per esempio che ogni anno l’industria elettronica consuma qualcosa come 320 t di oro e 7500 t di argento oltre al 22% di mercurio e fino al 2,5% di piombo.

Ad esempio la fabbricazione dei computer così come dei telefoni cellulari implica l’uso del 19% della produzione di metalli rari come il palladio e il 23% del cobalto senza naturalmente trascurare la quarantina di altri metalli contenuti di solito nei telefoni cellulari.

In altri termini la fabbricazione di un microchip da due grammi implica di per sé la creazione di 2 kg circa di materiale di scarto.

Per quanto riguarda l’impatto ambientale di Internet è necessario pensare che le nostre azioni digitali hanno un costo: una mail con un allegato utilizza elettricità di una lampadina a basso consumo di forte potenza per un’ora.

Ogni ora vengono scambiati nel mondo qualcosa come 10 miliardi di e-mail a e cioè 50 gigawatt/ora, cioè l’equivalente della produzione elettrica di 15 centrali nucleari in un’ora.

Per quanto riguarda poi la gestione dei dati in transito e il funzionamento dei sistemi di raffreddamento, un solo data center consuma ogni giorno altrettante energia di una città di 30.000 abitanti. Insomma il settore delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni consumo il 10% dell’elettricità mondiale e produce ogni anno circa il 50% in più di gas a effetto serra rispetto per esempio al trasporto aereo.

L’errore grossolano che viene commesso quando ci si approccia alla green tech è insomma quello di pensare che la transizione energetica digitale sia indipendente dal suolo e cioè dei metalli rari.

Anche se il petrolio venisse sostituito per intero la civiltà si troverà ad affrontare una nuova assuefazione e cioè quella dei metalli rari.

https://www.startmag.it/energia/terre-rare-la-green-tech-e-solo-unillusione/?fbclid=IwAR3AiodM6xlojq3C6ewmPk9vIhyVvL53VAOeJpECqY1VGMxvDNyDv-HmrnE

Coronavirus ridetermina l’economia globale: il Giappone finanzia le aziende Giapponesi, a cura di Gianfranco Campa

Riportiamo qui sotto la traduzione di un articolo del periodico International Business Times (IBTimes) che rivela la spinta offerta dalla crisi pandemica del coronavirus ad un radicale cambiamento del sistema di relazioni economiche, parte integrante di quello delle relazioni geopolitiche. Il Giappone, sulla scia degli Stati Uniti pur tra mille contraddizioni e contrasti politici, è tra i primi paesi ad assecondare questa strategia. Buona lettura_Giuseppe Germinario

Coronavirus ridetermina l’economia globale: il Giappone finanzia le aziende Giapponesi per spostare la produzione fuori dalla Cina

 

https://www.ibtimes.com/coronavirus-reshapes-global-economy-japan-fund-companies-shift-production-out-china-2956336

 

PUNTI CHIAVE

 

  • Abe ha annunciato un piano economico da 990 miliardi di dollari per aiutare l’economia a superare la crisi. Di questi 990 miliardi, 2,2 sono destinati alle aziende Giapponesi che sposteranno la loro produzione fuori dalla Cina

 

  • Le compagnie giapponesi da tempo volevano ridurre la propria dipendenza dalla Cina

 

  • Le speranze della Cina per un ritorno alla normalità dopo la crisi potrebbero essere mal poste

 

 

Le aziende giapponesi che già da molto tempo avevano in programma di ridurre la dipendenza dalla Cina dovrebbero essere soddisfatte della sostanziosa misura economica di 2,2 miliardi di dollari varata dal primo ministro Giapponese Shinzo Abes. soldi messi a disposizione delle aziende per aiutarli a trasferire le attività produttive. Queste aziende, ancor prima della crisi del Coronavirus, erano già preoccupate di non farsi  travolgere e diventare esse stesse vittime della sempre più acuta guerra commerciale USA-Cina.

 

Abe ha annunciato un pacchetto di incentivi di quasi $ 990 miliardi per aiutare l’economia a superare la crisi e l’esborso può modificare enormemente la scena dell’industria post-pandemica.

 

Il pacchetto di stimolo economico prevede 220 miliardi di yen;  2,2 miliardi, come già detto alle aziende che riportano la produzione in Giappone e 23,5 miliardi di yen per coloro che vogliono spostare la produzione in altri paesi.

 

La Cina è stata il principale partner commerciale del Giappone fino a quando il coronavirus non ha colpito, portando a un sostanziale ridimensionamento del commercio. La battuta d’arresto nei rapporti Giappone-Cina ha portato alla cancellazione della visita del presidente cinese Xi Jinping a Tokyo prevista per l’inizio di questo mese. La visita è stata rinviata a causa della crisi del Coronavirus, ma una nuova data non è stata ancora pianificata. La somma assegnata alle aziende Giapponesi per facilitare lo spostamento delle produzioni fuori dalla Cina potrebbe ulteriormente acuire la distanza tra i due giganti economici asiatici nonostante gli sforzi , fino ad ora a parole, di Abe per avvicinare i due tradizionali rivali.

 

Secondo un rapporto governativo Giapponese, il governo di Tokyo ritiene che le aziende debbano mantenere una base produttiva in Cina solo per merci destinate al mercato cinese. Lo scorso mese un gruppo di studio governativo sui futuri investimenti ha discusso della necessità di manifatturare prodotti ad alto valore aggiunto e strategico in Giappone. La produzione di altri beni, meno importanti, potrebbe essere diversificata in tutto il sud-est asiatico; una mossa che andrà a beneficio dei centri di produzione a basso costo come il Vietnam e la Cambogia e alcune altre economie asiatiche.

 

Ci sarà una sorta di svolta“, scrive nel suo rapporto Shinichi Seki, economista del Japan Research Institute, aggiungendo che alcune aziende giapponesi che fabbricano merci in Cina per l’esportazione stavano già prendendo in considerazione l’idea di uscire. “Avere questo stimolo economico nel budget fornirà sicuramente uno ulteriore slancio“. Alcune aziende, come le case automobilistiche, che fabbricano per il mercato interno cinese, probabilmente rimarranno dove sono, ha dichiarato Seki

 

Secondo il rapporto del Tokyo Shoko Research; circa un migliaio di aziende giapponesi avevano già lo scorso Febbraio iniziato a diversificare l’acquisto di componenti per la loro produzione, abbandonando i fornitori cinesi. Il Giappone esporta in Cina una quota molto più importante di parti e merci parzialmente finite rispetto alle altre nazioni industrializzate del mondo. La Tokyo Shoko Research ha rilevato che il 37% delle oltre 2.600 aziende hanno dichiarato che stanno diversificando i propri approvvigionamenti in luoghi diversi rispetto alla Cina.

 

Dopo la crisi, la Cina aspirerebbe tornare a uno scenario normale, pre-coronavirus. “Stiamo facendo del nostro meglio per riprendere lo sviluppo economico“, ha detto il portavoce del ministero degli Esteri cinese Zhao Lijian. “In questo processo, speriamo che altri paesi agiscano come la Cina e prendano le misure adeguate per garantire che l’economia mondiale sarà modificata il meno possibile e per garantire che le catene di approvvigionamento siano influenzate il meno possibile“.

 

Il fatto che molti a Tokyo condividono l’opinione degli Stati Uniti secondo cui la Cina ha nascosto al mondo la gravità della pandemia, soprattutto all’inizio, può indurre a stabilire legami molto più ridotti tra i due paesi, nonostante l’apparente distensione nelle relazioni avvenuta nei primi giorni dell’epidemia quando il Giappone ha inviato aiuti sanitari alla Cina.

 

I due paesi sono anche coinvolti in una disputa territoriale sulle isole del Mar Cinese Orientale, che tuttora continua ad alimentare tensioni sino a trascinarli vicino a uno scontro militare nel 2012.

 

Con la guerra del petrolio, la fine dell’età d’oro per i paesi del Golfo?, di Julie KEBBI , Anthony SAMRANI 

Qui sotto un interessante articolo del quotidiano libanese OLJ sulle conseguenze della guerra delle estrazioni petrolifere connessa alla crisi pandemica_Giuseppe Germinario

Con la guerra del petrolio, la fine dell’età d’oro per i paesi del Golfo?

Un agente di cambio a Riyadh, Arabia Saudita, 10 marzo 2020. Ahmad Yosri / File Photo / ReutersUn agente di cambio a Riyadh, Arabia Saudita, 10 marzo 2020. Ahmad Yosri / File Photo / Reuters

DECRITTAZIONE Se l’esaurimento delle risorse s’inscrive nei tempi lunghi, potrebbe rimescolare le carte nella regione.

Ciò che nasce nel petrolio muore nel petrolio. Le petro-monarchie del Golfo iniziarono a diventare le potenze dominanti nel mondo arabo grazie allo shock petrolifero del 1973, avvenuto nel bel mezzo della guerra del Kippur, e pochi anni dopo la sconfitta del 1967, che segnò l’inizio della fine dei regimi pan-arabi. . Il primo intervento americano contro Saddam Hussein, poi la sua caduta, più di un decennio dopo, rafforzerà questa nuova realtà: il Golfo diventa di nuovo il centro politico del mondo arabo per la prima volta dalla morte del Profeta. L’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e persino il Qatar sono diventati, in pochi decenni, i paesi con il maggior peso, mezzi e persino influenza nella regione, nonostante una bassa demografia e una cultura politica lungi dal fare all’unanimità. Grazie ai petrodollari, il Golfo ha conosciuto in questi ultimi decenni la sua epoca d’oro, che gli ha permesso di costruire dal nulla città moderne e di sviluppare una rete di alleanze nella regione in parte basate sulla loro generosità verso paesi che non hanno le stesse risorse. Cosa sarebbero oggi la Giordania, l’Egitto e persino il Libano senza i soldi del Golfo e senza quelli delle loro diaspore che vi lavorano?

Tutta questa geopolitica è minacciata dalla crisi del coronavirus e in particolare dalla conseguente guerra petrolifera. “Penso che siamo entrati in una nuova fase, soprattutto se i prezzi del petrolio continuano a ristagnare”, ha dichiarato Joseph Bahout, ricercatore presso il Carnegie Center e specialista in Medio Oriente, contattato da L’Orient-Le Jour.

In totale, i paesi del Gulf Cooperation Council registrano quasi 4.530 casi di Covid-19, inclusi oltre 1.720 in Arabia Saudita, secondo gli ultimi dati. I bilanci che rimangono ampiamente inferiori a quelli del resto dei paesi della regione, mentre le monarchie del Golfo sono meglio armate di fronte alla pandemia, con infrastrutture ultramoderne di salute e più mezzi per applicare le misure del distanziamento sociale. Ad esempio, il re Salman dell’Arabia Saudita ha annunciato lunedì che il regno era pronto a pagare le spese per il trattamento dei pazienti con Covid-19, mentre Abu Dhabi ha recentemente aperto un  centro di contenimento del Covid- 19 con l’obiettivo di estenderlo a tutti gli emirati.

(Leggi anche: L’alleanza americano-saudita messa alla prova dalla guerra petrolifera )

Progetto ingrippato
L’epidemia potrebbe tuttavia avere conseguenze economiche. “L’impatto della pandemia sul multilateralismo, sulla cooperazione e sul commercio internazionale, nonché sulla globalizzazione sarà decisivo per i paesi del Golfo”, ha affermato Hussein Ibish, ricercatore presso l’Arab Gulf States Institute di Washington, intervistato da L ‘OLF.

Ma è la crisi petrolifera che dovrebbe far molto più male dell’epidemia stessa. Dopo aver fallito nel raggiungere un accordo con Mosca su un calo della produzione volto a mantenere alti i prezzi nonostante il calo della domanda cinese e quindi globale, Riyadh ha inondato il mercato nelle ultime settimane, causando il crollo dei prezzi. Il greggio Brent ha raggiunto $ 22,89 al barile all’inizio della settimana, il suo livello più basso dal 2002, prima di salire ieri a circa $ 30. Il regno vuole dimostrare che è ancora il giocatore dominante nel campo dell’oro nero e della quota di mercato sicura. Ma con prezzi così bassi, l’intera economia del Golfo, in gran parte dipendente dai petrodollari, è minacciata da una recessione. La strategia del regno non è sostenibile nel tempo, in particolare a causa della mancanza di riserve a Riyad in dollari (circa 500 miliardi di dollari), ma anche perché indebolisce le sue relazioni con il suo principale alleato, gli Stati Uniti, i cui produttori di scisto stanno subendo il peso del collasso dei prezzi al barile. Un gesto diplomatico a Washington o un desiderio di limitare il danno, ieri l’Arabia Saudita ha chiesto una “riunione urgente dell’Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio (OPEC) e di altri paesi, tra cui la Russia, al fine di raggiungere un accordo equo che ristabilirà l’equilibrio dei mercati petroliferi ”, ha annunciato l’agenzia ufficiale saudita SPA. La guerra del petrolio non durerà per sempre. Ma quanto più dura, tanto più mette a repentaglio la stabilità dei paesi del Golfo e la loro capacità di attuare le loro politiche volte a uscire dal modello di economia delle rendite. “È l’intero progetto di Mohammad ben Salmane (il principe ereditario saudita) che ora viene bloccato”, riassume Joseph Bahout. Quasi tutti i paesi del Golfo hanno lanciato negli ultimi anni importanti piani di transizione economica miranti a concepire il dopo-petrolio. Ma l’attuale doppia crisi dovrebbe costringerli ad accelerare i loro modelli di transizione con mezzi limitati. “Questo mette molta pressione sui loro sforzi per creare economie post-petrolifere”, osserva Hussein Ibish. “Tutte le proiezioni indicano che se i prezzi attuali rimangono come sono, il regno avrà un deficit di bilancio molto grande per la prima volta nella sua storia nei prossimi 5-6 mesi, il che significa che il piano Vision 2030 sarà praticamente messo tra i reperti ”, ha detto Joseph Bahout. La diffusione del coronavirus e i conseguenti divieti di viaggio stanno rallentando, tra le altre cose, la campagna di apertura del regno saudita, che cerca di fare affidamento sul turismo per diversificare la sua economia. Molti eventi culturali e sportivi in ​​programma nel Golfo sono stati anch’essi cancellati o rinviati.

(Per la cronaca:  petrolio: perché il mercato è crollato )

Rovescio della storia
Le prime monarchie del Golfo potrebbero inizialmente emergere rafforzate dalla crisi del coronavirus se il numero di morti tra loro dovesse rimanere limitato. “La gestione della crisi del coronavirus potrebbe rafforzare o indebolire la leadership dei leader del Golfo”, afferma Hussein Ibish.

Ma il rischio è che la scarsità di risorse sia a lungo termine e provochi turbolenze sulla scena interna. La stabilità dei paesi del Golfo è dovuta in particolare a un patto sociale tra governanti e governati, che conferisce al primo potere indiscutibile e al secondo uno stile di vita generalmente confortevole. Ancor più che il rafforzamento dell’autoritarismo, la crisi economica sembra essere la principale minaccia che potrebbe provocare movimenti interni di protesta. “Dobbiamo rimanere cauti nelle analisi, ma potremmo vedere nei prossimi anni la terza fase delle rivoluzioni arabe che si sarebbero giocate questa volta nel Golfo”, afferma Joseph Bahout.

La mancanza di risorse potrebbe anche avere un impatto sulla politica estera di questi paesi. Il regno è diventato negli ultimi anni, rovesciando la sua storia, un potere interventista, in particolare nello Yemen, mentre gli Emirati si mostrano orgogliosamente come Sparta del Medio Oriente. L’influenza di questi paesi dipende soprattutto dalle loro capacità finanziarie, perché presentano carenze sia sul piano militare che sul piano del “soft power”. Saranno emarginati quando la loro leadership sarà sempre stata contestata nel mondo arabo, ma anche e soprattutto da Iran e Turchia?

Le petro-monarchie possono sentirsi rassicurate trovando che questo non è un gioco a somma zero. In altre parole, se i paesi del Golfo soffrono, gli altri soffriranno altrettanto, se non di più. L’Iraq, anch’esso dipendente dal prezzo di un barile, rischia il collasso. Giordania, Egitto e persino Libano troveranno molto difficile uscire dalla crisi senza l’aiuto dei paesi del Golfo. Tanto più se dovessero risentirne i milioni di arabi che lavorano in questi paesi.

Il grande rivale iraniano, che era già stato strangolato dalle sanzioni americane, dovrebbe emergere ancora più indebolito dalla crisi del coronavirus. La Turchia e la Russia, se riusciranno a limitare il danno, potrebbero imporsi a lungo termine come le due grandi potenze della regione, tanto più se il relativo ritiro degli Stati Uniti continuerà. Ma né Mosca né Ankara hanno i mezzi per indossare il costume americano del potere egemonico in Medio Oriente e un’alleanza tra i due paesi sarebbe più fragile a causa delle loro differenze di interesse. Il doppio rebus del coronavirus e della crisi petrolifera potrebbe rimescolare le carte nella regione e mettere in discussione l’influenza dei paesi del Golfo sul mondo arabo. A beneficio di chi? Questa è tutta un’altra storia.

https://www.lorientlejour.com/article/1213059/avec-la-guerre-du-petrole-la-fin-de-lage-dor-pour-les-pays-du-golfe-.html?utm_source=olj&utm_medium=email&utm_campaign=alaune

IL DESTINO DI TARANTO E’ SEGNATO DALLA SUA STORIA MILITARE E DALLA SUA GEOGRAFIA di Luigi Longo

IL DESTINO DI TARANTO E’ SEGNATO DALLA SUA STORIA MILITARE E DALLA SUA GEOGRAFIA

 

di Luigi Longo

 

E Pensare Che C’era Il Pensiero*

 

Il secolo che sta morendo è un secolo piuttosto avaro nel senso della produzione di pensiero.

Dovunque c’è un grande sfoggio di opinioni piene di svariate affermazioni che ci fanno bene e siam contenti.

Un mare di parole un mare di parole ma parlan più che altro i deficienti.

Il secolo che sta morendo diventa sempre più allarmante a causa della gran pigrizia della mente.

E l’uomo che non ha più il gusto del mistero che non ha passione per il vero che non è cosciente del suo stato.

Un mare di parole un mare di parole è come un animale ben pasciuto.

E pensare che c’era il pensiero che riempiva anche nostro malgrado le teste un po’ vuote.

Ora inerti e assopiti aspettiamo un qualsiasi futuro con quel tenero e vago sapore di cose oramai perdute.

Va’ pensiero sull’ali dorate va’ pensiero sull’ali dorate.

Nel secolo che sta morendo s’inventano demagogie e questa confusione è il mondo delle idee.

A questo punto si può anche immaginare che potrebbe dire o reinventare un Cartesio nuovo e un po’ ribelle.

Un mare di parole un mare di parole io penso dunque sono un imbecille.

Il secolo che sta morendo appare a chi non guarda bene il secolo del gran trionfo dell’azione.

Nel senso di una situazione molto urgente dove non succede proprio niente dove si rimanda ogni problema.

Un mare di parole un mare di parole e anch’io sono più stupido di prima.

E pensare che c’era il pensiero era un po’ che sembrava malato ma ormai sta morendo.

In un tempo che tutto rovescia si parte da zero.
E si senton le note dolenti di un coro che sta cantando.

(sull’aria di va pensiero)

Vieni azione coi piedi di piombo Vieni azione coi piedi di piombo.

Giorgio Gaber

 

 

1.Un breve racconto di storia militare e geografica della città di Taranto

 

Il destino della città di Taranto è segnato dalla storia militare e dalla geografia che la rende un luogo strategico nel Mediterraneo e nell’Oriente. Per l’importanza geografica e militare di Taranto riporto una ampia sintesi tratta dal bel libro del 1930 dello storico Giuseppe Carlo Speziale << Alcune condizioni geografiche particolarmente felici hanno fatto sì che il golfo di Taranto sia sempre stato considerato come un nodo di traffici marittimi, sin dalla più remota antichità; e, per meglio specificare, i due bacini interni, il mar Grande ed il mar Piccolo, vasti e completamente chiusi come due laghi, sono sempre stati ancoraggi militari di prim’ordine e, in caso di conflitti o di attività nel Mediterraneo orientale, vere risorse anche per le armate più numerose. Quello di Taranto, infatti, è porto di concentramento e di imbarco per truppe e di preparazione alla guerra per le navi, porto di sorveglianza in posizioni strategica vantaggiosa, in quanto prossimo all’Oriente e posto in mezzo ai due bacini dell’Adriatico e dell’Egeo, che sono stati di tutto il Mediterraneo i mari più ricchi di storia e di eventi >>.

Taranto servì da nodo per i romani per la loro espansione; fu distrutta dagli Arabi di Sicilia per privare i Bizantini di uno dei porti migliori del loro dominio; << […] al tempo delle Crociate esso (il porto, mia specificazione) servì per concentramenti di navi e per l’imbarco delle milizie; ed in seguito, col determinarsi di nuovi antagonismi nell’Egeo e nell’Adriatico, ne ambirono il possesso sia i Turchi sia i Veneti appunto per questa sua posizione dominate […]; Federico II […] colla sua acutezza ed il suo senno politico, aveva già incluso in un suo vasto disegno militare una simile città e, in tempi di crociate e di guerre in Oriente, aveva già fatti i suoi calcoli e previsti i vantaggi  che poteva trarre da quell’osservatorio sul Mediterraneo, da quel porto per il Levante, da quel  “baluardo del regno” […] >>; Napoleone trasformò Taranto in una << piazzaforte d’appoggio della sua politica orientale […] In tale epico periodo una simile piazzaforte poté contemporaneamente servire a diversissimi scopi, che andavano dalla sorveglianza sui Balcani, alla minaccia di uno sbarco in Dalmazia per tenere a bada l’Austria, dal frazionamento delle forze navali inglesi alla creazione d’un centro d’informazione per il Levante e l’Adriatico, dalla preparazione di spedizioni navali a tutti i vantaggi marittimi sempre offerti da sì provveduto ancoraggio >>.

Nel primo decennio del Novecento Taranto fu sede del terzo dipartimento militare marittimo, così come Napoli fu sede del secondo Dipartimento (come vedremo in seguito le città di Napoli e Taranto diventano basi strategiche degli USA). << Le grandi manovre navali del 1907 furono come una specie di prova generale per gli impianti militari di Taranto, che quattro anni dopo venivano improvvisamente messe in febbrile travaglio dalla guerra di Libia. Nella prima impresa mediterranea della giovane Nazione, Taranto ebbe un’importanza, oltre il previsto ed il prevedibile, come luogo di appoggio per le forze marittime […] uno sguardo alla carta geografica […] fa subito rilevare come sia felice la posizione di Taranto per ogni attività navale da esplicare nel Mediterraneo centrale ed orientale […] Se alle considerazioni […] si aggiungono quella della difesa aerea […] Questa coesistenza nello stesso porto militare degli impianti dell’arsenale, della base navale e della base aerea ha una importanza infine che va anche al di là, e molto al di là, delle necessità e delle questioni del momento […] I destini di Taranto paiono quindi, ora più che mai, vincolati alle ragioni militari, e questa è e rimane la linea saliente della tradizione storica della città […] Federico II e Napoleone rimangono quindi i due profeti dei destini militari di Taranto: il tempo e le varie vicende han dato ampiamente ragione a quelle previsioni. (corsivo mio) >> (1).

Le suddette infrastrutture e basi furono utilizzate nella guerra di occupazione della Libia e nelle due guerre mondiali (2).

La città di Taranto, dall’antichità ad oggi, nelle fasi multicentriche e policentriche storicamente determinate, è stata condizionata dalle strategie militari delle potenze dominanti e in ascesa, in conflitto fra loro.

Oggi, nella fase multicentrica, la città di Taranto torna ad essere una base militare importante, una città Nato per gli USA (potenza dominante), per le sue strategie contro la Cina e la Russia (potenze in ascesa).

Nelle diverse fasi storiche Taranto ha usufruito di una posizione di rendita geografica (assoluta e differenziata) in quelle monocentriche (fasi di sviluppo pacifiche coordinate dalla potenza egemone) e di una posizione di sventura geografica in quelle multicentriche e policentriche (fasi di sviluppo conflittuale coordinate dalle strategie militari e dalle guerre).

 

2.La Nato a Taranto

 

Ho utilizzato i saperi della storia e della geopolitica per capire perché l’Ilva di Taranto dovrà essere chiusa per far posto alla base USA (via Nato) per le sue strategie di guerra nel Mediterraneo, nei Balcani, nel Vicino Oriente, nel Medio Oriente e nell’estremo Oriente.

Il V° Centro siderurgico di Taranto è stato costruito nei primi anni sessanta del secolo scorso, nella fase monocentrica coordinata dagli USA che non erano preoccupati dalla potenza dell’ex URSS perché era un gigante militare-nucleare con i piedi di argilla (3). Con la caduta del muro di Berlino (1989), con l’implosione dell’ex URSS (1991), dopo un decennio di apparente indiscusso dominio mondiale da parte degli Stati Uniti (tant’è che si parlò di fine della storia e di una prospettiva di pace mondiale), le relazioni mondiali cambiano e con l’ascesa di due potenze quali la Cina e la Russia, entriamo nella fase multicentrica. E’ in questa fase che gli USA costruiscono la base NATO di Napoli chiudendo l’Ilva di Bagnoli per le loro strategie di contrasto delle potenze in ascesa e approntano la base NATO di Taranto con la prevedibile chiusura dell’Ilva (4).

<< A Taranto ha sede il quartiere generale della High Readiness Force (Maritime), una forza marittima di rapido spiegamento che, al momento dell’impiego, sarebbe come le altre inserite nella catena di comando del Pentagono. L’importanza del porto di Taranto per la marina Usa trova conferma nel fatto che una società statunitense, la Westland Security, intende acquistare una parte dell’area portuale da destinare, oltre che a non precisate attività commerciali, a servizi per la Sesta Flotta Usa nel Mediterraneo, composta da 40 navi, 175 aerei e 21 mila uomini. Sempre a Taranto, c’è un importante nodo dei sistemi di comando, controllo, comunicazioni, computer e intelligence (C4I) del Centro della marina Usa per la “interoperabilità dei sistemi tattici”: in altre parole, un centro di comando e di spionaggio del Pentagono. La conferma si trova in un documento ufficiale dello stesso Pentagono, in cui si parla di un contratto da 9,8 milioni di dollari stipulato nel 1998 dal Dipartimento Usa della Difesa con la Logicon Inc. di Arlington per la messa a punto dei nodi della rete di comando e di spionaggio, tra cui-unico in Europa e nel Mediterraneo-quello di Taranto. Tutte queste forze e basi statunitensi, pur essendo in territorio italiano, sono inserite nella catena di comando del Pentagono e quindi sottratte a qualsiasi meccanismo decisionale italiano (corsivo mio) >> (5).

A partire dall’importanza del suo porto per la Marina statunitense Taranto, in maniera segreta e con libidine di servitù, sta diventando un polo Nato (6) e i suoi servili decisori attuali e futuri gestiranno, con il “Cantiere Taranto”, che è una riproposizione del Contratto Istituzionale di Sviluppo per questa area (CIS), la chiusura dell’Ilva e metteranno a completa disposizione il Mar Grande (nuova base navale) e il Mar Piccolo (Arsenale) per le strategie NATO (7).

Da qui bisogna partire per capire la trasformazione di Taranto da polo siderurgico a polo strategico della NATO, cioè degli USA.

 

3.La fine dell’Ilva di Taranto

 

Il soggetto che si è fatto carico dell’esplosione delle contraddizioni dell’Ilva, nel rapporto capitale-salute e capitale-ambiente, è stato la magistratura, nel 2012, per questioni legittime ma vecchie di 50 anni [la salute e la sicurezza dei lavoratori/trici sul luogo di lavoro e l’inquinamento territoriale (suolo, aria, mare) con conseguenze devastanti sulla popolazione]; contraddizioni, inoltre, che sono intrinseche alle dinamiche del modo di produzione capitalistico che non ha come obiettivo né la tutela della salute dei lavoratori/trici e della popolazione né il rispetto delle leggi della natura con i suoi cicli (8).

La magistratura non spiega perché arriva con 50 anni di ritardo ad affrontare le suddette questioni, né perché non ha messo sotto inchiesta tutti i poli siderurgici e chimici italiani.

E’ mia convinzione che l’azione della magistratura, che è parte integrante dei ceti decisori (altro che la teoria della separazione dei poteri, che la realtà smentisce…), è stata la testa di ariete che ha fatto saltare le contraddizioni del modo di produzione dell’Ilva (coinvolgendo anche il rapporto capitale-lavoro) affinchè si mettesse in moto una precisa strategia: quella della gestione della chiusura della più grossa impresa siderurgica europea perché incompatibile con le esigenze territoriali e strategiche degli agenti dominanti statunitensi attraverso i loro strumenti di intervento (Pentagono e Nato). Faccio osservare che l’impresa Ilva dei Riva era sulla strada della dismissione per mancanza di a) manutenzione ordinaria, straordinaria e di investimenti; b) rispetto di qualsiasi norma e legge; c) strategia per migliorare qualsiasi aspetto della produzione (l’introduzione di nuove tecnologie era impossibile su vecchi e usurati macchinari!), della salute, dell’ambiente, della città (9). La gestione dell’impresa Ilva, in un rapporto sociale storicamente determinato, è stata attuata con modalità da plusvalore assoluto e non da plusvalore relativo (10), senza pensare minimamente ad una strategia di ricaduta e di innervamento con lo sviluppo locale del territorio a diverse scale (locale, regionale, nazionale e mondiale). I Riva, ottimi cotonieri lagrassiani, hanno raschiato il fondo di tutte le risorse possibili nella produzione dell’acciaio. (11).

Perché i Riva hanno potuto muoversi ed operare in queste condizioni? E la mitica classe operaia che ruolo ha avuto insieme ai sindacati? (12) E le istituzioni che ruolo hanno svolto per fare rispettare le norme e i principi costituzionali? E la destra e la sinistra (oggi fa ridere la volontà di questa distinzione ideologica) quale ruolo hanno esercitato? In sintesi: il blocco di potere che si è formato intorno all’impresa Ilva dei Riva sapeva benissimo in quale condizioni essa operava e dove conduceva la strategia dei cotonieri. Perché nulla è stato fatto né in termini di salute dei lavoratori/trici e della popolazione, né in termini di difesa ambientale e delle risorse esistenti, né in termini di impresa aperta al territorio e al suo sviluppo?

 

 

  1. La gestione della chiusura dell’Ilva di Taranto

 

Anche se la strategia di gestione della chiusura dell’Ilva ha come scena principale la sfera economica (oltre a quelle istituzionale, giuridica e ideologica), attraverso il libero mercato (sic) e il ruolo di una grande impresa multinazionale (12 bis), le vere ragioni della chiusura dell’Ilva vanno ricercate nella sfera politica dei pre-dominanti statunitensi i quali hanno bisogno, nel conflitto per l’egemonia mondiale, di quello spazio geograficamente e militarmente strategico (le basi nato).

Il ruolo di ArcelorMittal. ArcelorMittal (ora in avanti AM), il principale produttore mondiale di acciaio che << dallo scoppio della crisi (2007-2012, mia precisazione) ha avviato un processo di ridimensionamento della propria presenza nel vecchio continente >> (13), ha due obiettivi da raggiungere: a) liquidare, incorporandola, una delle più grandi imprese siderurgiche europee, b) compiere una rottura, un salto decisivo verso la chiusura con i conseguenti licenziamenti degli operai. << Oggi compie un anno la gestione targata AM del complesso aziendale ex Ilva […] Le ipotesi di rilancio dell’acciaieria di Taranto […] hanno ormai lasciato spazio ai piani di ridimensionamento […] lo stabilimento siderurgico annaspa, fermo a poco più di 4 milioni di tonnellate di acciaio liquido prodotto nel 2019, con 1400 degli 8200 dipendenti in cassa integrazione (i dipendenti erano 10500 con i commissari, 12000 con la famiglia Riva, fino a 25000 con la gestione statale) […] >> (14). Federico Pirro (docente di storia dell’industria dell’Università di Bari) così chiarisce << […] se nella prossima trattativa fra gli esperti nominati dal governo e quelli di Arcelor non verrà ribadito con chiarezza dai rappresentanti italiani che il sito di Taranto non può scendere ad una capacità di 4 o 4,5 milioni di tonnellate all’anno, pena un drastico ridimensionamento del tutto antieconomico per un impianto di quelle dimensioni che è ancora la più grande acciaieria a ciclo integrale d’Europa e la maggiore fabbrica manifatturiera d’Italia con i suoi 8277 addetti diretti. […] Il gruppo franco-indiano, dopo aver ceduto alcuni suoi impianti in Europa a causa delle prescrizioni di Bruxelles per poter acquistare il gruppo Ilva, al momento gestito in locazione finalizzata all’acquisto, sta riorganizzando le produzioni nei suoi stabilimenti di Dunkerque e di Fos-sur-Mer vicino Marsiglia, portandole- con il consenso del governo francese- da 4 a 6 milioni di tonnellate ciascuno e, pertanto, potrebbe non aver interesse a conservare un’elevata capacità a Taranto, perché i 12 milioni di tonnellate dei due siti francesi e gli eventuali 4 del capoluogo ionico sarebbe sufficienti a conservare il suo mercato continentale. Si punterebbe così ad una mini Ilva. Secondo la sua strategia tale disegno sarebbe comprensibile, ma non sarebbe condivisibile per l’Italia che deve conservare adeguata capacità nel ciclo integrale. […] Pesantissimi, non solo per l’attuale manodopera diretta che con 4 o 4,5 milioni di tonnellate sarebbe dimezzata- senza alcuna speranza inoltre di poter un giorno recuperare in fabbrica gli attuali 1700 cassaintegrati in carico all’Amministrazione straordinaria-ma anche per gli addetti diretti di Genova e Novi Ligure, e per alcune migliaia di occupati dell’indotto manifatturiero delle altre città, ma soprattutto di Taranto e non solo di quello industriale. […] Le movimentazioni del porto cittadino che potrebbe anche perdere entro qualche anno, se non recuperasse traffici, la classificazione di porto core con la scomparsa della sua Autorità di sistema portuale […] ma anche il settore dell’autotrasporto su gomma e su ferrovia, tutto l’indotto di secondo e terzo livello, dalle pulizie industriali alle mense aziendali, senza considerare l0impoverimento complessivo di territori provinciali e regionali in cui viene speso il reddito di operai e tecnici dell’Ilva. Insomma, una catastrofe. >> (15). Rita Querzè ci informa che << L’uscita di ArcelorMittal dall’Ilva e dall’Italia è più vicina. La Corte suprema indiana ha dato il via libera ad AM per l’acquisizione del gruppo siderurgico indiano Essar Steel. Valore, tra acquisizione e investimenti: 6,15 miliardi di euro. Mittal non dovrà pagare tutto di tasca propria visto che l’operazione è condotta in joint venture con i giapponesi di Nippon Steel. Ma si tratta comunque di un impegno finanziario non distante da quello preventivato per acquisire l’ex Ilva (4,2 miliardi). L’investimento che doveva convergere su Taranto viene dirottato verso l’India. Secondo i siti specializzati, Essar Steel impiega meno della metà dei dipendenti dell’ex Ilva: 3.800 contro 10.700. Ma la capacità produttiva di Essar sarebbe superiore: 10 milioni di tonnellate di acciaio l’anno solo nello stabilimento di Hazira contro i 4 milioni di tonnellate di acciaio di Taranto (che dovevano diventare però 8 milioni a regime). Ad Hazira un manager a inizio carriera guadagna l’equivalente di 5.500 euro l’anno. Grazie a questo «colpo» AM entrerà nel mercato domestico: finora i Mittal non avevano investito a casa propria, il secondo mercato mondiale dell’acciaio. Questa operazione, con il nuovo posizionamento di Arcelor Mittal in India come fatto strategico, penalizza Taranto dal punto di vista dell’impegno delle risorse. >> (16).

E’ possibile, chiedo, che una multinazionale del livello di AM, che avrà sicuramente degli ottimi strateghi geoeconomici e geopolitici al suo interno, abbia partecipato al bando di gara non conoscendo la situazione di Taranto e, soprattutto, non conoscendo gli interessi militari degli Stati Uniti per il golfo di Taranto? E gli strateghi di AM saranno sicuramente informati che i due giganti asiatici del trasporto marittimo, la taiwanese Evergreen Maritime Corporation e la cinese Hutchison Whampoa, che controllavano al 90% la società terminalistica dello scalo pugliese (la Taranto Container Terminal), e movimentavano il 70% dei traffici, con dietro una potenza mondiale come la Cina, hanno dovuto abbandonare il porto di Taranto e trasferirsi nel porto del Pireo di Atene?

Una grande multinazionale come AM non può entrare in contraddizione dicendo, dopo un anno, che non può mantenere gli impegni presi per quanto stabilito nel bando di gara e nel contratto di acquisto dell’Ilva e nello stesso tempo investire in Francia e in India (la contraddizione va vista nell’insieme delle attività mondiali e tenendo presente i due Stati di appartenenza di AM con le loro strategie politiche nazionali). Né può addurre giustificazione di crisi dell’acciaio perché proprio in virtù di essa ha avviato un processo di ridimensionamento della propria presenza nel vecchio continente. Né può trincerarsi dietro la mancanza dello scudo penale perché è una pantomima politica in quanto tutti sanno che chiunque interviene sull’Ilva di Taranto, sia pubblico sia privato, ha bisogno dello scudo penale (17).

Il ruolo dei ceti decisori. La macchina della chiusura dell’Ilva (che avrà i suoi tempi) è già in movimento. Riporto quanto scritto nel 2013 perché nella sostanza ha ancora la sua validità, con l’aggiunta: a) il ruolo di AM, b) i nuovi formali strumenti di sviluppo del territorio (il “Cantiere di Taranto” e il CIS), c) una fantomatica svolta green degli impianti, d) un processo di decarbonizzazione che presuppone un radicale processo di trasformazione degli impianti oltre ad una chiara strategia di investimenti (forni elettrici…) considerando i tempi, le verifiche, l’occupazione (18), e) la farsa di una impresa di interesse strategico per il Paese << La UE, il governo italiano, la regione Puglia e il comune di Taranto sono i luoghi istituzionali dove saranno gestite le risorse finanziarie ( derogando al Patto di stabilità) per il rilancio di uno sviluppo dell’area tarantina nei settori della bonifica ambientale, del risanamento del territorio, della rigenerazione urbana della città, della smart city, del riuso del porto ( l’Autorità Portuale vede con favore la chiusura dell’Ilva per puntare a un riuso del porto e al superamento dell’attuale crisi sul modello di quello di Rotterdam: fare di Taranto, la Rotterdam del Mediterraneo), eccetera, in stretta collaborazione con le strategie di intervento che integrano la dimensione militare e quella civile della NATO. >>.

La solitudine degli operai, prima e la loro reazione di indifferenza e apatia poi, alla chiusura nei fatti dell’Ilva sono indici paradigmatici del degrado politico, sociale e culturale di Taranto, dell’Italia e dell’Europa. Per dirla con Costanzo Preve siamo in piena << […] libidine di servilismo della cultura europea contemporanea verso l’unico modello dominante americanocentrico >> (19).

 

E pensare che c’era il pensiero.

 

 

  1. L’ideologia dell’interesse nazionale

 

L’Ilva è uno stabilimento di interesse strategico nazionale (articolo 1 del decreto legge del 3 dicembre 2012 n.207 e sua conversione in legge n.231 del 2012). Ciò ha permesso, in una prima fase, di espropriarla per affidarla alla gestione pubblica (20) per il risanamento aziendale e territoriale per poi restituirla ai proprietari. Successivamente c’è una diversa gestione: pubblicazione di un bando di gara e assegnazione con un contratto di acquisto (non è il caso di approfondire in questa sede la costruzione del bando e del contratto di affitto con obbligo di acquisto anche se è facile intuire l’impostazione). Sarà il libero mercato con meccanismi democratici e trasparenti ad aggiudicare l’Ilva: il metodo della menzogna sistematica!

Perché non gestire il risanamento aziendale con i sub-decisori italiani invece di affidarla ad una multinazionale franco-indiana? Cioè mettiamo una impresa strategica nazionale in mano a una multinazionale straniera: è il trionfo della legge fondamentale della stupidità umana, dello storico Carlo Maria Cipolla (21). Una nazione seria non consegna una impresa strategica ad una multinazionale come AM che ha dietro due stati come la Francia e l’India. Chiedo: in questa fase di crisi da sovrapproduzione dell’acciaio e di processi di ristrutturazione, chi penalizzerà l’AM? La risposta è: l’Italia! Così come già sta accadendo con gli investimenti surriportati in Francia e in India.

Una impresa strategica nazionale non si consegna alla prima multinazionale mondiale dell’acciaio a meno che i sub-decisori italiani non abbiano affidato la liquidazione dell’Ilva, su comando dei pre-dominanti statunitensi i quali non fidandosi hanno optato per AM sapendo che dietro c’erano sub-dominanti servili, sì, ma affidabili e capaci di portare a termine la chiusura dell’Ilva (oltre ai giochi geoeconomici e geopolitici tra Usa, Francia e India).

In questa logica parlare di industria strategica di interesse nazionale diventa una farsa nazionale (22).

La magistratura con il gioco dello scudo penale (l’Ilva non può essere gestita senza lo scudo penale e questo lo sanno tutti! Anche i magistrati che discutono di grande dottrina giuridica per la incostituzionalità dello scudo penale utilizzato ad hoc) e con il gioco dell’interesse nazionale (tutelando una impresa strategica nazionale dopo averla data alla multinazionale AM?) entra nella vicenda Ilva per creare complessità strumentale al fine di perseguire l’obiettivo della chiusura.

Ancora una volta il ruolo della magistratura è funzionale alle strategie dei pre-dominanti statunitensi e ci vuole una bella faccia tosta a parlare della separazione dei poteri, una architettura giuridica-istituzionale creata per confondere il reale corso della dura realtà conflittuale.

Chiedo, ammesso e non concesso che ci siano le condizioni (23): quale impresa italiana (e sottolineo italiana perché deve essere espressione di una strategia di difesa degli interessi nazionali così come fanno tutte le nazioni non servili) investirebbe in questa complessità rischiosa e pericolosa? Rischiosa per le condizioni storiche oggettive del modo di produzione dell’Ilva dei cotonieri italiani (dal 1960 ad oggi) e pericolosa perché, come ci ricorda Gianfranco La Grassa, gli Stati Uniti d’America << […] sono ormai un grave pericolo e ostacolo […] per il mantenimento dell’autonomia di ogni singola area, di ogni singolo paese; difendiamoci dalla voracità statunitense. Del resto, anche dal punto di vista interno ad ogni paese, i gruppi dominanti più oppressivi, più parassitari e sanguisughe rispetto alla maggioranza della popolazione (non del “popolo”, questa maschera di tutti i traditori), sono quelli che si pongono alle dipendenze degli Usa; da essi sono quindi aiutati a mantenere la loro preminenza interna (corsivo mio) >> (24).

Se, come ho già sostenuto, rimaniamo nella logica capitale-lavoro, capitale-salute, capitale-ambiente, non capiremo perché l’Ilva di Taranto chiuderà. Se invece ci mettiamo nella logica del conflitto strategico (supportato dai saperi della storia, della geopolitica) allora capiremo che l’Ilva di Taranto chiuderà perché è incompatibile con le strategie USA (via Nato) delle fasi multicentrica e policentrica.

 

Il secolo che sta morendo è un secolo piuttosto avaro nel senso della produzione di pensiero. Dovunque c’è un grande sfoggio di opinioni piene di svariate affermazioni che ci fanno bene e siam contenti. Un mare di parole un mare di parole ma parlan più che altro i deficienti.

La citazione che ho scelto come epigrafe è tratta da:

 

Giorgio Gaber, E pensare che c’era il pensiero dall’album E pensare che c’era il pensiero, CD, 1995/1996.

 

NOTE

 

1.Giuseppe Carlo Speziale, Storia militare di Taranto. Negli ultimi cinque secoli, Giuseppe Laterza & Figli, Bari, 1930, pp. 14-15-16-246-258.

  1. Sul ruolo di Taranto nella guerra in Libia e nelle due guerre mondiali si rimanda a Giuseppe Carlo Speziale, Storia militare di Taranto, op. cit., pp.206-259; Mario Gismondi, Taranto: La notte più lunga. Foggia: la tragica estate, Dedalo, Bari, 1968; Giuliano Lapesa, Taranto dall’Unità al 1940: industrializzazione, quadri ambientali e demografici, politiche urbane, Tesi di Dottorato Università degli Studi di Napoli Federico II, www.fedoa.unina.it/3291/1/Lapesa_Giuliano_TesiDottorato.pdf; Roberto Nistri, Taranto nella grande guerra, www.taranto.anpi.it/2014/11/taranto-nella-grande-guerra/. Sulla relazione tra Arsenale e sviluppo economico, sociale, politico e strutturale della città si veda Rosa Alba Petrelli, L’Arsenale Marittimo Militare di Taranto. Un’indagine archeologico-industriale, Crace editore, Roma, 2005; Antonio Verardi, Quando la grande guerra arrivò a Taranto, www.pugliain.net, 17/1/2016.

3.Luigi Longo, Gli Stati Uniti e lo spettro della Russia, www.italiaeilmondo.com, maggio 2017.

4.Luigi Longo, Taranto, da polo siderurgico a polo strategico della NATO, www.conflittiestrategie.it, 20/7/2013 e www.italiaeilmondo.com, 20/5/2018.

5.Manlio Dinucci, Geopolitica di una “guerra globale” in AaVv, Escalation. Anatomia di una guerra infinita, Derive Approdi, Roma, 2005, pp.82-83.

  1. Sulla segretezza degli interventi NATO si rinvia al Dossier di Peacelink “Nato a Taranto”, www.peacelink.it; Interrogazione parlamentare al Ministro della Difesa presentata da Deiana Elettra in data 22/4/2004, htpp://dati.camera.it/ocd/aic.rdf/aic4_09815_14.
  2. Sugli interventi e gli obiettivi contenuti nel CIS dell’area di Taranto si veda www.cistaranto.coesionemezzogiorno.it; sul ruolo e sul rilancio dell’Arsenale Militare di Taranto nelle strategie Nato si legga Maristella Massari, Taranto, è l’Arsenale il perno del rilancio in La Gazzetta del Mezzogiorno del 14/11/2019; Redazione AnalisiDifesa, Dimostrazione in mare per il progetto di ricerca militare OCEAN2020, www.analisidifesa.it, 20/11/2019; Redazione AnalisiDifesa, La portaerei Cavour esce dal bacino di carenaggio di Taranto, www.analisidifesa, 27/11/2019.
  3. Luigi Longo, L’Ilva di Taranto, www.conflittiestrategie.it, 7/8/2012.
  4. Per una analisi economica si rimanda a Riccardo Colombo e Vincenzo Comito, L’Ilva di Taranto e cosa farne. L’ambiente, la salute, il lavoro, Edizioni dell’asino, Roma, 2013; Emiliano Brancaccio e Salvatore Romeo, Piatto d’Acciaio, Limes n.3/2014; Salvatore Romeo, L’acciaio in fumo. L’Ilva di Taranto dal 1945 a oggi, Donzelli editore, Roma, 2019; Federico Pirro, Fare squadra per ripartire da un futuro d’acciaio in La Gazzetta del Mezzogiorno del 22/6/2019.
  5. Per capire la differenza di produzione in condizioni di plusvalore assoluto e plusvalore relativo si rimanda a Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975, Libro primo, pp.621-648; Karl Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, Einaudi, Torino, 1975, Libro primo, Appendici: Per la critica dell’economia politica. Capitolo VI inedito e altri scritti, pp.1185-1260.
  6. Per le funzioni dei cotonieri Riva e del loro blocco di potere si veda, sia pure in una logica di diritti sociali insufficiente a capire le cause profonde della crisi dell’Ilva, Loris Campetti, Ilva connection. Inchiesta sulla ragnatela di corruzioni, omissioni, colpevoli negligenze, sui Riva e le istituzioni, Manni editore, Lecce, 2013.
  7. Non mi stancherò di dare merito a Costanzo Preve e a Gianfranco La Grassa di aver svelato la non intermodalità della classe operaia. Oggi, si può dire, a partire dallo spettro del comunismo che si aggira per l’Europa del Manifesto del partito comunista del 1847-1848 di Karl Marx e Friedrich Engels. << Per indicare la nostra tesi che la classe operaia, proletariato, partiti comunisti, non sono realmente in grado di costruire una società basata su un modo di produzione diverso da quello capitalistico, parliamo di “non-intermodalità della classe operaia, del proletariato, dei partiti comunisti” >> in Costanzo Preve, Gesù tra i dottori. Esperienza religiosa e pensiero filosofico nella costituzione del legame sociale capitalistico, editrice Petite Plaisance, Pistoia, 2019, pag. 104.

12.bis. Le imprese multinazionali hanno sempre dietro di sé le Nazioni. Senza il loro potere, che si esercita attraverso lo stato, le imprese multinazionali non avrebbero la forza di penetrare coi i loro investimenti le economie degli altri Paesi, di allargare i loro mercati, di allargare le aree di influenza, eccetera. Esse sono strumenti degli agenti strategici egemoni dei Paesi di appartenenza finalizzati all’accrescimento della propria potenza attraverso il conflitto strategico. A mò di esempio ricordo il ruolo delle multinazionali a servizio della politica imperiale USA nell’Iran degli anni ’50 durante la fase di consolidamento dell’egemonia statunitense nel Medio Oriente: esempio di politica pianificata centralmente altro che mercato e democrazia. Per questo si veda Peter Frankopan, Le vie della seta. Una nuova storia del mondo, Monadadori, Milano, 2017, pp.478-498.

  1. Emiliano Brancaccio e Salvatore Romeo, Piatto d’Acciaio, op. cit., pag.235; si veda anche Matteo Meneghello, ArcelorMittal, ecco cosa fa, e dove opera nel mondo, www.ilsole24ore.com, 8/11/2019; Giandomenico Serrao, Bilancio rosso per ArcelorMittal, che taglia la produzione in Europa, www.agi.it, 7/11/2019.

14.Mimmo Mazza, Taranto, un anno di Mittal: siderurgico in affanno, nuovi vertici taglia-personale, www.lagazzettadelmezzogiorno.it, 1/11/2019.

  1. Federico Pirro, L’Ilva non diventi un centro di servizi, intervista a cura di R. R., in La Gazzetta del mezzogiorno del 2/12/2019.
  2. Rita Querzè, ArcelorMittal investe 6 miliardi in India. L’addio all’ex Ilva più vicino, www.corriere.it, 16/11/2019; Federico Pirro, Una cordata italiana, un’orgogliosa risposta nazionale in La Gazzetta del Mezzogiorno, 6/12/2019.
  3. Federico Pirro, Anche la mano pubblica vorrà ottenere lo scudo penale in La Gazzetta del Mezzogiorno del 8/11/2019.

18.Sul piano B dell’Ilva e della via della decarbonizzazione si rinvia a Federico Pirro, La drammatica prospettiva di una fuga dall’acciaio in La Gazzetta del Mezzogiorno del 23/10/2019.

  1. Costanzo Preve, Gesù tra i dottori. Esperienza religiosa e pensiero filosofico nella costituzione del legame sociale capitalistico, op. cit., pag.65.
  2. Intendo i luoghi pubblici, i luoghi dell’interesse generale, i luoghi delle istituzioni ramificate territorialmente, i luoghi dello Stato, come luoghi dove non si espleta la politica dell’interesse generale del Paese ma luoghi dove i gruppi strategicamente egemonici (pre-dominati e sub-dominanti) realizzano i loro indirizzi strategici di dominio.
  3. Carlo M Cipolla, Allegro ma non troppo, il Mulino, Bologna, 1988.
  4. Non poteva mancare la voce di Romano Prodi su una fumosa perdita di fiducia dell’Italia da parte dell’Unione Europea; è veramente irritante sentirlo dire da un esecutore di ordini dei sub-dominanti europei e pre-dominanti Usa, da chi è stato il protagonista della svendita delle società alimentari, facenti capo principalmente alla finanziaria SME dell’IRI; si legga Romano Prodi, L’Italia e l’industria. Una scossa o nessun si fiderà più di noi, www.ilmessagero.it, 6/11/2019.
  5. Il problema non è di una mini Ilva o Maxi Ilva (Paolo Bricco, Ex Ilva, il piano pubblico costerà almeno un miliardo. E i dipendenti che fine faranno? www.ilsole24ore.com., 6/12/2019) o di una newco tra pubblico e privato (Federico Pirro, Una cordata italiana. Una orgogliosa risposta nazionale in La Gazzetta del Mezzogiorno del 6/12/2019), quanto piuttosto quello serio che non ci sono le condizioni soggettive (decisori sub-dominanti servili e incapaci di autodeterminazione interna ed esterna) e oggettive (la città di Taranto è importante per le strategie statunitensi nelle fasi multicentrica e policentrica) per rilanciare l’Ilva.

24.Gianfranco La Grassa, Il compito dei compiti, www.conflittiestrategie.it, 4/12/2019.

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